Genova Palazzo Ducale Gauguin E IL VIAGGIO DI 12 novembre 2011 15 aprile 2012 Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Scheda dell’opera Sono due fogli (tre facciate di testo in tutto), indirizzati all’amico Daniel de Monfreid, quelli che Gauguin riempie con grafia chiara nel febbraio del 1898. La missiva è di straordinaria importanza perché l’artista vi spiega il senso del suo più alto capolavoro, quello più enigmatico e ricco di chiavi interpretative: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?. La lettera comincia con le scuse per non aver più scritto all’amico dall’inizio del nuovo anno. L’artista si sta rimettendo in salute dopo aver tentato di suicidarsi: “ho voluto uccidermi e sono partito L i n e a d’o m b ra quindi per nascondermi nella montagna dove il mio cadavere sarebbe stato divorato dalle formiche”. “Ho voluto, prima di morire, dipingere una grande tela che avevo in mente e per tutto il mese Organizzazione Linea d’ombra srl Società unipersonale Strada di Sant’Artemio 6/8 31100 Treviso Tel. +39 0422 3095 Fax +39 0422 309777 [email protected] www.lineadombra.it [di dicembre] ho lavorato febbrilmente giorno e notte. Non si tratta di una tela come un Puvis de Chavannes, ovvero studi d’après nature, quindi cartone preparatorio, etc. […] è vero che non si è mai buoni giudici di se stessi, ma credo che non solamente questa tela superi in valore tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l’aspetto frettoloso scompare, e ne emerge la vita. […] I due angoli in alto sono in giallo cromo con l’iscrizione a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco rovinato agli angoli e applicato Main sponsors su un muro d’oro”. La composizione ha una senso di “lettura” che va da sinistra a destra. “A sinistra in basso un bambino addormentato, più in là tre donne sedute”. Questo gruppo di donne ricorda le diverse tele dipinte da Gauguin durante il suo primo soggiorno a Tahiti, così come forte è il richiamo iconografico alla serie di rilievi, che ornano il tempio buddista di Borabudur, che aveva già ispirato Gauguin alla fine degli anni ottanta. Dietro questo primo gruppo, continuando verso sinistra, ci sono “due figure con abiti color porpora che si confidano i loro pensieri”. Un po’ più lontano, “una figura enorme che non rispetta la prospettiva, accovacciata, che alza le braccia in aria e guarda, stupefatta, questi due personaggi che osano pensare al loro destino”. L’elemento centrale della composizione è invece semplicemente descritto come “una figura al centro che raccoglie un frutto”. Questo ragazzo, che ha un singolare aspetto di scultura primitiva, è un amalgama di iconografie occidentali e asiatiche. C’è infatti l’evidente richiamo a un disegno, allora attribuito a Rembrandt, del quale Gauguin può aver visto una riproduzione, ma soprattutto alla pesantezza monumentale, e delicatamente ondeggiante, di Bodhisattva, la figura preferita da Gauguin dei rilievi di Borabudur. Questo procedimento compositivo che porta Gauguin a ibridare riferimenti culturali, iconografici e religiosi i più diversi tra loro raggiunge qui il suo acme, ma è un aspetto non nuovo tanto che già nel 1891 un critico l’aveva felicemente definito “sarto di immagini”. Proseguendo nella descrizione della parte sinistra dell’opera, Gauguin elenca “due gatti vicino a un bambino. Una capra bianca. L’idolo, le due braccia alzate misteriosamente e con ritmo, sembra indicare l’al di là. La figura seduta sembra ascoltare l’idolo; quindi infine una vecchia vicina alla morte che sembra accettare […]; ai suoi piedi uno strano uccello bianco, che tiene tra le zampe una lucertola, rappresenta l’inutilità delle vane parole”. L’idolo è una statua di fantasia che raffigura Hina, divinità della cultura maori. Il suo volto è caratterizzato da una enigmatica luminosità notturna, mentre la vecchia ha la stessa posizione rattrappita della mummia peruviana che Gauguin aveva visto negli anni ottanta e la cui figura era già stata ripresa in altre opere del 1889. L’artista descrive quindi lo sfondo della grande composizione: “tutto si svolge sulla riva di un ruscello nel sottobosco. In fondo il mare e più in là le montagne dell’isola vicina. Malgrado i passaggi di tono, l’aspetto del paesaggio è costantemente, da una parte all’altra, blu e verde Veronese. Là sopra tutte le figure nude si staccano in un audace arancione”. Sempre riferendosi a quest’opera, nel marzo del 1899 Gauguin scrive ad André Fontainas, critico del Mercure de France: “Il mio sogno non si lascia afferrare, non contiene alcuna allegoria; poema musicale che fa a meno del libretto”, quindi, citando Mallarmé, aggiunge “l’essenziale in un’opera consiste appunto in «ciò che non è espresso: emerge implicitamente tra le righe, senza colori o parole, non è materialmente costituito »”. Questa tela, vero e proprio testamento dell’artista, è al tempo stesso enigma insondabile e manifestazione piena della vanità di ogni discorso sul mistero dell’esistenza.