Genova
Palazzo Ducale
Gauguin
E IL VIAGGIO DI
12 novembre 2011
15 aprile 2012
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Scheda dell’opera
Sono due fogli (tre facciate di testo in tutto), indirizzati all’amico Daniel de Monfreid, quelli
che Gauguin riempie con grafia chiara nel febbraio del 1898. La missiva è di straordinaria
importanza perché l’artista vi spiega il senso del suo più alto capolavoro, quello più enigmatico e ricco di chiavi interpretative: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?. La lettera
comincia con le scuse per non aver più scritto all’amico dall’inizio del nuovo anno. L’artista si
sta rimettendo in salute dopo aver tentato di suicidarsi: “ho voluto uccidermi e sono partito
L i n e a d’o m b ra
quindi per nascondermi nella montagna dove il mio cadavere sarebbe stato divorato dalle
formiche”.
“Ho voluto, prima di morire, dipingere una grande tela che avevo in mente e per tutto il mese
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[di dicembre] ho lavorato febbrilmente giorno e notte. Non si tratta di una tela come un Puvis
de Chavannes, ovvero studi d’après nature, quindi cartone preparatorio, etc. […] è vero che
non si è mai buoni giudici di se stessi, ma credo che non solamente questa tela superi in valore
tutte le precedenti, ma soprattutto che io non ne farò mai una migliore o che anche solo le
si avvicini. Qui ci ho messo, prima di morire, tutta la mia energia, una tale passione dolorosa in delle circostanze terribili, e una visione talmente netta, senza correzioni, che l’aspetto
frettoloso scompare, e ne emerge la vita. […] I due angoli in alto sono in giallo cromo con
l’iscrizione a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco rovinato agli angoli e applicato
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su un muro d’oro”.
La composizione ha una senso di “lettura” che va da sinistra a destra. “A sinistra in basso
un bambino addormentato, più in là tre donne sedute”. Questo gruppo di donne ricorda le
diverse tele dipinte da Gauguin durante il suo primo soggiorno a Tahiti, così come forte è il
richiamo iconografico alla serie di rilievi, che ornano il tempio buddista di Borabudur, che
aveva già ispirato Gauguin alla fine degli anni ottanta.
Dietro questo primo gruppo, continuando verso sinistra, ci sono “due figure con abiti color
porpora che si confidano i loro pensieri”. Un po’ più lontano, “una figura enorme che non
rispetta la prospettiva, accovacciata, che alza le braccia in aria e guarda, stupefatta, questi
due personaggi che osano pensare al loro destino”. L’elemento centrale della composizione è
invece semplicemente descritto come “una figura al centro che raccoglie un frutto”. Questo
ragazzo, che ha un singolare aspetto di scultura primitiva, è un amalgama di iconografie
occidentali e asiatiche. C’è infatti l’evidente richiamo a un disegno, allora attribuito a Rembrandt, del quale Gauguin può aver visto una riproduzione, ma soprattutto alla pesantezza
monumentale, e delicatamente ondeggiante, di Bodhisattva, la figura preferita da Gauguin
dei rilievi di Borabudur. Questo procedimento compositivo che porta Gauguin a ibridare riferimenti culturali, iconografici e religiosi i più diversi tra loro raggiunge qui il suo acme, ma
è un aspetto non nuovo tanto che già nel 1891 un critico l’aveva felicemente definito “sarto
di immagini”.
Proseguendo nella descrizione della parte sinistra dell’opera, Gauguin elenca “due gatti vicino a un bambino. Una capra bianca. L’idolo, le due braccia alzate misteriosamente e con
ritmo, sembra indicare l’al di là. La figura seduta sembra ascoltare l’idolo; quindi infine una
vecchia vicina alla morte che sembra accettare […]; ai suoi piedi uno strano uccello bianco, che
tiene tra le zampe una lucertola, rappresenta l’inutilità delle vane parole”.
L’idolo è una statua di fantasia che raffigura Hina, divinità della cultura maori. Il suo volto è
caratterizzato da una enigmatica luminosità notturna, mentre la vecchia ha la stessa posizione rattrappita della mummia peruviana che Gauguin aveva visto negli anni ottanta e la cui
figura era già stata ripresa in altre opere del 1889.
L’artista descrive quindi lo sfondo della grande composizione: “tutto si svolge sulla riva di un
ruscello nel sottobosco. In fondo il mare e più in là le montagne dell’isola vicina. Malgrado i
passaggi di tono, l’aspetto del paesaggio è costantemente, da una parte all’altra, blu e verde
Veronese. Là sopra tutte le figure nude si staccano in un audace arancione”.
Sempre riferendosi a quest’opera, nel marzo del 1899 Gauguin scrive ad André Fontainas,
critico del Mercure de France: “Il mio sogno non si lascia afferrare, non contiene alcuna allegoria; poema musicale che fa a meno del libretto”, quindi, citando Mallarmé, aggiunge
“l’essenziale in un’opera consiste appunto in «ciò che non è espresso: emerge implicitamente
tra le righe, senza colori o parole, non è materialmente costituito »”.
Questa tela, vero e proprio testamento dell’artista, è al tempo stesso enigma insondabile e
manifestazione piena della vanità di ogni discorso sul mistero dell’esistenza.
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