LA LUCCIOLA
Febbraio 2014
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INDICE
Editoriali:
Editoriali dei direttori di Sofia Zollo e Guido Panzano……………………………………………..…..3
Articoli:
Questioni di style di Guido Panzano……………………………………………………………..….....4-5
L’Ucraina e la nuova Guerra Fredda di Alessandro Vigezzi……………………………………...….6-8
Uruguay: il grande piccolo paese dell’anno di Luca Zammito………………………………...……9-10
(D)io e (D)io: pericoli per l’umanità di Waldgang…………………………………………...…….11-14
Utopia: tra sogno e realtà di Alice Bertino………………………………………………………....15-16
Tutti dicono “I love you” di Martina Mangione…………………………………………………….16-17
Possono un po’ di lustrini abbattere una parete? di Eleonora Corradi…………………………..…17-18
Tu quoque, Antonie? di Alessandro Vigezzi…………………………………………………….….18-19
Llewyn Davis, il moderno Odisseo del folk di Luca Zammito……………………………………...…..20
AH2 di Distress Club………………………………………………………………………………..…..21
Sanremo e l’attesissimo ritorno di Ginger R. …………………………………………………….....…22
Perché Sanremo è Sanremo! di Sofia Zollo……………………..……………………………….…22-23
High Hopes di Raffaele Ventura……………………………………………………………………..…23
Il pirata in bicicletta di Marco Cilona……………………………………………………….……..…..24
Considerazioni di calcio giocato e non di Iacopo Giordano……………………………….……….25-26
Componimenti creativi:
“Parole Che Contano” (II) di Aria…………………………………………………………………28-29
Castelli di sabbia di Elisabetta Tortora………………………………………………………………....29
Io e te di Bagnata da una pioggia di parole……………………………………………………….…….29
Dal piacere………………………………………………………….……………………………….….30
Le mani di Felix……………………………………………………………………………………..30-31
La Tana del Ragno: parte terza…………...…………………………………………………………....31
La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte quarta
di Gian Maria Gherardi e Guido Panzano…………………………………………………………..32-33
Disegni:
Senza titolo di Anna Parlani………………………………………………………………..…….......…28
Joker di Cisco…………………………………………………………………………………….…..…34
Lee Van Cleef di Daisy Colantuono………………………………………………………………...…..35
Maryjane di Distress Club……………………………………………………………………………...36
Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo
Capiredattori: Alessandro Vigezzi e Luca Zammito
Impaginazione: Guido Panzano, Alessandro Vigezzi e Luca Zammito
Copertina: Assia Ieradi
Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar modo, Loredana
Polentini.
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EDITORIALI DEI DIRETTORI
Un altro mese è passato e stiamo sempre qui a inseguire gli articoli che mancano, correggerli, scannerizzare e
approvare copertine; la solita routine e, per quanto mi piaccia, non vedo l’ora di andare al mare. Ma questo mi fa
pensare che prima dovrei fare gli esami, quindi preferisco rimanere in questo freddo febbraio che ormai è anche
lui passato.
Peccato, non ho ricevuto le critiche richieste nello scorso numero da mettere in prima pagina (giuro che ci
speravo), ma evidentemente gli anonimi ipocriti restano tali e io mi godo un po’ di nervi salvi, ugualmente
distrutti da faccende personali che non interessano a nessuno e pagherei perché non interessassero neanche a me.
Cos’altro dirvi, ricordatevi le scadenze e sopportate le isterie della redazione, e anche questo penoso editoriale
scritto da una direttrice influenzata!
Con la speranza che non vi faccia smettere di leggere La Lucciola.
SOFIA ZOLLO
Care lettrici e cari lettori Manarioti,
quello che avete tra le mani è l’ambizioso quarto numero de La Lucciola. La metà dei sette che ci siamo
prefissati a inizio anno e, quindi, anche la metà del nostro lavoro incominciato a Novembre.
Scusate la mia solita essenzialità e freddezza, davanti a Voi c’è un giornale veramente splendido,
buona lettura!
Un abbraccio!
GUIDO PANZANO
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creatori, giovanissimi o meno che siano). Eh sì,
perché è la velocità che conta. Bisogna essere più
“smart”, Consigli dei Ministri lampo, firma e
giuramento in un quarto d’ora (ricordo che l’attuale
Presidente del Consiglio era quello che, al confronto
per le primarie del candidato premier di un tempo
molto lontano, disse di voler fare un governo con
otto ministri)!
“Poco importa! L’importante è far vedere che si fa
qualcosa!” direbbero le vecchie colombe o piccioni
che si riscoprono sostenitori o, meglio, sponsor dei
nuovi sindaci d’Italia, dei nuovi “Jobs Act”, dal
ritrovato background culturale. In fact, è proprio una
buffissima rivestitura in espressioni finte – english
che rende la più ovvia delle parole capace di
suscitare il “oh” (per chi non lo conoscesse suono di
stupore prolungato) dei telespettatori. L’inglese è
immeditato, veloce e rapido. Mi stupisco come Renzi
abbia potuto dire “Fassina, chi?” e non “Fassina,
who?”. Ma che ci vogliamo capire noi umili
umanisti, sono questioni di style. The class is not
water. Le parole più utilizzate dal sindaco di Firenze,
segretario del Partito Democratico e neo–promosso
Presidente del Consiglio (tra poco ci sono le elezioni
europee, mammamia!), secondo il “word cloud”
proposto da Repubblica, sono in sostanza un pastiche
di slogan televisivi (“io, noi”, “la mia età” oppure
“quando eri... io stavo ancora al Liceo”). Secondo
Filippo Ceccarelli, al discorso al Senato, dove quasi
nessuno dei presenti stava veramente a sentire, tutti
troppo impegnati a tuittare o feisbuccare con i loro
tablet, Renzi si è rivolto più al grande pubblico che
ai senatori. Ma sforzandoci di andare oltre la forma,
pensiamo un attimo alla sostanza. Oltre
all’innumerevole quantità di “titoli” e “slides”
(sorrette da un ringiovanito ma veterano Angelino
Alfano), non c’è nessun dettaglio sulle proposte
concrete dell’attuale governo.
Questioni di style
Nel primo numero di questo giornale, scrivevo a
proposito della duplice scelta che aveva davanti la
Sinistra. La prima era quella di continuare a
intraprendere la politica del partito, della “pluralità di
idee spesso troppo contrastanti tra di loro per poter
coesistere”, quando l’alternativa che si poneva
davanti, guardando (cosa a dir poco sconvolgente) le
altre forze giovani o meno scese in campo, il
“movimento” guidato e esclusivamente comandato
dal capo. Insomma, la strategia dell’uomo solo, del
Caimano come della doppia personalità del Comico
parlante (o dovremmo dire “urlante”) e il guru,
filosofo da strapazzo.
Negli ultimi vent’anni, questa è stata da sempre la
soluzione giusta per vincere, facendo leva sul cuore e
sulla pancia dei cittadini, più che sulle loro
smemorate menti. L’autorevolezza del leader diventa
l’autorità del capo-padrone, che nomina portaborse e
notabili dalla brillante carriera.
Da queste prime considerazioni, emerge chiaro come
il Partito Democratico e gran parte della Sinistra,
sacrificando la pluralità e la collettività che aveva
ereditato negli anni e accusando la vecchia classe
dirigente di essere troppo divisa in correnti e
correntismi, abbia rinunciato all’idea di una politica
più partecipata dirigendosi e piegandosi alla vecchia
moda personalistica.
Si sa, quando i tempi sono difficili, c’è bisogno di
cavalli (o cavalieri) rampanti, bravi cittadini di turno
che devono in fretta prendere le armi per dirigersi in
battaglia, con molti titoli ma senza uno schema ben
preciso. La rappresentanza viene schiacciata dalla
governabilità, il dissenso dalla stabilità, la
costituzionalità dal reo potere.
Esempio lampante è la nuova legge elettorale che,
sebbene spaventi il mondo giuridico, viene portata
avanti, alla stessa maniera delle riforme
costituzionali, per un finto obbligo morale, troppo
veloce per esser credibile (come il nome, “Italicum”,
non dimostra la buona conoscenza storica dei suoi
E, prima di tutto, Renzi non ha ancora chiarito le
ragioni che lo hanno portato ad un cambio repentino
di strategia (ci dovevamo ormai abituare), a liquidare
un Premier del suo stesso partito. "La Direzione Pd
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guardare i numeri. “Nel mio governo sceglierò 16
ministri, 8 donne 8 uomini” è un’espressione
paragonabile a “Se ci sono i topi porteremo i gatti”.
Se il programma di governo è aumentare il Pil “e
anche il Pilates” (battuta di Renzi o di Crozza? A voi
la scelta), se questi sono i nuovi giovani che
“rottamano” i vecchi ristrutturando altri vecchissimi,
non mi sembra di fare tanti passi avanti. Staremo a
vedere, l’importante è crederci.
rileva la necessità e l'urgenza di aprire una fase
nuova con un Esecutivo nuovo che si ponga
l'orizzonte naturale della legislatura, da condividere
con l'attuale coalizione di governo e con un
programma aperto alle istanze rappresentate dalle
forze sociali ed economiche" questo è il “Documento
Renzi” approvato dall’Assemblea PD il 13 Febbraio
scorso che termina con un “ringraziamento” a Enrico
Letta “per il lavoro svolto”. Caspita! Bel
ringraziamento da chi rifiutava le troppo allettanti e
facili proposte di governo.
Passiamo ora alla scelta dei ministri. L’Italia è
veramente un Paese curioso che crede che, se su 16
ministri la metà sono donne, allora il problema del
maschilismo sia risolto. La realtà è che questa è una
soluzione stupida (non esistono altre parole) e
semplicistica per provare a mettere una toppa a un
problema serissimo. Solamente l’intelligenza politica
(tutt’altro che verificabile) del Sindaco più giovane
del mondo poteva escogitare uno stratagemma
simile. Il problema è che si dovrebbe arrivare a
riconoscere la completa parità tra i sessi non
ponendo dei limiti alle sfere di influenza dell’uno o
dell’altro (questo è il vero sessismo), non
proponendo candidature “rosa” solo perché lo dice il
momento, il trend, ma bensì non facendo differenza
tra i generi della persona.
Qualcuno vuole cortesemente spiegare a Renzi, e a
quel numero incredibile Italiani che l’hanno investito
alle primarie, che il problema sta proprio qui: nel
GUIDO PANZANO
Da in alto a sinistra -- Economia: Pier Carlo Padoan; Interno:
Angelino Alfano;
Beni Culturali: Dario Franceschini;
Rapporti con il Parlamento e Riforme: Maria Elena Boschi;
Agricoltura: Maurizio Martina; Sanità: Beatrice Lorenzin;
Lavoro: Giuliano Poletti; Pubblica Amministrazione e
Semplificazione: Marianna Madia
Da in alto a sinistra -- Ambiente: Gianluca Galletti;
Istruzione: Stefania Giannini;
Trasporti: Maurizio Lupi;
Sviluppo Economico: Federica Guidi; Difesa: Roberta Pinotti;
Giustizia: Andrea Orlando; Esteri: Federica Mogherini;
Affari Regionali: Maria Carmela Lanzetta
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L’ Ucraina e la nuova Guerra Fredda
condizioni socio-economiche della terra in cui vive,
per forza di cose legge il Vangelo secondo Razzi, il
che non è la scelta più opportuna in un paese in cui
ancora non si è riusciti a separare il potere
economico da quello politico. Quest’oligarchia di cui
parlo non è una setta segreta dedita al culto di
Satana: più semplicemente, rivestono cariche
pubbliche i grandi industriali e tutti quelli che hanno
liquidità. Naturalmente non può mancare fra i cliché
la corruzione diffusa a tutti i livelli dell’apparato
statale, e lo sperpero del denaro pubblico nello sfarzo
privato. Come ho scritto poco fa, questo paese non
può basarsi esclusivamente sulle proprie forze, ed è
questa la chiave di lettura della politica ucraina negli
ultimi vent’anni: come i miei colti lettori senz’altro
sanno l’Urss termina di crollare nel 1992. In quel
tempo l’Occidente è nel pieno della sua età d’oro, e
perfino la Russia, sull’orlo del baratro economico,
non sembra in grado di fare a meno del prezioso
aiuto di quello che viene visto come un faro di civiltà
e benessere in quelle terre in ginocchio. Ovviamente,
la classe dirigente ucraina non ha dubbi: tutti gli
sforzi devono essere diretti all’integrazione con
l’Unione Europea.
Se mi permettete: ma che schifo! Quarant’anni fa c’è
stato un putiferio indicibile per il Vietnam, che sta a
novemila chilometri da qui, mentre ora mi è parso di
aver visto ben poche persone minimamente toccate
da quello che sta succedendo alle porte dell’Europa,
nel cortile di casa nostra. Che i cittadini di questa
parte di mondo si stiano rammollendo è evidente.
Cosa si può fare per rimediare? Beh, ci si pensi. Di
sicuro di gente che ha abbastanza palle da scacciare
un dittatore, in Italia ne è rimasta un po’ poca.
Applauso agli Ucraini, che comunque andranno a
finire le cose, hanno almeno dimostrato di tenere alle
sorti della propria terra come di rado capita nella
storia. Detto ciò, mentre i babbuini della repubblica
delle Chiquita (che significa giovane ragazza, come
si può vedere sul bollo delle banane) gridano al
colpo di Stato, e la gente li guarda passiva
mangiando il giallo frutto, in Ucraina la gente lotta
allo spasimo per cambiare i destini del proprio paese.
Cause del pandemonio: c’era una volta l’Unione
Sovietica, della quale l’Ucraina faceva parte. Dopo il
suo crollo, l’Ucraina si ritrova ad essere uno Stato
economicamente fragile, con forti divisioni etniche e
squilibri sociali, con vicini troppo potenti, insomma,
troppo debole per affidarsi esclusivamente a se
stesso.
Sono favorevoli la famosa oligarchia, che vede
l’Europa come unica garanzia per la stabilità
finanziaria dei propri capitali, e anche il popolo,
arcistufo di decenni di povertà, che vede nel
cittadino medio europeo, libero e (almeno allora)
ricco, il modello da raggiungere. Però l’oligarchia
ostenta troppo la sua ricchezza per essere ben vista
da una delle popolazioni più povere d’Europa, e
quindi per mantenere il potere e il consenso deve
fare largo uso di corruzione e brogli vari. La
situazione diventa insostenibile nel 2004, con la
Rivoluzione Arancione, quando il leader più
moderato dell’opposizione, Viktor Yuscenko, riesce
a dimostrare i brogli nell’elezione di Yanukovic,
riuscendo a far indire nuove elezioni e a vincerle con
buona maggioranza. Questo è stato possibile perché
Yuscenko, oltre ad appoggiarsi ad una classe media
faticosamente nata, è benvisto da una parte
dell’oligarchia, che ripone fiducia nella sua strategia
economica, e quindi pare finalmente disposta al
compromesso.
I compromessi sono la cosa più eroica e utopistica
della storia: durano finché dura l’abilità del loro
ideatore, che (quasi) inevitabilmente finisce prima o
Inoltre, è tuttora al potere più o meno la stessa
oligarchia ricca e potente dell’Urss, nomi diversi,
ruoli uguali. Un’oligarchia che, a causa delle
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poi tra le fiamme con l’accompagnamento di cori
angelici, mentre le varie parti in causa vengono allo
scontro all’ultimo sangue, trascinando nella rovina la
propria terra. Così per Yuscenko, che, come ha
ammesso in un suo commovente discorso, ha sentito
il dovere morale di fare almeno un tentativo.
potenza finanziaria di cui aveva bisogno, si rivolge
alla Russia, che promette gas e petrolio a basso
costo, investimenti, aiuti economici allo Stato, posti
di lavoro.
In cambio di un governo autoritario che garantisca la
stabilità politica e la prosecuzione del nuovo
cammino da intraprendere (cammino che
naturalmente porta alla Russia notevoli profitti
economici ed un sicuro alleato in posizione
strategica). Semplice come un’addizione, vero?
Un’addizione un po’ lunga, ma realistica.
Yanukovic si pone a capo del nuovo partito
oligarchico che raduna su di sé i voti dei “russi
ucraini”, di coloro che lavorano nell’industria e di
tutte le altre clientele degli oligarchici, nonché di
tutti i cittadini convinti in buona fede che il faro di
civiltà e benessere non sia più la decadente Europa,
ma la autoritaria e dinamica Russia. Mettetevi nei
loro panni: chi ha conosciuto la povertà aspira al
benessere, prima di tutto, e ad esso è disposto a
sacrificare anche la libertà.
I primi anni del suo governo vanno da dio:
perseguendo la politica di avvicinamento all’Europa
rafforza la stabilità finanziaria dell’oligarchia, in
particolare di fronte all’implacabile divinità del
rating; gli oligarchi dal canto loro offrono lavoro alla
classe media ed investimenti per il progresso del
paese, impegnandosi persino a dare una mano nella
lotta alla corruzione, anche per evitare di finire
linciati dalle folle inferocite. Il gioco regge,
l’Ucraina inizia a prosperare… finché non cambia la
congiuntura internazionale: noi Occidentali, in
particolare noi Europei, dopo esserci crogiolati nel
senso di onnipotenza economica, morale e militare,
siamo entrati in crisi. In questo momento non siamo
in grado di garantire il benessere economico
promesso all’Ucraina. Nel frattempo la Russia si è
ripresa alla grande anche senza l’aiuto dei suoi exnemici, diventando un Bric, una potenza economica
in grande ascesa, con abbondanti risorse, e in grado
quindi di esercitare anche un’influenza politicomilitare notevole. Non poteva non guardare al cortile
di casa propria: l’Ucraina. Dove tra l’altro un
cittadino su cinque è di etnia russa, in particolare
nelle regioni del Sud e dell’Est sono russi il 30, il
40% della popolazione.
Un partito del genere è troppo potente per scendere a
patti. Yanukovic alza l’asticella delle richieste al solo
scopo di mettere in difficoltà Yuscenko. Il quale
tenta ancora di trovare il compromesso, incontrando
però l’opposizione dell’ala più intransigente del suo
partito, in particolare di Julia Timoscenko. Yuscenko
viene “trombato” dopo una drammatica serie di crisi
politiche, durante le quali verrà disperso quanto
faticosamente ottenuto in quegli anni di governo
illuminato. La miglior prova della bontà del suo
operato e che gli oligarchici hanno tentato di
assassinarlo, avvelenandolo con la diossina. Ancora
oggi ha il volto sfigurato di quegli individui
veramente rari nella politica: quelli che sono pronti a
morire per la propria terra.
Per farla breve, Yanukovic emerge come l’uomo
forte, l’unico in grado di salvare il paese di nuovo
sull’orlo del baratro. Anche lui non ha dubbi:
benessere economico ad ogni costo, e tutti gli sforzi
devono essere quindi diretti all’avvicinamento al
nuovo modello di civiltà, la Russia. Grazie alla quale
l’Ucraina ricomincia a prosperare: il debito pubblico
è garantito dalle finanze russe (quest’anno Putin
E nelle regioni dell’Est è concentrata anche
l’industria, e l’industria e coloro che vi lavorano
sono la base del potere oligarchico. Il quale, non
essendo l’Europa più in grado di garantire quella
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comprerà come minimo 11 miliardi di euro in titoli
di stato ucraini), quindi il rating sale; i prezzi di
favore del gas del petrolio di provenienza russa
aumentano il tenore di vita dei cittadini, che hanno
più soldi da spendere; e infine gli investimenti
nell’industria, oltre a creare nuovi posti di lavoro,
aumentano i profitti dell’oligarchia.
E adesso arriviamo all’attuale “bordello”: nemmeno
Putin e il governo russo hanno previsto una tale
deriva autoritaria del governo di Yanukovic. Infatti
l’oligarchia, convintasi di essere nuovamente la
padrona incontrastata del Paese, è inevitabilmente
precipitata in quel senso di onnipotenza che è causa
di tanti mali per gli uomini. Riprendendo a fare tutte
le sue “porcate”: dalla corruzione allo sperpero del
denaro pubblico, dal taglio dei salari dei propri
dipendenti alla compravendita dei giudici.
Per sedare il malcontento crescente gli oligarchi
hanno avuto una pensata (come direbbe Montalbano)
poco brillante: imbavagliare l’informazione ed
impedire le manifestazioni per insabbiare i loro
scandali. Risultato? Boom!!!
Dai nazionalisti estremisti alla classe media che si
identifica con l’opposizione moderata, tutti scendono
in piazza, urlando per riavere la propria libertà.
devono aver provato scendendo per combattere
quella guerra per le strade della loro città, quanto
devono essersi sentiti vivi e liberi.
Mi immagino come il coraggio si sia mutato in
terrore di fronte al sangue, e quanto cuore debbano
avere avuto per continuare la loro lotta per rimanere
cittadini e non diventare schiavi. Una lotta che
avrebbe potuto essere pacifica, come la Rivoluzione
Arancione, ma i soliti estremisti hanno avuto la
brillante idea di attaccare l’esercito, che ha reagito
nel solito modo: senza fare distinzioni. A rimetterci
sono stati quelli che ci credevano davvero.
La situazione adesso è questa: il Nord e l’Ovest del
Paese, e la classe media, che si identificano con
l’attuale opposizione vogliono l’Europa, la libertà e
la fine dell’oligarchia; il Sud e l’Est, ovvero le
regioni industrializzate, e quindi gli operai, e i Russi
ucraini, vogliono la Russia, la stabilità e il benessere.
L’oligarchia ha capito tre cose: di non poter
sostenere quell’ultima risorsa che è stata la
repressione violenta, altrimenti verrà spazzata via (la
polizia e parte dell’esercito si sono schierati con i
manifestanti); di non potere quindi sostenere l’ormai
impopolare Yanukovic, che infatti è stato sfiduciato
e costretto a fuggire (ma guarda un po’) in Russia
insieme al suo entourage; di non potere più
mantenere il potere e di dover quindi scendere a patti
a condizioni molto svantaggiose. Così svantaggiose
che il compromesso del governo di transizione
proposto all’opposizione è stato rifiutato.
Nel frattempo Julia Timoscenko è stata liberata, l’UE
e la Russia tentano di mediare, i Russi ucraini sono
in subbuglio e minacciano la secessione, il tutto
mentre le varie classi sociali e formazioni politiche,
lottando fra loro, hanno rimesso in discussione tutti i
progressi economici. La guerra civile potrebbe essere
imminente.
Non so come andrà a finire, e non sono nemmeno in
grado di proporre una soluzione. Spero solo di
esservi riuscito a mostrare la massa dell’iceberg sotto
la punta degli scontri attuali. Con una certezza:
un’altra terra sarà devastata. E con una speranza:
che quella terra sia un giorno libera.
Applausi agli Ucraini che ci credono con tutto
contro.
ALESSANDRO VIGEZZI
Noi Europei, l’Unione Europea, siamo molto meno
concreti dei Russi: loro offrono benessere, noi, con il
sedere quasi per terra, possiamo offrire solo una vaga
promessa di libertà. Però è proprio questo che anima
gli Ucraini che stanno combattendo nelle piazze di
Kiev: il significato mistico di questa parola, per la
quale sono disposti a morire da martiri di fronte ai
cecchini dell’esercito che l’ormai ex-governo ha
piazzato nei punti strategici della capitale.
Quando, dopo aver prosciugato le risorse statali fra
corruzione e spese inutili, dopo aver incarcerato Julia
Timoscenko, carismatica leader dell’opposizione,
dopo aver violato i diritti umani degli Ucraini con
leggi contro la libertà di espressione, Yanukovic ha
annunciato l’annullamento dei piani di integrazione
con l’Europa, i cittadini hanno visto sparire l’ultimo
spiraglio di libertà. E siccome sono un popolo fiero e
giovane, che vuole costruirsi la propria storia, hanno
reagito.
I morti per le strade di Kiev sono più di cento, molti
giovani fra loro. Mi immagino le emozioni che
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I Tupamaros erano un gruppo di guerriglieri che
operarono in Uruguay a partire dagli anni Sessanta e
acquistarono notorietà nazionale nel 1966 quando
appoggiarono la rivolta dei lavoratori di canna da
zucchero. Ispirati dall’esperienza cubana e convinti
che la rivoluzione si potesse attuare per portare reali
uguaglianza e giustizia sociali, i Tupamaros, che nel
giro di pochi anni annoverarono nel proprio seguito 5
mila persone, misero in atto delle azioni (furti di
armi e a banche, sequestri di qualche ambasciatore)
che vedevano la ridistribuzione alla gente più povera
di quanto ottenuto. Quando venne instaurata la
dittatura militare, in seguito al golpe di Juan Maria
Bordaberry, le azioni del movimento divennero
sempre più violente e la repressione del regime non
fu da meno: i nove capi del movimento furono
individuati ed arrestati. Pepe era uno dei nove.
Furono rinchiusi in delle prigioni sotterranee facenti
parte di caserme militari. Incarcerati in celle di
isolamento (di 1,80 x 0,60 m), i leader tupamaros vi
passarono dieci anni della loro vita fino a quando,
nel 1984, non venne loro concessa l’amnistia e
furono liberati, al termine della dittatura.
Uruguay:
il grande piccolo Paese dell’anno
¡Felicitaciones! ¡Felicitaciones Pepe! E se li merita
proprio tutti gli auguri l’Uruguay di José “Pepe”
Mujica, nominato dal giornale inglese The
Economist “Paese dell’Anno 2013”.
Compreso fra i giganti brasiliano e argentino, il
piccolo paese latino-americano, da poco più di tre
milioni di abitanti e grande come mezza Italia, è
oggetto dell’attenzione di tutto il mondo per le
importanti riforme che hanno contraddistinto la
politica degli ultimi anni. “Un piccolo laboratorio dei
diritti umani” è stato definito e questo merito lo si
deve essenzialmente a Pepe Mujica, che guida la
“Svizzera del Sud America” dal 2010.
Definito dall’Economist “mirabilmente schivo” e
“con una franchezza insolita per un politico”, Mujica
è sicuramente il più singolare dei presidenti: vive
all’ estremità della periferia di Montevideo (capitale
dell’Uruguay) con la moglie, la senatrice Lucia
Topolansky, in una fattoria, parte della quale è stata
devoluta a una famiglia di senza-tetto.
Dei 250 mila pesos che riceve mensilmente ne
devolve il 90% al Fondo Raùl Sendic, istituzione che
si occupa di favorire lo sviluppo delle zone più
povere dell’Uruguay tramite la costruzione di
abitazioni provviste di luce e acqua. Trattiene per sé
solo il restante 10%, pari a circa 800 euro.
Mujica dichiara: “questi soldi, anche se pochi, mi
devono bastare perché la maggior parte degli
uruguaiani vive con molto meno”. E la sua austerità
non si ferma qui: per lo Stato è un nullatenente, non
ha un conto in banca né guardie del corpo, si reca al
palazzo presidenziale - dove ha rifiutato di vivere con un maggiolino, viaggia in seconda classe.
Mujica è stato da molti salutato come uno dei pochi
esponenti di una politica sobria, tesa unicamente al
bene comune. La sua popolarità all’estero è talmente
cresciuta da farlo soprannominare “il presidente più
povero del mondo”.
Tuttavia Mujica non è uno degli ultimi arrivati, e la
sua storia personale è in grado di spiegare molto dei
tratti della politica da lui inaugurata.
Classe 1934, è diventato nel 1995 il primo deputato
che abbia fatto in passato parte del movimento dei
Tupamaros.
Da allora Mujica ha cominciato ad essere attivo
politicamente: nel ’94 è eletto deputato, poi senatore
fino
a
ricoprire
l’incarico
di
ministro
dell’Allevamento, Agricoltura e Pesca nel governo
guidato da Tabaré Vàzquez nel 2004. Nel 2009 vince
le primarie del Frente Amplio per presentarsi alle
elezioni presidenziali del 2009. Il programma da lui
presentato fu insolito: Mujica propose di mettere in
discussione la proprietà privata dei grandi
appezzamenti terrieri, togliere il segreto bancario e
risolvere il problema della droga.
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l’interruzione volontaria della gravidanza prima delle
dodici settimane di gestazione. L’Uruguay è il
secondo paese dell’America Latina, dopo Cuba, a
legalizzare l’aborto. “Un grande passo per garantire i
diritti delle donne uruguaiane a decidere su se stesse
e sul proprio corpo”, che non evidenzia soltanto un
profondo cambio di mentalità (si pensi che l’aborto
era già stato depenalizzato nel 2008, ma il presidente
Vàzquez pose il veto), ma anche un importantissimo
avanzamento nella regione che registra, secondo i
dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS), il più alto tasso di aborti - solo 30 mila in
Uruguay. In aggiunta, l’Uruguay è il secondo paese
dell’America Latina, dopo l’Argentina, a permettere
il matrimonio fra le persone dello stesso sesso.
La norma, entrata in vigore nell’aprile 2013,
consente “l’unione di due contraenti, qualunque sia
la loro identità di genere o orientamento sessuale,
negli stessi termini, con gli stessi effetti e forme di
scioglimento che stabilisce il Codice Civile”. Alle
coppie omosessuali è riconosciuta anche l’adozione e
la possibilità di decidere quale cognome dare ai figli.
Si permette agli stessi figli, inoltre, di riconoscere il
padre biologico nel caso in cui non siano stati
concepiti in vitro.
Per quanto il programma fosse in buona parte
irrealizzabile, quello che gli ha assicurato la vincita e
che ha convinto il 52% degli uruguaiani è la sua
inusitata franchezza.
Ed è proprio la schiettezza, condita con una sana
dose di ingenuità, che ha contraddistinto il discorso
da lui tenuto al G20 del 2012 in Brasile. Mujica ha
fatto appello ai valori universali della felicità e della
vita ed ha ripreso le parole di numerosi filosofi greci
e latini (da Epicuro a Seneca), secondo cui “Povero
non è chi possiede poco, ma veramente povero è chi
necessita infinitamente tanto”. Valori universali che
rimarcano come lo stato e l’economia debbano
essere asserviti all’uomo e alle sue profonde
aspirazioni e necessità. “Lo sviluppo non può essere
contro la felicità”.
La fase politica promossa dal presidente ha visto
degli indiscutibili miglioramenti economici e sociali.
L’Uruguay registra il tasso di disoccupazione più
basso della sua storia (6,3%), il 60% della
popolazione occupata, l’inflazione all’8%, un calo
dell’indice di povertà (dal 32% nel 2004 al 14% nel
2011). Sono stati inoltre potenziati i programmi di
assistenza sociale, di cui usufruisce la maggior parte
della popolazione uruguaiana, e intensificati gli
scambi con i paesi esteri. Storicamente dipendente da
Brasile e, in particolar modo, dall’Argentina,
principale partner commerciale dell’Uruguay, il
governo ha avviato delle trattative con la Repubblica
Popolare Cinese, attirata dalle agevolazioni ed
esenzioni fiscali offerte per chi voglia investire nel
paese. Nel giro di sette anni i rapporti fra Uruguay e
Cina sono aumentati del 680%. Afferma Luis
Almagro, ministro degli Esteri: “L’Uruguay è in
grado di fornire numerosi vantaggi per gli investitori
cinesi, fra cui un ambiente sicuro e affidabile,
un’economia aperta e un quadro giuridico completo,
equo e sicuro per gli investitori”. D’altronde,
l’Uruguay non fa alcuna distinzione fra investitori
locali e stranieri e consente il trasferimento di
capitali all’estero. Ma è soprattutto dal punto di vista
sociale che il tradizionalista e conservatore paese
americano ha fatto dei veri e propri passi da gigante.
Solo nel giro di due anni sono state introdotte
riforme di primaria importanza. Nel 2012 viene
approvata dal Parlamento la proposta di legge per
Comunque il provvedimento che maggiormente ha
fatto discutere è la legalizzazione della marijuana. La
legge, approvata nel dicembre 2013, ne regola la
vendita e la produzione: sarà lo stesso Stato a
venderne un massimo di 40 grammi al mese in
farmacie autorizzate solo ai maggiori di diciotto
anni. Essi avranno inoltre la possibilità di coltivare
fino a un massimo di sei piante nella propria
abitazione. L’iniziativa, promossa dallo stesso
Mujica, ha il chiaro intento di sottrarre ingenti
profitti al diffusissimo narcotraffico e di dissuadere i
cittadini dal far uso di droghe pesanti.
Insomma, delle grandi rivoluzioni che rendono
ufficialmente il piccolo Uruguay uno dei paesi che si
sta con più forza affermando nel panorama
internazionale. “Ha fatto bene l’Economist” afferma
il premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas
Llosa. Sì, ha fatto proprio bene.
LUCA ZAMMITO
10
(D)io e (D)io: pericoli per l’umanità
che gli uomini sono deboli come le foglie e che,
passato il breve istante della giovinezza, sarebbe
meglio la morte. Altri concetti molto poco "umani"
si ritrovano sempre nella lirica in Solone che dice:
"sia io dolce agli amici ed aspro ai nemici".
Veramente "disumano" è Ipponatte, il cui frammento
115 West, merita qui di essere riportato: egli augura
a un suo "amico traditore" che
"in Salmidesso, nudo, lo accolgano benevolmente i
Traci dall'alto ciuffo - di molto mali qui colmerà la
misura mangiando il pane della schiavitù - lui,
irrigidito dal gelo. E fuor della schiuma sia tutto
coperto di alghe, e batta i denti, come un cane
giacendo bocconi per lo sfinimento lungo la
battaglia. Questi mali vorrei incontrasse chi mi
offese, chi calpestò i giuramenti, egli un tempo era
mio amico".
La prima corrente "umanista" dell'antichità potrebbe
essere considerata quella dei sofisti. Quando
Protagora dice che "πάντων χρήματων μέτρον εστι
άνθρωπος, των μεν όντων ως έστιν, των δε ουκ
όντωv ως ουκ έστιν [5]", esprime un concetto che
potrebbe essere considerato come tale. Visto dal
punto di vista dell'Humanitas il messaggio di
Protagora ha un impianto fortemente ottimista.
L'uomo, direi qui con parole kantiane, è il soggetto
che percepisce la realtà secondo le sue forme. Egli
quindi, se vorrà agire "secondo misura" (κατα
μέτρον), non dovrà far altro che conformare la realtà
ai suoi parametri. Da questa interpretazione
"ottimistica" della lezione protagorea, nascerà il
pensiero di Socrate. Se infatti la sede di tutti i μέτρα
è l' "umano", conoscere se stessi significherà
"partorire" i concetti che misurano le cose, i quali
risiedono in noi. Socrate è un uomo policé: un
illuminista nell'Atene del V secolo, che crede
nell'esistenza di uno o più elementi che rendono
l'uomo non solo un animale, ma un essere
civilizzato, che parla dialogando col prossimo e non
fa mai emergere la sua irrazionalità (θυμός). Più che
un animale politico (ζόον πολιτικόν) è un vero e
proprio "animale dialogante" (ζόον διαλεγoν).
Il pensiero di Platone è diametralmente opposto. Egli
può essere considerato, anche se non si direbbe,
l'antitesi metafisica di Socrate. Platone è, insieme ad
Aristofane, uno dei primi grandi conservatori
reazionari di stirpe aristocratica della Storia. La
filosofia di Platone, in sostanza, vuole riformulare la
massima di Protagora, intendendo che "πάντων
χρήματων μέτρον εστι θεός" [6]. Dire "θεός" è come
dire "idea", in quanto l'idea e la "divinità" hanno i
medesimi attributi (sostanza, forma, perfezione,
bontà...). Ad ogni modo Platone torna qui ad Omero,
ed in generale a tutta la tradizione presofistica, se
intendiamo la sofistica come una corrente di pensiero
"illuminista", e questo fa di lui un "reazionario".
L'uomo (come in Omero) è uno scherzo, e qualora
Al giorno d'oggi una delle cose che forse l'uomo da
più per scontata è il fatto che poiché sia uomo, esso
sia anche un essere umano. Quando noi parliamo di
Humanitas facciamo riferimento a un concetto
ciceroniano, già presente in Isocrate. Ciò che
Isocrate istituisce e Cicerone sostiene nella romanità
è un rigido programma di παιδεία, indirizzato alla
formazione dell'uomo. Un uomo è umano quando ha
assimilato questo compendio di valori che lo
rendono, in sostanza, un individuo "civilizzato"
(policé). L'umanesimo, come struttura di educazione,
ma anche come grazia e delicatezza nell'agire, come
labor limae, come "bon-ton" e "savoir faire" sarà
l'impianto su cui si formeranno tutti gli uomini di
cultura da Petrarca, Erasmo, al Barocco e
culminando nel cosmopolitismo e negli ideali
giusnaturalisti
dell'Illuminismo.
L'articolo
"Humanité" dell'Encyclopédie di Diderot e
d'Alembert (che può essere a buon diritto considerata
il monumento dell'Umanesimo) intende la
definizione in due accezioni; la intende considerando
l'umanità da un punto di vista "littéraire" definendola
come ciò che concerne "les lettres humaines, c'est-àdire l'étude de la grammaire du Grec et du Latin, de
la Poésie, de la Rhétorique et des anciens Poëtes,
Orateurs, Historiens(...) [1]"e poi soprattutto da un
punto di vista "morale" (e qui ci fornisce la più
chiara definizione di ciò che sia uno "spirito umano")
dicendo che l'umanità "c'est un sentiment de
bienveillance pour tous les hommes, qui ne
s'enflamme guère que dans une âme grande e
sensible. Ce noble et sublime enthousiasme se
tourmente des peines des autres et du besoin de les
soulager (...)[2]".
Ora però, poiché Isocrate non è tutta la cultura greca,
la concezione dell'uomo che emerge da Omero fino a
Platone (un arco di tempo in cui va a nascere e
prendere forma quello che è e sarà il "pensiero
europeo") ci lascia "umanamente" perplessi. I due
vocaboli che vanno a significare "uomo" nella lingua
greca, άνθρωπος e ανήρ, non sono quasi mai usati
dagli autori (si può dire che Omero e Platone non li
utilizzino mai). Essi preferiscono le parole βροτος e
θνητός [3] proprio perché consapevoli di quanto
caduca ed effimera sia la vita umana. Nell'Iliade il
concetto di uomo, se concepito nell'unità di anima e
corpo, è addirittura inesistente. L'uomo non è altro
che una marionetta nelle mani degli dei ed il solo
combattere contro un altro uomo non è altro che il
fenomeno nella dimensione di spazio e tempo di uno
scontro che in quel momento sta avvenendo più in
alto fra due divinità. La lirica arcaica, anche se
"scopre" l'uomo come individuo non cambia
sostanzialmente opinione sul rapporto che intercorre
tra lui e l'Assoluto [4]. Mimnermo è chiaro nel dire
11
esistesse un'idea di "umanità" essa sarebbe un' idea
ridicola, che avrebbe lo stesso valore dell'idea di
"sporcizia" o addirittura di "feci" (come dice nel
"Parmenide"). Tutto ciò che è idea è infatti
"divino"[7], tanto che esiste in un mondo
"iperuranio", non incatenato alle forme sensibili
dello spazio e del tempo o alle categorie della logica.
Il filosofo quindi non sarà più lo ζόον διαλεγoν
socratico, che si sforza di trovare nel mondo dell'
"umanità" il concetto, sarà il "mistico" la cui anima,
avendo ormai visto il mondo dell'Iperuranio sarà per
natura "superiore" a quelle della massa. Il filosofo
abbandona la polis per diventare "cittadino" della
"polis delle idee" (Iperuranio). Ma un uomo che
raggiunge il regno ideale dell'Iperuranio potrebbe
essere considerato effettivamente un "uomo"? Non
sarà presente in lui, allo stesso tempo, qualcosa di
umano e di divino? Non sarà egli "uomo" da un
punto di vista "fisico" e "dio" da uno "metafisico"?
Platone definisce questo individuo "filosofo"
(φιλόσοφος) e nel mito della caverna [8] sembra
volerci far capire che è proprio egli la connessione
tra Iperuranio e mondo "umano". Si potrebbe allora,
ormai per la terza volta, riparafrasare la massima
protagorea e dire "πάντων χρήματων μέτρον εστι
φιλόσοφος [9]". Nella sua Repubblica non a caso
Platone metterà a capo il filosofo, perché ormai è
scettico sul fatto che ogni singolo individuo possa
sapere e ricercare da solo ciò che è giusto ed agire
correttamente. Questo "piccolo essere" che non ha
altra facoltà che appartenere alla misera razza degli
"umani" è talmente incapace che avrà bisogno di un
essere superiore che lo guidi: il filosofo, ovvero un
"dio" con sembianze "umane". La futura classe
dirigente dell'Atene del IV secolo tuttavia non si
sarebbe formata all'Accademia di Platone, ma alla
scuola di Isocrate. Fra i due maestri vi è come punto
in comune la sfiducia nei confronti dell'attuale
sistema democratico, ma la scuola di Isocrate era una
vera e propria scuola "socratica" (nel senso sopra
inteso) il cui maestro insegnava ai discepoli il valore
e l'interesse del dialogo, delle opinioni altrui (δοξαι)
e della necessità di promuovere una sorta di "cultura
greca di massa" (quella che sarà poi la cultura
ellenistica) che rendesse in un certo senso tutti gli
uomini capaci al dialogo, al rintraccio dell'utile per la
polis, ad essere "retori" e non "filosofi", ad essere
oltre che uomini, "umanità". Il IV secolo ad Atene
dunque è un secolo di "retori", così come lo è il I a
Roma, dove la filosofia "alla Cicerone" non è una
missione e un sentimento puro, ascetico, ma una
meravigliosa veste da indossare in superficie, che in
fin dei conti è soltanto finalizzata a "la persuasione e
la rettorica" [10]. Non a caso Cicerone e Isocrate,
che a differenza di Platone non sono di stirpe
aristocratica, sono esempi emblematici di borghesi
politicanti, di uomini vanitosi e che hanno come
ideale di uomo qualcuno che riesce bene a "vendere"
qualcosa a qualcun altro.
Come abbiamo detto quindi, dal Rinascimento al
Secolo Socratico [11] la fantasia di una Grecia
dell'umano non ebbe cambiamenti sostanziali.
L'unico popolo europeo che non è mai riuscito ad
accettare e ad adattarsi facilmente a questa
concezione dell'uomo e del suo valore in quanto
essere umano è il popolo tedesco. Il primo giudizio
critico di Lutero su Erasmo suona così: "humana
prevalent in eo plus quam divina". E come dare torto
a questo rozzo e sgraziato monaco tedesco, che non
fa altro che leggere dalla mattina alla sera la Bibbia o
Agostino e trarre come conclusioni pressappoco le
stesse di Platone, ovvero che l'essere umano può solo
sbagliare, e che il suo arbitrio non è libero dalla sua
essenza peccaminosa ma solo servo di essa, e che
solo un dio può salvarlo? Non è forse Erasmo
l'umanista per eccellenza, tanto che egli stesso
confessa di "venerare" Socrate chiudendo ogni sua
preghiere con la formula "Sancte Socrate, ora pro
nobis"? Lutero appartiene ad un popolo fortemente
spirituale ed autentico, esistito, come i Greci, prima
come popolo che come nazione, e che non conosce
tutte le meraviglie ed i giochi di prestigio della
retorica umanistica ciceroniana. In tedesco non a
caso si usa dire che chi è gentile e cortese con te ti
vuole ingannare, in quanto ti sta offuscando la vista
con qualsiasi tipo di trovata. Ma queste non sono le
cose che un umanista chiamerebbe "manifestazioni
di umanità"? Il divino invece non è complesso e
articolato, pieno di mille ricercatezze, il divino è
"edle Einfalt und stille Größe"[12]. Questa
definizione così chiara e precisa ce la dà un altro
tedesco, J. J. Winkelmann che sicuramente avrebbe
espresso sull'arte barocca lo stesso giudizio che
Lutero espresse su Erasmo. Winkelmann è un
platonico come lo è Lutero, e non a caso si batte
contro l'esasperato sentimentalismo melodrammatico
del barocco. L'artista che ha creato l'opera d'arte, in
pratica l'aspetto umano dell'opera, non ha importanza
per Winkelmann. Ciò che una statua greca
rappresenta è la bellezza ideale di un popolo che è
riuscito a liberarsi dell'imperfezione umana e a
raggiungere il divino (θειον).
Il motivo per cui i più grandi studiosi e conoscitori
del pensiero greco siano stati i tedeschi sta nel fatto
che essi furono i primi a ricercare nelle opere
letterarie lo spirito e la mentalità di questo popolo.
La filologia e la linguistica comparata assumeranno
un valore pari a quello della filosofia, poiché si
inizierà a cercare la verità dello spirito nei testi,
l'inconscio collettivo di un popolo dalle sue forme
artistiche e simboliche. La filologia tedesca scoprirà
una Grecia nuova, con tutti i suoi aspetti "disumani",
libera dal "filtro" romano. Filologia e filosofia per la
prima volta andranno di pari passo, basti pensare che
12
Friedrich Nietzsche era proprio un filologo. I filosofi
tedeschi metteranno in discussione la cultura
dell'umanità come fine di ogni azione. Max Stirner è
il primo che in maniera cosciente pone al centro
della sua dottrina politica non l'umanità o la società
di massa (quello che aveva fatto Rousseau, Hegel e
che poi farà Marx), ma l'individuo in quanto "unico".
L' Unico non è un essere umano, poiché proprio
perché unico non può appartenere a nessun gruppo
racchiuso in un insieme, in quanto nessun elemento
lo accomuna ad un altro Unico. La libertà dell' Unico
è posta soltanto da se stesso, e non vi è nessun valore
al di sopra dell'egoismo anarchico che deve muovere
l'Unico nelle sue azioni. In Stirner l'individuo non è
un uomo, ma, sincronicamente, un vero e proprio
soggetto ed oggetto di venerazione. Tutto ciò che è
collettività limita la mia libertà, e lo fa per fini che
non mi appartengono, in quanto il mio unico fine è
quello di poter fare o non fare ciò che desidero.
L' Unico quindi potrà usare qualsiasi mezzo e
qualsiasi argomento per affermare la sua unicità e
non essere travolto dal qualunquismo della massa, e
la stessa Rivoluzione deve essere un atto
anarchicamente individuale (come la rivoluzione di
Lutero o di Winkelmann). Un altro filosofo, forse
anche più noto, che concepirà l'individuo come
qualcosa di diverso dall'umano è Nietzsche. In
maniera molto grossolana e semplicistica si potrebbe
dire che tutto ciò che è considerato come valore
"umano" deve essere annullato per lui, poiché non vi
è nessuna dignità nell'essere un essere umano, né
nessuna gloria o bene nel condividere la propria vita
con altri essere umani. La filosofia di Nietzsche, ma
soprattutto quella di Stirner, sono un vero e proprio
marxismo al contrario, in quanto il motore di tutto
non è la massa, ma l'individuo, o meglio "(d)io" [13].
Questo atteggiamento di disprezzo della mediocrità e
questo spirito tutto "décadence" di morte e rinascita
come grado superiore è quello che culminerà nel
Nazional Socialismo, così come lo spirito di
uguaglianza e di umanità portato all'estremo
culminerà nel comunismo sovietico, il cui teorico,
Karl Marx trae spunto dalle teorie "socialiste" e
collettiviste di Rousseau, secondo cui la volontà dell'
Unico deve piegarsi alla volontà Generale, e secondo
cui non è Dio a porre l'uomo, ma l'uomo a porre Dio.
Ora è necessario premettere che l'uomo occidentale è
quasi "per natura" ossessionato dal controllo politico
e definire un’ intera "mentalità" come "nazional
socialista" o come "sovietico-comunista" è pur
sempre una riduzione del punto di vista; significa pur
sempre vedere la realtà solo dal punto di vista
"politico". La visione della Germania del III Reich o
della C.C.C.P. non era una visione soltanto politica,
ma in un certo senso "cosmica". Se dalla visione
della globalità che la cultura tedesca del III Reich
abbracciava togliamo il massiccio elemento politico
(il nazional socialismo) scopriamo come la cultura di
fondo è violentemente individualista (e quindi anticollettivista), nell'accezione secondo cui essa vuole
essere prima di tutto ed esclusivamente "tedesca".
"Tedesca" lo si intende come si intende l'Unico di
Stirner, ed è normale quindi che, per orientarsi nelle
sue scelte per questa "cultura" è molto importante la
domanda "qual è l'origine di un ariano? Che cosa ha
e che cosa non diversamente dagli altri?". Allo stesso
modo se dalla visione della globalità che l' Unione
Sovietica abbracciava, togliamo il massiccio
elemento politico (che è in pratica lo stesso di prima,
il socialismo, ma in questo caso "internazionale"!)
scopriamo come la cultura di fondo è fortemente
collettivista
(e
quindi
anti-individualista),
nell'accezione secondo cui essa vuole essere prima di
tutto ed esclusivamente "umana". "Umano" lo si
intende come si intende la massa proletaria di Marx,
ed è normale quindi che, per orientarsi nelle sue
scelte per questa cultura è molto importante la
domanda "qual è l'origine dei proletari? Che cosa
hanno e che cosa non hanno differentemente dal
capitalista?".
A questo punto la cosa più interessante è capire se la
nostra società capitalista mira alla creazione di una
cultura di massa o alla creazione di una cultura
egoistica. In questo caso bisognerà rispondere
entrambe le cose. La cultura capitalistica moderna è
riuscita a sintetizzare questi due aspetti scindendo
l'individuo dalla sua unità, ed allo stesso modo ha
scisso dalla sua unità la massa. L' individualismo del
capitalismo è un individualismo soltanto materiale,
mentre il collettivismo del capitalismo è soltanto
spirituale. L'individuo può essere Unico rispetto agli
altri soltanto in base a ciò che possiede, alla sua
ricchezza materiale e alla sua libertà di poter
acquistare o meno qualcosa, ma mai potrà avere la
libertà di avere, in quanto Unico, anche un pensiero
Unico nel suo genere. Allo stesso modo l'unica
forma di uguaglianza che la società moderna
concede fra le varie persone è quella spirituale,
ovvero l'unica cosa che la società moderna
distribuisce con criterio egualitario è la cultura, che
proprio perché omogenea diventerà di massa. Quello
che si cercherà di raggiungere in sostanza sarà un
anarco-individualismo a livello materiale (anarcocapitalismo) ed un comunismo internazionalista a
livello spirituale (collettivismo-totalitario). Tutte le
domande che ci si poneva prima erano di carattere
qualitativo, ovvero mirate a capire quali qualità
erano in uno e quali nell'altro, mentre adesso il
discorso è ridotto alla quantità. Cosa potrebbe essere
dedotto da questa trattazione che ho portato avanti
non tanto per sostenere questa o quella tesi, ma
semplicemente seguendo istintivamente gli spunti
che mi comparivano davanti sempre più
evidentemente? Si potrebbe dire che sia l'umano che
13
il divino rischiano di essere o troppo umano o troppo
divino, ma questo sarebbe già di per sé un giudizio
"umano" se riferito al divino troppo divino, e già di
per sé divino se riferito all'umano troppo umano.
che il filosofo utilizzi spesso e volentieri miti per
illustrare punti nevralgici del suo pensiero è una
prova del suo spirito "anti-illuminista", che lo spinge
a non sforzarsi di esporre i sui pensieri in maniera
chiara di modo che chiunque possa accedervi. Egli,
come Eraclito, è enigmatico. La sfiducia nelle
capacità intellettuali della massa e nella democrazia
in generale è dimostrata dal fatto che le più profonde
dottrine platoniche non siano mai state scritte, ma
rimaste segrete nell'Accademia fra il maestro ed i
suoi adepti. La dottrina dell'Uno e della Diade parla
di un mondo ontologico addirittura superiore
all'Iperuranio, che non è altro che ipostasi di questi
due principi.
[9] "il filosofo è misura di tutte le cose"
[10] "La Persuasione e la Rettorica" è il titolo della
geniale tesi di laurea di Carlo Michelstaedter (18871910). Persuasione e retorica sono concetti molto
complessi in Michelstaedter. Grossissimo modo, la
"persuasione" è il tentativo sempre vanificato di
giungere alla possesso di se stessi. La "rettorica" è
l'apparato di gesti, di istituzioni, con cui viene
occultata
l'impossibilità
di
giungere
alla
"persuasione".
[11] Il Settecento veniva chiamato per l'appunto
"Secolo Socratico", per la propensione degli
illuministi ad utilizzare come metodo il "dubbio
metodico" e l'ironia per dissacrare il sacro.
[12] "Quieta semplicità e silenziosa grandezza". La
parola "Einfalt" in tedesco significa sì semplicità
d'animo, ma allo stesso modo ingenuità, spontaneità,
ed anche in senso dispregiativo nel senso di
"semplicioneria". Tutto ciò che è umanistico e
retorico non è "semplice", nessun dio potrà essere
"furbo" in senso stretto. Un altro illustre tedesco,
Friederich Schiller, scriverà un saggio "Sulla poesia
ingenua e sentimentale" nel quale parlerà della
poesia greca come esempio massimo di arte
"ingenua". Leopardi, allo stesso modo, concepirà in
maniera simile la poesia greca.
[13] La visione stirneriana dell'Unico come elemento
centrale potrebbe essere rintracciata anche in
Protagora. Quando questo dice che l'uomo è misura
di tutte le cose (vedi nota 5) potrebbe sì intenderlo in
senso umanistico-socratico, ovvero come "l'umanità
è misura di tutte le cose", ma anche nel senso che
"l'Unico è misura di tutte le cose" e questo
trasformerebbe il Protagora illuminista e presocratico
in un vero e proprio nichilista ante litteram. È chiaro
quindi che dove c'è l'Unico non c'è umanità, poiché
Esso è assolutamente autoreferenziale.
Note:
[1] "le lettere umane, ovvero lo studio della
grammatica del Greco e del Latino, della Poesia,
della Retorica, e degli antichi Poeti, Oratori, Storici
(...)" (article par Mallet)
[2] "è un sentimento di benevolenza per tutti gli
uomini, che non si accende che in un'anima grande e
sensibile. Questo nobile e sublime entusiasmo si
tormenta per le pene degli altri e per il bisogno di
alleviarle" (article par Diderot?)
[3] Entrambe le parole significano letteralmente
"mortale"; "θνητός" non è altro che l'aggettivo
verbale del verbo θνησκω, mentre βροτος deriva
dall'arcaico μροτός, sostantivo la cui radice si trova
nell'indoeuropeo
mrtw s,
mrt s
(“morto,
mortale”). L'Old English conserva la forma "morþ"
(morto), ma il collegamento più evidente si può fare
col latino "mortus". In pratica si può dire che per
Omero e Platone l'uomo è già un "morto". La parola
maschile "Brot" in tedesco significa "pane": βροτος
potrebbe significare mortale anche poiché, a
differenza degli dèi che come risaputo si nutrono di
nettare e ambrosia, il mortale è colui che si nutre di
pane.
[4] Benché uomo che ha scoperto la propria
individualità, Archiloco si sente ancora servo
(θηραπων) di un dio, in questo caso quello della
guerra (Enialio). Lo stesso suo poter fare poesia è un
"amabile dono delle Muse" (Μουσηων ερατον
δορον)
[5] "l'uomo è misura di tutte le cose; delle cose che
sono in quanto sono, delle cose che non sono in
quanto non sono."
[6] "il dio è misura di tutte le cose"
[7] È un "divino" del tutto impersonale quello che
Platone vuole intendere. È vero che la concezione
dell'uomo di Platone è molto vicina a quella di
Omero e il rapporto che intercorre tra l'uomo e la
divinità è pressappoco simile, ma non bisogna
nemmeno trascurare che fra l'uno e l'altro
intercorrono minimo quattro secoli di differenza,
periodo in cui il pensiero greco ha avuto,
ovviamente, delle evoluzioni nell' "immaginare" il
divino. Omero, oltre ad essere un poeta epico e non
un filosofo, è cronologicamente anteriore a Senofane
e Parmenide, pensatori la cui visione della divinità
come "essere non antropomorfo" Platone accoglie
volentieri.
[8] Contrariamente a ciò che si può pensare, la
dimensione dell' "oralità" in Platone è molto
importante, e non meno di quella socratica. Il fatto
WALDGANG
14
conformismo. Pensiamo, ad esempio, a “I Viaggi di
Gulliver” di Jonathan Swift; il libro parla di un tipico
uomo inglese, l’uomo medio per eccellenza, felice,
orgoglioso e soddisfatto della propria patria, che a
seguito di naufragi e altre peripezie approda in
quattro paesi a dir poco improbabili: nel primo, gli
abitanti sono minuscoli; nel secondo, al contrario,
giganteschi; la terza isola è invece popolata da
bizzarri scienziati che conducono esperimenti inutili
e assurdi; nel quarto viaggio, invece, la satira
dell’autore raggiunge i livelli più alti, poiché
Gulliver approda in un mondo perfetto, abitato però
non da uomini, ma da animali. E dal confronto con
questi luoghi, per certi versi così differenti ma per
altri così simili al suo mondo, egli ha la possibilità di
riflettere, e più viaggia più capisce che la società che
ha sempre ciecamente sostenuto e difeso è in fondo
una società violenta e arretrata; fino ad arrivare, una
volta tornato a casa, al completo rifiuto dei suoi
simili.
Utopia: tra sogno e realtà
Nel linguaggio comune, la parola “utopia” indica un
progetto immaginario, una fantasia che non è
realizzabile, ma che se lo fosse sarebbe un bene: è un
pensiero felice, in cui ci si rifugia quando le cose nel
mondo reale non vanno come vorremmo.
Il primo a utilizzare questo termine fu un pensatore
cristiano dell’età rinascimentale, Tommaso Moro:
insoddisfatto della realtà in cui viveva, scrisse un
libro in cui immaginava l’esistenza di un’isola felice,
dove regnasse la pace e l’uguaglianza e gli uomini
fossero solidali fra di loro. A questo paese diede,
appunto, il nome di “Utopia”, termine greco che può
avere due significati: luogo che non c’è (ou + tòpos)
e luogo felice (eu + topos); e, infatti, da Moro in poi,
la parola ha sempre indicato un luogo felice e
perfetto, che però non esiste nella realtà. Anzi, nasce
proprio come antitesi della realtà: una realtà ingiusta,
marcia, verso la quale si prova una profonda
insoddisfazione; ed è proprio la profonda sfiducia nel
presente che porta l’utopista a rifugiarsi in un mondo
che non esiste, diverso da quello in cui vive, in cui
tutto è al suo posto e tutto funziona come dovrebbe.
Un finale un po’ pessimista, certo: forse Swift non
era convinto della possibilità che l’uomo potesse
realmente cambiare. L’utopia di un mondo
finalmente giusto era, per lui, davvero solo
un’utopia; e anzi, più che descrivere un mondo
perfetto si limitava a inventare luoghi stranissimi che
più che mai erano lo specchio distorto della realtà,
verso cui muoveva una critica che rimaneva tale, e
non prevedeva margini di speranza.
L’atteggiamento disincantato di Swift è lo stesso di
tutti coloro che credono che il mondo reale, giusto o
sbagliato che sia, è e rimarrà sempre uguale a se
stesso; che identificano gli utopisti con ingenui
sognatori, eterni Peter Pan alla ricerca dell’Isola Che
Non C’è. Ma in realtà gli stessi utopisti sono
perfettamente coscienti che i loro progetti sono in
gran parte irrealizzabili (pensiamo ad esempio a
Platone, che parlava di uno stato ideale governato da
Ma è davvero una fuga? Spesso, più che una
reazione di fuga, il pensiero utopico può
semplicemente rappresentare un appello alla
riflessione critica: una provocazione volta a scuotere
le
coscienze
intorpidite
dall’accidia
del
15
filosofi: assurdo!): ciò non toglie, però, che per
quanto ambiziosi, per quanto appunto utopici, essi
possano rappresentare il modello per creare qualcosa
di buono, qualcosa di non perfettamente identico, ma
molto simile a quello che si è immaginato. Del resto,
non c’è niente di male nello sperare in un mondo
migliore, ed è di certo preferibile essere sognatori
che rimanere con le mani in mano, non fare nulla per
cambiare le cose, “perché tanto a che serve?”. Come
diceva Edoardo Bennato, cantando di un’isola “senza
ladri e gendarmi, senza odio e violenza, né soldati né
armi”: forse è vero, forse una terra così non esiste né
mai esisterà, ma chi ha smesso di sperarci, chi ha
smesso di cercarla, beh, forse è lui il vero pazzo!
storie d'amore finiscono, ma l'affetto continua. Non
si smette di volersi bene.
Meglio di noi sono i Giapponesi, che per esprimere il
nostro “Ti amo” hanno tre modi diversi, ognuno dei
quali corrisponde ai diversi stadi della relazione.
Il primo: “Daisuki” usato tra gli amici, dovrebbe
corrispondere al nostro “ti voglio bene”.
Il secondo: “Aishiteru” pronunciato nelle relazioni
amorose.
Il terzo: “Koishiteru” lo si dice alla persona con cui
si desidera trascorrere il resto della vita insieme.
E’ interessante constatare come i giapponesi seguano
seriamente questa gerarchia e non banalizzino il “ti
amo” come invece usiamo fare noi Occidentali.
Tutto affascinante, sì, peccato che già ci facciamo
problemi per pronunciare un semplice “ti voglio
bene”, immaginando la reazione dell’altro,
figuriamoci per un “Koishiteru”!
ALICE BERTINO
Tutti dicono “I love you”
No Ladies and Gentlemen, oggi non vi parlerò della
commedia di Woody Allen ma di un dubbio, un
dubbio che per un po’ di tempo mi ha martellato il
cervello mentre cercavo di comporre scritti in lingua
inglese per i miei esami…
Perché non esiste un’espressione corrispondente al
nostro “ti voglio bene”?
Non sono una linguista, ma nei miei piccoli viaggi
all’estero ho potuto constatare questo: gli inglese
dicono “I love you”, i francesi “je t’aime”, i tedeschi
“ich liebe dich” e gli spagnoli “te amo” ma queste
espressioni, nelle rispettive lingue, stanno a
significare anche “ti amo”, cosa che per un italiano
ha un significato e un valore BEN diverso.
Tutti quanti possiamo concordare che il “ti amo” sta
leggermente sopra al “ti voglio bene” ma la
questione è una: perché le alte lingue non
riconoscono questa differenza?
Per non parlare del fattore D, la Donna, che vorrebbe
sentir pronunciata una cosa e invece è costretta a
sentirne un’altra: un dramma.
Schopenhauer che, con il suo viaggio in India, ebbe
il merito
di aver notevolmente contribuito
all’apertura verso mondi diversi dal Vecchio
Continente, già affermava l’inconciliabilità tra il
pensiero filosofico orientale e occidentale.
Nella società moderna, come quella di oggi,
cerchiamo di semplificare e di ridurre tutto
all’essenziale, anche nella lingua, e, discutendo di
questo con alcuni miei amici maschi, loro sono
arrivati a concordare che non sarebbe male se la
distinzione adottata da noi italiani scomparisse:
“I love you” - “Me too”.
Sarebbe molto più semplice e meno problematico,
meno imbarazzante di fronte ad un rifiuto.
Sono della linea invece che questa scissione sia
necessaria, non a caso Oriana Fallaci scrisse:
“Aveva dimenticato davvero. Sbagliava anche la
coniugazione del verbo amare che da un punto di
vista grammaticale è un verbo semplicissimo, da un
punto di vista sentimentale è il più complicato del
mondo”.
MARTINA MANGIONE
Quanti problemi ci facciamo noi italiani! Anche
nella lingua! Meravigliosa e di una ricchezza
lessicalmente strepitosa! Usiamo termini diversi per
esprimere sfumature dello stesso sentimento: tante
16
Possono un po’ di lustrini
abbattere una parete?
stesse facendo le prove per lo spettacolo, nel secondo
atto ci mostra quanto avviene dietro le quinte e nel
terzo atto vediamo lo spettacolo dopo la centesima
replica. Questo esempio di meta-teatro dimostra
esattamente come trascinare il pubblico in situazioni
ed esperienze diverse. Non è necessario, però, andare
a teatro per assistere a questi meccanismi, la rottura
della quarta parete infatti la possiamo trovare anche
in alcuni dei cartoni che vedevamo da piccoli: Bugs
Bunny ne è la rappresentazione concreta quando ci fa
l’occhiolino, oppure Willy il Coyote che ci mostra
cartelloni con scritte prima di cadere nel burrone. A
mio avviso il film “Chi Ha Incastrato Roger Rabbit?”
è quello che riporta maggiormente le caratteristiche
di un teatro nel teatro, naturalmente traslate in
ambito cinematografico, e della caduta della quarta
parete: nella scena finale Porky Pig ci saluta
direttamente annunciando il finale del film.
Tale concezione del teatro e tutte le tecniche che vi
ho proposto hanno fatto strada al teatro
d’improvvisazione, culmine del coinvolgimento
dello spettatore che diviene quasi un attore, quindi
parte dello svolgimento dell’azione. Forme di
improvvisazione teatrale sono il Cabaret e il
Burlesque, in cui appunto lo spettatore non è più
pubblico ma attore indispensabile all’azione. Sono
spettacoli che non si pongono alcun fine, nessun
insegnamento, se non quello di far divertire il
pubblico. Le donne sono le protagoniste indiscusse
del Burlesque, una vera e propria arte che non ha
nulla a che vedere con la volgarità a cui spesso si
riconduce erroneamente il termine. Sua finalità non è
infatti quella di sedurre ma quella di divertire, di far
ridere lo spettatore in modo diverso, con una vera e
propria recitazione che comprende spogliarelli e
arriva anche alla trasgressione, senza però alcuna
mossa grossolana o volgare.
Una barriera invisibile, un muro inesistente, ciò che
solitamente chiamiamo “quarta parete”, la vera linea
di separazione tra quello che rappresenta il mondo
della finzione, che sia teatro, cinema o televisione, e
il pubblico. Un espediente tecnico che isola
completamente l’attore, lo divide dal quotidiano e ne
stabilisce, perciò, l’assoluta impersonalità.
Ci troviamo nel teatro greco, quando si è fatta strada
l’idea di abbatterla questa parete. Autore di questa
innovazione è Menandro, con la sua “Commedia
Nuova”, che si avvicina agli uomini comuni e fa
interagire pubblico e spettatori. Egli incentra tutto il
fulcro della rappresentazione sull’uomo vero, con
un’ humanitas e un’analisi psicologica mai viste
prima. Furono, dunque, proprio Menandro e i suoi
seguaci, con tali tecniche, quelli che hanno avuto
maggior influenza sul teatro moderno.
Nel XX secolo si assiste a una vera e propria teoria,
portata avanti da Bertolt Brecht, riguardante la
rappresentazione teatrale, sul cosiddetto “teatro
epico”: lo sviamento dell’attenzione dall’evento
scenico per una maggiore partecipazione dello
spettatore, che assume il ruolo di destinatario attivo
della rappresentazione teatrale. Il pubblico è ora
impegnato a osservare la scena con sguardo critico,
talvolta viene turbato dalla rappresentazione degli
attori, ma è un turbamento che lo porta a compiere
una riflessione. La necessità di rompere l’illusione
deriva quindi dal bisogno di “destare” l’attenzione
dell’ uditorio, coinvolgendolo nel vivo dell’azione
scenica. Nel Novecento protagonista del teatro è,
invece, Luigi Pirandello che, nella terza fase della
sua produzione, abolisce del tutto la quarta parete: ad
esempio, fa camminare e recitare gli attori in mezzo
al pubblico ed elimina lo spazio definito dal
palcoscenico. Vorrei ora proporre per rendere meglio
l’idea uno spettacolo di Michael Fraynn, “Noise
Off”, conosciuto in Italia come “Rumori Fuori
Scena”: in esso sono portate alle estreme
conseguenze gli artifici del teatro nel teatro. La
compagnia infatti recita nel primo atto come se
Gli spettacoli di Burlesque sono ricchi di sfumature
poiché uniscono la sensualità di esibizioni
impreziosite da lustrini, piume e ventagli, alla
comicità del doppio senso, ma anche alla satira e al
gioco. Arte molto complessa e attraversata da
un’atmosfera quasi magica che ci riporta alla Belle
Epoque di fine Ottocento, dove tutto è concesso:
17
divertirsi con ironia, con sorriso e malizia. Così
scrive la giornalista Deborah Bergamini: “Il
Burlesque sottolinea la straordinaria capacità di
autoironia delle donne, che non esitano, in tempi di
acceso dibattito sulla loro dignità e sul loro ruolo
sociale sempre più difficile da definire, a giocare
sugli stereotipi di una femminilità esplosiva,
iperbolica, caricaturale. Ad adoperare uno
sdoppiamento di sé tanto più impenitente quanto più
la quotidianità allontana progressivamente le donne
dalla loro femminilità e le trasforma in corpi, in
funzioni, in incubatrici, in totem. A sfidare, in fin dei
conti, proprio con l'autoironia, un
sistema che sta
togliendo loro ogni bellezza, e che offre loro solo
paradigmi, canoni cui attenersi”.
considerevolmente. Ma lasciamo perdere prima che
arrivi qualche querela.
Molto sapientemente snellita rispetto all'originale di
Shakespeare, questa versione ne elimina gli aspetti
più tradizionali e retorici, mettendone in risalto quelli
più profondi e psicologici, con appassionata
originalità. Una scenografia essenziale che avrebbe
fatto la felicità di De Chirico, rende al meglio il fatto
che idee e pensieri profondissimi vivano in ogni
momento nei personaggi: tre porte senza cardini,
mosse da dietro dagli attori, una sedia nera e
sfondata, simbolo molto realistico ed eloquente del
potere (Letta docet), e tanto basta. Con le tre porte si
creano infinite combinazioni, infiniti ambienti,
disponendole in modi diversi. Le musiche, che
avrebbero fatto la felicità di De André (lo so, sta
diventando una mania), fanno il resto, esprimendo
quegli stati d'animo che le parole non possono mai
esprimere completamente, e suscitandoli negli
spettatori; musiche che vanno da Chopin ai ritmi
elettronici moderni. Una scelta molto azzeccata è
stata di ridurre i personaggi ad una mezza dozzina: in
questo modo diventano tutti protagonisti, e tutto si
potrà dire di questo spettacolo ma non che sia
dispersivo. Gli attori, poi, sono stati in grado di
diventare i loro personaggi con una sincera intensità
che è difficilissimo trovare. Gli abiti moderni, infine,
rendono immediato e franco il rapporto fra l'opera e
lo spettatore, e danno inoltre l'idea dell'immortalità
delle passioni narrate.
Il dramma di Roma è una presenza che incombe per
tutta l'opera: i Romani appaiono nei tragici sfoghi dei
protagonisti come un branco di animali, "con
l'intestino al posto del cuore", intenti a seguire i loro
più bassi istinti, quasi senza più traccia di ciò che li
aveva portati a conquistare il mondo, anzi,
scacciando "come un insetto" la loro precedente
natura. Per questo, dopo aver osannato Pompeo, ora
si aggrappano a Cesare, "perché, se Pompeo dava
dieci, Cesare dà cento", privi di grandi sogni,
disinteressati della propria sorte e della propria
libertà, e quel che è peggio, senza rendersene conto
davvero (non ci riconosciamo, Italiani, Europei,
uomini moderni in genere? E' Shakespeare che ci
ELEONORA CORRADI
Tu quoque, Antonie?
Perla di saggezza del sottoscritto sui libri, sui film e
sugli spettacoli teatrali: se piacciono a quasi tutti,
valgono pochino; se non piacciono a quasi tutti, va
già meglio; ma se il pubblico si divide in bianchi e
neri come i pezzi di una scacchiera e questi due
schieramenti prendono a scornarsi fra loro di santa
ragione peggio di laziali e romanisti dopo un
pareggio (#forzaCasteddu! Io sono neutrale), allora
siamo di fronte ad un capolavoro. E' quello che è
accaduto qui in Italia e, in misura minore, nel resto
del mondo, con la Grande Bellezza, che adesso è in
gran corsa verso l'Oscar.
Quindi fidatevi del mio naso: al Giulio Cesare di
Andrea Baracco poco manca per assurgere a quello
che potrebbe essere briatorescamente (mah...)
chiamato il top degli spettacoli teatrali. Se poi si
aggiunge il fatto che a storcere il naso siano stati
alcuni critici, vecchi bacucchi di fronte al lavoro di
giovani artisti, nonché qualche raro (si fa per dire)
esemplare di imbecille che si aspettava un Giulio
Cesare stile cinepanettone, le probabilità che la mia
perla
di
saggezza
sia
vera
aumentano
18
avvisa). Roma sta avviandosi al suo apogeo, e
proprio per questo si iniziano a vedere i motivi della
decadenza.
Questo è un passaggio fondamentale: la congiura
nasce proprio in reazione a questo male, non ispirata
da chissà quale spirito maligno come nelle favole,
non (o almeno non solo) dall'invidia o dalla sete di
potere, ma soprattutto da quell'opprimente senso di
mancanza di libertà che emerge fin dal dialogo con
Bruto. Bruto, uomo passionale e profondo, così tanto
da essere fragile. I suoi sogni e le sue angosce si
vedono in ogni sua minima parte, come gli dirà
Cassio.
"social", ubriaco d'alcol, di successo, di consenso e
di potere, che fingerà di essere dalla parte dei
congiurati e lascerà che Cesare, suo amico, venga
assassinato per fare i suoi razzici (mah...) interessi:
tolto lui di mezzo, Antonio rimarrà il solo (almeno
per un po') ad avere l'appoggio e la stima di tutti,
presentandosi come il vendicatore, e i congiurati
passeranno dalla parte del torto. A conti fatti è lui il
vero traditore, non Bruto, non Cassio e nemmeno
Casca, che commettono l'assassinio tormentati dalle
loro angosce, credendo in buona fede di eliminare i
mali di Roma con la vita di quell'uomo, simbolo di
un popolo. Ma sarà Antonio il vincitore, e saranno i
perdenti ad essere dannati, come dice chiaramente
prima della battaglia finale. Altri due personaggi
fondamentali: Porzia, la moglie di Bruto, il cui
rimpianto per la felicità perduta la condurrà alla
morte; e Calpurnia, la moglie di Cesare, che spesso
apparirà in maniera un po' innaturale fra i congiurati,
quasi a simboleggiare quell'oscura attrazione che si
prova fra nemici. Che bella la scena in cui lei tenta di
avvertire Cesare, ingannato dalle astuzie dei
congiurati, e Casca le imbavaglia simbolicamente la
bocca, con gioia feroce. Magnifica anche la scena
della morte di Casca, che si dimena come una belva
fra i lacci che gli hanno (sempre simbolicamente)
gettato addosso, prima di cedere. Stupendo, infine, il
discorso di Bruto dopo l'assassinio, che non riesce a
sostenere gli sguardi della folla, intuendo come sarà
il suo destino.
Sono rimasto affascinato dall'immediatezza con cui
si esprimono tutte queste idee profonde e complesse,
dal modo in cui gli attori hanno saputo muoversi fra
le luci e le ombre del palcoscenico. Le musiche sono
molto coinvolgenti, i discorsi si possono quasi
assaporare talmente sono fatti bene.
E' affascinante come questi due uomini si aprano il
cuore e con quanta spontaneità nasca la congiura:
Cassio racconta a Bruto di quando aveva salvato
Cesare che "strillava come un bambino" nel fiume,
lo stesso Cesare di fronte al quale tutti i Romani, un
tempo liberi, ora chinano la testa. E' sorprendente
l'abilità con cui gli attori rendono con naturalezza
l'idea del congiurato in ogni movimento, dopo questo
drammatico discorso. E infine è meravigliosa
l'intelligenza con cui vengono individuate le tre parti
della congiura, identificandole con tre personaggi:
Bruto, il fragile sognatore, è la parte idealistica;
Cassio, il macchinatore, è la mente che ordisce
complessi piani e trame, con astuzia e lucidità; e
infine Casca, (il mio preferito, ho il sospetto che
l'attore che lo interpretava fosse il vero Casca) è la
parte malvagia, la parte bastarda, quella in perenne
ricerca di vendetta sul mondo che sembra odiare,
quella che gode nello sporcarsi le mani, e forse per
questo la più profonda, e sia Shakespeare che
Baracco se ne sono resi conto, esprimendo la
complessità di questa figura in ogni parola e gesto.
Ottima anche la scelta di togliere Cesare, perché in
questo modo diventa quello che è per i protagonisti:
un pensiero ossessivo, una figura idealizzata, anzi,
un'idea da uccidere. Inoltre così si fa capire anche la
sua vulnerabilità: lui è il re dagli scacchi, il pezzo
meno difendibile eppure il più importante, la meta di
tutti i piani in questa battaglia di intelligenze. La
realtà sarà poi più complessa, e determinante sarà la
figura del popolare Marco Antonio, uomo virile e
Uno spettacolo che si mantiene per tutto il tempo ad
un livello altissimo di qualità artistica e carica
emotiva. Si trova anche su YouTube, e dovrebbe
avere molte, ma molte più visualizzazioni. Chi non
ha avuto modo di ammirarlo a teatro, fili a vederlo,
anche se su uno schermo non è la stessa cosa.
In chiusura una cordiale espressione di simpatia
grillina a tutti coloro che, prima ancora di vedere la
prima scena di quest'opera d'arte, si sono convinti
che fosse una scemenza, e si sono turati occhi,
orecchie e cervello. Li invidio molto poco.
ALESSANDRO VIGEZZI
19
che portino il pubblico ad interagire nella
performance. Come si può, dopo tutto, “esistere al di
fuori dello show-business”?
Il quartiere newyorkese del Greenwich Village, nel
quale Llewyn erra senza una precisa meta, è il
labirinto in cui è impossibile proclamare la propria
poetica e le proprie aspirazioni. Continui ostacoli si
frappongono fra Davis e il suo sogno, irraggiungibile
come il gatto (di nome Ulisse) che insegue sui grigi
asfaltati marciapiedi e tenta disperatamente di
ritrovare. Il Village e New York diventano, dunque,
lo specchio dell’insicurezza umana, luoghi
all’interno dei quali l’uomo vaga senza una reale
motivazione e nei quali è destinato a perdersi.
Otre a Oscar Isaac, il film consta della
partecipazione di giovani promesse e antiche glorie:
Carey Mulligan, Justin Timberlake, Stark Sands,
John Goodman e F. Murray Abraham.
Fondamentale l’apporto tecnico: curata dal francese
Bruno Delbonnel, la fotografia fonde i marroni ai
verdi e si contraddistingue per i colori
essenzialmente desaturati. Essi ben rendono la
generale apatia dei personaggi, a partire dal
protagonista, e il grigiore di un esistenza
“naufragata”. Ineccepibile la regia dei Coen che
alterna campi medi a campi lunghi: Llewyn appare
proiettato in uno spazio nel quale emerge come un
outsider, solo, all’inizio e alla fine del racconto.
La colonna sonora è perlopiù formata da pezzi
tradizionali, a cui si aggiungono brani di Bob Dylan
(Farewell), A.P. Carter (The Storms Are On The
Ocean) e Tom Paxton (The Last Thing On My Mind).
Llewyn Davis, il moderno Odisseo del folk
If I had wings like Noah's dove,
I'd fly the river to the one I love,
Fare thee well, my honey, fare thee well.
[…]
Remember one evening, it was drizzlin' rain,
And in my heart, I felt an achin' pain,
Fare thee well, my honey, fare thee well.
Un microfono, una voce, un cantante e una canzone.
La sua vita intera racchiusa in pochi versi. Si coglie
la stanchezza nei suoi occhi… e la sua profonda
disillusione. Un addio? O il desiderio di ricominciare
da capo? Non danno risposte i fratelli Coen.
Tornati alla regia dopo circa tre anni (dall’esperienza
de Il Grinta), i Coen decidono di ispirarsi
liberamente alla vita e alla carriera del cantante folk
Dave Von Ronk, attivo negli anni Sessanta.
Llewyn Davis è un cantante folk che cerca
disperatamente di affermarsi sul piano professionale.
Non ha un lavoro stabile e si paga da vivere
suonando saltuariamente in alcuni locali del
Greenwich Village. Ha realizzato in passato un disco
in duo con Mike, suo partner musicale, che
successivamente si è suicidato gettandosi da un
ponte. Il suo recente album da solista non vende ed è
costretto a chiedere ospitalità ai suoi amici pur di
dormire. Un giorno gli si presenta la possibilità di
recarsi a Chicago per fare un’audizione di fronte a
Bud Grossman.
Magnificamente interpretato da Oscar Isaac, Llewyn
Davis è chiaramente un moderno Odisseo, alla
ricerca della propria strada e del proprio ruolo nel
mondo della musica. Un antieroe per eccellenza, che
presenta tutti i tratti di ciò che gli antichi Greci
definivano Αμηχανία, ovvero la mancanza di
decisione e di intraprendenza che muova i
personaggi all’azione. Non solo incontra molti e
ripetuti ostacoli sul suo cammino, ma forse non è
affatto mosso dal desiderio di successo. Llewyn è
indeciso, accumula un fallimento dietro l’altro:
eppure non sembra più importargli molto di tutto ciò.
Subisce passivamente i suoi insuccessi professionali
ed affettivi: “perdente” lo definisce la sua intima
amica Jean, che molto probabilmente ha messo
incinta. Perdente perché non vuole conformarsi ad un
mercato nel quale si richiedono canzoni “smielate”
Presentato al Festival di Cannes, il film è stato
premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria.
Da molti salutato come summa della poetica
coeniana, il film costituisce l’opera più compiuta dei
due registi statunitensi: è un affresco della fragilità
umana, in cui l’individuo si libera delle proprie
certezze per lasciarsi condurre dal corso degli eventi
verso un ignoto noto, che sancisce definitivamente il
fallimento delle iniziative umane.
Fare thee well, my honey, fare thee well.
LUCA ZAMMITO
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AH²
Atomo: Ironia
Simbolo: AH²
Configurazione: sonoro ghigno sibilante
Descrizione: difficilmente isolabile in laboratorio. Approfittando della risata, entra nel cavo orale veicolando
sostanze chimiche illegali. Conseguenze possibili sono leggerezza ed euforia.
Ariete – 21 Marzo - 20 Aprile
Verso dicembre entrerai nell’adolescenza e ne uscirai a 67 anni.
Toro – 21 Aprile - 20 Maggio
Ritroverai una vecchia lastra medica e scoprirai di avere nello stomaco il libretto di istruzioni del cervello.
Gemelli – 21 Maggio – 21 Giugno
Durante una festa vomiterai tutta la tua padronanza lessicale insieme a un po’ di tequila. E non sarà mai più
come prima. Ah, niente cozze il 24 agosto.
Cancro – 22 Giugno – 22 Luglio
Verso settembre, per un improvviso mal di gola, ti verrà quella voce sensuale da Duffy Duck che fa innamorare.
Per l’inverno comincia a consultare il manuale del Fluimucil.
Leone – 23 Luglio – 23 Agosto
Troverai la tua anima gemella alle poste, sportello ritiro pensioni.
Vergine – 23 Agosto – 22 Settembre
Verrete reclutati come attori di una soap opera e dovrete fare il morto cattivo.
Bilancia – 23 Settembre – 22 Ottobre
Il tuo partner scoprirà che hai scritto su “Cioè” una lettera per suggerirti cosa dire in caso di litigio. Ma ormai le
avrai già raccontato la balla più idiota del cosmo.
Scorpione – 23 Ottobre – 22 Novembre
Ti bocceranno a catechismo. Non c’è una laurea per esorcisti, cambia indirizzo.
Sagittario – 23 Novembre – 21 Dicembre
In realtà non sei del Sagittario. Nessuno è del Sagittario, controlla l’oroscopo del tuo ascendente.
Capricorno – 22 Dicembre – 21 Gennaio
Presterai il dvd de “Il Signore degli Anelli” a un ragazz , per poi scoprire che invece gli/le hai dato quello delle
vacanze in montagna con tuo fratello, dove avete immortalato le vostre straordinarie gare di rutti. Nelle quali hai
vinto tu.
Acquario – 22 Gennaio – 19 Febbraio
Verrai arrestato per simulazione d’intelligenza.
Da lì in poi l’unica tua sicurezza nella vita sarà che i centri commerciali aprono alle 9 di mattina.
Pesci – 20 Febbraio – 20 Marzo
Scoprirai che tuo nonno è moderatore del blog Colla Per Dentiere. E ti innamorerai follemente di un membro di
quel blog.
DISTRESS CLUB
21
per il corpo oscillante della Littizzetto
completamente abbandonato alla musica, e nella
mente e nel cuore di ognuno fanno ritorno pensieri,
sensazioni rimasti sepolti per troppo tempo.
Sanremo e l'attesissimo ritorno
E' da poco passata la mezzanotte al Teatro Ariston.
Gli occhi accuratamente truccati delle dame ormai da
tempo tristemente abbandonati alla stanchezza,
riacquistano vitalità dopo aver avvertito il lieve
indugio di Fazio nel presentare il prossimo ospite.
Con una pronta gomitata all'uomo di turno assorto
nei suoi dolci e forse un po' troppo rumorosi sospiri,
ecco che il pubblico di Sanremo trattiene il fiato
nell'attesa che le luci si abbassino. Accolto da un
caloroso e sentito applauso, Yusuf Cat Stevens inizia
a cullarci tra le corde della sua chitarra. Gli anni
trascorsi hanno imbiancato barba e capelli ma la sua
voce calda, immutata, sulle note di “Peace train” è
felice di essere tornata a casa, nei cuori dei fans. La
lunga assenza dal palcoscenico ha lasciato, dalla fine
degli anni '70 al 2006 una implacabile nostalgia per
coloro che hanno amato la sua musica sin dall'inizio.
Prosegue l'esibizione con il pezzo “Maybe There's A
World” agganciandoci fluentemente un omaggio ai
Beatles cantando “All You Need Is Love”. Dopo un
lungo applauso, un emozionato Fazio inizia la sua
intervista domandando cosa lo abbia spinto a
preferire il distacco dalla carriera discografica e il
motivo del ritorno in scena.
Anche io, da umile e recente fan di Cat Stevens ho
affrontato il tardo orario, reduce da una stressante
giornata scolastica, piacevolmente scossa da brividi
interni ed esterni. Ancora mi sorprendo dell'influenza
che la musica ha sulla nostra indole. E' con le
lacrime agli occhi che gli spettatori congedano
l'attesissimo e amato ospite, con un interminabile
applauso e alzandosi una seconda volta in suo onore
forse non ancora pronti per fare ritorno nel mondo
attuale di dame e gentiluomini.
GINGER R.
Perché Sanremo è Sanremo!
Sanremo è una rinomata cittadina ligure. È anche
conosciuta come la città dei fiori. Ma prima di tutto
ospita un festival.
Il cantautore britannico racconta della sua necessità
di imboccare una strada nuova, più tranquilla, trovata
grazie al matrimonio da cui hanno poi avuto inizio
nuovi interessi e impegni sociali. E' grazie a suo
figlio che dal 2006 ha ripreso ad incidere. La
conversione all'Islam negli anni '70, lo ha condotto a
una valutazione più ampia riguardo il significato
della religione che secondo lui dovrebbe essere
principale ispirazione di amore e rispetto tra gli
uomini. Ecco però che giunge il momento più atteso.
Composta nel 1970, “Father and Son” racconta del
rapporto tra padri e figli in un periodo in cui il
contrasto era molto aspro.
Con queste parole Cat Stevens è riuscito ad entrare
nel cuore di giovani e adulti, concedendo uno spazio
dove fosse possibile per tutti identificarsi e trovare
comprensione. Non è solo il pubblico ad ascoltare,
incantato ed emozionato, la voce del cantante
scorrere tra le corde della fedele chitarra. In quei
pochi minuti tutto rimane immobile, fatta eccezione
Consiste in una competizione a livello nazionale di
musica leggera. L’ultima edizione, terminata pochi
giorni fa, è stata la sessantaquattresima. E’ stata
trasmessa in Eurovisione e come ogni anno ha
suscitato polemiche e commenti vari, niente di
nuovo.
Un tempo sul palco del teatro Ariston ci sono stati
nomi come Carlo Giuffrè, Mike Bongiorno, Pippo
Baudo, Loretta Goggi, Fiorello, Miguel Bosè,
Raimondo Vianello, e tantissimi altri grandi della
musica e dello spettacolo del nostro Paese, nomi che
sono passati alla storia. Adesso il festival ha perso
22
molta della sua luce, e per quanto ogni anno tenti di
guardarlo, per almeno venti minuti, al decimo
cambio canale.
Non voglio fare la solita inutile critica sulla qualità
scadente della televisione italiana, vorrei solo
piangere la tradizione ormai morta di uno dei simboli
più grandi della nostra nazione; è come se ci
avessero tolto la pizza, il mandolino, il Colosseo o la
mafia (magari).
Allora perché fargli mettere la Telecaster da parte,
per rispolverarla solo in occasioni particolari?
L'album, molto criticato per via di alcuni brani non
inediti, è scritto in collaborazione con la storica EStreet Band e con l'aggiunta di Tom Morello,
chitarrista che ha iniziato a suonare con Springsteen
dall'ultimo tour in Australia: lo stesso Springsteen
afferma che grazie anche alla partecipazione di
Morello l'album è stato inciso così – a mio parere –
molto rock.
Tuttavia qualche critica questo album se la merita,
poiché non è un album di soli inediti, e i brani
rivisitati a volte sono stati migliorati, come nel caso
di Down In The Hall, e altre volte peggiorati come
The Ghost Of Tom Joad che, resa più rock dalla
chitarra di Morello, diviene più movimentata e
aggressiva dell'originale (a molti piace più così) che
trasmetteva una sensazione di malinconia e quiete.
Tutto sommato le aggiunte di Tom Morello, oltre ad
un sound più rock, ci lasciano anche dei soli
abbastanza neutri che non sempre ci coinvolgono a
pieno.
Ora come ora (e non sono io a dirlo ma le statistiche)
la qualità del programma è nettamente scesa, e basti
pensare agli ascolti da casa. Ma è molto di più,
soprattutto se si ricorda che un dettaglio così
importante dei nostri costumi è stato presentato da
Belen Rodriguez e la sua farfallina (stendiamo un
infinito velo pietoso), non solo perché è una showgirl
da quattro soldi (a questo punto avrei preferito
Alessia Marcuzzi, il che è tutto dire), ma perché la
sua volgarità ha fatto smettere al, diciamo, 7/8%
degli Italiani di seguire la trasmissione, o forse
perché anche quest’anno a condurre sono stati Fazio
e la Littizzetto, e dopo i primi venti minuti di risate,
sono usciti su Internet le dichiarazione di quanto
sono stati pagati (non lo voglio scrivere, magari
qualche lettore del giornale è debole di cuore).
Io dico: ma perché? Insomma non che non sappia
che in prima serata sulla Rai si prendano tonnellate
di soldi, ma perlomeno non “spiattellatelo” sulla rete
come se ne andaste fieri, per – chiamiamola così salvaguardia del proprio buon senso.
Ok, ho finito di fare il solito discorsone su quanto
vada a rotoli questo Paese, voglio solo concludere,
ricordando a chi magari non lo sa, che hanno
scoperto che alcuni Italiani si mangiano le scatolette
del cibo per gatti perché ricorda la Simmenthal.
L' album ha sicuramente dei leggeri punti deboli che,
però, non mettono in discussione la genialità di
Springsteen che, dopo quarant'anni di attività, ci
continua a far ascoltare nuove canzoni di notevole
bellezza, non tanto per la “main track”, High Hopes
la quale, pur dovendo rappresentare l'intero album,
non stupisce se non per un ritmo e una melodia
orecchiabili e molto pop, ma per tre-quattro brani in
particolare American Skin (41 Shots), sette minuti e
venti veramente coinvolgenti, Just Like Fire Would,
The Wall, in cui il pregevole solo di tromba calza a
pennello con il pezzo, e Dream Baby Dream, ultimo
brano dell'album ma anche uno dei più belli.
Forse non è l'album più riuscito di Springsteen, ma
comunque consiglio di ascoltarlo tutto, anche più di
una volta perché è pieno di brani interessanti. Certo,
sono gusti, ma sicuramente il “Boss” ha ancora
qualcosa da farci ascoltare.
SOFIA ZOLLO
High Hopes
Diciottesimo album in studio di Bruce Springsteen.
Nonostante l’età prossima alla pensione, il “Boss” ha
confezionato un album degno di nota, con diverse
tracce che forse non verranno ricordate come Born
To Run o The River, ma comunque saranno ricordate.
RAFFAELE VENTURA
23
parte della sua carriera e che lui è stato in grado di
affrontare, rialzandosi sempre dopo ogni caduta
come fa un vero combattente: non lo hanno fermato
né la rottura completa del crociato, né un incidente
con un’ automobile mentre si allenava in bici, anzi in
ambedue le occasioni era tornato più forte e
volenteroso di prima. Ma la vita gli serbava un
destino crudele: e quel pubblico che tanto lo adorava
lo abbandonò nel momento in cui forse Marco ne
avrebbe avuto più bisogno.
Il 5 giugno del 1999 a Madonna di Campiglio il
pirata si apprestava a vincere il suo secondo Giro
d’Italia ma dopo un controllo anti-doping venne
sospeso dalla corsa solo per avere nel sangue un
tasso di ematocrito superiore dell’1% al livello
consentito. Non era quindi dopato come i giornalisti
tuonarono i giorni successivi mettendo in cattiva luce
davanti all’opinione pubblica una persona di cui solo
qualche ora prima celebravano le gesta. Aveva
soltanto una concentrazione di globuli rossi elevata,
come la possono avere tutti, e la sua esclusione
venne realizzata in base a regolamenti sportivi
introdotti a tutela dei corridori. Quindi, i giudici
impedirono a Pantani di correre solo perché rischiava
di rimetterci la pelle, non perché avesse assunto
sostanze che avevano alterato le sue prestazioni.
Per il pirata fu la fine. Non tornò più quello di un
tempo. Probabilmente fu questa la sua effettiva data
di morte.
Il pirata in bicicletta
Il 14 marzo del 2004 moriva all’età di 34 anni, se
non il più grande ciclista italiano, sicuramente il più
amato dal pubblico: Marco Pantani.
Era il giorno di San Valentino, festa degli innamorati
e quello tra Marco e la bicicletta fu amore a prima
vista. Un amore che lo accompagnò per tutta la vita
fin dalle prime pedalate nei tornei interregionali alle
vittorie al Tour de France e al Giro d’Italia, nelle
tappe più difficili che il panorama ciclistico possa
offrire, che lo portarono nello stesso anno a trionfare
nella classifica generale delle due corse, impresa che
era riuscita solamente a due giganti del ciclismo:
Eddy Merckx e Fausto Coppi. Non una cosa da
comuni mortali, una cosa da campioni. E Marco lo
era, indubbiamente. Scalatore puro, volto segnato dal
dolore e da una sofferenza che poteva terminare solo
al raggiungimento del traguardo, stile di corsa unico
caratterizzato da una capacità di rompere gli schemi
che sorprendeva avversari e pubblico, il pirata
rappresentava l’immagine di un ciclismo pulito in un
sistema oramai corrotto e falsato dal doping.
E per questo era adorato dal pubblico che davanti
allo schermo si immedesimava nella sua figura e
insieme a lui sopportava le fatiche, le sue fatiche,
quelle dovute allo scalare più velocemente degli altri
una pendice montuosa. E lui non lo deludeva mai il
pubblico, trovando sempre nel fondo di un barile,
ormai vuoto, quell’energia impensabile
e
indispensabile per staccare negli ultimi metri i suoi
avversari ormai attaccati al manubrio, come se fosse
una croce nel deserto, e per vincere in solitaria la
tappa nel clamore della folla che lo attendeva al
traguardo e nello stupore
dei giornalisti che
osannavano il suo immenso talento.
Pantani era ammirato anche per la sua sfortuna,
quella malasorte che lo ha tormentato per buona
Cadde nella depressione e nella dipendenza. L’atleta
che si era dimostrato così invincibile e forte in
montagna era allo stesso tempo una persona fragile e
triste. Il 14 febbraio del 2004 venne ritrovato morto
in una stanza d’albergo, probabilmente suicida. Oggi
dopo 10 anni dalla sua scomparsa vogliamo ricordare
quello straordinario ciclista che infiammò i cuori di
sportivi di tutto il mondo e non, suscitando in loro
momenti di gioia e, per noi Italiani, attimi nei quali è
bello riconoscersi.
MARCO CILONA
24
possa concepire. “Non c’è Pogblema” parlando di
Pogba, “RecuPepera” parlando di Pepe. Sono giusto
due esempi, ma da soli hanno fatto un centinaio di
vittime solo in Italia. Per non parlare della sezione
Calciomercato, lì si superano. Leggendola vengono i
brividi: Messi alla Juve, Ronaldo alla Juve,
Maradona alla Juve… a sentire loro ogni estate la
Juve ha preso più giocatori del Paris Saint-Germain
che ormai compra pure i raccattapalle.
Lei cosa ne pensa, Malesani? Ah è vero, mi deve
scusare. Mi dimentico sempre. Non bisogna
disturbarlo, perché lui lavora 24 ore cazo, ma cos’è
diventato il calcio, una giungla cazo? Mi perdoni
ancora Malesani, so che l’impegno di portare in B il
suo Sassuolo la tiene sempre occupato. Certo, la
società sassolese proprio non la capisco: fanno il
mercato di gennaio per Di Francesco e poi lo
esonerano. Un po’ come se Letta, Presidente del
Consiglio PD, venisse sfiduciato dallo stesso PD…
come dite? E’ appena successo?
Considerazioni di calcio giocato e non
Molti accusano il calcio di indecenza, inutilità, e
spesso addirittura pericolosità sociale. Giorni fa ho
avuto modo di rifletterci, e ho concluso che forse
sarebbe più corretto rivolgere questi aggettivi non al
calcio in sé, ma a chi lo commenta. E provate a dire
che non sale il crimine quando si ascoltano certi
servizi su Premium o Sky. L’altra sera, dopo la
vittoria del Torino sul Verona, è stato intervistato un
giocatore granata: per rendere l’idea, sembrava che
stessero interrogando un quartino sull’uso del futuro
perfetto. Sul serio, spaventa certe volte vedere come
i calciatori non sembrino conoscere l’uso della
parola, tranne al momento di tirare giù fino
all’ultimo vescovo medievale quando sono in campo.
Alla fine, l’unico concetto articolato che si è riusciti
a estrapolare è stato, in poche parole, che il Toro
quest’anno lotta fondamentalmente per la salvezza,
poi forse dopo i 40 punti si vedrà. Allora prendi per
il culo, ho pensato. Sta in una squadra con CerciImmobile in attacco, in zona Europa, e mi vengono a
dire che lottano per la salvezza? Allora Conte che
dovrebbe dire? Che con 63 punti e a +9 sulla Roma
l’obiettivo stagionale è l’Europa League?
Già meditavo di cambiare canale, poi l’intervista è
finita e hanno spostato l’inquadratura sullo studio. La
scritta sullo sfondo che commentava la vittoria del
Toro è stata la mazzata finale. “TORO DA
(RI)MONTA”. 29 euro al mese per farsi rovinare le
serate da un titolista. Ma dove li prendono, mi chiedo
io. Qual è il requisito per diventare titolista di
Premium o Sky, la licenza elementare? Oppure basta
avere un senso dell’umorismo così pessimo che non
ti prendono neanche per scrivere le barzellette di
Geronimo Stilton?
Comunque bisogna ammetterlo, in generale questo
problema non ce l’hanno solo le emittenti televisive.
E’ mai capitato che vi cadesse l’occhio su una pagina
di Tuttosport? Siete anche sopravvissuti senza danni?
A parte gli scherzi, prendiamola a ridere. In un
giornale il titolista è una persona il cui compito è
solo mettere buoni titoli agli articoli, ed è bello che i
titolisti di Tuttosport si impegnino al massimo per
tirare fuori quelli più ridicoli che un cervello umano
Buongiorno Tosel! Qual è la sua opinione in
proposito? Ah, squalificherà la curva del Sassuolo
per i prossimi sei turni? Mi pare più che giusto,
questa è chiara discriminazione nei confronti dei
pescaresi come Eusebio. Meno male che c’è lei,
sempre fermo nelle sue decisioni. Lei non si ferma
davanti a nessuno, farebbe chiudere anche le curve
dei circuiti di Formula 1 pur di fare bene il suo
lavoro.
Come concludere bene questo articolo? Liechtsteiner
suggerisce del Tavernello invecchiato 10 anni, ma
siccome non vogliamo esagerare ci limiteremo alle
pagelle della partita del Manara giocata lunedì
scorso.
Nicotra 6: un voto per ogni gol preso. Nonostante
ciò, il giovane portiere si mette in mostra con diverse
parate ed è già nel mirino di parecchie squadre di
serie A. E in quello dell’AK-47 di mister
Castiglione.
Manni Jr. 6--: le marcature sulla fascia non sono il
suo forte e si vede. I contrasti persi con De Nigris
non gli vanno giù e ha già mandato un avvertimento
alla sua famiglia.
25
Tesse 6: un solo cartellino giallo in 90 minuti è una
media di tutto rispetto per lui. Si guadagna la fascia
di capitano giocando un match di grande solidità e
grinta, tutta concentrata sulle caviglie degli
avversari.
Manni Sr. 6: in difesa ricorda molto Bonucci, infatti
al fischio finale alza istintivamente le braccia al cielo
per aver preso l’over 6.5.
Ortame 6: nella costruzione del gioco è più
macchinoso di Ibrahimovic mentre apre una
cassaforte; nel complesso comunque buona gara, per
lui due malleoli avversari in omaggio.
Pallottini 7: lotta su ogni pallone e mette tanta corsa.
Peccato che i diretti marcatori fossero alti più o
meno il doppio di lui.
Sagliocco 6: sfodera la solita tecnica di
ipnotizzazione degli avversari con lo sguardo, ma
con De Nigris gli va male e perde conoscenza per
una trentina di minuti.
Sagnotti 6,5: fa valere il fisico e la grinta, ma ha la
precisione di Cassano a un compito di letteratura
latina.
Briotti 6,5: un’accesa discussione con l’arbitro in
dialetto di Tor Bella Monaca gli costa il giallo, per il
resto partita di spessore. A Sky partono già gli
accostamenti a Pirlo e Vidal.
Patrone 7: come faremmo senza. Che si vinca o si
perda segna sempre lui, e quello segnato oggi è un
gol da vero attaccante in stile Inzaghi, ossia da ben
dieci centimetri dalla linea di porta.
Dalla Pria 6,5: ha ancora sullo stomaco la peperonata
della sera prima, ma fa comunque sfoggio di classe
con un paio di colpi di tacco e l’assist per il gol di
Patrone. Dopo metà del secondo tempo si accorge
che deve correre dall’altra parte, ma è troppo tardi e
tira avanti fino al 90’ grazie al defibrillatore.
Di Serafino 6-: il suo ingresso nella ripresa fa
aumentare del 15% la quantità di capelli in campo,
ma non basta. Non una buona partita per lui, troppa
poca convinzione negli inserimenti e nelle entrate a
gambe unite da dietro.
Gentile 6: neanche la tecnica brasileira risolleva le
sorti della gara. Partita di cattiveria la sua, certo, ma
ci si aspettava almeno una ventina di colpi di tacco in
più.
Castiglione 3: la sua riconferma in panchina non dà
per niente gli esiti sperati: il 4-5-1 con Dalla Pria
unica punta è stato dichiarato illegale in 75 paesi.
Meglio tornare a fare gli esercizi di allungamento in
palestra.
Giordano n.c. : non classificato. Non gli basta fare da
guardialinee credendo che l’arbitro lo guardi sul
serio: riesce anche a sfogare tutta la sua ignoranza
repressa sulla povera Lucciola.
E' uscito da poco Sei per la Sardegna, un libro di sei
racconti, scritti da sei bravi scrittori sardi, che costa
sei cucuzze. Sappiate che quei soldi serviranno a
finanziare la ricostruzione della piazza di Bitti,
bellissimo paesino nel cuore della Sardegna, che sta
lottando per risorgere dopo l'alluvione di qualche
mese fa.
Compratelo, è scritto bene, con il cuore che solo un
sardo può avere per la sua terra.
IACOPO GIORDANO
26
COMPONIMENTI CREATIVI
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“Parole Che Contano” (II)
e quindi a negare il gioco artistico alla maggior parte
delle persone. Per chi conduce un tale gioco
(l’artista) e per chi se ne lascia guidare (lo
spettatore), esso avrà tanto più valore (sarà tanto più
un gioco, e tanto più artistico) quanto meglio versati
entrambi saranno nella tradizione e nei suoi canoni,
che vengono utilizzati in modo creativo e quindi
anche in parte violati e reinventati, ma sempre e
comunque presupposti. (Ci richiamiamo così a un
senso della parola “arte” antecedente al
Romanticismo e non distinto da quello di
“artigianato”: l’artista è un sapiente e raffinato
artefice, la cui occasionale originalità è resa possibile
dalla sua sicura padronanza di un ben preciso
vocabolario compositivo – così come si possono
combinare in modo davvero nuovo le parole di una
lingua solo se la si conosce a fondo).
Arte: Sfera di attività che consentono di allargare
l’ambito del nostro gioco percettivo aprendolo alla
libertà e alla bellezza, in costante comunicazione con
altri che partecipano (sia pur in misura più ridotta)
allo stesso gioco. In età adulta, rappresenta per molti
un’area in cui è ancora possibile un comportamento
ludico (alla pari del sesso, con cui peraltro ha
frequenti e articolati legami); quindi non possiamo
che guardarla in generale con favore. Stigmatizzando
però una serie di errori e menzogne che ne snaturano
la funzione e il significato.
Primo, le attività artistiche vengono regolarmente
cristallizzate in particolari oggetti, che acquistano
spesso un notevole valore di mercato e sono quindi
depositati in collezioni private o pubbliche, protetti
da barriere, meccaniche e complicati sistemi di
allarme ed esposti con grande riguardo (il che vuol
dire anche: in misura assai limitata) alla percezione
dei visitatori. (Per l’arte fatta di suoni o di
movimenti, la stessa situazione viene riproposta in
termini di speciali eventi: concerti, spettacoli teatrali
o di danza). È dunque importante insistere che (come
nel caso della cultura) non si dà arte se non c’è
attività e se questa attività non ha un carattere ludico.
Il concetto stesso di oggetto artistico è frutto di
un’indebita astrazione: per trattare d’arte in modo
concreto dobbiamo invece concentrarci sui contesti
in cui si fa dell’arte, e di solito i musei non sono fra
questi (né lo sono i teatri in cui hanno luogo fedeli
ripetizioni di antichi riti).
Secondo, rimirare in un quadro di Klee o ascoltare
una sonata di Beethoven non ci metterà in contatto
con l’arte se la nostra esperienza non sarà almeno
simile a quella di Klee o di Beethoven: se non
saremo in grado, guidati da loro, di sovvertire le
nostre abitudini visive e uditive e quindi trovare
sollievo in una nuova forma di ricezione e di
comprensione. L’artista non va isolato dal suo
pubblico e quest’ultimo non va concepito come
puramente
passivo:
senza
un
comune
coinvolgimento, senza comunicazione, non c’è arte
di sorta. (Con ciò non si vuole escludere il gioco
percettivo privato, né si vuole escludere che un
praticante di tale gioco “incompreso” in vita possa
diventare occasione di coinvolgimento comune dopo
la sua morte; ma si afferma che solo allora è un
artista – prima lo era, al massimo, in senso
potenziale).
Terzo, non è possibile partecipare ad esperienze
artistiche senza un’opportuna educazione. L’idea che
esistano doti innate (il genio per l’artista, il gusto per
lo spettatore) che permettono la produzione o la
fruizione artistica senza mediazioni è un’ulteriore
fandonia tesa a tracciare una netta divisione tra
quanti sono “portati” per l’arte e quanti non lo sono –
Attenzione: Il modello di attenzione favorito da
ogni meccanismo di potere è quello di un militare
sull’Attenti!: il destinatario passivo di ordini
formulati con assoluto rigore, che non lasciano
spazio all’inventiva o all’improvvisazione ma vanni
fedelmente recepiti ed eseguiti. Questo modello si
estende a tutti i casi di indottrinamento, incluse
molte forme di educazione in una scuola:
l’insegnante comunica le informazioni richieste dal
programma e gli studenti, attenti come soldati a
un’adunata, prendono appunti, li imparano a
memoria e li rigurgitano alla prossimo interrogazione
o verifica scritta. Un resoconto accurato di tali
informazioni comporterà un giudizio positivo sullo
studente e lo stesso schema comportamentale
continuerà a dominarlo al termine della scuola: in
quanto individuo ben integrato in società, ci si
aspetterà che faccia attenzione a quanto dicono (e
soprattutto a quanto comandano) i suoi superiori, che
si concentri sui compiti da loro assegnati e li esigua
con successo – cioè in perfetta corrispondenza con le
loro istruzioni.
Freud parla di un’attenzione fluttuante, tipico dello
psicanalista nel corso di una seduta: egli non si
concentra su nulla in particolare, non cerca nulla di
specifico, ma è pronto a cogliere un dettaglio
suggestivo in qualunque momento o contesto di
presenti. Questa forma di attenzione ribalta il
modello di sopra volgendolo a scopi a esso opposti:
non si tratta più di seguire con cura quel che un altro
vuole dire, ossia una parte limitata e dichiaratamente
significativa del suo essere, ma tutto questo essere,
incluso tutto quanto egli non vuole dire (o fare).
Mentre l’attenzione grata al potere è convergente e
finalizzata e intende generare ripetizioni e conferme,
l’attenzione fluttuante è divergente e disinteressata, è
una forma di gioco e genera spesso assolute novità –
almeno per la coscienza (ufficiale) dei partecipanti.
Freud afferma che uno psicanalista deve farsi pagare
28
salato; altrimenti non si libererà mai dei suoi
pazienti. Noi pensiamo invece che l’attenzione
fluttuante vada a sua volta liberata da questo legame
incestuoso con il mercato ed estesa a tutti i membri
della nostra comunità. Che a ciascuno di essi
dobbiamo prestare, nei limiti del possibile, la stessa
cura spensierata e insieme profondamente recettiva,
per coglierne ogni vibrazione dell’anima, per far
tesoro di ogni suo implicito suggerimento.
opposte sulle stesse entità: il mio picchiare un pugno
sul tavolo è ovviamente un’azione, ed è
un’esperienza in quanto mi insegna qualcosa sulla
solidità del tavolo; un desiderio è ovviamente
un’esperienza (mi si impone senza alcuna
collaborazione da parte mia; segnala in me la
presenza di qualcosa di estraneo), ed è un’azione
(almeno potenziale) in quanto mi spinge
immediatamente a adeguare il mondo a quanto
desidero. (Usiamo “esperienza” anche per indicare la
totalità di queste particolari esperienze: la vita intera
in quanto progressiva apertura alla diversità).
Azione: O atto. Secondo il modello corrente,
un’azione è un’unità di comportamento volontario o
intenzionale, una struttura integrata di mosse che è
frutto di una scelta e per cui si è considerati
responsabili. Più precisamente, si ritiene che ogni
azione risulti da un’applicazione del sillogismo
pratico: io voglio A, so che fare B è condizione
sufficiente (e talvolta anche necessaria) per ottenere
A, dunque faccio B. (Per esempio: voglio sfuggire al
freddo, so che accendere la stufa è condizione
sufficiente per sfuggire al freddo, dunque accendo la
stufa). Il fondamento di questa tesi è una concezione
intellettualistica dell’essere umano, che lo vede come
gerarchicamente organizzato. La mente (o anima, o
spirito)comanda e il corpo esegue – coerentemente
con il modello aristotelico della saggezza.
Per noi invece la mente è la sede del gioco per
procura che usa il linguaggio e il pensiero e che,
lungi dal confermare quel che faccio quando opero
“sul serio”, ha l’effetto di metterlo in discussione e
stesso di sovvertirlo. Le mie azioni si inquadrano
invece nelle attività che hanno temporaneamente
acquisito il controllo del mio corpo (che
temporaneamente lo definiscono come tale); il fine
di ciascuna di esse non è altro che la prosecuzione di
una particolare attività. (Quando mi alzo e mi dirigo
verso una stufa sono le mie abitudini casalinghe che
prendono il sopravvento e mi conducono per tracciati
familiari). Ne segue che non c’è distinzione di
sostanza ma solo di grado fra comportamento
volontario e involontario: un mio comportamento (o,
che per noi è lo stesso, una mia azione) sarà tanto più
espressione della mia volontà quante più attività ho
“incorporato” e quanto meno dunque sono costretto a
seguire l’unica strada che conosco. Così, in
definitiva, il gioco linguistico e riflessivo può
davvero favorire lo sviluppo della mia volontà e
anche influire sulle mie azioni, non assumendone
però direttamente la guida ma contribuendo in modo
indiretto all’arricchimento della mie possibilità
operative. Dato lo stretto rapporto che esiste per noi
fra attività e passività (è più attivo chi meglio sa
ascoltare), ci è naturale considerare ogni azione
anche dal punto di vista di quel che per suo tramite
un’attività (cioè una forma) ha appreso dalle altre.
Diciamo allora che la si vede come un’esperienza.
Azioni ed esperienze sono dunque prospettive
ARIA
Castelli di sabbia
Fragili castelli di sabbia
riposano al sole;
poi, vengono sommersi,
sconfitti dalle onde.
Due foglie di un albero
autunnale rabbrividiscono
alle carezze del vento,
ma vicine si fanno coraggio.
Così siamo io e te,
che sulla spiaggia umida,
su una sdraio,
aspettiamo l'alba.
ELISABETTA TORTORA
Io e te
…e poi ci sei tu.
Tu che sei la persona che vorrei essere,
tu che sei la vita che vorrei vivere,
tu che sei l’anima a cui vorrei appartenere,
tu che sei tutto ciò di bello che ho.
Tu sei tu, e non c’è niente di meglio al mondo.
Anzi sì, c’è.
Ci siamo io e te.
BAGNATA DA UNA PIOGGIA DI PAROLE
29
palpebre felice: si sentiva cullata dal torpore e
dall’impalpabile calore che proveniva dai raggi del
sole. Si prospettava una giornata splendente. Con le
dita affusolate tirò fuori dalla credenza la scatola che
conteneva il caffè. – Certo che con le mani si
possono fare tante belle cose -. Con un cucchiaino
mise la moka nella caffettiera che subito dopo pose
su un fornello acceso. – Ad esempio, con le mani, la
mattina, si può fare il caffè, elemento strettamente
necessario nella routine quotidiana -. Si sedette di
nuovo e si osservò i piedi dai quali erano appena
scivolate le pantofole. – Che bella giornata, oh sì, è
veramente un’ottima giornata, non credi? - Si sentiva
un’allegra bambina a cui avevano appena regalato un
gelato al cioccolato con doppia panna più grande di
lei. Sul viso le si dipinse un sorrisetto malizioso e
dolce allo stesso tempo – Le mani ci distinguono
dagli animali -. Un fischio le rammentò di aver
dimenticato il caffè sul fuoco; riempì la tazza con la
scura bevanda vaporosa. – Goduria. Senza mani non
si avrebbe la possibilità di gustare questo nettare
divino – soddisfatta, si deliziò della colata lavica che
le fluiva nella gola risvegliando le sue percezioni
offuscate. – Insomma, giusto dal fatto che so di avere
delle mani, so di non essere un gatto -. Fissò il fondo
della tazzina sovrappensiero: si perse tra nuvole di
zucchero filato tessute da ragni e da equazioni di
rime stese su lettini da spiaggia. – Sicuramente sarei
un meraviglioso micio sornione, enorme e paffuto,
con lunghi e vibranti baffi, polpastrelli a forma di
fagiolo e occhi stretti come fessure -. Sapeva che era
un giorno speciale, ma un giorno per essere tale
doveva essere antitetico al giorno precedente,
altrimenti dove mai sarebbe potuto risiedere il fattore
eccezionalità? – L’uomo ha creato grandi opere con
le mani. È riuscito a sopravvivere contro le ostilità di
una natura primordiale, a superare le asperità e a
costruire la cosiddetta civiltà. La mani sono magiche.
Con le mani posso toccare, posso mangiare, posso
scrivere, posso difendermi -. Qual era però il fattore
squallore/disperazione che aveva caratterizzato il
giorno precedente? Non se lo ricordava proprio. Una
nebbiolina si stava addensando tra i seni paranasali
(consultare un libro di anatomia onde non inceppare
in mal interpretazioni). Aleggiava intenso questo
fumo che non dava alcun segno di volersi dissipare.
Scrollò le spalle. – Oh le mani! Che non siano più
trascurate ingiustamente! - Si passò il pollice sulle
unghie laccate di nero. – Le mani si sono stufate di
Dal piacere
La tua felpa ha il tuo odore addosso. Che strano,
penso, ormai la sto indossando da molte ore e non
dovrei farci più caso. Così piano la odoro, odoro te
che profumi di pelle calda e ruvida e dei tuoi capelli
in cui mi piace annodarmici le dita, e le tue labbra,
che cristo, cosa sono le tue labbra! La cosa più sexy,
calda, bagnata, liscia e meravigliosa che abbia mai
visto. Non riesco a staccarmici. Forse è per questo
che un solo tuo bacio, o solo le tue labbra che
sfiorano una minima parte di me mi fanno salire i
brividi e mi imputtanano il cervello… così ripenso a
prima, a quel bacio durato dieci fulminei minuti, in
cui le tue mani arrivavano dappertutto e la tua lingua
parlava da sola. Lì che ti sentivo accaldato, eccitato,
ai miei morsi e al tocco delle mie mani, ecco lì avrei
voluto assecondare i Guns’n’roses che cantavano
“live and die”, e giuro che sarei voluta morire lì, dal
piacere nella tua macchina, con quel fottuto
lampione che dava fastidio e l’ansia di risalire a casa
sennò mia madre mi ci appendeva, a quel maledetto
lampione. Ma noi no, eravamo così avvinghiati, così
uniti, un unico corpo, un’unica lingua, un’unica
voglia. È strano con te, è tutto così eccitante e vivo, è
tutto così nuovo e assolutamente inaspettato. E
neanche voluto. Fosse per me mi risparmierei tutta
questa storia, ma tu sei così… caldo. E mi trasmetti
calore, sempre, anche quando te la prendi con i miei
capelli perché hai voglia di fare l’amore con me ma
non possiamo. Bè, ti dirò una cosa. Noi l’amore lo
facciamo anche con i vestiti.
P.S. ho ancora i brividi.
Le mani
Si svegliò. Era perfino quasi riposata. Buttò fuori dal
letto le sottili gambe diafane e si grattò la testa con
gli occhi ancora pieni di sonno. Rimase ferma così,
seduta sul bordo del letto, con le gambe penzoloni, a
scrutare nel buio della stanza. Se fosse stata un bel
gattone avrebbe emesso un miagolio compiaciuto
accompagnato da una profusione di fusa. Con i piedi
cercò le pantofole evitando abilmente qualsiasi tipo
di contatto con la superficie gelida del pavimento. Si
stiracchiò e finalmente trascinò la sua esile figurina
fino alla cucina. Camminava in maniera singolare,
con passi felpati alternati a un passo strascicato,
mentre si teneva tra le mani quella gonfia massa di
capelli corvini. Alzò leggermente le serrande per
lasciar filtrare giusto un filo di luce. Dopodiché si
sedette nella penombra della cucina avvolta da una
silenziosa atmosfera di sospensione. Strizzò le
30
essere relegate in secondo piano quando la loro
funzione è primaria -. Si strinse abbracciandosi le
spalle, poi costeggiò tremolante le clavicole
sporgenti, scivolò sui delicati seni, veleggiò con i
palmi la morbida seta della camicia da notte e infine
sfiorò l’orlo di pizzo. – La mani sono speciali. Il tatto
è una sensazione paradisiaca. Si dice che le mani
detengano una memoria più radicata e profonda di
quella mentale. Una memoria a sé stante -. Si fissò
ammiccante le mani, quelle magiche manine che il
giorno prima, con determinazione, si erano strette sul
collo di quell’orribile uomo.
uno e, con grande sorpresa di Arnolphe, non si rizzò
nervosamente su se stesso; anzi, parve quasi
accasciarsi, sfranto, mentre fissava l’uomo, steso
davanti a lui. Arnolphe si incantò un attimo su quello
sguardo: cominciava a leggerci delusione,
frustrazione, abbrutimento e stanchezza; per un
attimo, ebbe la sensazione di comprendere lo stato
d’animo del mostro, e sentì quasi compassione. Non
che questo migliorasse il suo senso di claustrofobia,
però. Arnolphe si trovò costretto a richiudere gli
occhi, e si rese conto - non senza spavento - che la
sua mente vagava per conto proprio: ormai, stava
impazzendo.
Arnolphe vide chiaramente se stesso alzarsi,
camminare e uscire dalla porta. Si vide però, che
con gli altri sensi si sentiva ancora dentro il proprio
letto. Vagava nei corridoi del proprio palazzo,
all’inizio barcollando, un po’ perché accecato dalla
luce, un po’ perché non riusciva a poggiare i piedi e
le mani da nessuna parte. I muri e il pavimento
mancavano al suo tatto: erano solo vista, nulla di
più. Poi pian piano cominciò ad abituarsi sia alla
luce che allo spazio, e a non barcollare più; anzi,
sentì una forte sensazione di libertà, cominciò a
respirare a pieni polmoni, godette della luce, del
poter guardare, sfiorare, toccare qualsiasi cosa
senza aver timore di trovare la tela fetida del ragno.
Poi, vagando, arrivò sino alla porta in fondo al
corridoio, quella che portava all’unica finestra della
casa. Aveva la strana sensazione che i suoi vestiti gli
si stessero appiccicando sulla pelle. Toccò il
pomello, e gli sembrò, liscio, lucido, vischioso,
ruvido, liscio, lucido… Guardò la porta: ebbe una
sensazione profonda, intensa, davanti a quella; una
sensazione che capiva nel sogno, ma che non
avrebbe potuto spiegarsi da vivo; una sensazione
così forte da scaldargli l’addome. Aprì la porta, e si
trovò sommerso da una luce forte, che sapeva di aria
fresca, di vita; la luce lo accecò, lo pungolò.
Arnolphe fece qualche passo, sentì il braccio sinistro
bruciargli. Ma quella luce sapeva di vita... Andò
avanti, voleva raggiungerla, non importa quanto gli
bruciasse il braccio. O no? La luce... Ma il dolore al
braccio era intenso. La stanza della finestra, piena di
luce... La stanza... La stanza. Buia. Il suo braccio.
Due denti nel suo braccio. Il sangue. La bestia
beveva il suo sangue… Arnolphe gridò. Prese a
dimenarsi. Si scosse. Si scosse… Aprì gli occhi. Non
capiva dov’era: nella stanza piena di luce? Nella tana
del ragno? Il suo braccio! Arnolphe si guardò il
bracciò. Era stato veramente morso? Non riusciva a
capire nemmeno quello. Si girò nelle coperte. Si
sentiva ora avvolto, poi oppresso, poi di nuovo
avvolto. Ma lo sapeva. Sì, ormai l’aveva capito, ci si
era rassegnato, non poteva farci niente: stava
impazzendo.
FELIX
La Tana del Ragno
Parte terza
Si svegliò. La prima cosa che sentì fu nausea. Poi
insieme a questa vennero i ricordi. Arnolphe cercò di
ricacciare giù entrambi - sia nausea che memoria ma stava pian piano riacquistando sempre più
lucidità, e tutto ciò che era successo poco prima
riaffiorava alla mente; e per quanto si sforzasse, per
quanto volesse con tutto se stesso rifuggire nel
sonno, non ci riuscì; ed aprì gli occhi. E, alla vista
dell’aracnide poco sopra la sua testa, gli balzò il
cuore in gola. Dormiva tuttavia: gonfiava l’addome
in maniera regolare, ma un po’ forzata, ritmica come
un uomo che si ferma dopo aver corso. E nel buio,
gli sembrava quasi che il ragno fosse molto più
vicino, e il soffitto molto più basso. Accese un lume
e capì meglio: la tela del ragno si era ingrandita
parecchio; questi probabilmente l’aveva tessuta
freneticamente come per marcare il proprio territorio
di contro all’invasore umano, e poi si era assopito
sfinito. La nausea di Arnolphe non migliorò di certo.
Questi da una parte sentiva il bisogno di scappare, di
uscire via, di prendere aria fresca; tuttavia era troppo
atterrito dal disgusto e dal terrore, e non riuscì a
muoversi: per un arco di tempo che sembrò un
eternità, rimase fermo, immobile, ad aspettare,
timoroso persino di respirare troppo forte. Il puzzo
della tela ormai riempiva l’aria, la rendeva pesante,
fetida, opprimente, e il buio sembrava così denso da
potersi toccare. Arnolphe ogni tanto aveva giramenti,
si sentiva mancare o cominciava a vedere offuscato:
gli pareva quasi di vedere la camera diventare man
mano sempre più angusta, e il corpo del ragno
gonfiarsi fino a riempirla tutta. Poi ore dopo - o forse
solo minuti, Arnolphe non l’avrebbe saputo dire - il
ragno si svegliò. Aprì gli occhi, lentamente, uno ad
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escluso lo zio Oliviero, sapevo leggere e scrivere ed
ero laureato. Ero considerato un po’ scherzosamente
l’intellettuale del gruppo e mi chiamarono “Corsivo”
per la mia calligrafia quando provavo, senza
successo alcuno, a insegnar loro a scrivere.
Un altro soprannome me lo diede Squarcio che mi
chiamava “Vinello”, ricordandosi della prima sera
che avevo bevuto con loro e che ero andato a letto un
po’ barcollante.
La meravigliosa e trista storia di poeti,
scrittori e impavidi briganti
Sommario del precedente episodio: abbiamo narrato
di come Fausto Corsetti conosce la banda di
briganti che lo ha tratto in salvo e di come codeste
canaglie scapestrate hanno poi portato il nostro
scrittore nella loro tana, un antico casale immerso
nel verde della foresta. Altro che vita da briganti!
Ma, dal profondo della cantina odorosa di prosciutti
e botti di vino, sale, ad un certo punto, il famigerato
Tredici, assassino della peggior specie e anche
funesto zio dell’impaurito Fausto.
Parte quarta
“Figlio mio!” pronunziò ancora Oliviero con la voce
rotta dal pianto. “Ho avuto informazioni su di te dal
mio caro Cassio, dopo che ho saputo dell’esito del
processo”.
Mentre mi allontanavo dal suo abbraccio, mio zio, o
forse dovrei chiamarlo solamente Tredici, mi
raccontò che Cassio Ciurmini era riuscito a far
allontanare il mio padrone per farmi fuggire.
“E il piano ha funzionato alla perfezione, vedo!
Bravo Tauro, bravi i miei ragazzi!”. Continuò così a
raccontarmi della sua doppia vita, della banda che
aveva formato dieci anni orsono.
“A guisa di combatter li signori!” esclamò Tauro nel
suo inconfondibile accento ispanico.
Quel pomeriggio ricompensò tutte le sofferenze che
avevo passato negli ultimi anni. Non so esattamente
se per la fame, per i discorsi con mio zio o per il
prosciutto, il pane, il formaggio, le mozzarelle e
l’uva, ma quella sera ebbe un non so che di magico.
Bevemmo del buon vino rosso e ridemmo di gusto
quando Cassio faceva le imitazioni dei cardinali,
mettendosi il fiasco sopra la testa. Ma il meglio
doveva ancora venire: un letto, sistemato solo per
me, mi aspettava in una delle stanze della mansarda.
Quella notte dormii sonni tranquilli dopo più di due
anni interi. Sognai di esser re di un mondo lontano,
portatore di giustizia e dignità scacciando la
prepotenza, la tracotanza e la corruzione.
Quel sogno meraviglioso mi accompagnò per tutto il
corso delle stelle.
Il giorno seguente raccontai tutto ai miei compagni
di avventura che rimasero ammutoliti per tutto il
tempo che parlai. Forse mi credettero pazzo perché
da quel giorno, 19 Agosto dopo anni di prigionia e
schiavitù, entrai a far parte della banda di Tredici.
Divenni amico di tutti, anche di Squarcio che
inizialmente si era mostrato diffidente nei miei
confronti.
Ero apprezzato per le mie idee e perché ero
strettamente utile alla banda. A differenza di tutti,
Bevevamo tutti un po’ troppo in quei tempi.
Il mio rapporto con Tredici era molto particolare. Se
quando vivevo con lui, da ragazzo, mi trattava come
un figlio, adesso, nonostante l’età che ci separava,
aveva incominciato a trattarmi come un fratello.
Dopo due settimane della mia entrata nella banda, mi
mostrarono il sotterraneo della casa. Fu uno
spettacolo imprevisto: oltre a fucili e pistole c’era
una quantità innumerevole di dipinti. Tredici amava
il mestiere di mio padre e ogni volta che faceva
razzie rubava tutti i dipinti e le altre opere d’arte che
trovava. Accostato ad una parete c’era uno scaffale
dove erano contenute piccole statue in oro e argento,
anelli bellissimi, collane e pietre preziose. Capii che
da quel momento Tauro, Cassio, Squarcio e Tredici
si fidavano completamente di me. Nella banda
avevamo dei ruoli precisi. Tredici gestiva le
operazioni più pericolose, realizzando i piani da
attuare. Tauro e Squarcio erano ottimi guerrieri.
Sapevano usare pistole e fucili ed erano imbattibili
nel corpo a corpo. Cassio, invece, era un uomo molto
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abile nel parlare e aveva importanti conoscenze,
gestendo i contatti con le altre bande. Io dovevo
scrivere lettere false per organizzare incontri e
imboscate, dove il nobile o il governatore finiva per
morire con una pallottola nel petto.
Ero terrorizzato, ma non avevo tempo per pensare.
Quando passò Andrea con il suo seguito, mi accorsi
che non erano una decina ma molti di più, circa
quaranta. La mia missione era chiara. Dovevo con
massimo due colpi fare fuori il governatore. Stavo
appostato dietro una grande quercia, con la pistola
nella destra.
Prima di lanciarmi, mi raggiunse Tauro che mi disse
“Non preoccuparti, Corsivo! Punta alla testa e chiudi
gli occhi! Al resto penseremo noi!”.
Ancora più spaventato, guardai un’ultima volta il
cielo che si lasciava intravedere tra gli alberi radi e
infine balzai fuori dal groviglio di rami e foglie,
senza farmi sentire. Percorsi pochi metri correndo a
perdifiato per la foresta e poi mi sistemai al lato del
sentiero, dietro il mio ultimo albero. Potevo sentire la
corteccia foderata di muschio che mi accarezzava la
schiena.
La mia vittima spuntò da dietro la curva. L’arrogante
guidava quel piccolo drappello. Mi girai
violentemente, feci tre passi in mezzo al sentiero
sotto gli occhi pesanti dei miei compagni e delle
guardie.
“Che fai tu, ragazzaccio?” mi rivolse il governatore
con aria di superbia. Tirai fuori la pistola che
nascondevo dietro la schiena e la puntai alla testa del
corrotto. Tenni gli occhi aperti e vidi i servitori che
mettevano mano alle spade. Alla fine schiacciai il
grilletto. Niente.
Pian piano, in un solo anno dalla mia entrata nella
banda, riuscimmo a derubare e a uccidere un numero
incredibile di “porchi potenti”, come li chiamava
Tredici. Ma io sapevo in cuor mio che, a differenza
degli altri, non ero un vero brigante.
Infatti non uccisi mai nessuno e non avrei
sicuramente provato gusto nel farlo. Ma l’occasione
non mancò.
Dopo ben un lustro dalla mia liberazione, Cassio
disse a mio zio di dirigerci nei pressi della città per
dare una lezione ad Andrea del Castello, uno tra i più
corrotti e spietati governatori del regno, che
pretendeva delle imposte altissime dai suoi contadini
e che sembrava impassibile di fronte alle nostre
azioni. La nostra preda, nel pomeriggio di un buio
giorno di autunno inoltrato, doveva passare,
accompagnato da una decina di guardie, presso un
sentiero che portava alla chiesa del suo villaggio, per
incontrare il vescovo. Sin dal mattino ci appostammo
in attesa, nel bosco a nord della traccia. Poi mi fu
dato l’ordine da Tredici di andare con Squarcio e
Tauro su di una collina da dove potevamo controllare
se arrivava il governatore. Lui e Cassio sarebbero
rimasti vicini al sentiero, nascosti dietro un groviglio
di rami e foglie. Appena passava Andrea del Castello
e la sua compagnia, dovevamo scendere velocemente
e raggiungere i nostri due compagni. Così fu. Lo
vedemmo passare dopo circa due ore di vedetta.
Rapidissimi scendemmo giù, da Tredici.
Quel giorno mi era stato dato l’incarico da Squarcio,
sotto consiglio di Tredici, di sparare per la prima
volta e di farlo per uccidere.
GIAN MARIA GHERARDI
GUIDO PANZANO
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StirredZone Presenta : RAIN + T.I.R. + WHISPERZ + LADY REAPER Live @ Closer
Sabato 8 Marzo i Lady Reaper, band manariota per eccellenza, festeggeranno le donne al Closer (via
Vacuna 98, zona Tiburtina)! Apriremo la serata ai Rain, band heavy metal italiana formatasi negli anni
’80!!! Portate le vostre donne e festeggiate con loro con questa grande serata di caos, birra e vero metal!
Per i più duri suoneremo anche il 9 Marzo sempre al Closer ma accompagnati da band dell’underground
musicale romano (MUSHDER + PENTADREAM + D.S.A + LADY REAPER @CLOSER 9.3.14)
Per info potete rivolgervi a Berardo Di Mattia o Gabriele Grippa (IIIB) o andare sulla pagina FB
dei Lady Reaper!!!!
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Febbraio 2014 - Liceo Manara