LA LUCCIOLA Febbraio 2014 1 INDICE Editoriali: Editoriali dei direttori di Sofia Zollo e Guido Panzano……………………………………………..…..3 Articoli: Questioni di style di Guido Panzano……………………………………………………………..….....4-5 L’Ucraina e la nuova Guerra Fredda di Alessandro Vigezzi……………………………………...….6-8 Uruguay: il grande piccolo paese dell’anno di Luca Zammito………………………………...……9-10 (D)io e (D)io: pericoli per l’umanità di Waldgang…………………………………………...…….11-14 Utopia: tra sogno e realtà di Alice Bertino………………………………………………………....15-16 Tutti dicono “I love you” di Martina Mangione…………………………………………………….16-17 Possono un po’ di lustrini abbattere una parete? di Eleonora Corradi…………………………..…17-18 Tu quoque, Antonie? di Alessandro Vigezzi…………………………………………………….….18-19 Llewyn Davis, il moderno Odisseo del folk di Luca Zammito……………………………………...…..20 AH2 di Distress Club………………………………………………………………………………..…..21 Sanremo e l’attesissimo ritorno di Ginger R. …………………………………………………….....…22 Perché Sanremo è Sanremo! di Sofia Zollo……………………..……………………………….…22-23 High Hopes di Raffaele Ventura……………………………………………………………………..…23 Il pirata in bicicletta di Marco Cilona……………………………………………………….……..…..24 Considerazioni di calcio giocato e non di Iacopo Giordano……………………………….……….25-26 Componimenti creativi: “Parole Che Contano” (II) di Aria…………………………………………………………………28-29 Castelli di sabbia di Elisabetta Tortora………………………………………………………………....29 Io e te di Bagnata da una pioggia di parole……………………………………………………….…….29 Dal piacere………………………………………………………….……………………………….….30 Le mani di Felix……………………………………………………………………………………..30-31 La Tana del Ragno: parte terza…………...…………………………………………………………....31 La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti: parte quarta di Gian Maria Gherardi e Guido Panzano…………………………………………………………..32-33 Disegni: Senza titolo di Anna Parlani………………………………………………………………..…….......…28 Joker di Cisco…………………………………………………………………………………….…..…34 Lee Van Cleef di Daisy Colantuono………………………………………………………………...…..35 Maryjane di Distress Club……………………………………………………………………………...36 Direttori: Guido Panzano e Sofia Zollo Capiredattori: Alessandro Vigezzi e Luca Zammito Impaginazione: Guido Panzano, Alessandro Vigezzi e Luca Zammito Copertina: Assia Ieradi Si desidera ringraziare i redattori, la segreteria, il Dirigente Scolastico Fabio Foddai e, in particolar modo, Loredana Polentini. 2 EDITORIALI DEI DIRETTORI Un altro mese è passato e stiamo sempre qui a inseguire gli articoli che mancano, correggerli, scannerizzare e approvare copertine; la solita routine e, per quanto mi piaccia, non vedo l’ora di andare al mare. Ma questo mi fa pensare che prima dovrei fare gli esami, quindi preferisco rimanere in questo freddo febbraio che ormai è anche lui passato. Peccato, non ho ricevuto le critiche richieste nello scorso numero da mettere in prima pagina (giuro che ci speravo), ma evidentemente gli anonimi ipocriti restano tali e io mi godo un po’ di nervi salvi, ugualmente distrutti da faccende personali che non interessano a nessuno e pagherei perché non interessassero neanche a me. Cos’altro dirvi, ricordatevi le scadenze e sopportate le isterie della redazione, e anche questo penoso editoriale scritto da una direttrice influenzata! Con la speranza che non vi faccia smettere di leggere La Lucciola. SOFIA ZOLLO Care lettrici e cari lettori Manarioti, quello che avete tra le mani è l’ambizioso quarto numero de La Lucciola. La metà dei sette che ci siamo prefissati a inizio anno e, quindi, anche la metà del nostro lavoro incominciato a Novembre. Scusate la mia solita essenzialità e freddezza, davanti a Voi c’è un giornale veramente splendido, buona lettura! Un abbraccio! GUIDO PANZANO 3 creatori, giovanissimi o meno che siano). Eh sì, perché è la velocità che conta. Bisogna essere più “smart”, Consigli dei Ministri lampo, firma e giuramento in un quarto d’ora (ricordo che l’attuale Presidente del Consiglio era quello che, al confronto per le primarie del candidato premier di un tempo molto lontano, disse di voler fare un governo con otto ministri)! “Poco importa! L’importante è far vedere che si fa qualcosa!” direbbero le vecchie colombe o piccioni che si riscoprono sostenitori o, meglio, sponsor dei nuovi sindaci d’Italia, dei nuovi “Jobs Act”, dal ritrovato background culturale. In fact, è proprio una buffissima rivestitura in espressioni finte – english che rende la più ovvia delle parole capace di suscitare il “oh” (per chi non lo conoscesse suono di stupore prolungato) dei telespettatori. L’inglese è immeditato, veloce e rapido. Mi stupisco come Renzi abbia potuto dire “Fassina, chi?” e non “Fassina, who?”. Ma che ci vogliamo capire noi umili umanisti, sono questioni di style. The class is not water. Le parole più utilizzate dal sindaco di Firenze, segretario del Partito Democratico e neo–promosso Presidente del Consiglio (tra poco ci sono le elezioni europee, mammamia!), secondo il “word cloud” proposto da Repubblica, sono in sostanza un pastiche di slogan televisivi (“io, noi”, “la mia età” oppure “quando eri... io stavo ancora al Liceo”). Secondo Filippo Ceccarelli, al discorso al Senato, dove quasi nessuno dei presenti stava veramente a sentire, tutti troppo impegnati a tuittare o feisbuccare con i loro tablet, Renzi si è rivolto più al grande pubblico che ai senatori. Ma sforzandoci di andare oltre la forma, pensiamo un attimo alla sostanza. Oltre all’innumerevole quantità di “titoli” e “slides” (sorrette da un ringiovanito ma veterano Angelino Alfano), non c’è nessun dettaglio sulle proposte concrete dell’attuale governo. Questioni di style Nel primo numero di questo giornale, scrivevo a proposito della duplice scelta che aveva davanti la Sinistra. La prima era quella di continuare a intraprendere la politica del partito, della “pluralità di idee spesso troppo contrastanti tra di loro per poter coesistere”, quando l’alternativa che si poneva davanti, guardando (cosa a dir poco sconvolgente) le altre forze giovani o meno scese in campo, il “movimento” guidato e esclusivamente comandato dal capo. Insomma, la strategia dell’uomo solo, del Caimano come della doppia personalità del Comico parlante (o dovremmo dire “urlante”) e il guru, filosofo da strapazzo. Negli ultimi vent’anni, questa è stata da sempre la soluzione giusta per vincere, facendo leva sul cuore e sulla pancia dei cittadini, più che sulle loro smemorate menti. L’autorevolezza del leader diventa l’autorità del capo-padrone, che nomina portaborse e notabili dalla brillante carriera. Da queste prime considerazioni, emerge chiaro come il Partito Democratico e gran parte della Sinistra, sacrificando la pluralità e la collettività che aveva ereditato negli anni e accusando la vecchia classe dirigente di essere troppo divisa in correnti e correntismi, abbia rinunciato all’idea di una politica più partecipata dirigendosi e piegandosi alla vecchia moda personalistica. Si sa, quando i tempi sono difficili, c’è bisogno di cavalli (o cavalieri) rampanti, bravi cittadini di turno che devono in fretta prendere le armi per dirigersi in battaglia, con molti titoli ma senza uno schema ben preciso. La rappresentanza viene schiacciata dalla governabilità, il dissenso dalla stabilità, la costituzionalità dal reo potere. Esempio lampante è la nuova legge elettorale che, sebbene spaventi il mondo giuridico, viene portata avanti, alla stessa maniera delle riforme costituzionali, per un finto obbligo morale, troppo veloce per esser credibile (come il nome, “Italicum”, non dimostra la buona conoscenza storica dei suoi E, prima di tutto, Renzi non ha ancora chiarito le ragioni che lo hanno portato ad un cambio repentino di strategia (ci dovevamo ormai abituare), a liquidare un Premier del suo stesso partito. "La Direzione Pd 4 guardare i numeri. “Nel mio governo sceglierò 16 ministri, 8 donne 8 uomini” è un’espressione paragonabile a “Se ci sono i topi porteremo i gatti”. Se il programma di governo è aumentare il Pil “e anche il Pilates” (battuta di Renzi o di Crozza? A voi la scelta), se questi sono i nuovi giovani che “rottamano” i vecchi ristrutturando altri vecchissimi, non mi sembra di fare tanti passi avanti. Staremo a vedere, l’importante è crederci. rileva la necessità e l'urgenza di aprire una fase nuova con un Esecutivo nuovo che si ponga l'orizzonte naturale della legislatura, da condividere con l'attuale coalizione di governo e con un programma aperto alle istanze rappresentate dalle forze sociali ed economiche" questo è il “Documento Renzi” approvato dall’Assemblea PD il 13 Febbraio scorso che termina con un “ringraziamento” a Enrico Letta “per il lavoro svolto”. Caspita! Bel ringraziamento da chi rifiutava le troppo allettanti e facili proposte di governo. Passiamo ora alla scelta dei ministri. L’Italia è veramente un Paese curioso che crede che, se su 16 ministri la metà sono donne, allora il problema del maschilismo sia risolto. La realtà è che questa è una soluzione stupida (non esistono altre parole) e semplicistica per provare a mettere una toppa a un problema serissimo. Solamente l’intelligenza politica (tutt’altro che verificabile) del Sindaco più giovane del mondo poteva escogitare uno stratagemma simile. Il problema è che si dovrebbe arrivare a riconoscere la completa parità tra i sessi non ponendo dei limiti alle sfere di influenza dell’uno o dell’altro (questo è il vero sessismo), non proponendo candidature “rosa” solo perché lo dice il momento, il trend, ma bensì non facendo differenza tra i generi della persona. Qualcuno vuole cortesemente spiegare a Renzi, e a quel numero incredibile Italiani che l’hanno investito alle primarie, che il problema sta proprio qui: nel GUIDO PANZANO Da in alto a sinistra -- Economia: Pier Carlo Padoan; Interno: Angelino Alfano; Beni Culturali: Dario Franceschini; Rapporti con il Parlamento e Riforme: Maria Elena Boschi; Agricoltura: Maurizio Martina; Sanità: Beatrice Lorenzin; Lavoro: Giuliano Poletti; Pubblica Amministrazione e Semplificazione: Marianna Madia Da in alto a sinistra -- Ambiente: Gianluca Galletti; Istruzione: Stefania Giannini; Trasporti: Maurizio Lupi; Sviluppo Economico: Federica Guidi; Difesa: Roberta Pinotti; Giustizia: Andrea Orlando; Esteri: Federica Mogherini; Affari Regionali: Maria Carmela Lanzetta 5 L’ Ucraina e la nuova Guerra Fredda condizioni socio-economiche della terra in cui vive, per forza di cose legge il Vangelo secondo Razzi, il che non è la scelta più opportuna in un paese in cui ancora non si è riusciti a separare il potere economico da quello politico. Quest’oligarchia di cui parlo non è una setta segreta dedita al culto di Satana: più semplicemente, rivestono cariche pubbliche i grandi industriali e tutti quelli che hanno liquidità. Naturalmente non può mancare fra i cliché la corruzione diffusa a tutti i livelli dell’apparato statale, e lo sperpero del denaro pubblico nello sfarzo privato. Come ho scritto poco fa, questo paese non può basarsi esclusivamente sulle proprie forze, ed è questa la chiave di lettura della politica ucraina negli ultimi vent’anni: come i miei colti lettori senz’altro sanno l’Urss termina di crollare nel 1992. In quel tempo l’Occidente è nel pieno della sua età d’oro, e perfino la Russia, sull’orlo del baratro economico, non sembra in grado di fare a meno del prezioso aiuto di quello che viene visto come un faro di civiltà e benessere in quelle terre in ginocchio. Ovviamente, la classe dirigente ucraina non ha dubbi: tutti gli sforzi devono essere diretti all’integrazione con l’Unione Europea. Se mi permettete: ma che schifo! Quarant’anni fa c’è stato un putiferio indicibile per il Vietnam, che sta a novemila chilometri da qui, mentre ora mi è parso di aver visto ben poche persone minimamente toccate da quello che sta succedendo alle porte dell’Europa, nel cortile di casa nostra. Che i cittadini di questa parte di mondo si stiano rammollendo è evidente. Cosa si può fare per rimediare? Beh, ci si pensi. Di sicuro di gente che ha abbastanza palle da scacciare un dittatore, in Italia ne è rimasta un po’ poca. Applauso agli Ucraini, che comunque andranno a finire le cose, hanno almeno dimostrato di tenere alle sorti della propria terra come di rado capita nella storia. Detto ciò, mentre i babbuini della repubblica delle Chiquita (che significa giovane ragazza, come si può vedere sul bollo delle banane) gridano al colpo di Stato, e la gente li guarda passiva mangiando il giallo frutto, in Ucraina la gente lotta allo spasimo per cambiare i destini del proprio paese. Cause del pandemonio: c’era una volta l’Unione Sovietica, della quale l’Ucraina faceva parte. Dopo il suo crollo, l’Ucraina si ritrova ad essere uno Stato economicamente fragile, con forti divisioni etniche e squilibri sociali, con vicini troppo potenti, insomma, troppo debole per affidarsi esclusivamente a se stesso. Sono favorevoli la famosa oligarchia, che vede l’Europa come unica garanzia per la stabilità finanziaria dei propri capitali, e anche il popolo, arcistufo di decenni di povertà, che vede nel cittadino medio europeo, libero e (almeno allora) ricco, il modello da raggiungere. Però l’oligarchia ostenta troppo la sua ricchezza per essere ben vista da una delle popolazioni più povere d’Europa, e quindi per mantenere il potere e il consenso deve fare largo uso di corruzione e brogli vari. La situazione diventa insostenibile nel 2004, con la Rivoluzione Arancione, quando il leader più moderato dell’opposizione, Viktor Yuscenko, riesce a dimostrare i brogli nell’elezione di Yanukovic, riuscendo a far indire nuove elezioni e a vincerle con buona maggioranza. Questo è stato possibile perché Yuscenko, oltre ad appoggiarsi ad una classe media faticosamente nata, è benvisto da una parte dell’oligarchia, che ripone fiducia nella sua strategia economica, e quindi pare finalmente disposta al compromesso. I compromessi sono la cosa più eroica e utopistica della storia: durano finché dura l’abilità del loro ideatore, che (quasi) inevitabilmente finisce prima o Inoltre, è tuttora al potere più o meno la stessa oligarchia ricca e potente dell’Urss, nomi diversi, ruoli uguali. Un’oligarchia che, a causa delle 6 poi tra le fiamme con l’accompagnamento di cori angelici, mentre le varie parti in causa vengono allo scontro all’ultimo sangue, trascinando nella rovina la propria terra. Così per Yuscenko, che, come ha ammesso in un suo commovente discorso, ha sentito il dovere morale di fare almeno un tentativo. potenza finanziaria di cui aveva bisogno, si rivolge alla Russia, che promette gas e petrolio a basso costo, investimenti, aiuti economici allo Stato, posti di lavoro. In cambio di un governo autoritario che garantisca la stabilità politica e la prosecuzione del nuovo cammino da intraprendere (cammino che naturalmente porta alla Russia notevoli profitti economici ed un sicuro alleato in posizione strategica). Semplice come un’addizione, vero? Un’addizione un po’ lunga, ma realistica. Yanukovic si pone a capo del nuovo partito oligarchico che raduna su di sé i voti dei “russi ucraini”, di coloro che lavorano nell’industria e di tutte le altre clientele degli oligarchici, nonché di tutti i cittadini convinti in buona fede che il faro di civiltà e benessere non sia più la decadente Europa, ma la autoritaria e dinamica Russia. Mettetevi nei loro panni: chi ha conosciuto la povertà aspira al benessere, prima di tutto, e ad esso è disposto a sacrificare anche la libertà. I primi anni del suo governo vanno da dio: perseguendo la politica di avvicinamento all’Europa rafforza la stabilità finanziaria dell’oligarchia, in particolare di fronte all’implacabile divinità del rating; gli oligarchi dal canto loro offrono lavoro alla classe media ed investimenti per il progresso del paese, impegnandosi persino a dare una mano nella lotta alla corruzione, anche per evitare di finire linciati dalle folle inferocite. Il gioco regge, l’Ucraina inizia a prosperare… finché non cambia la congiuntura internazionale: noi Occidentali, in particolare noi Europei, dopo esserci crogiolati nel senso di onnipotenza economica, morale e militare, siamo entrati in crisi. In questo momento non siamo in grado di garantire il benessere economico promesso all’Ucraina. Nel frattempo la Russia si è ripresa alla grande anche senza l’aiuto dei suoi exnemici, diventando un Bric, una potenza economica in grande ascesa, con abbondanti risorse, e in grado quindi di esercitare anche un’influenza politicomilitare notevole. Non poteva non guardare al cortile di casa propria: l’Ucraina. Dove tra l’altro un cittadino su cinque è di etnia russa, in particolare nelle regioni del Sud e dell’Est sono russi il 30, il 40% della popolazione. Un partito del genere è troppo potente per scendere a patti. Yanukovic alza l’asticella delle richieste al solo scopo di mettere in difficoltà Yuscenko. Il quale tenta ancora di trovare il compromesso, incontrando però l’opposizione dell’ala più intransigente del suo partito, in particolare di Julia Timoscenko. Yuscenko viene “trombato” dopo una drammatica serie di crisi politiche, durante le quali verrà disperso quanto faticosamente ottenuto in quegli anni di governo illuminato. La miglior prova della bontà del suo operato e che gli oligarchici hanno tentato di assassinarlo, avvelenandolo con la diossina. Ancora oggi ha il volto sfigurato di quegli individui veramente rari nella politica: quelli che sono pronti a morire per la propria terra. Per farla breve, Yanukovic emerge come l’uomo forte, l’unico in grado di salvare il paese di nuovo sull’orlo del baratro. Anche lui non ha dubbi: benessere economico ad ogni costo, e tutti gli sforzi devono essere quindi diretti all’avvicinamento al nuovo modello di civiltà, la Russia. Grazie alla quale l’Ucraina ricomincia a prosperare: il debito pubblico è garantito dalle finanze russe (quest’anno Putin E nelle regioni dell’Est è concentrata anche l’industria, e l’industria e coloro che vi lavorano sono la base del potere oligarchico. Il quale, non essendo l’Europa più in grado di garantire quella 7 comprerà come minimo 11 miliardi di euro in titoli di stato ucraini), quindi il rating sale; i prezzi di favore del gas del petrolio di provenienza russa aumentano il tenore di vita dei cittadini, che hanno più soldi da spendere; e infine gli investimenti nell’industria, oltre a creare nuovi posti di lavoro, aumentano i profitti dell’oligarchia. E adesso arriviamo all’attuale “bordello”: nemmeno Putin e il governo russo hanno previsto una tale deriva autoritaria del governo di Yanukovic. Infatti l’oligarchia, convintasi di essere nuovamente la padrona incontrastata del Paese, è inevitabilmente precipitata in quel senso di onnipotenza che è causa di tanti mali per gli uomini. Riprendendo a fare tutte le sue “porcate”: dalla corruzione allo sperpero del denaro pubblico, dal taglio dei salari dei propri dipendenti alla compravendita dei giudici. Per sedare il malcontento crescente gli oligarchi hanno avuto una pensata (come direbbe Montalbano) poco brillante: imbavagliare l’informazione ed impedire le manifestazioni per insabbiare i loro scandali. Risultato? Boom!!! Dai nazionalisti estremisti alla classe media che si identifica con l’opposizione moderata, tutti scendono in piazza, urlando per riavere la propria libertà. devono aver provato scendendo per combattere quella guerra per le strade della loro città, quanto devono essersi sentiti vivi e liberi. Mi immagino come il coraggio si sia mutato in terrore di fronte al sangue, e quanto cuore debbano avere avuto per continuare la loro lotta per rimanere cittadini e non diventare schiavi. Una lotta che avrebbe potuto essere pacifica, come la Rivoluzione Arancione, ma i soliti estremisti hanno avuto la brillante idea di attaccare l’esercito, che ha reagito nel solito modo: senza fare distinzioni. A rimetterci sono stati quelli che ci credevano davvero. La situazione adesso è questa: il Nord e l’Ovest del Paese, e la classe media, che si identificano con l’attuale opposizione vogliono l’Europa, la libertà e la fine dell’oligarchia; il Sud e l’Est, ovvero le regioni industrializzate, e quindi gli operai, e i Russi ucraini, vogliono la Russia, la stabilità e il benessere. L’oligarchia ha capito tre cose: di non poter sostenere quell’ultima risorsa che è stata la repressione violenta, altrimenti verrà spazzata via (la polizia e parte dell’esercito si sono schierati con i manifestanti); di non potere quindi sostenere l’ormai impopolare Yanukovic, che infatti è stato sfiduciato e costretto a fuggire (ma guarda un po’) in Russia insieme al suo entourage; di non potere più mantenere il potere e di dover quindi scendere a patti a condizioni molto svantaggiose. Così svantaggiose che il compromesso del governo di transizione proposto all’opposizione è stato rifiutato. Nel frattempo Julia Timoscenko è stata liberata, l’UE e la Russia tentano di mediare, i Russi ucraini sono in subbuglio e minacciano la secessione, il tutto mentre le varie classi sociali e formazioni politiche, lottando fra loro, hanno rimesso in discussione tutti i progressi economici. La guerra civile potrebbe essere imminente. Non so come andrà a finire, e non sono nemmeno in grado di proporre una soluzione. Spero solo di esservi riuscito a mostrare la massa dell’iceberg sotto la punta degli scontri attuali. Con una certezza: un’altra terra sarà devastata. E con una speranza: che quella terra sia un giorno libera. Applausi agli Ucraini che ci credono con tutto contro. ALESSANDRO VIGEZZI Noi Europei, l’Unione Europea, siamo molto meno concreti dei Russi: loro offrono benessere, noi, con il sedere quasi per terra, possiamo offrire solo una vaga promessa di libertà. Però è proprio questo che anima gli Ucraini che stanno combattendo nelle piazze di Kiev: il significato mistico di questa parola, per la quale sono disposti a morire da martiri di fronte ai cecchini dell’esercito che l’ormai ex-governo ha piazzato nei punti strategici della capitale. Quando, dopo aver prosciugato le risorse statali fra corruzione e spese inutili, dopo aver incarcerato Julia Timoscenko, carismatica leader dell’opposizione, dopo aver violato i diritti umani degli Ucraini con leggi contro la libertà di espressione, Yanukovic ha annunciato l’annullamento dei piani di integrazione con l’Europa, i cittadini hanno visto sparire l’ultimo spiraglio di libertà. E siccome sono un popolo fiero e giovane, che vuole costruirsi la propria storia, hanno reagito. I morti per le strade di Kiev sono più di cento, molti giovani fra loro. Mi immagino le emozioni che 8 I Tupamaros erano un gruppo di guerriglieri che operarono in Uruguay a partire dagli anni Sessanta e acquistarono notorietà nazionale nel 1966 quando appoggiarono la rivolta dei lavoratori di canna da zucchero. Ispirati dall’esperienza cubana e convinti che la rivoluzione si potesse attuare per portare reali uguaglianza e giustizia sociali, i Tupamaros, che nel giro di pochi anni annoverarono nel proprio seguito 5 mila persone, misero in atto delle azioni (furti di armi e a banche, sequestri di qualche ambasciatore) che vedevano la ridistribuzione alla gente più povera di quanto ottenuto. Quando venne instaurata la dittatura militare, in seguito al golpe di Juan Maria Bordaberry, le azioni del movimento divennero sempre più violente e la repressione del regime non fu da meno: i nove capi del movimento furono individuati ed arrestati. Pepe era uno dei nove. Furono rinchiusi in delle prigioni sotterranee facenti parte di caserme militari. Incarcerati in celle di isolamento (di 1,80 x 0,60 m), i leader tupamaros vi passarono dieci anni della loro vita fino a quando, nel 1984, non venne loro concessa l’amnistia e furono liberati, al termine della dittatura. Uruguay: il grande piccolo Paese dell’anno ¡Felicitaciones! ¡Felicitaciones Pepe! E se li merita proprio tutti gli auguri l’Uruguay di José “Pepe” Mujica, nominato dal giornale inglese The Economist “Paese dell’Anno 2013”. Compreso fra i giganti brasiliano e argentino, il piccolo paese latino-americano, da poco più di tre milioni di abitanti e grande come mezza Italia, è oggetto dell’attenzione di tutto il mondo per le importanti riforme che hanno contraddistinto la politica degli ultimi anni. “Un piccolo laboratorio dei diritti umani” è stato definito e questo merito lo si deve essenzialmente a Pepe Mujica, che guida la “Svizzera del Sud America” dal 2010. Definito dall’Economist “mirabilmente schivo” e “con una franchezza insolita per un politico”, Mujica è sicuramente il più singolare dei presidenti: vive all’ estremità della periferia di Montevideo (capitale dell’Uruguay) con la moglie, la senatrice Lucia Topolansky, in una fattoria, parte della quale è stata devoluta a una famiglia di senza-tetto. Dei 250 mila pesos che riceve mensilmente ne devolve il 90% al Fondo Raùl Sendic, istituzione che si occupa di favorire lo sviluppo delle zone più povere dell’Uruguay tramite la costruzione di abitazioni provviste di luce e acqua. Trattiene per sé solo il restante 10%, pari a circa 800 euro. Mujica dichiara: “questi soldi, anche se pochi, mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno”. E la sua austerità non si ferma qui: per lo Stato è un nullatenente, non ha un conto in banca né guardie del corpo, si reca al palazzo presidenziale - dove ha rifiutato di vivere con un maggiolino, viaggia in seconda classe. Mujica è stato da molti salutato come uno dei pochi esponenti di una politica sobria, tesa unicamente al bene comune. La sua popolarità all’estero è talmente cresciuta da farlo soprannominare “il presidente più povero del mondo”. Tuttavia Mujica non è uno degli ultimi arrivati, e la sua storia personale è in grado di spiegare molto dei tratti della politica da lui inaugurata. Classe 1934, è diventato nel 1995 il primo deputato che abbia fatto in passato parte del movimento dei Tupamaros. Da allora Mujica ha cominciato ad essere attivo politicamente: nel ’94 è eletto deputato, poi senatore fino a ricoprire l’incarico di ministro dell’Allevamento, Agricoltura e Pesca nel governo guidato da Tabaré Vàzquez nel 2004. Nel 2009 vince le primarie del Frente Amplio per presentarsi alle elezioni presidenziali del 2009. Il programma da lui presentato fu insolito: Mujica propose di mettere in discussione la proprietà privata dei grandi appezzamenti terrieri, togliere il segreto bancario e risolvere il problema della droga. 9 l’interruzione volontaria della gravidanza prima delle dodici settimane di gestazione. L’Uruguay è il secondo paese dell’America Latina, dopo Cuba, a legalizzare l’aborto. “Un grande passo per garantire i diritti delle donne uruguaiane a decidere su se stesse e sul proprio corpo”, che non evidenzia soltanto un profondo cambio di mentalità (si pensi che l’aborto era già stato depenalizzato nel 2008, ma il presidente Vàzquez pose il veto), ma anche un importantissimo avanzamento nella regione che registra, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il più alto tasso di aborti - solo 30 mila in Uruguay. In aggiunta, l’Uruguay è il secondo paese dell’America Latina, dopo l’Argentina, a permettere il matrimonio fra le persone dello stesso sesso. La norma, entrata in vigore nell’aprile 2013, consente “l’unione di due contraenti, qualunque sia la loro identità di genere o orientamento sessuale, negli stessi termini, con gli stessi effetti e forme di scioglimento che stabilisce il Codice Civile”. Alle coppie omosessuali è riconosciuta anche l’adozione e la possibilità di decidere quale cognome dare ai figli. Si permette agli stessi figli, inoltre, di riconoscere il padre biologico nel caso in cui non siano stati concepiti in vitro. Per quanto il programma fosse in buona parte irrealizzabile, quello che gli ha assicurato la vincita e che ha convinto il 52% degli uruguaiani è la sua inusitata franchezza. Ed è proprio la schiettezza, condita con una sana dose di ingenuità, che ha contraddistinto il discorso da lui tenuto al G20 del 2012 in Brasile. Mujica ha fatto appello ai valori universali della felicità e della vita ed ha ripreso le parole di numerosi filosofi greci e latini (da Epicuro a Seneca), secondo cui “Povero non è chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente tanto”. Valori universali che rimarcano come lo stato e l’economia debbano essere asserviti all’uomo e alle sue profonde aspirazioni e necessità. “Lo sviluppo non può essere contro la felicità”. La fase politica promossa dal presidente ha visto degli indiscutibili miglioramenti economici e sociali. L’Uruguay registra il tasso di disoccupazione più basso della sua storia (6,3%), il 60% della popolazione occupata, l’inflazione all’8%, un calo dell’indice di povertà (dal 32% nel 2004 al 14% nel 2011). Sono stati inoltre potenziati i programmi di assistenza sociale, di cui usufruisce la maggior parte della popolazione uruguaiana, e intensificati gli scambi con i paesi esteri. Storicamente dipendente da Brasile e, in particolar modo, dall’Argentina, principale partner commerciale dell’Uruguay, il governo ha avviato delle trattative con la Repubblica Popolare Cinese, attirata dalle agevolazioni ed esenzioni fiscali offerte per chi voglia investire nel paese. Nel giro di sette anni i rapporti fra Uruguay e Cina sono aumentati del 680%. Afferma Luis Almagro, ministro degli Esteri: “L’Uruguay è in grado di fornire numerosi vantaggi per gli investitori cinesi, fra cui un ambiente sicuro e affidabile, un’economia aperta e un quadro giuridico completo, equo e sicuro per gli investitori”. D’altronde, l’Uruguay non fa alcuna distinzione fra investitori locali e stranieri e consente il trasferimento di capitali all’estero. Ma è soprattutto dal punto di vista sociale che il tradizionalista e conservatore paese americano ha fatto dei veri e propri passi da gigante. Solo nel giro di due anni sono state introdotte riforme di primaria importanza. Nel 2012 viene approvata dal Parlamento la proposta di legge per Comunque il provvedimento che maggiormente ha fatto discutere è la legalizzazione della marijuana. La legge, approvata nel dicembre 2013, ne regola la vendita e la produzione: sarà lo stesso Stato a venderne un massimo di 40 grammi al mese in farmacie autorizzate solo ai maggiori di diciotto anni. Essi avranno inoltre la possibilità di coltivare fino a un massimo di sei piante nella propria abitazione. L’iniziativa, promossa dallo stesso Mujica, ha il chiaro intento di sottrarre ingenti profitti al diffusissimo narcotraffico e di dissuadere i cittadini dal far uso di droghe pesanti. Insomma, delle grandi rivoluzioni che rendono ufficialmente il piccolo Uruguay uno dei paesi che si sta con più forza affermando nel panorama internazionale. “Ha fatto bene l’Economist” afferma il premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa. Sì, ha fatto proprio bene. LUCA ZAMMITO 10 (D)io e (D)io: pericoli per l’umanità che gli uomini sono deboli come le foglie e che, passato il breve istante della giovinezza, sarebbe meglio la morte. Altri concetti molto poco "umani" si ritrovano sempre nella lirica in Solone che dice: "sia io dolce agli amici ed aspro ai nemici". Veramente "disumano" è Ipponatte, il cui frammento 115 West, merita qui di essere riportato: egli augura a un suo "amico traditore" che "in Salmidesso, nudo, lo accolgano benevolmente i Traci dall'alto ciuffo - di molto mali qui colmerà la misura mangiando il pane della schiavitù - lui, irrigidito dal gelo. E fuor della schiuma sia tutto coperto di alghe, e batta i denti, come un cane giacendo bocconi per lo sfinimento lungo la battaglia. Questi mali vorrei incontrasse chi mi offese, chi calpestò i giuramenti, egli un tempo era mio amico". La prima corrente "umanista" dell'antichità potrebbe essere considerata quella dei sofisti. Quando Protagora dice che "πάντων χρήματων μέτρον εστι άνθρωπος, των μεν όντων ως έστιν, των δε ουκ όντωv ως ουκ έστιν [5]", esprime un concetto che potrebbe essere considerato come tale. Visto dal punto di vista dell'Humanitas il messaggio di Protagora ha un impianto fortemente ottimista. L'uomo, direi qui con parole kantiane, è il soggetto che percepisce la realtà secondo le sue forme. Egli quindi, se vorrà agire "secondo misura" (κατα μέτρον), non dovrà far altro che conformare la realtà ai suoi parametri. Da questa interpretazione "ottimistica" della lezione protagorea, nascerà il pensiero di Socrate. Se infatti la sede di tutti i μέτρα è l' "umano", conoscere se stessi significherà "partorire" i concetti che misurano le cose, i quali risiedono in noi. Socrate è un uomo policé: un illuminista nell'Atene del V secolo, che crede nell'esistenza di uno o più elementi che rendono l'uomo non solo un animale, ma un essere civilizzato, che parla dialogando col prossimo e non fa mai emergere la sua irrazionalità (θυμός). Più che un animale politico (ζόον πολιτικόν) è un vero e proprio "animale dialogante" (ζόον διαλεγoν). Il pensiero di Platone è diametralmente opposto. Egli può essere considerato, anche se non si direbbe, l'antitesi metafisica di Socrate. Platone è, insieme ad Aristofane, uno dei primi grandi conservatori reazionari di stirpe aristocratica della Storia. La filosofia di Platone, in sostanza, vuole riformulare la massima di Protagora, intendendo che "πάντων χρήματων μέτρον εστι θεός" [6]. Dire "θεός" è come dire "idea", in quanto l'idea e la "divinità" hanno i medesimi attributi (sostanza, forma, perfezione, bontà...). Ad ogni modo Platone torna qui ad Omero, ed in generale a tutta la tradizione presofistica, se intendiamo la sofistica come una corrente di pensiero "illuminista", e questo fa di lui un "reazionario". L'uomo (come in Omero) è uno scherzo, e qualora Al giorno d'oggi una delle cose che forse l'uomo da più per scontata è il fatto che poiché sia uomo, esso sia anche un essere umano. Quando noi parliamo di Humanitas facciamo riferimento a un concetto ciceroniano, già presente in Isocrate. Ciò che Isocrate istituisce e Cicerone sostiene nella romanità è un rigido programma di παιδεία, indirizzato alla formazione dell'uomo. Un uomo è umano quando ha assimilato questo compendio di valori che lo rendono, in sostanza, un individuo "civilizzato" (policé). L'umanesimo, come struttura di educazione, ma anche come grazia e delicatezza nell'agire, come labor limae, come "bon-ton" e "savoir faire" sarà l'impianto su cui si formeranno tutti gli uomini di cultura da Petrarca, Erasmo, al Barocco e culminando nel cosmopolitismo e negli ideali giusnaturalisti dell'Illuminismo. L'articolo "Humanité" dell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert (che può essere a buon diritto considerata il monumento dell'Umanesimo) intende la definizione in due accezioni; la intende considerando l'umanità da un punto di vista "littéraire" definendola come ciò che concerne "les lettres humaines, c'est-àdire l'étude de la grammaire du Grec et du Latin, de la Poésie, de la Rhétorique et des anciens Poëtes, Orateurs, Historiens(...) [1]"e poi soprattutto da un punto di vista "morale" (e qui ci fornisce la più chiara definizione di ciò che sia uno "spirito umano") dicendo che l'umanità "c'est un sentiment de bienveillance pour tous les hommes, qui ne s'enflamme guère que dans une âme grande e sensible. Ce noble et sublime enthousiasme se tourmente des peines des autres et du besoin de les soulager (...)[2]". Ora però, poiché Isocrate non è tutta la cultura greca, la concezione dell'uomo che emerge da Omero fino a Platone (un arco di tempo in cui va a nascere e prendere forma quello che è e sarà il "pensiero europeo") ci lascia "umanamente" perplessi. I due vocaboli che vanno a significare "uomo" nella lingua greca, άνθρωπος e ανήρ, non sono quasi mai usati dagli autori (si può dire che Omero e Platone non li utilizzino mai). Essi preferiscono le parole βροτος e θνητός [3] proprio perché consapevoli di quanto caduca ed effimera sia la vita umana. Nell'Iliade il concetto di uomo, se concepito nell'unità di anima e corpo, è addirittura inesistente. L'uomo non è altro che una marionetta nelle mani degli dei ed il solo combattere contro un altro uomo non è altro che il fenomeno nella dimensione di spazio e tempo di uno scontro che in quel momento sta avvenendo più in alto fra due divinità. La lirica arcaica, anche se "scopre" l'uomo come individuo non cambia sostanzialmente opinione sul rapporto che intercorre tra lui e l'Assoluto [4]. Mimnermo è chiaro nel dire 11 esistesse un'idea di "umanità" essa sarebbe un' idea ridicola, che avrebbe lo stesso valore dell'idea di "sporcizia" o addirittura di "feci" (come dice nel "Parmenide"). Tutto ciò che è idea è infatti "divino"[7], tanto che esiste in un mondo "iperuranio", non incatenato alle forme sensibili dello spazio e del tempo o alle categorie della logica. Il filosofo quindi non sarà più lo ζόον διαλεγoν socratico, che si sforza di trovare nel mondo dell' "umanità" il concetto, sarà il "mistico" la cui anima, avendo ormai visto il mondo dell'Iperuranio sarà per natura "superiore" a quelle della massa. Il filosofo abbandona la polis per diventare "cittadino" della "polis delle idee" (Iperuranio). Ma un uomo che raggiunge il regno ideale dell'Iperuranio potrebbe essere considerato effettivamente un "uomo"? Non sarà presente in lui, allo stesso tempo, qualcosa di umano e di divino? Non sarà egli "uomo" da un punto di vista "fisico" e "dio" da uno "metafisico"? Platone definisce questo individuo "filosofo" (φιλόσοφος) e nel mito della caverna [8] sembra volerci far capire che è proprio egli la connessione tra Iperuranio e mondo "umano". Si potrebbe allora, ormai per la terza volta, riparafrasare la massima protagorea e dire "πάντων χρήματων μέτρον εστι φιλόσοφος [9]". Nella sua Repubblica non a caso Platone metterà a capo il filosofo, perché ormai è scettico sul fatto che ogni singolo individuo possa sapere e ricercare da solo ciò che è giusto ed agire correttamente. Questo "piccolo essere" che non ha altra facoltà che appartenere alla misera razza degli "umani" è talmente incapace che avrà bisogno di un essere superiore che lo guidi: il filosofo, ovvero un "dio" con sembianze "umane". La futura classe dirigente dell'Atene del IV secolo tuttavia non si sarebbe formata all'Accademia di Platone, ma alla scuola di Isocrate. Fra i due maestri vi è come punto in comune la sfiducia nei confronti dell'attuale sistema democratico, ma la scuola di Isocrate era una vera e propria scuola "socratica" (nel senso sopra inteso) il cui maestro insegnava ai discepoli il valore e l'interesse del dialogo, delle opinioni altrui (δοξαι) e della necessità di promuovere una sorta di "cultura greca di massa" (quella che sarà poi la cultura ellenistica) che rendesse in un certo senso tutti gli uomini capaci al dialogo, al rintraccio dell'utile per la polis, ad essere "retori" e non "filosofi", ad essere oltre che uomini, "umanità". Il IV secolo ad Atene dunque è un secolo di "retori", così come lo è il I a Roma, dove la filosofia "alla Cicerone" non è una missione e un sentimento puro, ascetico, ma una meravigliosa veste da indossare in superficie, che in fin dei conti è soltanto finalizzata a "la persuasione e la rettorica" [10]. Non a caso Cicerone e Isocrate, che a differenza di Platone non sono di stirpe aristocratica, sono esempi emblematici di borghesi politicanti, di uomini vanitosi e che hanno come ideale di uomo qualcuno che riesce bene a "vendere" qualcosa a qualcun altro. Come abbiamo detto quindi, dal Rinascimento al Secolo Socratico [11] la fantasia di una Grecia dell'umano non ebbe cambiamenti sostanziali. L'unico popolo europeo che non è mai riuscito ad accettare e ad adattarsi facilmente a questa concezione dell'uomo e del suo valore in quanto essere umano è il popolo tedesco. Il primo giudizio critico di Lutero su Erasmo suona così: "humana prevalent in eo plus quam divina". E come dare torto a questo rozzo e sgraziato monaco tedesco, che non fa altro che leggere dalla mattina alla sera la Bibbia o Agostino e trarre come conclusioni pressappoco le stesse di Platone, ovvero che l'essere umano può solo sbagliare, e che il suo arbitrio non è libero dalla sua essenza peccaminosa ma solo servo di essa, e che solo un dio può salvarlo? Non è forse Erasmo l'umanista per eccellenza, tanto che egli stesso confessa di "venerare" Socrate chiudendo ogni sua preghiere con la formula "Sancte Socrate, ora pro nobis"? Lutero appartiene ad un popolo fortemente spirituale ed autentico, esistito, come i Greci, prima come popolo che come nazione, e che non conosce tutte le meraviglie ed i giochi di prestigio della retorica umanistica ciceroniana. In tedesco non a caso si usa dire che chi è gentile e cortese con te ti vuole ingannare, in quanto ti sta offuscando la vista con qualsiasi tipo di trovata. Ma queste non sono le cose che un umanista chiamerebbe "manifestazioni di umanità"? Il divino invece non è complesso e articolato, pieno di mille ricercatezze, il divino è "edle Einfalt und stille Größe"[12]. Questa definizione così chiara e precisa ce la dà un altro tedesco, J. J. Winkelmann che sicuramente avrebbe espresso sull'arte barocca lo stesso giudizio che Lutero espresse su Erasmo. Winkelmann è un platonico come lo è Lutero, e non a caso si batte contro l'esasperato sentimentalismo melodrammatico del barocco. L'artista che ha creato l'opera d'arte, in pratica l'aspetto umano dell'opera, non ha importanza per Winkelmann. Ciò che una statua greca rappresenta è la bellezza ideale di un popolo che è riuscito a liberarsi dell'imperfezione umana e a raggiungere il divino (θειον). Il motivo per cui i più grandi studiosi e conoscitori del pensiero greco siano stati i tedeschi sta nel fatto che essi furono i primi a ricercare nelle opere letterarie lo spirito e la mentalità di questo popolo. La filologia e la linguistica comparata assumeranno un valore pari a quello della filosofia, poiché si inizierà a cercare la verità dello spirito nei testi, l'inconscio collettivo di un popolo dalle sue forme artistiche e simboliche. La filologia tedesca scoprirà una Grecia nuova, con tutti i suoi aspetti "disumani", libera dal "filtro" romano. Filologia e filosofia per la prima volta andranno di pari passo, basti pensare che 12 Friedrich Nietzsche era proprio un filologo. I filosofi tedeschi metteranno in discussione la cultura dell'umanità come fine di ogni azione. Max Stirner è il primo che in maniera cosciente pone al centro della sua dottrina politica non l'umanità o la società di massa (quello che aveva fatto Rousseau, Hegel e che poi farà Marx), ma l'individuo in quanto "unico". L' Unico non è un essere umano, poiché proprio perché unico non può appartenere a nessun gruppo racchiuso in un insieme, in quanto nessun elemento lo accomuna ad un altro Unico. La libertà dell' Unico è posta soltanto da se stesso, e non vi è nessun valore al di sopra dell'egoismo anarchico che deve muovere l'Unico nelle sue azioni. In Stirner l'individuo non è un uomo, ma, sincronicamente, un vero e proprio soggetto ed oggetto di venerazione. Tutto ciò che è collettività limita la mia libertà, e lo fa per fini che non mi appartengono, in quanto il mio unico fine è quello di poter fare o non fare ciò che desidero. L' Unico quindi potrà usare qualsiasi mezzo e qualsiasi argomento per affermare la sua unicità e non essere travolto dal qualunquismo della massa, e la stessa Rivoluzione deve essere un atto anarchicamente individuale (come la rivoluzione di Lutero o di Winkelmann). Un altro filosofo, forse anche più noto, che concepirà l'individuo come qualcosa di diverso dall'umano è Nietzsche. In maniera molto grossolana e semplicistica si potrebbe dire che tutto ciò che è considerato come valore "umano" deve essere annullato per lui, poiché non vi è nessuna dignità nell'essere un essere umano, né nessuna gloria o bene nel condividere la propria vita con altri essere umani. La filosofia di Nietzsche, ma soprattutto quella di Stirner, sono un vero e proprio marxismo al contrario, in quanto il motore di tutto non è la massa, ma l'individuo, o meglio "(d)io" [13]. Questo atteggiamento di disprezzo della mediocrità e questo spirito tutto "décadence" di morte e rinascita come grado superiore è quello che culminerà nel Nazional Socialismo, così come lo spirito di uguaglianza e di umanità portato all'estremo culminerà nel comunismo sovietico, il cui teorico, Karl Marx trae spunto dalle teorie "socialiste" e collettiviste di Rousseau, secondo cui la volontà dell' Unico deve piegarsi alla volontà Generale, e secondo cui non è Dio a porre l'uomo, ma l'uomo a porre Dio. Ora è necessario premettere che l'uomo occidentale è quasi "per natura" ossessionato dal controllo politico e definire un’ intera "mentalità" come "nazional socialista" o come "sovietico-comunista" è pur sempre una riduzione del punto di vista; significa pur sempre vedere la realtà solo dal punto di vista "politico". La visione della Germania del III Reich o della C.C.C.P. non era una visione soltanto politica, ma in un certo senso "cosmica". Se dalla visione della globalità che la cultura tedesca del III Reich abbracciava togliamo il massiccio elemento politico (il nazional socialismo) scopriamo come la cultura di fondo è violentemente individualista (e quindi anticollettivista), nell'accezione secondo cui essa vuole essere prima di tutto ed esclusivamente "tedesca". "Tedesca" lo si intende come si intende l'Unico di Stirner, ed è normale quindi che, per orientarsi nelle sue scelte per questa "cultura" è molto importante la domanda "qual è l'origine di un ariano? Che cosa ha e che cosa non diversamente dagli altri?". Allo stesso modo se dalla visione della globalità che l' Unione Sovietica abbracciava, togliamo il massiccio elemento politico (che è in pratica lo stesso di prima, il socialismo, ma in questo caso "internazionale"!) scopriamo come la cultura di fondo è fortemente collettivista (e quindi anti-individualista), nell'accezione secondo cui essa vuole essere prima di tutto ed esclusivamente "umana". "Umano" lo si intende come si intende la massa proletaria di Marx, ed è normale quindi che, per orientarsi nelle sue scelte per questa cultura è molto importante la domanda "qual è l'origine dei proletari? Che cosa hanno e che cosa non hanno differentemente dal capitalista?". A questo punto la cosa più interessante è capire se la nostra società capitalista mira alla creazione di una cultura di massa o alla creazione di una cultura egoistica. In questo caso bisognerà rispondere entrambe le cose. La cultura capitalistica moderna è riuscita a sintetizzare questi due aspetti scindendo l'individuo dalla sua unità, ed allo stesso modo ha scisso dalla sua unità la massa. L' individualismo del capitalismo è un individualismo soltanto materiale, mentre il collettivismo del capitalismo è soltanto spirituale. L'individuo può essere Unico rispetto agli altri soltanto in base a ciò che possiede, alla sua ricchezza materiale e alla sua libertà di poter acquistare o meno qualcosa, ma mai potrà avere la libertà di avere, in quanto Unico, anche un pensiero Unico nel suo genere. Allo stesso modo l'unica forma di uguaglianza che la società moderna concede fra le varie persone è quella spirituale, ovvero l'unica cosa che la società moderna distribuisce con criterio egualitario è la cultura, che proprio perché omogenea diventerà di massa. Quello che si cercherà di raggiungere in sostanza sarà un anarco-individualismo a livello materiale (anarcocapitalismo) ed un comunismo internazionalista a livello spirituale (collettivismo-totalitario). Tutte le domande che ci si poneva prima erano di carattere qualitativo, ovvero mirate a capire quali qualità erano in uno e quali nell'altro, mentre adesso il discorso è ridotto alla quantità. Cosa potrebbe essere dedotto da questa trattazione che ho portato avanti non tanto per sostenere questa o quella tesi, ma semplicemente seguendo istintivamente gli spunti che mi comparivano davanti sempre più evidentemente? Si potrebbe dire che sia l'umano che 13 il divino rischiano di essere o troppo umano o troppo divino, ma questo sarebbe già di per sé un giudizio "umano" se riferito al divino troppo divino, e già di per sé divino se riferito all'umano troppo umano. che il filosofo utilizzi spesso e volentieri miti per illustrare punti nevralgici del suo pensiero è una prova del suo spirito "anti-illuminista", che lo spinge a non sforzarsi di esporre i sui pensieri in maniera chiara di modo che chiunque possa accedervi. Egli, come Eraclito, è enigmatico. La sfiducia nelle capacità intellettuali della massa e nella democrazia in generale è dimostrata dal fatto che le più profonde dottrine platoniche non siano mai state scritte, ma rimaste segrete nell'Accademia fra il maestro ed i suoi adepti. La dottrina dell'Uno e della Diade parla di un mondo ontologico addirittura superiore all'Iperuranio, che non è altro che ipostasi di questi due principi. [9] "il filosofo è misura di tutte le cose" [10] "La Persuasione e la Rettorica" è il titolo della geniale tesi di laurea di Carlo Michelstaedter (18871910). Persuasione e retorica sono concetti molto complessi in Michelstaedter. Grossissimo modo, la "persuasione" è il tentativo sempre vanificato di giungere alla possesso di se stessi. La "rettorica" è l'apparato di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata l'impossibilità di giungere alla "persuasione". [11] Il Settecento veniva chiamato per l'appunto "Secolo Socratico", per la propensione degli illuministi ad utilizzare come metodo il "dubbio metodico" e l'ironia per dissacrare il sacro. [12] "Quieta semplicità e silenziosa grandezza". La parola "Einfalt" in tedesco significa sì semplicità d'animo, ma allo stesso modo ingenuità, spontaneità, ed anche in senso dispregiativo nel senso di "semplicioneria". Tutto ciò che è umanistico e retorico non è "semplice", nessun dio potrà essere "furbo" in senso stretto. Un altro illustre tedesco, Friederich Schiller, scriverà un saggio "Sulla poesia ingenua e sentimentale" nel quale parlerà della poesia greca come esempio massimo di arte "ingenua". Leopardi, allo stesso modo, concepirà in maniera simile la poesia greca. [13] La visione stirneriana dell'Unico come elemento centrale potrebbe essere rintracciata anche in Protagora. Quando questo dice che l'uomo è misura di tutte le cose (vedi nota 5) potrebbe sì intenderlo in senso umanistico-socratico, ovvero come "l'umanità è misura di tutte le cose", ma anche nel senso che "l'Unico è misura di tutte le cose" e questo trasformerebbe il Protagora illuminista e presocratico in un vero e proprio nichilista ante litteram. È chiaro quindi che dove c'è l'Unico non c'è umanità, poiché Esso è assolutamente autoreferenziale. Note: [1] "le lettere umane, ovvero lo studio della grammatica del Greco e del Latino, della Poesia, della Retorica, e degli antichi Poeti, Oratori, Storici (...)" (article par Mallet) [2] "è un sentimento di benevolenza per tutti gli uomini, che non si accende che in un'anima grande e sensibile. Questo nobile e sublime entusiasmo si tormenta per le pene degli altri e per il bisogno di alleviarle" (article par Diderot?) [3] Entrambe le parole significano letteralmente "mortale"; "θνητός" non è altro che l'aggettivo verbale del verbo θνησκω, mentre βροτος deriva dall'arcaico μροτός, sostantivo la cui radice si trova nell'indoeuropeo mrtw s, mrt s (“morto, mortale”). L'Old English conserva la forma "morþ" (morto), ma il collegamento più evidente si può fare col latino "mortus". In pratica si può dire che per Omero e Platone l'uomo è già un "morto". La parola maschile "Brot" in tedesco significa "pane": βροτος potrebbe significare mortale anche poiché, a differenza degli dèi che come risaputo si nutrono di nettare e ambrosia, il mortale è colui che si nutre di pane. [4] Benché uomo che ha scoperto la propria individualità, Archiloco si sente ancora servo (θηραπων) di un dio, in questo caso quello della guerra (Enialio). Lo stesso suo poter fare poesia è un "amabile dono delle Muse" (Μουσηων ερατον δορον) [5] "l'uomo è misura di tutte le cose; delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono." [6] "il dio è misura di tutte le cose" [7] È un "divino" del tutto impersonale quello che Platone vuole intendere. È vero che la concezione dell'uomo di Platone è molto vicina a quella di Omero e il rapporto che intercorre tra l'uomo e la divinità è pressappoco simile, ma non bisogna nemmeno trascurare che fra l'uno e l'altro intercorrono minimo quattro secoli di differenza, periodo in cui il pensiero greco ha avuto, ovviamente, delle evoluzioni nell' "immaginare" il divino. Omero, oltre ad essere un poeta epico e non un filosofo, è cronologicamente anteriore a Senofane e Parmenide, pensatori la cui visione della divinità come "essere non antropomorfo" Platone accoglie volentieri. [8] Contrariamente a ciò che si può pensare, la dimensione dell' "oralità" in Platone è molto importante, e non meno di quella socratica. Il fatto WALDGANG 14 conformismo. Pensiamo, ad esempio, a “I Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift; il libro parla di un tipico uomo inglese, l’uomo medio per eccellenza, felice, orgoglioso e soddisfatto della propria patria, che a seguito di naufragi e altre peripezie approda in quattro paesi a dir poco improbabili: nel primo, gli abitanti sono minuscoli; nel secondo, al contrario, giganteschi; la terza isola è invece popolata da bizzarri scienziati che conducono esperimenti inutili e assurdi; nel quarto viaggio, invece, la satira dell’autore raggiunge i livelli più alti, poiché Gulliver approda in un mondo perfetto, abitato però non da uomini, ma da animali. E dal confronto con questi luoghi, per certi versi così differenti ma per altri così simili al suo mondo, egli ha la possibilità di riflettere, e più viaggia più capisce che la società che ha sempre ciecamente sostenuto e difeso è in fondo una società violenta e arretrata; fino ad arrivare, una volta tornato a casa, al completo rifiuto dei suoi simili. Utopia: tra sogno e realtà Nel linguaggio comune, la parola “utopia” indica un progetto immaginario, una fantasia che non è realizzabile, ma che se lo fosse sarebbe un bene: è un pensiero felice, in cui ci si rifugia quando le cose nel mondo reale non vanno come vorremmo. Il primo a utilizzare questo termine fu un pensatore cristiano dell’età rinascimentale, Tommaso Moro: insoddisfatto della realtà in cui viveva, scrisse un libro in cui immaginava l’esistenza di un’isola felice, dove regnasse la pace e l’uguaglianza e gli uomini fossero solidali fra di loro. A questo paese diede, appunto, il nome di “Utopia”, termine greco che può avere due significati: luogo che non c’è (ou + tòpos) e luogo felice (eu + topos); e, infatti, da Moro in poi, la parola ha sempre indicato un luogo felice e perfetto, che però non esiste nella realtà. Anzi, nasce proprio come antitesi della realtà: una realtà ingiusta, marcia, verso la quale si prova una profonda insoddisfazione; ed è proprio la profonda sfiducia nel presente che porta l’utopista a rifugiarsi in un mondo che non esiste, diverso da quello in cui vive, in cui tutto è al suo posto e tutto funziona come dovrebbe. Un finale un po’ pessimista, certo: forse Swift non era convinto della possibilità che l’uomo potesse realmente cambiare. L’utopia di un mondo finalmente giusto era, per lui, davvero solo un’utopia; e anzi, più che descrivere un mondo perfetto si limitava a inventare luoghi stranissimi che più che mai erano lo specchio distorto della realtà, verso cui muoveva una critica che rimaneva tale, e non prevedeva margini di speranza. L’atteggiamento disincantato di Swift è lo stesso di tutti coloro che credono che il mondo reale, giusto o sbagliato che sia, è e rimarrà sempre uguale a se stesso; che identificano gli utopisti con ingenui sognatori, eterni Peter Pan alla ricerca dell’Isola Che Non C’è. Ma in realtà gli stessi utopisti sono perfettamente coscienti che i loro progetti sono in gran parte irrealizzabili (pensiamo ad esempio a Platone, che parlava di uno stato ideale governato da Ma è davvero una fuga? Spesso, più che una reazione di fuga, il pensiero utopico può semplicemente rappresentare un appello alla riflessione critica: una provocazione volta a scuotere le coscienze intorpidite dall’accidia del 15 filosofi: assurdo!): ciò non toglie, però, che per quanto ambiziosi, per quanto appunto utopici, essi possano rappresentare il modello per creare qualcosa di buono, qualcosa di non perfettamente identico, ma molto simile a quello che si è immaginato. Del resto, non c’è niente di male nello sperare in un mondo migliore, ed è di certo preferibile essere sognatori che rimanere con le mani in mano, non fare nulla per cambiare le cose, “perché tanto a che serve?”. Come diceva Edoardo Bennato, cantando di un’isola “senza ladri e gendarmi, senza odio e violenza, né soldati né armi”: forse è vero, forse una terra così non esiste né mai esisterà, ma chi ha smesso di sperarci, chi ha smesso di cercarla, beh, forse è lui il vero pazzo! storie d'amore finiscono, ma l'affetto continua. Non si smette di volersi bene. Meglio di noi sono i Giapponesi, che per esprimere il nostro “Ti amo” hanno tre modi diversi, ognuno dei quali corrisponde ai diversi stadi della relazione. Il primo: “Daisuki” usato tra gli amici, dovrebbe corrispondere al nostro “ti voglio bene”. Il secondo: “Aishiteru” pronunciato nelle relazioni amorose. Il terzo: “Koishiteru” lo si dice alla persona con cui si desidera trascorrere il resto della vita insieme. E’ interessante constatare come i giapponesi seguano seriamente questa gerarchia e non banalizzino il “ti amo” come invece usiamo fare noi Occidentali. Tutto affascinante, sì, peccato che già ci facciamo problemi per pronunciare un semplice “ti voglio bene”, immaginando la reazione dell’altro, figuriamoci per un “Koishiteru”! ALICE BERTINO Tutti dicono “I love you” No Ladies and Gentlemen, oggi non vi parlerò della commedia di Woody Allen ma di un dubbio, un dubbio che per un po’ di tempo mi ha martellato il cervello mentre cercavo di comporre scritti in lingua inglese per i miei esami… Perché non esiste un’espressione corrispondente al nostro “ti voglio bene”? Non sono una linguista, ma nei miei piccoli viaggi all’estero ho potuto constatare questo: gli inglese dicono “I love you”, i francesi “je t’aime”, i tedeschi “ich liebe dich” e gli spagnoli “te amo” ma queste espressioni, nelle rispettive lingue, stanno a significare anche “ti amo”, cosa che per un italiano ha un significato e un valore BEN diverso. Tutti quanti possiamo concordare che il “ti amo” sta leggermente sopra al “ti voglio bene” ma la questione è una: perché le alte lingue non riconoscono questa differenza? Per non parlare del fattore D, la Donna, che vorrebbe sentir pronunciata una cosa e invece è costretta a sentirne un’altra: un dramma. Schopenhauer che, con il suo viaggio in India, ebbe il merito di aver notevolmente contribuito all’apertura verso mondi diversi dal Vecchio Continente, già affermava l’inconciliabilità tra il pensiero filosofico orientale e occidentale. Nella società moderna, come quella di oggi, cerchiamo di semplificare e di ridurre tutto all’essenziale, anche nella lingua, e, discutendo di questo con alcuni miei amici maschi, loro sono arrivati a concordare che non sarebbe male se la distinzione adottata da noi italiani scomparisse: “I love you” - “Me too”. Sarebbe molto più semplice e meno problematico, meno imbarazzante di fronte ad un rifiuto. Sono della linea invece che questa scissione sia necessaria, non a caso Oriana Fallaci scrisse: “Aveva dimenticato davvero. Sbagliava anche la coniugazione del verbo amare che da un punto di vista grammaticale è un verbo semplicissimo, da un punto di vista sentimentale è il più complicato del mondo”. MARTINA MANGIONE Quanti problemi ci facciamo noi italiani! Anche nella lingua! Meravigliosa e di una ricchezza lessicalmente strepitosa! Usiamo termini diversi per esprimere sfumature dello stesso sentimento: tante 16 Possono un po’ di lustrini abbattere una parete? stesse facendo le prove per lo spettacolo, nel secondo atto ci mostra quanto avviene dietro le quinte e nel terzo atto vediamo lo spettacolo dopo la centesima replica. Questo esempio di meta-teatro dimostra esattamente come trascinare il pubblico in situazioni ed esperienze diverse. Non è necessario, però, andare a teatro per assistere a questi meccanismi, la rottura della quarta parete infatti la possiamo trovare anche in alcuni dei cartoni che vedevamo da piccoli: Bugs Bunny ne è la rappresentazione concreta quando ci fa l’occhiolino, oppure Willy il Coyote che ci mostra cartelloni con scritte prima di cadere nel burrone. A mio avviso il film “Chi Ha Incastrato Roger Rabbit?” è quello che riporta maggiormente le caratteristiche di un teatro nel teatro, naturalmente traslate in ambito cinematografico, e della caduta della quarta parete: nella scena finale Porky Pig ci saluta direttamente annunciando il finale del film. Tale concezione del teatro e tutte le tecniche che vi ho proposto hanno fatto strada al teatro d’improvvisazione, culmine del coinvolgimento dello spettatore che diviene quasi un attore, quindi parte dello svolgimento dell’azione. Forme di improvvisazione teatrale sono il Cabaret e il Burlesque, in cui appunto lo spettatore non è più pubblico ma attore indispensabile all’azione. Sono spettacoli che non si pongono alcun fine, nessun insegnamento, se non quello di far divertire il pubblico. Le donne sono le protagoniste indiscusse del Burlesque, una vera e propria arte che non ha nulla a che vedere con la volgarità a cui spesso si riconduce erroneamente il termine. Sua finalità non è infatti quella di sedurre ma quella di divertire, di far ridere lo spettatore in modo diverso, con una vera e propria recitazione che comprende spogliarelli e arriva anche alla trasgressione, senza però alcuna mossa grossolana o volgare. Una barriera invisibile, un muro inesistente, ciò che solitamente chiamiamo “quarta parete”, la vera linea di separazione tra quello che rappresenta il mondo della finzione, che sia teatro, cinema o televisione, e il pubblico. Un espediente tecnico che isola completamente l’attore, lo divide dal quotidiano e ne stabilisce, perciò, l’assoluta impersonalità. Ci troviamo nel teatro greco, quando si è fatta strada l’idea di abbatterla questa parete. Autore di questa innovazione è Menandro, con la sua “Commedia Nuova”, che si avvicina agli uomini comuni e fa interagire pubblico e spettatori. Egli incentra tutto il fulcro della rappresentazione sull’uomo vero, con un’ humanitas e un’analisi psicologica mai viste prima. Furono, dunque, proprio Menandro e i suoi seguaci, con tali tecniche, quelli che hanno avuto maggior influenza sul teatro moderno. Nel XX secolo si assiste a una vera e propria teoria, portata avanti da Bertolt Brecht, riguardante la rappresentazione teatrale, sul cosiddetto “teatro epico”: lo sviamento dell’attenzione dall’evento scenico per una maggiore partecipazione dello spettatore, che assume il ruolo di destinatario attivo della rappresentazione teatrale. Il pubblico è ora impegnato a osservare la scena con sguardo critico, talvolta viene turbato dalla rappresentazione degli attori, ma è un turbamento che lo porta a compiere una riflessione. La necessità di rompere l’illusione deriva quindi dal bisogno di “destare” l’attenzione dell’ uditorio, coinvolgendolo nel vivo dell’azione scenica. Nel Novecento protagonista del teatro è, invece, Luigi Pirandello che, nella terza fase della sua produzione, abolisce del tutto la quarta parete: ad esempio, fa camminare e recitare gli attori in mezzo al pubblico ed elimina lo spazio definito dal palcoscenico. Vorrei ora proporre per rendere meglio l’idea uno spettacolo di Michael Fraynn, “Noise Off”, conosciuto in Italia come “Rumori Fuori Scena”: in esso sono portate alle estreme conseguenze gli artifici del teatro nel teatro. La compagnia infatti recita nel primo atto come se Gli spettacoli di Burlesque sono ricchi di sfumature poiché uniscono la sensualità di esibizioni impreziosite da lustrini, piume e ventagli, alla comicità del doppio senso, ma anche alla satira e al gioco. Arte molto complessa e attraversata da un’atmosfera quasi magica che ci riporta alla Belle Epoque di fine Ottocento, dove tutto è concesso: 17 divertirsi con ironia, con sorriso e malizia. Così scrive la giornalista Deborah Bergamini: “Il Burlesque sottolinea la straordinaria capacità di autoironia delle donne, che non esitano, in tempi di acceso dibattito sulla loro dignità e sul loro ruolo sociale sempre più difficile da definire, a giocare sugli stereotipi di una femminilità esplosiva, iperbolica, caricaturale. Ad adoperare uno sdoppiamento di sé tanto più impenitente quanto più la quotidianità allontana progressivamente le donne dalla loro femminilità e le trasforma in corpi, in funzioni, in incubatrici, in totem. A sfidare, in fin dei conti, proprio con l'autoironia, un sistema che sta togliendo loro ogni bellezza, e che offre loro solo paradigmi, canoni cui attenersi”. considerevolmente. Ma lasciamo perdere prima che arrivi qualche querela. Molto sapientemente snellita rispetto all'originale di Shakespeare, questa versione ne elimina gli aspetti più tradizionali e retorici, mettendone in risalto quelli più profondi e psicologici, con appassionata originalità. Una scenografia essenziale che avrebbe fatto la felicità di De Chirico, rende al meglio il fatto che idee e pensieri profondissimi vivano in ogni momento nei personaggi: tre porte senza cardini, mosse da dietro dagli attori, una sedia nera e sfondata, simbolo molto realistico ed eloquente del potere (Letta docet), e tanto basta. Con le tre porte si creano infinite combinazioni, infiniti ambienti, disponendole in modi diversi. Le musiche, che avrebbero fatto la felicità di De André (lo so, sta diventando una mania), fanno il resto, esprimendo quegli stati d'animo che le parole non possono mai esprimere completamente, e suscitandoli negli spettatori; musiche che vanno da Chopin ai ritmi elettronici moderni. Una scelta molto azzeccata è stata di ridurre i personaggi ad una mezza dozzina: in questo modo diventano tutti protagonisti, e tutto si potrà dire di questo spettacolo ma non che sia dispersivo. Gli attori, poi, sono stati in grado di diventare i loro personaggi con una sincera intensità che è difficilissimo trovare. Gli abiti moderni, infine, rendono immediato e franco il rapporto fra l'opera e lo spettatore, e danno inoltre l'idea dell'immortalità delle passioni narrate. Il dramma di Roma è una presenza che incombe per tutta l'opera: i Romani appaiono nei tragici sfoghi dei protagonisti come un branco di animali, "con l'intestino al posto del cuore", intenti a seguire i loro più bassi istinti, quasi senza più traccia di ciò che li aveva portati a conquistare il mondo, anzi, scacciando "come un insetto" la loro precedente natura. Per questo, dopo aver osannato Pompeo, ora si aggrappano a Cesare, "perché, se Pompeo dava dieci, Cesare dà cento", privi di grandi sogni, disinteressati della propria sorte e della propria libertà, e quel che è peggio, senza rendersene conto davvero (non ci riconosciamo, Italiani, Europei, uomini moderni in genere? E' Shakespeare che ci ELEONORA CORRADI Tu quoque, Antonie? Perla di saggezza del sottoscritto sui libri, sui film e sugli spettacoli teatrali: se piacciono a quasi tutti, valgono pochino; se non piacciono a quasi tutti, va già meglio; ma se il pubblico si divide in bianchi e neri come i pezzi di una scacchiera e questi due schieramenti prendono a scornarsi fra loro di santa ragione peggio di laziali e romanisti dopo un pareggio (#forzaCasteddu! Io sono neutrale), allora siamo di fronte ad un capolavoro. E' quello che è accaduto qui in Italia e, in misura minore, nel resto del mondo, con la Grande Bellezza, che adesso è in gran corsa verso l'Oscar. Quindi fidatevi del mio naso: al Giulio Cesare di Andrea Baracco poco manca per assurgere a quello che potrebbe essere briatorescamente (mah...) chiamato il top degli spettacoli teatrali. Se poi si aggiunge il fatto che a storcere il naso siano stati alcuni critici, vecchi bacucchi di fronte al lavoro di giovani artisti, nonché qualche raro (si fa per dire) esemplare di imbecille che si aspettava un Giulio Cesare stile cinepanettone, le probabilità che la mia perla di saggezza sia vera aumentano 18 avvisa). Roma sta avviandosi al suo apogeo, e proprio per questo si iniziano a vedere i motivi della decadenza. Questo è un passaggio fondamentale: la congiura nasce proprio in reazione a questo male, non ispirata da chissà quale spirito maligno come nelle favole, non (o almeno non solo) dall'invidia o dalla sete di potere, ma soprattutto da quell'opprimente senso di mancanza di libertà che emerge fin dal dialogo con Bruto. Bruto, uomo passionale e profondo, così tanto da essere fragile. I suoi sogni e le sue angosce si vedono in ogni sua minima parte, come gli dirà Cassio. "social", ubriaco d'alcol, di successo, di consenso e di potere, che fingerà di essere dalla parte dei congiurati e lascerà che Cesare, suo amico, venga assassinato per fare i suoi razzici (mah...) interessi: tolto lui di mezzo, Antonio rimarrà il solo (almeno per un po') ad avere l'appoggio e la stima di tutti, presentandosi come il vendicatore, e i congiurati passeranno dalla parte del torto. A conti fatti è lui il vero traditore, non Bruto, non Cassio e nemmeno Casca, che commettono l'assassinio tormentati dalle loro angosce, credendo in buona fede di eliminare i mali di Roma con la vita di quell'uomo, simbolo di un popolo. Ma sarà Antonio il vincitore, e saranno i perdenti ad essere dannati, come dice chiaramente prima della battaglia finale. Altri due personaggi fondamentali: Porzia, la moglie di Bruto, il cui rimpianto per la felicità perduta la condurrà alla morte; e Calpurnia, la moglie di Cesare, che spesso apparirà in maniera un po' innaturale fra i congiurati, quasi a simboleggiare quell'oscura attrazione che si prova fra nemici. Che bella la scena in cui lei tenta di avvertire Cesare, ingannato dalle astuzie dei congiurati, e Casca le imbavaglia simbolicamente la bocca, con gioia feroce. Magnifica anche la scena della morte di Casca, che si dimena come una belva fra i lacci che gli hanno (sempre simbolicamente) gettato addosso, prima di cedere. Stupendo, infine, il discorso di Bruto dopo l'assassinio, che non riesce a sostenere gli sguardi della folla, intuendo come sarà il suo destino. Sono rimasto affascinato dall'immediatezza con cui si esprimono tutte queste idee profonde e complesse, dal modo in cui gli attori hanno saputo muoversi fra le luci e le ombre del palcoscenico. Le musiche sono molto coinvolgenti, i discorsi si possono quasi assaporare talmente sono fatti bene. E' affascinante come questi due uomini si aprano il cuore e con quanta spontaneità nasca la congiura: Cassio racconta a Bruto di quando aveva salvato Cesare che "strillava come un bambino" nel fiume, lo stesso Cesare di fronte al quale tutti i Romani, un tempo liberi, ora chinano la testa. E' sorprendente l'abilità con cui gli attori rendono con naturalezza l'idea del congiurato in ogni movimento, dopo questo drammatico discorso. E infine è meravigliosa l'intelligenza con cui vengono individuate le tre parti della congiura, identificandole con tre personaggi: Bruto, il fragile sognatore, è la parte idealistica; Cassio, il macchinatore, è la mente che ordisce complessi piani e trame, con astuzia e lucidità; e infine Casca, (il mio preferito, ho il sospetto che l'attore che lo interpretava fosse il vero Casca) è la parte malvagia, la parte bastarda, quella in perenne ricerca di vendetta sul mondo che sembra odiare, quella che gode nello sporcarsi le mani, e forse per questo la più profonda, e sia Shakespeare che Baracco se ne sono resi conto, esprimendo la complessità di questa figura in ogni parola e gesto. Ottima anche la scelta di togliere Cesare, perché in questo modo diventa quello che è per i protagonisti: un pensiero ossessivo, una figura idealizzata, anzi, un'idea da uccidere. Inoltre così si fa capire anche la sua vulnerabilità: lui è il re dagli scacchi, il pezzo meno difendibile eppure il più importante, la meta di tutti i piani in questa battaglia di intelligenze. La realtà sarà poi più complessa, e determinante sarà la figura del popolare Marco Antonio, uomo virile e Uno spettacolo che si mantiene per tutto il tempo ad un livello altissimo di qualità artistica e carica emotiva. Si trova anche su YouTube, e dovrebbe avere molte, ma molte più visualizzazioni. Chi non ha avuto modo di ammirarlo a teatro, fili a vederlo, anche se su uno schermo non è la stessa cosa. In chiusura una cordiale espressione di simpatia grillina a tutti coloro che, prima ancora di vedere la prima scena di quest'opera d'arte, si sono convinti che fosse una scemenza, e si sono turati occhi, orecchie e cervello. Li invidio molto poco. ALESSANDRO VIGEZZI 19 che portino il pubblico ad interagire nella performance. Come si può, dopo tutto, “esistere al di fuori dello show-business”? Il quartiere newyorkese del Greenwich Village, nel quale Llewyn erra senza una precisa meta, è il labirinto in cui è impossibile proclamare la propria poetica e le proprie aspirazioni. Continui ostacoli si frappongono fra Davis e il suo sogno, irraggiungibile come il gatto (di nome Ulisse) che insegue sui grigi asfaltati marciapiedi e tenta disperatamente di ritrovare. Il Village e New York diventano, dunque, lo specchio dell’insicurezza umana, luoghi all’interno dei quali l’uomo vaga senza una reale motivazione e nei quali è destinato a perdersi. Otre a Oscar Isaac, il film consta della partecipazione di giovani promesse e antiche glorie: Carey Mulligan, Justin Timberlake, Stark Sands, John Goodman e F. Murray Abraham. Fondamentale l’apporto tecnico: curata dal francese Bruno Delbonnel, la fotografia fonde i marroni ai verdi e si contraddistingue per i colori essenzialmente desaturati. Essi ben rendono la generale apatia dei personaggi, a partire dal protagonista, e il grigiore di un esistenza “naufragata”. Ineccepibile la regia dei Coen che alterna campi medi a campi lunghi: Llewyn appare proiettato in uno spazio nel quale emerge come un outsider, solo, all’inizio e alla fine del racconto. La colonna sonora è perlopiù formata da pezzi tradizionali, a cui si aggiungono brani di Bob Dylan (Farewell), A.P. Carter (The Storms Are On The Ocean) e Tom Paxton (The Last Thing On My Mind). Llewyn Davis, il moderno Odisseo del folk If I had wings like Noah's dove, I'd fly the river to the one I love, Fare thee well, my honey, fare thee well. […] Remember one evening, it was drizzlin' rain, And in my heart, I felt an achin' pain, Fare thee well, my honey, fare thee well. Un microfono, una voce, un cantante e una canzone. La sua vita intera racchiusa in pochi versi. Si coglie la stanchezza nei suoi occhi… e la sua profonda disillusione. Un addio? O il desiderio di ricominciare da capo? Non danno risposte i fratelli Coen. Tornati alla regia dopo circa tre anni (dall’esperienza de Il Grinta), i Coen decidono di ispirarsi liberamente alla vita e alla carriera del cantante folk Dave Von Ronk, attivo negli anni Sessanta. Llewyn Davis è un cantante folk che cerca disperatamente di affermarsi sul piano professionale. Non ha un lavoro stabile e si paga da vivere suonando saltuariamente in alcuni locali del Greenwich Village. Ha realizzato in passato un disco in duo con Mike, suo partner musicale, che successivamente si è suicidato gettandosi da un ponte. Il suo recente album da solista non vende ed è costretto a chiedere ospitalità ai suoi amici pur di dormire. Un giorno gli si presenta la possibilità di recarsi a Chicago per fare un’audizione di fronte a Bud Grossman. Magnificamente interpretato da Oscar Isaac, Llewyn Davis è chiaramente un moderno Odisseo, alla ricerca della propria strada e del proprio ruolo nel mondo della musica. Un antieroe per eccellenza, che presenta tutti i tratti di ciò che gli antichi Greci definivano Αμηχανία, ovvero la mancanza di decisione e di intraprendenza che muova i personaggi all’azione. Non solo incontra molti e ripetuti ostacoli sul suo cammino, ma forse non è affatto mosso dal desiderio di successo. Llewyn è indeciso, accumula un fallimento dietro l’altro: eppure non sembra più importargli molto di tutto ciò. Subisce passivamente i suoi insuccessi professionali ed affettivi: “perdente” lo definisce la sua intima amica Jean, che molto probabilmente ha messo incinta. Perdente perché non vuole conformarsi ad un mercato nel quale si richiedono canzoni “smielate” Presentato al Festival di Cannes, il film è stato premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria. Da molti salutato come summa della poetica coeniana, il film costituisce l’opera più compiuta dei due registi statunitensi: è un affresco della fragilità umana, in cui l’individuo si libera delle proprie certezze per lasciarsi condurre dal corso degli eventi verso un ignoto noto, che sancisce definitivamente il fallimento delle iniziative umane. Fare thee well, my honey, fare thee well. LUCA ZAMMITO 20 AH² Atomo: Ironia Simbolo: AH² Configurazione: sonoro ghigno sibilante Descrizione: difficilmente isolabile in laboratorio. Approfittando della risata, entra nel cavo orale veicolando sostanze chimiche illegali. Conseguenze possibili sono leggerezza ed euforia. Ariete – 21 Marzo - 20 Aprile Verso dicembre entrerai nell’adolescenza e ne uscirai a 67 anni. Toro – 21 Aprile - 20 Maggio Ritroverai una vecchia lastra medica e scoprirai di avere nello stomaco il libretto di istruzioni del cervello. Gemelli – 21 Maggio – 21 Giugno Durante una festa vomiterai tutta la tua padronanza lessicale insieme a un po’ di tequila. E non sarà mai più come prima. Ah, niente cozze il 24 agosto. Cancro – 22 Giugno – 22 Luglio Verso settembre, per un improvviso mal di gola, ti verrà quella voce sensuale da Duffy Duck che fa innamorare. Per l’inverno comincia a consultare il manuale del Fluimucil. Leone – 23 Luglio – 23 Agosto Troverai la tua anima gemella alle poste, sportello ritiro pensioni. Vergine – 23 Agosto – 22 Settembre Verrete reclutati come attori di una soap opera e dovrete fare il morto cattivo. Bilancia – 23 Settembre – 22 Ottobre Il tuo partner scoprirà che hai scritto su “Cioè” una lettera per suggerirti cosa dire in caso di litigio. Ma ormai le avrai già raccontato la balla più idiota del cosmo. Scorpione – 23 Ottobre – 22 Novembre Ti bocceranno a catechismo. Non c’è una laurea per esorcisti, cambia indirizzo. Sagittario – 23 Novembre – 21 Dicembre In realtà non sei del Sagittario. Nessuno è del Sagittario, controlla l’oroscopo del tuo ascendente. Capricorno – 22 Dicembre – 21 Gennaio Presterai il dvd de “Il Signore degli Anelli” a un ragazz , per poi scoprire che invece gli/le hai dato quello delle vacanze in montagna con tuo fratello, dove avete immortalato le vostre straordinarie gare di rutti. Nelle quali hai vinto tu. Acquario – 22 Gennaio – 19 Febbraio Verrai arrestato per simulazione d’intelligenza. Da lì in poi l’unica tua sicurezza nella vita sarà che i centri commerciali aprono alle 9 di mattina. Pesci – 20 Febbraio – 20 Marzo Scoprirai che tuo nonno è moderatore del blog Colla Per Dentiere. E ti innamorerai follemente di un membro di quel blog. DISTRESS CLUB 21 per il corpo oscillante della Littizzetto completamente abbandonato alla musica, e nella mente e nel cuore di ognuno fanno ritorno pensieri, sensazioni rimasti sepolti per troppo tempo. Sanremo e l'attesissimo ritorno E' da poco passata la mezzanotte al Teatro Ariston. Gli occhi accuratamente truccati delle dame ormai da tempo tristemente abbandonati alla stanchezza, riacquistano vitalità dopo aver avvertito il lieve indugio di Fazio nel presentare il prossimo ospite. Con una pronta gomitata all'uomo di turno assorto nei suoi dolci e forse un po' troppo rumorosi sospiri, ecco che il pubblico di Sanremo trattiene il fiato nell'attesa che le luci si abbassino. Accolto da un caloroso e sentito applauso, Yusuf Cat Stevens inizia a cullarci tra le corde della sua chitarra. Gli anni trascorsi hanno imbiancato barba e capelli ma la sua voce calda, immutata, sulle note di “Peace train” è felice di essere tornata a casa, nei cuori dei fans. La lunga assenza dal palcoscenico ha lasciato, dalla fine degli anni '70 al 2006 una implacabile nostalgia per coloro che hanno amato la sua musica sin dall'inizio. Prosegue l'esibizione con il pezzo “Maybe There's A World” agganciandoci fluentemente un omaggio ai Beatles cantando “All You Need Is Love”. Dopo un lungo applauso, un emozionato Fazio inizia la sua intervista domandando cosa lo abbia spinto a preferire il distacco dalla carriera discografica e il motivo del ritorno in scena. Anche io, da umile e recente fan di Cat Stevens ho affrontato il tardo orario, reduce da una stressante giornata scolastica, piacevolmente scossa da brividi interni ed esterni. Ancora mi sorprendo dell'influenza che la musica ha sulla nostra indole. E' con le lacrime agli occhi che gli spettatori congedano l'attesissimo e amato ospite, con un interminabile applauso e alzandosi una seconda volta in suo onore forse non ancora pronti per fare ritorno nel mondo attuale di dame e gentiluomini. GINGER R. Perché Sanremo è Sanremo! Sanremo è una rinomata cittadina ligure. È anche conosciuta come la città dei fiori. Ma prima di tutto ospita un festival. Il cantautore britannico racconta della sua necessità di imboccare una strada nuova, più tranquilla, trovata grazie al matrimonio da cui hanno poi avuto inizio nuovi interessi e impegni sociali. E' grazie a suo figlio che dal 2006 ha ripreso ad incidere. La conversione all'Islam negli anni '70, lo ha condotto a una valutazione più ampia riguardo il significato della religione che secondo lui dovrebbe essere principale ispirazione di amore e rispetto tra gli uomini. Ecco però che giunge il momento più atteso. Composta nel 1970, “Father and Son” racconta del rapporto tra padri e figli in un periodo in cui il contrasto era molto aspro. Con queste parole Cat Stevens è riuscito ad entrare nel cuore di giovani e adulti, concedendo uno spazio dove fosse possibile per tutti identificarsi e trovare comprensione. Non è solo il pubblico ad ascoltare, incantato ed emozionato, la voce del cantante scorrere tra le corde della fedele chitarra. In quei pochi minuti tutto rimane immobile, fatta eccezione Consiste in una competizione a livello nazionale di musica leggera. L’ultima edizione, terminata pochi giorni fa, è stata la sessantaquattresima. E’ stata trasmessa in Eurovisione e come ogni anno ha suscitato polemiche e commenti vari, niente di nuovo. Un tempo sul palco del teatro Ariston ci sono stati nomi come Carlo Giuffrè, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Loretta Goggi, Fiorello, Miguel Bosè, Raimondo Vianello, e tantissimi altri grandi della musica e dello spettacolo del nostro Paese, nomi che sono passati alla storia. Adesso il festival ha perso 22 molta della sua luce, e per quanto ogni anno tenti di guardarlo, per almeno venti minuti, al decimo cambio canale. Non voglio fare la solita inutile critica sulla qualità scadente della televisione italiana, vorrei solo piangere la tradizione ormai morta di uno dei simboli più grandi della nostra nazione; è come se ci avessero tolto la pizza, il mandolino, il Colosseo o la mafia (magari). Allora perché fargli mettere la Telecaster da parte, per rispolverarla solo in occasioni particolari? L'album, molto criticato per via di alcuni brani non inediti, è scritto in collaborazione con la storica EStreet Band e con l'aggiunta di Tom Morello, chitarrista che ha iniziato a suonare con Springsteen dall'ultimo tour in Australia: lo stesso Springsteen afferma che grazie anche alla partecipazione di Morello l'album è stato inciso così – a mio parere – molto rock. Tuttavia qualche critica questo album se la merita, poiché non è un album di soli inediti, e i brani rivisitati a volte sono stati migliorati, come nel caso di Down In The Hall, e altre volte peggiorati come The Ghost Of Tom Joad che, resa più rock dalla chitarra di Morello, diviene più movimentata e aggressiva dell'originale (a molti piace più così) che trasmetteva una sensazione di malinconia e quiete. Tutto sommato le aggiunte di Tom Morello, oltre ad un sound più rock, ci lasciano anche dei soli abbastanza neutri che non sempre ci coinvolgono a pieno. Ora come ora (e non sono io a dirlo ma le statistiche) la qualità del programma è nettamente scesa, e basti pensare agli ascolti da casa. Ma è molto di più, soprattutto se si ricorda che un dettaglio così importante dei nostri costumi è stato presentato da Belen Rodriguez e la sua farfallina (stendiamo un infinito velo pietoso), non solo perché è una showgirl da quattro soldi (a questo punto avrei preferito Alessia Marcuzzi, il che è tutto dire), ma perché la sua volgarità ha fatto smettere al, diciamo, 7/8% degli Italiani di seguire la trasmissione, o forse perché anche quest’anno a condurre sono stati Fazio e la Littizzetto, e dopo i primi venti minuti di risate, sono usciti su Internet le dichiarazione di quanto sono stati pagati (non lo voglio scrivere, magari qualche lettore del giornale è debole di cuore). Io dico: ma perché? Insomma non che non sappia che in prima serata sulla Rai si prendano tonnellate di soldi, ma perlomeno non “spiattellatelo” sulla rete come se ne andaste fieri, per – chiamiamola così salvaguardia del proprio buon senso. Ok, ho finito di fare il solito discorsone su quanto vada a rotoli questo Paese, voglio solo concludere, ricordando a chi magari non lo sa, che hanno scoperto che alcuni Italiani si mangiano le scatolette del cibo per gatti perché ricorda la Simmenthal. L' album ha sicuramente dei leggeri punti deboli che, però, non mettono in discussione la genialità di Springsteen che, dopo quarant'anni di attività, ci continua a far ascoltare nuove canzoni di notevole bellezza, non tanto per la “main track”, High Hopes la quale, pur dovendo rappresentare l'intero album, non stupisce se non per un ritmo e una melodia orecchiabili e molto pop, ma per tre-quattro brani in particolare American Skin (41 Shots), sette minuti e venti veramente coinvolgenti, Just Like Fire Would, The Wall, in cui il pregevole solo di tromba calza a pennello con il pezzo, e Dream Baby Dream, ultimo brano dell'album ma anche uno dei più belli. Forse non è l'album più riuscito di Springsteen, ma comunque consiglio di ascoltarlo tutto, anche più di una volta perché è pieno di brani interessanti. Certo, sono gusti, ma sicuramente il “Boss” ha ancora qualcosa da farci ascoltare. SOFIA ZOLLO High Hopes Diciottesimo album in studio di Bruce Springsteen. Nonostante l’età prossima alla pensione, il “Boss” ha confezionato un album degno di nota, con diverse tracce che forse non verranno ricordate come Born To Run o The River, ma comunque saranno ricordate. RAFFAELE VENTURA 23 parte della sua carriera e che lui è stato in grado di affrontare, rialzandosi sempre dopo ogni caduta come fa un vero combattente: non lo hanno fermato né la rottura completa del crociato, né un incidente con un’ automobile mentre si allenava in bici, anzi in ambedue le occasioni era tornato più forte e volenteroso di prima. Ma la vita gli serbava un destino crudele: e quel pubblico che tanto lo adorava lo abbandonò nel momento in cui forse Marco ne avrebbe avuto più bisogno. Il 5 giugno del 1999 a Madonna di Campiglio il pirata si apprestava a vincere il suo secondo Giro d’Italia ma dopo un controllo anti-doping venne sospeso dalla corsa solo per avere nel sangue un tasso di ematocrito superiore dell’1% al livello consentito. Non era quindi dopato come i giornalisti tuonarono i giorni successivi mettendo in cattiva luce davanti all’opinione pubblica una persona di cui solo qualche ora prima celebravano le gesta. Aveva soltanto una concentrazione di globuli rossi elevata, come la possono avere tutti, e la sua esclusione venne realizzata in base a regolamenti sportivi introdotti a tutela dei corridori. Quindi, i giudici impedirono a Pantani di correre solo perché rischiava di rimetterci la pelle, non perché avesse assunto sostanze che avevano alterato le sue prestazioni. Per il pirata fu la fine. Non tornò più quello di un tempo. Probabilmente fu questa la sua effettiva data di morte. Il pirata in bicicletta Il 14 marzo del 2004 moriva all’età di 34 anni, se non il più grande ciclista italiano, sicuramente il più amato dal pubblico: Marco Pantani. Era il giorno di San Valentino, festa degli innamorati e quello tra Marco e la bicicletta fu amore a prima vista. Un amore che lo accompagnò per tutta la vita fin dalle prime pedalate nei tornei interregionali alle vittorie al Tour de France e al Giro d’Italia, nelle tappe più difficili che il panorama ciclistico possa offrire, che lo portarono nello stesso anno a trionfare nella classifica generale delle due corse, impresa che era riuscita solamente a due giganti del ciclismo: Eddy Merckx e Fausto Coppi. Non una cosa da comuni mortali, una cosa da campioni. E Marco lo era, indubbiamente. Scalatore puro, volto segnato dal dolore e da una sofferenza che poteva terminare solo al raggiungimento del traguardo, stile di corsa unico caratterizzato da una capacità di rompere gli schemi che sorprendeva avversari e pubblico, il pirata rappresentava l’immagine di un ciclismo pulito in un sistema oramai corrotto e falsato dal doping. E per questo era adorato dal pubblico che davanti allo schermo si immedesimava nella sua figura e insieme a lui sopportava le fatiche, le sue fatiche, quelle dovute allo scalare più velocemente degli altri una pendice montuosa. E lui non lo deludeva mai il pubblico, trovando sempre nel fondo di un barile, ormai vuoto, quell’energia impensabile e indispensabile per staccare negli ultimi metri i suoi avversari ormai attaccati al manubrio, come se fosse una croce nel deserto, e per vincere in solitaria la tappa nel clamore della folla che lo attendeva al traguardo e nello stupore dei giornalisti che osannavano il suo immenso talento. Pantani era ammirato anche per la sua sfortuna, quella malasorte che lo ha tormentato per buona Cadde nella depressione e nella dipendenza. L’atleta che si era dimostrato così invincibile e forte in montagna era allo stesso tempo una persona fragile e triste. Il 14 febbraio del 2004 venne ritrovato morto in una stanza d’albergo, probabilmente suicida. Oggi dopo 10 anni dalla sua scomparsa vogliamo ricordare quello straordinario ciclista che infiammò i cuori di sportivi di tutto il mondo e non, suscitando in loro momenti di gioia e, per noi Italiani, attimi nei quali è bello riconoscersi. MARCO CILONA 24 possa concepire. “Non c’è Pogblema” parlando di Pogba, “RecuPepera” parlando di Pepe. Sono giusto due esempi, ma da soli hanno fatto un centinaio di vittime solo in Italia. Per non parlare della sezione Calciomercato, lì si superano. Leggendola vengono i brividi: Messi alla Juve, Ronaldo alla Juve, Maradona alla Juve… a sentire loro ogni estate la Juve ha preso più giocatori del Paris Saint-Germain che ormai compra pure i raccattapalle. Lei cosa ne pensa, Malesani? Ah è vero, mi deve scusare. Mi dimentico sempre. Non bisogna disturbarlo, perché lui lavora 24 ore cazo, ma cos’è diventato il calcio, una giungla cazo? Mi perdoni ancora Malesani, so che l’impegno di portare in B il suo Sassuolo la tiene sempre occupato. Certo, la società sassolese proprio non la capisco: fanno il mercato di gennaio per Di Francesco e poi lo esonerano. Un po’ come se Letta, Presidente del Consiglio PD, venisse sfiduciato dallo stesso PD… come dite? E’ appena successo? Considerazioni di calcio giocato e non Molti accusano il calcio di indecenza, inutilità, e spesso addirittura pericolosità sociale. Giorni fa ho avuto modo di rifletterci, e ho concluso che forse sarebbe più corretto rivolgere questi aggettivi non al calcio in sé, ma a chi lo commenta. E provate a dire che non sale il crimine quando si ascoltano certi servizi su Premium o Sky. L’altra sera, dopo la vittoria del Torino sul Verona, è stato intervistato un giocatore granata: per rendere l’idea, sembrava che stessero interrogando un quartino sull’uso del futuro perfetto. Sul serio, spaventa certe volte vedere come i calciatori non sembrino conoscere l’uso della parola, tranne al momento di tirare giù fino all’ultimo vescovo medievale quando sono in campo. Alla fine, l’unico concetto articolato che si è riusciti a estrapolare è stato, in poche parole, che il Toro quest’anno lotta fondamentalmente per la salvezza, poi forse dopo i 40 punti si vedrà. Allora prendi per il culo, ho pensato. Sta in una squadra con CerciImmobile in attacco, in zona Europa, e mi vengono a dire che lottano per la salvezza? Allora Conte che dovrebbe dire? Che con 63 punti e a +9 sulla Roma l’obiettivo stagionale è l’Europa League? Già meditavo di cambiare canale, poi l’intervista è finita e hanno spostato l’inquadratura sullo studio. La scritta sullo sfondo che commentava la vittoria del Toro è stata la mazzata finale. “TORO DA (RI)MONTA”. 29 euro al mese per farsi rovinare le serate da un titolista. Ma dove li prendono, mi chiedo io. Qual è il requisito per diventare titolista di Premium o Sky, la licenza elementare? Oppure basta avere un senso dell’umorismo così pessimo che non ti prendono neanche per scrivere le barzellette di Geronimo Stilton? Comunque bisogna ammetterlo, in generale questo problema non ce l’hanno solo le emittenti televisive. E’ mai capitato che vi cadesse l’occhio su una pagina di Tuttosport? Siete anche sopravvissuti senza danni? A parte gli scherzi, prendiamola a ridere. In un giornale il titolista è una persona il cui compito è solo mettere buoni titoli agli articoli, ed è bello che i titolisti di Tuttosport si impegnino al massimo per tirare fuori quelli più ridicoli che un cervello umano Buongiorno Tosel! Qual è la sua opinione in proposito? Ah, squalificherà la curva del Sassuolo per i prossimi sei turni? Mi pare più che giusto, questa è chiara discriminazione nei confronti dei pescaresi come Eusebio. Meno male che c’è lei, sempre fermo nelle sue decisioni. Lei non si ferma davanti a nessuno, farebbe chiudere anche le curve dei circuiti di Formula 1 pur di fare bene il suo lavoro. Come concludere bene questo articolo? Liechtsteiner suggerisce del Tavernello invecchiato 10 anni, ma siccome non vogliamo esagerare ci limiteremo alle pagelle della partita del Manara giocata lunedì scorso. Nicotra 6: un voto per ogni gol preso. Nonostante ciò, il giovane portiere si mette in mostra con diverse parate ed è già nel mirino di parecchie squadre di serie A. E in quello dell’AK-47 di mister Castiglione. Manni Jr. 6--: le marcature sulla fascia non sono il suo forte e si vede. I contrasti persi con De Nigris non gli vanno giù e ha già mandato un avvertimento alla sua famiglia. 25 Tesse 6: un solo cartellino giallo in 90 minuti è una media di tutto rispetto per lui. Si guadagna la fascia di capitano giocando un match di grande solidità e grinta, tutta concentrata sulle caviglie degli avversari. Manni Sr. 6: in difesa ricorda molto Bonucci, infatti al fischio finale alza istintivamente le braccia al cielo per aver preso l’over 6.5. Ortame 6: nella costruzione del gioco è più macchinoso di Ibrahimovic mentre apre una cassaforte; nel complesso comunque buona gara, per lui due malleoli avversari in omaggio. Pallottini 7: lotta su ogni pallone e mette tanta corsa. Peccato che i diretti marcatori fossero alti più o meno il doppio di lui. Sagliocco 6: sfodera la solita tecnica di ipnotizzazione degli avversari con lo sguardo, ma con De Nigris gli va male e perde conoscenza per una trentina di minuti. Sagnotti 6,5: fa valere il fisico e la grinta, ma ha la precisione di Cassano a un compito di letteratura latina. Briotti 6,5: un’accesa discussione con l’arbitro in dialetto di Tor Bella Monaca gli costa il giallo, per il resto partita di spessore. A Sky partono già gli accostamenti a Pirlo e Vidal. Patrone 7: come faremmo senza. Che si vinca o si perda segna sempre lui, e quello segnato oggi è un gol da vero attaccante in stile Inzaghi, ossia da ben dieci centimetri dalla linea di porta. Dalla Pria 6,5: ha ancora sullo stomaco la peperonata della sera prima, ma fa comunque sfoggio di classe con un paio di colpi di tacco e l’assist per il gol di Patrone. Dopo metà del secondo tempo si accorge che deve correre dall’altra parte, ma è troppo tardi e tira avanti fino al 90’ grazie al defibrillatore. Di Serafino 6-: il suo ingresso nella ripresa fa aumentare del 15% la quantità di capelli in campo, ma non basta. Non una buona partita per lui, troppa poca convinzione negli inserimenti e nelle entrate a gambe unite da dietro. Gentile 6: neanche la tecnica brasileira risolleva le sorti della gara. Partita di cattiveria la sua, certo, ma ci si aspettava almeno una ventina di colpi di tacco in più. Castiglione 3: la sua riconferma in panchina non dà per niente gli esiti sperati: il 4-5-1 con Dalla Pria unica punta è stato dichiarato illegale in 75 paesi. Meglio tornare a fare gli esercizi di allungamento in palestra. Giordano n.c. : non classificato. Non gli basta fare da guardialinee credendo che l’arbitro lo guardi sul serio: riesce anche a sfogare tutta la sua ignoranza repressa sulla povera Lucciola. E' uscito da poco Sei per la Sardegna, un libro di sei racconti, scritti da sei bravi scrittori sardi, che costa sei cucuzze. Sappiate che quei soldi serviranno a finanziare la ricostruzione della piazza di Bitti, bellissimo paesino nel cuore della Sardegna, che sta lottando per risorgere dopo l'alluvione di qualche mese fa. Compratelo, è scritto bene, con il cuore che solo un sardo può avere per la sua terra. IACOPO GIORDANO 26 COMPONIMENTI CREATIVI 27 “Parole Che Contano” (II) e quindi a negare il gioco artistico alla maggior parte delle persone. Per chi conduce un tale gioco (l’artista) e per chi se ne lascia guidare (lo spettatore), esso avrà tanto più valore (sarà tanto più un gioco, e tanto più artistico) quanto meglio versati entrambi saranno nella tradizione e nei suoi canoni, che vengono utilizzati in modo creativo e quindi anche in parte violati e reinventati, ma sempre e comunque presupposti. (Ci richiamiamo così a un senso della parola “arte” antecedente al Romanticismo e non distinto da quello di “artigianato”: l’artista è un sapiente e raffinato artefice, la cui occasionale originalità è resa possibile dalla sua sicura padronanza di un ben preciso vocabolario compositivo – così come si possono combinare in modo davvero nuovo le parole di una lingua solo se la si conosce a fondo). Arte: Sfera di attività che consentono di allargare l’ambito del nostro gioco percettivo aprendolo alla libertà e alla bellezza, in costante comunicazione con altri che partecipano (sia pur in misura più ridotta) allo stesso gioco. In età adulta, rappresenta per molti un’area in cui è ancora possibile un comportamento ludico (alla pari del sesso, con cui peraltro ha frequenti e articolati legami); quindi non possiamo che guardarla in generale con favore. Stigmatizzando però una serie di errori e menzogne che ne snaturano la funzione e il significato. Primo, le attività artistiche vengono regolarmente cristallizzate in particolari oggetti, che acquistano spesso un notevole valore di mercato e sono quindi depositati in collezioni private o pubbliche, protetti da barriere, meccaniche e complicati sistemi di allarme ed esposti con grande riguardo (il che vuol dire anche: in misura assai limitata) alla percezione dei visitatori. (Per l’arte fatta di suoni o di movimenti, la stessa situazione viene riproposta in termini di speciali eventi: concerti, spettacoli teatrali o di danza). È dunque importante insistere che (come nel caso della cultura) non si dà arte se non c’è attività e se questa attività non ha un carattere ludico. Il concetto stesso di oggetto artistico è frutto di un’indebita astrazione: per trattare d’arte in modo concreto dobbiamo invece concentrarci sui contesti in cui si fa dell’arte, e di solito i musei non sono fra questi (né lo sono i teatri in cui hanno luogo fedeli ripetizioni di antichi riti). Secondo, rimirare in un quadro di Klee o ascoltare una sonata di Beethoven non ci metterà in contatto con l’arte se la nostra esperienza non sarà almeno simile a quella di Klee o di Beethoven: se non saremo in grado, guidati da loro, di sovvertire le nostre abitudini visive e uditive e quindi trovare sollievo in una nuova forma di ricezione e di comprensione. L’artista non va isolato dal suo pubblico e quest’ultimo non va concepito come puramente passivo: senza un comune coinvolgimento, senza comunicazione, non c’è arte di sorta. (Con ciò non si vuole escludere il gioco percettivo privato, né si vuole escludere che un praticante di tale gioco “incompreso” in vita possa diventare occasione di coinvolgimento comune dopo la sua morte; ma si afferma che solo allora è un artista – prima lo era, al massimo, in senso potenziale). Terzo, non è possibile partecipare ad esperienze artistiche senza un’opportuna educazione. L’idea che esistano doti innate (il genio per l’artista, il gusto per lo spettatore) che permettono la produzione o la fruizione artistica senza mediazioni è un’ulteriore fandonia tesa a tracciare una netta divisione tra quanti sono “portati” per l’arte e quanti non lo sono – Attenzione: Il modello di attenzione favorito da ogni meccanismo di potere è quello di un militare sull’Attenti!: il destinatario passivo di ordini formulati con assoluto rigore, che non lasciano spazio all’inventiva o all’improvvisazione ma vanni fedelmente recepiti ed eseguiti. Questo modello si estende a tutti i casi di indottrinamento, incluse molte forme di educazione in una scuola: l’insegnante comunica le informazioni richieste dal programma e gli studenti, attenti come soldati a un’adunata, prendono appunti, li imparano a memoria e li rigurgitano alla prossimo interrogazione o verifica scritta. Un resoconto accurato di tali informazioni comporterà un giudizio positivo sullo studente e lo stesso schema comportamentale continuerà a dominarlo al termine della scuola: in quanto individuo ben integrato in società, ci si aspetterà che faccia attenzione a quanto dicono (e soprattutto a quanto comandano) i suoi superiori, che si concentri sui compiti da loro assegnati e li esigua con successo – cioè in perfetta corrispondenza con le loro istruzioni. Freud parla di un’attenzione fluttuante, tipico dello psicanalista nel corso di una seduta: egli non si concentra su nulla in particolare, non cerca nulla di specifico, ma è pronto a cogliere un dettaglio suggestivo in qualunque momento o contesto di presenti. Questa forma di attenzione ribalta il modello di sopra volgendolo a scopi a esso opposti: non si tratta più di seguire con cura quel che un altro vuole dire, ossia una parte limitata e dichiaratamente significativa del suo essere, ma tutto questo essere, incluso tutto quanto egli non vuole dire (o fare). Mentre l’attenzione grata al potere è convergente e finalizzata e intende generare ripetizioni e conferme, l’attenzione fluttuante è divergente e disinteressata, è una forma di gioco e genera spesso assolute novità – almeno per la coscienza (ufficiale) dei partecipanti. Freud afferma che uno psicanalista deve farsi pagare 28 salato; altrimenti non si libererà mai dei suoi pazienti. Noi pensiamo invece che l’attenzione fluttuante vada a sua volta liberata da questo legame incestuoso con il mercato ed estesa a tutti i membri della nostra comunità. Che a ciascuno di essi dobbiamo prestare, nei limiti del possibile, la stessa cura spensierata e insieme profondamente recettiva, per coglierne ogni vibrazione dell’anima, per far tesoro di ogni suo implicito suggerimento. opposte sulle stesse entità: il mio picchiare un pugno sul tavolo è ovviamente un’azione, ed è un’esperienza in quanto mi insegna qualcosa sulla solidità del tavolo; un desiderio è ovviamente un’esperienza (mi si impone senza alcuna collaborazione da parte mia; segnala in me la presenza di qualcosa di estraneo), ed è un’azione (almeno potenziale) in quanto mi spinge immediatamente a adeguare il mondo a quanto desidero. (Usiamo “esperienza” anche per indicare la totalità di queste particolari esperienze: la vita intera in quanto progressiva apertura alla diversità). Azione: O atto. Secondo il modello corrente, un’azione è un’unità di comportamento volontario o intenzionale, una struttura integrata di mosse che è frutto di una scelta e per cui si è considerati responsabili. Più precisamente, si ritiene che ogni azione risulti da un’applicazione del sillogismo pratico: io voglio A, so che fare B è condizione sufficiente (e talvolta anche necessaria) per ottenere A, dunque faccio B. (Per esempio: voglio sfuggire al freddo, so che accendere la stufa è condizione sufficiente per sfuggire al freddo, dunque accendo la stufa). Il fondamento di questa tesi è una concezione intellettualistica dell’essere umano, che lo vede come gerarchicamente organizzato. La mente (o anima, o spirito)comanda e il corpo esegue – coerentemente con il modello aristotelico della saggezza. Per noi invece la mente è la sede del gioco per procura che usa il linguaggio e il pensiero e che, lungi dal confermare quel che faccio quando opero “sul serio”, ha l’effetto di metterlo in discussione e stesso di sovvertirlo. Le mie azioni si inquadrano invece nelle attività che hanno temporaneamente acquisito il controllo del mio corpo (che temporaneamente lo definiscono come tale); il fine di ciascuna di esse non è altro che la prosecuzione di una particolare attività. (Quando mi alzo e mi dirigo verso una stufa sono le mie abitudini casalinghe che prendono il sopravvento e mi conducono per tracciati familiari). Ne segue che non c’è distinzione di sostanza ma solo di grado fra comportamento volontario e involontario: un mio comportamento (o, che per noi è lo stesso, una mia azione) sarà tanto più espressione della mia volontà quante più attività ho “incorporato” e quanto meno dunque sono costretto a seguire l’unica strada che conosco. Così, in definitiva, il gioco linguistico e riflessivo può davvero favorire lo sviluppo della mia volontà e anche influire sulle mie azioni, non assumendone però direttamente la guida ma contribuendo in modo indiretto all’arricchimento della mie possibilità operative. Dato lo stretto rapporto che esiste per noi fra attività e passività (è più attivo chi meglio sa ascoltare), ci è naturale considerare ogni azione anche dal punto di vista di quel che per suo tramite un’attività (cioè una forma) ha appreso dalle altre. Diciamo allora che la si vede come un’esperienza. Azioni ed esperienze sono dunque prospettive ARIA Castelli di sabbia Fragili castelli di sabbia riposano al sole; poi, vengono sommersi, sconfitti dalle onde. Due foglie di un albero autunnale rabbrividiscono alle carezze del vento, ma vicine si fanno coraggio. Così siamo io e te, che sulla spiaggia umida, su una sdraio, aspettiamo l'alba. ELISABETTA TORTORA Io e te …e poi ci sei tu. Tu che sei la persona che vorrei essere, tu che sei la vita che vorrei vivere, tu che sei l’anima a cui vorrei appartenere, tu che sei tutto ciò di bello che ho. Tu sei tu, e non c’è niente di meglio al mondo. Anzi sì, c’è. Ci siamo io e te. BAGNATA DA UNA PIOGGIA DI PAROLE 29 palpebre felice: si sentiva cullata dal torpore e dall’impalpabile calore che proveniva dai raggi del sole. Si prospettava una giornata splendente. Con le dita affusolate tirò fuori dalla credenza la scatola che conteneva il caffè. – Certo che con le mani si possono fare tante belle cose -. Con un cucchiaino mise la moka nella caffettiera che subito dopo pose su un fornello acceso. – Ad esempio, con le mani, la mattina, si può fare il caffè, elemento strettamente necessario nella routine quotidiana -. Si sedette di nuovo e si osservò i piedi dai quali erano appena scivolate le pantofole. – Che bella giornata, oh sì, è veramente un’ottima giornata, non credi? - Si sentiva un’allegra bambina a cui avevano appena regalato un gelato al cioccolato con doppia panna più grande di lei. Sul viso le si dipinse un sorrisetto malizioso e dolce allo stesso tempo – Le mani ci distinguono dagli animali -. Un fischio le rammentò di aver dimenticato il caffè sul fuoco; riempì la tazza con la scura bevanda vaporosa. – Goduria. Senza mani non si avrebbe la possibilità di gustare questo nettare divino – soddisfatta, si deliziò della colata lavica che le fluiva nella gola risvegliando le sue percezioni offuscate. – Insomma, giusto dal fatto che so di avere delle mani, so di non essere un gatto -. Fissò il fondo della tazzina sovrappensiero: si perse tra nuvole di zucchero filato tessute da ragni e da equazioni di rime stese su lettini da spiaggia. – Sicuramente sarei un meraviglioso micio sornione, enorme e paffuto, con lunghi e vibranti baffi, polpastrelli a forma di fagiolo e occhi stretti come fessure -. Sapeva che era un giorno speciale, ma un giorno per essere tale doveva essere antitetico al giorno precedente, altrimenti dove mai sarebbe potuto risiedere il fattore eccezionalità? – L’uomo ha creato grandi opere con le mani. È riuscito a sopravvivere contro le ostilità di una natura primordiale, a superare le asperità e a costruire la cosiddetta civiltà. La mani sono magiche. Con le mani posso toccare, posso mangiare, posso scrivere, posso difendermi -. Qual era però il fattore squallore/disperazione che aveva caratterizzato il giorno precedente? Non se lo ricordava proprio. Una nebbiolina si stava addensando tra i seni paranasali (consultare un libro di anatomia onde non inceppare in mal interpretazioni). Aleggiava intenso questo fumo che non dava alcun segno di volersi dissipare. Scrollò le spalle. – Oh le mani! Che non siano più trascurate ingiustamente! - Si passò il pollice sulle unghie laccate di nero. – Le mani si sono stufate di Dal piacere La tua felpa ha il tuo odore addosso. Che strano, penso, ormai la sto indossando da molte ore e non dovrei farci più caso. Così piano la odoro, odoro te che profumi di pelle calda e ruvida e dei tuoi capelli in cui mi piace annodarmici le dita, e le tue labbra, che cristo, cosa sono le tue labbra! La cosa più sexy, calda, bagnata, liscia e meravigliosa che abbia mai visto. Non riesco a staccarmici. Forse è per questo che un solo tuo bacio, o solo le tue labbra che sfiorano una minima parte di me mi fanno salire i brividi e mi imputtanano il cervello… così ripenso a prima, a quel bacio durato dieci fulminei minuti, in cui le tue mani arrivavano dappertutto e la tua lingua parlava da sola. Lì che ti sentivo accaldato, eccitato, ai miei morsi e al tocco delle mie mani, ecco lì avrei voluto assecondare i Guns’n’roses che cantavano “live and die”, e giuro che sarei voluta morire lì, dal piacere nella tua macchina, con quel fottuto lampione che dava fastidio e l’ansia di risalire a casa sennò mia madre mi ci appendeva, a quel maledetto lampione. Ma noi no, eravamo così avvinghiati, così uniti, un unico corpo, un’unica lingua, un’unica voglia. È strano con te, è tutto così eccitante e vivo, è tutto così nuovo e assolutamente inaspettato. E neanche voluto. Fosse per me mi risparmierei tutta questa storia, ma tu sei così… caldo. E mi trasmetti calore, sempre, anche quando te la prendi con i miei capelli perché hai voglia di fare l’amore con me ma non possiamo. Bè, ti dirò una cosa. Noi l’amore lo facciamo anche con i vestiti. P.S. ho ancora i brividi. Le mani Si svegliò. Era perfino quasi riposata. Buttò fuori dal letto le sottili gambe diafane e si grattò la testa con gli occhi ancora pieni di sonno. Rimase ferma così, seduta sul bordo del letto, con le gambe penzoloni, a scrutare nel buio della stanza. Se fosse stata un bel gattone avrebbe emesso un miagolio compiaciuto accompagnato da una profusione di fusa. Con i piedi cercò le pantofole evitando abilmente qualsiasi tipo di contatto con la superficie gelida del pavimento. Si stiracchiò e finalmente trascinò la sua esile figurina fino alla cucina. Camminava in maniera singolare, con passi felpati alternati a un passo strascicato, mentre si teneva tra le mani quella gonfia massa di capelli corvini. Alzò leggermente le serrande per lasciar filtrare giusto un filo di luce. Dopodiché si sedette nella penombra della cucina avvolta da una silenziosa atmosfera di sospensione. Strizzò le 30 essere relegate in secondo piano quando la loro funzione è primaria -. Si strinse abbracciandosi le spalle, poi costeggiò tremolante le clavicole sporgenti, scivolò sui delicati seni, veleggiò con i palmi la morbida seta della camicia da notte e infine sfiorò l’orlo di pizzo. – La mani sono speciali. Il tatto è una sensazione paradisiaca. Si dice che le mani detengano una memoria più radicata e profonda di quella mentale. Una memoria a sé stante -. Si fissò ammiccante le mani, quelle magiche manine che il giorno prima, con determinazione, si erano strette sul collo di quell’orribile uomo. uno e, con grande sorpresa di Arnolphe, non si rizzò nervosamente su se stesso; anzi, parve quasi accasciarsi, sfranto, mentre fissava l’uomo, steso davanti a lui. Arnolphe si incantò un attimo su quello sguardo: cominciava a leggerci delusione, frustrazione, abbrutimento e stanchezza; per un attimo, ebbe la sensazione di comprendere lo stato d’animo del mostro, e sentì quasi compassione. Non che questo migliorasse il suo senso di claustrofobia, però. Arnolphe si trovò costretto a richiudere gli occhi, e si rese conto - non senza spavento - che la sua mente vagava per conto proprio: ormai, stava impazzendo. Arnolphe vide chiaramente se stesso alzarsi, camminare e uscire dalla porta. Si vide però, che con gli altri sensi si sentiva ancora dentro il proprio letto. Vagava nei corridoi del proprio palazzo, all’inizio barcollando, un po’ perché accecato dalla luce, un po’ perché non riusciva a poggiare i piedi e le mani da nessuna parte. I muri e il pavimento mancavano al suo tatto: erano solo vista, nulla di più. Poi pian piano cominciò ad abituarsi sia alla luce che allo spazio, e a non barcollare più; anzi, sentì una forte sensazione di libertà, cominciò a respirare a pieni polmoni, godette della luce, del poter guardare, sfiorare, toccare qualsiasi cosa senza aver timore di trovare la tela fetida del ragno. Poi, vagando, arrivò sino alla porta in fondo al corridoio, quella che portava all’unica finestra della casa. Aveva la strana sensazione che i suoi vestiti gli si stessero appiccicando sulla pelle. Toccò il pomello, e gli sembrò, liscio, lucido, vischioso, ruvido, liscio, lucido… Guardò la porta: ebbe una sensazione profonda, intensa, davanti a quella; una sensazione che capiva nel sogno, ma che non avrebbe potuto spiegarsi da vivo; una sensazione così forte da scaldargli l’addome. Aprì la porta, e si trovò sommerso da una luce forte, che sapeva di aria fresca, di vita; la luce lo accecò, lo pungolò. Arnolphe fece qualche passo, sentì il braccio sinistro bruciargli. Ma quella luce sapeva di vita... Andò avanti, voleva raggiungerla, non importa quanto gli bruciasse il braccio. O no? La luce... Ma il dolore al braccio era intenso. La stanza della finestra, piena di luce... La stanza... La stanza. Buia. Il suo braccio. Due denti nel suo braccio. Il sangue. La bestia beveva il suo sangue… Arnolphe gridò. Prese a dimenarsi. Si scosse. Si scosse… Aprì gli occhi. Non capiva dov’era: nella stanza piena di luce? Nella tana del ragno? Il suo braccio! Arnolphe si guardò il bracciò. Era stato veramente morso? Non riusciva a capire nemmeno quello. Si girò nelle coperte. Si sentiva ora avvolto, poi oppresso, poi di nuovo avvolto. Ma lo sapeva. Sì, ormai l’aveva capito, ci si era rassegnato, non poteva farci niente: stava impazzendo. FELIX La Tana del Ragno Parte terza Si svegliò. La prima cosa che sentì fu nausea. Poi insieme a questa vennero i ricordi. Arnolphe cercò di ricacciare giù entrambi - sia nausea che memoria ma stava pian piano riacquistando sempre più lucidità, e tutto ciò che era successo poco prima riaffiorava alla mente; e per quanto si sforzasse, per quanto volesse con tutto se stesso rifuggire nel sonno, non ci riuscì; ed aprì gli occhi. E, alla vista dell’aracnide poco sopra la sua testa, gli balzò il cuore in gola. Dormiva tuttavia: gonfiava l’addome in maniera regolare, ma un po’ forzata, ritmica come un uomo che si ferma dopo aver corso. E nel buio, gli sembrava quasi che il ragno fosse molto più vicino, e il soffitto molto più basso. Accese un lume e capì meglio: la tela del ragno si era ingrandita parecchio; questi probabilmente l’aveva tessuta freneticamente come per marcare il proprio territorio di contro all’invasore umano, e poi si era assopito sfinito. La nausea di Arnolphe non migliorò di certo. Questi da una parte sentiva il bisogno di scappare, di uscire via, di prendere aria fresca; tuttavia era troppo atterrito dal disgusto e dal terrore, e non riuscì a muoversi: per un arco di tempo che sembrò un eternità, rimase fermo, immobile, ad aspettare, timoroso persino di respirare troppo forte. Il puzzo della tela ormai riempiva l’aria, la rendeva pesante, fetida, opprimente, e il buio sembrava così denso da potersi toccare. Arnolphe ogni tanto aveva giramenti, si sentiva mancare o cominciava a vedere offuscato: gli pareva quasi di vedere la camera diventare man mano sempre più angusta, e il corpo del ragno gonfiarsi fino a riempirla tutta. Poi ore dopo - o forse solo minuti, Arnolphe non l’avrebbe saputo dire - il ragno si svegliò. Aprì gli occhi, lentamente, uno ad 31 escluso lo zio Oliviero, sapevo leggere e scrivere ed ero laureato. Ero considerato un po’ scherzosamente l’intellettuale del gruppo e mi chiamarono “Corsivo” per la mia calligrafia quando provavo, senza successo alcuno, a insegnar loro a scrivere. Un altro soprannome me lo diede Squarcio che mi chiamava “Vinello”, ricordandosi della prima sera che avevo bevuto con loro e che ero andato a letto un po’ barcollante. La meravigliosa e trista storia di poeti, scrittori e impavidi briganti Sommario del precedente episodio: abbiamo narrato di come Fausto Corsetti conosce la banda di briganti che lo ha tratto in salvo e di come codeste canaglie scapestrate hanno poi portato il nostro scrittore nella loro tana, un antico casale immerso nel verde della foresta. Altro che vita da briganti! Ma, dal profondo della cantina odorosa di prosciutti e botti di vino, sale, ad un certo punto, il famigerato Tredici, assassino della peggior specie e anche funesto zio dell’impaurito Fausto. Parte quarta “Figlio mio!” pronunziò ancora Oliviero con la voce rotta dal pianto. “Ho avuto informazioni su di te dal mio caro Cassio, dopo che ho saputo dell’esito del processo”. Mentre mi allontanavo dal suo abbraccio, mio zio, o forse dovrei chiamarlo solamente Tredici, mi raccontò che Cassio Ciurmini era riuscito a far allontanare il mio padrone per farmi fuggire. “E il piano ha funzionato alla perfezione, vedo! Bravo Tauro, bravi i miei ragazzi!”. Continuò così a raccontarmi della sua doppia vita, della banda che aveva formato dieci anni orsono. “A guisa di combatter li signori!” esclamò Tauro nel suo inconfondibile accento ispanico. Quel pomeriggio ricompensò tutte le sofferenze che avevo passato negli ultimi anni. Non so esattamente se per la fame, per i discorsi con mio zio o per il prosciutto, il pane, il formaggio, le mozzarelle e l’uva, ma quella sera ebbe un non so che di magico. Bevemmo del buon vino rosso e ridemmo di gusto quando Cassio faceva le imitazioni dei cardinali, mettendosi il fiasco sopra la testa. Ma il meglio doveva ancora venire: un letto, sistemato solo per me, mi aspettava in una delle stanze della mansarda. Quella notte dormii sonni tranquilli dopo più di due anni interi. Sognai di esser re di un mondo lontano, portatore di giustizia e dignità scacciando la prepotenza, la tracotanza e la corruzione. Quel sogno meraviglioso mi accompagnò per tutto il corso delle stelle. Il giorno seguente raccontai tutto ai miei compagni di avventura che rimasero ammutoliti per tutto il tempo che parlai. Forse mi credettero pazzo perché da quel giorno, 19 Agosto dopo anni di prigionia e schiavitù, entrai a far parte della banda di Tredici. Divenni amico di tutti, anche di Squarcio che inizialmente si era mostrato diffidente nei miei confronti. Ero apprezzato per le mie idee e perché ero strettamente utile alla banda. A differenza di tutti, Bevevamo tutti un po’ troppo in quei tempi. Il mio rapporto con Tredici era molto particolare. Se quando vivevo con lui, da ragazzo, mi trattava come un figlio, adesso, nonostante l’età che ci separava, aveva incominciato a trattarmi come un fratello. Dopo due settimane della mia entrata nella banda, mi mostrarono il sotterraneo della casa. Fu uno spettacolo imprevisto: oltre a fucili e pistole c’era una quantità innumerevole di dipinti. Tredici amava il mestiere di mio padre e ogni volta che faceva razzie rubava tutti i dipinti e le altre opere d’arte che trovava. Accostato ad una parete c’era uno scaffale dove erano contenute piccole statue in oro e argento, anelli bellissimi, collane e pietre preziose. Capii che da quel momento Tauro, Cassio, Squarcio e Tredici si fidavano completamente di me. Nella banda avevamo dei ruoli precisi. Tredici gestiva le operazioni più pericolose, realizzando i piani da attuare. Tauro e Squarcio erano ottimi guerrieri. Sapevano usare pistole e fucili ed erano imbattibili nel corpo a corpo. Cassio, invece, era un uomo molto 32 abile nel parlare e aveva importanti conoscenze, gestendo i contatti con le altre bande. Io dovevo scrivere lettere false per organizzare incontri e imboscate, dove il nobile o il governatore finiva per morire con una pallottola nel petto. Ero terrorizzato, ma non avevo tempo per pensare. Quando passò Andrea con il suo seguito, mi accorsi che non erano una decina ma molti di più, circa quaranta. La mia missione era chiara. Dovevo con massimo due colpi fare fuori il governatore. Stavo appostato dietro una grande quercia, con la pistola nella destra. Prima di lanciarmi, mi raggiunse Tauro che mi disse “Non preoccuparti, Corsivo! Punta alla testa e chiudi gli occhi! Al resto penseremo noi!”. Ancora più spaventato, guardai un’ultima volta il cielo che si lasciava intravedere tra gli alberi radi e infine balzai fuori dal groviglio di rami e foglie, senza farmi sentire. Percorsi pochi metri correndo a perdifiato per la foresta e poi mi sistemai al lato del sentiero, dietro il mio ultimo albero. Potevo sentire la corteccia foderata di muschio che mi accarezzava la schiena. La mia vittima spuntò da dietro la curva. L’arrogante guidava quel piccolo drappello. Mi girai violentemente, feci tre passi in mezzo al sentiero sotto gli occhi pesanti dei miei compagni e delle guardie. “Che fai tu, ragazzaccio?” mi rivolse il governatore con aria di superbia. Tirai fuori la pistola che nascondevo dietro la schiena e la puntai alla testa del corrotto. Tenni gli occhi aperti e vidi i servitori che mettevano mano alle spade. Alla fine schiacciai il grilletto. Niente. Pian piano, in un solo anno dalla mia entrata nella banda, riuscimmo a derubare e a uccidere un numero incredibile di “porchi potenti”, come li chiamava Tredici. Ma io sapevo in cuor mio che, a differenza degli altri, non ero un vero brigante. Infatti non uccisi mai nessuno e non avrei sicuramente provato gusto nel farlo. Ma l’occasione non mancò. Dopo ben un lustro dalla mia liberazione, Cassio disse a mio zio di dirigerci nei pressi della città per dare una lezione ad Andrea del Castello, uno tra i più corrotti e spietati governatori del regno, che pretendeva delle imposte altissime dai suoi contadini e che sembrava impassibile di fronte alle nostre azioni. La nostra preda, nel pomeriggio di un buio giorno di autunno inoltrato, doveva passare, accompagnato da una decina di guardie, presso un sentiero che portava alla chiesa del suo villaggio, per incontrare il vescovo. Sin dal mattino ci appostammo in attesa, nel bosco a nord della traccia. Poi mi fu dato l’ordine da Tredici di andare con Squarcio e Tauro su di una collina da dove potevamo controllare se arrivava il governatore. Lui e Cassio sarebbero rimasti vicini al sentiero, nascosti dietro un groviglio di rami e foglie. Appena passava Andrea del Castello e la sua compagnia, dovevamo scendere velocemente e raggiungere i nostri due compagni. Così fu. Lo vedemmo passare dopo circa due ore di vedetta. Rapidissimi scendemmo giù, da Tredici. Quel giorno mi era stato dato l’incarico da Squarcio, sotto consiglio di Tredici, di sparare per la prima volta e di farlo per uccidere. GIAN MARIA GHERARDI GUIDO PANZANO 33 StirredZone Presenta : RAIN + T.I.R. + WHISPERZ + LADY REAPER Live @ Closer Sabato 8 Marzo i Lady Reaper, band manariota per eccellenza, festeggeranno le donne al Closer (via Vacuna 98, zona Tiburtina)! Apriremo la serata ai Rain, band heavy metal italiana formatasi negli anni ’80!!! Portate le vostre donne e festeggiate con loro con questa grande serata di caos, birra e vero metal! Per i più duri suoneremo anche il 9 Marzo sempre al Closer ma accompagnati da band dell’underground musicale romano (MUSHDER + PENTADREAM + D.S.A + LADY REAPER @CLOSER 9.3.14) Per info potete rivolgervi a Berardo Di Mattia o Gabriele Grippa (IIIB) o andare sulla pagina FB dei Lady Reaper!!!! 34 35 36