Anno IX - Numero 2
Dicembre 2015
l’EstroVerso
Direttrice Responsabile Grazia Calanna
Pier Paolo Pasolini
«Mille nubi di pace accerchiano il cielo,
amore, mai non finirai d’essere amore»
In copertina Pier Paolo Pasolini
rielaborazione grafica di Nino Federico
l’EstroVerso
Cultura
34
Periodico d’Informazione, Attualità e Cultura - Direttrice Responsabile Grazia Calanna
Sommario
Arte &
Creatività
Editoriale
di Luigi Carotenuto
Fotoracconto
di Massimiliano Raciti
16
Samatha Torrisi
Intervista a cura di Grazia Calanna
Società &
Sapere
4
Pensieri di varia umanità (II)
a cura di Davide Spampinato
Rinko Kawauchi:
l’animismo fotografico
Marilù Oliva
di Lucia Tosi
di Rosario Leotta
Fuori Mostra
di Laura Cavallaro
Nulla dies sine linea
di Dario Matteo Gargano
leggodico arte
di Alessandra Redaelli
Dopo il paese
di Alessandra Brisotto
Il cinematografo visto dall’Etna
di Michele Leonardi
Poesia
Notizie
Letterarie
leggodico junior
(segnalazioni librarie)
a cura della Redazione
Biblioteca Birichina
di Anna Baccelliere
Inediti d’autore
50
La struttura del mio tempo è alterata
di Flaminia Cruciani
Illuminazioni d’autunno
di Antonella Lucchini
Da lontano una vita
di Giovanni Baldaccini
La notte ho sognato elefanti
di Franz Krauspenhaar
Badanti (Giulia)
di Letizia Dimartino
La poesia nel tempo presente
di Renato Pennisi
74
Il mio cielo è un mantello
di Chandra Livia Candiani
Il mito delle età
di Fabrizio Bernini
Siamo le madri che abbiamo avuto?
di Rita Pacilio
l’aforisma
di Claudio Bagnasco
l’Antro della Pizia
di Savina Dolores Massa
Padri d’arte
di Daniele Cencelli
Allo specchio di un quesito
di Elena Buia Rutt
l’Autore Racconta
di Lorenzo Raffaini
Varianze
di Maurizio Giudice
58
Tommaso Di Dio
di Emiliano Zappalà
Inediti in Anteprima «Si chiude da sé»
di Gabriella Montanari
Il Giaurro, o l’infedele
di Giovanna Iorio
Tiziano Broggiato
di Pietro Russo
leggodico
(segnalazioni librarie)
a cura della Redazione
Recinzioni
di Antonio Lanza e Vincenzo Galvagno
Parola d’Autore
La riva sinistra
di Andrea Giampietro
Enzo Fileno Carabba
Daniela Delle Foglie
Margherita Giacobino
Silvia Giacomini
Ginevra Lamberti
Alberto Milazzo
Chiara Passilongo
Dove finisce l’erba
e comincia il mare.
di l’EstroVerso
l’editore racconta
Sinnos (Della Passarelli)
Maria Gabriella Canfarelli
di Grazia Calanna
l’étranger
di Davide Zizza
Af(fondo)
di Grazia Calanna
Marchiati dallo scatto
di Luigi Carotenuto
Stiamo diventando tutti fotogenici, fotodisponibili, fotodisinvolti, fotocomponibili, fotoconsacrati, tutti pronti al marchio
dello scatto. Può una società che consegna con tale leggerezza
la propria intimità, il privato, all'esibizione costante, definita
da Vanni Codeluppi vetrinizzazione sociale, contestare un sistema dalle fondamenta? Tra le nuove forme di perversione,
socialmente accettata e condivisa, potremmo annoverare
il fotofeticismo. L'immagine parla una lingua abbagliante,
spesso ricattatoria e a una dimensione, priva di conflittualità,
complessità. All'impoverimento del linguaggio e di conseguenza del pensiero, corrisponde un rafforzamento della segnaletica visiva su tutti i piani della vita quotidiana. Di questa
riduzione mortifera, nonché manipolatoria e ipnotica, obnubilante, ne è un esempio non trascurabile la diffusione consistente di acronimi, in campo politico e educativo, sigle sempre
nuove che blindano le capacità cognitive, funzionali all'agire più o meno indisturbati per far passare leggi e violare diritti
che, se non sappiamo chiamare per nome, non possiamo difendere. La manipolazione più crudele arriva in modo sottile, apparentemente innocuo, si veste da mero intrattenimento e gioco. Ecco che la nuova maniera di esprimere le nostre emozioni
passa per l'uso virtuale di emoticon. E ne esistono di sempre
diversi, sofisticati, eloquenti, animazioni elaborate che simpatizzano con i fruitori. Questo nuovo dizionario emozionale come neolingua orwelliana. Gli (o le) emoticon e animazioni
potrebbero assimilarsi anche al concetto di olofrase utilizzato
da Lacan in ambito strettamente clinico (1). In questo clima
tanto accondiscendente quanto inconsapevole, votato ai bassi
istinti, poliziesco in senso deteriore, di intolleranza, di condanna piuttosto che di giustizia, sacrificare gli altri diventa regola
di vita, legge di sopravvivenza. Non so chi sia in grado di saltare sulla sedia leggendo le parole di Pasolini, nell’ultima intervista a Furio Colombo, poche ore prima del suo assassinio:
“Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che
non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta
salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia,
il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è
forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza
privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato "la vita violenta". Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la
pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di
questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea
di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete
mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra
un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.” (2)
Freud, come esergo a L’interpretazione dei sogni aveva scelto
il verso di Virgilio «Flectere si nequeo superos, Acheronta
movebo » (Se non potrò piegare gli Dei, smuoverò gli Inferi).
editorialeeditoriale
(segue)
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(3) Settembre
(3) Dicembre
- Dicembre
2015 2014
L’esperienza del vero sembra affondare le radici nell’inferno
della vita, e, come sapeva bene lo stesso Freud, che ha sempre
riconosciuto un debito nei suoi confronti, la parola poetica è
probabilmente la più indicata a disinnescare i viziosi e subdoli
ingranaggi del potere, o quanto meno a mostrare nudo l’animo
umano e rivelarne i desideri profondi, inconsci. In un articolo
del 1982 Antonio Porta scrive una sorta di toccante ed energico
apologo sulla figura del poeta, che ci sentiamo di dedicare a
Pier Paolo Pasolini:
“Un poeta sa di trovarsi, come tutti gli altri, tra l'incudine e il
martello, tra due Ordini pronti a schiacciarlo e che lo schiacciano, insieme a tutti gli altri, quando arrivano a combaciare: l'Ordine del Linguaggio e l'Ordine Politico. Quando un poeta, come gli altri uomini, viene schiacciato, paradossalmente la sua
voce sopravvive: ed è essa che costituisce la famosa
«differenza» tra l'Ordine che uccide e la vita che rinasce. Un
poeta ama mettere il linguaggio in disordine. Rispetto al linguaggio dell'Ordine usa il suo linguaggio: quello poetico, appunto, che non può che apparire «strano» a prima vista. Ma
non c'è solo la prima vista, ce n'è anche una seconda e una terza. A una terza vista, cioè a un grado elevato di profondità percettive, il linguaggio di un poeta diventa abitabile, vivibile. Siamo in tempi in cui il linguaggio della poesia è anche lingua della fuga e della sopravvivenza. Non perché sia «disimpegnato»
ma, giusto il contrario, perché è impegnato negli strati più profondi e significativi del flusso della Storia”. (3)
(1) “[...] L'olofrase è infatti una figura retorica che, al contrario della
metafora, non rappresenta nulla, non veicola alcuna messaggio, ma
segnala piuttosto il fallimento dell'azione rappresentativa della
metafora. Un'olofrase è una parola-frase, una frase non scomponibile, congelata, pietrificata. Lacan la definisce come una solidificazione della catena significante che immobilizza il discorso. In essa
il soggetto non è rappresentato ma vi si trova incluso come
un «monolito». Il punto è che questo monolito non è metaforico.
Non metaforizza il soggetto ma lo inchioda a un'identificazione
assoluta, priva di dialettica. Il soggetto resta incatenato all'Altro, fa
uno con l'Altro. L'olofrase annulla la separazione tra il soggetto e
come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci
ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo
che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il
seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso
sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché
siamo tutti in pericolo”»
(3) A. Porta, Un poeta deve avere le antenne, in La Stampa, 22 novembre 1982 e con il titolo Il poeta e la storia in “Il Progetto Infinito”, a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini,
Roma, 1991, pp. 19-20.
l'Altro e l'intervallo che separa tra loro i significanti. (M. Recalcati, La personalità borderline e la nuova clinica in Civiltà e disagio.
Forme contemporanee della psicopatologia. A cura di Domenico
Cosenza, Massimo Recalcati, Angelo Villa, Bruno Mondadori,
Milano, 2006, p. 9)
(2) F. Colombo, Perché siamo tutti in pericolo, intervista a P.P. Pasolini, La Stampa, inserto“Tuttolibri”, 8 novembre 1975. “Questa
intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del
pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina
è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso,
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(3) Settembre
(4) Dicembre
- Dicembre
2015 2014
Cândido Portinari, Meninos com Carneiro
“Se noi salveremo solo i nostri corpi dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà
troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la
si conserva”. Con un riflessione di Etty Hillesum per chiedere: in che modo la poesia
(o più genericamente) la scrittura possono giovare alla “salvaguardia” delle nostre
esistenze?
Elena Buia Rutt
La poesia ha a che vedere con la contemplazione della nostra realtà quotidiana:
appartiene a un tempo sospeso, in cui interrompiamo le attività ordinarie, perché spinti
da una forza sconosciuta che irrompe all’improvviso, costringendoci a fermarci, per
mettere insieme parole dotate di un significato nuovo: un significato fino a quel momento sconosciuto anche al poeta stesso.
Ed è proprio in virtù di questa scoperta di un senso più profondo, per lo più diverso se non contrario allo stile di vita dominante, che possiamo ritenere che la poesia
sia a salvaguardia delle nostre esistenze. Occorre però che alla contemplazione a al gesto artistico, segua un’azione concreta: una volta che la poesia ci ha “socraticamente”
indicato quale sia il bene per noi, dobbiamo iniziare a camminare con coraggio in quei
sentieri nuovi che ha aperto.
Proprio a questo richiamano le parole di Etty Hillesum: esse sono un appello a
un discernimento, che rischia di rimanere vano se non viene seguito da una esperienza
di vita resa effettivamente nuova dalla parola poetica.
allo specchio di un quesito
l’EstroVerso
(6) Dicembre 2015
La bellezza: il sortilegio misterioso
di un raro ingrediente divino
infuso nell'essere
di Dario Matteo Gargano
Che la bellezza sia un incantesimo, un sentirsi sfiorati inspiegabilmente da una sensazione di piacere perforante, che par ora poesia, poiesis, ora "fattura" sulla propria anima e mente, è una realtà che dalla grecia platonistica e orfica, all'america hollywoodiana e sfarzosa, ha ispirato per sempre la storia di tutta la rappresentazione umana.
La bellezza è come il tempo, esiste, ma non si può toccare, è come la musica, si sente,
ora si ode, ma non si può toccare: ha sempre questo che di "privato", dove la privazione è proprio nel tatto, in quel non poter toccarla pur toccandola, quand'anche si voless'essere feticisti e sarcofili - sì, intendo, dediti alla carne -, e possiede tutta la grazia
e la religione di un istante "impressionante", che si imprime nella sensazione dell'anima come lo scatto di una fotografia che sa già di unicità, perché si fa sinfonia, lunga e
carezzevole, fatale, brusca, talvolta irrimediabile, suicida, uxoricida, omicida, venefica, guerrifica. Scoppia la guerra a Troia? Per via d'una Mela d'Oro? "Alla più bella"...
Cosa succede tra le Esperidi? La bellezza causa la storia: Antonio, quell'Antonio dei
quiriti, si volge ad oriente, e viene stregato: una regina, una dea, poliglotta, prodigiosa
di memoria quanto Mitridate VI del Ponto, la Cleopatra irresistibile, che possiede,
possiede proprio questa qualità divina dell'essere, intrinseca all'essere, che parla silenziosa, che scrive la storia, la rimodella, la scolpisce, con la stessa precisione e con lo
stesso smarrimento che si respira in Bernini. La bellezza sa anche di transverberazione, perché trafigge, sconfigge. Con Lacan, insieme, potrei anche dire: piega l'Io, lo
contorce, perché essa è esterna, e viene a stregare come un dardo cupidico chiunque,
qualsiasi cosa. Una nuvola, un sole, un violaceo dell'ultimo istante del saluto del sole
al crepuscolo, una pagina di libro scritta da Stendhal, un capolavoro di L. Alma Tadema: tutto questo è già bellezza? Mi si chiede sempre se essa sia soggettiva, e invero,
tutti anche inconsciamente, si chideono cosa sia davvero la bellezza, e se è presente, e
se è viva in qualcosa. L'anima si chiede continuamente durante una giornata dov'è la
bellezza, passa tutto il tempo, a chiedersi: "è bello tutto questo? Quale destino si sta
disegnado? Quale storia?". La bellezza tocca ogni corda, anche se sembra intoccabile.
Narciso, che rimirandosi sul riflesso delle acque si scopre bello, e si vede bello, vede
la bellezza. La bellezza è nella riflessione, ma è anche in un non poter vedere questa
riflessione. Ed è come avere una visione, che altri non possono vedere, un po' come il
fantasma di Banquo, che può vedere solo il testimone protagonista. Quando si sente la
bellezza presente in un qualche cosa, quel qualcosa si veste di potere, e di passività.
Una cosa bella, un libro, una creatura, un fiore, è potente quando emana bellezza, e
nella sua bellezza si dichiara la sua passività, il suo essere là, là, là. La bellezza è desiderata, ma è là. La cosa bella è ferma, pronta per un agguato, ma è passiva, riesce a
stregare solo con il suo semplice essere, da questo deriva tutto il suo potere. Esiste,
poi ancora, una bellezza soggettiva, ma esiste anche una bellezza assoluta, cui nessuno riesce a fuggire, è una bellezza che trapassa la carne, la razionalità, la tecnica, la
precisione, il tempo stesso umano, ha quel "che" che travia l'Io, fino a mutarlo. Forse,
Osho, ne Il sutra del Cuore, direbbe: la bellezza è l'amore. Perché l'amore è divino.
La bellezza è un ingrediente, è sensibile, si può sentire, ma può anche sfuggire, finché
non si è abbastanza "sensuali" da poterla vedere anche nell'aspetto più truistico del
quotidiano contingente. La bellezza, io dico: è consapevolezza, è "riuscire finalmente
a vedere", il penetrare la forma astrale degli oggetti, delle forme, è, quell'andare oltre,
è quel sublime, è quel subliminale, e se continuassimo ancora a descriverla, potremmo pure smarrirla, come la verità. Perché fuori dalla parola, cosa esiste? Forse solo la
bellezza. Al di là del bene e del male.
nulla dies sine linea
l’EstroVerso
(8) Dicembre 2015
Gilles Sacksick, La fine del pomeriggio
Sponsorizzazione gratuita a cura di EstroLab
Dopo il Paese
di Alessandra Brisotto
CARILLON
I motociclisti non si tolgano il casco né scendano dalla moto.
La bauta resti col suo mantello avvolto.
Il cielo nero di notte
abbia le mani coperte
e sogni appesi a una cordicella all'insù.
Stiamo così
VENTO
Dopo il paese era ieri.
Adesso sono dove ieri sarei voluta già essere.
Sono ancora nel paese ma già dopo.
Le ultime case, rade, non mi disturbano più.
Guardo l'asfalto grigio, quasi naturale perché consunto, per concentrarmi un poco.
Getto lo sguardo a ritmo regolare sulle mie scarpe, in cerca della me concreta.
Tutte le fatiche mi hanno allargata a dismisura, tanto che non
percepisco più i confini della mia pelle.
Mi sento tutta ovunque e ovunque è tutto dentro di me.
Allora guardo le mie scarpe tratteggiare un percorso invisibile
nella strada e percepisco nuovamente i capelli, le labbra e lo
sguardo di qualcuno, poco più in là.
La salita si fa meno ripida in questo punto verde di prati ed alberi in gioco.
Sono felici e non si devono occupare delle case, dell'asfalto né
di me.
Allora sono felici anche se non lo sanno.
Ma io che lo so mi fermo un attimo e glielo dico, con gli occhi.
Adesso lo sanno.
Adesso lo so.
Sono felice.
Me l'hanno detto loro in questo momento.
È lo stesso.
Dopo il paese mi volto, guardo la valle a perdita di case, uscita
dal mio zaino pesante, a pochi metri da qui.
Ora non mi serve più; lo zaino.
Non mi serve nemmeno il paese ed io non servo a lui. Non abbiamo più bisogno l'una dell'altro.
Senza uno zaino non esiste nessun rapporto tra di noi.
Gli alberi e il prato qui adesso ovunque intorno e dentro di me
sono leggeri e fluttuano nell'aria anche così, restando immobili
nel movimento impercettibile dell'universo tutto.
Ancora qui qualcuno aspetta, sulla destra, dove una piccola radura si porta avanti a braccia aperte tra sbuffi d'erba irriverente
e ghiaia posta lì per gioco e per poco.
Forse solo per noi.
O per voi.
L'anima di un auto è l'aura emanata da chi la possiede. Come
quel cane, seduto accanto a lui.
Mi guardano e sanno.
società&sapere
l’EstroVerso
(11) Dicembre 2015
L'uomo e il suo cane con l'aura dell'uomo e l'auto con l'anima
di entrambi stanno aspettando le labbra socchiuse, perché una
donna con le labbra socchiuse non se ne va.
Arriva.
Accettiamo da qui che si compia.
Il vento sorregge le foglie da altrove così che non se ne accorgano e non si facciano male.
Oggi non fa male e non si rompe nulla lungo la strada anche
se si muove tutto intorno. Appunto per il vento e le foglie
sgomberate da altrove e ricomposte dov'erano.
Altrimenti non vivono.
L'aria è fresca e non mi bagna i capelli.
Anche se piovesse non potrei occuparmi delle foglie, dell'asfalto, delle scarpe dei passanti e della scatola piatta calpestata
non dal vento ma da qualcosa di umano.
Non posso occuparmi di lei che non mi riconosce più da molti
anni, dall'itante stesso in cui ci siamo conosciute.
Chi non si ferma a guardare non fa la pace con il mondo, con
nulla che abbia a che fare con il vento.
Perché il vento nasce da qualcosa di fine e disinvolto e non se
ne cura più, di questo punto così fine e disinvolto, in questo
punto preciso che ognuno cerca.
Il vento sa di non cessare mai e ti vede ancora dentro le foglie
sorrette da altrove e nella scatola appiattita sull'asfalto, senza
farti male.
Così, dopo il paese il vento mi porta via con me.
Così mi dice che tu mi hai vista
Questo il cielo lo sa ed è tranquillo adesso.
Ci siamo visti e ci incontriamo nel vento.
LA TEMPESTA
Quando una rosa sboccia, vi si posa qualcosa.
Il bocciolo chiuso si spezza, si secca, se non si apre, e muore
senza la vita.
La morte senza la vita non ha senso, così la vita senza la morte che ne provoca il movimento, l'energia.
"Ama e fa' quello che vuoi"
L'amore è il movimento che ci conduce alla morte della morte.
Quando ti ho visto avevi gli occhi molto grandi. Ora non ti
vedo più. Non ti voglio più vedere né sentire.
Lasciamo andare avanti per la nostra strada. Non voglio vedere che ne hai fatto o farai dell'amore che ho emanato.
Me ne vado.
Grazie di averlo in te.
Anche se non lo sai.
Dopo il paese il vento è così leggero. Non mi fa male.
Perché?
Il vento è ferito e non lo sa.
Ritornerà.
Perché la sua ferita ha radici come gli alberi, come me. ha radici profonde e delicate che non può dimenticare.
Non ti devo dimostrare nulla. Il tuo cuore lo sa. La tua testa ne
è immersa ora e non lo può lasciare, lasciare più.
società&sapere
l’EstroVerso
(12) Dicembre 2015
Perché tu sei in me.
Il vento ritornerà leggero, colmo di rose e di regali, ritornerà sul
ciglio della strada, nel momento stesso in cui arriverà.
Ora ritorno, sono ancora sulla strada, tu, dietro la curva, dietro
la roccia sporgente che impedisce la vista.
Le foglie non cadono sull'asfalto ma restano appese al suono dei
miei passi.
Ancora un tratto di strada e poi, dietro la curva.
Sul ciglio della strada una radura. Nella radura un auto e il suono di un gabbiano accedono al silenzio.
Tra poco sono dopo la curva e vedo, vedo quell'uomo in piedi,
attratto con infinita nostalgia, porgermi il dono di una mano
aperta con un sottile filo di ricordi.
Ancora qualche metro.
Ma non mi fermo ad aspettarlo. Gli vado incontro proseguendo
di passo, oltre la roccia.
È lì.
PRIMA O DOPO
No, non ci sono ancora arrivata o forse sì, ma non credevo di
arrivare.
Sono arrivata dentro e non fuori. È quel punto lontanissimo che
ho tentato di raggiungere tra gli alberi e le auto e gli aerei e gli
spaventapasseri e le diverse lingue parlate e poi dimenticate.
Tra le case dai tetti acuti e convessi, grigio ardesia e le tegole
rosse. La terra piatta ed estroversa e quella timida ad onde.
Tra gli uomini giovani e vecchi, poveri e ricchi, biondi, bruni,
ricoperti di luce o di sabbia o incrostati di tempo. Tra le luci
esagerte dei locali e le penombre delle camere da letto.
Dietro la curva ho trovato me ad aspettarmi.
Io, io che attendevo da una vita di incontrarmi dove mi sono
perduta.
Ora che siedo in una panca, al parco, dopo il paese, non mi
sostengo più.
Non ti sostengo più.
Il vento fresco se ne occupa per me.
Di tutto.
All'ombra sono felice, quando c'è il sole.
IN FONDO ALL'OCEANO
Il vento ritorna sempre da dove è venuto se non si intestardisce
a trovare la strada di ritorno.
Ho viaggiato spesso con lui
per raggiungere la sabbia e quindi il mare, in qualsiasi momento
della giornata o della vita.
Ora mi penso laggiù, non più nel mare che non esiste, sul fondo
dell'oceano, nel silenzio dell'enorme peso dell'acqua.
Come la scatola schiacciata a lato della strada. Schiacciata per il
volume essenziale.
Negli abissi dell'oceano sono essenziale.
Così si concentra la mia energia che giunge a te completa.
società&sapere
John Evans, River Charles
E giungo a te completa.
Ti vengo a prendere affinché tu mi venga a prendere, senza
voltarti indietro.
Qui non ci si turba, non ci si volta indietro.
Qui non non ci sono né dietro né davanti. Le tempeste non
mettono radici. Se ne percepiscono le vibrazioni ma non sono qui.
Tutto è laggiù.
Tutti sono laggiù.
È buio. Perché non c'è nulla di esterno da vedere. Nemmeno
le mie mani.
Allora il buio non esiste più.
Ti sento.
Ti sento anche senza vento adesso.
Dopo l'oceano ed io che sono in fondo all'oceano e tu mi vieni a prendere di notte.
L'oscurità che ci ha divisi da dove sei e dove sono non esiste
più.
Non esiste il vento.
Il vento è una coordinata. È la navicella luminosa della
nostalgia. Ti porta a me a ondate
ancora
ancora
ed ora
dentro
in fondo all'oceano.
a.b.
l’EstroVerso
(13) Dicembre 2015
Agostino Arrivabene, Asfodeli
Il mito delle età
di Fabrizio Bernini
Vorrei avere almeno 250 anni. Li vorrei avere, tutti questi anni, prima di tutto per sentire cosa vogliono dire periodi diversi
come giovinezza, maturità, vecchiaia. Sì, perché, insomma,
almeno proverei ad allungare o accorciare come una fisarmonica, il tempo che convenzionalmente abbiamo stabilito per
queste età della vita che, diciamocelo chiaro, valgono soltanto
per la misura che regola la media di un essere umano attuale.
Ma anche allora, se il vostro scrittore avesse quegli anni, varrebbe qualcosa? Spostare un’età anagrafica in avanti o indietro, vivere due secoli e mezzo o due anni e sei mesi, può modificare davvero ciò che in una singola esistenza vogliamo
definire “esperienza”? Su, dai…siamo seri. I miti si costruiscono inevitabilmente su ciò che ci appartiene, sono fondati
su un cumulo culturale che fa di noi, piccoli e malleabili costrutti soggettivi, l’imponderabile attività di ogni individuo
accorpato alla sua, di società. Definire una società, un periodo
storico, un tempo psicologico della seppur mirabile vicenda
umana, sa più di previsione meteorologica che di sentimento
umano. Siamo uomini, e questo forse non basta? Il pensiero,
la filosofia, la letteratura, la scienza di ogni secolo ha dolcemente o amaramente intriso di milioni di idee questa roba qui
che chiamiamo vita. Oggi c’è il mito dell’eterna giovinezza.
Bene. E io voglio essere vecchio, vecchissimo e felicemente
sano, lucido, presente. Voi dite: vecchio però vuol dire vicino
alla morte. E non siamo da sempre, da subito, in modo che
nessuno e niente possa togliercelo da dietro le spalle, indirizzati verso la fuga e allo stesso tempo al traguardo dei nostri
anni? Sentirsi vecchi è molto più naturale che sentirsi giovane. Si sente vecchio l’adolescente che passa la soglia
dell’infanzia, che si volta verso un passato per lui remotissimo
e misterioso, slanciandosi verso nuove e più pressanti sensazioni ormonali e cerebrali, tendendo allo stesso grado e modello del padre, del nonno, di tutti coloro che sembrano posare
gli occhi su ogni cosa del mondo in modo più quieto rispetto
alla sua incongrua smania del tutto. Si sente vecchio il ragazzo che compie diciotto anni, così decrepito che ride con gli
amici di un sorriso amaro, perché la festa della sua maturità
coincide con un sentore inchiodato al fondo dello stomaco,
che grava di responsabilità e allo stesso istante anela alla libertà, alla condizione di cittadino libero, lasciando come novella farfalla, la sua consunta corazza di crisalide inesperta
che tanti giorni ha sentito come angoscia e culla, mentre con
timore e gioia studia sul libretto del codice stradale che gli
consegnerà la patente automobilistica tanto agognata, che lo
condurrà finalmente su strade da poter percorrere in solitudine
e arbitrariamente. Vecchio si sente il trentenne, di una vecchiaia ondivaga, destabilizzante, perché ancora non gli è chia-
società&sapere
ro se tutti i suoi “per sempre”, dal tatuaggio alla dichiarazione
d’amore, ancora li può tenere stretti nel pugno, mentre le dita
di quella mano fanno acqua da tutte le parti, testardo e allo
stesso modo inconsapevolmente disilluso da ogni brulicare informe della sua incertezza che ha sembianze più nette di tutte
le sue dichiarazione estreme. E il quarantenne? Che fa? Cosa
implora infine davanti lo specchio mentre controlla i segni biologici che sottolineano sempre più marcatamente rughe, capelli
bianchi, zigomi sporgenti o affossati nella pinguedine? Cosa
guarda costui mentre scava meno alacremente dentro gli occhi
proiettati nei suoi? Qui mi fermo, perché qui sono, ora. Se sapessi di vivere 250 anni, più o meno, cambierebbe qualcosa?
No, credo proprio che il gioco degli anni, della vita, del più e
del meno, dei conti fatti tirando una riga, delle vittorie e dei
fallimenti, dei rimorsi, dei rimpianti, e dulcis in fundo, dei sensi di colpa, non sia proprio una storia degli anni, piuttosto quella del cuore. Leggevo, qualche tempo fa, che una infermiera di
non so dove e di quale ospedale (come se luogo e tempo facciano questa gran differenza…) ha raccolto tutti i desideri dei malati terminali negli ultimi giorni di vita. La nostra infermiera
racconta che chi si trova sulla soglia della morte ha spesso, appunto, rimorsi e rimpianti ai quali vorrer rimediare, se ne avesse ancora tempo. Come se bisognasse aspettare la fine della
vita per averne, come se non sapessimo tutti molto bene, che
non facciamo altro, ogni singolo giorno della nostra esistenza,
che rammaricarci di aver fatto o di non aver fatto quella data
cosa o quella tal altra. E come se non sapessimo bene che
l’estremità dei nostri giorni non è nient’altro che una ripetizione, che non bisogna mica attendere di morire per averne, di
questi risibili rimpianti e rimorsi. Fa ridere, se ci pensate bene.
Ma ridere di compassione, quella buona e sana, perché tutti,
signori miei, ci riconosciamo nella vita. Nessuno escluso. Bambini, adulti, vecchi. Credete forse che non ci siano già, fin
dall’inizio della nostra esperienza su questa terra, tutte le età
anagrafiche possibili, svelate chiaramente dentro ogni cosa che
viviamo? Ecco, per questo vorrei tessere l’elogio della vecchiaia, in un mondo che ne castra la sua infinita bellezza, che è
quella, prima di tutto, di poter meditare sempre sulla soglia, di
ogni tempo interno, come se ogni passaggio fosse sempre e solo un passaggio, né primo né ultimo, e proprio per questo, sempre il primo nuovo, giovane e sconosciuto. Senza dover pensare ad ogni costo di aver dimenticato di fare qualcosa, di soffrire
per non esser riusciti a fare qualcos’altro o di doversi pentire
per chissà che o per chissà chi. Ve lo dicevo che i miti sono
importanti, fondanti, e allo stesso tempo labili. Perché vanno al
di là di ogni tempo e ce li possiamo ritrovare in tutte le stagioni, in un infinito bellissimo che ci libera dalle età.
l’EstroVerso
(15) Dicembre 2015
Alexei Jawlensky, Il tavolo nero
Siamo le madri che abbiamo avuto?
Cenni sul rapporto genitoriale madre/figlia e sull’attaccamento
di Rita Pacilio
Per molte donne, sicuramente la maggioranza, il rapporto con
la madre ha un grande significato: la madre rappresenta, infatti, il luogo di protezione e di calore, ma è anche il modello
dell’universo femminile di riferimento, sia per la bambina che
per la ragazza. Ci sono fattori che ostacolano, negli anni della
seconda socializzazione, la formazione di un buon rapporto
madre/figlia: per esempio il modello materno debole o inadeguato, le lunghe assenze da casa, la freddezza o il disinteresse
della madre, il legame di dipendenza privo di comunicazione,
la serenità eccessiva negli interventi educativi,
l’iperprotezione, la rigidezza di ruolo e la mancanza di fiducia
nelle possibilità presenti o future della figlia, gli atteggiamenti
ipercritici, l’educazione alla vergogna e ai sensi di colpa. Al
contrario i fattori che facilitano una intesa e che favoriscono
un legame affettivo, ma non dipendente sono: insight o presa
di coscienza del fatto che il bisogno di dipendenza della figlia
non più bambina diminuisce, che la relazione cambia e assume
aspetti nuovi necessitando di accomodamenti reciproci, possibilità di comunicare, reciproco rispetto, capacità di crescere
insieme e di affrontare i cambiamenti connessi alle differenze
generazionali. È da rilevare che oggi le madri sono più disponibili a dialogare, a discutere e ad accogliere le esigenze delle
figlie. Il legame con la madre è funzionale alla sopravvivenza
e alla crescita della figlia-bambina, tant’è che le donne che non
hanno avuto una madre o qualcuno che si sia occupato di loro
nell’infanzia possono poi andare alla ricerca di un modello
materno per tutta la vita: possono cercarla in altre donne, negli
uomini, ma anche nei figli. Se è vero che questo legame è importante, anche il distacco lo è in egual misura, anzi diventa
necessario. È giusto un distacco che tenda a realizzarsi più lentamente e più tardi negli anni di quanto non avvenga generalmente tra madre e figlio, in quanto l’appartenenza allo stesso
sesso rende più facile la reciproca identificazione. Il modo in
cui esso si realizza può essere sereno o traumatico: l’iniziativa
può partire dalla madre, dalla figlia, da entrambe, con o senza
l’aiuto di un padre o di un altro uomo o di altre donne; svariati
sono gli intrecci, svariate le soluzioni. È opportuno, però che il
rapporto evolva, che la figlia cresca emotivamente, che si disidentifichi, per poi eventualmente recuperare, quando sarà più
sicura della propria identità, e potrà pensarsi distinta dalla madre. Quei tratti di lei che ritiene positivi o sente affini, potrà
integrarli alla propria personalità come dei valori propri. Potrà,
poi, seguire anche l’esempio materno o lasciarsi guidare in
particolari circostanze in cui l’esperienza della donna si rivela
preziosa senza temere di perdere la propria autonomia. Jung
affermava che ogni donna contiene in sé la propria figlia e ogni figlia la propria madre sottolineando il legame speciale che
c’è tra le madri e le figlie e che, questa unione, è alla base delle comprensioni e delle solidarietà tra donne in età adulta. Della specificità del rapporto madre-figlia parlano anche gli anti-
società&sapere
chi miti che sono all’origine della nostra cultura. In essi, come è ben noto, vengono affrontate tematiche universali e vengono descritti i sentimenti, i legami e i conflitti fondamentali
degli esseri umani. Particolarmente significativo è il mito di
Demetra e Persefone: si tratta di una metafora sulla fertilità e
il volgere delle stagioni, ma, indirettamente, è anche la narrazione delle problematiche psicologiche che madre e figlia si
trovano ad affrontare quando arriva il delicato momento dello
svincolo. Si possono individuare due forme fondamentali di
distacco: quello lieve, di Persefone che docilmente si fa guidare da Demetra, e quello traumatico di Elettra che si conclude con il matricidio; ma senza dover giungere al caso estremo
di Elettra, cioè al caso di dover odiare la propria madre per
emanciparsi da lei, sono molte le figlie che non si riconoscono nel modello materno e che perciò vogliono costruire la
propria vita su basi e valori differenti. Ci si aspetta sempre
che l’impegno maggiore venga dalla donna più anziana, affinché possa risolversi l’eventuale conflitto tra le due figure
femminili. Lo stato psichico di assenza di sé che sentono
quelle figlie che non sono autorizzate dalla propria madre a
interpretare la realtà in cui vivono, cioè non sono autorizzate
a provare sensazioni autonome, si chiama vuoto interno. Per
molte figlie è importante sapere che la loro madre è contenta
quando assumono ruoli adulti senza che questi siano necessariamente la ripetizione della vita del genitore. Secondo la teoria dell’attaccamento i figli imparano i ruoli genitoriali e li
mettono in pratica quando saranno adulti. Questo non vuol
dire, necessariamente, che il mestiere di genitore si basa esclusivamente sull’imitazione di quanto si è visto fare quando
si era bambini. Va sottolineato che ci sono delle corrispondenze tra i modelli dell’attaccamento in età adulta e la qualità
del rapporto genitore/figlio. Liberarsi dalle modalità affettive
malate comporta un’elaborazione sistematica e determinata/
determinante di tutti gli episodi tristi e frustranti dei comportamenti dei nostri genitori. Per esempio se siamo stati dei
bambini abbandonati, rifiutati, maltrattati non è dipeso da noi,
ma da particolari situazioni vissute dai nostri genitori, i quali
hanno messo in gioco, nel rapporto con i figli, le proprie caratteristiche comportamentali ed emotive frustrate. Tutto questo è possibile risolverlo facendo un salto nel passato degli
adulti per lavorare sulla modificazione dei modelli mentali
dell’attaccamento e applicando una vera ristrutturazione cognitiva ed emotiva. Passare dall’ansia alla sicurezza, visualizzando il passato dei nostri genitori, spesso con l’aiuto di un
esperto, è un compito difficile e, molto spesso, doloroso perché, comunque, siamo consapevoli che quelle relazioni affettive giocano un ruolo molto importante nella nostra identificazione.
[Spunti di riflessione tratti dagli studi degli esperti di Psicologia contemporanea – Giunti].
l’EstroVerso
(17) Dicembre 2015
Samantha Torrisi
L’arte a salvaguardia della capacità critica
Intervista a cura di Grazia Calanna
Samantha Torrisi (Catania, 1977) Si è diplomata in Pittura
all’Accademia di Belle Arti di Catania nel 2002. Vive e lavora
a Catania. La sua ricerca artistica si basa sulle contaminazioni
tra vari mezzi espressivi e di comunicazione. Nelle sue opere si
riappropria, attraverso la pittura, di immagini derivate dalla fotografia, dal cinema, dai video clip e dai video games, dalla
televisione e da riprese video personali. Nei suoi fermoimmagine cerca di restituire all’osservatore una visione esistenziale dell’uomo in continua fuga, ricerca, trasformazione. Ha
collaborato a diversi progetti multidisciplinari legati al video,
alla grafica, all’architettura, alla musica, alla letteratura e partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e
all’estero. Tra le personali Una sola moltitudine a cura di Giuseppe Mendolia Calella alla Galleria Latienda di Tribeart di
Catania nell’aprile 2015. Shadowscapes a cura di Giuseppe Iacobaci alla Galleria Mini Civica di Moena (TN) nel 2013. Meine Weltanschauung a cura di Guillame Von Holden da Erbematte Home a Catania nel 2010. An Invisible Journey a cura di
Stefano Elena nel 2008 e Crossings a cura di Giuseppe Frazzetto alla Galleria L’Arte Club di Catania. Tra le collettive del
2015 Litinerario Contemporaneo a cura di Mercedes Auteri a
Latienda di Tribeart di Catania. Freed a cura di Milena Dimitrokallis in Grecia. Artisti di Sicilia. Nuovi talenti a Catania,
Palazzo della Cultura e Expo Arte Italiana alla Villa Bagatti
Valsecchi di Varedo (MB) a cura di Vittorio Sgarbi.
(www.samanthatorrisi.it)
arte&creatività
Senza titolo (Una sola moltitudine serie), 2015 - Olio su tela, cm 19x20
l’EstroVerso
(19) Dicembre 2015
Senza titolo (Una sola moltitudine serie), 2015 - Olio su tela, cm 18x22
In tre aggettivi com’è Samantha Torrisi?
Schiva, determinata, romantica.
Qual è l’aneddoto che meglio ti rappresenta?
Quando ero piccola, una cara amica di famiglia mi chiese se mi piacesse un abito
che stava cucendo. Io le risposi di no. Lei mi disse che era suo e lo stava cucendo
per sé, allora io le ribadì che non mi piaceva lo stesso, nonostante fosse il suo.
Sono sempre stata una persona che dice ciò che pensa. Forse crescendo ho imparato a farlo in maniera più diplomatica, ma non sempre considerando che sono anche
molto impulsiva.
Com’è nata (e cosa la alimenta) la tua passione per l’arte?
Non c’è un’occasione precisa. Per me è sempre stata una cosa innata. Di conseguenza ho sempre fatto scelte (anche di vita) assecondando questo sentire. Mi sono
interessata a tutto ciò che potesse alimentare questa passione e che è diventata il
mio mondo.
arte&creatività
l’EstroVerso
(21) Dicembre 2015
Senza titolo, 2014 - Olio su tela, cm 20x25
Per Emil Cioran “essendo ormai logore le forme dell’espressione, l’arte si avvia verso il nonsenso, verso un universo privato e incomunicabile. Un fremito intelligibile, si tratti di pittura, di musica o di poesia, ci sembra a ragione desueto o volgare. Il pubblico scomparirà presto; l’arte lo seguirà da vicino”, per Samantha Torrisi?
Penso che le forme dell’espressione siano tanto molteplici quanto inesauribili, anche se vi è una tendenza
all’impoverimento e all’appiattimento della società a livello globale. Assistiamo a un mutamento che si riflette anche nei linguaggi dell’arte che, in certi casi, sembrano assecondare questa tendenza ma in altri casi la affrontano con
senso molto critico, cosa che ritengo fondamentale. Il pubblico è sempre più disinteressato e distratto e sempre meno
preparato, non solo intellettualmente ma anche emotivamente, a recepire ciò che l’arte comunica nelle sue varie forme, e non solo le cose più criptiche. Nonostante oggi possieda più strumenti a sua disposizione, il pubblico si sta
disabituando alla bellezza oltre che alla cultura in generale.
“Pace non cerco, guerra non sopporto / tranquillo e solo vo pel mondo in sogno / pieno di canti soffocati. Agogno / la nebbia ed il silenzio in un gran porto”. Osservando le tue opere sovvengono i versi di Dino Campana. Ci
sembra di poterli considerare come “chiarificatori” della tua poetica pittorica o, così non fosse, potresti illustrarci
i tuoi “motivi conduttori”?
In effetti mi ritrovo molto in questi versi e mi viene di risponderti con altri versi come quelli di Rilke:
La mia timida ombra lunare volentieri / parlerebbe con la mia ombra solare da lontano / nella lingua dei folli; / nel
mezzo io, sfinge illuminata, / mettendo pace, a destra e sinistra / l'una e l'altra ombra ho generata.
arte&creatività
l’EstroVerso
(23) Dicembre 2015
Senza titolo, 2013 - Olio su tela, cm 80x100
Oggigiorno qual è (o quale dovrebbe essere) la funzione dell’arte e quali responsabilità deve (o dovrebbe) assumersi?
È una domanda a cui temo sempre di rispondere in maniera banale, trattandosi di
un “mondo” complesso anche per tutti i meccanismi che lo regolano. L’arte, in
generale, dovrebbe secondo me sempre riuscire a mantenere una capacità critica.
Non credo che da sola possa cambiare l’umanità ma che debba essere in grado di
osservare la società in cui viviamo e indurre a porsi domande, a smuovere animi,
stimolare l’intelletto, anche attraverso strumenti estetici, non solo in maniera
concettuale.
Progetti correnti, imminenti e futuri?
Due collettive nell’ambito di Art FaCTory a Catania, e la partecipazione al progetto “Imago Mundi”, la collezione di Luciano Benetton. Per gli inizi del prossimo anno, invece, si prepara una collettiva in Portogallo. In mezzo a queste cose,
continua il lavoro a un progetto per una nuova personale di cui non posso ancora
svelare nulla.
arte&creatività
l’EstroVerso
(25) Dicembre 2015
Padri d’arte
I nomi Orazio Gentileschi, Hans Holbein il Vecchio, Giovanni
Santi e José Ruiz y Blasco vi dicono qualcosa? Sono i nomi di
padri (artisti) di figli artisti! Se col tempo i figli hanno, più o
meno, oscurato la figura dei genitori, nonché primi maestri, è
interessante scoprirne le gesta.
Partiamo dal papà di Hans Holbein il Giovane. Hans Holbein
il Vecchio, non meno noto del figlio, nasce nella bavarese Augusta nella seconda metà del XV sec., è considerato l’anello di
congiunzione dell’arte tedesca del Tardo Gotico con il Wiedererwachung, il Rinascimento tedesco come sarà poi definito da
Dürer. Un’opera, poco conosciuta, ritrae i suoi figli Ambrosius
ed Hans (riduzione nella foto a pag. 27). Il disegno, realizzato
a punta d’argento, vede i due figli rappresentati di tre quarti:
Ambrosius, il maggiore, all’epoca dell’esecuzione del ritratto
aveva circa diciassette anni, morirà otto anni dopo, nel 1519, è
rappresentato con la sua folta e riccia capigliatura e con un aspetto ormai adulto; Hans, che all’epoca aveva quattordici anni, presenta un aspetto ancora immaturo con lunghi e lisci capelli. Holbein il Vecchio sembra aver preferito occuparsi mag-
arte&creatività
di Daniele Cencelli
giormente degli sguardi dei suoi due figli: il segno grafico si fa
più deciso in Ambrosius e, al contrario, più pastoso, sfumato,
in Hans. L’artista ha diversificato anche la resa chiaroscurale
per i suoi due discepoli: nel figlio maggiore è più marcata così
da sottolineare una corporatura asciutta; mentre in Hans le ombre sono più impalpabili, quindi una figura più robusta. Altro
padre degno di nota è sicuramente Orazio Gentileschi, sua figlia è Artemisia Gentileschi, pittrice di scuola caravaggesca.
Gentileschi nasce a Pisa nel 1563 e si spostò tra Roma, Marche, Genova, Francia e Londra dove morì nel 1639. A differenza di sua figlia, Gentileschi non abbraccerà completamente
lo stile di Caravaggio, nonostante sia stato uno dei suoi amici,
ma lo sfrutterà per completare un suo linguaggio personale,
con influenze del manierismo toscano e romano con cui era
cresciuto; il realismo prettamente caravaggesco si trasforma
così in una composizione rigorosa e concettuale che, nelle opere londinesi, porterà ad un progressivo schiarirsi della luce
(Lot e le sue figlie, 1628, riduzione nella foto a destra; in alto
Giovanni Santi, Cappella Tiranni).
l’EstroVerso
(26) Dicembre 2015
L’opera di Gentileschi, qui scelta, sembra ritornare al manierismo, con figure in pose serpentinate e giganti, oltre al cangiantismo dei colori e alla grazia e leggiadria; ma la fase caravaggesca è comunque
presente nei forti passaggi di ombre nelle scenografie in cui i protagonisti sono immersi.
José Ruiz y Blasco (in alto la foto dell’opera Colombi) non risuona tanto facilmente tra i ricordi delle
lezioni di Storia dell’arte, eppure, questo pittore malagueño oltre ad esserne il padre fu anche il primo
che si accorse delle straordinarie capacità del figlio, Pablo Picasso. José Ruiz fu principalmente insegnante di disegno, prima a Málaga poi in Galizia e, infine, a Barcellona. Fu principalmente pittore naturalista, in particolare di uccelli. Gli uccelli dipinti da José Ruiz sono generalmente inseriti in contesti di
vita o, spesso, enucleati dall’ambiente circostante, assumendo quindi quasi un carattere accademico ed
enciclopedico. Lo stile del padre di Picasso è proprio della pittura naturalista che nasce verso la fine del
XIX sec. in Francia, sulla spinta dei nuovi impulsi scientifici in particolare nei campi della botanica e
della biologia, implicando quindi un certo grado di distacco e di serenità.
Raffaello Sanzio non ebbe come maestro solo il Perugino, ma anche suo padre Giovanni Santi. Nasce a
Colbordolo, a pochi chilometri da Urbino e proprio questa città lo influenzerà culturalmente, poiché,
all’epoca, uno dei massimi centri del Rinascimento: padre e figlio possono così ammirare a Palazzo
Ducale le opere di Piero della Francesca, dei pittori fiamminghi e dei pittori veneti operanti nelle Marche. Giovanni Santi, così come suo figlio, si avvicinerà anch’esso all’opera del Perugino cercando di
creare però una composizione più limpida e dai colori intensi e luminosi. Una delle opere più significative di Giovanni Santi è la Cappella della famiglia Tiranni ospitata nella Chiesa di S. Domenico a Cagli. Tutta la concezione dell’altare suggerirebbe un’idea dello stesso artista e qui vi sono raffigurate
l’Annunciazione, la Sacra Conversazione e la Resurezione. All’interno di queste scenografie vorrei
portare però l’attenzione alla Sacra Conversazione; vicino S. Francesco è raffigurato un angelo: si tratta
dello stesso Raffaello. Anche qui, come nel disegno di Holbein, compare il figlio dell’artista ma, a dispetto del pittore tedesco, Santi non ci presenta un atteggiamento sostenuto, ma al contrario, una scena
familiare: l’angelo è del tutto assorto nei suoi pensieri. L’età di Raffaello, all’epoca dell’esecuzione, è
da attestarsi intorno agli 8-10 anni e forse Giovanni Santi ha voluto proprio cogliere un momento della
vita del figlio, distratto e con le braccia conserte che guarda il soffitto mentre tutti gli altri personaggi
sono partecipi della scena.
arte&creatività
l’EstroVerso
(28) Dicembre 2015
Rinko Kawauchi: l’animismo fotografico di Rosario Leotta
Alcune teorie scientifiche sostengono l’ipotesi che la materia muta nell’istante in cui la si osserva, invece quando cessiamo di scrutarla assume infinite configurazioni possibili. Questo tipo di speculazione, che potrebbe essere ricondotta ai complessi meccanismi che regolano i rapporti tra interiorità e mondo esterno, si sposa magistralmente con il lavoro della fotografa Rinko Kawauchi. Ormai icona della fotografia contemporanea, il suo
personalissimo approccio è basato sull’istinto e sulla rappresentazione di soggetti consueti della nostra quotidianità che solo
in apparenza non hanno nulla in comune tra di loro.
“Vi faccio vedere un’immagine dal mio lavoro Aila. L’albero e la nuvola hanno la stessa forma. Non ho ritoccato nulla. È
venuto tutto in modo naturale. Ho scattato solo una volta e poi l’immagine è scomparsa. E questo è qualcosa di magico.”
La Kawauchi, tramite questa pratica inconscia e quasi stregonesca, ci pone di fronte a degli importanti interrogativi sui misteri della psiche e sulla relazione tra universo e anima.
Cogliendo lo straordinario nell’ordinario, la fotografa ci mostra delle composizioni illuminanti raccolte nel capolavoro chiamato per l’appunto “Illuminance”, il suo primo libro ad essere pubblicato fuori dal Giappone. Sfogliandolo ci si accorge subito che, a differenza di molti altri libri fotografici, il lavoro non è sorretto da un argomento prestabilito. Tra le righe si evince subito una ridondanza che rievoca la ciclicità della natura, come se le pagine fossero foglie di un albero: un universo
racchiuso in un libro.
La magia scaturisce soprattutto dalle associazioni visive di Rinko, combinazioni di ingredienti completamente differenti che
formano le note di un'unica armoniosa sinfonia.
“A volte un progetto nasce da una emozione, come è capitato per Aila: ero al supermercato e, guardando la carne nel banco frigo, ho avuto una sensazione orribile, mortifera. Mi è venuta allora l'idea di raccontare il parto degli animali, per cogliere il momento preciso della nascita, per sentire il soffio della vita. Credo che la nostra psiche sia un iceberg, di cui la
parte conscia non è che la punta: fotografare per me è un modo di calarmi nel profondo.”
Rinko Kawauchi
Rinko Kawauchi
Paul Gauguin, Donna con fiore, 1891
Racconti dal Paradiso
Gauguin al Mudec
L'esteso nastro orizzontale di una tela che si srotola da destra a
sinistra, un Eden di tentazioni e di ideali, un'antologia di personaggi: un neonato, tre donne sedute; poco distante due figure
vestite di porpora e un'altra che li osserva dal basso. Al centro
un uomo coglie i frutti. Due gatti, un bambino, una capra nera.
Una statua di un idolo con le mani alzate, qualcuno la osserva.
Per ultimo, un'anziana signora rannicchiata su se stessa, sembra
attendere, accanto a lei uno strano uccello bianco che tiene una
lucertola tra gli artigli, rappresenta la vanità delle parole.
Paul Gauguin, 1897, (olio su tela, cm 139x347,5) Museo delle
Belle Arti di Boston. Un titolo, greve, che sembra già un rebus:
“Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?”.
Interrogativi esistenziali a cui ognuno di noi, almeno una volta,
anche solo tra sé e sé si sarà posto, tentando di suggerire una
più o meno aggrovigliata spiegazione prima che un'altra questione, un altro impegno, un'urgenza lo distraesse. Cosa cercasse di dimostrare poi Gauguin con questo dipinto considerato il
suo testamento spirituale, fitto di simboli ed allegorie, lascia
ancora perplessi così come il perché abbia condotto una vita
all'insegna del viaggio e degli spostamenti prediligendo mete
tanto lontane: saranno stati forse i bagliori di una nuova civiltà
primitiva che appariva ancora incontaminata e pura; il fascino
di un'evasione temporale e cognitiva dall'ambiente parigino; la
ricerca di un paradiso perduto, l'abbandono di ogni pretesto e
costrizione per andare incontro alla più autentica libertà al fine
di vivere pienamente quell'intimo ed estatico momento in cui la
pittura celebra se stessa in piena sintonia con gli esseri e con i
paesaggi. Possibili risposte.
Il suo senso di inquietudine e di instabilità ci appare come un
percorso senza fine, di volta in volta irragiungibile, il placarsi
del suo stato d'animo è momentaneo ma allo stesso tempo ogni
dipinto, ogni dettaglio, è un invito a riprenderci il tempo delle
cose, il tempo del tutto ed a sognare il quotidiano celebrando la
bellezza dei luoghi e la loro immobilità in quell'inganno di eterna giovinezza che Gauguin, a torto o a ragione, aveva consapevolmente scelto per sé.
arte&creatività
Paul Gauguin, Autoritratto con Cristo giallo, 1890-91
Paul Gauguin, Giorno di Dio, 1894
l’EstroVerso
(35) Dicembre 2015
Paul Gauguin, Autoritratto con Cristo giallo, 1890-91
Paul Gauguin, Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, 1897
Nei suoi quadri Gauguin narra di rituali di incontri perché l'arte, prima di tutto, consegna alle vite delle storie. Le sue
di storie ci mostrano l'ozio nella dolcezza di un pomeriggio d'estate all'imbrunire, il trastullo ed il riposo, l'operosità e
lo zelo in pieno giorno. Ci fanno percepire la leggiadria delle donne tahitiane e ci raccontano di un Cristo giallo in
croce, spiritualmente più simile al tormento ed alla salvifica attesa rispetto ad una, ben più cruenta, analoga rappresentazione; ci mettono al cospetto di paesaggi fluidi, allargati, che penetrano per colore e forma gli uni dentro gli altri
mentre, al contratio, i rami degli alberi si inerpicano nodosi; ci pongono esplicitamente di fronte ai desideri più intimi e
privati di un uomo ma senza oltrepassare il filtro della discrezione.
Sono i suoi stati d'animo e sentimenti trasferiti sul quotidiano di una tela. É il rifiuto dei precetti teorici e della prospettiva a favore dell'emozione quale strumento prediletto di espressione del suo paradisiaco mondo. Non a caso si intitola
proprio Racconti dal Paradiso la mostra, a cura
di Line Clausen Pedersen
e Flemming Friborg, di
circa un centinaio tra i
suoi dipinti e sculture che
dal 28 ottobre e fino al 21
Febbraio 2016, è possibile visitare al MUDEC
Museo delle Culture di
Milano. Grazie alle opere
esposte, provenienti da
dodici musei e collezioni
private internazionali si
potranno riconoscere ed
analizzare le fonti figurative dell'arte di Paul Gauguin, ripercorrendo le
tappe sondate dall'artista:
l'arte popolare della Bretagna francese, l'arte
Paul Gauguin, Il divertimento dello spirito maligno, 1894
dell'antico Egitto, quella
peruviana delle culture
Inca passando per la cambogiana e la javanese, fino all'arte, la cultura e la vita polinesiana. Una mostra che se anche
non sarà risolutiva circa le domande esistenziali che l'uomo si pone sulla propria origine e sulla propria fine, promette
però un'esperienza significativa e formativa per conoscere più dettagliatamente uno dei protagonisti più importanti e
notevoli del post-impressionismo.
arte&creatività
l’EstroVerso
(37) Dicembre 2015
leggodico arte
Keep calm e impara
a capire l'arte
di Alessandra Redaelli
Io mastico arte da sempre. Come giornalista e poi come curatrice di mostre, entrambe attività che svolgo tuttora. Il libro nasce
dalla voglia di raccontare l’arte in toni semplici, qualche volta
anche spiritosi e dissacranti. Trovando un equilibrio tra il desiderio di fornire l’informazione tecnica precisa e quello di calarsi
nei panni del non addetto ai lavori.
Il lettore a cui mi rivolgo è un curioso, che si occupa d’altro ma
che ha voglia di scoprire l’arte. È quello che sa apprezzare la
Canestra di frutta di Caravaggio, ma non capisce perché qualcuno abbia speso 12 milioni di dollari per un pesce in formaldeide. Quello che si sente preso in giro dal Papa di Cattelan e
anche un po’ offeso se si sente dire che un cavallo impagliato è
arte e DEVE piacergli. Ma anche quello che, improvvisamente,
scopre di andare in visibilio davanti agli isolotti impacchettati
da Christo… e non sa il perché.
Ciò che voglio comunicare loro è che nessuno li obbliga ad apprezzare nulla, che l’arte deve essere un piacere e che va apprezzata prima di tutto “di pancia”, ma anche che se esistono
dei criteri secondo i quali un collezionista acquista per 58,4 milioni di dollari il Balloon dog di Jeff Koons (facendone l’artista
vivente più quotato al mondo), questi criteri sono anche alla sua
portata.
Estratto dall’introduzione del libro
Keep calm e impara a capire l'arte di Alessandra Redaelli
( Newton Compton, collana Grandi manuali Newton )
Immaginate la tipica situazione. Siete appena entrati in un museo, o in una galleria d’arte, in compagnia dell’amico intellettuale, quello sempre informato e dall’aria molto sicura di sé. Ecco
che lui, davanti a quel dipinto gigantesco con quel tipo e quella
tipa nudi, seduti sulle sedie, a testa in giù, si mette ad annuire
con un sorriso enigmatico e poi si perde a fissare la tela come se
fosse apparsa la Madonna di Lourdes. E intanto voi vi guardate
intorno con aria circospetta, pensando che da un momento
all’altro arriverà qualcuno con una grande scala, staccherà il
dipinto e lo appenderà diritto, dandosi anche un contegno e spe-
arte&creatività
rando che nessuno si sia accorto dell’errore. Sono situazioni
veramente penose. Soprattutto nel momento orrendo in cui il
vostro accompagnatore si gira verso di voi, una volta uscito
dall’estasi, e con sguardo sognante chiede: «Che ne dici?». E
voi vi inventate un’aria davvero cool. «Be’, non ci sono parole…», dite. Mentre pensate: “Ma che razza di posto è questo,
dove non si accorgono nemmeno di avere appeso i quadri al
contrario!”. E meno male che non lo avete detto! Apriti cielo!
Non sapevate che Georg Baselitz dal 1969 ha cominciato a
dipingere le sue “figure capovolte”? Già. Questo scandaloso e
bizzarro esponente del neoespressionismo tedesco, un giorno
ha fatto una pensata: se io, la stessa immagine, la presento capovolta, improvvisamente il soggetto perde il suo significato,
diventa forma pura; lo sfondo non è più solo sfondo, ma si fa
colore e materia. Ecco che con un colpo solo, una bella capriola, ho messo nella stessa tela, e sullo stesso piano, figurativo
e astratto: et voilà!
E ora immaginate di svuotarvi la testa di tutto quello che avete
imparato a scuola, delle ore perse a spuntare i pennarelli per
riprodurre con la tecnica del puntinismo il giardinetto striminzito fuori dall’aula, delle ammorbanti lezioni sui capitelli dorico, ionico e corinzio (e poi probabilmente il cervello ha fatto
click e si è rifiutato di immagazzinare altro), del professore
così vecchio che pareva averlo conosciuto proprio, Leonardo
da Vinci, e che vi spiegava quanto fosse bella la Monna Lisa,
come se la bellezza si potesse spiegare, e dimenticate anche
quanto sia stata “rivoluzionaria” la pittura degli Impressionisti
– soprattutto se non siete nati nel 1870. Svuotate tutto, dicevo.
Reset! E entrate in quella stessa sala a mente sgombra. Guardate quell’immagine senza sovrastrutture, lasciatevi avvolgere
da quella pittura grumosa e materica, da quei corpi in bilico, a
testa in giù, che dalla materia sembrano emergere, e godetene
la forza dirompente. Pensate: sono quarantasei anni che Georg
Baselitz dipinge così, eppure la sua sala è stata una delle più
affollate e fotografate dell’ultima Biennale di Venezia, con i
bimbetti dell’asilo che si sedevano sotto quegli omoni capovolti con il nasino in aria, tutti felici di quell’allegra capriola
visiva.
l’EstroVerso
(38) Dicembre 2015
#1 Saul Fia
di Michele Leonardi
Chiunque abbia circuitato, proprio malgrado o meno, attorno
allo sconfinato e ignorato universo del cortometraggio, forse
avrà già sentito parlare di László Nemes prima dell’ultimo Festival di Cannes – dal quale è uscito trionfatore con
l’ambitissimo Grand Prix.
Ungherese, classe 1977, fu aiuto regia di Sua Maestà Béla Tarr,
si era fatto un nome nel non troppo lontano 2007 allorquando, e
ci dice molto di questo Saul Fia, partecipò in concorso a Venezia con lo splendido “Türelem” – oggi facilmente reperibile
online.
“Son Of Saul” – esplicita bene la sinossi ufficiale – narra «due
giorni nella vita di Saul Ausländer, prigioniero ungherese
membro di uno dei Sonderkommando affiancati ai forni crematori di Auschwitz che, nel tentativo di seppellire un ragazzo che
identifica come suo figlio, cerca di mettere in atto il suo impossibile piano: dare salvezza eterna a quel corpo e trovare un rabbino che gli dia sepoltura».
La prima inquadratura del film – che ricorda tremendamente
l’appena citato “Türelem” – ci conduce immediatamente nei
due inferni dell’opera: quello filmato, cioè l’implacabile ma
compresso turbinio di uomini e donne e grida e violenza e spari
e sudore e orrore, e quello filmico, cioè una camera che segue o
precede ossessivamente il suo protagonista, in piano sequenza
e formato 4:3, non abbandonando ma anzi amplificando
l’oscenità del fuori campo e dello sfuocato.
Nemes resta incollato al suo protagonista, alla sua storia, al suo
compito: una lezione che, a suo stesso dire, ha imparato a bottega da Tarr, assieme ad una «estrema attenzione per i dettagli». La macchina sta nel labirinto con Saul (uno straordinario,
iconico Géza Röhrig) in una rappresentazione dell’olocausto
mai come in questo caso affiancabile all’estenuante discesa nei
gironi danteschi: a nessun amico, nessuna moglie, nessun essere umano è consentito l’accesso. C’è solo questo presunto figlio, simbolo di sopravvivenza, continuità, redenzione in
un’altra vita, un altro mondo, un altro luogo – che è necessario
raggiungere con il rito. Ogni istante, nel film, sembra l’istante
buono per morire. E attorno ad Ausländer, infatti, la morte
precipita senza turbamenti. «Così ci farai ammazzare tutti!»,
gli rimprovera un compagno nel momento chiave – dialogicamente parlando – della pellicola. «Siamo già morti», risponde
gelido, ratificando una sensazione che permea ciascun secondo, sublimando quella ricerca di un senso, una direzione vera,
un motivo che dia a quel brandello di vita rimasto aggrappato
ad una carcassa, che corre ed esegue angosciosamente ogni
ordine, semplicemente raison d'être.
Il lavoro svolto sul sonoro ha dell’incredibile: ciò che non viene morbosamente mostrato non manca, ma è anzi colmato ed
oltrepassato dall’esattezza di un montaggio che affida alla memoria fotografica la documentazione del restante.
Nel momento in cui il cinema palesa ostinatamente ogni gesto
(vedi il recentissimo “The Tribe”), la scelta del trentottenne di
Budapest segna una terra di mezzo in cui tutto – effettivamente – è presente, ma non tutto è concesso all’occhio dello spettatore. I riferimenti, da Klimov a Loznitsa, da Lanzmann a
Sokurov, sono d’impatto secolarmente monumentale.
Uno splendido, incredibile finale in cui è possibile leggere
l’avvicendamento tra Davide e Gionata, la pulsione d’un desiderio tanto folle da essere l’unica cosa sensata, l’accettazione
d’un ultimo passaggio di testimone, consegna Saul Fia agli
annales che gli competono, con qualche remora sul pur importantissimo premio assegnatogli. László Nemes ci ha regalato un gran film, che farà presto a classificarsi tra gli indispensabili sul tema della Shoah. Se si pensa che sia persino un
debutto, viene voglia di salutare un autore che ci auguriamo
possa esser presente, d’ora in avanti, nelle cineteche globali, e
con molte frecce al suo arco. Chapeau.
VOTO: 8,5
Nota. La pellicola giungerà nelle sale italiane dal 27 gennaio
2016, giorno della memoria, ed è considerata al momento il
frontrunner da battere nella corsa all’Oscar come miglior film
straniero.
Il Cinematografo visto dall’Etna
l’EstroVerso
(41) Dicembre 2015
Fotoracconto
di Massimiliano Raciti
Aspettavo Carl ormai da tre ore, anche il suo cane si era stufato
di giocare ormai. Sudaticcio mi sedetti sulla panca di legno sotto il pergolato, proprio di fianco all’ingresso, accesi una sigaretta e dissi tra me e me che se non fosse arrivato entro l’ultimo
tiro di sigaretta, sarei andato via.
Chiamargli al cellulare? Utopia. Lui non ne ha e comunque,
dove sta Carl, non puoi telefonare con nulla che non abbia almeno un paio di chilometri di cavo a disposizione. Ad un tratto
il suo cane alzò la testa e cominciò a correre verso ovest, lo aveva fiutato. Eccolo infatti apparire all’orizzonte, riuscivo a
distinguerlo a malapena, sotto il sole che cominciava a calare,
con un sacco sulle spalle e il suo fucile da caccia. Mi fece entrare in casa, diede da mangiare al cane e mise l’acqua a bollire
per il the, poi sparì per una buona mezzora per riapparire vestito di tutto punto, alle dita i suoi tre anelli d’argento: ci tiene
molto ad essere ben vestito quando riceve qualcuno.
Adesso e solo adesso avrei potuto godere della sua ricchezza.
Cerchiamo di capirci però, Carl non è ricco, credo che a parte il
cane, quel vestito ormai logoro e quei tre anelli non abbia proprio nulla; vive della sua terra, ma per me è ed è sempre stato
la persona più ricca che conosca.
Carl disprezza gli adulti e ama i giovani, se mi fa entrare in casa, a bere il the con lui e a chiacchierare, è solo perché sono un
ventenne. Lui dice che gli adulti sono dei frutti marci, che peggiorano con l’età e che costringono i giovani puri a vivere nel
marciume che creano.
Definitivo su questo concetto, lapidario.
Posai sul tavolo il caffè e il tabacco che gli avevo portato, poi
mi sedetti.
Quella sera, mentre sorseggiavamo il the bollente, mi comunicò con la sua solita sigaretta in bocca, una delle sue entusiasmanti teorie:
- I proverbi, caro mio, sono tutti sbagliati!
cultura
- Carl! Questa è grossa! - risposi attonito, ma lui incalzò: Dimmene uno qualunque allora, te lo dimostrerò.
Io d’istinto scandii, quasi recitandolo a tono: - L’occasione fa
l’uomo ladro.
La sua risposta non si fece aspettare: - Certo, ma suona come
una giustificazione non trovi? La colpa non si riversa sul ladro, ma sul contesto! Implica, ovvero, che finalmente un povero sfortunato ladro abbia trovato finalmente l’occasione per
cambiare… forse… ma credo poco che il marciume di un ladro possa cambiare… Non trovi che sia più appropriato dire
“L’occasione fa l’uomo onesto”? Detta così, sembra che anche il ladro peggiore, possa avere l’occasione per cambiare e
diventare onesto!
Non seppi rispondere.
Preso dalla curiosità ne citai un altro: - Mal comune, mezzo
gaudio!
Anche qui la risposta fu celere e sicura: - Ovvero dovrei essere “mezzo felice” perché non soffro da solo? Perché esiste
altra gente che soffre del mio stesso male? O piuttosto dovrei
invece dispiacermi il doppio poiché la situazione è pessima
per tutti quelli che soffrono come me? Credo decisamente la
seconda! Lo cambierei in “mal comune, lo si cura”… adesso
sì che tende al bene.
Anche in questo caso non seppi controbattere nulla.
- Carl!- dissi bevendo l’ultimo sorso caldo: - Non continuo,
immagino che tu abbia una risposta per ogni proverbio che
citerò e che il resto delle risposte debba trovarle come al solito
da solo.
Mi sorrise e disse soltanto: - Esattamente.
Stavo per indossare la giacca e uscire, quando fui preso da
uno sconforto al cuore: adesso vedevo ogni dialogo inutile, un
insieme di luoghi comuni e di frasi fatte, un’intera quotidianità di discorsi da buttare via, vedevo le parole diventare affilate
e pian piano entrare nel cuore senza dolcezza, sentivo echeggiare i discorsi fatti con gli amici, con la mia famiglia, a lavoro, e con tutta la gente che ogni giorno incontravo.
Sentivo il loro prezzo e il loro peso, il loro colore e il loro
suono, e tutto questo mi schiacciava.
Lo chiamai ancora mentre una mano toccava già la maniglia
della vecchia porta: - Carl! Ma adesso mi tocca rifare tutto,
non mi rimane nulla! Solo la speranza!
Mi guardò come un padre guarda un figlio, severo, ma gioioso, poi disse: - No, caro compagno di vita, la speranza non è
l’ultima a morire, l’ultimo a morire sei tu, la speranza è una
donna bellissima che dorme in attesa di svegliarsi, solo tu con
il suono del tuo coraggio potrai destarla.
Lo abbracciai sull’uscio prima di andare via, lui mi strinse e
sentii le sue gracili ossa anziane contro il mio corpo che diventava sempre più adulto.
Anche stavolta Carl mi aveva dato tutta la ricchezza di cui
avevo bisogno.
Foto - Prie lango. By the window.
Camera: Bronica SQ-A with Zenzanon-PS 80mm f/2.8.
Film: Fomapan 100.
Developed: Rodinal 1:50 (20℃ for 9 minutes).
2014 © Tadas Kazakevicius http://www.tedkozak.com/
l’EstroVerso
(42) Dicembre 2015
Sogni e scrittura,
un abbraccio vitale
di Lorenzo Raffaini
Come un sole curioso, che si affaccia timido a sbirciare e
illuminare la vita oltre la montagna, era la mia gioventù. Una
gioventù come tante. Ricordo che difficilmente memorizzavo i sogni della notte, mentre invece di giorno mi piaceva
fantasticare a occhi aperti e di sogni ne avevo quanti ne desideravo; immaginavo scene eroiche e il mio futuro lo vedevo
pieno di successi, costellato di gloria e onore.
Fu alle scuole elementari, per merito di una maestra che mi
lodò perché leggevo molto bene, che con piacere mi avvicinai alle parole scritte. Da lì il passo fu breve. Iniziai a divorare ogni tipologia di fumetto e nei primi momenti di malinconia adolescenziale non fui sorpreso di trovarmi con una penna in mano a trasformare le mie emozioni in canzoni. Anche
successivamente, quando la gioventù stava per finire e le distanze aumentavano, scrivevo lunghe lettere per cercare di
affievolire il dolore di quei tagli di cordone ombelicale affettivi. Alla fine della terza media però mi fermai: il lavoro in
casa (papà aveva una ditta) e io che non amavo andare a
scuola, decisi di non continuare gli studi.
Poi la notte s’impossessò totalmente della mia vita e i sogni
e la scrittura smisero di esistere. Un periodo in cui la droga si
mangiò tutto di me: affetti, stima, orgoglio, denaro, figli, genitori, tutto! Finii in carcere più volte e persi il conto delle
comunità di recupero in cui provai a smettere. È stato in uno
di quei rari momenti di lucidità obbligata, che mi ritrovai di
nuovo con la penna in mano. Un po’ per necessità: scrivevo
lettere per tenere i contatti esterni, un po’ per un percorso
interiore: iniziai a scrivere un libro, incominciai dal primo
ricordo che avevo, volevo analizzare tutti i momenti della
mia vita che ricordavo, per cercare di capire cosa e dove avevo sbagliato, per vedere se potevo “aggiustarmi”. Ora non
voglio raccontare tutta la storia, ma se leggerete il mio romanzo, vedrete come la scrittura, in un momento di disperazione estrema, m’impedì di suicidarmi. Perciò posso veramente affermare che la scrittura mi ha salvato la vita!
Scrivere mi piace un sacco, quando scrivo mi estraneo, il
tempo vola, a volte le parole escono velocemente, altre volte
meno, mentre scrivo incontro piaceri e difficoltà e sotto questo punto di vista, scrivere in fondo è un po’ come vivere,
anzi, meglio: se il giorno dopo non mi piace qualcosa che ho
scritto il giorno prima, lo cambio, nella vita questo non sempre è possibile. Ecco, posso asserire che nello scrivere trovo
piacevoli anche le difficoltà, forse è questo il semplice motivo per cui mi piace così tanto scrivere. Purtroppo ho studiato
solo fino alla terza media e non ho letto molto, perciò la mia
scrittura è così com’è, un po’ diversa dai più che scrivono
libri. È abbastanza sobria, ma io mi faccio coraggio dicendomi che forse la gente la capisce meglio.
Ora sono riemerso. Sono sposato e padre di quattro figli, la
mia vita è totalmente cambiata, oltre che scrivere, ho altre
l’autore racconta
soddisfazioni che mi fanno amare la vita più che mai, per esempio questa: io, mia moglie e i miei figli stiamo realizzando un
nostro sogno, con le nostre mani abbiamo quasi finito di ristrutturare una vecchia cascina del 1800. È bellissima, ma
l’abbraccio vero, che ci da questo sogno, è il fatto di averlo realizzato con le nostre fatiche.
Anche con la scrittura non tutto è venuto da sé, nel senso che per
pubblicare ne ho provate di tutti i colori. È curioso scoprire come ci sono arrivato. La prima strada che ho tentato è stata quella
di andare a suonare il campanello di casa a Aldo Busi, vi dico
solo che non pubblicai. Poi mi misi in testa di farlo leggere a
Vasco Rossi. Seguendolo su Facebook divenni amico della sua
guardia del corpo, che in seguito mi presentò a Gian Paolo Serino, il quale apprezzò subito il libro. Lo mandai a vari editori ma
la risposta, quando c’era, era sempre e solo una. È su consiglio
di Serino che lo mandai senza tante speranze alla Rai: un talent
per aspiranti scrittori, cercavano persone con un romanzo inedito
nel cassetto. L’ultimo giorno valido per la chiamata mi arrivò
una telefonata: mi convocavano per un provino a Torino. Passai
tutte le selezioni e per merito di un ripescaggio votato dal pubblico, arrivai in finale. I concorrenti erano tutti (o quasi) laureati
e in entrambe le gare a cui partecipai venni subito eliminato. La
critica di alcuni blog fu abbastanza feroce sia con me che con la
trasmissione stessa. Io speravo di fare come Vasco e confidavo
nella sindrome di San Remo.
l’EstroVerso
(44) Dicembre 2015
Andrea De Carlo era uno dei giudici del programma, la prima volta che lo vidi mi disse che la vita non ero riuscito a
viverla, ma che però l’avevo scritta. Prese a cuore il mio romanzo che piacque anche ad Elisabetta Sgarbi e così la Bompiani lo pubblicò, anche se non aveva vinto.
“Amo troppo la vita per riuscire a viverla” è difficile da classificare: romanzo, testimonianza, confessione, saggio. Nello
specifico sembra non essere nessuna di queste cose, forse
perché è tutte queste cose assieme; la tragedia; la speranza;
l’avventura; l’amore; l’informazione; la prevenzione. È difficile giudicare il proprio lavoro: si rischia d’ingrandire o di
sminuire... Mi attengo ad alcuni giudizi di chi lo ha letto e
che corrispondono al mio: “è un romanzo che aiuta a capire
cosa può accadere ai nostri figli, anche se sono dei bravi ragazzi”. “Dovrebbero leggerlo tutti: ragazzi, genitori, insegnanti.” “Riesce a cambiare la visione, che tu hai, di quel
mondo”
Il romanzo è nel progetto scuole (che dura tutto l’anno scolastico) di Bookcity 2015. Ed è lì, davanti ai ragazzi, quando
vado a fare prevenzione nelle scuole che esce tutto il senso
del romanzo: quando senti che ti ascoltano in silenzio, quando le domande continuano a fioccare con entusiasmo ben
oltre l’orario prefissato, e quando alla fine qualcuno, anche
con le lacrime agli occhi, viene a dirti: io ho un fratello
che..., cosa posso fare…
“Amo troppo la vita per riuscire a viverla” non è una pozione
magica ma è però, sotto le sembianze di un romanzo, un valido aiuto, per cercare di comprendere: il prima, il dopo e il
durante - visti sotto tutti gli aspetti: da adolescente, da drogato, da genitore e da comparsa -. E se io riesco a far comprendere prima, a più ragazzi possibili, cosa può loro accadere
se… (la mia vita, questo libro, sono lì a dimostrarlo), per me
è il successo più bello.
loro bellissimi colori risultavano allo stesso tempo offuscati e
splendenti, come il riflesso di un diamante illuminato nella nebbia. Dove erano finiti i miei sogni?
C’erano le sbarre del carcere di Verziano a ricordarmi che la
realtà era un’altra, durissima. Quelle sbarre formavano piccoli
quadrati d’aria da cui passavano solamente il mio sguardo e le
mie braccia. Tutto il resto veniva fermato, a volte anche il pensiero. Non avevo nulla di quello che sognavo, avevo distrutto
tutto quello che possedevo, compresi i sogni. Intorno a me dolore e macerie, avevo un figlio che non vedevo, ero pieno di debiti, avevo distrutto anche la vita di chi mi voleva bene. E mi trovavo in carcere.
Fu in quella sera che mi resi conto di avere sbagliato ogni cosa. Non bastava più credere che alla fine tutto sarebbe andato a
posto perché i miei sentimenti erano veri e sinceri. Le mie lacrime erano molto più che diamanti per la mia vita. Fu in quella
sera che compresi.
Prologo da “Amo troppo la vita per riuscire a viverla”,
prefazione di Andrea De Carlo, Bompiani.
La svolta
Vedevo i fuochi d’artificio in lontananza. Salivano in alto
nel cielo scuro, la gente a Brescia stava festeggiando la fine
del millennio.
Da piccolo avevo immaginato molte volte la mia vita nel
2000: avrei avuto quasi trentun anni, sarei stato nel pieno
delle mie forze, ricco e realizzato. Avrei sviluppato la ditta di
papà fino al punto di assumere degli operai per fare il lavoro
di manodopera, il mio compito sarebbe stato solo quello di
amministrare e gestire il tutto. Guidato dal disegno del destino, mi vedevo felicemente sposato e papà di molti bambini. I
bambini mi piacevano, fin da ragazzino ho avuto con loro un
rapporto particolare, andavamo d’accordo, ci capivamo. Avevo sempre creduto di essere nato per fare il papà, che quello fosse il mio compito, il mio senso di essere al mondo.
Ora ero arrivato, avevo quasi trentun anni: ero lì, nel bel
mezzo della fine del millennio. Ma i sogni non erano più
quelli che avevo da bambino. Anche le emozioni erano diverse, tutto era più amaro, la dolcezza era svanita, come
l’aroma di un profumo tenuto male. Guardavo i fuochi
d’artificio, e attraverso le lacrime che mi velavano gli occhi i
l’autore racconta
l’EstroVerso
(45) Dicembre 2015
L’aforisma
di Claudio Bagnasco
È mancato. Se n’è andato. È scomparso. Ma anche È morto. Come eufemizza
l’irreparabile, quella forma affermativa del verbo essere…
Non c’è più. Ecco la sola frase vera.
cultura
l’EstroVerso
(46) Dicembre 2015
Edvard Munch, Barche e laghi
L’antro della Pizia
di Savina Dolores Massa
Esod-ami
Che cos’è quest’agonia che mi allaga l’Antro, stamattina? Cosa
vogliono dirmi granchi, alghe, coralli, cavallucci marini? Che cosa,
con voci da strazio? Ci mancavi pure tu, Balena Bianca da letteratura. Perché piange quel tuo occhio mavì? La crudeltà umana la
conosci a memoria.
Onde furiose mi ingoiano le tende delle finestre, frantumano i vetri,
afferrano schegge e se le puntano alla giugulare.
Mi state forse minacciando?, chiedo loro.
Salvali, o noi dissangueremo ogni vena del nostro corpo,
Resterebbe un deserto al posto vostro. Sacrifichereste la bellezza
delle stelle marine e di tutto il resto,
Non possiede più alcuna bellezza, il mare,
Non posso fare niente, da sola. Niente, rispondo e avverto la stretta
dei miei capelli sabbiosi sul collo. Mi vergogno, per tutte le volte
in cui mi sono creduta invincibile.
Le onde continuano a muoversi pronunciando contemporaneamente un’unica frase, Siamo diventate il camposanto dei sogni,
Non posso fare niente, proseguo a dire mentre annuso una salsedine di differente aroma, carnale, mentre assaggio gocce venute a
posarsi sulle mie labbra. Gocce bambine che mi baciano. Sono scure. Le lecco ma non sorridono. Sono un principio di onda senza
infanzia.
Quale delitto al mare! Quale delitto ai respinti di un’Umanità in
miseria e orrori. Ghigliottinati da altra Umanità, con indifferenza
da calcolo perfetto.
Non posso fare niente, da sola – e capisco di emettere parole gor-
cultura
gogliate.
Non sei sola, dice l’onda più vecchia, Dimmi solo se vuoi ancora
vivere in questo pianeta.
Potrei rispondere, Sì, pensando a tutti i libri che ancora devo leggere, alle città da visitare, alle persone a me simili con cui ridere
ridere ridere.
Io non sto più ridendo da anni, se in troppi hanno perduto la possibilità di farlo. Il mio ridere di piacere passeggero non mi rende
fiera, se il lusso di poterlo fare mi giunge dal sacrificio di
quest’esodo sotto gli occhi di tutti i vedenti.
I mari del mondo potrebbero unirsi e spazzare via le vostre frontiere spinate, farvi estinguere, dice la vecchia onda.
Rifletto. L’onda che ho davanti forse è più giovane di me. Rifletto, ma non per molto tempo.
Chiedo, amara di troppo passato alle spalle, Sei certa che
l’Atlantico non vorrebbe poi spadroneggiare sul Mediterraneo, o
sul Mar Rosso?
Tace l’onda tace.
L’acqua si ritira come risucchiata da un destino. Bassa marea,
basse le fronti.
Io mi sveglio. Resta solo una traccia, del sogno appena fatto. Un
imene piccino annegato fuggendo alla sua svendita. Sembra volersi trattenere sul guanciale comodo da pizia, che rassetto: era solo
l’impronta di un mio morso.
S.D.M.
l’EstroVerso
(47) Dicembre 2015
Edvard Munch, Foresta, 1899
Pensieri di varia umanità
a cura di Davide Spampinato
II
Auguro varie calamità al lettore che decide di ignorarmi.
Espongo il mio eccellente disegno per rintracciare l’anonimo
autore dei pensieri eretici: andare a chiederne in giro.
Dialogo col gelataio sulla vera natura di Dio.
164) Gli altri non sanno quel che noi pensiamo di loro. Mentre,
al contrario, noi li facciamo pensare secondo i nostri pensieri.
Leggevo con occhi intenti il mio anonimo autore. E per coloro
che mi leggono solo ora, riassumo la questione brevemente: in
un negozio d’antiquariato ritrovo questo manoscritto senza firma. Voglio sapere chi sia l’autore solo solo perché il tempo, da
disoccupato, mi avanza sempre. Tu, amico mio lettore, mi sarai
testimone in questa cerca e, se non mi accompagni con animo
paziente e rassegnato, sappi che, se mai dovessimo incontrarci
per la via, non ti saluterò, quasi fossi per me un perfetto estraneo e non ci conoscessimo davvero.
Questo era dunque il mio disegno: mi sarei recato da quanti,
per la loro occupazione, hanno a che fare coi più e meglio conoscono gli uomini nella loro intima natura. Avrei fatto leggere
loro questi pensieri eretici: avrei chiesto se conoscessero chi
fosse tanto ardito da scriverli. Una volta appresa l’identità
dell’untore, io stesso avrei bussato alla sua porta per il processo
e, infine, con l’aiuto di Dio, delle tenaglie e dei carboni ardenti,
lo avrei convertito alla vera dottrina una volta per tutte.
Ed ecco mi recai da un gelataio, di quelli col carretto, la musica
tamarra e il fischio incollato alle labbra secondo l’uso degli addestratori del circo. Mentre era lì, sfaccendato sotto un cavalcavia, che quel giorno Giove pluvio aveva deciso di rovesciarci
in testa qualche catino d’acqua in sovrappiù, lo salutai familiarmente, sebbene lo conoscessi soltanto di nome.
Mi accostai a lui, tirai fuori il manoscritto e gli dissi sottovoce:
« Leggi e dimmi tutto ciò che sai. »
Lui afferrò le pagine con aria intorpidita e, aiutandosi con un
indice, come un bambino che sappia leggere appena, ripeté a
voce bassa:
40) Il peccato per l’uomo di fede diventa la condizione spirituale per l’eccellenza per salvarsi. Diversamente non saprebbe
incontrare il suo dio e farsi riconoscere.
120) Mai Dio ha avuto bisogno di tanto sangue nella storia per
essere difeso ad esistere.
136) Un dio così esposto alle contumelie quello dei cristiani,
così debole nella sua divinità da consentire di dubitare della
sua potenza. Non ha dietro di sé vicende eroiche che lo possano salvaguardare dall’irrisione popolare e dalla condanna dal
cultura
“crucifige” dei suoi contemporanei. Giove aveva i fulmini,
Apollo le frecce pestifere, Nettuno le tempeste e i terremoti.
Ma, a ben riflettere, il Dio dei cristiani ha però trasformato
quelle astratte forze nell’ira ben più temibile dei suoi teologi,
che astutamente gli hanno assegnato un dominio incontrollabile e invisibile sui morti e sui vivi, con il peccato.
« Dunque? – gli chiesi come attonito, dopo che ebbe letto –
cosa ne dici? »
E quello, scrollandosi dal carretto e posando il fischio che ancora gli penzolava tra le labbra:
« Dio – disse – è come una brioscia col gelato. A te piace per
il timore della fame o perché ti lascia in bocca il ricordo di
un’esperienza dolce come una crema che si scioglie al palato?
»
E io dopo aver meditato lungamente le sue parole:
« Così, su due piedi, non saprei… mi faresti una brioscia alla
nocciola? »
Ed egli me la offerse.
Quindi, mentre mangiavo avidamente la brioscia per riportare
il sapore di Dio nella memoria, il gelataio mi domandò:
« Ma per te questo Dio, di cui gli atei hanno sempre la bocca
piena, è buono o non lo è? »
E io, porgendogli la brioscia e rispondendo da perfetto ateo:
« Sarebbe meglio con un po’ di panna! »
E tutti e due ridemmo di cuore a quella battuta per avergli risposto con la bocca piena.
Quindi ripresi:
« Dio mi somiglia più a un cono che a una brioscia. Perché
una brioscia puoi riempirla, volendo, col prosciutto cotto e la
mozzarella, e trattarla alla stregua di un panino, seppure non
lo è. Tanti parlano di Dio allo stesso modo. Invece il cono –
osservai – è fatto apposta per il gelato e solo per quello. Certo,
diventa un problema, se anziché mandarlo giù, lo contempli
tanto a lungo da farlo sciogliere nelle tue mani. Allora ti si
appiccica alle dita e ti diventa insopportabile, questo è sicuro.
E non ti resta che lavartene le mani e sbarazzartene meglio
che puoi. »
E il gelataio, annuendo:
« Il gelato è buono, se preparato come Dio comanda, con amore. Un buon gelataio offrirà del buon gelato a chi ne chiede; un pessimo gelataio offrirà a tutti il suo gelato scadente. E
la nocciola, il pistacchio, la fragola, il torrone... il cattivo gelataio rovina il sapore dei sani ingredienti di una volta, mentre
il buon gelataio ce li restituisce nella loro originaria bontà. E
questo che io sappia è il vero Dio: l’amore che metto nel preparare il mio gelato per gli altri. »
Così parlò il gelataio.
E io, con occhi gonfi di stupore:
« Tu mi parli da filosofo, mio buon gelataio. Ma io non son
qui a conversare di cornetti e granatine. Conosci, per caso, chi
abbia scritto questi pensieri amari? »
E quello, rimettendo in moto il carretto che il temporale era
scampato:
« Non saprei – mi salutò, allontanandosi – ma non conosco
nessuno, sotto il sole, a cui dispiaccia un cono di buon gelato… »
(Continua…)
l’EstroVerso
(49) Dicembre 2015
Andrew Wyeth, Castagne arrosto, 1956
Marilù Oliva, “strizza l'occhio al lettore
che vuole guardare oltre le vicende”
di Lucia Tosi
Marilù Oliva, scrittrice e saggista bolognese, scrive due libri, tra il
2014 e il 2015, straordinari. Non conosco la sua produzione precedente (Repetita, Perdisa Pop, 2009; ¡Tu la pagarás!, Elliot,
2010; Fuego, Elliot, 2011; Mala Suerte, Elliot, 2012; Nessuna
più [a cura di] Elliot, 2013), non sono perciò in grado di formulare
un giudizio su un'avvenuta, o meno, evoluzione della sua scrittura:
ma so che Le sultane e Lo zoo sono due romanzi in sé eccellenti
che, nella loro diversità quanto a ispirazione, scenari, messaggi
(che guaio: dei romanzi che contengono un messaggio!), mi paiono, sulla distanza, ora che è passato un po' di tempo da quando li
ho letti e che tanto se n'è detto (di bene), strettamente intrecciati, o,
quanto meno, essi sembrano due opere inauguranti una specie di
nuovo ciclo (i romanzi del 2010-12 sono incentrati sul personaggio
di Elisa Guerra, la Guerrera, criminologa sui generis): che verrebbe
facile chiamare dei Vinti, per via della scelta del milieu: popolare
nel primo, addirittura freak nel secondo. Dal casermone di via Damasco, a Bologna, in cui tre donne anziane, malamente amiche,
vivono le loro vite tristi, grigie, scontate (fino a che non si rompe la
quiete iniziale, ovviamente), si giunge in un assolato Salento immaginario in cui i protagonisti iniziali, in scena come in una commedia borghese, sono invece dei potenti locali alle prese con un
capriccio mostruoso, che li rende burattinai delle vite di sette freaks
(il plurale per evocare meglio l'omonimo film cult di Tod
Browning, 1932, a cui il romanzo è stato paragonato in molte recensioni).
Il primo fattore che lega le due storie è che in entrambe si indagano
i rapporti di potere: ridotti e rappresentati al loro limite estremo,
che è quando ci corrono la vita e la morte; quando c'entra il corpo,
quella cosa ingombrante e avvilente che le sultane, Wilma, Mafalda, Nunzia, sopra i settanta, trascinano stancamente (il loro), ovvero massacrano, torturano (quello d'altri) per paura di dover rinunciare alla propria vita, per quanto miserevole o, ancora, il corpo
strabiliante, bizzarro, dei freak (e non solo). Un secondo fattore è
che entrambi i romanzi alludono ad altro, sono una potente strizzata d'occhio al lettore che abbia voglia di guardare oltre le vicende.
Intanto i numeri: tre donne, sette freak, numeri perfetti, allegorici,
mitologici. Le tre Parche, sono le sultane, come il narratore stesso
suggerisce, ma anche almeno tre dei sette vizi capitali, se è vero
che, in modo plateale, Nunzia rappresenta la gola, Mafalda l'avarizia e Wilma l'ira, poiché per prima sferra l'attacco a chi ha superato a più riprese un insopportabile limite di mancanza di rispetto
nei suoi confronti. Ma, col tempo, l'elefantiaca Nunzia mostra di
possedere ben più del vizio capitale della gola: è insieme lussuriosa (formula spesso desideri sessuali, per così dire, in absentia, vietandoseli al loro primo apparire), accidiosa (è afflitta da depressione, che è la forma dilagante dell'accidia, nel nostro mondo) e sottilmente invidiosa, nel senso più dantesco del termine, poiché guarda
con curiosa libidine e malevolenza il vicinato, in ispecie gli stranieri. Lo zoo ha invece vizi e virtù rappresentati senza filtri e rimandi
attraverso i personaggi nonostante quasi tutti mostrino una maschera: sia essa il corpo-disgrazia stravagante, sia il ruolo sociale indossato come un vestito e ormai irrinunciabile, si tratti, ancora, di identità incerte anagraficamente o sessualmente. Fortemente intrecciato ai due fattori comuni, è quello del corpo: esso è la declinazione del potere e del simbolo, e dunque del nostro immaginario occi-
cultura
dentale, che è appunto occidentale, cioè destinato al tramonto.
Mentre sulla scena irrompono sgraditi stranieri che ci rubano le
case (come brontola Nunzia), o stranieri attrazione da circo, da
viaggio ai confini del mondo (stando fermi), gli italiani mostrano
tutti i segni della fatica del vivere: dal denaro ossessivamente onnipresente sul loro orizzonte, sia esso troppo o troppo poco, alla
noia che il vizio, l'inettitudine, la soglia del proprio strapotere
spostata sempre un po' più in là, generano. È un mondo arrivato
allo stremo delle energie, che ha spremuto via da sé ogni valore e
si erge a divinità: al di là del bene e del male. E quando dio, o il
sacro, per meglio dire, è tramontato sull'orizzonte umano, l'uomo
si dà degli idoli o si mette al posto di dio, ritenendosi capace di
dare la vita e la morte, di forgiare i corpi, di tagliarli, smembrarli,
riottenendone un qualche prodotto: degli hamburger o una chimera, è quasi lo stesso.
Nessuno vince, propriamente, in questi romanzi: non le sultane,
che vanno raccogliendo cocci, reali e metaforici, non i volgari
potenti e padroni dello zoo, non gli stravaganti esseri seviziati,
malmenati, alterati nella loro alterazione, non i penitenti, non i
giustizieri. Regna il caos nel finale di ciascuno dei libri, il destino
al quale l'occidente si sta consegnando, con la spavalderia di viaggiatori sul ponte di un titanic, senza produttivi piani alternativi,
ma solo, forse, delle vie di fuga.
Su queste storie attraenti, coinvolgenti, curiose, gestite con calma
e concentrazione, aleggia lo spirito di una scrittura fatata, leggera,
precisa, dalle metafore straordinarie, dalle similitudini epiche.
Una scrittura ordinata, classica, esatta, eppure piena di guizzi e di
coraggio. E' la scrittura che amo paragonare al cantoche si presenta come una voce in sé già bella, ma che tutti avvertono possedere delle riserve di energia, di estensione, di modulazione tutte
da esprimere. Una promessa di vocalizzi, di mezzi toni, di variazioni di tonalità ancora da tirar fuori, questo è l'impasto che offre
Marilù Oliva. Quanto è triste, invece, una voce anche bella, ma
senza questo sipario, questo nascosto magazzino stipato di delizie! Così avviene nella scrittura: ci sono talora pagine belle, ma di
cui si percepisce che non promettono nulla di più di quello che
hanno dato. E lo scrittore non ve ne darà altre, né in quel libro, né
in libri successivi: da ciò spesso si genera l'insoddisfazione di chi
legge, l'aspettativa bruciata, l'assenza di sogno. La scrittura sa talvolta risultare esausta al modo di una voce bella, ma priva delle
variazioni necessarie, delle pieghe che le danno spessore: in una
parola, priva di promesse meritevoli della nostra attenzione: della
nostra speranza. Marilù Oliva non solo non delude mai, ma spinge
a fermarsi e a rileggere la densità di un paragone, la suggestione
di un'immagine, la stravaganza dell'invenzione. La scrittrice domina l'impianto onnisciente o a focalizzazione interna, senza farsene un cruccio, sperimentando, pur nell'impiego adamantino delle tecniche, anche una certa libertà, al punto che sia le tipologie
classiche del punto di vista, sia quelle che categorizzano le appartenenze ai diversi generi del romanzo, ne risultano scardinate, mescolate, senza esibizione di rimescolamenti e scardinamenti (che
non usa più), mentre ricompare, oggi necessario più che mai, il
messaggio, questo snobbatissimo oggetto letterario, scomparso da
qualche decennio da tanta brutta (e codarda) letteratura patria,
tranne che in pochissimi casi.
l’EstroVerso
(51) Dicembre 2015
Romana, si ė laureata in Archeologia e storia dell'arte del Vicino Oriente antico, presso Sapienza Università di Roma sotto la guida del Prof. Matthiae. Ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Archeologia Orientale
nella stessa università per poi perfezionare i suoi studi con un Master di II livello in “Architettura per l'Archeologia - Archeologia per l'Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato
alle annuali campagne di scavo in Siria, in qualità di membro della "Missione archeologica italiana a Ebla". Ha poi conseguito una seconda laurea triennale in “Storia dell’arte” ed è attualmente iscritta per il conseguimento
della magistrale. Presso la stessa università tiene annualmente corsi sul rapporto tra l'iconografia e il testo nella tradizione mesopotamica. Si è specializzata inoltre in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista, una professione di aiuto per la lettura e la decodifica delle dinamiche emozionali profonde. Da diversi anni è
operatore certificato di Psych-K. Ha inoltre inventato il “Noli me tangere®”, uno strumento fondato sul potere evocativo delle immagini in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato
Sorso di Notte Potabile, ed. LietoColle. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie, fra cui la recente 42 voci per la pace, ed. Nomos. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo
de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. Ha aderito al movimento mitomodernista, è tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia.
Flaminia Cruciani
Preghiera, rammendo di luce senza fine
La struttura del mio tempo è alterata
nel mio territorio di selce irreversibile
scorre un sacrificio primitivo
zampe di fiera sulla mia
trabeazione di cera liquefatta
scivolerò in corsa su un rimedio
sarò un possesso imbavagliata
crocefissa al tempo
griderò amen girandomi di
spalle alla festa autunnale
senza Dio sarò fuoco a fuoco
gli lascerò in mano la mia vita in fiamme.
Se solo avessi potuto raccontarti di me
ma la morte ruvida aveva
già posato il fiato sul tuo collo.
La campana risuonava forte i suoi rintocchi
e tu allora iniziavi a comprendere
che nella vita è contenuta l’insidia del male
fino ad allora negato.
Quando per la prima volta hai
riconosciuto che il paese delle Saline
abbandonato con l’orologio che
segnava fisso le dieci e ventisette
di non si sa quale giorno
era sublime e che noi lo amavamo
lo avevamo sempre amato senza saperlo
e desideravamo rimanere lì per sempre
proprio ora che lo visitavi per
l’ultima volta te ne rendevi conto.
Erano solo ruderi allora
ma noi in pattini eravamo incantati
e ricordo che ti sei fermato a guardare
come non ti ho mai visto
il tuo sguardo poche ore prima di morire
era già eterno.
inediti d’autore
Se l’adultera convincesse l’ideologia
che l’abitudine è il limite della creazione
e a titoli di donna riscattasse
ogni convinzione in certezza
se le cellule ignoranti di stelle conversassero
in un lessico impossibile a capo del tempo
i figli martiri della nascita consumerebbero
un sudario di ricordi amputati
incinta di segni opposti la madre offrirebbe
la cima per essere abbattuta.
La preghiera è un rammendo di luce senza fine.
S’affannava la ragione
divorata dalle irriconoscibili Flaminie
nella discendenza spettrale
dell'icona travestita aravi
i capelli e spacciavi la bocca per
ginestra sul sangue degli avversari
l’apnea dei miei genitali distratti
tramandati in battaglia
per un sacramento amaro.
Bevi l’erezione calda con cui batti
le donne che affollano il mio corpo
nel mio letto incoronato dall’incendio.
Siediti accanto a me ora
fammi un segno di frumento sulla croce.
Recito il breviario blasfemo della perdizione.
Io sono condannata a vita.
In ginocchio saldiamo la presenza
e abbiamo righe da spendere
in questo pensiero ibrido
che ha inchiodato il mito
la diteggiatura crescente
dei tuoi miracoli atei masticati a corde
dagli infiniti fragili delle stagioni
nel chiostro magnetico del tuo sguardo versato
in tre atti sul mio palato rovesciato
dai fuochi rampicanti
dell’amore che muore.
Tu rubi munito di grano
la mia bocca che sazia i giuramenti
i sacramenti sottili soffi
hai la moneta nuziale in tasca
per ingannare me
che con un bacio ti uccido.
l’EstroVerso
(52) Dicembre 2015
Visione
Distesi uno accanto all’altra
piantavamo stelle come tende
su lacrime sommate
il battesimo del cuore doppio e mutilato
dal dolore degli amanti che chiamano santo.
Si china un mondo nudo contro di me
un mondo implacabile in cerca di un creatore
forse è un inganno, sogno illecito
un’alba senza terra
un’ebbrezza con le mani
protese che vogliono prendermi
un predicatore avaro che ha imparato a volare
è un richiamo, una voce che semina luce in una
sentenza di morte, che risuona dentro come comando
mi smarrisco, perdo il volere
sono in viaggio con la mia identità sbagliata
i respiri al rovescio
il sublime concentrico mi dà la mano
tace il visibile ingenuo
il suo intero teorema è vacante
mentre tu viaggi su un treno di morti.
In prodezze da cento occhi
sono fra nuove genti
giganti di acciaio muovono gli arti
in movimenti solenni e imperiali
torri spietate di reti plumbee
carte geografiche piovono come comete
tutto risponde al mio desiderio,
ho corone ai polsi, io devo andare.
Al fronte dell’invisibile
cedo l’unità di misura dello sguardo
un rosaio di reti blu acciaio
racconta un luogo di silenzio esile mai invecchiato
nell’eruzione del mio desiderio diluvia questa
terra
sulla miniera della mia perfetta sete
il tempo qui è scaduto
le leggi sono innamorate.
inediti d’autore
Mi avvicino e tutto scompare
il suo portamento maestoso si dissolve
in un casto abbaglio
i suoi arpeggi rampicanti sono
maglie del possibile
nervature, innesti di allucinazioni coraggiose
la cui ampiezza è nel mio bramare l’altrove
nel mio dispormi ogni volta
come un angelo crocifisso ai sensi
a sognare l’universo in una zolla di terra
avvolta, moltiplicata un milione di volte
con la volontà di qualcuno che ama
in ogni istante annodato in me.
Mi dici di fissare l’autostrada, i fari, le targhe
sei preoccupato che io possa
scomparire senza lasciare traccia organica
che io possa seguire il verso del fuoco
che mi brucia duro nel petto
che possa dissolvermi come sale
e tu non possa più tenere il mio volto
fra le mani e pronunciare il mio nome
che possa tramontare per quel richiamo
in perfetta umiltà, battendo sul tempo il tempo
andando via dimenticando tutto
guardando sfuggire la vita senza dolore
portata via come su un nastro.
Ma il mio volto non è mai esistito
forse non lo sai.
Insieme piansero il cielo.
l’EstroVerso
(53) Dicembre 2015
Antonella Lucchini nasce a Mantova, dove tuttora risiede, nell’aprile del 1964. Inizia a pubblicare le sue poesie sul web, iniziando con la poetica haiku, dedicandosi poi completamente alla poesia tradizionale mantenendo però
le caratteristiche di sintesi e di illuminazione (per dirla alla Baudelaire che, insieme a Pizarnik, Ungaretti, Pozzi, sono le letture che più l’hanno ispirata). Partecipa ad alcuni concorsi letterari, ottenendo premi, segnalazioni e
l’inserimento di alcune sue opere in diverse antologie. Una sua poesia è inoltre presente nel volume 'L’indice delle Esistenze – Vite in frammenti L’AMORE' dell’editore Aletti. Agli inizi del 2013 pubblica la sua prima raccolta, “Tra morsi e strida”, per la casa editrice REI. “Il margine bianco” (Ed. Divinafollia) è la sua seconda raccolta, con la quale focalizza lo sguardo su Amore ed Eros. In rete, alcune sue opere sono inserite nei blogs
(poesiaurbana, cartesensibili, scrittinediti e wordsocialforum).
Antonella Lucchini
Illuminazioni d’autunno
Pochi versi. Brevi lampi (illuminazioni, appunto, nello stile simbolista) per tracciare gli stati d’animo più
“sentiti” nella stagione dove tutto sembra precipitare: le foglie, l’umore, il sorriso.
Autunno, la stagione antagonista della Primavera (la rinascita). La stagione dove il “male di vivere” si rinvigorisce, si amplifica. Mesi pieni di simbologie, e non solo per i poeti, in cui le vicissitudini esterne, climatiche, assomigliano a quelle interiori. Si smorzano i contorni delle cose, sperse nella nebbia che spegne i
colori ed uniforma il paesaggio, si appiattisce l’umore che si fa scolorito, apatico; l’imbrunire è confacente
alla malinconia, la carica; la pioggia riga l’anima.
La sintesi poetica, oltre ad esprimere l’ermetismo e , ancora, il concetto di poesia come illuminazione, in
questo contesto si fa carico anche di trasmettere l’esiguità della forza, la perdita del contatto (della volontà
del contatto) con l’elemento esterno, a favore anche di un certo piacere nell’accoccolarsi dentro se stessi e
lì restare, per superare la stagione delle ginocchia sbucciate, il più possibile indenni. Si lascia alle poche
parole scritte la loro autonomia (a volte una parola un verso) la loro assolutezza, la loro potenza del non
ritorno (“mi muore il cuore” piuttosto che “mi cancella dall’aria”). Poesie a sottrarre, per sottrarsi
all’inevitabile desertificazione autunnale, ma con una sufficienza di parole che dicono il necessario per urlare, in un unico fiato, la pena della caduta.
(Antonella Lucchini)
*
La semiluce
di quando il sole si allontana
da me
il suo rollio atroce
mi cancella dall'aria.
*
Mi pulsi ai timpani
novembre
con i tuoi colori deserti
lancinante hamlet
in un’urna di nebbia.
inediti d’autore
l’EstroVerso
(54) Dicembre 2015
*
Quando la sera si semina
*
Mi si siede dentro
sibilando
di vapore
questa pioggia
appuntita
mi muore il cuore.
che sventra la terra
e mi allaga.
*
Nove novembre
*
allitteri
con la mia folta tristezza
Cade
e mi sbianchi.
autunno
coperchio senza cielo
che lacera
e trafigge.
inediti d’autore
l’EstroVerso
(55) Dicembre 2015
Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, consulente presso A.I.E.D. di Roma; traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli pubblicati su Rivista di Psicologia Analitica e Rivista Fermenti; ha pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn
Pasterius; ha pubblicato “Lettera dal Ponto” in AA.VV., Monologhi da camera e da volo per Giulio Perrone Editore; è autore di due presentazioni di mostre fotografiche svoltesi a Roma e Parigi; alcune sue poesie sono presenti
in rete su “Il giardino dei poeti” e “LaRecherche”. Vive e lavora a Roma. Il suo blog personale http://scrivereperimmagini.wordpress.com/
Da lontano una vita
Giovanni Baldaccini
In genere saluti. Per cui, volgersi altrove.
L'anno scorso a Parigi: solito caffè. Quella s'accosta
come niente fosse. Entra.
Jean Pier, da solito pacchiano polifonico mi fa: hai
visto?
Distratto dal cucchiaino nella tazza, replico (tanto per
contraddire): cosa?
(Sgrana gli occhi): oh be'!
Quindi propongo di assumere la gestione del locale,
in modo da non perdersi altre apparizioni e comunque
fare qualche cosa.
(Stupito): allora hai visto!
Costa a vista: invertire la rotta.
di libri. Anche questa potrebbe essere una variabile. I libri potrebbero infatti servire a colmare i cinquemila metri, assicurando una caduta morbida o a riempire l'incolmabile inutile del
tempo. Detto per inciso, entrambe operazioni impossibili.
Quando esce, il polifonico Jean Pier non si trattiene = prolungato irriferibile fischio.
Quella si gira e sorride. In breve al tavolo con noi. Chiacchiere, biscottini, caffè. Quindi la invola, mano sui fianchi ed
altro.
Quanto a me: contare bricioline sul selciato.
Non leggevo Salgari; meglio "I ragazzi della Via Pal". Dovrei averne una copia qui sotto, in caso di bisogno. Tuttavia,
oggi mi sento più simile a Franz Tunda, quello di Roth
(specifico: Joseph) che nella capitale del mondo risultava del
tutto superfluo. Si si: mi sembra adatto.
Vela dispiega lugubri lamenti tesa da vento assiduo
in quota alterna. Qui e là: increspature.
Intanto s'appiattiva il circostante sempre mellifluo: mare.
Vento alla fonda indugia in altri luoghi e le sirene hanno altro
da fare che spingere il sottoscritto. Dunque, piuttosto statico.
Sbatacchiava convinta: onda di prua ed altri forsennati filamenti di non so bene cosa (probabilmente, stratosferiche creature d'oltre mare avvinghiate alla chiglia).
Mi viene in mente stitico. Perché no, con la dieta risicata
che seguo...
Di sotto: rumorini. Inutile affacciarsi. Notte s'appressa e dunque: soliti incubi.
Mastodontico e cangiante divampava d'azzurro
(piuttosto imperterrito: sole). Inquieto: mai una posizione precisa. D'altra parte le stelle: non diverso.
Orientamento inabile. Mai orientato davvero.
Notte sorpassa notte e la giornata s'affaccia al traballante incerto volo. Vento alto s'abbassa (però la vela tiene).
Anche da bambino. Cioè, estenuanti sedute sul vasetto. Resistevo eroico.
Mai superata davvero la mia infanzia. E il corridoio buio:
una paura da matti. Non ci fosse stato mio nonno a percorrerlo
con infinita pazienza, sera dopo sera, ed i suoi passi rassicuranti, non avrei chiuso occhio. (Il panico ha un colore verde blu,
con striature giaòe fondo nero, tipo certi insetti sgraditi).
Avessi una seghetta di precisione frazionerei l'incerto
orizzonte già velato per farne più sezioni. A volte riconoscere è utile, specialmente se s'appressa una tempesta.
A Marrakech c'erano troppo lune. Inoltre, di diseguali variabili colori. Io m'avvinghiavo all'aria roteando la corda ancora
tesa come una variabile incostante. Quella guizzava, sbattendomi ogni dove, ma io niente: testardamente appeso. Molti applausi intorno.
Non ce l'ho. Dunque legarsi all'albero e preparare
variabili per la sera.
Quindi a cena, nei vicoletti spenti del mercato: tracannare.
Spiedini anche.
Eh sì! Occorre inventarne di cose per sopravvivere
sospeso sull'abisso (qui sotto saranno almeno cinquemila
metri). La Fossa delle Marianne: il doppio, ma ancora
non ci sono arrivato. Meno male che ho riempito la stiva
inediti d’autore
Qui si potrebbe inventare una canzone. O una storia non
spesa. Malinconico alquanto, pizzicavo le mie corde slegate da
una chitarra viola (l'avevo chiesta al cameriere poco prima).
Dunque inventare storie, al suono bandolero di un addio.
Piacciono soprattutto quelle di mare.
l’EstroVerso
(56) Dicembre 2015
Che sciacquola, straborda, sdilinguisce le mie penne
annodate. (Doccia assicurata ad ogni onda). Nessun gabbiano in vista.
Ogni tanto si univa a noi un russo (i russi sono degli
asiatici francesi) pieno di tracotanza e nostalgie.
Sedeva deciso tra me e Jean Pier, trangugiando liquori e sigari, e intavolava conversazioni accese; tema: letteratura e poesia.
Non molto propenso al compromesso, asseriva la
grandezza degli scrittori e poeti russi sovra qualsiasi altro sciagurato che avesse tentato di misurarsi (forse, non
senza grandi torti). Jean Pier, imbevuto com'era di Parigi, opponeva Apollinaire e il suo Ponte sul tempo.
Quanto a me, incline al Sud America.
Dove potrei dirigere ora. Senza gettare l'ancora.
Comunque soffia: raddrizzare alla meglio.
E notte passa, con quello che comporta.
Quando s'aggiusta: perché non mi sono lasciato anda-
Be', non dovevi farlo: andarsene è cosa complessa. Occorre preparazione,
discuterne, almeno. Magari qualche lettera, sai quelle cose che vanno imbucate
nella cassetta al portone e aspettano. O anche un'istanza di preavviso, una notifica, una sera speciale. Ma così...
Lo so, quando la morte arriva non fa segni; quelli li vedi dopo.
Andarsene allora, magari per mare, allertando conchiglie e cianfrusaglie.
A volte ininterrotta: la notte.
Ci tornavo ogni giorno a quel caffè. Anche Jean Pier (la bella l'aveva mollato
a primavera, quando le ali delle rondini spiazzano l'aria e i nostri lineamenti).
Che guardavamo pigri, ridendo sotto i baffi, come per dire: illuso, ognuno
riferendosi alle illusioni dell'altro, spettralmente ignaro delle proprie.
Si discorreva a lungo del non essere vago della vita, tanto per darsi un tono
alla Jean Paul. Qualche volta era come se aspettassimo il passaggio di un reggimento, per dimostrare la ciclicità del tempo, di modo che uno di noi potesse
andare ad arruolarsi come quel personaggio di Céline che si ritrova senza volontà a fronteggiare la morte, lasciando l'amico al bar e al sicuro. Nietzsche sarebbe
stato contento. Anche Vico. Eraclito no: per lui tutto fluisce e non ritorna. Credo
abbia ragione. Tuttavia, noi tornavamo sempre. Fino a quando si può. Poi non
resta che il mare. E una ciabatta al posto delle scarpe. Dimenticavo: finiva sempre con un sorso di anisetta: come una goccia verso l’incontrario.
re?
Dove diavolo sei!?
Qualche volta su un treno. Sali, scendi, sali di nuovo,
poi riscendi: si arriva sempre a un binario morto.
Allora a piedi: nello spazio d’immenso. Stelle a cataste coprono la notte; infinita la tua desolazione.
Dannatamente piccolo: come i piedi che vanno. E gli
occhi colmi di stupore antico: qualche villaggio a sosta.
Tu dirompevi da pupille enormi, fonde come qualcosa che non c’è. E mani che sanno della vita. Che ignoro:
non potevo restare
Zero diviso zero uguale zero. E tuttavia, un risultato
lo dà.
Lo so, tradimenti, inganni, incostanze, sbandamenti, sogni, menzogne, voluttà di strada, cazzate a colazione, notti insonni: tutto il repertorio. Ma tu, dove
diavolo sei?
Da lontano una vita.
Declinava indeciso. E le falene senza alcuna luce. Dunque, dicevo: notte.
Come un insetto cieco vi cercavo tra le cangianti divergenti sempre = nubi
ad oltranza ad est.
Senza attendere molto. Che le prime già tracciano le rotte. Vengono a morire
qui.
M'arrampicavo inquieto albero come fonte di visione. E le mani protese.
Per la pittura non c'era alternativa: Chagall! Ovviamente Jean Pier sosteneva la causa degli Impressionisti.
E Turner?
Ricordo anche, in giornate svagate, le discussioni su
Stravinskij e Ravel. Sulle donne però andavamo d'accordo: come liuti slanciati.
Potessi afferrarne una! Di voi, cadenti stelle, troppo deluse per volare ancora.
Ne cambierei la sorte, spingendola verso l'abisso nero senza fondo accertato
firmamento ed avvinghiato alla sua poca polvere mi farei trascinare nell'assurdo
troppo inviolato per essere davvero quel che appare. E rilanciare: forse troppo
lontano.
inediti d’autore
l’EstroVerso
(57) Dicembre 2015
Franz Krauspenhaar, 1960 Milano, è autore di vari romanzi come Era mio padre (Fazi) e Le cose come stanno (Baldini e Castoldi) e di alcune raccolte poetiche, come Effekappa (Zona), Biscotti selvaggi (Marco Saya Edizioni)
Le belle stagioni (Marco Saya Edizioni).
Franz Krauspenhaar
La notte ho sognato elefanti
La notte ho sognato elefanti
tutto un gomitolo animale
lungo la strada. Negli occhi
avevo la gioia di chi ritrova
un'infanzia perduta.
Ieri notte ho sognato piccoli
elefanti, in Thailandia, carezzavo
la loro testa e il ragazzo in groppa
sorrideva al sole.
D'improvviso mi ha trafitto
un ricordo di tanti anni fa
in Francia un incidente stradale
un cartoccio di zucchine falciate
dalle ruote di un camion di traverso.
Avevo frenato per la strada scoscesa
decine di metri, e il nero dei miei
pneumatici finiva nel bosco, tra i faggi,
e serviva agli uccelli per riposare.
Mio fratello era appena morto
e forse tentavo nel cunicolo del cuore
di raggiungerlo; una ventosa aspirava
da dentro il cuore e le animelle,
nella testa friggeva il sangue e la nausea
continuò per ore, specie all' ospedale.
Questa notte ho sognato altri elefanti,
avevano negli occhi una luce bucata
dai faggi, poi hanno messo una maschera
di pneumatici, neri, per non vedere:
ero così infelice che avrei voluto morire
un'altra volta. Poi la testa tirò verso il cielo,
c'erano miliardi di stelle nascoste
sotto il velo, mi svegliai nell'aria,
in questo mondo perduto.
inediti d’autore
l’EstroVerso
(58) Dicembre 2015
Ben Aronson, Donna alla finestra
Giulia
da “Badanti” di Letizia Dimartino
Ha labbra segnate da un rosso infettato. Una lunga linea nera su occhi socchiusi. La pelle a chiazze chiare. Una gonna stretta e
leopardata, collane che pendono da un collo raggrinzito. Muove le mani Giulia, e le unghie dallo smalto infuocato oscillano davanti al suo viso devastato.
Parla un italiano quasi corretto, ha denti gialli. La saliva si raggruma agli angoli della bocca. La signora T. acconsente. Che
qualcuno la aiuti. Giulia non si lava mai, Giulia ha rischiato di morire in un incendio mentre spruzzava alcool sulle fiamme di un
camino in una campagna sperduta, in una casa abbandonata. Il viso è stato investito subito, e poi i seni pallidi di rumena, le
braccia abbronzate. I cappelli le cadono a ciuffi nerissimi. Ride sguaiata. Il suo corpo emana l'afrore del sonno. Del caldo asciugato, dei vestiti non lavati.
Dorme sul divano, getta coperte su di se, senza usare lenzuola, guarda la tv per ore ed ore, chiude gli occhi e si gratta le gambe.
Giulia esiste per caso. Giulia non prepara il pranzo. Non sa fare la spesa. Il suo respiro è un ronfo di gatto. Bisogna insegnarle
tutto. Si è salvata in un ospedale in cui tutti hanno dato l'anima per ricostruire i lineamenti di un volto che non c'era più. Lei
piange al ricordo, ma subito dimentica. Ha nell'armadio vestiti improbabili, borse di lucidissimo rosso, ma vive in tuta e lacca le
unghie lunghissime, mette paura nelle sere di luna.
Giulia mente ma non lo sa. Non conosce la verità. Si avvolge nelle coperte e vi suda dentro. Poi si guarda allo specchio e unge
di rosso il labbro che è stato ricucito, che pende irriverente. Non prepara il pranzo, non sa cosa bisogna comprare al mattino. La
signora T. dimagrisce, ha una schiuma nera in bocca. Giulia la guarda e le bacia le guance lasciando un filo di saliva. Poi si attilla sul corpo una maglia argentata e sprofonda sul letto, al buio, anche quando splende il sole sulla veranda. Non guarda la vallata, non il cielo. La signora T. sembra si spenga. I medici non capiscono cosa sta succedendo. Giulia li guarda con occhi stupefatti e giura e giura di amarla e accudirla. Lascia morire la sua signora. Negando tutto.
In un pomeriggio di settembre raccoglie le sue cose, indossa un piumino di lucido nero, raccoglie i capelli scurissimi in una
crocchia morbida, mette a tracolla una larga borsa rossa e cammina veloce ticchettando sui tacchi sottili. Il medico sta vicino
alla signora T. Lei invece scappa trionfante. Telefona ad un amico e in mezz'ora è sul portone, trascinandosi i borsoni gonfi.
Non vuol sapere, non guarda il medico che la segue allibito. Piange solo per un attimo, asciuga le lacrime tinte di nero e scappa.
Giulia che non ama.
inediti d’autore
l’EstroVerso
(59) Dicembre 2015
Renato Pennisi è nato a Catania nel 1957. Vincitore del “Premio Eugenio Montale” nel 1986 per la poesia inedita con la raccolta Letture senza spartito, poi inserita nell’antologia 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1987), ha successivamente pubblicato i libri di poesia La correzione del saggio (Tringale, 1990), Mai più e ancora (Edizioni l’Obliquo, 2003) e La
notte (presentazione di Giovanni Tesio, Interlinea, 2011). E’ anche autore dei libri di poesia in dialetto siciliano Allancallaria (Prova d’Autore, 2001) e La cumeta (premessa di Franco
Loi, Edizioni l’Obliquo, 2009); e dei romanzi, pubblicati da Prova d’Autore, Libro dell’amore profondo (1999), La prigione di ghiaccio (2002) e Romanzo (nota di Gualtiero De Santi,
2006). Per il teatro ha scritto Oratorio di resurrezione (Edizioni Novecento, 2015).
Renato Pennisi
La poesia nel tempo presente
Cara Grazia, caro Luigi, ne avrei di cose da dire sulla poesia che vorrebbero uscire tutte insieme e mi causano una specie di afasia. Allora calma, devo rilassarmi, e partiamo. Meglio
annotare poche cose, quelle che mi bruciano maggiormente.
La prima questione è come giustificare la poesia nel tempo presente. Il Novecento è stato il
secolo della decima musa, il cinema, che ha fagocitato l’essenza stessa delle altre arti, le ha
rimodulate e modellate secondo le proprie necessità. Il teatro è stata la prima vittima, e poi la
letteratura tutta, quella che racconta, quella che rappresenta, quella che incarna la ribellione e
le insoddisfazioni. E poi la musica, divenuta colonna sonora, e poi le arti figurative divenute
scenografie, come nello smagliante Barry Lindon di Kubrikc e nell’espressivo L’anno scorso
a Marienbad di Alain Resnais, pittura che diviene fotografia e quindi fotogramma, e quindi
movimento e azione. E poi la poesia che è il fremito, l’accensione improvvisa e violenta che
attraversa le arti, la bellezza che ci sopraffà, il timore di star male per una emozione che ci
rivolta. E tutto questo lo sapevano quegli artisti che hanno abbracciato il cinema, ci si sono
nascosti dentro e hanno raccontato, animato, suggestionato come De Sica e Chaplin, come
Pasolini.
Il cinema si è cibato di tutto questo per l’intero secolo scorso, ha messo tutto il resto
all’angolo. Non c’era più necessità del melodramma, perché il cinema è melodramma, e neppure del teatro, e neppure della poesia perché c’è più poesia in Baaria di Tornatore che in
decine e decine di libri di versi che nessuno ha voglia di leggere.
Il dato drammatico, a mio parere, è che il cinema è stato a sua volta aggredito, e questo nessuno se lo aspettava, dai nuovi media. Ma Internet non è un’arte, è una tecnologia che non
attrae il meglio e il misterico delle arti come ha fatto il cinema, ma la attrae la spazzatura, le
sconcezze, il violento. Si dirà che ci consente di simulare la visita in un grande museo, ecco
l’altro problema. Mentre il cinema, la fotografia, la musica, il romanzo creano, Internet simula contaminando decine di canali televisivi che si sono configurati, scopiazzandone gusti
e nevrosi, alle migliaia e migliaia di siti visitabili. Mi chiedo, ma come si fa a stare un’ora
davanti alla televisione a vedere come si cuociono i biscotti in California, o a sentire le disquisizioni sulla statica di un ponte su un fiume in Oregon? O ad assistere alle pruderie degli
adolescenti (proposte ad arte per provocare senili reminiscenze e voyerismi), o a come ci si
può tatuare la pianta dei piedi? Non è che tutta questa millantata ampia possibilità di scelta
non nascondi in realtà il nulla del nostro tempo?
Io che sono cresciuto e stavo per invecchiare quietamente davanti alla televisione mi trovo
spaesato a fare zapping per qualche ora senza trovare nulla di appetibile. Che tutto questo
accada perché è stata espulsa la poesia, cioè l’immaginazione? Mi impressiona riflettere sul
punto che appartengo a quella generazione che sognava, e gridava per le strade slogan come
Vogliamo l’immaginazione al potere. Perché mi pare che oggi, in questo mondo spaventato,
i consumi vengono orientati a soddisfare le proprie curiosità, anche le più morbose e, una
volta ma oggi non più, indicibili.
Parlare di poesia oggi ha senso, mi pare, soltanto se si ha ancora voglia di mistero, di sogni,
di utopie. Perché il mondo che vedo oggi, dove non ci sono più guerre fredde ma tremendamente calde, è un mondo che ai giovani non piace ma da cui sono irrefrenabilmente attratti.
Perché il mondo di oggi non ha più il Muro, e infatti sbucano da tutte le parti esaltati, popoli
che non hanno nulla da perdere, mentre l’Occidente si strenua in appassionanti, si fa per dire,
polemiche sull’obesità, sui nuovi piatti esotici etc. ect..
Personalmente la poesia che continuo a leggere mi sembra per lo più minimalista e disimpegnata. Questo, negli anni, mi è diventato sempre più insopportabile. Il collocarsi all’angolo è
la chiara premessa per scomparire.
(Renato Pennisi)
inediti d’autore
l’EstroVerso
(60) Dicembre 2015
Le donne sono scese dai loro suk
variopinti indossano i nostri capi
d’acqua torbida
c’è animazione nei viali da basso impero
una sorta di pericolo impaziente
tra le ringhiere va una foglia sospesa
le scivola dentro una goccia della
pioggia prossima sui tetti.
Il paese delle sterpaglie
pochi alberi, caseggiati
sui costoni impervi
luoghi che la solitudine li esasperano
e nella tranquillità galleggiano
le parole
una ricchezza dilapidata.
Sono preferibili
- per quanto ci abbia messo
tutta l’attenzione possibile le cose che non evocano
perché morire è sparire
dalla pagina, l’angolo piegato
la parte migliore
del libro, indiscutibilmente
lo sanno tutti dall’altra parte
del mare.
inediti d’autore
È sui ruderi
la linea degli eventi
corrono i desideri da occidente
da oriente le genti, i musulmani
col muro è finita la paura
anche l’equilibrio, la perenne attesa.
Un po’ di tempo ci vorrà
dominano gli investitori
i fili stretti delle banche
e anche il valore per la mano
che stringe ogni moneta.
Lo scirocco libico ha velato
di sabbia rossa le finestre e il limone
l’umidità della notte ne fa
un fango sottile, secca poi a giorno
crepa, sfalsa i colori
delle auto ferme.
La pioggia la raccoglie
sotto il marciapiede, ne è rimasta tra i capelli
ne è nota la provenienza
ma lo scirocco spesso torna
la solleva la porta altrove, la scaglia
contro le scogliere
la soffia fino a Stromboli, e oltre.
Bisognerà rifarlo il bucato
e stenderlo di nuovo.
l’EstroVerso
(61) Dicembre 2015
La Bananottera
di Maria Lucia Riccioli
Illustrazioni di Monica Saladino
VerbaVolant Edizioni
Nana è una balena un po’ particolare: è nata, infatti, in una notte di
luna piena ed è… tutta gialla, come una banana! Il suo colore originale le da qualche problema con le altre creature marine ma quando, grazie al suo coraggio, salverà il mare da un grave pericolo tutti
la considereranno un’eroina! Attraverso una storia tenera e avventurosa i bambini impareranno il valore della diversità e l’importanza
della tutela dell’ecosistema marino. Alla fine del volume, infatti,
trova posto un allegro decalogo per invitare i più piccoli al rispetto
del mare e delle sue creature. È possibile scaricare dal sito della
casa editrice un ebook in pdf con giochi e approfondimenti. Uno
strumento che vuole essere anche un prezioso ausilio didattico per
le maestre o per i genitori più attenti.
A letto paurosi!
di Isabelle Bonameau
Traduzione di Tommaso Gurrieri
Edizioni Clichy
Come si fa ad andare a letto tranquilli quando si ha paura dei mostri?! «La tua gattina Sufi veglia su di te», ha detto la mamma a Zélie. Va bene… allora in viaggio verso il bosco dove si nascondono i
mostri! Con un letto magico e una gattina come guardia del corpo
tutto è possibile… nel loro cammino Zélie e Sufi incontrano a turno
la strega, l’orco e il lupo cattivo. E ogni volta Sufi diventa grande
grande e ruggisce come una leonessa. Roaaaar! È meglio che i paurosi se ne restino a casa loro! Forza, tutti in fila, mettetevi il pigiama e
a letto! Una narrazione scandita dall’eloquenza delle illustrazioni, dal
prodigio perenne dell’amicizia grazie alla quale è possibile ridurre in
pigiama tutti i mali con l’idea velata che al risveglio Adele (e con lei
tutti i piccoli lettori) non vedrà che il bene.
Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà
di Luis Sepúlveda
Guanda Edizioni
La nuova favola di Sepúlveda racconta la storia di un bambino e di un cane. Il bambino è un
piccolo mapuche, fiera popolazione cilena che da sempre abita quelle terre; il cane, di razza, è
il suo compagno di giochi, e il piccolo stringe con lui un intenso legame di amicizia. In questa
regione del mondo, però, sono tempi duri e uomini dal cuore di ghiaccio decidono che non è
possibile che un bambino mapuche sia il proprietario di un cane così pregiato. I due vengono
separati, e il cane inizia una vita di sofferenza, fino a quando, addestrato dai suoi nuovi padroni
alla caccia ai ribelli e ai fuggitivi, ritroverà il suo grande amico, diventato adulto e capace di
scelte coraggio-se, e gli dimostrerà ancora una volta la propria fedeltà. Una nuova favola di
Sepúlveda, fondata sul valore della fedeltà e della solidarietà, e sul rispetto per la terra che abitiamo e per tutti gli esseri viventi che la popolano.
leggodico Junior
segnalazioni librarie
l’EstroVerso
(62) Dicembre 2015
Il gatto Geremia
Fiori bianchi bacche di caffè
di Alessio Grillo
Algra Editore
Geremia è un gatto che si crede una grossa tigre spaventosa e, come
tale, cerca di far udire agli altri il suo ruggito terrificante. Geremia
inventa persino un mondo fantastico intorno a lui: basta poco a trasformare il flusso delle automobili, nelle ore di punta, nella fuga
imbestialita di una mandria di bufali. Purtroppo, ogni suo tentativo
di spaventare chi gli sta accanto si traduce in una nuova risata: gli
stessi amici gatti con cui è cresciuto e che lo conoscono da sempre
non fanno che prenderlo in giro. Un giorno Geremia incontra, finalmente, l’amico che aspettava da tanto tempo e che lo comprende
fino in fondo, il pesciolino Marlin, sognatore come lui, che desidera
scoprire la vita di città. È grazie a Marlin che Geremia riuscirà a
salvare i suoi amici gatti dalle grinfie di Ginetta, l’antipatica figlia
del parrucchiere. Da quel giorno in poi verrà amato per la sua unicità, restituendo all’amicizia il suo valore fondamentale.
di Pia Parlato
Illustrazioni di Angelo Ruta
VerbaVolant Edizioni
Edito in co-branding con Moak, azienda produttrice di caffè di Modica, questo libro che è oggetto di design prodotto su carta Favini
Crush ecologica fatta con gli scarti del caffè (cartella-copertina) e
con gli scarti degli agrumi (interno). I LibridaParati sono fogli
70x100 piegati e contenuti in una cartellina interamente illustrata: al
dispiegarsi del foglio si snoda la storia fino ad arrivare all'ultima tavola che è anche un Poster. Fiori bianchi, bacche di caffè coinvolgendo il lettore in un percorso sensoriale (toccando la carta e leggendo la descrizione delle piantagioni fatta dall’autrice Pia Parlato si
può quasi sentire il profumo dei fiori e gustare l’aroma del caffè
mentre viene catturato dai colori d’Africa e d’Europa dell’illustratore
Angelo Ruta), racconta la storia struggente e poetica di due sorelle
nate in Africa in un villaggio che vive della raccolta del caffè. Vengono evocati i profumi e i colori del caffè prima che diventi il chicco
marrone, la polvere e la bevanda che noi amiamo. La vita, con le sue
inaspettate curve, le porterà a dover coltivare il ricordo l’una
dell’altra e in questo saranno fatalmente aiutate dall’elemento che le
ha sempre unite oltre all’amore: il caffè.
Rossini Piano Pianissimo Forte Fortissimo
di Lina Maria Ugolini
Illustrazioni di Giorgia Biancini
Edizioni rueBallu
Prima che Rossini diventasse il genio che tutti conosciamo, da bambino fu un
gran birbante, vivace al pari della sua musica. Questo libro, frutto di verità biografica e invenzione narrativa, scorre lungo gli anni 1792-1804. Presentiamo al
giovane lettore un personaggio giocoso, già incline al gusto della buona cucina
e della musica, un bambino segnato da un singolare destino, quello d’essere
nato durante un temporale e in un giorno non comune: il 29 di febbraio. Circostanze queste determinati per la nostra storia, scelte per presentare la musica
del grande maestro di Pesaro come il risultato di un tempo di formazione prezioso. La nostra ipotesi è che forse furono proprio tali segrete circostanze a fissare quelle note nella memoria del futuro compositore, ricordi d’emozioni che
in seguito si concretizzeranno nella forma eterna dell’arte musicale. Rossini
amò soprattutto l’energia della vita ed è proprio quest’energia che esplode ancora nei suoi famosi Crescendo così fragorosi e leggeri. Questa storia vuole
inoltre ricordare che egli fu tra i primi musicisti a far piovere in teatro con le
nuvole di un’intera orchestra, espressione di una sorte annunciata che molti
ignorano e pochi immaginano (dall’Ouverture).
Illustrazione di Giordana Galli
Biblioteca Birichina
di Anna Baccelliere
Ciao, ragazzi! L’aria di dicembre è frizzantina al punto giusto e ci preannuncia il sapore delle lunghe
serate invernali in compagnia di amici o di un buon libro. Ma prima del mio consueto suggerimento,
voglio farvi subito una domanda a bruciapelo. Conoscete Paola Zannoner? Credo proprio di sì, visto
che è una tra le più conosciute scrittrici per ragazzi in Italia e non solo. Nel mese di ottobre è stata ospite della mia scuola per un progetto lettura ed ha letteralmente affascinato gli studenti con il suo straordinario modo di affabulare. Mentre lei raccontava, ho visto alunni pestiferi ascoltare rapiti e con la
bocca aperta. Seguivano con grande attenzione i suoi discorsi perché Paola riesce a rapire gli adolescenti con le sue parole sia che scriva sia che parli. Il momento delle domande all’autrice è stato, senza
dubbio, il momento più interessante perché è cominciato un dialogo bellissimo sul libro “A piedi nudi,
a cuore aperto”, edito nello scorso maggio da De Agostini editore. Il romanzo racconta la storia di Taisir, un giovane arabo palestinese e di Rachele, una ragazza italiana. Il loro incontro avviene casualmente in una piazza, poi i due giovani si ritrovano al Liceo che entrambi frequentano nel centro della città.
Rachele si innamora di Taisir che in passato ha conosciuto la sofferenza e l’odio. La ragazza tenta di
tutto per conquistarlo, ma il fatto che lei sia di origine italiana sembra costituire un problema per Taisir.
La tenace Rachele però non si arrende. Il suo obiettivo prioritario è quello di dimostrare che le differenze socio- culturali non esistono quando c'è l'amore. Una prosa che avvince quella di Paola e che trasporta il lettore in una dimensione quasi reale. Nel suo romanzo la Storia, quella con la S maiuscola, si
piega alle vicende del quotidiano per frammentarsi in piccole storie, piccoli tasselli di un grande puzzle. Come va a finire tra Taisir e Rachele? Naturalmente non ve lo racconto…
Ehi!... Ma dove siete? Non mi dite che siete già andati in libreria?!
A presto, miei cari, e buona lettura e buone feste!
notizie letterarie
l’EstroVerso
(64) Dicembre 2015
Leggodico
segnalazioni librarie
Tre decenni. Scritti politici
Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso
DeriveApprodi
Quelli raccolti in Tre decenni sono la quasi
totalità dei testi di tenore variamente politico consegnati dallo psicanalista Elvio Fachinelli (1928-1989) alla carta stampata
(quotidiani, settimanali, riviste): di questi
sessanta testi (dall’articolo al saggio, dal
diario alla conferenza) cinquanta erano praticamente introvabili, mentre i restanti dieci
sono comparsi in antologie ormai non più
in commercio. Rivolta studentesca, lotte
operaie, speranze e accelerazioni negli anni
Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta: questi fondamentalmente i temi trattati, con un approccio per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano una
realtà in continuo movimento. Non quindi storia, e men che meno
enciclopedia – piuttosto un mosaico formato dallo sguardo obliquo
di uno straordinario psicanalista. Che della psicanalisi e di Sigmund
Freud ha adottato la capacità di cogliere i particolari illuminanti, gli
imprestiti delle esperienze altrui, le persistenze di uno stile
nell’alternarsi dei periodi. Tre decenni, appunto, che nella sua attività «giornalistica», col senno di poi ma la curiosità del momento,
sezionò e ricompose, in una versione lieta e spietata del carpe diem.
La distanza delle orme
di Marco Bellini
La Vita Felice
La discreta chiocciolina collocata sotto i
titoli della raccolta e delle singole sue
partiture, quella @, costituisce una sorta
di occhiolino a te rivolto perché, volendolo, tu possa soffermarti, aprirti un varco tra la carta e il silicio, il testo e il tasto,
e provare a sconfinare, facendo su e giù,
à la recherche del senso perduto, quel
senso (il sesto? il millesimo?) che la poesia è ancora in grado di attivare ed esperire dentro il meandro di segni in cui
s’accuccia la sua vocazione profetica/
profatica. [...] Non lasciarti però distrarre dal movimento del ludus
belliniano, che non è affatto fine a se stesso, come ogni gioco che sia
frutto d’intelligenza simbolica: la rete dei rimandi infra-testuali e
degli andirivieni info-testuali è stata allestita sull’onda di almeno due
nobili e sostanziali motivazioni [...] (dalla prefazione di Lino Angiuli). I testi di Marco Bellini si nutrono di un sostanziale ottimismo
verso la vita degli uomini e delle loro ragioni, di un universale spiritualismo che impregna ogni cosa della vita e della non vita; eppure la
risposta è solo un’eco di ciò che fu la vita, vibrante per un attimo
come gli epigrammi delle lapidi greche del quinto secolo, i ritratti
delle mummie del Fayum, il coro dei morti di Federico Ruysch, le
voci dei trapassati nel cimitero di Spoon River. (dalla postfazione di
Sebastiano Aglieco).
La prova del bianco
di Anna Vasta
Le Farfalle
La raccolta di questi pensieri e aforismi di Anna Vasta è il frutto, splendido, di una riflessione inesorabile
sulla poesia e sulle tensioni dell'esistenza che solo la poesia può portare.
Qui aforisma non significa pensare
breve, ossia un coup de scène che
paralizza il lettore, l'istupidisce o lo
irrita, ma lenta ripresa di situazioni e
concetti che, come intorno a un mandala, proseguono per gradi verso un
centro: è il rosario dei pensieri che si
sgrana nel tempo della cosa stessa. Impercettibilmente, s'innesta
quell'arte di arrivare alla fine delle cose, dei rapporti e di noi stessi,
così necessaria, così autentica, che porta il lettore negli inevitabili
abissi e precipizi dell'umano quasi senza accorgersene. E il coltello
della disperazione, immerso nelle carni della vita, produce inaspettati istanti di poesia. Lama che ferisce e lama che risana, anche se
per un istante, questa è la poesia! Sospinti in questo perfetto circolo,
che però è una risalita dal Maelström della devastazione, anche noi
siamo portati ad emettere una condanna verso la compiuta rovina
del mondo, ma nello stesso tempo ci rassereniamo, perché, con rigore ed eleganza, Anna Vasta ci fa capire che serve ben altro che
quella misericordia, o salvezza, che potevamo trarre dalle esauste
riserve della pietas (dalla nota introduttiva di Paolo Manganaro).
In difesa della poesia
di Percy Bysshe Shelley
Mimesis
“I poeti sono i sacerdoti di un'ispirazione
misteriosa; gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sula presente;
le parole che esprimono quello che non
intendono. I poeti sono i misconosciuti
legislatori del mondo”. Uno scritto teorico
e denso della poesia romantica che ha reso
famoso Percy Shelley. Da cosa deve difendersi la poesia in epoca romantica e
oggi? Da ciò che è già noto, misurato,
squadrato, sostiene Shelley, indicando
così in modo ancora poetico e penetrante
il campo della ragione. La poesia si nutre dell’ignoto e delle nostre
sensazioni a contatto con le nuove scoperte dell’animo. Ma ciò che
Shelley propone non è un rifiuto del logos, della speculazione. Ragione e immaginazione collaborano senza sosta, come il braccio e la
mente. Ma la ragione è l’ombra, mentre la sostanza, il valore vero
delle cose è colto solo dall’immaginazione. Percy Bysshe Shelley
(1792-1822) fu uno dei poeti più rappresentativi del romanticismo
inglese. Spirito ribelle e libertario avversò il filisteismo e il fariseismo della società inglese fino al punto di trasferirsi in Italia, dove
passò gli ultimi anni della sua vita. Morì in un naufragio nel golfo di
La Spezia. Tra le sue opere il dramma Prometheus Unbound, i poemetti Epipsychidion, Adonais e molti componimenti lirici tra i quali
la celeberrima Ode to the West Wind.
notizie letterarie
l’EstroVerso
(66) Dicembre 2015
Leggodico
segnalazioni librarie
La Balena di Ghiaccio
Antologia poetica
a cura di Maria Grazia Insinga
La Balena di ghiaccio è il titolo del
Premio di poesia per i giovani dedicato al poeta orlandino Basilio Reale,
patrocinato dall’Assessorato alla cultura del comune di Capo d’Orlando e
dal Seme d’arancia di Emilio Isgrò.
Scopo del progetto è la promozione
della poesia contemporanea e del fare
poetico. Ideato da Maria Grazia Insinga, il progetto si conclude con la pubblicazione di questa antologia che raccoglie i componimenti poetici
scritti da studenti della scuola secondaria di secondo grado e da adulti nel corso di un Laboratorio di scrittura creativa e ispirati alle
seguenti immagini archetipiche: le Sirene, la Tigre, gli Uccelli. “Si
tratta - scrive la Insinga -, di immagini che ci nutrono in maniera
differente con il loro carico simbolico. Ma forse hanno qualcosa in
comune. Riportano in qualche modo - come Muse sovversive all’amore potente per il linguaggio poetico: le Sirene con il loro
canto e il loro silenzio, la Tigre con la sua energia creatrice e gli
Uccelli - blu e rari - che sempre ci guidano”. Tace il rumore del
mondo / e un abisso si spalanca / dove era crocevia di tempeste –
ma un uccello / dal nome raro lo attraversava / di tanto in tanto / e
ci rassicurava” (Basilio Reale). “La fucina della Balena - conclude
la Insinga -, ha rappresentato fecondo punto di incontro con i poeti
che hanno inviato i loro inediti da diverse parti d’Italia”.
Metà di niente
di Mauro Macario
puntoacapo
“L’offerta era speciale / la metà di niente / prendere o lasciare / un’occasione
da non perdere / la promozione stava
per scadere / e io pure / allora me la sono aggiudicata / per alzata di mano /
come si fa in Borsa o all’asta / malgrado
la folla scomposta / calpestasse i corpi /
per arrivare in tempo / a quell’ultima
gara di proprietà”. Versi tratti dalla poesia “Svendita totale” tratta dal libro Metà di niente di Mauro Macario
(puntoacapo Editrice) vincitore della 61ma edizione del Premio
“Lerici Pea”. “La poesia di Macario - leggiamo nella prefazione
dell’italianista Francesco De Nicola - è ‘necessaria’, è l’esito di
un’urgenza interiore di affidare alle parole le tre corde centrali della
sua ispirazione che è civile, elegiaca ed esistenziale. […] Macario
scrive solo se dentro gli urge la necessità di farlo e farà così fino
all’ultimo, mentre il poeta da bar “giura ogni volta che quella poesia / sarà l’ultima / si dispera / si disconosce / traballa sulla sedia / ma
non si alza / prima di averla finita”. […] il vero poeta non è tanto
quello che affronta temi originali o anche inconsueti e bizzarri, quanto piuttosto quello che ogni volta riesce a creare e a disporre di un
linguaggio tutto suo proprio per esprimere in modo personale e del
tutto inconfondibile il suo mondo interiore; e questo accade con evidente certezza nei versi di Mauro Macario”.
Canzuna
di Marco Scalabrino
Samperi editore
«Li palori - confessa il poeta - sciddicanu
ammutta ammutta / ntronanu lu balataru /
si ncantanu ' n-punta di la lingua» compiono, cioè, il loro ciclo creativo (come lo
definisce il Contini) passando dalla tumultuosa scorrevolezza e dall'eccitazione fonica al loro epilogo nella leggerezza del
registro espressivo. La silloge "Canzuna"
è un confrontarsi continuo dell'io con la
realtà, che diventa genesi di nuclei creativi
quali il difendere la propria solitudine esistenziale (sugnu lu sulu) dinanzi agli strali di lu munnu chi «mi
squatral m'arrassa I mi bummia» (si noti la felicità espressiva
dell'asindeto e dell'anafora dei versi!); quali il saper attendere «arrè
ssa porta chiusa» del destino; quali il gridare la propria autonomia
morale dinanzi ai trucchi e ai raggiri della quotidianità «cui acchiana acchianal mi ni futtu»; quali il contemplare l'acqua che «limpia I
sauta I ridi I baccaria» e scorgere in essa il palpitare dello spazio e
del tempo; quali il guadagnarsi un crogiuolo di tormenti
«muntarozzi d'aschi I bummuli di lastimi I mi vuscu ... » nel tentativo di intendere gli enigmi della vita umana; quali il risolvere in felice autocelia (chi divintai) l'interrogativo della propria identità; quali
il confessare faceto della voglia euforica di «sulcari cu vommari d'
olivu» la storia di questa terra, e le citazioni potrebbero continuare.
(stralci dalla prefazione di Carmelo Lauretta).
Miserere nostri
di Antonella Monti
LietoColle
“Ciò che sono è un mistero”. Nell’ultimo
verso di una bellissima poesia del suo
libro, scrive così di sé Antonella Monti.
E questo sentirsi mistero, contraddizione,
slancio, solitudine, verità, finzione, bellezza, desiderio, questa consapevolezza
di essere “una sorprendente tragica meraviglia”, è ciò che dà all’autrice l’energia
per cercare attraverso la poesia l’essenza
della propria vita. L’autrice sa che il viaggio dentro l’abisso della propria anima
è senza confini, senza fondo, e che non basta una vita per compierlo.
Eppure si mette in viaggio. Lontana dal tono medio e risaputo, omogeneo, di tanta poesia di oggi, è mitomodernista in una sua versione
personalissima, e ha alle spalle il fantasma di un Foscolo classico,
guerriero e ruggente, e, in parte inconsapevolmente, quello di Baudelaire, con la sua anima dilaniata, malinconica, nera, e i suoi improvvisi bagliori di luce sensuale. Sentite questi versi, e ditemi se non
sono splendenti nella loro metafisica semplice e segreta: “Se potessi
essere come sono/brucerei come un legno di cedro./Arsa in una nuvola di fumo/mi accompagnerei al vento/a seminare il mio pensiero/
che, raccolto nella corolla di un fiore/ schiuderei ai giorni.//In corpo
evanescente/parlerei al tempo/sfumerei nei petali caduti/e turbinanti/
a delineare un sentiero/alla fine sempre lo stesso./Ciò che sono è un
mistero”. (stralci alla prefazione di Giuseppe Conte).
notizie letterarie
l’EstroVerso
(67) Dicembre 2015
Leggodico segnalazioni librarie
L'apocalisse degli automi
di Salvatore Scalia
Domenico Sanfilippo Editore
Nel centenario dell'entrata dell'Italia nel primo conflitto mondiale questo libro è la prima analisi organica delle testimonianze, esperienze e trasposizioni letterarie degli scrittori siciliani sulla Grande
Guerra. L’analisi parte dalla Sicilia per assumere una dimensione europea, così come il terremoto di
Messina del 1908 costituì per molti volontari europei il modello dell'Apocalisse - rigeneratrice prima
e distruttiva dopo - a cui andarono gioiosamente incontro, nella convinzione che il conflitto sarebbe
durato pochi mesi. Il vecchio Verga fremeva dal desiderio di andare a combattere gli austriaci, Capuana preparò il terreno su cui sarebbe fiorita un'ondata di spiritismo, Pirandello, appassionato germanista, risolse letterariamente la necessità della conversione ideologica in nome del compimento del
Risorgimento. Borgese ha lasciato la testimonianza più incisiva sulla disillusione dei volontari, sulla
falsità dei miti marinettiani e dannunziani e sulla confusione del primo dopoguerra. Fu Rosso di San
Secondo, di cultura mitteleuropea, a rappresentare la disumanizzazione della guerra attraverso la trasformazione degli esseri umani in marionette. Tomasi di Lampedusa raccontò d'aver ucciso un bosniaco: la brutalità e l'assurdità dell'esperienza al fronte permea tutta la sua opera. L'incontro traumatico
con la ‘macelleria industriale’ della trincea è ricostruito attraverso una testimonianza dal basso: la
cruda autobiografia di Rabito, contadino semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi. Gli scrittori siciliani
lasciano, ciascuno con la propria sensibilità, una testimonianza ancora oggi attuale della inutile atrocità della guerra e della vanità delle umane illusioni.
Piccoli esperimenti di felicità
di Hendrik Groen (Traduzione A. Rossi)
Longanesi
Ottantatré anni e un quarto sono più di trentamila giorni. E sono proprio tanti. Ottantatré primavere
senza la certezza di vedere la prossima, o che ne valga la pena. Hendrik è il tipo d’uomo che fa conti
del genere ogni giorno. Anche perché nella sua casa di riposo c’è poco altro da fare. La vita trascorre
placida, fin troppo: due chiacchiere con l’amico Evert; la curiosità per i nuovi arrivati e la sopportazione della severissima direttrice, probabilmente nipote di un ex gerarca nazista. Hendrik ha sempre
fatto buon viso a cattivo gioco, ma ora si chiede se davvero ne sia sempre valsa la pena. E soprattutto
se vale la pena di continuare così. E siccome nella vita bisogna avere dei progetti, o perlomeno fare
degli esperimenti, Hendrik decide due cose. La prima: farsi dare dal suo medico la pillola della dolce
morte. La seconda: prima di prenderla, concedersi un anno, e in quell’anno fondare un club. Nasce
così il Club dei vecchi ma mica morti, con regole di ammissione rigidissime per partecipare alle varie
attività, tra cui: l’ingresso a un casinò, un workshop di cucina, un corso di tai chi… In quest’anno di
vita succederanno tante cose, ci saranno tante scoperte, tante perdite e molti piccoli esperimenti di
felicità... E alla fine si vedrà chi l’avrà vinta: la pillola o una nuova primavera da attendere. Uno stralcio dal libro: Oggi mia figlia avrebbe compiuto cinquantasei anni. Cerco di immaginarmi come sarebbe. L’immagine si è fermata a quella di una bambina di quattro anni, tutta bagnata, ormai esanime tra
le braccia di un vicino. Soltanto quindici o venti anni dopo è successo che non ci abbia pensato per un
giorno intero. Domani ricomincio a scrivere di cose allegre (Lunedì 21 gennaio).
Dal mare che non c’è
di Calogero Restivo
Edizioni Akkuria
Il paese, l'infanzia, il poetare, i ricordi, i primi amori, i sogni di sempre, cantati, decantati, perdono
ogni aura consolatoria, se mai l'avevano avuta, anche perché le difficoltà della vita hanno smorzato e
disatteso ogni incanto della memoria. Accanto a questo intendimento si è propensi a ipotizzare anche
una variazione di temi, argomenti, contenuti, proiettando lo sguardo oltre i familiari orizzonti del paese, dell'infanzia, della memoria, del mare: né terra né mare ma cielo: sciolto da ogni concreto legame
spazio-temporale. In alcuni componimenti si coglie un senso panico, borgesiano, di immedesimazione,
anzi, di identificazione con la natura: essere foglia, essere zolla, essere vento. “Al posto di questa assenza di voci / con il "cannolo" della fontana / che mesce acqua con rumore di ruscello / c'era la piazzetta che aveva canti e suoni / nella notte in cui avvampava la festa. // C'eravamo noi ragazzi / con la
febbre di domani negli occhi / a divorare presenti nel tentativo di barare / e rompere i ritmi del tempo. // C'erano luci e passi di donne / con sguardi d pudore / nei sorrisi appena accennati / e le voci dei
giocatori di tressette / assieme al venditore di fichi d'India / che le vendeva sbucciate poche lire // Rifugio sicuro alla pioggia gli archi / finestre aperte su un mare che non c'era / quando con rombi profondi / e tremori da incubo i tuoni annunciavano il temporale imminente / cancellati dal vento di novità. //
Di fronte il vecchio fondaco / il tetto di canali di creta cotta al sole / rifugio a colombi e uccelli di passaggio / oltre a carretti e carrettieri / che nella notte contavano le stelle / prima di addormentarsi / oggi
ha palazzi alti / che gareggiano con le nuvole / e guardano dall'alto in basso / i lampioni che stillano /
luce indecisa nella via.” (La piazzetta).
notizie letterarie
l’EstroVerso
(68) Dicembre 2015
L’amore per i propri personaggi è la
forza originaria che
muove il testo
di Enzo Fileno Carabba
Molto tempo fa, quando ho cominciato a scrivere storie, per
me la parola “letteratura” era sinonimo di “letteratura fantastica”. Ora, dopo una lunga navigazione, sono approdato a un
testo autobiografico. Appena sbarcato, mi sono trovato a calpestare una costa talmente personale che ho provato una grande meraviglia: quei luoghi erano così miei da lasciarmi spaesato. Ma guarda, mi sono detto inoltrandomi nella lussureggiante vegetazione del nuovo mondo - e cioè la selva aliena
dei miei ricordi -, non ero io quello che scriveva di mondi immaginari? Perché adesso scrivevo di mia zia? Cos'era successo? Dov'ero finito? Mi piace pensare che in realtà fosse sempre lo stesso mondo visto con occhi diversi, dopo i viaggi
dell'immaginazione. Era solo cambiata la prospettiva sulle
cose importanti. Era tutto più semplice. Vorrei che i miei libri
fantastici venissero letti come segretamente autobiografici e
che La zia subacquea venisse letta come una storia fantastica,
un'autobiografia in forma di leggenda. È vero che la sorgente
di questo libro attinge a un serbatoio di ricordi e di sentimenti
radicati. Ma questo non contraddice l'esperienza di esplorazione dell'ignoto vissuta scrivendo. Non so cosa siano esattamente i ricordi. Ma per me non sono tutti uguali. I miei preferiti
non stanno fermi, non sono statue dentro una galleria mentale
a mia disposizione. Preferisco quelli autonomi, emancipati,
scalpitanti, che si comportano come esseri viventi e reagiscono alle sollecitazioni: i ricordi reattivi, suscettibili, che hanno
in serbo scoperte e sorprese, per chi li ascolta con curiosità e
rispetto, senza pregiudizi. Alcuni ricordi, i più potenti, sono
come messaggeri, vogliono qualcosa, insistono fuori dalle
mura. Allora, in un certo emozionante momento della mia
vita, ho detto va bene, mi sono lasciato andare, con la massima semplicità, ho fatto entrare quelli più insistenti, i messaggeri, e mi sono fatto condurre da loro in zone abissali della
personalità: mi sono reso conto che erano batiscafi!
Siamo scesi nell'infanzia profonda, in una zona del tempo
(ma forse è una regione dello spazio) in cui ero convinto di
avere dei poteri sovrannaturali. Ho scritto La zia subacquea
pensando che parlasse dei poteri del protagonista. Poi, quando
ho finito il libro, alcuni lettori mi hanno fatto notare che non
c'è traccia di questi poteri. Allora mi viene il dubbio che il
libro parli dei poteri che hanno tutti, i poteri di tutti noi. Certo
il protagonista è convinto di essere in connessione con la Barriera Corallina e di sentire le voci di alcuni grandi personaggi:
da Giulio Cesare a Leonardo da Vinci, ma soprattutto Gabriele D'Annunzio. Ed è convinto di ripercorrere, nel suo piccolo,
le tappe evolutive (se di evoluzione si può parlare) dell'umanità. In questo senso i suoi presunti poteri confinano con il disadattamento. Bisogna vedere come tutto questo si lega con la
parola d’autore
ricerca della felicità. Avanzando nella
storia cercavo il
mio Eldorado, uno
stato di grazia: il
sistema per vincere
la pesantezza della
cose cogliendo una
musica negli avvenimenti. Ho in mente questa frase di
Hillman: “Un tempo l'arte dello scrivere si prefiggeva
un intento terapeutico, quello di donare
la catarsi e l'unità tematica a un'anima”.
Naturalmente qui non posso scrivere la storia del libro, dato
che per scriverla c'è voluto tutto il libro. La vicenda copre un
arco temporale di circa quarant'anni e il protagonista, che non
voleva figli, si ritrova con soddisfazione ad averne quattro, detti i quattro elementi. Questo individuo attraversa molti ambienti: dal mare ai fumetti erotici, dalla musica d'avanguardia alla
Disney. Compie quindi un percorso, un viaggio. Verso dove?
Noi tendiamo a leggere i romanzi come storie di formazione, il
che ha, immagino, delle solide ragioni, legate al nostro desiderio di migliorare. La zia subacquea può essere letto in questo
modo, come un romanzo di formazione. A me però interessa
anche ciò che non varia, gli elementi permanenti della nostra
personalità, quelle colonne con cui dobbiamo fare i conti. Ma
perché alcuni elementi non variano? Può darsi siano molto antichi. Ci sono caratteristiche e atteggiamenti che noi crediamo
solo nostri e magari invece li abbiamo ricevuti in prestito, ci
arrivano da qualche avo. Parlo di avi vicini e di avi lontani: che
so, un avo medievale, romano (antico), o addirittura cavernicolo. E anzi, mi chiedo se non sia il caso di prendere in considerazione gli antenati non umani: a volte, senza saperlo, abbiamo
atteggiamenti anfibi. Forse noi siamo strumenti di tali caratteristiche, siamo posseduti. In questo senso penso che i nostri primissimi ricordi non siano affatto l'inizio: si attaccano come patelle a qualcosa che viene prima di loro. O almeno lo pensa il
protagonista del libro. Lasciamogli i suoi sogni, giusti o sbagliati che siano.
Credo che la forza originaria che muove il testo siano i sentimenti di curiosità, divertimento e amore provati per i personaggi di cui si parla. Possano questi sentimenti sopravvivere e riprodursi al di fuori di noi.
l’EstroVerso
(69) Dicembre 2015
La scrittura e la vita
vanno di pari passo
di Daniela Delle Foglie
Non è passato molto tempo da
quando la storia di Maddalena e
Simone, i protagonisti del mio primo romanzo “La felicità delle suore”, viveva soltanto all’interno delle quattro mura della mia stanza.
Quelle mura che hanno visto nascere un universo parallelo in cui i
personaggi hanno preso vita e sono
cresciuti insieme a me.
Oggi parlarne con lettori, giornalisti e curiosi mi fa ancora uno strano effetto.
Soltanto pochi mesi fa quando passavo in macchina sotto il palazzo
che avevo individuato nella mia
testa come la casa della protagonista, immaginavo quanto sarebbe
stato bello dar vita a un mondo in
cui i lettori volessero entrare anche
solo per un po’.
Per me leggere ha sempre rappresentato questo: immergersi in
mondi possibili dove fare esperienza di sé attraverso le vite di altri.
Mondi prossimi o lontani abitati da
personaggi portatori di una verità il
più possibile vicina alla vita.
Da lettrice ho amato attraversare
mondi diversi e capirmi attraverso parole scritte dalla penna di
un altro, da autrice mi auguro di aver creato un mondo capace
di accogliere i lettori e di aver scritto una storia in grado di
parlar loro.
Per me scrivere è un’esigenza. L’esigenza di trasformare i
pensieri in una storia. Scrivo mossa dall’urgenza di dire quello che penso su ciò che più mi sta a cuore nel preciso momento che vivo. La scrittura e la vita sono profondamente intrecciate e vanno di pari passo.
E proprio dalla vita di tutti i giorni a contatto con ragazzi appartenenti a realtà particolari come quelle dei movimenti cattolici che è nata, anni fa, l’idea di una storia d’amore tra un
ragazzo con una fede indissolubile e una giovane atea, molto
provocatrice, ma pronta a interrogarsi su Dio.
La storia d’amore tra Maddalena e Simone oltre ad essere il
motore del romanzo, è anche una cornice che racchiude diversi temi tra cui: la fede e i differenti modi di viverla, la fami-
parola d’autore
glia come culla, ma anche gabbia e il
rapporto delle donne con il proprio
corpo, donne combattute tra gli irraggiungibili standard della società
contemporanea e la difficile e rivoluzionaria scelta di accettarsi per come
si è.
Maddalena ha 26 anni e come molte
sue coetanee, ha difficoltà ad accettare il suo corpo “imperfetto”, e spinta da questo disagio verso sé stessa,
sta scrivendo una tesi sul mondo del
porno, un mondo che l’affascina proprio in virtù del particolare rapporto
che le attrici hanno con il proprio
corpo, un corpo anni luce lontano dai
manichini tutti uguali a cui ormai la
cultura mainstream ci ha abituati.
Ma Maddalena è anche la mascotte
di una famiglia “rotta”, di cui da sola
cerca di raccogliere i pezzi: suo padre è un noto psicologo televisivo,
molto cattolico, che risolve i problemi di tutti, tranne quelli dei suoi cari.
Sua madre, vittima di un disturbo
ossessivo compulsivo, si è trasformata negli ultimi tempi da donna di parrocchia a fervente adepta del fitness
e suo fratello è un eterno adolescente, che provoca il padre e si rifiuta di crescere.
All’interno di una famiglia cattolica “disfunzionale”, Maddalena è cresciuta con l’imperativo di “credere” nella testa e nelle
mani nessuno strumento per imparare a farlo.
Ma il grande “fantasma” della fede che non riesce ad avere, lo
affronterà proprio attraverso la conoscenza di Simone e del suo
mondo, tinto di una “felicità” (quella del titolo) che lei proprio
non capisce.
Maddalena è una ragazza caratterizzata da una “saggia” tristezza ed è convinta le manchi qualcosa per essere felice. Simone
rappresenterà per lei un tentativo.
Nell’eterna opposizione tra tristezza e felicità si gioca quindi il
dialogo tra i due protagonisti, uno scambio tra mondi in contrasto in cui spero i lettori potranno ritrovarsi.
E immergendomi in quella stessa opposizione, ho scritto questo
romanzo, spinta dall’urgenza di raccontare come la tristezza e
la felicità non siano poi così lontane.
l’EstroVerso
(70) Dicembre 2015
La scrittura per amante
di Margherita Giacobino
Io l’amore per i libri l’ho assorbito da
mia madre, che amava leggere e sottraeva tempo al lavoro per farlo. Lei, che
non aveva potuto studiare, trovava nella
lettura la conoscenza del mondo, e una
libertà che la affrancava dai limiti della
sua vita. Prima ancora di imparare
l’alfabeto io possedevo già una raccolta
di libri per ragazzi, messa insieme da
mia madre, che aveva un negozio di
alimentari, con i punti della pasta Agnesi. La lettura mi è sempre stata indispensabile, e dall’adolescenza in poi lo
è diventata anche la scrittura, pur se
praticata in modo selvaggio e clandestino. Per me scrivere ha significato prima
di tutto cercare di dare voce a ciò che
sentivo, mettere a fuoco il mio sguardo
sul mondo; il linguaggio comunemente
parlato attorno a me mi suonava spesso
estraneo se non addirittura falso, e solo
nella letteratura trovavo parole più soddisfacenti, che potevano aiutarmi a cercare le mie. Così il mondo dei libri è
diventato il mio vero paese.
Ho cominciato molto presto a leggere in inglese, ero attratta
da quella lingua e nella letteratura inglese ho trovato due cose
fondamentali per me e per la mia scrittura: una tradizione, che
affonda le sue radici nei secoli passati, di voci femminili, e
una scrittura che spesso mescola ai toni seri e drammatici le
molteplici sfumature dell’umorismo.
Il mio percorso di scrittura è sempre stato fortemente legato a
quello delle mie letture; la pratica di traduttrice mi ha permesso di calarmi dentro intimamente in testi che ho amato molto,
a partire dalla mia prima traduzione (Emily Brontë, Cime
Tempestose), fino alla più recente (Sorella Outsider, di Audre
Lorde). Il mio primo libro è nato come una ‘finta’ traduzione
dall’inglese di un’autrice che non c’era, Elinor Rigby: bisognava inventarla e io l’ho fatto. Elinor Rigby è un’autrice che
racconta storie divertenti e un po’ sornione di amori tra donne,
avevo bisogno di lei come antenata.
Scrivere è per me una pratica quotidiana, se non scrivo sono
di cattivo umore, mi manca qualcosa. Aveva ragione Patricia
Highsmith quando diceva che la scrittura dà assuefazione come la droga, ed è per questo che si continua, indipendentemente dagli insuccessi, dalla fatica e dalle frustrazioni. Perché
una volta che si è dentro la scrittura si sperimenta una meravigliosa libertà, che nel mondo reale non è dato conoscere. Superare i confini del sé, infrangere e cambiare le regole, libera-
parola d’autore
re la visione dai paraocchi quotidiani e
trasformarla in parola: tutto questo non è
solo di importanza vitale, è anche fonte
di grandissima gioia.
Per me è importante che la scrittura,
quella dei libri che leggo e la mia, possieda una sua autenticità, una qualità che
mi è difficile definire se non come: un’
eco di verità che risuona mentre si legge.
Con questo non intendo autobiografismo, né realismo, intendo avere qualcosa di autentico da dire, una visione, un
pensiero, un sentire che animano il gioco
dell’immaginazione. Inoltre per me è
importante una scrittura che pensa, che
riflette la complessità del pensiero, quindi non viscerale, sentimentale o seriosa… il pensiero è sempre complesso e
consapevole dei suoi limiti.
Scrivendo si insegue la verità, senza
mai acchiapparla, al massimo la si intravede. Si dà senso alle cose, al vivere, ma
subito rinasce l’esigenza di riformulare
tutto. La scrittura è divertimento, liberazione dai luoghi comuni e delle costrizioni del potere. È vendetta a sangue freddo, riscatto e delitto perfetto. Il comico nella
scrittura per me è sacro, non potrei mai rinunciarci. Per questo,
tra l’altro, collaboro ad Aspirina, rivista acetilsatirica online,
un’impresa che mi diverte moltissimo e in cui la scrittura esce
dalla sua celletta e diventa condivisione, una festa collettiva.
Nella vita ho sempre fatto altri lavori, che mi danno da vivere e
a volte mi piacciono anche. Tutte le volte che ho cercato di vivere di scrittura, ho smesso rapidamente perché non sopportavo
le costrizioni a cui avrei dovuto sottostare. Meglio avere la
scrittura per amante, in piena libertà - altrimenti perde di senso.
Il mio ultimo libro, Ritratto di famiglia con bambina grassa
(Mondadori 2015) è sul tempo e la memoria, e nasce da due
desideri convergenti, quello di far rivivere persone care che
non ci sono più, e quello di definire me stessa attraverso chi mi
ha preceduta e messa al mondo. Per me non è tanto una storia
familiare, quanto una mitologia, un po’ come dipingere le stelle
del mio cielo. Parla delle mie antenate a partire dalla fine
dell’Ottocento fino alla mia infanzia, negli anni Sessanta. È un
omaggio ai morti, un atto d’amore, un libro scritto solo per me,
che non pensavo neanche potesse interessare altri. In questo
caso la scrittura mi è servita anche a esprimere una cosa che
sento importante: l’amore per la mia lingua natale, il dialetto
piemontese, ricco di un humor di sopravvivenza, che consente
di prendere le distanze dalle miserie del quotidiano.
l’EstroVerso
(71) Gennaio - Giugno 2015
La scrittura poetica
è un esercizio di attenzione
di Silvia Giacomini
Per me scrivere è un perenne stato di sconfitta, un dover ogni
volta ricominciare da capo a tentare di cogliere qualcosa che
le parole non afferrano mai compiutamente. E una necessità.
Dove ci sono acque in cui per ogni sasso che affonda, per ogni
soffio che sfiora, i cerchi che si allargano attorno alla ferita
del tocco continuano a propagarsi senza trovare argine di terra
che li spenga, scrivere è la necessità di offrire al moto ondoso
una terra – non un argine di estinzione ma un luogo in cui
possa dispiegarsi fino in fondo, incidendovi una testimonianza
che resta in attesa di sguardo. Non scrivo per oltrepassare, ma
per trattenere e continuare a interrogare. Per redimere dal tempo.
Da bambina era più semplice, allora scrivere era solo un gioco
affascinante: la carta era la porta di un regno sconfinato, la
penna una chiave magica, le parole mondi. Non avevo un particolare talento per la scrittura e la scuola mi opprimeva tanto
da allontanarmi dai libri, ma l’immaginazione era il mio rifugio, il mio spazio sacro, la mia libertà raccolta. Conservo ancora il mio primo racconto: diceva di un bicchiere di vetro che
si trasformava in una sorta di telescopio capace di scrutare
lontano nel cielo e di un bambino che comunicava con le stelle.
E’ stato, tuttavia, durante l’adolescenza, quando il bicchiere
della mia prima sete era in frantumi per lo schianto contro la
consapevolezza della morte e troppe impossibili domande,
che la poesia ha cominciato a venirmi incontro. L’adolescenza
è talvolta quell’età in cui il pensiero, intatto nella sua sanguigna purezza, smantella tutto ciò in cui si credeva, e si rimane
soli tra le macerie del mondo; se non c’è niente a cui aggrapparsi, si scivola giù, nel fondo. Nel fondo le mie mani trovarono la terra bianca di pagine di quaderno che percorrevo di scavi durante notti in cui cercare le parole era frugarsi disperatamente nel cuore per urgenza di luce; quando il pensiero si
scontrava col proprio limite le metafore affioravano come sorgenti ataviche da una spaccatura nella roccia.
La poesia ci supera. Come se, in certi miracolosi attimi, una
mano si posasse sulla nostra per guidarci verso una verità ancora da scoprire, muovendoci spontaneamente a lavorare di
precisione per raggiungerla.
Vennero, poi, i primi salvifici amori (ci salva dal perderci chi
offre uno specchio al nostro smarrimento), tra cui Leopardi,
Nietzsche, Kafka, Pessoa, e le fondamentali persone che ho
avuto, ed ho tuttora, la grazia di incontrare sulla mia via e che
donandomi la loro sincera attenzione mi donavano me stessa.
È lo sguardo dell’altro a restituirci trasformato in semina il
nostro carico di cenere. Mi sembra che la società attuale, imprigionata nei propri parametri di efficienza e produttività,
parola d’autore
educhi alla fiera indipendenza piuttosto
che alla fecondità
della gratitudine, al
distacco piuttosto
che al tremore
dell’essere in ascolto, all’affermazione
di sé e alla competizione piuttosto che
all’attenzione nei
confronti degli esseri e delle cose che ci
circondano.
La tentazione di essere vento, un libro che nasce da esperienze
attraversate e dalla scossa di storie ascoltate, tocca il tema della
solitudine fatale a cui condannano le parole vuote scagliate,
spesso per noncuranza, contro una sofferenza a cui resta solo il
corpo per comunicarsi senza essere fraintesa o violata dal pregiudizio.
Credo che la poesia, ma in realtà qualunque forma espressiva
tesa alla verità attraverso il totale coinvolgimento, in carne e
affanno, della vita, abbia la facoltà, forse il compito, di riportarci alla nostra vulnerabilità e al suo valore di apertura, scoperchiando le ferite, le inquietudini e il vuoto; abbattendo quei
luoghi comuni, quelle parole non pensate e quei pensieri non
patiti che ci allontanano dalla nostra interiorità come dal centro
nudo e vitale del nostro incomprensibile esserci. Opponendosi
agli slogan che lodano chi, sempre pronto a rialzarsi dopo una
caduta, cammina a testa alta verso i propri obiettivi, la poesia
dovrebbe farci sentire il dolore dei fiori che i nostri passi noncuranti calpestano. Mostrarci come rimanere schiena al suolo
sia lasciare che gli occhi ritrovino il loro originario dialogo col
cielo.
Oggi considero la scrittura poetica soprattutto un esercizio di
attenzione. L’attenzione, scrive Simone Weil, compagna di
questi ultimi anni, nel suo grado più elevato, è preghiera. Mano
stellata che per attimi racchiude la nostra e tormento di un continuo dubitare, accoglimento e sforzo, sangue e vigilanza, scrivere è la preghiera generatrice di speranza che, pur tra assoluti
sconforti, ha sempre il potere di ricondurmi a quella scelta di
credere in un segreto esser bene della vita che è il mio unico
modo di stare al mondo.
Ogni creare è forse una lotta d’accettazione simile a quella di
certi pini che con tutto il loro essere danno forma al vento che
li percuote, piegando nella direzione del vento i loro rami. Nel
momento in cui lo incarnano, ne percepiscono la luce.
l’EstroVerso
(72) Dicembre 2015
Dalla scrittura mi aspetto che stia con me
per quanto più tempo possibile
di Ginevra Lamberti
Mi imbarazza parlare dello scrivere come di una missione o di una vocazione.
La mia missione è vivere il mio tempo come posso, nel migliore dei modi che
mi sono concessi, facendo il possibile per tenere tutto in piedi con l’aiuto del
mio branco (mi dispiace che la parola branco venga spesso usata con accezione
negativa). Scrivere è una attività che svolgo, tra le molte, ma è anche quella che
coltivo da più tempo, l’unica che ho portato avanti con costanza, e quella che
mi piace di più nell’ambito delle cose di lavoro, perché è anche una cosa di passione. Ho iniziato perché mi riusciva bene (potremmo dire dunque, in un certo
senso, per pigrizia). Non mi interessava l’invenzione, allora ho pensato che mi
interessasse la cronaca. Ho ricercato, in anni di diari personali bruciabili, il sistema per rappresentare in modo interessante i
frammenti degni di narrazione delle mie giornate. Non ce n’erano, e non ero neanche abbastanza ribelle da andarmeli a creare con le trasgressioni. Ho capito che non mi interessava
neanche la cronaca, ma trovare il modo di rendere appetibile all’orecchio altrui quella crepa
nel muro, di convincere l’interlocutore - o il
lettore - che poteva ridere e piangere guardandola. Dalla scrittura mi aspetto la stessa cosa
che mi aspetto (che anelo) dalle persone care,
che stia con me per quanto più tempo possibile.
La questione più che altro è il mio romanzo di
esordio ed è il tentativo di tenere insieme, fermo lì, tutto quello che non volevo mi scappasse
per sempre dalle mani. Ho preso la famiglia, gli
amici, lo studio, il lavoro, la malattia del corpo
e dello spirito, le risate (tante), i pianti
(abbastanza anche quelli) per come li stavo vedendo e vivendo e quando ne ho avute le forze
li ho smontati e rimontati, restituendo una cosa
che adesso può essere di chiunque la voglia
mettere insieme alle sue. È la storia di Gaia che
vive una vita normale, in cui normalmente si
hanno nonne che fanno i voti ai santi e nonni
appassionati di armi da fuoco, si vive sotto viadotti da cui piovono persone, le genitrici fanno
i turni di notte, i genitori ridono anche con tracce di polmoni nella nicotina, i gatti si credono
persone, le aziende sembrano comunità di recupero e viceversa, le città fumano
per il troppo calore e colano per la troppa acqua, tutto è a posto, niente è in ordine, e vale la pena ridere di noi stessi anche quando ci si saluta e non è chiaro
se ci si rivedrà. La questione più che altro è uscito il 17 settembre 2015 per nottetempo, nella collana narrativa.it, curata da Chiara Valerio, ed è una cosa davvero molto bella perché ci sentiamo capiti (io e il libro, intendo).
parola d’autore
l’EstroVerso
(73) Dicembre 2015
Come Dio, la scrittura si
predica di se stessa
di Alberto Milazzo
«Spara. Sei felice?» chiede Bobo.
«Di che?»
«Di avere scoperto tutte quelle cose meravigliose su tua madre,
su Aleister, e su Armando naturalmente.»
«La verità, Bobo, se proprio vuoi saperla, è che io non ci credo.
Non credo a una sola parola dei loro racconti» dice a Bobo, che
si acciglia. «Vuoi che ti dica cosa penso di Armando? Alla luce
delle recenti rivelazioni, lo immagino come un omosessuale represso. Vuoi sapere il mio punto di vista su “Miss Su”? Vedo
mia madre come una maniaca depressiva con istinti suicidari. E
Aleister? Un inguaribile sognatore, un po’ del tipo bohémien
mitteleuropeo, arrivato con più di un secolo di ritardo
all’appuntamento con la storia.»
«Non puoi essere così cinico» lo rimprovera Bobo.
«Che alternative ho? Dovrei credere al romanzo familiare? Al
bisogno di fare dei genitori materia letteraria? Come vuole Gertrude, come nella trama del diario di Miss Su? Dovrei credere
alle invenzioni letterarie di Aleister? Al racconto di sé con cui
ognuno di loro ha sublimato le proprie piccolezze?»
«Perché no?»
Alla fine, riflette Andrea, è solo la vecchia dialettica fra il credere che ci sia qualcosa, qui, adesso, nascosto fra le pieghe di questo divano, qualcosa di importante che forse ci parla e dobbiamo solo prestare attenzione e ascoltare; e l’amara consapevolezza che non ci sia nulla. Null’altro che questo. Io e Bobo seduti
a parlare e bere birra. E che questo nulla sia tutto quello che
c’è.
«Perché non è nulla. Se spegni le chiacchiere, se silenzi i loro
racconti sentimentali, non resta nulla. E anche di queste nostre
chiacchiere non resterà nulla. Un istante ci siamo io e te che
parliamo. E un istante dopo c’è un divano e una tv accesa in una
stanza vuota.»
«Non mi pare esattamente nulla questo momento insieme. A me
piace. E per me è qualcosa. Ed evito di spingermi oltre e dire
che invece è molto. Al contrario di te, quei tre, Armando, Aleister e tua madre non si sono risparmiati. Si sono amati. E ti hanno amato. Ti pare poco?»
«Forse. O forse hanno creduto di farlo così intensamente da riuscire quasi a convincere loro stessi e, a tratti, perfino me.»
«C’è differenza?»
«Fra amare e credere di amare?» chiede Andrea retorico.
«Sì.»
«Mi pare che sia una differenza che importa a pochi.»
Quasi a conclusione del mio romanzo, questo dialogo (un estratto di “Uomini e insetti”, edizioni Mondadori) fra il protagonista
Andrea e il suo ultimo amante, Bobo, mi aiuta a dire qualcosa
sul tema che mi avete proposto.
Cos’è scrivere?
Ovviamente non esiste una definizione della scrittura, né può
esistere. Per la scrittura vale un po’ quello che vale per Dio
nell’antico testamento: a Mosé che gli chiede il nome (quindi di
parola d’autore
definire la sua essenza, la sua
identità), Dio risponde: “io
sono colui che sono”.
Come Dio, la scrittura si predica di se stessa. E questo è
anche il suo mistero, oltre che
la sua più probabile definizione. Per conseguenza, chi scrive veste di parole un silenzio
che pare voler restare tale. La
scrittura in questo senso è uno
scandalo, un atto di follia. E di
arroganza, certo. Perché si
sostituisce alla realtà per inventarne un’altra. Si potrebbe
dire, con una battuta, che se il
mondo fosse diverso, diciamo migliore, la scrittura non esisterebbe. È una provocazione ovviamente, ma la scrittura poggia
sull’imperfezione dell’esistere. A partire dall’attacco biblico che
comincia a narrare là dove i progenitori edenici inciampano, fino
al romanzo contemporaneo, la scrittura cala come un vampiro sul
corpo agonizzante dell’esistenza e, nella migliore delle sue forme,
ne rivela il senso di tragica bellezza.
Andrea, nel mio “Uomini e insetti”, avverte tutto questo. In particolare, Andrea sente l’inganno del romanzo biografico, cioè quella inesausta e inesauribile attitudine a raccontare i propri affetti di
cui siamo vittima un po’ tutti. (Oggi, in modo esponenziale, complici i social media che ci impongono, per esistere nella realtà virtuale, di costruire una narrazione continua di noi stessi). Andrea
sospetta che dietro il racconto amoroso che facciamo di noi e dei
nostri amanti, delle nostre vicende sentimentali ci sia ben poco,
che cioè, di nuovo, la realtà sia più misera e scabra di quanto proviamo a raccontarcela, e che per sopravviverle tentiamo qualunque innesco narrativo. Nel momento in cui le memorie si compongono per formare un racconto, crede Andrea, tradiamo e superiamo (?) le miserie dell’esistenza.
Secondo quest’approccio, quindi, la scrittura diventa uno specchio
deformante e insieme salvifico, una fede, una preghiera, un argine
alla vertigine di vuoto che ci coglie se ci poniamo in modo intellettualmente onesto davanti all’esistenza.
Andrea arriva a sentire il limite interno della narrazione che è insito nella traslazione della “sospensione dell’incredulità” dal piano del racconto a quello della vita vissuta. Sente cioè che a forza
di fingere che il racconto sia vero si finisce, spesso, per credere
che lo sia veramente e che invece sia “incredibile” il piano del
reale.
La scrittura, la capacità di fare narrazione, diventa così una religione (e non può che essere così in una cultura come quella occidentale che da millenni sovrappone Logos e divino), un sistema di
credenza, al quale sacrifichiamo la realtà piegandola alle esigenze
del racconto.
In “Uomini e insetti” si racconta di una guerra di sentimenti e di
parole, in cui da una parte c’è il delizioso piacere di perdersi
nell’invenzione amorosa e dall’altro il sospetto che amare sia
nient’altro che uno scivolare, pur dolce, verso la follia e il non
senso. Verso, appunto, la finzione del racconto.
«C’è differenza?»
«Fra amare e credere di amare?» chiede Andrea retorico.
«Sì.»
«Mi pare che sia una differenza che importa a pochi.»
l’EstroVerso
(74) Dicembre 2015
La scrittura origina dalla volontà
di pacificarsi con i fantasmi
interiori
di Chiara Passilongo
«La vita o la si vive o la si
scrive.»
«Per essere perfetti creatori bisogna essere morti.»
Se Luigi Pirandello arriva
a dire la prima frase, e
Thomas Mann mette in
bocca la seconda al suo
protagonista nel "Tonio Kröger", viene da chiedersi davvero:
«Ma allora perché si scrive?»
Il mio primo racconto ricordo di averlo messo nero su
bianco a sette anni, un poliziesco ambientato a Caracas, si
parlava di smeraldi rubati. Abbandonai precocemente il genere e, terminate le elementari, vergai durante l'estate una specie
di "Le avventure di Tom Sawyer", ma in salsa inglese, e a cavallo del secondo conflitto mondiale. Talvolta ne rileggo con
il sorriso qualche stralcio sul quadernone azzurro a cavallini
sul quale mia nonna lo trascrisse con tanto affetto e pazienza;
non avevamo ancora il computer, allora, lo comprammo l'anno successivo. È vero che c'era la gloriosa Lettera 32 in casa,
ma la nonna andava tanto fiera della sua bella calligrafia.
In seconda media mi incapricciai per l'arco di due pagine di
scrivere un fantasy in cui un ragazzo scompariva nel corso di
un incidente in moto per essere catapultato in un'altra dimensione tutta cappa e spada. Quindicenne, durante una cena familiare in taverna, passai un'intera serata ad affabulare mia
cugina su una complicatissima trama che avevo scalettato su
due volumetti con le copertine di Qui Quo Qua, dove due ragazzi vagavano per Francia e Italia, tra occultisti e affaristi
senza scrupoli, per cercare una miracolosa cura d'erbe per il
padre malato.
A sedici anni, mi incagliai al decimo capitolo di una storia
ambientata nella Russia dell'Ottocento dove una trovatella
scopre di essere in realtà figlia di patrioti veneziani e si mette
in viaggio per ritrovare la sua famiglia. All'università scrissi
un racconto ridondante come una ballata medioevale dove il
protagonista consumava tutta la sua esistenza alla ricerca dei
fantomatici Confini del Mondo.
Altri due abbozzi non irresistibili più tardi, approdai a una
scuola di scrittura rodigina, la Palomar, che aveva appena aperto i battenti.
«Sai cosa sono le stelle cadenti? Sono quelle stelle, più luminose di altre, che s'incendiano per attrito, attraversano il
cielo con tutta la loro energia, bruciano ciò che le circonda e
poi arrivano a spegnersi consumate dalle loro stesse fiamme.
Ecco tuo nonno era così.» Risponde lo zio Francesco al nipo-
parola d’autore
tino, che vuole sapere com'era Achille Vicentini, il nonno che
lui non ha mai conosciuto.
Ho impiegato quasi due anni per scrivere "La parabola delle
stelle cadenti", storia di una famiglia che ascende al firmamento delle cose e della sua irrimediabile caduta, dove a far da
sfondo sono vicende dell'ultimo trentennio come il crollo del
Muro, l'avvento del berlusconismo, la guerra in Kosovo e la
crisi economica che dal 2008 dura ancora oggi.
La stella cadente per eccellenza è Achille, padre di famiglia,
industriale e politico conservatore e autoritario, con idee ben
salde nella testa e le redini dell'azienda tra le mani, che arriverà
a mettere in discussione tutto quello in cui crede, e a vedere il
declino della San Lorenzo srl, emblema di un tessuto di piccole
e medie imprese che non hanno saputo reggere gli urti della
globalizzazione e della crisi.
L'arma segreta di Achille è però la moglie Nora, donna intelligente, paziente e fedele, che riesce nel tempo a smussare
gli angoli più stolidi del marito.
Le altre due stelle sono i figli, Francesco e Gloria, nati la
notte di San Lorenzo. Racconto il difficile rapporto tra un padre rigido e un figlio che vuole seguire le proprie aspirazioni e
inclinazioni, ma anche la storia d'amore tra una "figlia di papà"
e un "figlio dei fiori", e quella tra un marito titanico ma fragile
e una moglie che si scoprirà essere la vera colonna portante
della famiglia. Due generazioni si incontrano e si scontrano,
inevitabilmente condizionate dalle sorti dell'azienda e dalle vicende della Storia.
Ai giovani protagonisti ho affidato il messaggio di speranza
con cui ho voluto chiudere il romanzo, al loro sguardo ho cercato di consegnare la possibilità di vedere oltre la crisi.
Questo libro nasce dal desiderio di descrivere la realtà che
vedevo attorno a me. Fare volontariato come odontoiatra
nell'ambulatorio della Caritas della mia città, ascoltare i discorsi dei pazienti, della gente comune, bastavano già per avere sotto gli occhi quello che leggevo e sentivo su giornali e telegiornali, e cioè le difficoltà, economiche e non solo, attraversate
dalla classe media italiana.
E poi credo che la scrittura origini dalla volontà di far pace
con i propri fantasmi interiori. Accompagnare le vite di Gloria,
che segue la strada tracciata dal suo clan familiare, e di Francesco, invece, "il ribelle", è stato catartico.
E sono convinta che sì, la vita o la si vive o la si scrive, perché la scrittura è stata parecchio totalizzante, ho lasciato molte
cose in sospeso durante la creazione del romanzo, mi sono sentita un po’ come morta al mondo. I momenti di sconforto ci
sono stati. Come altri molto esaltanti, di gioia traboccante.
l’EstroVerso
(75) Dicembre 2015
tant set of understandings that I bring to that position of
citizen, the most important stuff I’ve learned I think I’ve learned from novels.” http://www.theguardian.com/
books/2015/oct/28/president-obama-says-novels-taught-himcitizen-marilynne-robinson?CMP=fb_gu)
Essendo nati in un carcere di aneddoti curiosi me ne vengono
in mente tanti, dal nome nato per caso in una pausa caffè nella
saletta di Rebibbia che ci ospitava e dove un ragazzo sardo,
sentendoci ragionare sul nome che avremmo voluto – un nome
che desse il senso dei segni delle tante lingue che avremmo
ospitato, ma anche dei segni che lasciano le buone letture – ci
disse “SINNOS” e noi lo guardammo smarriti.
Ci spiegò che nella sua lingua voleva dire SEGNI. Ed è per
questo che ci chiamiamo così.
Qual è la vostra linea editoriale e precipuamente in quale
direzione si muove?
Per prima cosa ci rivolgiamo ai bambini e ai ragazzi. E cerchiamo storie speciali per loro. Storie che abbiano la vita dentro. Abbiamo iniziato con I Mappamondi, autobiografie in
doppia lingua di migranti che ci raccontavano da dove venivano e perché avevano scelto di arrivare. Proseguito con albi illustrati, narrativa, graphic novel, passando anche per la divulgazione con la collana di diritto “Nomos”, perché i libri non
sono solo storie, ma possono spiegare e insegnare, per esempio
ad essere cittadini scientifici, come il nostro ultimo titolo Lena
e la cittadinanza scientifica.
Il nostro progetto è legato senz’altro ai temi della cittadinanza
attiva, consapevole e partecipata. E a noi piace giocare con
temi forti raccontati in maniera leggera: nell’ultima narrativa,
arrivata dalla tipografia proprio mentre sto scrivendo, un cavaliere Saponetta, coraggioso e molto rigoroso, riuscirà a sventare l’imbroglio di un infingardo Conte Grigio, ma anche ad essere un po’ meno pulito… Questo ci piace raccontare ai ragazzi: che dobbiamo avere menti sveglie capaci di non farsi imbrogliare. E di essere capaci di leggerezza, quella sapiente però. Recentemente proprio il Presidente degli Stati Uniti ha detto che è cresciuto cittadino grazie ai romanzi ("When I think
about how I understand my role as citizen and the most impor-
l’editore racconta
Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo
un editore può salvaguardare l’autenticità della cultura e
conseguentemente scongiurare le ‘spaesamento’ del lettori?
Lavorando seriamente, scegliendo con cura e secondo il suo
progetto editoriale. Un editore solitamente investe lavoro e
denaro per pubblicare. E naturalmente non può prescindere
dal mercato: se non vendiamo i nostri libri smettiamo di progettare. Si può scegliere di essere editore puramente commerciale, oppure di essere editore, che – come diceva Calvino – ricopre un ruolo importante per la crescita culturale di
un paese. Se è questo che si è scelto di fare non sarà facile,
perché viviamo in un paese dove ci sono pochi fondi per biblioteche pubbliche, dove non ci sono biblioteche scolastiche, dove le librerie indipendenti soffrono. Ma si mantiene il
bello del nostro mestiere: cercare e pubblicare albi, romanzi,
graphic che «abbiano una forma, uno stile e qualcosa da dire,
possibilmente di nuovo», cito sempre da Calvino, raccontato
magnificamente da Ernesto Ferrero ne I migliori anni della
nostra vita.
Pro e contro dell’ebook.
Pro: comodo, utile per lettori forti che desiderano sempre
avere un libro a portata di mano.
Contro: ancora non riesce ad avere il fascino del libro e soprattutto ci si perde: il libro nella sua integrità è solido e ci si
può ritrovare fisicamente. Con l’ebook ancora non sai a che
punto ti trovi, quante pagine saranno, e come fare a tornare
indietro di un po’ se non ricordi la parola chiave… terribile.
Quali (in dettaglio) le vostre collane e le rispettive peculiarità?
Abbiamo albi illustrati, italiani e tradotti, in cui cerchiamo il
meglio dei segni e delle storie non solo per piccolissimi
(come La prima volta che sono nata, che emoziona anche gli
adulti). C’è la narrativa, con libri accessibili a tutti, grazie al
lavoro che facciamo da anni su font e accorgimenti grafici e
tipografici anche per dislessici. Partiamo dai piccolissimi con
letture in stampatello maiuscolo (LEGGIMI PRIMA) fino
agli adolescenti con la collana “ZonaFranca”: gli ultimi arrivi per queste due collane sono: Hai preso tutto? Di Veronica
Truttero e Alice Keller, un libro leggero, divertente e accurato nella storia e nelle illustrazioni, tutto italiano e Reato di
Fuga, bellissimo romanzo per adolescenti – ma anche per
noi adulti – dello scrittore francese Christophe Leon.
E poi ci sono le Graphic Novel, per raccontare anche temi
più seri (ma non solo) perché possano essere apripista di approfondimenti o “semplicemente” possano aggiungere consapevolezza e conoscenza. Abbiamo iniziato con Cattive Ragazze e l’ultimo arrivato, che abbiamo presentato alla fiera
‘Più libri Più liberi’ lo scorso 4 dicembre 2015, e La leggenda di Zumbi l’immortale di Fabio Stassi e Federico Appel.
l’EstroVerso
(76) Dicembre 2015
Quali libri (e per quali ragioni) segnalereste come
“indispensabili” già editi o di imminente pubblicazione?
Questa è una domanda difficile. Ci sono dei libri che
forse più di altri sono stati veicolo di conoscenza e emozione. Partiamo dai piccoli:
La prima volta che sono nata
Federico il Pazzo
Nina e i diritti delle Donne
Cattive ragazze
Amate le storie, le fiabe le leggende… potreste in futuro proporre una collana interamente
(esclusivamente) dedicata alla poesia da indirizzare
ai vostri giovani (o piccoli) lettori?
Ogni editore ha un suo progetto e la poesia non è mai
stata nel nostro progetto editoriale. Crediamo sia bene
che gli editori come noi, della nostra grandezza – e
quindi 9 persone, 25 titoli l’anno, grande impegno verso educazione alla lettura e quindi attività nelle scuole
– non debbano affrontare troppi temi. Il rischio è seguire tutto male. Speriamo però che la poesia abbia
maggiore visibilità e sia maggiormente pubblicata e
venduta in questo paese.
Quest’anno festeggiate un traguardo importate: 25
anni di attività. Potendo, con quale ‘racconto/i’ potreste sintetizzarceli? Sappiamo che avete scelto di
regalarvi autori d'eccezione come David Almond e
Fabio Stassi in uscita… questo e cos’altro?
Forse il racconto potrebbe essere quello su come è nato il libro su Zumbi. Perché racconta molto di noi e del
mestiere dell’editore, che ci piace fare.
Avevamo ascoltato le storie di alcuni ragazzi arrivati
dai paesi lontani che avevano affrontato viaggi terribili, in particolare grazie a “Griot”, un giornale prodotto
da Civico Zero, una organizzazione che accoglie a Roma profughi minori. Quello che ci aveva colpito in
alcuni racconti era che al dramma si accompagnavano
il rocambolesco e l’avventura nella voce di quei ragazzi, adolescenti, che avevano superato mille difficoltà
ed erano fieri di avercela fatta. Abbiamo chiesto a Fabio Stassi, autore che ci piace molto che sa mescolare
verità e immaginazione, viaggiando leggero nelle storie e nella Storia, se aveva voglia di scrivere una storia
su questi ragazzi. Fabio ci ha detto di no: perché era
storia troppo vicina e forse non sarebbe stato capace di
non cadere nella retorica o comunque di non dare giustizia a quelle storie. Ma aveva una storia, che da tempo avrebbe voluto raccontare. La storia di un nero brasiliano che si ribella fino alla morte contro il colonialismo, l’arroganza dei bianchi. E che diventa leggenda,
che addirittura brilla nel cielo brasiliano. Mentre Fabio
raccontava, Federico Appel che ci aveva presentato
Fabio, cominciava a tratteggiare giungla, animali e
battaglie. Ecco questa storia forse ci rappresenta perché mostra il desiderio di trovare storie che aggiungano senso, e soprattutto trovare chi le sappia raccontare
senza pesantezza.
Della Passarelli
(direttore editoriale di Sinnos editrice.
www.sinnos.org )
Questa è una rubrica per minori di anni 11 o per adulti accompagnati da minori di anni 11 o per
bambine e bambini senza età.
Il titolo nasce da una poesia di un mio scolaro di 9 anni, ucraino, Andrei:
Il cielo è un mantello
che ci avvolge tutti.
Il cielo di cui parla Andrei era nato durante un incontro di poesia, di colpo Andrei ha sentito che il
suo paese lontano stava sotto lo stesso cielo di Milano, perché il cielo che avvolgeva tutti era la
parola della poesia.
I bambini hanno bisogno della poesia perché assomiglia al loro pensiero galoppante e non li
costringe a tradurre tutto in linguaggio ragionevole.
I bambini hanno bisogno della poesia perché la poesia corre, la prosa cammina.
I bambini hanno bisogno della poesia perché ci sono gli a capo, i bianchi spazi, in cui mettere con
precisione tutto quello che non si può dire, tutto quello che sospendendo le parole le rende più forti,
più vere.
I bambini nelle poesie mettono i loro segreti indecifrabili.
poesia
l’EstroVerso
(79) Dicembre 2015
Varianze
di Maurizio Giudice
inedito
La varianza è uno scostamento dalla media, uno scarto.
Uno scarto tra linguaggio ed esperienza, tra normalità e devianza.
Una marginalità dal sistema produttivo, un fuori dall'ordine sociale del lavoro.
Una separazione della psiche disfunzionale dal mondo, dalle sue linee d'ingresso.
Una differenza nella scrittura in traduzione: una genetica della distanza.
Una periferia che non si fa centro, ma che ne è definita, attratta, in tensione.
Una tensione che, rotta, non ha più nomi, identità precise, ma deserto.
Sei poesie scelte da Varianze, Giuliano Ladolfi Editore, 2015
PERMANENZA
Abbiamo attraversato vent’anni,
ma non sono serviti a renderci familiari.
Non alle cose che verranno,
ma alla custodia di queste, al pane
mangiato in fretta, ai tuoi occhi vuoti
mentre parliamo d’altro.
Che il dolore non fosse una moneta di scambio
non ci è mai venuto in mente.
Così che il silenzio non basta,
bisogna raccontarlo, indicarvelo
col dito − un rumore
ininterrotto,
fermarsi: ecco.
Le dita non trovano la strada, sono trasparenti
le costole, il ventre. Le dita non trovano più la
strada
che le tue gambe, come un orologio,
segnavano così bene.
Fossi nel pianto, nel rovescio della medaglia, nel disordine.
Fossi nel punto cieco degli occhi, nei numeri divisi, moltiplicati.
Fossi nelle finestre aperte su cortili sbagliati. Fossi varianza, polimetria.
Fossi plurale, incerto, tradotto. Fossi piega della mano.
Il deserto avanza: nella rubrica telefonica
i numeri hanno cambiato di posto,
non trovo più le facce, i luoghi, le date.
Il deserto sale, ripara le pieghe dei nostri passaggi.
Altro e identico.
poesia
poesia
l’EstroVerso
(54) Settembre
(80) Dicembre
- Dicembre
2015 2014
Tommaso Di Dio, Tua e di tutti
di Emiliano Zappalà
Io le recensioni troppo critiche non sono mai stato bravo a scriverle. Quelle che devi metterti lì a confrontare, fare ricerche e
analisi testuali e retoriche. Purtroppo mi si spegne l’anima troppo presto. E torno subito a quelle tutte d’un fiato. Quando la mano ti trema più del cuore, sui tasti. Perché sai che stai facendo
qualcosa d’importante, di dovuto, d’imperdonabile.
Tua e di tutti esce per LietoColle nel 2014 nella collana gialla di
Pordenonelegge. È la seconda raccolta di Tommaso Di Dio e
segue l’acclamato Favole, edito nel 2009 da Transeuropa. Esaurita questa parte informativa, possiamo tornare alla poesia. Che è
grande e non sappiamo cosa sia. E che qui è quella cosa che avresti tanto ma tanto voluto scrivere tu, ma non l’hai fatto. Perché ti è mancato forse lo spirito, forse i nervi, più probabilmente
tutto il resto.
Versi che avrebbero potuto essere tuoi. E invece sono frutto del
genio di qualcun altro. E allora applausi. A spaccare la pelle
delle dita. A lui che ti ha fatto brillare lo sguardo, come si fa con
le bombe da disinnescare.
Io, le recensioni troppo critiche, non sono bravo a scriverle. Ma
qui non avrei potuto neanche a sforzarmi. Perché questa raccolta
è entrata troppo in fondo, troppo in fretta, già dalla prima sezione, dalle prime poesie.
Tutto questo non possiamo noi dimenticare
una volta cominciata questa impresa.
Il giovane ragazzo down
distribuisce i giornali. Tutte le mattine
non li vende non li compra
sotto la pensilina. Quando piove.
Quando c’è il sole. Tiene conto
dei minuti che mancano, perché arrivi
il pullman che ti scacci nella città
verso un lavoro altrove. Ha trovato
il suo compito; la sua fatica, il suo posto
senza prezzo né guadagno. Prendi
il giornale che ti porge; guardalo.
Anche lui, mentre mette in opera il mondo
sorride
in nome di nessuno.
Già da qui. Dall’attacco. Dal pezzo che apre la prima delle sette
sezioni, Una volta cominciata questa impresa. Un biglietto da
visita che segna subito il passo, ci lascia intendere cosa dobbiamo aspettarci; una poesia impegnata, fisica, concentrata, necessaria, incontenibile. Poesia che non è nata per caso, che non è
possibilità tra le altre. Figlia di un corpo a corpo combattuto
contro l’esperienza, contro le cose, prima ancora che contro la
lingua. Una poesia che si trascina (nel)la realtà quotidiana, che è
fatta delle nostre giornate, delle nostre esitazioni, della nostra
Italia sfatta e piccola, della nostra paura. Che beve dalla brocca
della cronaca, ma senza mai ammiccare, senza scorciatoie. Che
poesia
ci appartiene. Che è nostra, e tua, e di tutti. Che non ha paura
di usare la seconda persona, già dal possessivo del titolo
(preso da un verso presente nella seconda sezione), di puntare
il dito, guardare negli occhi, chiamarci in causa, inchiodarci
al nostro obbligo di essere presenti. E tenderci una mano.
Si sente nell’uso della lingua, nella nettezza delle strofe,
nell’essenzialità del verso, l’influsso di Mario Bendetti, maestro e amico di Tommaso Di Dio. Ed è una presenza che dà
spessore e profondità. Che infonde il bisogno immane della
scrittura e forse di salvezza. (E ogni mondo/ a cui hai creduto
come cosa salda e vera/ è già di altri negli altri corpi/ come
una bufera che non riconosci più; che non riesci/ ad amare
più).
Purtroppo però io di recensioni troppo precise non so scriverne e non riesco a perdere tempo per entrare nel vivo del fatto
poetico. O forse non ci riesco in questo caso. Quindi lasciamo
stare. Prendiamo il pezzo che state leggendo per quello che è:
un consiglio di lettura. Forse anche troppo accalorato.
Un invito aperto a leggere Tua e di tutti; per la possente fragilità che possiede, per la sua durezza sottile, per la brillantezza, per il rigore e la compattezza. Per la spietatezza (e sembra
tutto catrame/ questo tempo, senza rimedio/ senza soccorso).
Perché fa male alle mani e al petto e quel male corrobora.
Perché è una raccolta che abbraccia e custodisce, ma che nei
momenti inaspettati, negli attimi di distrazione, ti punta contro come un fuso, scende dritta al fondo delle cose, senza tremare, senza pietà (Tutto questo/ essere stati non basta/ bisogna ripetere tutto, capitolare./ Bisogna pagare).
Leggetela, perché è un ottimo punto di partenza. O forse è già
l’approdo.
Forse bisogna chiudere gli occhi
aspettare che il colpo cada
di traverso e spacchi
la veglia come al fondo del ramo ora s’apre
il boccio più caro alla stagione. Milano
le case le strade; la sera, lo sgorgo
alla curva verso dove i passi non più
sono veri. E penso a quell’arabo
giovane e fermo negli stretti suoi jeans
le scarpe splendenti della
fibbia d’oro in via Vitruvio ad aspettare
la grazia da qualche parte come me, la grazia
di qualche animale che come me
abbia fame.
l’EstroVerso
(82) Dicembre 2015
da «Si chiude da sé», raccolta inedita (2015)
di Gabriella Montanari
9 sezioni contenenti ognuna 9 poesie, tutte di 9 versi. Numero della continua rigenerazione, della reincarnazione. La perfezione al quadrato. Simbolo di compimento, archetipo del femminile, della terra. I
gironi infernali e le sfere celesti. Novembre. Gli alti e i bassi. La mobilità.
Stazioni, binari, sale d’attesa, aeroporti, autobus, metropolitane. Luoghi d’incontro/scontro, di ritrovi e
perdite, di strappi che solo le parole - annotate su riviste, libri, biglietti e carte d’imbarco - tentano di
ricucire in un viaggio lungo quanto l’attesa di un abbraccio. Arrivi e partenze cicliche che invocano la
pace di una fermata prolungata, di uno stop.
Si chiudono da sé le porte che separano carrozze, scompartimenti e relazioni. Non sempre in automatico, però. Le dita restano nel mezzo più spesso di quanto si pensi. Solo quando un rassicurante pulsante
sostituisce l’arcaica ma fascinosa maniglia, i vagoni davanti e quelli dietro non sono più spazi scomodi
da attraversare.
0:1
plani come uno stormo di grandine, l’antartico nel ricevitore.
deglutiti i prossimi cent’anni nello spazio di due grumi di saliva,
spalancate le ultime riserve di baldanza, spostato il sugo dal fornello
resto l’amante che muore sul palco mentre inscena l’amica.
finché, stanotte, io mossa, tu levigato cuoio di carruba, ti svesti del ghiaccio
e mi sali in spalla col peso dell’inverno smistato tra albergo e locomotore.
dico, ma la conosci la sorte del vento? li succhi gli oleandri, tu?
lasciami la pagina pulita di un quaderno senza spessore,
scrivici solo se te lo detta l’involontario. muscolo ora ingordo di letargo.
0:2
sui binari mi appaiono vagoni carichi di tutti i graffi del mondo
stipati contro le assi del tempo, cartilagine di ore e giorni obliterati con diligenza.
fuori nevica inerzia e il meteo prevede quel che già sapevamo da morti,
ma il ragazzino ruota sui suoi tacchi da lavoro, il taccuino conficcato nella coscienza.
sembra un vecchio cresciuto in serra, gonfio di giovinezza modificata
avrà i tuoi anni, o forse i miei e un girasole con cui indorare le rotaie.
i viaggiatori non sospettano che in bocca abbia ancora il suo zenzero
spruzzato in cabina di guida a un ritmo di macchina che fende la notte.
non lo pulisco, voglio tutte le gocce del dio che mi ha istillato.
0:3
stanotte le rotaie hanno indossato neve come un presagio di nozze,
i binari si sono arresi e il frecciarossa ha rinunciato al paso doble dei ritorni.
sotto il cappello eri azzurro, appena sfornato dall’attesa dei bruchi,
sapevi di sandalo e opossum e la tua spalla liscia parlava il dialetto dei déjà vu.
io avevo in serbo mutande a sufficienza per me e venere
e con l’abbandono stipato sulle labbra ho messo la notte in mano all’incanto.
ti ricordavo così, più morbido di un abbraccio, capace di diventare mantello
la casa fedele, il fiume in corsa col gelo e l’islam, i vuoti da non perdere.
abbiamo avuto il nostro terzo giorno e del sudario si è persa la traccia.
inediti in anteprima
l’EstroVerso
(84) Dicembre 2015
0:4
mi sa che stasera gongolo, con la densità di una nana a corto d’arti,
vedo in fondo al cannone l’oblò della nave a cui daremo fiato
e, ancora più in là, un cortile galleggiante e gatti a guardia di noi che rimiamo.
hai mani per scolpire un sorriso al legno, legno spiaggiato dopo la gara col sale,
io uso i denti per ritagliarci una di quelle sere grigie fuori e odorose dentro.
attento a non bruciare ali, ali di pollo e pelle d’alluminio, attento a noi
che ci scottiamo facilmente. ci serve ovatta, e cera, fiori di cera per cena.
ora mi stendo così mi annusi, là dove la sterpaglia si è fatta serra
e il tuo seme vi sguazza come un bambino rapito dal piacere del fango.
0:5
sai quella rabbia letargica che prude sotto la pelle come un sisma,
quella dei pecorai mongoli per i lupi d’argento della steppa,
la stessa che indossiamo quando la mano tasta il cuscino a vuoto.
la sai. ma la cagna non avrà il mio osso, inamidato a fatica sull’asse guasto,
non cederò alle moine della lava né alle pastosità della bile grassa.
resto con un pugno di lucciole in mano, effimere schegge di noi che ci spegniamo
odorando di tiglio ferroviario e di mensa da dopolavoro immaginario.
urgono vestiti nuovi per l’imperatrice detronata, tessuti senza trame
e cartamodelli per il guardaroba dell’estate nordica che verrà.
0:6
per un destino deragliato ci si ritrova a imbustare piastrine di sangue donato,
ritagli di prospettive esotiche e vasi di fiori miracolati da un pollice celeste,
a stipare la gioia nei bagagliai brulicanti di sole e pane senza denti,
con mani viola di livore e baci ingabbiati dal ritegno.
il viaggio porta con sé puzzle incompleti, cani mai adottati, ex voto, sfiati
e la strada è così lunga da sembrare l’alito di un creatore di mondi alati.
ti conservo tra gli organi vitali, tra le foto stampate nell’esistenza tutta.
ora so la generosità di un buongiorno augurato per primi e mi sorrido con affetto.
dimentica il futuro, mi dico. guarda, albeggia.
inediti in anteprima
l’EstroVerso
(85) Dicembre 2015
Il Giaurro, o l’infedele
di Giovanna Iorio
Philip Levine (1928-2015) era il poeta degli operai, delle persone comuni, degli
americani ai margini del sogno americano. La sua poesia ha "la forza della vita" [Robert Pinsky], la sua voce è prestata "a chi non ha voce". Solo in apparenza,
dunque, una lingua colloquiale, un ritmo rilassato. Traducendo Levine ci si accorge che il poeta non si fida affatto del linguaggio della poesia, dei multipli significati che disorientano, confondono, allontanano dalla realtà. Le parole di Levine
ubbidiscono ad un bisogno di concretezza e per questo quasi scompaiono per lasciare spazio a una storia. Urgente, dietro ogni parola, è il racconto di una lotta
con la realtà. Semplice è dunque l'aggettivo che si addice alla lingua di Levine
che deve poter aderire alla vita senza artefici. Qualcosa di autentico e vero s'intravede nelle parole trasparenti di Philip Levine.
Il risveglio di una donna
di Philip Levine
Si sveglia presto ricordando
suo padre che si alzava al buio
e accendeva il fornello con un fiammifero
strofinato sul pavimento. Poi misurava
l'acqua per il caffè e dopo il profumo
riempiva la stanza. Lo sentiva
asciugare i cucchiai, posarli
uno ad uno nel cassetto.
E poi era già sulle scale
a prendere il latte. E presto
eccolo alla sua porta
a svegliarla con delicatezza, così lui credeva,
con una mano sulla nuca, la scuoteva
avanti e indietro, odore di benzina,
sussurrava. Poi se ne andava.
Ora lei scuote la testa e via
lo scaccia e non si alzerà.
C'è nebbia alla finestra
sono diventati spessi i rami alti
dei sicamori. E lei pensa
alla sua cucina, alla lavastoviglie
che s'apre e sbadiglia, al cartone di latte
lasciato a gocciolare sul tavolo. Ai suoi figli
usciti in un vapore bianco come pecore.
Ieri sera erano qui?
Dove abitano? si chiede,
con chi? Sono a casa?
Nel cortile il giovane susino,
di poco più alto di lei, lascia cadere
la sua prima foglia gialla. Ascolta
e non sente nulla. Se si alzasse
e camminasse a piedi nudi sul pavimento di legno
nessuno verrebbe a riportarla
a letto oppure a darle
un bicchiere d'acqua. Se bollisse
un uovo diverrebbe scuro
davanti ai suoi occhi. Il cielo è stanco,
distoglie lo sguardo senza una parola.
Freddo è il cuscino accanto,
c'è ancora il vecchio odore di sapone.
Le mani fredde. Che ora è?
poesia
l’EstroVerso
(86) Dicembre 2015
Théo Sauer, Incrocio
Tempo e viaggio nella Preparazione
alla pioggia di Broggiato
di Pietro Russo
Sulla scia del motivo eliotiano – in my end is my beginning –
il senso della Preparazione alla pioggia di Tiziano Broggiato
(Italic Pequod, 2015) sembra delinearsi a partire dall’ultimo
testo che chiude le sei sezioni della raccolta (prima del poemetto Ascoltando Marylin riproposto in una restaurata veste
formale): Sessantesimo. Qui ci troviamo di fronte, come
nell’explicit sereniano di Stella variabile, a una soglia composta da «allegorie, confusi ghiacci / alla deriva» che il soggetto
poetante è chiamato a oltrepassare, dando così forma a
quell’«archetipo del viaggio» che Francesco Napoli nella nota
critica finale riconosce a ragione come cifra distintiva
dell’opera poetica di Broggiato.
Eppure in quest’ultima fatica dell’autore vicentino, poeta certamente sensibile al richiamo di «geografie e topografie» – per
dirla ancora con Sereni – il dato meramente spaziale si mostra
poesia
più rarefatto e, alla lunga, meno preponderante rispetto ad
altri lavori più recenti; su tutti Città alla fine del mondo. Il
paesaggio, anche quello ‘dichiarato’ (Paesaggio nordico con
poesia), nel suo costituirsi dialetticamente tra esterno e interno della soggettività – la cosiddetta finestra dell’io – si risolve a favore del secondo termine: «Da allora nessuna vista,
più, / dalla finestra. / Fuori, un gelo frizzante stemperava / un
inequivocabile sguardo di congedo.» (Da allora nessuna vista).
Dunque, se di viaggio è lecito parlare a proposito di
quest’opera, esso risulta più che altro correlato con ogni evidenza alla dimensione temporale: alla stregua del «mezzo del
cammin di nostra vita» di facile memoria, infatti, la circostanza anagrafica di Sessantesimo diventa occasione per un
bilancio riassuntivo, benché assolutamente provvisorio, della
propria esistenza.
Cronologicamente posto tra un passato evocato con una nitidezza che concede poco all’abbandono elegiaco e qualche
raro presagio di futuro, il soggetto di Preparazione alla pioggia vive un hic et nunc che la scrittura poetica prova a definire con una precisione millimetrica, come a voler congelare il
presente nella superficie estesa e incommensurabile di un
non-luogo e di un non-tempo: «Così, seduto nel cerchio luminoso / di una lampada, dirigo lo sguardo / altrove: forse è
davvero questo, / fuori tempo, il mio paradiso» (Provvidenza). A ciò concorre anche la reiterata condizione di dormiveglia nel cuore della notte che sembra rifrangersi all’infinito: un Limbo (ancora un «fuori tempo») tra
un’insonnia che sfigura i contorni del reale e il sottilissimo
diaframma del sonno; tra «un’oscurità ovattata, / fuori orario» (Nel quotidiano esercizio del male) e improvvise luci
che penetrano dal pavimento di una camera di albergo (Hotel
Speranza).
Non ci sono punti di riferimento, spaziali e temporali, nel
presente di Broggiato: «Tutto sta diventando più remoto, / o
più vicino, come la voce che, di là, / pretende il mio ritorno. /
Ma io non sento. Non sento.» (Nel quotidiano…); tutto ciò
che il poeta può opporre a questo stato di cose, ad esempio
l’«intesa con la parola, la sua / forma essenziale e l’innesto
preciso / nel senso verticale del testo», appartiene ormai a un
altro tempo (e luogo): «tutto questo, e altro ho avuto, / nel
mio giusto tempo, a portata / di mano.» (L’intesa con la parola).
Senza timore si può sostenere allora che Preparazione alla
pioggia gravita intorno all’ossessione del tempo e per il tempo, come si ricava da uno dei momenti più intensi della raccolta:
poesia
l’EstroVerso
(72)(88)
Gennaio
Dicembre
- Giugno
20152015
Amica, indifferente è il tempo
alle tue scelte di alimentare trame
di mai sopiti rancori
e di convocare anzitempo la vertigine
di stagioni che non sai se mai
ti apparteranno.
Ascolta la rissa degli uccelli
che rompe l’incanto e li fa
assomigliare a noi.
Anche la loro è una menzogna
che andrebbe riscritta.
E il tempo, il tempo
è un’agile anguilla che
la prospettiva dell’acqua dilata
e che sguscia irridente tra le
nostre mani ogni volta che tentiamo
di trattenerla.
(*)
Appurato il vero scacco della finitudine umana –
l’impossibilità di trattenere il tempo/anguilla – persino il canto
degli uccelli si tramuta prima in una cacofonica «rissa» e poi,
petrarchescamente, in una «menzogna / che andrebbe riscritta»; una menzogna che, va da sé, chiama in causa la
«vertigine» della primavera, metafora stagionale di una giovinezza che in un testo precedente l’io poetante aveva rinnegato:
«Mai amato la primavera / per via dei precoci risvegli, / della
sua luce eccessiva / e per il frastuono provocato / dal ritorno
degli uccelli. // Meglio le altre stagioni, / più risolute, dai confini precisi.» (Mai amato la primavera).
In questa scansione stagionale del tempo, ecco che la Preparazione alla pioggia che dà il titolo alla raccolta si configura
come una nitida allegoria della dimensione esistenziale
dell’attesa, o meglio: un’attesa che qui lascia presagire la nostalgia di crepuscoli e di colori smorzati tipica dell’autunno;
un predisporsi all’ignoto di là da venire:
Prepariamoci alla pioggia.
(Preparazione alla pioggia)
Tuttavia l’apertura parenetica finale, pur nell’angoscia sottesa a questo ‘sentimento del tempo’, pare voglia sistemare
tutto il peso su quell’imperativo che esorta a un’azione non
solitaria, a non aspettare passivamente e sprovveduti i rovesci del futuro, prospettando così una «consolazione» capace
di saldare il ricordo e l’attesa in un unico tempo, nella possibilità di un nuovo «viaggio» che finalmente potrebbe congiungere l’inizio e la fine in un solo estremo:
È un viaggio in barca, di notte
al centro della corrente.
Il fiume scorre impetuoso e ostile
e secondo il Santo l’oscurità è tanto
densa
da non concedere riferimenti.
L’intruso cercherà di governare,
ma non troverà remi né timone.
“Un ramo proteso” sarà l’ultima, alta
invocazione per poter guadagnare
la sicurezza della riva.
Ma nella vita che gli rimane
non potrà più saziarsi di nulla
per non avere saputo attendere
la quarta vigilia, il termine della notte.
(La via di Agostino)
Viaggio e notte. Solo in queste minime coordinate la «via»
indicata dal santo di Ippona – quello stesso che concepiva il
tempo come incessante e infinito presente – si palesa dunque
come ennesima e conclusiva rappresentazione del leit motiv
della «luce» che a conti fatti attraversa l’intero libro: ovvero,
in altri termini, stella polare che squarcia la densa oscurità e
guida i passi dell’uomo «nella vita che gli rimane». Una vita
da vivere con pienezza e nitidezza perché tutta incardinata
sulla consistenza, umana troppo umana, dell’attesa.
Dal portone, improvvisa come una folata,
l’eco di una donna che ride.
Tiziano Broggiato è nato nel 1953 a Vicenza, dove tuttora
Poi rumore di vetri, la luce
risiede. Le sue più recenti raccolte di poesia sono: Parca lux
che pian piano va via.
(Marsilio, Venezia, 2001) Premio Montale e Premio Unione
Lettori Italiani, Anticipo della notte (Marietti, Milano, 2006)
Scorre lento il sangue dopo l’incontro. Dieci poesie («Nuovo almanacco dello Specchio n. 3», MonCerca consolazione nel silenzio,
dadori, Milano, 2007) e Città alla fi ne del mondo (Jaca
in quella vaga insonnia che presto
book, Milano, 2013). Ha curato le antologie: Canti
diventerà definitiva.
dall’universo. Dodici poeti italiani degli anni Ottanta
(Marcos y Marcos, Milano, 1988) e Lune gemelle (Palomar,
Il cielo ora sembra una rete si suole Bari, 1998). Sue poesie sono state tradotte, per antologie e
nere.
riviste, in varie lingue. Da segnalare, in volume, Davancer la
C’è appena il tempo per convincersi nuit (Edition revue Conference, Trocy en Multien, 2007, trache nessuna
duzione in francese di Cristophe Carraud) e Against the light
consolazione è abbastanza grande
(Guernica editions, Toronto, 2012, traduzione in inglese a
da soddisfare tutti.
cura di Patricia Hanley e Laura Mosco).
poesia
l’EstroVerso
(89) Dicembre 2015
Zbigniew Herbert
Recinzioni
«Resta da capire, Antonio, come una cosa del genere sia potuta
capitare a Larkin».
«Una targa in suo onore nel Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster e sembra spazzata via la sua sempre difesa e invidiabile
coerenza!».
«Il poeta dell’understatement, Larkin, uno che in vita amava tenere un profilo basso, e aveva persino rifiutato, tra le altre cariche, la nomina a Poeta laureato, tra poco più di un anno celebrato
nel luogo più sacro e istituzionale d’Inghilterra».
«E pare che il reverendo John Hall, il decano di Westminster,
abbia scelto di scolpire sulla lastra i versi di Church going».
«Anche questa, una bella trovata: all’interno dell’Abbazia di Westminster una poesia sull’incapacità di comprendere la religione,
e anzi una poesia che dichiara morta l’istituzione stessa della
Chiesa. Che humour».
«Adesso me l’immagino il riservato Larkin, lui che diceva di
pensare ai party letterari come l’inferno sulla terra, prepararsi a
impacciate conversazioni con Ted Hughes, Geoffrey Chaucer,
Edmund Spenser e altri, con un bicchiere pieno di sherry in mano».
«Guarda, lo immagino anch’io: scontroso e a disagio in mezzo a
tutta quell’ufficialità che aveva sempre fuggito. La stessa scontrosità, lo stesso rifiuto di qualsivoglia tentativo di manipolazione
in nome di una interiore coerenza al proprio sistema di valori che
non fatico a immaginare in Zbigniew Herbert, che per certi versi
somiglia tanto a Larkin».
«D’accordo con te. E vedremo poi in cos’altro si assomigliano, i
due. Ma entriamo subito nel vivo di questa discussione sulla fedeltà a se stessi, di quella fedeltà che può scontarsi anche con la
morte, riportando alcuni versi da una delle poesie più intense di
Herbert, Il messaggio del Signor Cogito: “non ti abbandoni il tuo
fratello Disprezzo / per spie carnefici vigliacchi – saranno loro a
vincere / e verranno al tuo funerale gettando con sollievo una
zolla / e il tarlo scriverà la tua biografia addomesticata”».
«So già che vuoi porre l’accento sul sintagma ‘biografia
addomesticata’».
«Perché credo che si attagli bene al caso di Larkin. Accoglierlo a
Westminster, e sia pure con una lastra commemorativa, equivale
a disinnescare la coerenza del suo pensiero, che in vita aveva
sempre difeso. Il suo agnosticismo, per esempio. Pensiero che
viene così annacquato, snaturato, addomesticato appunto».
«Lo stesso pericolo che temeva per sé Herbert. Forse alla luce di
una esperienza umana e politica diversa da quella di Larkin, nonostante i due fossero quasi coetanei».
«Del ’22 il poeta britannico, del ’24 Herbert».
«Che era polacco, di Leopoli. Anche se la famiglia del poeta era
di origine inglese, giunta in Polonia dall’Austria. Nel ’39 il dramma della sconfitta dell’esercito polacco contro i tedeschi. E la
conseguente occupazione di Leopoli, in base al patto RibbentropMolotov, da parte dei russi, che la cedono poi nel ’41 alla Germania nazista. Herbert si impegna politicamente, fonda un partito
clandestino, subito scoperto. E subito dopo, entra nella resistenza
polacca, di orientamento anticomunista, contro i tedeschi. Dopo
la fine della guerra, Herbert vive l’incubo dell’occupazione sovietica e dello stalinismo. Incamera pertanto l’esperienza di diversi sistemi politici: “Quest’addensamento ha suscitato in me un
poesia
a cura di Antonio Lanza e Vincenzo Galvagno
senso storico, una certa empatia, forse addirittura la capacità di comprendere la gente di epoche lontane”. Nonostante tre lauree, si adatta a
lavori scarsamente pagati, e umili. Chi lo frequenta in quel periodo
parla di un uomo “cortese, cordiale e mite”, impregnato di filosofia
stoica: “Leggevamo dunque Epitteto, Marco Aurelio, e ci esercitavamo nell’arte dell’atarassia, cercando di estirpare dalle nostre anime
passione e rivolta”».
«Una poesia, quella di Herbert, fortemente sollecitata dalla storia,
Vincenzo. Il che è inevitabile in un paese in cui, come dice un altro
grande poeta polacco, Miłosz, è “difficile difendersi dalla storia”».
«Una poesia però mai impalcata. Antiretorica, antilirica. Che trascende il dato autobiografico attraverso mascheramenti mitologici e letterari, che ne assolutizzano e universalizzano i temi. E uno stile asciutto,
misurato, da leggersi, a mio parere, come presa di posizione e atto di
implicita accusa contro l’imperante retorica, la vuota arroganza del
regime comunista».
«Lo stile non è mai innocente, concordo. Come non lo era l’ermetismo
degli anni Trenta in Italia: una parola pura, spolpata, verticale per fuggire la volgarità del Fascismo. A tal proposito riporto questi versi di
Herbert che mi sembra avvalorino la tua tesi, e dicano inoltre come ‘la
scienza del bello’ potesse aiutare a combattere e contrastare o quanto
meno a smascherare i regimi totalitari, endemicamente privi di senso
estetico: “Non c’è voluto certo un grande carattere / per il nostro rifiuto dissenso e opposizione / abbiamo avuto un pizzico del necessario
coraggio / ma in fin dei conti è stata una questione di gusto / sì di gusto / […] Chissà se ci avessero tentato meglio e con più grazia / […]
una dialettica di carnefici nessuna finezza nell’argomentare / una sintassi priva della grazia del congiuntivo».
«L’ironia sottile, l’assenza di punteggiatura, la limpidezza del dettato
ne fanno un poeta di straordinaria godibilità».
«Ed è un autore, come lo fu Larkin, straordinariamente parco: solo
otto raccolte di poesie nella sua carriera».
«Il che dà ancora più peso e importanza alla sua parola poetica improntata alla necessità e al rigore».
«A tal proposito, ancora dal premio Nobel Miłosz: “Perché è lecito
scrivere versi di rado e controvoglia, / spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento” (corsivo mio)».
«Ritrosia a scrivere versi che ovviamente non vuol dire rinuncia. Herbert si rende conto che l’arte non possiede la forza di intervenire sulla
storia o sulla società per modificarla o migliorarla. È convinto però
che lo spazio in cui l’artista può intervenire sia la coscienza umana e
che l’obiettivo della poesia sia di rendere l’uomo più sensibile nei
confronti dell’ingiustizia e dell’umiliazione».
«La consapevolezza di essere nient’altro che un testimone, ancorché
non indifferente, del proprio tempo. Lo dice chiaramente nella poesia
Rapporto dalla città assediata che dà anche il titolo al suo terzultimo
libro di versi: “Troppo vecchio per portare armi e lottare come gli altri
– / hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista /
metto per iscritto – chissà per chi – la storia dell’assedio”».
«Significativo poi, Antonio, che nella stessa poesia di cui tu citi
l’incipit, Herbert dica di non poter essere preciso su “quando
l’invasione ebbe inizio”. Perché, evidentemente, l’assedio della Città
continua sempre. Anche oggi, in cui, almeno in Occidente, l’assedio
ha un significato solo metaforico, ma non meno pressante o urgente.
poesia
l’EstroVerso
(72)(90)
Gennaio
Dicembre
- Giugno
20152015
Ogni uomo è un cittadino assediato, ci dice Herbert, e la poesia, anche
oggi, è una delle poche forme di resistenza che ci rimane».
«Poesia come resistenza. Un concetto, almeno questo, mi auguro, non
addomesticabile».
A Marco Aurelio
Due gocce
Al prof. Henryk Elzenberg
I boschi bruciavano –
e loro
s’intrecciavano le mani intorno al collo
come mazzi di rose
la gente correva nei rifugi –
lui diceva mia moglie ha capelli
in cui ci si può nascondere
avvolti nella stessa coperta
sussurravano parole prive di vergogna
litania d’innamorati
Quando il pericolo era grande
si saltavano negli occhi
chiudendoli forte
così forte da non sentire il fuoco
che gli arrivava alle ciglia
Buonanotte Marco spegni il lume
e chiudi il libro Già alto si leva
l’argenteo allarme delle stelle
il cielo parla con una lingua straniera
è il barbaro grido del terrore
che il tuo latino non conosce
è la paura l’eterna oscura paura
ora batte sulla fragile terra
umana E vincerà Odi il rombo
è la marea Distruggerà i tuoi
libri l’inarrestabile fiumana
e del mondo crolleranno i muri
quanto a noi – tremare al vento e
di nuovo smuovere ceneri aria
morder le dita dir parole vane
trascinarci dietro ombre di morti
perciò Marco sospendi la tua quiete
dammi la mano sopra le tenebre
lascia che essa tremi quando il cieco
universo picchia sui cinque sensi
ci tradiranno universo astronomia
computo di stelle saggezza d’erbe
e la tua grandezza troppo immensa
e il pianto mio impotente o Marco
fino alla fine coraggiosi
fino alla fine fedeli
fino alla fine somiglianti
come due gocce
sospese sull’orlo d’un viso
La casa
Le tre poesie riportate sono tratte dalla prima raccolta
di Herbert, Corda di luce. L’edizione di riferimento è
quella di Adelphi, a cura di Pietro Marchesani, con un
saggio di Iosif Brodskij.
La casa sulle stagioni dell’anno
la casa di bimbi animali e mele
riquadro di spazio vuoto
sotto una stella assente
la casa era il cannocchiale dell’infanzia
la casa era l’epidermide della commozione
la guancia della sorella
il ramo dell’albero
la guancia l’ha soffiata via la fiamma
il ramo l’ha cancellato un proiettile
sulla cenere friabile del nido
la canzone dei fanti senza tetto
la casa è il cubo dell’infanzia
la casa è il dado della commozione
l’ala della sorella arsa
la foglia dell’albero morto
poesia
Zbigniew Herbert, nato a Leopoli nel 1924 e morto a
Varsavia nel 1998, è considerato tra i massimi poeti europei del Novecento. È autore di otto libri di poesie, una
raccolta di drammi e di due saggi. Nel 1993 è uscita in
Italia, per Adelphi, una antologia che raccoglie il meglio
della sua produzione poetica, tratta dai primi sette libri
di Herbert, Rapporto dalla città assediata, adesso quasi
introvabile, con una indimenticabile introduzione di Iosif Brodskij. Nel 2008 la casa editrice Il Ponte del Sale
ha curato l’edizione dell’ultima raccolta del poeta polacco, Rovigo, tradotta da A. Niero.
l’EstroVerso
(91) Dicembre 2015
La riva sinistra
di Andrea Giampietro
Il nome di Leconte de Lisle (1818-94) dice poco oggi in Italia, almeno a chi non sia esperto o appassionato di letteratura francese, eppure in Francia le sue opere brillano nella costellazione della Pléiade
di Gallimard, onore riservato solo ai grandi. Infatti, oltre ad essere un illustre poeta e traduttore
(realizzò apprezzate versioni di classici greci e latini, da Omero a Orazio), e membro dell’Académie
française, fu il caposcuola di quella corrente detta Parnassiana, che formò due dei più grandi geni della
poesia francese, Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé. Insieme ad altri grandi nomi, come Théophile
Gautier e Catulle Mendès, de Lisle diede vita a quel cenacolo di letterati, a quella fucina di sperimentazione poetica che avrebbe visto la sua realizzazione nella pubblicazione del Parnasse contemporain,
edito nel 1866 dal libraio Alphonse Lemerre (a cui sarebbero seguiti altri due volumi, nel 1871 e ‘76).
L’estetica di questa nuova scuola è presto spiegata dal critico napoletano Vittorio Pica, grazie al quale
l’opera dei cosiddetti decadenti e simbolisti francesi venne diffusa in Italia alla fine dell’Ottocento: «In
opposizione al lirismo ispirato, tempestoso e scompigliato di Musset e Lamartine, ai quali poco stava a
cuore la ricchezza della rima e la sonora armonia dei ritmi, i Parnassiani [...] volevano bandita la passione dai canti dei poeti ed aspiravano ad un ideale di bellezza plastica, ad una fredda e splendida rigidità marmorea, ad un superbo ed impassibile oggettivismo». Ed ecco qui un perfetto esempio del taglio
incisivo, della precisione classica, della forgia sottile e scultorea dello stile di Leconte de Lisle, che fu
nominato, a ragione, “Principe dei poeti” (suoi successori sarebbero stati proprio Verlaine e Mallarmé),
per la profonda innovazione portata nella Poesia francese. I versi che pubblico di seguente sono tratti
dalla raccolta Poemi tragici (1886). Nella foto a destra Jacques Leonard Blanquer, ritratto di Charles
Leconte De Lisle
A un Poeta morto
Tu, i cui occhi erravano, alterati di luce,
dal colore divino al contorno immortale
e dalla carne viva al fulgore del cielo,
riposa nella notte che sigilla le palpebre.
Vedi, intendi, senti? Vento, fumo e polvere.
Amare? Solo fiele nella coppa dorata.
Come un Dio annoiato che diserta l'altare,
rientra e disperditi nell'immensa materia.
Sulla tua muta tomba, sulle ossa logorate,
che un altro versi o no le lacrime consuete,
che il tuo secolo sciocco ti scordi o ti onori;
invidio, nel profondo dell’oscuro sepolcro,
il tuo fuggir la vita ed il più non sapere
l'infamia di chi pensa e il male d'esser uomo!
À un Poète mort
Toi dont les yeux erraient, altérés de lumière,
De la couleur divine au contour immortel
Et de la chair vivante à la splendeur du ciel,
Dors en paix dans la nuit qui scelle ta paupière.
Voir, entendre, sentir? Vent, fumée et poussière.
Aimer? La coupe d’or ne contient que du fiel.
Comme un Dieu plein d’ennui qui déserte l’autel,
Rentre et disperse-toi dans l’immense matière.
Sur ton muet sépulcre et tes os consumés
Qu’un autre verse ou non les pleurs accoutumés,
Que ton siècle banal t’oublie ou te renomme;
Moi, je t’envie, au fond du tombeau calme et noir,
D’être affranchi de vivre et de ne plus savoir
La honte de penser et l’horreur d’être un homme!
poesia
l’EstroVerso
(92) Dicembre 2015
Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto
in ogni mio intuire. Ed è volgare,
questo non essere completo, è volgare,
mai fu così volgare come in quest’ansia,
questo “non avere Cristo” - una faccia
che sia strumento di un lavoro non tutto
perduto nel puro intuire in solitudine,
amore con se stessi senza altro interesse
che l’amore, lo stile, quello che confonde
il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,
- sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,
sulle casupole del Meridione - col sole
della pellicola, pastoso sgranato grigio,
biancore da macero, e controtipato, controtipato,
- il sole sublime che sta nella memoria,
con altrettanta fisicità che nell’ora
in cui è alto, e va nel cielo, verso
interminabili tramonti di paesi miseri…
Pier Paolo Pasolini da poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, 1964
Dove finisce l’erba
e comincia il mare.
Chiarezza rivelatrice e discernimento
nelle poesie di Maria Gabriella Canfarelli
di Grazia Calanna
«Si sa che, forse, il fine ultimo della poesia è il paradiso, e che
un'esperienza paradisiaca, il "paradisiaco", è il miraggio più o
meno confessato di ogni poeta, miraggio dalle più diverse coloriture, ma terribilmente uno nel suo carattere. Pochi toccarono questo non-luogo dell'esperienza, anche se ogni testo, perfino il più "infernale", ha un qualche rapporto con questo nonluogo». Trovo calzante la riflessione di Andrea Zanzotto per
introdurre Dichiarazione giurata dell’attrice, edizioni Novecento, di Maria Gabriella Canfarelli: silloge distinta dalla specularità tra vita e morte. Il "sentimento del tempo" nella sua
grigia / granulare consistenza, attraversa versi epigrammatici
che incombono per chiarezza rivelatrice, incisività e discernimento.
per sempre
non fa mai caldo
a certe latitudini
e scongiuri
di uscire dagli occhi
pesanti
ostruiti
dai battiti del mondo,
da certe strade segnate
dalle ferite
ai bordi
dell’ultima lettera,
in cui non leggerai
dell’infanzia
saltata
a piè di pagina
- per sempre chiusa.
Bartolo Cattafi, richiamato anche dalla scelta di alcuni lemmi
(pensiamo alle raccolte poetiche “Qualcosa di preciso”,
“L’osso, l’anima”, “Nel centro della mano”) innesta una riflessione sulla condizione dell’essere umano. Interpreta il
reale per mezzo di una poesia nuda. Una poesia senza corrosioni, ne incertezze che tocca (o forse è meglio dire impugna) l’essenza delle cose. Indicativa in tale senso la poesia
‘bucato’ (una perfetta sintesi del libro) che evidenzia il legame esistente tra il tempo, la natura di tutto ciò che è temporale, effimero, come il corpo, il dolore e l’amore profuso in un
milione di abbracci.
bucato
lo specchio d’anni
riempito,
la lavatrice
che gira
riavvolge
un mondo minato
lustrato
da litri d’acqua,
deterso ogni dolore
dai panni
un milione di abbracci,
di passi
distanti andati
da un’altra parte.
Anche quando non utilizza la forma impersonale, la Canfarelli mantiene un’atmosfera universale.
Sin dal titolo ossimorico (Dichiarazione giurata dell’attrice) è
chiara la strada che percorreremo leggendo la raccolta: manca / del tutto / la voglia / di indossare parole a decoro, / vestiti dal taglio / perfetto / che un poco faccia / bella, / meno
male / la vita. (da “meno male’); altresì, nella poesia omonima
alla raccolta, e dunque torniamo a ricollegarci alla citazione
iniziale, non sfugge l’implicito riferimento alla ricerca del
"paradisiaco". In tal senso troviamo inequivocabili i versi: di
mano in mano / incontro all’inverno / tessuto doppio, / con
l’ago grosso / di cruna larga.
La minuscola iniziale, la quasi assenza di punteggiatura, le
dissonanze della quotidianità – pensiamo ai vermi nella farina, i discioglimenti della luce come dell’esserci (‘la luce in
fondo’ e ‘per l’assenza’), le sfasature un sogno storto / un
cuore sghembo / un foglio stropicciato, edificano spazi abitati
da quiete scomposta (‘la ressa nell’udito’). La Canfarelli, con
accenti aspri e taglienti che (certamente) omaggiano l’amato
poesia
poesia
lettera dal tempo
da questa stanza
rabberciata
a mano
scrivo di te
che non ci sei,
di queste occhiate da ripulire
scrivo,
in assenza compilo
ogni ora
del giorno rimasta
ad aspettare
la memoria di noi
quando eravamo,
e sono
figura piegata nel sonno
da un certo punto
in poi.
l’EstroVerso
(72)(96)
Gennaio
Dicembre
- Giugno
20152015
a parlare del tempo
davvero
hai passato
e non tornano
gli occhi
dall’altra parte del mare,
davvero
poche lettere
scambiate
a parlare del tempo,
di quando e come,
le mani aperte,
si stava
in equilibrio
sul filo di voce,
si parlava di cuore
separato da giorni
e da chilometri.
Lo straordinario della poesia è l’inesauribilità del testo, è la
possibilità di presagire (sentire) oltre il visibile. La Canfarelli,
lo scrivo usando i versi di Emily Dickinson, è poetessa che
"distilla un senso sorprendente da ordinari significati". Ancora
qualche esempio in versi: il mattino che sveglia / allineato, /
in riga all’abitudine / l’orario di partenza; con pazienza affidarsi / al corrimano usurato / quando si scendono / e salgono
le scale; a braccia conserte / più sola / di fronte alle cose; posate, / piatti, bicchieri / alzati brillanti / - adatti / ad un brindisi / al mondo.
La poetessa plasma immagini loquaci. Distilla sensi che dilatano nuovo senso, di foglio in foglio come in tutte e tre le sezioni del libro (“Sia dura la prosa”, “Soltanto il tempo”, “Il
non risolto il circoscritto”) introdotte dalla scrupolosa scelta di
altrettanti esergo: veri e propri grimaldelli della comprensione
(ce ne fosse bisogno).
Sebbene sembra non conti / la verità dei giorni, sebbene
l’osso che conserva / del dolore / il ricordo perfetto, sebbene
la cristallina consapevolezza del nonrisolto, siamo in presenza
di una poesia che non smette di credere al messaggero / d’un
più gioioso / e ripulito regno. Colui che vorrebbe ricomporre
l’infranto (citando la lettura di Walter Benjamin al quadro Angelus Novus di Klee).
Maria Gabriella Canfarelli è nata a Catania nel 1954. Ha pubblicato i libri di poesia Domicilio (1999), Cattiva educazione
(2002), Zona di ascolto (2005), L’erborista (2010) e Dichiarazione giurata dell'attrice (2015). Scrive anche racconti e per
il teatro, e collabora a riviste di letteratura.
poesia
l’EstroVerso
(97) Dicembre 2015
L’arte dissoluta della disciplina.
Le poesie postume
di Charles Bukowski
l’étranger di Davide Zizza
Basterebbe solo dire il nome di Bukowski per rievocare
l’immaginario di una vita on the road per usare le parole di Kerouac. Charles Bukowski è uno scrittore la cui notorietà è legata a
romanzi come Post Office, Factotum, Donne, Panino al prosciutto,
che hanno per protagonista il suo altero ego Henri Chinaski, e infine al postumo Pulp, romanzo parodia di genere poliziesco incentrato sulla figura del detective Nicky Belane. Bisogna tuttavia ricordare che la fama del poeta precede quella del romanziere. Quando di
fatti pubblicò Post Office nel 1971, Bukowski era già conosciuto da
più di dieci anni nelle vesti di poeta (la raccolta Flower, Fist, and
Bestial Wail è del 1960).
Presso di lui, ben sappiamo, biografia e scrittura s’intrecciano. Se
da una parte restiamo affascinati da questa figura ribelle, dall’altra è
bene non farsi prendere in trappola da suggestioni da taverna, esistenziali e maledette, espresse nei temi dell'alcool, delle donne, delle risse, insomma da tutto ciò che definisce un’icona del vagabondaggio fuori dagli schemi. Bukowski non era solo questo e andando
a fondo scopriamo un poeta regolare e scrupoloso. Contrariamente
a quanto si potrebbe pensare, la sua vita fu caratterizzata da un intenso rapporto con la scrittura, ragion per cui se tendiamo
l’orecchio alle sue poesie sentiamo il ticchettio notturno della macchina da scrivere, mentre risuona Brahms nella stanza. La bibliografia dei suoi titoli è lunga, a conferma – scrive Enrico Franceschini
nella nota al libro Quando eravamo giovani edito da Feltrinelli –
che «sotto l’aspetto del barbone autodistruttivo, c’era dunque un
artista, anche piuttosto disciplinato», che non scriveva a caso e anzi
la semplicità del suo dettato «non va scambiata per superficialità o
imprecisione».
Bukowski è garanzia di autenticità a prescindere dai dettagli autobiografici presenti nelle sue opere. Eppure siffatto autobiografismo,
puro e privo di artifici, torna determinante per esprimere una realtà
in poesia, ovvero la vita americana nell’espressione della grande e
disumanizzante metropoli, descritta con un linguaggio popolare
senza ambiguità e senza fraintendimenti, con una visione semplice,
ridotta all’osso, tutt’altro che banale, aliena alla filosofia e alla sistematicità delle affermazioni. Al bando allora le metafore estese e
complesse!
Quando eravamo giovani, con La canzone dei folli e Il grande,
sempre pubblicate da Feltrinelli, rappresenta la corposa raccolta
delle 175 poesie inedite riunite sotto il titolo Bone Palace Ballet
affidate dal poeta al suo editore John Martin, fondatore della Black
Sparrow, con la condizione che venissero pubblicate postume. La
raccolta vide la luce nel 1997, pochi anni dopo la morte dell’enfant
terrible della letteratura americana. In Quando eravamo giovani (la
prima parte, consistente di 32 poesie delle 175) è il Bukowski della
memoria a parlare. Formando una sorta di poema della gioventù,
egli narra gli apprendistati e le esperienze – la passione letteraria, le
letture, l’abitudine all’alcool, il sesso, gli spostamenti. Lo vediamo
a scuola, in bicicletta, intollerante alle regole, ubriaco di notte, poi
cacciato di casa dai genitori, e ancora in cerca di lavoro, al funerale
di suo padre, a prendersi a pugni con un operaio. Ma la sua apparente prosaicità rivela una botola, un ingresso più profondo alla sostanza, al contenuto. Il messaggio dell’autore prende il diretto fino
alla nostra mente, facendo attenzione agli attimi che lo producono
perché «la verità | sta | nelle sfumature», e nelle sfumature ritrovia-
poesia
Charles Bukowski nella rielaborazione grafica di Nino Federico
mo un risvolto simbolico. Basta leggere Primo amore e Un posto a
Filadelfia per rendersene conto, il simbolo è la parola poetica meditata e studiata a fondo, pura sintesi della verità nelle sue sfaccettature. Insomma poeta sui generis dallo stile sporco ma non troppo (in
ambito narrativo viene spesso associato alla corrente del dirty realism, il realismo sporco in voga negli anni 70/80, ma possiamo dire
con certezza che Bukowski poeta e romanziere non amava le etichette e soprattutto era refrattario alle correnti letterarie), il suo stile
non conformista e a tratti spietato lascia un sapore crudo e sincero.
È un “cattivo ragazzo”, però trova la parola giusta per narrare una
qualsiasi esperienza, la prova, questa, che la poesia non è mai lontana dalla vita.
Due poesie tratte da Quando eravamo giovani,
traduzione di Enrico Franceschini
primo amore
un tempo
quando avevo 16 anni
c’era solo qualche scrittore
a darmi speranza
e conforto
a mio padre non piacevano
i libri e
a mia madre neppure
(perché non piacevano al babbo)
specie i libri che prendevo io
in biblioteca:
D.H. Lawrence
Dostoevskij
Turgenev
l’EstroVerso
(60) Settembre
(98) Dicembre
- Dicembre
2015 2014
Gorkij
A. Huxley
Sinclair Lewis
e altri
avevo la mia camera da letto
ma alle 8 di sera
bisognava filare tutti a nanna:
“il mattino ha l’oro in bocca,”
diceva mio padre.
poi diceva
“LUCI SPENTE”.
allora mettevo la lampada
sotto le coperte
e continuavo a leggere
sotto la luce calda e nascosta:
Ibsen
Shakespeare
Čechov
Jeffers
Thurber
Conrad Aiken
e altri.
mi offrivano una opportunità e qualche speranza
in un posto senza opportunità
speranza
sentimento.
me la guadagnavo.
faceva caldo sotto le coperte.
qualche volte fumavano le lenzuola
allora spegnevo la lampada,
la tenevo fuori per
raffreddarla.
senza quei libri
non sono del tutto sicuro
di cosa sarei diventato:
delirante;
parricida;
idiota;
buonannulla.
quando mio padre gridava
“LUCI SPENTE”
son sicuro che lo terrorizzava
la parola ben tornita
e immortalata
una volta per tutte
nelle pagine migliori
della nostra più bella
letteratura.
ed essa era lì
per me
vicina a me
sotto le coperte
più donna di una donna
più uomo di un uomo.
era tutta per me
e io
la presi.
un posto a Filadelfia
non c’è niente come esser giovani
e affamati,
vivere in camere ammobiliate
e far la parte dello
scrittore
mentre gli altri hanno
i loro mestieri e
i loro averi.
non c’è niente come essere
giovani e
affamati,
ed ascoltare Brahms,
a pancia sgonfia,
manco un’oncia di
grasso,
allungati sul letto
nel buio,
fumando una sigaretta
rollata alla bell’e meglio
e lavorando sulla
ultima bottiglia di
vino,
i fogli che hai
scritto sparsi per
terra.
ci sei passato sopra,
avanti e indietro e di traverso,
sui tuoi capolavori che saranno
letti
all’inferno
o forse
masticati da un
topino
curioso.
Brahms è l’unico
amico che hai,
l’unico che
vuoi,
lui e la bottiglia
di vino,
mentre capisci che
non sarai mai
cittadino del
mondo,
e se arriverai
vecchio
fino in fondo
lo stesso non sarai mai
cittadino del
mondo.
vino a Brahms
si mischiano ben bene mentre
guardi le
luci
rincorrersi
lungo il soffitto,
per gentile concessione
delle auto
di passaggio.
tra un po’ dormirai
e certamente
domani
aumenterà
la mole
dei tuoi capolavori.
Ci sono due tipi di silenzio. Uno agognato a causa dello stordimento da inquinamento (acustico e verbale), l’altro
da gogna tipico dei (con rispetto parlando) pigliainculo che chiudono la bocca pur di non scontentare la platea.
Stupenda e misera città, / che m'hai insegnato ciò che allegri e / feroci / gli uomini imparano bambini, // le piccole cose in cui la grandezza / della vita in pace si scopre, come / andare duri e pronti nella ressa // delle strade,
rivolgersi a un altro uomo / senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato // con pigre dita dal
fattorino / che suda contro le facciate in corsa / in un colore eterno d'estate;
(da Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini)
Af(fondo)
di Grazia Calanna
l’EstroVerso
Numero 2 - Anno IX
Registrazione Tribunale di Catania
n. 5 del 9 febbraio 2007
Direttrice Responsabile Grazia Calanna
Segretario di Redazione Luigi Carotenuto
Editore EstroLab
In questo numero
Luigi Carotenuto
Elena Buia Rutt
Dario Matteo Gargano
Alessandra Brisotto
Fabrizio Bernini
Rita Pacilio
Samatha Torrisi
Grazia Calanna
Daniele Cencelli
Rosario Leotta
Laura Cavallaro
Alessandra Redaelli
Michele Leonardi
Massimiliano Raciti
Lorenzo Raffaini
Claudio Bagnasco
Savina Dolores Massa
Davide Spampinato
Lucia Tosi
Flaminia Cruciani
Antonella Lucchini
Giovanni Baldaccini
Franz Krauspenhaar
Letizia Dimartino
Renato Pennisi
Anna Baccelliere
Enzo Fileno Carabba
Daniela Delle Foglie
Margherita Giacobino
Silvia Giacomini
Ginevra Lamberti
Alberto Milazzo
Chiara Passilongo
Della Passarelli (Sinnos)
Chandra Livia Candiani
Maurizio Giudice
Emiliano Zappalà
Gabriella Montanari
Giovanna Iorio
Pietro Russo
Andrea Giampietro
Antonio Lanza
Vincenzo Galvagno
Davide Zizza
Nino Federico
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Mille nubi di pace accerchiano il cielo, amore, mai non