Il rock’n’roll ha dato corpo a quel crescente sentimento di esuberanza e liberazione che pervadeva gli adolescenti del dopoguerra, e ha dimostrato che i ragazzi non erano più dei semplici oggetti in attesa di quella morte prolungata che è l’età adulta. Il glam ha sdoganato il sesso in tutte le sue molteplici varianti. Il punk ha cristallizzato le frustrazioni seguite alla libertà, e fatto sbattere il muso al sistema contro i suoi schifosi fallimenti. E il gothic ha spezzato le catene dello spirito e liberato l’anima. Titolo originale dell’opera: The Dark Reign Of Gothic Rock - In the Reptile House with The Sisters Of Mercy, Bauhaus and The Cure © 2002 Dave Thompson Prima edizione inglese pubblicata da Helter Skelter nel 2002 Copyright © 2010 A.SE.FI. Editoriale Srl - Via dell’Aprica, 8 - Milano www.tsunamiedizioni.com Prima edizione Tsunami Edizioni, giugno 2010 Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl Le Tempeste 4 Direttore Editoriale Eugenio Monti Traduzione: Giorgio Costa Redazione: Massimo Baroni Progetto copertina: Marco Fantin - Blue Ant Design, Milano Finito di stampare nel giugno 2010 dalla Gesp - Città di Castello (PG) ISBN: 978-88-96131-16-9 Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. L’autore vorrebbe ringraziare Bleddyn Butcher e Mick Mercer per il loro preziosissimo e inestimabile aiuto. Chiunque fosse interessato a scoprire qualcosa di più sul mondo del goth, e soprattutto chiunque volesse vedere un sacco di fotografie di gruppi goth, deve visitare l’eccellente sito internet di Mick: www.mickmercer.com. Grazie per l’aiuto speciale con il materiale iconografico anche a Richard Strange (www.richardstrange.com) e Stephen Wilkin (www.dharmajester.com). Dave Thompson Gothic Rock Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure e l’epopea oscura della musica inglese Traduzione di Giorgio Costa Indice Introduzione................................................................................................. 7 Parte Prima - I figli di Dostoevskij Capitolo uno Dum Dum Boys... and Girls........................................................................ 19 Capitolo due Vi ricordate Ridolph Hess?.......................................................................... 35 Capitolo tre Non intendo guardare una band di gente truccata...................................... 51 Capitolo quattro Sei tu il cantante che ha gli attacchi epilettici?............................................ 67 Capitolo cinque I Velvet in odore di santità? O gli Sweet andati a male?.............................. 85 Capitolo sei Era piuttosto divertente essere così seriosi.................................................... 99 Parte seconda - Liberare i pipistrelli? - 1982 - 1984 Capitolo sette Liberando i pipistrelli............................................................................... 115 Capitolo otto Floorshow: la morte con le pareti............................................................... 135 Capitolo nove Young Limbs and Numb Hymns................................................................ 149 Parte terza - Si è spento il cielo - 1986 - 2002 Capitolo dieci Mi sarei ammazzato se non fosse stato per gli Alarm................................. 169 Capitolo undici Partito in missione per vendetta................................................................ 185 Capitolo dodici Non sto dicendo che Dylan sia bravo come Picasso.................................... 199 Capitolo tredici 50 macchine, un cuore nero....................................................................... 213 Capitolo quattordici Va tutto in pezzi........................................................................................ 229 Capitolo quindici Friday I’m in... cosa?................................................................................. 247 Capitolo sedici Date alla gente quello che vuole................................................................ 259 Epilogo...................................................................................................... 273 Il Diario Oscuro........................................................................................ 279 Introduzione Cos’è il dark rock? Questa è una buona domanda. Non è, in effetti, uno di quei termini a cui fanno continuamente riferimento gli storici del rock; non è il punk, il glam, il rockabilly o la psichedelia, anche se nel dark rock ci sono elementi di tutti e quattro questi generi. Non è neppure il gothic, l’industrial, l’ethereal o l’horror rock, nonostante anche loro recitino una parte importante in questa storia. Il dark rock è come un ombrello sotto il quale possiamo collocare gran parte di quelle rock band britanniche venute fuori dalle prime fiammate punk di fine anni Settanta, che però, traendo impeto e ispirazione da molto più lontano, riuscirono a diffondere il proprio messaggio in modo ancora più ampio. Chi avrebbe pensato, guardando la distorta immagine “glam dall’oltretomba” dei Bauhaus, che un giorno Marilyn Manson, mantenendo pressappoco lo stesso aspetto, sarebbe arrivato a toccare quasi il cuore dell’America? Chi avrebbe detto che le mutazioni dei Southern Death Cult, dall’intensità tribale alla follia dell’hard rock, si sarebbero trasformate nell’edonismo calcolato dei Guns n’Roses? Che i suoni dei Sisters of Mercy, eredità dei Suicide, avrebbero generato la cacofonia nichilista dei Nine Inch Nails? O che la forma musicale di quelle band di pionieri, a vent’anni dalla nascita, una volta raggiunto il picco e apparentemente anche la fine, sarebbe rimasta del tutto vitale, benché non direttamente riconducibile ai suoi stessi fondatori. I goth di oggi, vestiti di nero, con le facce imbrattate dal bianco del cerone, macabri individui dell’oltretomba, per i quali Bela continua a essere “undead”, hanno poco a che fare con il gothic rock che ebbe il suo battesimo nei primi incasinati anni dell’Inghilterra thatcheriana. Non c’entrano neppure con i “mercanti di rumore” industrial, e con il frastuono che questi ancora producono ai confini estremi del mainstream; né tantomeno con le band Brit-pop fiorite a metà degli anni Novanta, o con chi ancora oggi lavora dietro la stessa scomoda etichetta musicale che già era stata di Bauhaus e soci. Essi hanno poco in comune con questo passato, nonostante ne siano debitori. E tuttavia, proprio rifiutando di ammettere (o di riconoscere) questo debito, perpetuano l’impulso creativo che lanciò le band di allora ai primi posti in classifica: il bisogno di continuare a spingersi più in là senza mai guardarsi indietro. Ci sono sempre stati più Bauhaus che Bowie negli Suede, e questo potrebbe essere proprio il motivo per cui Brett Anderson ha sempre smentito i media che insistentemente lo indicavano come un nuovo e più magro “Duca Bianco”. 7 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure I Gene hanno avuto in comune con i Joy Division tanto quanto con i sempre più citati Smiths e Morrisey; e, per quanto riguarda i Pulp, le loro credenziali dark rock risalgono all’origine di questa forma musicale. Il loro album d’esordio, It, raccoglie le caratteristiche più eccentriche di tutto il periodo. E questo lo dico prima che vi ricordiate che uno dei vecchi membri della band, il giovane Simon Hinkler, più tardi si unì ai Mission. Il dark rock si trova dappertutto e in quasi tutto, ma questo libro non vuole spiegare dove andarlo a cercare oggi e nemmeno a quali evoluzioni sia giunto. Verrà qui invece raccontato quel particolare momento in cui un tentacolo della “piovra” post punk britannica smise di fluttuare sopra la sua testa e andò a scavare nell’antro più oscuro, per contemplare... qualunque cosa fosse. Certi pensieri sono davvero di chiara tendenza “gothic”: Mrs. Radcliffe, Edgar Allan Poe, Mary Shelley, Alice Cooper e Sir Francis Dashwood, sono tutti archetipi gotici, e ciascuno di loro ha recitato una parte in questo spettacolo. Ma altri ci sono finiti dentro rimbalzando da aree contigue: il sesso deviato, l’arte dada, l’umorismo malato, la letteratura filosofica, Andy Warhol, Agatha Christie, il Dottor Who e Vincent Price; e questo è solo l’antipasto. È stato un periodo... una decade... cominciata con il punk che rompeva le catene liberando espressione e determinazione; poi il genere si è arrovellato all’ombra di Siouxsie and the Banshees, dei Joy Division e dei Doctors of Madness; è uscito alla luce del giorno con i Bauhaus, i Cure e i Sisters of Mercy; ed è esploso come iper-culto con gli Specimen, gli Alien Sex Fiend e i Sex Gang Children, prima che si compisse il suo destino nelle arene d’America con i Cult, i Mission e i Love And Rockets, discendenti diretti, rispettivamente, dei tribali Southern Death Cult, dei “classici” smobilitati Sisters, e, con geometrica circolarità, dei “Bela’s boys” Bauhaus. Ma è stato anche un periodo in cui parecchie band si sono rese conto che, a volte, non era fondamentale ciò che facevano o dicevano, dal momento che il pubblico si creava una propria idea a prescindere. Già nel 1982, ciò che qui definiamo “dark rock” veniva soprannominato “gothic rock” e Steve Severin, bassista dei Siouxsie and the Banshees, si fa portavoce di tutte le band quando dichiara: “Nel periodo in cui la ‘creatura’ gothic si sviluppava tutto intorno a noi, facevamo qualcosa di completamente diverso da ciò che la gente avrebbe voluto”. Sotto la pressante richiesta del pubblico, questo qualcosa si sarebbe però rapidamente modificato, con risultati a volte fatali. “Il termine ‘gothic’ stava sempre lì” si lamentava Peter Murphy “e di sicuro alla fine ci siamo trovati a suonare per mantenere la nostra reputazione. Questo è il vero motivo per cui i Bauhaus non sono durati molto. Eravamo carichi di energia, ma quando è arrivato il momento di fermarci a riflettere su quello che stavamo facendo, abbiamo capito che stavamo solo strizzando l’occhio al pubblico, o meglio, a ciò che ci immaginavamo volesse il pubblico”. Il pubblico gothic. Certe popolari “storie della musica” – ovvero quei pesanti tomi allineati sugli scaffali delle librerie che recano titoli con espressioni tipo “enciclopedia del rock” 8 e l'epopea oscura della musica inglese – descrivono il gothic come uno stile di abbigliamento caratterizzato dal trionfo del nero, dei lacci e del fondotinta, mentre il gothic rock non sarebbe null’altro che un movimento musicale sviluppatosi in Gran Bretagna intorno alla fine degli anni Settanta, una tra le numerose forme di vita nate dall’esplosione della coscienza punk. Più avanti in questo libro scoprirete come questo genere musicale fiorì e prosperò dapprima nelle zone marginali del mainstream, per tre anni circa, fino a quando una nuova moda non arrivò a rimpiazzarlo costringendolo a ripiombare nell’underground, e come infine venne fagocitato, all’inizio degli anni Novanta, dalla rivoluzione industrial noise, facendosi così strada nel panorama musicale degli Stati Uniti. Proseguendo nella lettura apprenderete come questo genere, dopo essere cresciuto rigoglioso per qualche anno, venne linciato dall’isteria nazionale in seguito alla pesantissima campagna mediatica sviluppatasi intorno alla tragedia della sparatoria in un liceo americano verso la fine dello scorso decennio. I killer si vestivano di nero e non andavano d’accordo con i fighetti palestrati. Nei loro siti c’erano citazioni di Crowley e Manson (Charlie, non Marilyn) e suonavano in band chiamate “Cryptic Corpsefuckers” facendo le prove in garage. Davanti all’isteria fomentata dai media (ce n’è forse di altro tipo?) “goth” è diventato sinonimo di “psicopatico figlio di puttana”; i veri goth stavano disegnando faccine sorridenti sulle loro cripte ancor prima che i titoli dei giornali invadessero le strade. Tutto questo è probabilmente vero e volendo potremmo anche finirla qui. Come il glam prima e il baggy in seguito, il gothic rock non era nient’altro che l’ennesimo piatto singulto che la scena pop britannica riusciva a produrre... dopotutto, contemporaneamente al momento d’oro del gothic, c’erano in giro altre meteore tipo il power pop, il 2-tone, il mod, l’oi! e i futuristi; e tutti questi dove sono andati a finire? A rimpinguare gli scaffali delle “ristampe inutili”; immaginatevi il proprietario dell’ennesimo negozio di dischi che apre una scatola di Cd rimasterizzati dei Leyton Buzzards, domandandosi chi diavolo lo ha convinto di poterli vendere. Immaginatevi di sostiuire i Buzzards con uno qualsiasi dei grandi sopravvissuti del “goth” – Sex Gang Children, Fields of the Nephilim, Ghost Dance, Alien Sex Fiend – e il risultato non cambierà di una virgola. Eppure il gothic, come si confà a un genere nato dalle stesse suggestioni che poi finisce per sposare, non ha mai sottoposto se stesso a un’analisi attenta che risulterebbe assai poco dignitosa. Esistono infatti due differenti tipologie di movimenti musicali: quelli creati dai media, dalla musica, dalla pura forza della personalità; e quelli che sono esistiti da sempre, semplicemente in attesa del momento in cui zeitgeist propizio e contesto storico si uniscono alla forza dell’ambizione. Nella prima categoria possono essere riuniti tutti i movimenti che all’epoca hanno condiviso la ribalta con il gothic rock, chi più chi meno sotto i riflettori. Nella seconda, se ne possono collocare al massimo quattro: 9 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure Il rock’n’roll di Elvis e Bill Haley, che ha dato forma al fermento e all’esuberante desiderio di libertà dei teenager del dopoguerra, e ha dimostrato che i ragazzi non erano solamente meri oggetti in attesa della morte lenta che arriva con l’età adulta. Il punk, che ha portato alla luce le frustrazioni che quella stessa libertà aveva generato, e ha schiaffato sul muso dell’establishment tutti i suoi assurdi fallimenti. Il glam che in tutte le sue molteplici sfaccettature ha liberato il sesso dagli scantinati nascosti e dai gabinetti pubblici imbrattati di graffiti in cui era confinato, costringendo la società finalmente a prendere atto e ad accettare sperimentazioni e stravaganze. E il gothic, che ha tolto le catene allo spirito e ha liberato l’anima. Cercare di tracciare gli antecedenti musicali dei primi tre movimenti è tutto sommato semplice. Fondamentalmente il rock’n’roll si è evoluto dall’R&B, che a sua volta traeva origine dal blues. Il glam è più giovane, ma solo di poco. In realtà, i suoi principi fondativi erano già in fase di elaborazione nelle sale da ballo dell’Inghilterra vittoriana, e avrebbero poi preso forma nei cabaret della Germania di Weimar. Il punk è ancora più giovane, tuttavia era sicuramente nell’aria almeno un decennio prima che i Sex Pistols sparassero i primi colpi, lo si intuiva dalle grida metropolitane dei Velvet Underground e nello sproloquio nichilista degli Stooges. Lungo ciascuna di queste linee di discendenza, si possono individuare i dischi, i gruppi, e gli eventi che in ultima analisi hanno influenzato le cose che si sarebbero sviluppate successivamente. Il gothic, invece, è un genere più “personale”. Dipende inoltre se si decide di approcciarlo in termini di performance, di attitudine o semplicemente da un punto di vista estetico. Per quanto riguarda l’arte, si potrebbe addirittura risalire alle tetre e decadenti opere di Salvator Rosa, il pittore italiano di panorami del XVII secolo, ma questo sarebbe un approccio troppo cervellotico e intellettuale. E anche nella musica, all’interno della tradizione classica, ci sono momenti sommamente gothic che hanno fatto da colonna sonora a non so quanti film. Dal punto di vista della canzone “popolare”, invece, le opzioni diminuiscono. Si parte con Leonard Cohen, l’originale “Duca della disperazione”, dai cui testi fuoriescono lame di rasoio e crocifissi: egli ha avuto peraltro il merito di aver dato il nome, con il titolo di uno dei suoi migliori pezzi, a una delle più grandi tra le cosiddette “gothic band”. Poi il produttore Joe Meek, le cui intime e laceranti superstizioni caratterizzavano il suo lavoro ancor prima che si legasse agli Screaming Lord Such (l’archetipo demoniaco del british rock), che certamente ha contribuito ad alcuni stereotipi del gothic. Il modo in cui nel 1960 venne registrata Johnny Remember Me dalla soapstar Johnny Leyton è l’esempio perfetto di opera profondamente melodrammatica e romantica, che sfrutta appieno la passione di quel periodo per le canzoni di morte e le convinzioni spirituali che accomunavano Meek e il cantautore Geoff Goddard; una pietra miliare sonora inzuppata di eco ed effetti speciali. 10 e l'epopea oscura della musica inglese Si dovrebbe anche riservare uno spazio ai King Crimson, il cui album di debutto del 1969, In The Court Of The Crimson King, un disco magnifico nel titolo e sublime nella struttura, con una cover dell’album che ricorda gli spiragli di luce delle cattedrali gotiche e che nel contenuto, a parte il miasma mutante di 21st Century Schizoid Man, fu pienamente all’altezza delle aspettative. Sicuramente si deve dare spazio a Nick Drake, quel giovane e geniale cantautore che ha gettato sulla sua musica un manto di tristezza capace di far incupire persino Ian Curtis, e se n’è andato dopo soli tre album splendidamente decadenti, troppo triste per vivere, troppo desideroso di morire. E poi anche Peter Hammill, l’originale frontman dei Van Der Graaf Generator, che con la sua carriera più che trentennale, da una parte completamente squilibrata e dall’altra sorprendentemente accademica, rappresenta una delle figure più rilevanti nello sviluppo di ciò che potremmo definire la corrente musicale protogothic degli anni Settanta. I quattro album solisti che realizzò prima della reunion dei Van Der Graaf nel 1975 – ovvero Chameleon In The Shadow Of Night (1972), The Silent Corner And The Empty Stage, In Camera (entrambi del 1974) e il precursore del punk Nadir’s Big Chance (1975) – abbondano di trame, concetti e temi che avrebbero avuto un’eco anche nel periodo successivo, anche se Hammill coltivava la convinzione che le sue paure fossero di natura umana e non divina, cosa che smorzò forse l’impatto del suo lavoro, paradossalmente nel momento in cui era giunto al suo apice. Se c’è una forma d’arte ossessionata dalla più dura realtà della vita (vale a dire la morte), ma che allo stesso tempo può venire accusata di evadere dalla realtà, quella è il gothic. La crescente influenza con cui disastri chimici e nucleari condizionavano Hammill nella creazione delle sue atmosfere, sia attraverso la contorta liturgia di Mediaevil, (“God lives in underground silos”), il commento bio-politico di Porton Down, o la fantascienza di Fogwalking (“...through what used to be Whitechapel”), lo ha allontanato dagli autentici figli che aveva nutrito nella decade precedente. Egli rimane un punto di riferimento, sebbene abbia fatto maledettamente di tutto per non esserlo. C’è spazio anche per la giovane Kate Bush, e per il suo singolo di debutto del 1978 Wuthering Heights. A parte il vantaggio di aver preso il tema generale dall’omonima affascinante saga di Emily Bronte, con storie di amore, morte e tradimento ambientate nell’inverno della brulla brughiera dello Yorkshire (finestre che si rompono, vento che soffia, e visite di spettri), Wuthering Heights è senza alcun dubbio un capolavoro gothic per quanto ciò possa sembrare strano. Le prime recensioni del fortunato esordio della diciannovenne, a conti fatti, non si sono tanto soffermate sulla spiritualità dei testi, che aumentavano la loro forza espressiva grazie alla presenza vocale quasi soprannaturale della stessa Bush. Si sono concentrate invece sulla disorientante originalità del disco, che secondo alcuni solo i cani e i delfini avrebbero potuto ascoltare, e sul nobile portamento di questa giovane teenager dall’aspetto maturo. Neppure il successo – il brano rimase per un mese in vetta alla classifica – mise a tacere i critici più accaniti. Ci 11 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure volle invece l’uscita del secondo album della Bush, Lionheart, per confermare il suo talento nel songrwriting, senza dubbio genuino e non solamente precoce. Solo allora i detrattori tornarono sui propri passi e compresero gli errori compiuti. Per gli ammiratori più ardenti della Bush, e in particolare di Wuthering Heights, tali considerazioni rimasero comunque del tutto irrilevanti. Inoltre, già da qualche anno, i Monty Python avevano dato nuova linfa a questo classico facendone una memorabile parodia televisiva, “Semaphore”, per la trovata dei due protagonisti che comunicano utilizzando le bandiere per le segnalazioni aeronautiche. Il fatto che la maggior parte del testo fosse scritto in maniera praticamente indecifrabile contribuiva in realtà a sottolineare il mistero della brughiera che pervadeva l’atmosfera, come se il vento spazzasse le parole dalla bocca della cantante, lasciando aleggiare al suo posto meri frammenti di sillabe. Ironia della sorte, quando dieci anni più tardi la Bush registrò di nuovo le voci del pezzo per la sua raccolta di hit The Whole Story, mostrò in effetti che il suo era stato davvero il lavoro di un’autrice giovane e ancora non del tutto formata. Nella versione originale, il desiderio molto naif di raccontare semplicemente una storia, sembra proprio quello che spronò la Bronte a scrivere e pubblicare l’unico romanzo della sua vita. La versione rivisitata non dice più nulla. Inoltre, è la stessa ingenua ragazza che cantava Wuthering Heights ad aver composto Hammer Horror, un tributo – o quantomeno un’elegia – ai famigerati studi cinematografici una volta considerati incredibilmente scadenti e poi divenuti un punto fisso nel palinsesto televisivo del venerdì sera. Hammer Horror, scritto intorno al 1976, e incluso nel nastro a cui Bushdom ora si riferisce come The Cathy Demos, riapparve su Lionheart e come terzo singolo della Bush. Il riferimento iniziale di Hammer Horror è a una delle tre versioni cinematografiche allora in circolazione del Gobbo di Notre Dame (Lon Chaney, 1923; Charles Laughton, 1939; e Anthony Quinn, 1957) – nessuna delle quali era inglese o una produzione Hammer – il pezzo ci fa respirare una piacevole aria di pericolo, semplicemente evocata dal nome di quegli studi tanto leggendari. Alla metà dei Settanta, dopotutto, quello stesso termine dava anche il nome a una specie di sottogenere cinematografico legato a film che erano quasi impossibili da vedere senza scoppiare a ridere. Per la prima volta la Bush, è lei stessa a dirlo con rammarico, dovette dormire con la luce accesa; ed era da molto tempo che gli appassionati della produzione dello studio provavano quella sconveniente sensazione, un sentimento con cui ognuno si poteva ancora identificare, come ha ammesso una volta Peter Murphy: “Prima che fossi abbastanza grande per non essere più così stupido, avevo sempre pensato che i film della Horror Hammer fossero davvero inquietanti”. Più tardi “avendoli rivisti”, li ha trovati “ridicoli”. Ma una cosa è certa, lui continua a guardarli. Tutti noi lo facciamo. Dall’inizio degli anni Ottanta poi, il gothic era già un termine familiare nel lessico dei critici del rock. Ma è importante ricordare che, sebbene molti comportamenti (e fattori) fossero gothici, essi non erano tuttavia goth. 12 e l'epopea oscura della musica inglese Infatti, nonostante questi precedenti di una certa rilevanza alle spalle, non è possibile individuare un momento preciso in cui il mondo si è svegliato e ha scoperto di avere il gothic rock ai piedi del letto; perciò nessuno, anche con tutta la buona volontà di questo mondo, può mettersi lì e scoprire con esattezza il giorno – o la settimana o il mese – in cui un pugno di band che avevano all’incirca gli stessi riferimenti musicali e/o visuali, si unirono improvvisamente diventando l’avanguardia di un nuovo movimento/fenomeno/carrozzone culturale. Potrebbe essere il 1982, all’incirca dopo quattro anni che gli autorevoli Joy Division e Siouxsie and the Banshees pubblicarono i primi vinili, ancor prima che qualsiasi band potesse scegliere consapevolmente di entrare nell’alveo del movimento gothic rock, o che gruppi tipo Specimen, Alien Sex Fiend e Sex Gang Children, la squadra che fece del locale London’s Batcave la propria dimora, si fossero già formati o si fossero dati da fare per portare quella forma alle sue logiche conclusioni. Per quanto riguarda le band che esistevano già da prima, alcuni fecero semplicemente spallucce e tirarono dritto per la propria strada, credendo di riuscire ad attraversare indenni la tempesta: “Quando è nata questa etichetta ed è diventata un’uniforme, con il vestito nero imposto a tutti... quello per me è stato un giorno triste”. Ha sentenziato con rammarico Steve Severin, il bassista dei Siouxsie and the Banshees. Altre band, più nervosamente, iniziarono a fare di tutto per sfuggire alla standardizzazione della nuova etichetta; altre ancora, per rimanere nel giochino delle categorizzazioni a tutti i costi, potrebbero forse rientrare meglio in etichette un po’ scontate come death rock, doom rock, post-glam, apocalyptic decadence, punk, e così via. Se infatti esaminate tutte le band della rete “gothic rock”, la sola cosa che può unirle tutte è il rifiuto di aderire ai dogmi del mainstream (anche dopo che questi dogmi sono diventati il mainstream stesso). Anche la supposizione che la loro scala di valori affondasse le sue radici nella morbosità (“depressi del cazzo”, nel vernacolo di quel tempo) crolla davanti all’esame più banale. Al contrario, i migliori di loro, sono sempre stati in realtà spiritosi allo stesso modo in cui erano spaventosi, sciocchi e allo stesso tempo drammatici, e prendevano forma tanto dai T-Rex quanto da Thanatos. Nondimeno dagli Alien Sex Fiend agli X-Mal Deutschland; dai Bauhaus ai Virgin Prunes; dai Cult ai Cure e, fugacemente, agli Ultravox e (per un momento molto breve ma squisitamente immortale) ai giovanissimi U2, il gothic rimane il modo più veloce e più semplice di riassumere un’intera scuola di pensiero musicale, e non importa quanto gli stessi musicisti si siano spinti lontano dagli originali precetti o come ora difendano guerrescamente questa loro scelta. “Penso che stai vivendo in un paesino sperduto se credi che Peter Murphy sia ancora un goth” ha tagliato corto il vecchio cantante dei Bauhaus in un’intervista americana nel 1995. “Ovviamente, immagino che tu sia un goth, ma è passato troppo tempo da allora e i miei album sono ascoltati da molte altre persone a 13 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure parte i cosiddetti goth. Penso che tu abbia veramente torto. Quando un artista ha un background e ha un pedigree, o se preferisci un passato che implichi tale definizione, è difficile per un giornalista rinunciare alla propria pigrizia mentale e arrivare realmente a capire che quel determinato disco è lontano, così come la sua rilevanza”. “Siccome io sono un po’ cretino, non dico mai ‘non parlerò dei Bauhaus’, e rimango così vittima di queste incomprensioni. Io sono molto conosciuto soprattutto per tre album, ma non per il mio primo, che qui non è mai stato pubblicato, ma per i miei tre album americani. Ho fatto molti tour da queste parti e sono stato adottato come Peter Murphy”. Così è stato. Ma a parte il giornalismo pigro, cosa dire dei fan pigri? Ancora oggi, durante il tour di supporto al suo magnifico album solista Dust nel maggio 2002, il pubblico di Murphy è composto da tanti “abitatori delle tenebre”, vestiti di nero, con la faccia imbiancata dal cerone, con le zanne, mascherati come fanno le coppiette metropolitane e i ragazzini di MTV. Per rincarare la dose, Murphy ha continuato, “i Sisters probabilmente erano la goth band per eccellenza, al limite potresti infilarci anche i Cure, solo che i Cure viaggiavano già prima del goth. Erano una band indie che ha continuato su un sentiero indie. Ma hanno contribuito a creare il suono che è diventato parte integrante di ciò che è stato chiamato ‘gothic’”. Anche questo è vero. Però Robert Smith dubita del fatto che i suoi fan più appariscenti siano anche i più numerosi. Proprio negli anni Novanta e anche successivamente, i Cure erano considerati una tra le band più popolari in America – Wish del 1992 è balzato al numero due in classifica, Wild Mood Swings del 1996 è entrato al dodicesimo posto, e Bloodflowers del 2000 al sedicesimo. Non ci sono abbastanza goth nell’intero pianeta per giustificare queste statistiche. Così, quando il New Musical Express ha descritto la band come “la quintessenza del goth con sfumature pop”, Smith ne è stato profondamente contrariato. “Non siamo una vera goth band, deludiamo l’audience in troppi modi”, disse, con il bassista Simmon Gallup che proseguiva, “La categoria del goth... c’era un nome, ‘goth’ e poi certi gruppi ci sono andati dietro, i Mission – Dio li benedica – i Sisters, i Fields of the Nephilim. Ma non potreste dire che Faith suona come First And Last And Always”. O no? Ecco cosa è in discussione qui: la “categoria del goth”, e gli stretti confini musicali che essa implica, opposta alla pura estetica di una mentalità gothic, all’interno della quale si muove il fenomeno complessivo del dark rock. Per molti aspetti, nello stesso modo in cui i primi osservatori e commentatori del punk erano tanto pronti ad abbracciare Ian Dury e Nick Lowe come lo erano ad abbracciare gli Adverts e i Sex Pistols, così l’originale forma mentale gothic si sviluppava in senso decisamente egualitario, felice di avvolgere nella sua oscurità una grande quantità di volonterosi peccatori. Ad ogni modo, considerato che lo sviluppo di una vera e propria “disciplina punk” alla fine ha virtualmente escluso 14 e l'epopea oscura della musica inglese tutte le band che all’inizio avevano suonato sotto quella etichetta (nessuno oggi definisce Costello il Dylan della New Wave), il goth non ha mai perso il contatto con i suoi progenitori. Il che vuol dire che se i reietti dello stile punk hanno semplicemente proseguito le loro carriere e raramente gli sono state rinfacciate le loro radici, i cosiddetti goth non sono mai stati in grado di scrollarsi di dosso il loro mantello. E questo, d’altro canto, ci spiega bene la grande ostilità con cui molti di loro vedono questa etichetta. Se uno chef rinomato avesse cotto gli hamburger da Wimpy appena lasciata la scuola, direste ancora che ha lavorato nel settore dei fast food? No. Se l’autore di Oliver Twist una volta avesse fatto il giornalista di cronaca nera per un giornale, lo chiamereste ancora un reporter di nera? No. E allora per quale motivo definireste ancora ‘goth’ un quarantacinquenne residente ad Ankara, creatore di un affascinante ibrido tra trance e worldbeat, che una volta ha scritto una canzone su un vampiro di Hollywood? Questa è una delle domande cui questo libro intende rispondere – o forse, più precisamente, è una delle questioni che questo libro intende mettere a fuoco. Le connotazioni del gothic rock sono peggiorative; i suoi confini sono restrittivi; la sua stessa esistenza, almeno tra gli artisti che lo hanno generato, è pedomorfica. Ma se presa nel suo pieno e più completo contesto, (il dark rock), non è né offensiva, né chiusa e neppure infantile. Piuttosto, essere accreditati tra i padri fondatori del movimento vuol dire essere raggruppati all’interno di una gerarchia che include Elvis Presley e i Beatles, i Pink Floyd e David Bowie, i Sex Pistols e i Nirvana, le più selezionate e rigidamente esclusive fila di musicisti che non solo hanno fondato una dinastia musicale (più o meno fugace), ma l’hanno anche riempita con una dose massiccia della loro personalità e della loro essenza, per cui non vi è alcuno che possa essere menzionato senza che si faccia loro riferimento, o giudicato con criteri che ne escludano la presenza. Forse il gothic rock è diventato una scemenza, stereotipato, e si è notevolmente involuto e deformato. Ma cosa pensate che sia successo al glam, al punk e allo stesso rock’n’roll? Sono addirittura rimasti a stento quelli originari. Ma sono sopravvissuti, non semplicemente per continuare a rimanere all’interno del mondo del rock moderno, ma per dare forma alle componenti fondamentali di qualsiasi cosa passi per musica rock oggi. Il gothic rock è un elemento vitale di questa struttura così come lo sono gli altri. Questa è la sua storia. 15 Parte Prima I figli di Dostoevskij Kid Strange dei Doctors Of Madness sul palco del Friars Club di Aylesbury, 1976 Capitolo Uno Dum Dum Boys... and Girls In cui Iggy “The Idiot” fa ritorno dall’orlo dell’abisso per rivelare il futuro a chiunque lo voglia vedere. I Doctors scoprono dove i ratti vanno a morire, i Last Days of Earth restano intrappolati in un disco, ed il movimento comincia a mischiarsi con la notte. “Quando è uscito, The Idiot è rimasto un mese intero nel mio giradischi”. Pete Murphy Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure I nizieremo con un ragazzo di nome Dave, semplicemente Dave, in parte perché si tratta di un nome facile da ricordare ma, soprattutto, perché è un nome che non è fondamentale che vi ricordiate. Vive a Leeds ma potrebbe essere ovunque. In qualche modo, però, Leeds sembra avere parecchio a che fare con ciò che seguirà, e non solo per ciò che riguarda la storia della musica. Leeds è una città goffa, piena di complessi e insicurezze, ma anche ricca di dinamismo e fiducia. Arroccata sul versante soleggiato dei monti Pennines, può essere un luogo deprimente, ma possiede anche una sua grandiosità, che le permette di sovrastare le città vicine (Bradford e Sheffield ad esempio) e andarsi a cercare altrove rivali e alleati. A volte indugia malinconica in direzione di Manchester, con i suoi sogni di Olimpiadi e di imprese titaniche, altre volte fissa intensamente le vaste brughiere dello Yorkshire, con i loro fantasmi, gli Heathcliff e i pullman pieni di turisti americani venuti a catturare qualche dettaglio “tempestoso” da far vedere agli amici una volta tornati a casa. Oppure si guarda dentro, in quel crogiolo di arte e ambizioni che da sempre hanno eletto le sue strade a propria dimora. Dave era uno studente lì, come tanti altri futuri animatori e fautori di movimenti e tendenze musicali - Andy Gill, Hugo Burnham e Jon King dei Gang of Four, Green Gartside degli Scritti Politti, Frank Tovey detto Fad Gadget, Marc Almond e Dave Ball dei Soft Cell, Andrew Eldritch dei Sisters of Mercy, e Simon Denbigh, fondatore dei March Violets. La maggior parte di loro ha poi coronato le proprie ambizioni accademiche. Dave, invece, ha abbandonato l’università prima dell’ultimo anno per perseguire il grandioso progetto di lavorare in un negozio di dischi. Vedete, lo conoscete già. Sapete anche perfettamente che tipo di musica metteva nel suo negozio nella primavera del 1977: punk rock, ovviamente. Ma presto si lasciò alle spalle il punk. Era acqua passata. Pompava già a tutto volume i Bizzarros e i Devo di Akron almeno un anno e mezzo prima che la Stiff iniziasse anche solo a promuoverli a Rubber City, Usa. Inoltre era solito terrorizzare gli studentelli di passaggio con i Residents di San Francisco quando Third Reich’n’Roll era ancora qualcosa di cui persino i critici più elitari avevano solo sentito parlare. E adorava Iggy Pop e gli Stooges quando solo i negozi di importazione più fighi di Londra tenevano i loro dischi. Bisogna ricordare che tutto ciò accadeva al tempo del vinile; per giunta proprio nel periodo in cui ci si stava riprendendo dalla crisi petrolifera e dalle carenze che essa aveva causato al cuore produttivo della industria musicale occidentale. Oggi basta che lo vogliate veramente, e arriva la major di turno con la sua mano fatata che libera da qualche scantinato freddo e polveroso un altro tesoro dimenticato, per di più rimasterizzato, con tanto di libretto e di solito arricchito con un buon numero di bonus track sconosciute. Venticinque anni fa, si doveva faticare per la musica che si voleva ascoltare veramente; per di più era necessario andare a bussare, a pregare, a implorare 20 e l'epopea oscura della musica inglese alla porta di qualsiasi negozio di dischi si riuscisse a trovare, nella speranza che qualcuno, da qualche parte, un giorno... Questo qualcuno era Dave. Certamente non poteva trovare tutto, tuttavia aveva un’abilità fuori dal comune nello scovare cose particolari nei luoghi più inaspettati. È andato a Londra a vedere il concerto solista di Peter Gabriel, ed è tornato a casa con l’autografo di Peter Hammill. Ha preso l’ordine di un cliente per l’album White Light White Heat dei Velvet, e ne ha trovato una stupefacente versione in mono in un mercatino delle pulci a Pontefract. Non era cool, non era alla moda, e sicuramente non era un punk rocker, almeno nel senso in cui credevano di esserlo gli altri. Certamente però conosceva la musica e coglieva spunti laddove altri semplicemente ascoltavano passivamente; il che ci riporta a Iggy Pop. All’inizio del 1977, Iggy Pop era una creatura leggendaria. Erano passati più o meno quattro anni da quando aveva finito il suo “ultimo” LP, Raw Power, prodotto da David Bowie; quattro anni durante i quali Pop era precipitato nel baratro continuando ad affondare – con l’unica eccezione, ad interrompere la crisi, di quel live finale postumo, di bassa qualità e dilaniato dalle contestazioni, che fu Metallic KO. Il tempo passava molto più lentamente a quell’epoca. Un album all’anno era la norma, due non era affatto inusuale. Persino le superstar di quel periodo, gli Stones, gli ex-Beatles, gli Zeppelin e i Genesis, accettavano quel ritmo e quelle scadenze e uscivano ogni anno; fare diversamente equivaleva ad un vero e proprio suicidio. È vero, gli Emerson, Lake & Palmer ci misero tre anni, ma durante uno erano in tour e negli altri due hanno fatto uscire un paio di singoli solisti parecchio sbandierati e reclamizzati. Si tratta di un ritmo decisamente agli antipodi rispetto a quello dei fannulloni viziati di oggi. Il silenzio severo, duro come la pietra e freddo, era invece territorio esclusivo solo dei morti o dei pazzi. All’inizio della sua leggenda Iggy Pop avrebbe potuto ben rappresentare entrambi questi archetipi. A quel punto però le cose hanno iniziato ad accadere. Se si scorrono i credits di Low di David Bowie, uscito in un inatteso tripudio nel gennaio del 1977, si scopre infatti che Iggy ha cantato i cori in un pezzo. In seguito lo stesso Bowie ha spiegato di aver trascinato il suo vecchio amico fuori da un ospedale psichiatrico per registrare solamente un singolo, ma che poi le sessioni si trasformarono in un intero disco. Venne chiamato The Idiot e sarebbe uscito il 12 marzo, una settimana dopo che il duo completasse il primo tour in assoluto di Iggy in Gran Bretagna. Si può tranquillamente sorvolare riguardo a quei concerti. Sono stati, evidentemente, magici. Ma la reputazione è un qualcosa di difficile da interpretare, soprattutto quando è ammantata proprio dalle vesti che ci si aspetta dovrebbe indossare. Per chiunque si fosse già procurato quei primi tre album dei leggendari Stooges (o anche chi non li aveva, ma ne conosceva le hit grazie alle cover dei Damned e dei Sex Pistols), buona parte di quei concerti erano familiari, e le tracce del nuovo 21 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure album erano l’ingrediente a sorpresa tra Raw Power e TV Eye. Solo che non c’era alcuna sorpresa, perché Iggy era il padrino del punk e aveva creato quel modo di suonare ben otto anni prima. Solo ora il resto del mondo lo aveva raggiunto, per cui le nuove canzoni erano belle rock, con grandi riff, e spaccavano come era sua abitudine. La prima avvisaglia che c’era qualcosa di realmente nuovo nell’aria arrivò sotto forma di un singolo, più o meno una settimana prima dell’uscita dell’album. E fu qualcosa di veramente originale. China Girl era già stata al centro dell’attenzione della stampa a causa di una frase del testo in cui Iggy diceva di avere svastiche per la testa e “un piano per tutti” – proprio mentre il National Front preparava la prima offensiva di quell’anno, andando nelle strade a fronteggiare l’Anti-Nazi League in costante crescita. Nonostante nessuno avesse mai dato del fascista a Iggy, il suo coproduttore, co-autore e amico Bowie era tutto un altro paio di maniche. Solo dodici mesi prima, infatti, era arrivato a Victoria Station con una camicia bruna e una Mercedes, e aveva deliziato la folla in attesa con un saluto romano modello Heil Hitler. Naturalmente era stato tutto un malinteso; stava semplicemente agitando il braccio proprio nel momento in cui l’obiettivo della macchina fotografica lo ha immortalato, e stava solo scherzando quando ha dichiarato che stava scrivendo un musical su Josef Goebbels, capo della propaganda di Hitler durante la guerra. In questo modo la maggior parte dello scandalo venne ridimensionata. Non completamente però, ed ora c’era lì China Girl che riportava l’attenzione su quelle controversie. Circostanza che in un certo senso era positiva, dal momento che tanto più tempo si sprecava a dissezionare il linguaggio, tanto minore era l’attenzione alla colonna sonora che lo avvolgeva; quel complesso ronzante, malvagio e opprimente che aveva meno in comune con le spille da balia di quanto lo avessero le macchine che lo avevano realizzato: grandi macchine martellanti che lavoravano incessantemente nella notte. No, con tutte quelle storie sulle svastiche nessuno ci ha minimamente fatto caso. The Idiot non offriva alcuna tregua né tanto meno lasciava alcun margine di interpretazione. I colleghi di Dave al negozio di dischi gliene lasciarono ascoltare non più di tre pezzi sullo stereo del negozio prima di sostituire Iggy con i suoi compagni di etichetta alla RCA, gli Hall & Oates. Quando all’ora di pranzo se n’era andata la ressa degli studenti, lui si era chiuso a mangiare nello stanzino dietro il negozio, con su le cuffie. E quando finalmente ne è venuto fuori, circa mezz’ora più tardi, era come Scrooge la sera di Natale, in attesa dei Natali passati dopo quello presente; solo che lui dopo aver visto il concerto si era aspettato gli Stooges, e invece aveva ottenuto il Natale futuro, otto canzoni in un colpo. “Dovete comprare questo disco”, continuava a ripetere, “e ascoltarlo ininterrottamente per una settimana. Perché se non lo fate voi, saranno molti altri a farlo. Se volete avere almeno una minima possibilità di capire dove le cose andranno a parare una volta che il punk sarà finito, dovete per forza sapere dove tutto ha avuto inizio”. E aveva ragione. Completamente. 22 e l'epopea oscura della musica inglese Oggi guardiamo indietro al 1977 e percepiamo la parabola del punk come se fosse un unico ruggito ininterrotto, dall’inizio alla fine. Festeggiando il suo venticinquesimo anniversario, la stampa musicale britannica si compiaceva allegramente di tutti gli orrori che la nuova musica aveva spazzato via. Nello speciale della rivista Q, Never Mind The Jubilee Punk Rock, si legge come “Nella settimana che finiva il 12 aprile 1975, la classifica dei singoli britannici era in uno stato di esilarante arretratezza. Al numero uno c’erano i Bay City Rollers. Gli Sweet erano immediatamente sotto di loro. Seguivano... i Guys And Dolls... i Goodies... Kenny... Mike Reid. E non era certo una situazione straordinaria”. Poi è arrivato il punk, e da lì in poi tutti abbiamo vissuto felici e contenti. Ma è proprio così? Esattamente due anni dopo (giorno più giorno meno) gli ABBA erano al numero uno. Il celebre protagonista di Starsky e Hutch, David Soul, era al numero due e dopo di lui c’erano i Manhattan Transfer... Boney M... Billy Ocean... Elvis Presley... e neanche quella era una situazione più di tanto straordinaria. Durante i primi mesi del 1977 band punk si formavano e facevano concerti senza soluzione di continuità. Ma se uno si voleva prendere un disco e ascoltarselo a casa, le opzioni si riducevano drasticamente. Il primo singolo dei Clash, quella vera e propria chiamata alle armi che fu White Riot, era appena uscito, Anarchy In The UK dei Sex Pistols era appena andato fuori catalogo; gli Stranglers stavano giusto abbandonando la top 50 con Grip, i Buzzcocks si apprestavano a battezzare il boom del “do it yourself ” con Spiral Scratch. È vero, i Damned e i Vibrators erano arrivati al loro secondo singolo e si poteva sempre guardare in direzione dell’America per i “botti” a venire. Ma persino il rastaman Don Letts, resident DJ in quella vera e propria mecca del punk che era il Roxy Club, metteva nelle sue serate una valanga di reggae e dub per le orde che vi si radunavano. Addirittura, uscendo da Londra, una buona metà delle band che si formavano secondo lo spirito di quel periodo non facevano musica emulando altre band che avevano ascoltato, ma band di cui avevano solo letto; perché la verità era che in moltissimi casi non le avevano mai ascoltate. Suonavano come si immaginavano suonassero quelle altre band, e se può essere trovata una spiegazione plausibile per la grande varietà e vivacità di tutto ciò a cui noi oggi guardiamo come la prima ondata del punk rock, è proprio questa. Musica realizzata in un contesto di vuoto di informazione, poi fatta uscire nella speranza di averci preso. Iggy ha bazzicato in quel vuoto come un pipistrello predatore. È stato una componente fondamentale nell’anima profonda della cultura pop britannica per talmente tanto tempo che, anche senza il legame con Bowie, la sua passata inclinazione per l’autodistruzione sarebbe comunque entrata a far parte di quel linguaggio. Prima ancora che venisse pubblicato The Idiot, i Damned provavano I Feel Alright degli Stooges, i Pistols suonavano No Fun e Gaye Advert si era incollato la sua foto al basso. Iggy da parte sua ha concesso a tutti la sua benedizione. “Amo ciò che i Sex Pistols hanno fatto con No Fun”, ha riflettuto una volta. “È come guardare una montagna di spazzatura e sapere che sei tu ad averla resa così”. 23 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure Ma i suoi giorni come spazzino erano terminati. È stato solo grazie al coinvolgimento e all’influenza di David Bowie che aveva ottenuto un nuovo contratto discografico con la RCA alla fine del 1976; una seconda possibilità che la maggior parte degli osservatori non aveva creduto possibile per lui. Ora doveva dimostrare di esserne all’altezza. E il modo di riuscirci non era quello di mettersi a competere nello stesso campo di battaglia con l’esercito di piccoli Iggy che proliferava là fuori, ma quello di dare loro qualcosa di completamente nuovo. Qualcosa che non avrebbero mai potuto aspettarsi, qualcosa di estremamente drammatico, pericoloso e, in definitiva, destabilizzante come la musica che aveva fatto all’inizio. La prima canzone tirata fuori per quello che sarebbe poi divenuto The Idiot, è Sister Midnight, che colpisce per il suo arrancare edipico; si trattava di un pezzo di implacabile funk mutante basato su un riff che Carlos Alomar, il brillante chitarrista di Bowie, aveva trovato quasi per caso. Bowie stesso aveva completato solo una strofa della canzone quando l’ha mostrata a Iggy; e la rapidità con cui il cantante ha completato il testo e con cui ha poi tirato fuori abbastanza materiale per almeno un’altra mezza dozzina di canzoni, ha convinto Bowie a concentrarsi sulla realizzazione di un intero album. Hanno iniziato a forgiare il monolite al Chateau D’Heuroville, fuori Parigi, dove Bowie stava registrando il suo album Low. Da lì, il gruppetto si è trasferto a Monaco di Baviera, e, infine, a Berlino agli Hansa-by-the-Wall. Fu una combinazione perfetta. “Ho sempre voluto venire in Germania”, ha proclamato Iggy, “anche quando ero bambino, ho letto tutto sulla Germania. Ho sempre saputo che volevo venire qui, proprio come alcuni ragazzi sanno di voler indossare proprio quel tale vestito. Berlino è una città verde e piacevole. Amo l’aria, amo le strade, mi piace la gente. Aspiro a diventare quasi completamente tedesco, un giorno”. Ora era lì, e si gettò a capofitto nella uber-life artistica tedesca. Il pulsare motorik del maestro della disco Giorgio Moroder, la precisione computerizzata dei Kraftwerk, guru dell’elettronica, per non parlare dell’isolante Wall of Sound eretto con mattoni e malta di suono le cui caratteristiche si dovevano tanto a un cantiere edile o a un sito di demolizioni, quanto a Phil Spector e Joe Meek. Come Low di Bowie (con cui il paragone è inevitabile), The Idiot è nettamente diviso in due: da una parte la canzoni sono più brevi, dall’altra più lunghe ed epiche. È una dichiarazione d’intenti chiara, il cui impatto è stato ridotto dal successivo intervento diretto di Bowie su due pezzi (Sister Midnight è diventata la debole Red Money, China Girl è diventata un’addomesticata versione radiofonica). In cuffia, un mix di sorprendente densità ti sbatte il basso e la batteria da qualche parte intorno al plesso solare, la voce mezza ringhiata e mezza robotica ti si schiaffa dritto negli occhi e le chitarre urlano, si contorcono, agonizzano, o più semplicemente si insinuano andando a saturare qualsiasi spazio rimasto vuoto. Il New Musical Express definì il disco “inquietante”, e coniò il termine “Mekanik Rock”. Ma, anche se uno credeva di aver capito a cosa si trovava di fronte, non aveva comunque tregua a causa di un fuoco di fila che procedeva con 24 e l'epopea oscura della musica inglese tale coscienziosa minuzia che, anche se ci si riusciva a riprendere da un colpo – la botta omicida di Nightclubbing, dove la danza preferita è la bomba atomica – si veniva comunque messi al tappeto da quello successivo - Funtime, con la sua minaccia cullata da un ritmo metronomico, in cui l’ascoltatore poteva a mala pena intuire quello che il “divertimento” del titolo avrebbe potuto comportare. Dalla terribile Mass Production, strascicata e bellissima nei suoi otto minuti e passa, alla nostalgia tradita di Dum Dum Boys, con la chitarra di Bowie che quasi grida il suo nome, persino Iggy sembrava inconsapevole di come fosse venuto fuori il tutto. “Quando David suona la chitarra, spacca di brutto. Avete presente quella particina di Dum Dum Boys? Quel boweeeewaaaaah? Quella è la sua parte. È David a farlo. Ci sta lottando contro – UH! Combatte accanitamente con il Do. Dopo un po’ iniziano a venirgli i crampi alle dita, ci dobbiamo fermare e lui si mette a gridare ‘Non so perché cazzo sto facendo questo per te, coglione!’ Abbiamo un rapporto decisamente crudo”. Quando hanno chiesto a Eno, uno degli altri collaboratori di Bowie dell’epoca, cosa pensasse di The Idiot, lo ha descritto come “un’esperienza simile ad essere rinchiusi in un blocco di cemento”. Lo stesso Iggy, contemplando l’inarrestabile ascesa del disco, si è chiesto apertamente: “come possono due amici far suonare in quel modo un disco?” Ma, in tutto il Regno Unito, mentre The Idiot marciava verso un piazzamento assolutamente impensato nella top 30, altri amici si domandavano se sarebbero stati in grado anch’essi di creare suoni del genere. Poco più di un anno dopo, quando i Siouxsie and the Banshees sono entrati in studio per il loro album d’esordio, hanno detto al produttore Steve Lillywhite che volevano dei suoni come quelli di The Idiot. Quando quelli che Peter Hook descrive con affetto i “quattro sfigati di Manchester” hanno per la prima volta partorito l’embrione di ciò che sarebbero divenuti i Joy Division, in quel momento preciso The Idiot suonava nella stanza, e due anni dopo avrebbe suonato ancora quando il cantante Ian Curtis si impiccò nella sua cucina. Quando il diciottenne Gary Numan si è recato a vedere Iggy al Rainbow di Londra, ha pronunciato la parola “grandioso” e Peter Murphy, un anno più vecchio di lui, ammette: “quando è uscito, The Idiot è rimasto nel mio giradischi per un mese intero”. Il punto è che The Idiot non era semplicemente un nuovo disco. Ha dato origine ad un modo completamente nuovo di pensare. Occhi attenti non tardarono a comprenderne l’impatto. Mesi prima che l’uscita dei vinili dei Siouxsie and the Banshees e dei Joy Division rimodellasse in maniera radicale la configurazione del rock underground britannico, nel numero del 26 novembre 1977 il settimanale Sounds postulava l’emergere di una nuova forza musicale ancora indistinta, che definì, in mancanza di un termine più adeguato, “New Musick”. Era un marchio molto generico, che comprendeva un po’ di tutto, dall’elettronica di Eno, Kraftwerk e Throbbing Gristle alle tecniche dub di stampo giamaicano, dalla sovversione strutturata di certa disco europea (soprattutto tedesca, in particolare quella di Moroder), al terrorismo sonoro della 25 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure scena art americana: Devo, The Residents, Suicide e Pere Ubu su tutti. Centrale in questa discussione, che i giornalisti lo ammettessero o meno, era la marea di band che provenivano da molto più vicino a casa, che erano cresciute nell’enorme alveo del punk, ma che decisamente non intendevano andare oltre una vaga adesione formale alle crescenti costrizioni che ora il genere imponeva. I Banshees, i Wire, gli XTC, gli Only Ones, i Fall, la promessa inquietante degli allora non ancora molto noti Magazine, il pestare brutale degli Stranglers all’epoca ancora vituperato. Nell’arco di soli dodici mesi – e stiamo già esagerando – il punk rock era sbocciato, fiorito e si era completamente sfaldato, e non era andato poi molto al di là di nozioni vaghe, come predicare la semplicità declinata in pochi accordi, che tuttavia potessero abbracciare i più vasti territori di sperimentazione. E il fatto che i migliori gruppi potessero (o forse dovessero) sviluppare un tale compito entro i limitati confini di un vinile 7 pollici dava ancora maggior risalto alle loro realizzazioni. Peter Murphy: “Durante l’estate del 1977 mi trovavo a Aylesbury, a casa di mia sorella; la gente mi notava e io pensavo di rappresentare un esempio molto interessante di nuovo punk rocker. Ma non lo ero per niente, ero completamente... ero una specie di romantico pre-romantico, ero l’unica persona che andava in giro come un disadattato senza saperlo. Allora non apprezzavo i Sex Pistols, guardavo oltre. Serviva qualcosa di più, c’era qualcosa che mancava. Pensavo fosse una cosa da mocciosi, tipo il mio compagno di scuola, un piccolo moccioso testa di cazzo che stava lì semplicemente a suonare. Ok, è servito a uno scopo. Ma non ha fatto niente di più che catalizzare qualcosa di più importante”. Il punk, anche secondo la definizione che gli stessi Sex Pistols ne hanno dato, non aveva nulla a che vedere con l’essere “un punk” – ossia una specie di sacco della spazzatura pieno di spille da balia, con le gambe legate insieme, la giacca di pelle e i capelli verdi appuntiti – sicuramente tutto ciò faceva parte di quel fenomeno, e la stampa scandalistica non si è mai stancata di pubblicare guide appariscenti su come fare a identificare questi minacciosi mutanti. Ma punk è stato anche una mentalità e una fedeltà interiore, un modo di credere in se stessi e nella propria visione, un atteggiamento che non solo se ne è sbattuto dei dettami che gli stavano intorno, ma li ha proprio scavalcati del tutto. Essere punk equivaleva ad essere fedele a te stesso, e quanto più la verità era lontana dalla normalità, tanto più eri legato agli ideali del punk. Chiunque poteva vestirsi come i ragazzi di King’s Road, e quindi riuscire a ottenere una data al Vortex e gridare le cose più assurde a squarciagola col frastuono di una sega elettrica. Trovare una strada personale per esprimere se stessi era leggermente più difficile. Johnny Rotten dei Sex Pistols ha detto più o meno la stessa cosa quando è apparso a Londra su Capital Radio il 16 luglio del 1977 per mettere su un paio di dozzine di pezzi che avevano significato molto per lui. Chiunque si aspettasse chitarre che sfondavano la velocità del suono o nichilismo beffardo e dileggiante era destinato a rimanere scioccato. Rotten fece immediatamente capire a tutti che 26 e l'epopea oscura della musica inglese non erano i vecchi noiosi e rincoglioniti artisti famosi del passato che dovevano essere ritenuti responsabili di tutto ciò che il punk aveva cercato di eliminare. Compiacimento, pigrizia e credulità, questi peccati erano parimenti colpevoli, ed erano peccati che avevano sempre avuto dei nemici. Se si esamina la raccolta di dischi da cui Rotten ha tratto la lista dei suoi brani, in mezzo ad una buona dose di vari brani reggae e ossessioni adolescenziali risaltavano anche una manciata di nomi che avevano anticipato con rabbia preveggente l’esplosione del punk, anche di una decina d’anni: Captain Beefheart, Tim Buckley, Can, Kevin Coyne e Peter Hammill. Tutti questi però avevano operato ben al di sotto dei radar del mainstream, ritagliandosi nicchie talmente specializzate, che quando i loro detrattori li hanno bollati come meri fenomeni di culto, una condanna tanto grave non era neppure necessaria. “La cosa interessante era che i punk non consideravano i Van Der Graaf come dei vecchi dinosauri, tipo ‘Morite, orrendi capelloni!’”, ha dichiarato il compagno di band di Hammill, Nic Potter, 25 anni dopo a Mojo. “Non eravamo per niente apprezzati dal mondo punk”. E questo, sotto un certo punto di vista, è stato il segreto del loro consenso – così come per gli altri artisti scelti da Rotten, un gruppo selezionato che comprendeva nomi del calibro di Velvet Underground, Kraftwerk, Residents, Deviants, Syd Barrett, Mothers of Invention, Alex Harvey, i 13th Floor Elevators di Roky Erickson, Modern Lovers, Joe Meek, Scott Walker, Hawkwind, Amon Duul II, Doctors of Madness e... Iggy Pop!!! Deliberatamente o meno, volontariamente o forzatamente, tutto, semplice mente, è andato proprio in questo modo dolce e naturale; queste band non si curavano di ciò che gli accadeva intorno, erano impermeabili al plauso della critica e alle richieste del pubblico, non si interessavano di cosa funzionasse o meno dal punto di vista commerciale quell’anno o in quel periodo. Erano punk in tutto tranne che nel tempo, nel luogo e nella pettinatura, e si concedevano libertà che i loro contemporanei di maggior successo commerciale non si potevano neppure immaginare, e ideali che non trovavano posto nel mercato musicale. Col senno di poi, si può facilmente affermare che il mercato stava cambiando e che ciò che era stato prima invendibile si stava rapidamente trasformando in oro colato. E in un certo senso l’affermazione sarebbe corretta. Nel 1976 si pensava che Iggy Pop avesse le stesse possibilità di scalare le classifiche nel Regno Unito di quante ne avesse di camminare sulla Luna. Forse anche meno. Alla fine del 1977 ci era riuscito ben tre volte con The Idiot, la ristampa di Raw Power e il suo secondo disco solista, Lust for Life. I Modern Lovers ci erano riusciti a loro volta per altre tre volte, Roky Erickson aveva addirittura firmato un contratto con una major. Etichette, pubblico e critica si precipitarono ad abbracciare gli eccentrici del passato, ansiosi di riparare a tutti gli anni in cui li avevano confinati nell’oblio. Ma furono solo gli eccentrici del passato ad essere riabilitati con tanto affetto. Ci sarebbero voluti ancora un paio d’anni perché una band potesse essere eccentrica e al contempo vivere decentemente di musica; nello stesso tempo, i confini stessi dell’essere anticonformisti si erano talmente spostati che la stessa normalità era 27 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure divenuta, d’un tratto, una totale stravaganza. Nel 1977 inoltrato e ancora l’anno seguente, gli insegnamenti di The Idiot stavano ancora venendo assimilati e, al di là del numero di gruppi che sarebbero poi emersi e che devono la loro nascita all’ascolto del disco, quelli che erano già in circolazione non avevano di certo trovato aperte tutte le porte che prima erano chiuse a chiave. Queste, se possibile, si rivelarono addirittura ancora più chiuse, come è dimostrato dal destino della band che probabilmente aveva preconizzato molto di ciò che poi fu realizzato da The Idiot. Furono proprio loro invece a venirne spazzati via, e ci sarebbe voluto un nuovo decennio per poter vedere i Doctors of Madness in piedi a dire al mondo: “Ve lo avevamo detto” – ma a quel punto erano morti e sepolti da tempo. I Doctors of Madness sono emersi nel 1975, proprio quando il glam rock si avviava alla sua conclusione. Quando furono scoperti suonavano, di solito in un pub a Putney, una combinazione già molto convincente di loro pezzi paranoici e di versioni incrostate e putrescenti di canzoni di Dylan, Reed e William Burroughs. I Doctors vennero scoperti grazie al navigato manager rock Bryan Morrison e al vecchio lenone di Twiggy, Justin de Villeneuve. È stato costui a presentarli al mondo come una riproposizione in chiave settantiana della decadenza della Berlino degli anni Trenta; un’immagine adeguata, ma di certo non la più completa. I Doctors erano già passati attraverso diversi cambiamenti di line-up prima di stabilizzarsi in un quartetto con altrettanti appropriati pseudonimi, ovvero Kid Strange, Urban Blitz, Pete Di Lemma e Stoner (solo Stoner). Fatto ciò, si dedicarono, come afferma Stoner, “a mettere giù queste idee assurde, questa immagine veramente scandalosa che avevamo creato per dare coerenza alle canzoni che lui [Strange] scriveva”. “Siamo interessati ad una sorta di stile cinematografico, in cui le immagini vanno e vengono” ha ribadito Strange, “e dove il senso non viene fuori a livello razionale, ma sensoriale. La nostra musica e il nostro spettacolo hanno conferito a questo contesto un’atmosfera fredda e squallida, un effetto, tipo quello che si può respirare in un fatiscente e vecchio angolo di strada. Siamo molto più osceni di Alice Cooper”. Ed erano anche, come ha osservato Stoner con orgoglio “una delle poche band che venivano fischiate prima ancora di iniziare a suonare. Non molti altri riuscivano a suscitare una simile reazione”. Il make-up della band inoltre riflette perfettamente la loro natura, con Stoner truccato in stile Frankenstein che offre subito il La a chi cerca di rintracciare le ispirazioni cinematografiche sottese al quartetto. L’horror degli Hammer Studios, chiaramente. Il debutto pubblico dei Doctors è avvenuto all’inizio del 1976, come ospiti speciali in TV al Twiggy Show, che a quel tempo, contrariamente a quanto si potrebbe credere, era uno dei programmi musicalmente più spregiudicati in circolazione. Ma neppure quel tipo di pubblico era pronto per i capelli blu di Strange e gli stivali alti fino al ginocchio di Kinky, né per una band il cui primo album avrebbe dovuto essere accompagnato dall’avviso: DA SUONARE A TUTTO GAS. 28 e l'epopea oscura della musica inglese Late Night Movies, All Night Brainstorms (1976) è un album quanto mai senza compromessi, l’esito logico di quella scuola di pensiero trasversalmente raccapricciante che spazia dalla paranoia dei Velvet Underground al paradiso dei Roxy Music e al paradosso degli originari (pre-Make Me Smile) Cockney Rebel. Dunque, un gruppo pop che canta di morte e distruzione? Quanto è decadente. Peccato che i Doctors non fossero decadenti. Erano pericolosi, tanto che in epoca pre-punk, quando l’epic rock dettava legge, Late Night Movies, All Night Brainstorms fece a brandelli le tavole della legge, partendo dai suoi estremi e proseguendo da lì. Quando il punk schizzò fuori dall’uretra del glam rock, questo era il suono che ne soffocava le grida. Sul vinile, Brainstorms è apprezzabilmente diviso in una suite lunga un intero lato, due episodi accostabili e un’autentica maratona – apprezzabilmente perché non era certo un album facile da ascoltare tutto in una sola volta. Entrambi i lati raggiungono picchi di dolorosa intensità: come il concerto per basso da terremoto, violino spacca-nervi e sirena da fall-out atomico che introduce The Noises Of The Evening verso la conclusione del primo lato, o le linee vocali frantumate e il violino perforante dell’epica Mainlines alla fine del secondo. Se si considerano le tracce singolarmente, l’effetto è l’equivalente musicale del bungee jumping. Considerato il disco nel suo insieme, ci si rende conto di colpo che qualcuno ha appena reciso la corda. Mai un album era stato intitolato in maniera tanto appropriata. Coerentemente con le intenzioni manifestate dal gruppo i testi di Strange sono sempre profondamente intrisi di immaginario cinematografico e, se tornano in mente dettagli di Diamond Dogs di Bowie, non è detto che non sia stato ricercato ad arte. Ma a differenza di Dogs, o di Berlin di Lou Reed, o di uno qualsiasi di questi famosi incantatori, di quello o di altri periodi, che vengono abitualmente descritti come deprimenti o particolarmente pessimisti, la visione dei Doctors non forniva alcuna via di scampo. Le facili alternative della morte o della resa non erano praticabili per i protagonisti di Brainstorm, e il senso di colpa non era certo un lusso che potevano permettersi. In tutto l’album, la linea vocale dove la speranza emerge maggiormente era: “We just have to sit back and hope for the best”1. La più inquietante: “The doctors know best”2. Il disco fu un vero flop. Poche persone guardarono al di là del make-up della band, e meno ancora si presero la briga di ascoltare effettivamente l’album. La gente davvero non apprezzò i Doctors of Madness, ma il gruppo tirò dritto a dispetto di tutto, e durante l’autunno del 1976 completò le date dell’End Of The World tour, uno spettacolo stravagante e bizzarro dove si assisteva a cose tipo esplosioni di manichini e in cui la band già eseguiva grandi parti del secondo disco, realizzato rapidissimamente, Figments Of Emancipation. Ancora una volta, si trattava di qualcosa di monumentale. Ancora una volta, fu un flop. Anche se continuarono a esibirsi abbastanza regolarmente, e nonostante fosse uscito il loro primo singolo in assoluto, Bulletin, un’invettiva potente contro i mass-media, i Doctors rimasero in silenzio per gran parte del 1977. 1 - “Dobbiamo solo rilassarci e sperare per il meglio”. 2 - “I dottori la sanno lunga”. 29 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure Ma i loro desolati paesaggi da sogno non sono rimasti deserti a lungo, neppure la loro condizione di capri espiatori preferiti dei media. Molto presto nel corso dell’anno sarebbero emersi gli Ultravox a contendersi entrambe queste ambigue corone. L’origine degli Ultravox va rintracciata nel cantante John Foxx e nel bassista Chris Cross e nella loro passione comune per i Roxy Music. Foxx aveva messo su Melody Maker un annuncio per formare una band, in cui richiedeva solo fanatici che condividessero quella passione. La coppia deve avere “fatto audizioni a tutti i disperati di Londra”, ha ricordato Foxx, prima di scegliere finalmente Billy Curry, Warren Cann e Steven Shears, e uscire a metà del 1975 con il nome di Tiger Lily. I Tiger Lily hanno fatto un solo singolo, una versione ostentatamente oscura di Ain’t Misbehavin di Fats Waller che è passata totalmente inosservata, nonostante fosse stata scelta come tema portante della colonna sonora di un film porno del 1975. Leggermente ridimensionata, la band ha fatto una serie di date, soprattutto al poco meno che salubre Doll’s House di King’s Cross, e contemporaneamente ha continuato con foga la scrittura delle canzoni con le quali si sarebbe scrollata di dosso la macchia dei Tiger Lily. Secondo la leggenda, hanno adottato il nome Ultravox perché aveva provocato il totale disprezzo di tutti quelli a cui lo avevano sottoposto. “Non piaceva a nessuno, così abbiamo pensato che doveva possedere qualche virtù”, ha ammesso Foxx, prima di riconoscere che anche la loro musica piaceva a pochissima gente. Ogni postino sembrava dover portare l’ennesima lettera di rifiuto da parte di una major, fino a che un demo, registrato nell’estate 1976 con l’allora sconosciuto Steve Lillywhite, attirò la curiosità della Island Records, per la quale era stato appositamente realizzato. Le influenze degli Ultravox erano spudoratamente tratte dal gotha del catalogo più recente della Island: Roxy Music, Sparks, John Cale, Eno. Entro la fine dell’anno la band era già in studio con quest’ultimo, a lavorare all’album d’esordio. Tenendo presente che alcuni degli artisti a cui sono stati paragonati dai critici più recenti neppure esistevano ai tempi in cui gli Ultravox stavano registrando, l’album venne fuori come un intruglio affascinante: “It’s not like anything I’ve ever known before”3, canta John Foxx sul primo singolo Dangerous Rhythms, e ha ragione... quasi del tutto. L’influenza di Eno ha facilitato sicuramente l’inserimento di ampi strati di Bowie e delle successive sperimentazioni di Iggy, mentre l’eredità dei Roxy Music permeava ampie parti della band. Andando indietro nel tempo si può cogliere in qualche zona liminare addirittura un accenno a Computer Love di William R Strickland, tanto che viene da chiedersi se qualcuno della band abbia posseduto Wowie Zowie! The World of Progressive Music, la compilation prodotta dalla Decca alla fine degli anni Sessanta, in cui quel gioiello era facilmente reperibile. Ma l’imminente e non ancora ascoltato Trans-Europe Express dei Kraftwerk è preconizzato con inquietante naturalezza, mentre gli episodici lampi di furia devastante mostrano come la band non fosse 3 - “È diverso da tutto quanto abbia mai conosciuto prima d’ora”. 30 e l'epopea oscura della musica inglese per niente insensibile al tumulto che si svolgeva tutto intorno. Dalla fine del 1976, molti live degli Ultravox sono avvenuti nel solco dell’illuminante e formativo momento d’oro del Punk, e questa esperienza non ha mancato di lasciare tracce nel loro sound. Anche nei loro momenti di maggior foga, gli Ultravox non erano però destinati a divenire cloni di The Idiot (o suoi predecessori, bisogna tenere a mente che dopotutto il loro disco è stato pubblicato almeno una quindicina di giorni prima di quello di Iggy). In ogni caso avevano quantomeno qualche influenza in comune, e non sarebbero di certo stati spazzati via dalla rivelazione del disco di Pop. Nonostante siano stati stroncati dalle riviste musicali, in un attacco che avrebbe sancito la fine dell’era Foxx (e spianato la strada alla più tenace versione capitanata da Midge Ure), gli Ultravox hanno tuttavia trovato diversi ascoltatori interessati. Gary Numan, per l’ennesima volta, ne parla in maniera entusiastica rivelandosi in grado di riconoscerne il ruolo guida per quanto riguarda l’adozione dell’elettronica; senza contare che di lì a poco avrebbe individuato altri folli messia senza i quali il mondo non sarebbe mai arrivato dove si trova ora. I Rikki and the Last Days of Earth non possono essere anch’essi annoverati nel numero dei profeti solo perché sono riusciti ad esprimere le proprie potenzialità appena un paio di mesi più tardi, e tuttavia non bisogna tralasciare che sono stati la prima band in assoluto a sfruttare appieno sia le potenzialità dell’elettronica, sia le atmosfere sonore di The Idiot, riuscendo ad ottenere un amalgama coerente (e ciò fu realizzato, per quanto possa sembrare sorprendente, senza l’utilizzo di alcun synth). Il che non è privo di rilevanza e deve essere sottolineato con forza. Già nel 1974, il boss dei Buzzcocks, Pete Shelley, aveva fatto abbastanza esperimenti con un oscillatore per poter registrare un’ora e passa di nastro intitolato Sky Yen, ma, nel 1977 se ne era solo sentito parlare. I The Future (che di lì a poco sarebbero diventati Human League), i Cabaret Voltaire, Thomas Leer e altri in un modo o nell’altro stavano tutti emergendo, e guardavano anche oltre, verso l’algido futuro elettronico. Ma anche loro erano ancora ad un livello più teorico che pratico, e di certo non erano stati ascoltati oltre i propri immediati confini. Mentre invece i Rikki and the Last Days of Earth suonavano dal vivo già dalla metà dell’estate del 1977; avevano aperto la prima Audition Night in assoluto al Roxy Club il 29 giugno, e avevano suonato come headliner, sei settimane più tardi, nello stesso mitico locale. I Rikki and the Last Days of Earth erano un quintetto vestito di pelle nera, che seppe immediatamente uscire dal coro grazie a un suono saturo di synth massicci e al frontman Rikki Sylvan, la cui voce richiamava palesemente quella di Bryan Ferry. Erano una miscela senza compromessi, tanto che ancora oggi, quando capita che vecchi punk si ritrovino per rivangare la giovinezza ormai morta e sepolta, prima o poi qualcuno inevitabilmente menziona i Rikki and the Last Days of Earth, e gli altri scoppiano tutti a ridere. Sono generalmente ricordati (e universalmente derisi), persino tra quelli che all’epoca non avevano mai sentito parlare del gruppo, per aver pubblicato uno degli album più dileggiati di tutta 31 Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure l’esplosione punk della fine degli anni Settanta; anzi, per dirla come un critico, quando la canzone migliore è la cover di un vecchio pezzo dei Rolling Stones, una band è messa parecchio male. Tanto più che Street Fighting Man non doveva affatto diventare il loro pezzo forte, ed infatti l’avevano relegata a b-side. Ma ancora una volta, è stato qualche anno dopo, quando il nome di Sylvan è apparso affianco a quello di Gary Numan nei credits di un disco di quest’ultimo, Replicas, che la gente si è ricordata di quello che aveva fatto nel 1977, mentre qualsiasi fama che oggi accompagna il cantante è dovuta per lo più al suo lavoro innovativo al fianco del giovane William Orbit piuttosto che alla sua carriera personale. Ad ogni modo, tramite il loro primo singolo pubblicato alla fine del 1977, il brutalmente aggressivo City Of The Damned, e con un album omonimo all’inizio del nuovo anno, il gruppo capì con precisione quale fosse il proprio ruolo. Il mondo stava per cadere a pezzi, e loro erano lì per orchestrare l’Armageddon. 32