Il rock’n’roll ha dato corpo a quel crescente sentimento di esuberanza
e liberazione che pervadeva gli adolescenti del dopoguerra, e ha
dimostrato che i ragazzi non erano più dei semplici oggetti in
attesa di quella morte prolungata che è l’età adulta.
Il glam ha sdoganato il sesso in tutte le sue molteplici varianti.
Il punk ha cristallizzato le frustrazioni seguite alla libertà, e
fatto sbattere il muso al sistema contro i suoi schifosi fallimenti.
E il gothic ha spezzato le catene dello spirito e liberato l’anima.
Titolo originale dell’opera: The Dark Reign Of Gothic Rock - In the Reptile House with The
Sisters Of Mercy, Bauhaus and The Cure
© 2002 Dave Thompson
Prima edizione inglese pubblicata da Helter Skelter nel 2002
Copyright © 2010 A.SE.FI. Editoriale Srl - Via dell’Aprica, 8 - Milano
www.tsunamiedizioni.com
Prima edizione Tsunami Edizioni, giugno 2010
Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl
Le Tempeste 4
Direttore Editoriale Eugenio Monti
Traduzione: Giorgio Costa
Redazione: Massimo Baroni
Progetto copertina: Marco Fantin - Blue Ant Design, Milano
Finito di stampare nel giugno 2010 dalla Gesp - Città di Castello (PG)
ISBN: 978-88-96131-16-9
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato senza
l’autorizzazione scritta dell’Editore.
L’autore vorrebbe ringraziare Bleddyn Butcher e Mick Mercer per il loro preziosissimo e inestimabile aiuto. Chiunque fosse interessato a scoprire qualcosa di più sul mondo del goth,
e soprattutto chiunque volesse vedere un sacco di fotografie di gruppi goth, deve visitare
l’eccellente sito internet di Mick: www.mickmercer.com.
Grazie per l’aiuto speciale con il materiale iconografico anche a
Richard Strange (www.richardstrange.com) e Stephen Wilkin (www.dharmajester.com).
Dave Thompson
Gothic
Rock
Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
e l’epopea oscura della musica inglese
Traduzione di
Giorgio Costa
Indice
Introduzione................................................................................................. 7
Parte Prima - I figli di Dostoevskij
Capitolo uno
Dum Dum Boys... and Girls........................................................................ 19
Capitolo due
Vi ricordate Ridolph Hess?.......................................................................... 35
Capitolo tre
Non intendo guardare una band di gente truccata...................................... 51
Capitolo quattro
Sei tu il cantante che ha gli attacchi epilettici?............................................ 67
Capitolo cinque
I Velvet in odore di santità? O gli Sweet andati a male?.............................. 85
Capitolo sei
Era piuttosto divertente essere così seriosi.................................................... 99
Parte seconda - Liberare i pipistrelli? - 1982 - 1984
Capitolo sette
Liberando i pipistrelli............................................................................... 115
Capitolo otto
Floorshow: la morte con le pareti............................................................... 135
Capitolo nove
Young Limbs and Numb Hymns................................................................ 149
Parte terza - Si è spento il cielo - 1986 - 2002
Capitolo dieci
Mi sarei ammazzato se non fosse stato per gli Alarm................................. 169
Capitolo undici
Partito in missione per vendetta................................................................ 185
Capitolo dodici
Non sto dicendo che Dylan sia bravo come Picasso.................................... 199
Capitolo tredici
50 macchine, un cuore nero....................................................................... 213
Capitolo quattordici
Va tutto in pezzi........................................................................................ 229
Capitolo quindici
Friday I’m in... cosa?................................................................................. 247
Capitolo sedici
Date alla gente quello che vuole................................................................ 259
Epilogo...................................................................................................... 273
Il Diario Oscuro........................................................................................ 279
Introduzione
Cos’è il dark rock?
Questa è una buona domanda. Non è, in effetti, uno di quei termini a cui fanno
continuamente riferimento gli storici del rock; non è il punk, il glam, il rockabilly
o la psichedelia, anche se nel dark rock ci sono elementi di tutti e quattro questi
generi. Non è neppure il gothic, l’industrial, l’ethereal o l’horror rock, nonostante
anche loro recitino una parte importante in questa storia.
Il dark rock è come un ombrello sotto il quale possiamo collocare gran parte di
quelle rock band britanniche venute fuori dalle prime fiammate punk di fine anni
Settanta, che però, traendo impeto e ispirazione da molto più lontano, riuscirono
a diffondere il proprio messaggio in modo ancora più ampio.
Chi avrebbe pensato, guardando la distorta immagine “glam dall’oltretomba”
dei Bauhaus, che un giorno Marilyn Manson, mantenendo pressappoco lo stesso
aspetto, sarebbe arrivato a toccare quasi il cuore dell’America? Chi avrebbe detto
che le mutazioni dei Southern Death Cult, dall’intensità tribale alla follia dell’hard
rock, si sarebbero trasformate nell’edonismo calcolato dei Guns n’Roses? Che i
suoni dei Sisters of Mercy, eredità dei Suicide, avrebbero generato la cacofonia
nichilista dei Nine Inch Nails? O che la forma musicale di quelle band di pionieri,
a vent’anni dalla nascita, una volta raggiunto il picco e apparentemente anche la
fine, sarebbe rimasta del tutto vitale, benché non direttamente riconducibile ai
suoi stessi fondatori.
I goth di oggi, vestiti di nero, con le facce imbrattate dal bianco del cerone,
macabri individui dell’oltretomba, per i quali Bela continua a essere “undead”,
hanno poco a che fare con il gothic rock che ebbe il suo battesimo nei primi
incasinati anni dell’Inghilterra thatcheriana. Non c’entrano neppure con i
“mercanti di rumore” industrial, e con il frastuono che questi ancora producono
ai confini estremi del mainstream; né tantomeno con le band Brit-pop fiorite a
metà degli anni Novanta, o con chi ancora oggi lavora dietro la stessa scomoda
etichetta musicale che già era stata di Bauhaus e soci.
Essi hanno poco in comune con questo passato, nonostante ne siano debitori.
E tuttavia, proprio rifiutando di ammettere (o di riconoscere) questo debito,
perpetuano l’impulso creativo che lanciò le band di allora ai primi posti in
classifica: il bisogno di continuare a spingersi più in là senza mai guardarsi indietro.
Ci sono sempre stati più Bauhaus che Bowie negli Suede, e questo potrebbe
essere proprio il motivo per cui Brett Anderson ha sempre smentito i media
che insistentemente lo indicavano come un nuovo e più magro “Duca Bianco”.
7
Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
I Gene hanno avuto in comune con i Joy Division tanto quanto con i sempre più
citati Smiths e Morrisey; e, per quanto riguarda i Pulp, le loro credenziali dark
rock risalgono all’origine di questa forma musicale. Il loro album d’esordio, It,
raccoglie le caratteristiche più eccentriche di tutto il periodo. E questo lo dico
prima che vi ricordiate che uno dei vecchi membri della band, il giovane Simon
Hinkler, più tardi si unì ai Mission.
Il dark rock si trova dappertutto e in quasi tutto, ma questo libro non vuole
spiegare dove andarlo a cercare oggi e nemmeno a quali evoluzioni sia giunto.
Verrà qui invece raccontato quel particolare momento in cui un tentacolo della
“piovra” post punk britannica smise di fluttuare sopra la sua testa e andò a scavare
nell’antro più oscuro, per contemplare... qualunque cosa fosse.
Certi pensieri sono davvero di chiara tendenza “gothic”: Mrs. Radcliffe, Edgar
Allan Poe, Mary Shelley, Alice Cooper e Sir Francis Dashwood, sono tutti
archetipi gotici, e ciascuno di loro ha recitato una parte in questo spettacolo. Ma
altri ci sono finiti dentro rimbalzando da aree contigue: il sesso deviato, l’arte
dada, l’umorismo malato, la letteratura filosofica, Andy Warhol, Agatha Christie,
il Dottor Who e Vincent Price; e questo è solo l’antipasto.
È stato un periodo... una decade... cominciata con il punk che rompeva le catene
liberando espressione e determinazione; poi il genere si è arrovellato all’ombra di
Siouxsie and the Banshees, dei Joy Division e dei Doctors of Madness; è uscito
alla luce del giorno con i Bauhaus, i Cure e i Sisters of Mercy; ed è esploso come
iper-culto con gli Specimen, gli Alien Sex Fiend e i Sex Gang Children, prima che
si compisse il suo destino nelle arene d’America con i Cult, i Mission e i Love And
Rockets, discendenti diretti, rispettivamente, dei tribali Southern Death Cult, dei
“classici” smobilitati Sisters, e, con geometrica circolarità, dei “Bela’s boys” Bauhaus.
Ma è stato anche un periodo in cui parecchie band si sono rese conto che,
a volte, non era fondamentale ciò che facevano o dicevano, dal momento che
il pubblico si creava una propria idea a prescindere. Già nel 1982, ciò che qui
definiamo “dark rock” veniva soprannominato “gothic rock” e Steve Severin,
bassista dei Siouxsie and the Banshees, si fa portavoce di tutte le band quando
dichiara: “Nel periodo in cui la ‘creatura’ gothic si sviluppava tutto intorno a
noi, facevamo qualcosa di completamente diverso da ciò che la gente avrebbe
voluto”.
Sotto la pressante richiesta del pubblico, questo qualcosa si sarebbe però
rapidamente modificato, con risultati a volte fatali. “Il termine ‘gothic’ stava
sempre lì” si lamentava Peter Murphy “e di sicuro alla fine ci siamo trovati a
suonare per mantenere la nostra reputazione. Questo è il vero motivo per cui
i Bauhaus non sono durati molto. Eravamo carichi di energia, ma quando
è arrivato il momento di fermarci a riflettere su quello che stavamo facendo,
abbiamo capito che stavamo solo strizzando l’occhio al pubblico, o meglio, a ciò
che ci immaginavamo volesse il pubblico”. Il pubblico gothic.
Certe popolari “storie della musica” – ovvero quei pesanti tomi allineati sugli
scaffali delle librerie che recano titoli con espressioni tipo “enciclopedia del rock”
8
e l'epopea oscura della musica inglese
– descrivono il gothic come uno stile di abbigliamento caratterizzato dal trionfo
del nero, dei lacci e del fondotinta, mentre il gothic rock non sarebbe null’altro
che un movimento musicale sviluppatosi in Gran Bretagna intorno alla fine
degli anni Settanta, una tra le numerose forme di vita nate dall’esplosione della
coscienza punk.
Più avanti in questo libro scoprirete come questo genere musicale fiorì e
prosperò dapprima nelle zone marginali del mainstream, per tre anni circa, fino a
quando una nuova moda non arrivò a rimpiazzarlo costringendolo a ripiombare
nell’underground, e come infine venne fagocitato, all’inizio degli anni Novanta,
dalla rivoluzione industrial noise, facendosi così strada nel panorama musicale
degli Stati Uniti.
Proseguendo nella lettura apprenderete come questo genere, dopo essere
cresciuto rigoglioso per qualche anno, venne linciato dall’isteria nazionale in
seguito alla pesantissima campagna mediatica sviluppatasi intorno alla tragedia
della sparatoria in un liceo americano verso la fine dello scorso decennio. I killer
si vestivano di nero e non andavano d’accordo con i fighetti palestrati. Nei loro
siti c’erano citazioni di Crowley e Manson (Charlie, non Marilyn) e suonavano
in band chiamate “Cryptic Corpsefuckers” facendo le prove in garage. Davanti
all’isteria fomentata dai media (ce n’è forse di altro tipo?) “goth” è diventato
sinonimo di “psicopatico figlio di puttana”; i veri goth stavano disegnando faccine
sorridenti sulle loro cripte ancor prima che i titoli dei giornali invadessero le strade.
Tutto questo è probabilmente vero e volendo potremmo anche finirla qui.
Come il glam prima e il baggy in seguito, il gothic rock non era nient’altro che
l’ennesimo piatto singulto che la scena pop britannica riusciva a produrre...
dopotutto, contemporaneamente al momento d’oro del gothic, c’erano in giro
altre meteore tipo il power pop, il 2-tone, il mod, l’oi! e i futuristi; e tutti questi
dove sono andati a finire?
A rimpinguare gli scaffali delle “ristampe inutili”; immaginatevi il proprietario
dell’ennesimo negozio di dischi che apre una scatola di Cd rimasterizzati dei
Leyton Buzzards, domandandosi chi diavolo lo ha convinto di poterli vendere.
Immaginatevi di sostiuire i Buzzards con uno qualsiasi dei grandi sopravvissuti
del “goth” – Sex Gang Children, Fields of the Nephilim, Ghost Dance, Alien Sex
Fiend – e il risultato non cambierà di una virgola.
Eppure il gothic, come si confà a un genere nato dalle stesse suggestioni che
poi finisce per sposare, non ha mai sottoposto se stesso a un’analisi attenta
che risulterebbe assai poco dignitosa. Esistono infatti due differenti tipologie
di movimenti musicali: quelli creati dai media, dalla musica, dalla pura forza
della personalità; e quelli che sono esistiti da sempre, semplicemente in attesa
del momento in cui zeitgeist propizio e contesto storico si uniscono alla forza
dell’ambizione.
Nella prima categoria possono essere riuniti tutti i movimenti che all’epoca
hanno condiviso la ribalta con il gothic rock, chi più chi meno sotto i riflettori.
Nella seconda, se ne possono collocare al massimo quattro:
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
Il rock’n’roll di Elvis e Bill Haley, che ha dato forma al fermento e all’esuberante
desiderio di libertà dei teenager del dopoguerra, e ha dimostrato che i ragazzi
non erano solamente meri oggetti in attesa della morte lenta che arriva con l’età
adulta.
Il punk, che ha portato alla luce le frustrazioni che quella stessa libertà aveva
generato, e ha schiaffato sul muso dell’establishment tutti i suoi assurdi fallimenti.
Il glam che in tutte le sue molteplici sfaccettature ha liberato il sesso dagli
scantinati nascosti e dai gabinetti pubblici imbrattati di graffiti in cui era confinato,
costringendo la società finalmente a prendere atto e ad accettare sperimentazioni
e stravaganze.
E il gothic, che ha tolto le catene allo spirito e ha liberato l’anima.
Cercare di tracciare gli antecedenti musicali dei primi tre movimenti è tutto
sommato semplice.
Fondamentalmente il rock’n’roll si è evoluto dall’R&B, che a sua volta traeva
origine dal blues. Il glam è più giovane, ma solo di poco. In realtà, i suoi principi
fondativi erano già in fase di elaborazione nelle sale da ballo dell’Inghilterra
vittoriana, e avrebbero poi preso forma nei cabaret della Germania di Weimar.
Il punk è ancora più giovane, tuttavia era sicuramente nell’aria almeno un
decennio prima che i Sex Pistols sparassero i primi colpi, lo si intuiva dalle grida
metropolitane dei Velvet Underground e nello sproloquio nichilista degli Stooges.
Lungo ciascuna di queste linee di discendenza, si possono individuare i dischi, i
gruppi, e gli eventi che in ultima analisi hanno influenzato le cose che si sarebbero
sviluppate successivamente.
Il gothic, invece, è un genere più “personale”. Dipende inoltre se si decide di
approcciarlo in termini di performance, di attitudine o semplicemente da un
punto di vista estetico. Per quanto riguarda l’arte, si potrebbe addirittura risalire
alle tetre e decadenti opere di Salvator Rosa, il pittore italiano di panorami del
XVII secolo, ma questo sarebbe un approccio troppo cervellotico e intellettuale.
E anche nella musica, all’interno della tradizione classica, ci sono momenti
sommamente gothic che hanno fatto da colonna sonora a non so quanti film.
Dal punto di vista della canzone “popolare”, invece, le opzioni diminuiscono.
Si parte con Leonard Cohen, l’originale “Duca della disperazione”, dai cui testi
fuoriescono lame di rasoio e crocifissi: egli ha avuto peraltro il merito di aver dato
il nome, con il titolo di uno dei suoi migliori pezzi, a una delle più grandi tra le
cosiddette “gothic band”.
Poi il produttore Joe Meek, le cui intime e laceranti superstizioni caratterizzavano
il suo lavoro ancor prima che si legasse agli Screaming Lord Such (l’archetipo
demoniaco del british rock), che certamente ha contribuito ad alcuni stereotipi del
gothic. Il modo in cui nel 1960 venne registrata Johnny Remember Me dalla soapstar Johnny Leyton è l’esempio perfetto di opera profondamente melodrammatica
e romantica, che sfrutta appieno la passione di quel periodo per le canzoni di
morte e le convinzioni spirituali che accomunavano Meek e il cantautore Geoff
Goddard; una pietra miliare sonora inzuppata di eco ed effetti speciali.
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e l'epopea oscura della musica inglese
Si dovrebbe anche riservare uno spazio ai King Crimson, il cui album di debutto
del 1969, In The Court Of The Crimson King, un disco magnifico nel titolo e
sublime nella struttura, con una cover dell’album che ricorda gli spiragli di luce
delle cattedrali gotiche e che nel contenuto, a parte il miasma mutante di 21st
Century Schizoid Man, fu pienamente all’altezza delle aspettative. Sicuramente si
deve dare spazio a Nick Drake, quel giovane e geniale cantautore che ha gettato
sulla sua musica un manto di tristezza capace di far incupire persino Ian Curtis,
e se n’è andato dopo soli tre album splendidamente decadenti, troppo triste per
vivere, troppo desideroso di morire.
E poi anche Peter Hammill, l’originale frontman dei Van Der Graaf Generator,
che con la sua carriera più che trentennale, da una parte completamente squilibrata
e dall’altra sorprendentemente accademica, rappresenta una delle figure più
rilevanti nello sviluppo di ciò che potremmo definire la corrente musicale protogothic degli anni Settanta.
I quattro album solisti che realizzò prima della reunion dei Van Der Graaf nel
1975 – ovvero Chameleon In The Shadow Of Night (1972), The Silent Corner And
The Empty Stage, In Camera (entrambi del 1974) e il precursore del punk Nadir’s Big
Chance (1975) – abbondano di trame, concetti e temi che avrebbero avuto un’eco
anche nel periodo successivo, anche se Hammill coltivava la convinzione che le sue
paure fossero di natura umana e non divina, cosa che smorzò forse l’impatto del suo
lavoro, paradossalmente nel momento in cui era giunto al suo apice.
Se c’è una forma d’arte ossessionata dalla più dura realtà della vita (vale a
dire la morte), ma che allo stesso tempo può venire accusata di evadere dalla
realtà, quella è il gothic. La crescente influenza con cui disastri chimici e nucleari
condizionavano Hammill nella creazione delle sue atmosfere, sia attraverso la
contorta liturgia di Mediaevil, (“God lives in underground silos”), il commento
bio-politico di Porton Down, o la fantascienza di Fogwalking (“...through what
used to be Whitechapel”), lo ha allontanato dagli autentici figli che aveva nutrito
nella decade precedente. Egli rimane un punto di riferimento, sebbene abbia fatto
maledettamente di tutto per non esserlo.
C’è spazio anche per la giovane Kate Bush, e per il suo singolo di debutto
del 1978 Wuthering Heights. A parte il vantaggio di aver preso il tema generale
dall’omonima affascinante saga di Emily Bronte, con storie di amore, morte
e tradimento ambientate nell’inverno della brulla brughiera dello Yorkshire
(finestre che si rompono, vento che soffia, e visite di spettri), Wuthering Heights è
senza alcun dubbio un capolavoro gothic per quanto ciò possa sembrare strano.
Le prime recensioni del fortunato esordio della diciannovenne, a conti fatti,
non si sono tanto soffermate sulla spiritualità dei testi, che aumentavano la loro
forza espressiva grazie alla presenza vocale quasi soprannaturale della stessa Bush.
Si sono concentrate invece sulla disorientante originalità del disco, che secondo
alcuni solo i cani e i delfini avrebbero potuto ascoltare, e sul nobile portamento
di questa giovane teenager dall’aspetto maturo. Neppure il successo – il brano
rimase per un mese in vetta alla classifica – mise a tacere i critici più accaniti. Ci
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
volle invece l’uscita del secondo album della Bush, Lionheart, per confermare il
suo talento nel songrwriting, senza dubbio genuino e non solamente precoce.
Solo allora i detrattori tornarono sui propri passi e compresero gli errori compiuti.
Per gli ammiratori più ardenti della Bush, e in particolare di Wuthering Heights,
tali considerazioni rimasero comunque del tutto irrilevanti. Inoltre, già da qualche
anno, i Monty Python avevano dato nuova linfa a questo classico facendone una
memorabile parodia televisiva, “Semaphore”, per la trovata dei due protagonisti
che comunicano utilizzando le bandiere per le segnalazioni aeronautiche. Il fatto
che la maggior parte del testo fosse scritto in maniera praticamente indecifrabile
contribuiva in realtà a sottolineare il mistero della brughiera che pervadeva
l’atmosfera, come se il vento spazzasse le parole dalla bocca della cantante,
lasciando aleggiare al suo posto meri frammenti di sillabe.
Ironia della sorte, quando dieci anni più tardi la Bush registrò di nuovo le voci
del pezzo per la sua raccolta di hit The Whole Story, mostrò in effetti che il suo
era stato davvero il lavoro di un’autrice giovane e ancora non del tutto formata.
Nella versione originale, il desiderio molto naif di raccontare semplicemente una
storia, sembra proprio quello che spronò la Bronte a scrivere e pubblicare l’unico
romanzo della sua vita. La versione rivisitata non dice più nulla.
Inoltre, è la stessa ingenua ragazza che cantava Wuthering Heights ad aver
composto Hammer Horror, un tributo – o quantomeno un’elegia – ai famigerati
studi cinematografici una volta considerati incredibilmente scadenti e poi divenuti
un punto fisso nel palinsesto televisivo del venerdì sera. Hammer Horror, scritto
intorno al 1976, e incluso nel nastro a cui Bushdom ora si riferisce come The
Cathy Demos, riapparve su Lionheart e come terzo singolo della Bush.
Il riferimento iniziale di Hammer Horror è a una delle tre versioni
cinematografiche allora in circolazione del Gobbo di Notre Dame (Lon Chaney,
1923; Charles Laughton, 1939; e Anthony Quinn, 1957) – nessuna delle quali
era inglese o una produzione Hammer – il pezzo ci fa respirare una piacevole aria
di pericolo, semplicemente evocata dal nome di quegli studi tanto leggendari.
Alla metà dei Settanta, dopotutto, quello stesso termine dava anche il nome a una
specie di sottogenere cinematografico legato a film che erano quasi impossibili da
vedere senza scoppiare a ridere.
Per la prima volta la Bush, è lei stessa a dirlo con rammarico, dovette dormire
con la luce accesa; ed era da molto tempo che gli appassionati della produzione
dello studio provavano quella sconveniente sensazione, un sentimento con cui
ognuno si poteva ancora identificare, come ha ammesso una volta Peter Murphy:
“Prima che fossi abbastanza grande per non essere più così stupido, avevo sempre
pensato che i film della Horror Hammer fossero davvero inquietanti”. Più tardi
“avendoli rivisti”, li ha trovati “ridicoli”.
Ma una cosa è certa, lui continua a guardarli. Tutti noi lo facciamo.
Dall’inizio degli anni Ottanta poi, il gothic era già un termine familiare
nel lessico dei critici del rock. Ma è importante ricordare che, sebbene molti
comportamenti (e fattori) fossero gothici, essi non erano tuttavia goth.
12
e l'epopea oscura della musica inglese
Infatti, nonostante questi precedenti di una certa rilevanza alle spalle, non è
possibile individuare un momento preciso in cui il mondo si è svegliato e ha
scoperto di avere il gothic rock ai piedi del letto; perciò nessuno, anche con tutta
la buona volontà di questo mondo, può mettersi lì e scoprire con esattezza il
giorno – o la settimana o il mese – in cui un pugno di band che avevano all’incirca
gli stessi riferimenti musicali e/o visuali, si unirono improvvisamente diventando
l’avanguardia di un nuovo movimento/fenomeno/carrozzone culturale.
Potrebbe essere il 1982, all’incirca dopo quattro anni che gli autorevoli Joy
Division e Siouxsie and the Banshees pubblicarono i primi vinili, ancor prima
che qualsiasi band potesse scegliere consapevolmente di entrare nell’alveo del
movimento gothic rock, o che gruppi tipo Specimen, Alien Sex Fiend e Sex Gang
Children, la squadra che fece del locale London’s Batcave la propria dimora,
si fossero già formati o si fossero dati da fare per portare quella forma alle sue
logiche conclusioni.
Per quanto riguarda le band che esistevano già da prima, alcuni fecero
semplicemente spallucce e tirarono dritto per la propria strada, credendo di
riuscire ad attraversare indenni la tempesta: “Quando è nata questa etichetta ed è
diventata un’uniforme, con il vestito nero imposto a tutti... quello per me è stato
un giorno triste”. Ha sentenziato con rammarico Steve Severin, il bassista dei
Siouxsie and the Banshees.
Altre band, più nervosamente, iniziarono a fare di tutto per sfuggire alla
standardizzazione della nuova etichetta; altre ancora, per rimanere nel giochino
delle categorizzazioni a tutti i costi, potrebbero forse rientrare meglio in etichette
un po’ scontate come death rock, doom rock, post-glam, apocalyptic decadence,
punk, e così via.
Se infatti esaminate tutte le band della rete “gothic rock”, la sola cosa che può
unirle tutte è il rifiuto di aderire ai dogmi del mainstream (anche dopo che questi
dogmi sono diventati il mainstream stesso).
Anche la supposizione che la loro scala di valori affondasse le sue radici nella
morbosità (“depressi del cazzo”, nel vernacolo di quel tempo) crolla davanti
all’esame più banale. Al contrario, i migliori di loro, sono sempre stati in realtà
spiritosi allo stesso modo in cui erano spaventosi, sciocchi e allo stesso tempo
drammatici, e prendevano forma tanto dai T-Rex quanto da Thanatos.
Nondimeno dagli Alien Sex Fiend agli X-Mal Deutschland; dai Bauhaus ai
Virgin Prunes; dai Cult ai Cure e, fugacemente, agli Ultravox e (per un momento
molto breve ma squisitamente immortale) ai giovanissimi U2, il gothic rimane
il modo più veloce e più semplice di riassumere un’intera scuola di pensiero
musicale, e non importa quanto gli stessi musicisti si siano spinti lontano dagli
originali precetti o come ora difendano guerrescamente questa loro scelta.
“Penso che stai vivendo in un paesino sperduto se credi che Peter Murphy sia
ancora un goth” ha tagliato corto il vecchio cantante dei Bauhaus in un’intervista
americana nel 1995. “Ovviamente, immagino che tu sia un goth, ma è passato
troppo tempo da allora e i miei album sono ascoltati da molte altre persone a
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
parte i cosiddetti goth. Penso che tu abbia veramente torto. Quando un artista
ha un background e ha un pedigree, o se preferisci un passato che implichi tale
definizione, è difficile per un giornalista rinunciare alla propria pigrizia mentale
e arrivare realmente a capire che quel determinato disco è lontano, così come la
sua rilevanza”.
“Siccome io sono un po’ cretino, non dico mai ‘non parlerò dei Bauhaus’,
e rimango così vittima di queste incomprensioni. Io sono molto conosciuto
soprattutto per tre album, ma non per il mio primo, che qui non è mai stato
pubblicato, ma per i miei tre album americani. Ho fatto molti tour da queste parti
e sono stato adottato come Peter Murphy”.
Così è stato. Ma a parte il giornalismo pigro, cosa dire dei fan pigri? Ancora
oggi, durante il tour di supporto al suo magnifico album solista Dust nel maggio
2002, il pubblico di Murphy è composto da tanti “abitatori delle tenebre”, vestiti
di nero, con la faccia imbiancata dal cerone, con le zanne, mascherati come fanno
le coppiette metropolitane e i ragazzini di MTV.
Per rincarare la dose, Murphy ha continuato, “i Sisters probabilmente erano
la goth band per eccellenza, al limite potresti infilarci anche i Cure, solo che i
Cure viaggiavano già prima del goth. Erano una band indie che ha continuato su
un sentiero indie. Ma hanno contribuito a creare il suono che è diventato parte
integrante di ciò che è stato chiamato ‘gothic’”.
Anche questo è vero. Però Robert Smith dubita del fatto che i suoi fan più
appariscenti siano anche i più numerosi. Proprio negli anni Novanta e anche
successivamente, i Cure erano considerati una tra le band più popolari in America
– Wish del 1992 è balzato al numero due in classifica, Wild Mood Swings del
1996 è entrato al dodicesimo posto, e Bloodflowers del 2000 al sedicesimo. Non ci
sono abbastanza goth nell’intero pianeta per giustificare queste statistiche. Così,
quando il New Musical Express ha descritto la band come “la quintessenza del
goth con sfumature pop”, Smith ne è stato profondamente contrariato.
“Non siamo una vera goth band, deludiamo l’audience in troppi modi”, disse,
con il bassista Simmon Gallup che proseguiva, “La categoria del goth... c’era un
nome, ‘goth’ e poi certi gruppi ci sono andati dietro, i Mission – Dio li benedica
– i Sisters, i Fields of the Nephilim. Ma non potreste dire che Faith suona come
First And Last And Always”.
O no?
Ecco cosa è in discussione qui: la “categoria del goth”, e gli stretti confini
musicali che essa implica, opposta alla pura estetica di una mentalità gothic,
all’interno della quale si muove il fenomeno complessivo del dark rock.
Per molti aspetti, nello stesso modo in cui i primi osservatori e commentatori
del punk erano tanto pronti ad abbracciare Ian Dury e Nick Lowe come lo erano
ad abbracciare gli Adverts e i Sex Pistols, così l’originale forma mentale gothic si
sviluppava in senso decisamente egualitario, felice di avvolgere nella sua oscurità
una grande quantità di volonterosi peccatori. Ad ogni modo, considerato che lo
sviluppo di una vera e propria “disciplina punk” alla fine ha virtualmente escluso
14
e l'epopea oscura della musica inglese
tutte le band che all’inizio avevano suonato sotto quella etichetta (nessuno oggi
definisce Costello il Dylan della New Wave), il goth non ha mai perso il contatto
con i suoi progenitori. Il che vuol dire che se i reietti dello stile punk hanno
semplicemente proseguito le loro carriere e raramente gli sono state rinfacciate
le loro radici, i cosiddetti goth non sono mai stati in grado di scrollarsi di dosso
il loro mantello. E questo, d’altro canto, ci spiega bene la grande ostilità con cui
molti di loro vedono questa etichetta.
Se uno chef rinomato avesse cotto gli hamburger da Wimpy appena lasciata la
scuola, direste ancora che ha lavorato nel settore dei fast food? No.
Se l’autore di Oliver Twist una volta avesse fatto il giornalista di cronaca nera
per un giornale, lo chiamereste ancora un reporter di nera? No.
E allora per quale motivo definireste ancora ‘goth’ un quarantacinquenne
residente ad Ankara, creatore di un affascinante ibrido tra trance e worldbeat, che
una volta ha scritto una canzone su un vampiro di Hollywood?
Questa è una delle domande cui questo libro intende rispondere – o forse, più
precisamente, è una delle questioni che questo libro intende mettere a fuoco.
Le connotazioni del gothic rock sono peggiorative; i suoi confini sono restrittivi;
la sua stessa esistenza, almeno tra gli artisti che lo hanno generato, è pedomorfica.
Ma se presa nel suo pieno e più completo contesto, (il dark rock), non è né
offensiva, né chiusa e neppure infantile. Piuttosto, essere accreditati tra i padri
fondatori del movimento vuol dire essere raggruppati all’interno di una gerarchia
che include Elvis Presley e i Beatles, i Pink Floyd e David Bowie, i Sex Pistols e i
Nirvana, le più selezionate e rigidamente esclusive fila di musicisti che non solo
hanno fondato una dinastia musicale (più o meno fugace), ma l’hanno anche
riempita con una dose massiccia della loro personalità e della loro essenza, per cui
non vi è alcuno che possa essere menzionato senza che si faccia loro riferimento,
o giudicato con criteri che ne escludano la presenza.
Forse il gothic rock è diventato una scemenza, stereotipato, e si è notevolmente
involuto e deformato. Ma cosa pensate che sia successo al glam, al punk e allo
stesso rock’n’roll? Sono addirittura rimasti a stento quelli originari. Ma sono
sopravvissuti, non semplicemente per continuare a rimanere all’interno del
mondo del rock moderno, ma per dare forma alle componenti fondamentali di
qualsiasi cosa passi per musica rock oggi.
Il gothic rock è un elemento vitale di questa struttura così come lo sono gli altri.
Questa è la sua storia.
15
Parte Prima
I figli di
Dostoevskij
Kid Strange dei Doctors Of Madness sul palco del
Friars Club di Aylesbury, 1976
Capitolo Uno
Dum Dum Boys...
and Girls
In cui Iggy “The Idiot” fa ritorno dall’orlo dell’abisso per rivelare il
futuro a chiunque lo voglia vedere. I Doctors scoprono dove i ratti vanno
a morire, i Last Days of Earth restano intrappolati in un disco, ed il
movimento comincia a mischiarsi con la notte.
“Quando è uscito, The Idiot è rimasto un mese intero nel mio
giradischi”. Pete Murphy
Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
I
nizieremo con un ragazzo di nome Dave, semplicemente Dave, in parte
perché si tratta di un nome facile da ricordare ma, soprattutto, perché è un
nome che non è fondamentale che vi ricordiate. Vive a Leeds ma potrebbe
essere ovunque. In qualche modo, però, Leeds sembra avere parecchio a
che fare con ciò che seguirà, e non solo per ciò che riguarda la storia della musica.
Leeds è una città goffa, piena di complessi e insicurezze, ma anche ricca di
dinamismo e fiducia. Arroccata sul versante soleggiato dei monti Pennines,
può essere un luogo deprimente, ma possiede anche una sua grandiosità, che le
permette di sovrastare le città vicine (Bradford e Sheffield ad esempio) e andarsi a
cercare altrove rivali e alleati.
A volte indugia malinconica in direzione di Manchester, con i suoi sogni
di Olimpiadi e di imprese titaniche, altre volte fissa intensamente le vaste
brughiere dello Yorkshire, con i loro fantasmi, gli Heathcliff e i pullman pieni
di turisti americani venuti a catturare qualche dettaglio “tempestoso” da far
vedere agli amici una volta tornati a casa. Oppure si guarda dentro, in quel
crogiolo di arte e ambizioni che da sempre hanno eletto le sue strade a propria
dimora.
Dave era uno studente lì, come tanti altri futuri animatori e fautori di
movimenti e tendenze musicali - Andy Gill, Hugo Burnham e Jon King dei
Gang of Four, Green Gartside degli Scritti Politti, Frank Tovey detto Fad
Gadget, Marc Almond e Dave Ball dei Soft Cell, Andrew Eldritch dei Sisters
of Mercy, e Simon Denbigh, fondatore dei March Violets. La maggior parte
di loro ha poi coronato le proprie ambizioni accademiche. Dave, invece, ha
abbandonato l’università prima dell’ultimo anno per perseguire il grandioso
progetto di lavorare in un negozio di dischi. Vedete, lo conoscete già. Sapete
anche perfettamente che tipo di musica metteva nel suo negozio nella primavera
del 1977: punk rock, ovviamente.
Ma presto si lasciò alle spalle il punk. Era acqua passata. Pompava già a tutto
volume i Bizzarros e i Devo di Akron almeno un anno e mezzo prima che la
Stiff iniziasse anche solo a promuoverli a Rubber City, Usa. Inoltre era solito
terrorizzare gli studentelli di passaggio con i Residents di San Francisco quando
Third Reich’n’Roll era ancora qualcosa di cui persino i critici più elitari avevano
solo sentito parlare. E adorava Iggy Pop e gli Stooges quando solo i negozi di
importazione più fighi di Londra tenevano i loro dischi.
Bisogna ricordare che tutto ciò accadeva al tempo del vinile; per giunta proprio
nel periodo in cui ci si stava riprendendo dalla crisi petrolifera e dalle carenze che
essa aveva causato al cuore produttivo della industria musicale occidentale.
Oggi basta che lo vogliate veramente, e arriva la major di turno con la sua
mano fatata che libera da qualche scantinato freddo e polveroso un altro tesoro
dimenticato, per di più rimasterizzato, con tanto di libretto e di solito arricchito
con un buon numero di bonus track sconosciute.
Venticinque anni fa, si doveva faticare per la musica che si voleva ascoltare
veramente; per di più era necessario andare a bussare, a pregare, a implorare
20
e l'epopea oscura della musica inglese
alla porta di qualsiasi negozio di dischi si riuscisse a trovare, nella speranza che
qualcuno, da qualche parte, un giorno...
Questo qualcuno era Dave. Certamente non poteva trovare tutto, tuttavia
aveva un’abilità fuori dal comune nello scovare cose particolari nei luoghi più
inaspettati. È andato a Londra a vedere il concerto solista di Peter Gabriel, ed è
tornato a casa con l’autografo di Peter Hammill. Ha preso l’ordine di un cliente
per l’album White Light White Heat dei Velvet, e ne ha trovato una stupefacente
versione in mono in un mercatino delle pulci a Pontefract.
Non era cool, non era alla moda, e sicuramente non era un punk rocker, almeno
nel senso in cui credevano di esserlo gli altri. Certamente però conosceva la
musica e coglieva spunti laddove altri semplicemente ascoltavano passivamente;
il che ci riporta a Iggy Pop.
All’inizio del 1977, Iggy Pop era una creatura leggendaria. Erano passati più
o meno quattro anni da quando aveva finito il suo “ultimo” LP, Raw Power,
prodotto da David Bowie; quattro anni durante i quali Pop era precipitato nel
baratro continuando ad affondare – con l’unica eccezione, ad interrompere la
crisi, di quel live finale postumo, di bassa qualità e dilaniato dalle contestazioni,
che fu Metallic KO.
Il tempo passava molto più lentamente a quell’epoca. Un album all’anno era
la norma, due non era affatto inusuale. Persino le superstar di quel periodo, gli
Stones, gli ex-Beatles, gli Zeppelin e i Genesis, accettavano quel ritmo e quelle
scadenze e uscivano ogni anno; fare diversamente equivaleva ad un vero e proprio
suicidio. È vero, gli Emerson, Lake & Palmer ci misero tre anni, ma durante
uno erano in tour e negli altri due hanno fatto uscire un paio di singoli solisti
parecchio sbandierati e reclamizzati. Si tratta di un ritmo decisamente agli
antipodi rispetto a quello dei fannulloni viziati di oggi. Il silenzio severo, duro
come la pietra e freddo, era invece territorio esclusivo solo dei morti o dei pazzi.
All’inizio della sua leggenda Iggy Pop avrebbe potuto ben rappresentare entrambi
questi archetipi.
A quel punto però le cose hanno iniziato ad accadere. Se si scorrono i credits
di Low di David Bowie, uscito in un inatteso tripudio nel gennaio del 1977, si
scopre infatti che Iggy ha cantato i cori in un pezzo. In seguito lo stesso Bowie ha
spiegato di aver trascinato il suo vecchio amico fuori da un ospedale psichiatrico
per registrare solamente un singolo, ma che poi le sessioni si trasformarono in un
intero disco. Venne chiamato The Idiot e sarebbe uscito il 12 marzo, una settimana
dopo che il duo completasse il primo tour in assoluto di Iggy in Gran Bretagna.
Si può tranquillamente sorvolare riguardo a quei concerti. Sono stati, evidentemente, magici. Ma la reputazione è un qualcosa di difficile da interpretare,
soprattutto quando è ammantata proprio dalle vesti che ci si aspetta dovrebbe
indossare.
Per chiunque si fosse già procurato quei primi tre album dei leggendari Stooges
(o anche chi non li aveva, ma ne conosceva le hit grazie alle cover dei Damned e
dei Sex Pistols), buona parte di quei concerti erano familiari, e le tracce del nuovo
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
album erano l’ingrediente a sorpresa tra Raw Power e TV Eye. Solo che non c’era
alcuna sorpresa, perché Iggy era il padrino del punk e aveva creato quel modo di
suonare ben otto anni prima. Solo ora il resto del mondo lo aveva raggiunto, per
cui le nuove canzoni erano belle rock, con grandi riff, e spaccavano come era sua
abitudine.
La prima avvisaglia che c’era qualcosa di realmente nuovo nell’aria arrivò sotto
forma di un singolo, più o meno una settimana prima dell’uscita dell’album. E fu
qualcosa di veramente originale. China Girl era già stata al centro dell’attenzione
della stampa a causa di una frase del testo in cui Iggy diceva di avere svastiche per la
testa e “un piano per tutti” – proprio mentre il National Front preparava la prima
offensiva di quell’anno, andando nelle strade a fronteggiare l’Anti-Nazi League in
costante crescita. Nonostante nessuno avesse mai dato del fascista a Iggy, il suo coproduttore, co-autore e amico Bowie era tutto un altro paio di maniche.
Solo dodici mesi prima, infatti, era arrivato a Victoria Station con una
camicia bruna e una Mercedes, e aveva deliziato la folla in attesa con un saluto
romano modello Heil Hitler. Naturalmente era stato tutto un malinteso; stava
semplicemente agitando il braccio proprio nel momento in cui l’obiettivo
della macchina fotografica lo ha immortalato, e stava solo scherzando quando
ha dichiarato che stava scrivendo un musical su Josef Goebbels, capo della
propaganda di Hitler durante la guerra. In questo modo la maggior parte dello
scandalo venne ridimensionata. Non completamente però, ed ora c’era lì China
Girl che riportava l’attenzione su quelle controversie. Circostanza che in un certo
senso era positiva, dal momento che tanto più tempo si sprecava a dissezionare
il linguaggio, tanto minore era l’attenzione alla colonna sonora che lo avvolgeva;
quel complesso ronzante, malvagio e opprimente che aveva meno in comune
con le spille da balia di quanto lo avessero le macchine che lo avevano realizzato:
grandi macchine martellanti che lavoravano incessantemente nella notte. No,
con tutte quelle storie sulle svastiche nessuno ci ha minimamente fatto caso.
The Idiot non offriva alcuna tregua né tanto meno lasciava alcun margine di
interpretazione. I colleghi di Dave al negozio di dischi gliene lasciarono ascoltare
non più di tre pezzi sullo stereo del negozio prima di sostituire Iggy con i suoi
compagni di etichetta alla RCA, gli Hall & Oates. Quando all’ora di pranzo se
n’era andata la ressa degli studenti, lui si era chiuso a mangiare nello stanzino
dietro il negozio, con su le cuffie. E quando finalmente ne è venuto fuori, circa
mezz’ora più tardi, era come Scrooge la sera di Natale, in attesa dei Natali passati
dopo quello presente; solo che lui dopo aver visto il concerto si era aspettato gli
Stooges, e invece aveva ottenuto il Natale futuro, otto canzoni in un colpo.
“Dovete comprare questo disco”, continuava a ripetere, “e ascoltarlo
ininterrottamente per una settimana. Perché se non lo fate voi, saranno molti
altri a farlo. Se volete avere almeno una minima possibilità di capire dove le cose
andranno a parare una volta che il punk sarà finito, dovete per forza sapere dove
tutto ha avuto inizio”.
E aveva ragione. Completamente.
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e l'epopea oscura della musica inglese
Oggi guardiamo indietro al 1977 e percepiamo la parabola del punk come
se fosse un unico ruggito ininterrotto, dall’inizio alla fine. Festeggiando il suo
venticinquesimo anniversario, la stampa musicale britannica si compiaceva
allegramente di tutti gli orrori che la nuova musica aveva spazzato via. Nello
speciale della rivista Q, Never Mind The Jubilee Punk Rock, si legge come “Nella
settimana che finiva il 12 aprile 1975, la classifica dei singoli britannici era in
uno stato di esilarante arretratezza. Al numero uno c’erano i Bay City Rollers.
Gli Sweet erano immediatamente sotto di loro. Seguivano... i Guys And Dolls...
i Goodies... Kenny... Mike Reid. E non era certo una situazione straordinaria”.
Poi è arrivato il punk, e da lì in poi tutti abbiamo vissuto felici e contenti. Ma
è proprio così? Esattamente due anni dopo (giorno più giorno meno) gli ABBA
erano al numero uno. Il celebre protagonista di Starsky e Hutch, David Soul, era al
numero due e dopo di lui c’erano i Manhattan Transfer... Boney M... Billy Ocean...
Elvis Presley... e neanche quella era una situazione più di tanto straordinaria.
Durante i primi mesi del 1977 band punk si formavano e facevano concerti
senza soluzione di continuità. Ma se uno si voleva prendere un disco e ascoltarselo
a casa, le opzioni si riducevano drasticamente. Il primo singolo dei Clash, quella
vera e propria chiamata alle armi che fu White Riot, era appena uscito, Anarchy
In The UK dei Sex Pistols era appena andato fuori catalogo; gli Stranglers stavano
giusto abbandonando la top 50 con Grip, i Buzzcocks si apprestavano a battezzare
il boom del “do it yourself ” con Spiral Scratch.
È vero, i Damned e i Vibrators erano arrivati al loro secondo singolo e si poteva
sempre guardare in direzione dell’America per i “botti” a venire. Ma persino il
rastaman Don Letts, resident DJ in quella vera e propria mecca del punk che era
il Roxy Club, metteva nelle sue serate una valanga di reggae e dub per le orde
che vi si radunavano. Addirittura, uscendo da Londra, una buona metà delle
band che si formavano secondo lo spirito di quel periodo non facevano musica
emulando altre band che avevano ascoltato, ma band di cui avevano solo letto;
perché la verità era che in moltissimi casi non le avevano mai ascoltate.
Suonavano come si immaginavano suonassero quelle altre band, e se può essere
trovata una spiegazione plausibile per la grande varietà e vivacità di tutto ciò a cui
noi oggi guardiamo come la prima ondata del punk rock, è proprio questa. Musica
realizzata in un contesto di vuoto di informazione, poi fatta uscire nella speranza
di averci preso. Iggy ha bazzicato in quel vuoto come un pipistrello predatore.
È stato una componente fondamentale nell’anima profonda della cultura pop
britannica per talmente tanto tempo che, anche senza il legame con Bowie, la sua
passata inclinazione per l’autodistruzione sarebbe comunque entrata a far parte
di quel linguaggio. Prima ancora che venisse pubblicato The Idiot, i Damned
provavano I Feel Alright degli Stooges, i Pistols suonavano No Fun e Gaye Advert
si era incollato la sua foto al basso. Iggy da parte sua ha concesso a tutti la sua
benedizione. “Amo ciò che i Sex Pistols hanno fatto con No Fun”, ha riflettuto
una volta. “È come guardare una montagna di spazzatura e sapere che sei tu ad
averla resa così”.
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
Ma i suoi giorni come spazzino erano terminati. È stato solo grazie al
coinvolgimento e all’influenza di David Bowie che aveva ottenuto un nuovo
contratto discografico con la RCA alla fine del 1976; una seconda possibilità
che la maggior parte degli osservatori non aveva creduto possibile per lui. Ora
doveva dimostrare di esserne all’altezza. E il modo di riuscirci non era quello di
mettersi a competere nello stesso campo di battaglia con l’esercito di piccoli Iggy
che proliferava là fuori, ma quello di dare loro qualcosa di completamente nuovo.
Qualcosa che non avrebbero mai potuto aspettarsi, qualcosa di estremamente
drammatico, pericoloso e, in definitiva, destabilizzante come la musica che aveva
fatto all’inizio. La prima canzone tirata fuori per quello che sarebbe poi divenuto
The Idiot, è Sister Midnight, che colpisce per il suo arrancare edipico; si trattava
di un pezzo di implacabile funk mutante basato su un riff che Carlos Alomar, il
brillante chitarrista di Bowie, aveva trovato quasi per caso. Bowie stesso aveva
completato solo una strofa della canzone quando l’ha mostrata a Iggy; e la rapidità
con cui il cantante ha completato il testo e con cui ha poi tirato fuori abbastanza
materiale per almeno un’altra mezza dozzina di canzoni, ha convinto Bowie a
concentrarsi sulla realizzazione di un intero album.
Hanno iniziato a forgiare il monolite al Chateau D’Heuroville, fuori Parigi,
dove Bowie stava registrando il suo album Low. Da lì, il gruppetto si è trasferto
a Monaco di Baviera, e, infine, a Berlino agli Hansa-by-the-Wall. Fu una
combinazione perfetta.
“Ho sempre voluto venire in Germania”, ha proclamato Iggy, “anche quando
ero bambino, ho letto tutto sulla Germania. Ho sempre saputo che volevo venire
qui, proprio come alcuni ragazzi sanno di voler indossare proprio quel tale vestito.
Berlino è una città verde e piacevole. Amo l’aria, amo le strade, mi piace la gente.
Aspiro a diventare quasi completamente tedesco, un giorno”.
Ora era lì, e si gettò a capofitto nella uber-life artistica tedesca. Il pulsare
motorik del maestro della disco Giorgio Moroder, la precisione computerizzata
dei Kraftwerk, guru dell’elettronica, per non parlare dell’isolante Wall of Sound
eretto con mattoni e malta di suono le cui caratteristiche si dovevano tanto a un
cantiere edile o a un sito di demolizioni, quanto a Phil Spector e Joe Meek.
Come Low di Bowie (con cui il paragone è inevitabile), The Idiot è nettamente
diviso in due: da una parte la canzoni sono più brevi, dall’altra più lunghe ed
epiche. È una dichiarazione d’intenti chiara, il cui impatto è stato ridotto dal
successivo intervento diretto di Bowie su due pezzi (Sister Midnight è diventata la
debole Red Money, China Girl è diventata un’addomesticata versione radiofonica).
In cuffia, un mix di sorprendente densità ti sbatte il basso e la batteria da
qualche parte intorno al plesso solare, la voce mezza ringhiata e mezza robotica ti
si schiaffa dritto negli occhi e le chitarre urlano, si contorcono, agonizzano, o più
semplicemente si insinuano andando a saturare qualsiasi spazio rimasto vuoto.
Il New Musical Express definì il disco “inquietante”, e coniò il termine
“Mekanik Rock”. Ma, anche se uno credeva di aver capito a cosa si trovava di
fronte, non aveva comunque tregua a causa di un fuoco di fila che procedeva con
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e l'epopea oscura della musica inglese
tale coscienziosa minuzia che, anche se ci si riusciva a riprendere da un colpo – la
botta omicida di Nightclubbing, dove la danza preferita è la bomba atomica – si
veniva comunque messi al tappeto da quello successivo - Funtime, con la sua
minaccia cullata da un ritmo metronomico, in cui l’ascoltatore poteva a mala
pena intuire quello che il “divertimento” del titolo avrebbe potuto comportare.
Dalla terribile Mass Production, strascicata e bellissima nei suoi otto minuti e
passa, alla nostalgia tradita di Dum Dum Boys, con la chitarra di Bowie che quasi
grida il suo nome, persino Iggy sembrava inconsapevole di come fosse venuto
fuori il tutto.
“Quando David suona la chitarra, spacca di brutto. Avete presente quella
particina di Dum Dum Boys? Quel boweeeewaaaaah? Quella è la sua parte. È
David a farlo. Ci sta lottando contro – UH! Combatte accanitamente con il Do.
Dopo un po’ iniziano a venirgli i crampi alle dita, ci dobbiamo fermare e lui si
mette a gridare ‘Non so perché cazzo sto facendo questo per te, coglione!’ Abbiamo
un rapporto decisamente crudo”. Quando hanno chiesto a Eno, uno degli altri
collaboratori di Bowie dell’epoca, cosa pensasse di The Idiot, lo ha descritto come
“un’esperienza simile ad essere rinchiusi in un blocco di cemento”. Lo stesso Iggy,
contemplando l’inarrestabile ascesa del disco, si è chiesto apertamente: “come
possono due amici far suonare in quel modo un disco?” Ma, in tutto il Regno
Unito, mentre The Idiot marciava verso un piazzamento assolutamente impensato
nella top 30, altri amici si domandavano se sarebbero stati in grado anch’essi di
creare suoni del genere.
Poco più di un anno dopo, quando i Siouxsie and the Banshees sono entrati in
studio per il loro album d’esordio, hanno detto al produttore Steve Lillywhite che
volevano dei suoni come quelli di The Idiot. Quando quelli che Peter Hook descrive
con affetto i “quattro sfigati di Manchester” hanno per la prima volta partorito
l’embrione di ciò che sarebbero divenuti i Joy Division, in quel momento preciso
The Idiot suonava nella stanza, e due anni dopo avrebbe suonato ancora quando
il cantante Ian Curtis si impiccò nella sua cucina. Quando il diciottenne Gary
Numan si è recato a vedere Iggy al Rainbow di Londra, ha pronunciato la parola
“grandioso” e Peter Murphy, un anno più vecchio di lui, ammette: “quando è
uscito, The Idiot è rimasto nel mio giradischi per un mese intero”.
Il punto è che The Idiot non era semplicemente un nuovo disco. Ha dato origine
ad un modo completamente nuovo di pensare. Occhi attenti non tardarono a
comprenderne l’impatto.
Mesi prima che l’uscita dei vinili dei Siouxsie and the Banshees e dei Joy Division
rimodellasse in maniera radicale la configurazione del rock underground britannico,
nel numero del 26 novembre 1977 il settimanale Sounds postulava l’emergere di
una nuova forza musicale ancora indistinta, che definì, in mancanza di un termine
più adeguato, “New Musick”. Era un marchio molto generico, che comprendeva
un po’ di tutto, dall’elettronica di Eno, Kraftwerk e Throbbing Gristle alle tecniche
dub di stampo giamaicano, dalla sovversione strutturata di certa disco europea
(soprattutto tedesca, in particolare quella di Moroder), al terrorismo sonoro della
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
scena art americana: Devo, The Residents, Suicide e Pere Ubu su tutti. Centrale in
questa discussione, che i giornalisti lo ammettessero o meno, era la marea di band
che provenivano da molto più vicino a casa, che erano cresciute nell’enorme alveo
del punk, ma che decisamente non intendevano andare oltre una vaga adesione
formale alle crescenti costrizioni che ora il genere imponeva.
I Banshees, i Wire, gli XTC, gli Only Ones, i Fall, la promessa inquietante degli
allora non ancora molto noti Magazine, il pestare brutale degli Stranglers all’epoca
ancora vituperato. Nell’arco di soli dodici mesi – e stiamo già esagerando – il punk
rock era sbocciato, fiorito e si era completamente sfaldato, e non era andato poi
molto al di là di nozioni vaghe, come predicare la semplicità declinata in pochi
accordi, che tuttavia potessero abbracciare i più vasti territori di sperimentazione.
E il fatto che i migliori gruppi potessero (o forse dovessero) sviluppare un tale
compito entro i limitati confini di un vinile 7 pollici dava ancora maggior risalto
alle loro realizzazioni.
Peter Murphy: “Durante l’estate del 1977 mi trovavo a Aylesbury, a casa di
mia sorella; la gente mi notava e io pensavo di rappresentare un esempio molto
interessante di nuovo punk rocker. Ma non lo ero per niente, ero completamente...
ero una specie di romantico pre-romantico, ero l’unica persona che andava in giro
come un disadattato senza saperlo.
Allora non apprezzavo i Sex Pistols, guardavo oltre. Serviva qualcosa di più, c’era
qualcosa che mancava. Pensavo fosse una cosa da mocciosi, tipo il mio compagno
di scuola, un piccolo moccioso testa di cazzo che stava lì semplicemente a suonare.
Ok, è servito a uno scopo. Ma non ha fatto niente di più che catalizzare qualcosa
di più importante”.
Il punk, anche secondo la definizione che gli stessi Sex Pistols ne hanno dato,
non aveva nulla a che vedere con l’essere “un punk” – ossia una specie di sacco della
spazzatura pieno di spille da balia, con le gambe legate insieme, la giacca di pelle
e i capelli verdi appuntiti – sicuramente tutto ciò faceva parte di quel fenomeno,
e la stampa scandalistica non si è mai stancata di pubblicare guide appariscenti
su come fare a identificare questi minacciosi mutanti. Ma punk è stato anche
una mentalità e una fedeltà interiore, un modo di credere in se stessi e nella
propria visione, un atteggiamento che non solo se ne è sbattuto dei dettami che
gli stavano intorno, ma li ha proprio scavalcati del tutto. Essere punk equivaleva
ad essere fedele a te stesso, e quanto più la verità era lontana dalla normalità,
tanto più eri legato agli ideali del punk. Chiunque poteva vestirsi come i ragazzi
di King’s Road, e quindi riuscire a ottenere una data al Vortex e gridare le cose
più assurde a squarciagola col frastuono di una sega elettrica. Trovare una strada
personale per esprimere se stessi era leggermente più difficile.
Johnny Rotten dei Sex Pistols ha detto più o meno la stessa cosa quando è
apparso a Londra su Capital Radio il 16 luglio del 1977 per mettere su un paio
di dozzine di pezzi che avevano significato molto per lui. Chiunque si aspettasse
chitarre che sfondavano la velocità del suono o nichilismo beffardo e dileggiante
era destinato a rimanere scioccato. Rotten fece immediatamente capire a tutti che
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e l'epopea oscura della musica inglese
non erano i vecchi noiosi e rincoglioniti artisti famosi del passato che dovevano
essere ritenuti responsabili di tutto ciò che il punk aveva cercato di eliminare.
Compiacimento, pigrizia e credulità, questi peccati erano parimenti colpevoli, ed
erano peccati che avevano sempre avuto dei nemici. Se si esamina la raccolta di
dischi da cui Rotten ha tratto la lista dei suoi brani, in mezzo ad una buona dose
di vari brani reggae e ossessioni adolescenziali risaltavano anche una manciata
di nomi che avevano anticipato con rabbia preveggente l’esplosione del punk,
anche di una decina d’anni: Captain Beefheart, Tim Buckley, Can, Kevin Coyne
e Peter Hammill. Tutti questi però avevano operato ben al di sotto dei radar
del mainstream, ritagliandosi nicchie talmente specializzate, che quando i loro
detrattori li hanno bollati come meri fenomeni di culto, una condanna tanto
grave non era neppure necessaria.
“La cosa interessante era che i punk non consideravano i Van Der Graaf come
dei vecchi dinosauri, tipo ‘Morite, orrendi capelloni!’”, ha dichiarato il compagno
di band di Hammill, Nic Potter, 25 anni dopo a Mojo. “Non eravamo per niente
apprezzati dal mondo punk”. E questo, sotto un certo punto di vista, è stato
il segreto del loro consenso – così come per gli altri artisti scelti da Rotten, un
gruppo selezionato che comprendeva nomi del calibro di Velvet Underground,
Kraftwerk, Residents, Deviants, Syd Barrett, Mothers of Invention, Alex Harvey,
i 13th Floor Elevators di Roky Erickson, Modern Lovers, Joe Meek, Scott Walker,
Hawkwind, Amon Duul II, Doctors of Madness e... Iggy Pop!!!
Deliberatamente o meno, volontariamente o forzatamente, tutto, semplice­
mente, è andato proprio in questo modo dolce e naturale; queste band non si
curavano di ciò che gli accadeva intorno, erano impermeabili al plauso della critica
e alle richieste del pubblico, non si interessavano di cosa funzionasse o meno dal
punto di vista commerciale quell’anno o in quel periodo. Erano punk in tutto
tranne che nel tempo, nel luogo e nella pettinatura, e si concedevano libertà che
i loro contemporanei di maggior successo commerciale non si potevano neppure
immaginare, e ideali che non trovavano posto nel mercato musicale.
Col senno di poi, si può facilmente affermare che il mercato stava cambiando e
che ciò che era stato prima invendibile si stava rapidamente trasformando in oro
colato. E in un certo senso l’affermazione sarebbe corretta. Nel 1976 si pensava
che Iggy Pop avesse le stesse possibilità di scalare le classifiche nel Regno Unito
di quante ne avesse di camminare sulla Luna. Forse anche meno. Alla fine del
1977 ci era riuscito ben tre volte con The Idiot, la ristampa di Raw Power e il suo
secondo disco solista, Lust for Life. I Modern Lovers ci erano riusciti a loro volta
per altre tre volte, Roky Erickson aveva addirittura firmato un contratto con una
major. Etichette, pubblico e critica si precipitarono ad abbracciare gli eccentrici
del passato, ansiosi di riparare a tutti gli anni in cui li avevano confinati nell’oblio.
Ma furono solo gli eccentrici del passato ad essere riabilitati con tanto affetto. Ci
sarebbero voluti ancora un paio d’anni perché una band potesse essere eccentrica
e al contempo vivere decentemente di musica; nello stesso tempo, i confini stessi
dell’essere anticonformisti si erano talmente spostati che la stessa normalità era
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
divenuta, d’un tratto, una totale stravaganza. Nel 1977 inoltrato e ancora l’anno
seguente, gli insegnamenti di The Idiot stavano ancora venendo assimilati e, al
di là del numero di gruppi che sarebbero poi emersi e che devono la loro nascita
all’ascolto del disco, quelli che erano già in circolazione non avevano di certo
trovato aperte tutte le porte che prima erano chiuse a chiave. Queste, se possibile,
si rivelarono addirittura ancora più chiuse, come è dimostrato dal destino della
band che probabilmente aveva preconizzato molto di ciò che poi fu realizzato da
The Idiot. Furono proprio loro invece a venirne spazzati via, e ci sarebbe voluto un
nuovo decennio per poter vedere i Doctors of Madness in piedi a dire al mondo:
“Ve lo avevamo detto” – ma a quel punto erano morti e sepolti da tempo.
I Doctors of Madness sono emersi nel 1975, proprio quando il glam rock si
avviava alla sua conclusione. Quando furono scoperti suonavano, di solito in un
pub a Putney, una combinazione già molto convincente di loro pezzi paranoici e di
versioni incrostate e putrescenti di canzoni di Dylan, Reed e William Burroughs.
I Doctors vennero scoperti grazie al navigato manager rock Bryan Morrison e
al vecchio lenone di Twiggy, Justin de Villeneuve. È stato costui a presentarli
al mondo come una riproposizione in chiave settantiana della decadenza della
Berlino degli anni Trenta; un’immagine adeguata, ma di certo non la più completa.
I Doctors erano già passati attraverso diversi cambiamenti di line-up prima
di stabilizzarsi in un quartetto con altrettanti appropriati pseudonimi, ovvero
Kid Strange, Urban Blitz, Pete Di Lemma e Stoner (solo Stoner). Fatto ciò, si
dedicarono, come afferma Stoner, “a mettere giù queste idee assurde, questa
immagine veramente scandalosa che avevamo creato per dare coerenza alle
canzoni che lui [Strange] scriveva”. “Siamo interessati ad una sorta di stile
cinematografico, in cui le immagini vanno e vengono” ha ribadito Strange, “e
dove il senso non viene fuori a livello razionale, ma sensoriale. La nostra musica
e il nostro spettacolo hanno conferito a questo contesto un’atmosfera fredda e
squallida, un effetto, tipo quello che si può respirare in un fatiscente e vecchio
angolo di strada. Siamo molto più osceni di Alice Cooper”. Ed erano anche, come
ha osservato Stoner con orgoglio “una delle poche band che venivano fischiate
prima ancora di iniziare a suonare. Non molti altri riuscivano a suscitare una
simile reazione”.
Il make-up della band inoltre riflette perfettamente la loro natura, con Stoner
truccato in stile Frankenstein che offre subito il La a chi cerca di rintracciare le
ispirazioni cinematografiche sottese al quartetto. L’horror degli Hammer Studios,
chiaramente.
Il debutto pubblico dei Doctors è avvenuto all’inizio del 1976, come ospiti
speciali in TV al Twiggy Show, che a quel tempo, contrariamente a quanto si
potrebbe credere, era uno dei programmi musicalmente più spregiudicati in
circolazione. Ma neppure quel tipo di pubblico era pronto per i capelli blu di
Strange e gli stivali alti fino al ginocchio di Kinky, né per una band il cui primo
album avrebbe dovuto essere accompagnato dall’avviso: DA SUONARE A
TUTTO GAS.
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e l'epopea oscura della musica inglese
Late Night Movies, All Night Brainstorms (1976) è un album quanto mai
senza compromessi, l’esito logico di quella scuola di pensiero trasversalmente
raccapricciante che spazia dalla paranoia dei Velvet Underground al paradiso dei
Roxy Music e al paradosso degli originari (pre-Make Me Smile) Cockney Rebel.
Dunque, un gruppo pop che canta di morte e distruzione? Quanto è decadente.
Peccato che i Doctors non fossero decadenti. Erano pericolosi, tanto che in epoca
pre-punk, quando l’epic rock dettava legge, Late Night Movies, All Night Brainstorms
fece a brandelli le tavole della legge, partendo dai suoi estremi e proseguendo da
lì. Quando il punk schizzò fuori dall’uretra del glam rock, questo era il suono
che ne soffocava le grida. Sul vinile, Brainstorms è apprezzabilmente diviso in
una suite lunga un intero lato, due episodi accostabili e un’autentica maratona –
apprezzabilmente perché non era certo un album facile da ascoltare tutto in una sola
volta. Entrambi i lati raggiungono picchi di dolorosa intensità: come il concerto per
basso da terremoto, violino spacca-nervi e sirena da fall-out atomico che introduce
The Noises Of The Evening verso la conclusione del primo lato, o le linee vocali
frantumate e il violino perforante dell’epica Mainlines alla fine del secondo.
Se si considerano le tracce singolarmente, l’effetto è l’equivalente musicale del
bungee jumping. Considerato il disco nel suo insieme, ci si rende conto di colpo
che qualcuno ha appena reciso la corda. Mai un album era stato intitolato in
maniera tanto appropriata. Coerentemente con le intenzioni manifestate dal
gruppo i testi di Strange sono sempre profondamente intrisi di immaginario
cinematografico e, se tornano in mente dettagli di Diamond Dogs di Bowie, non
è detto che non sia stato ricercato ad arte. Ma a differenza di Dogs, o di Berlin
di Lou Reed, o di uno qualsiasi di questi famosi incantatori, di quello o di altri
periodi, che vengono abitualmente descritti come deprimenti o particolarmente
pessimisti, la visione dei Doctors non forniva alcuna via di scampo.
Le facili alternative della morte o della resa non erano praticabili per i protagonisti
di Brainstorm, e il senso di colpa non era certo un lusso che potevano permettersi.
In tutto l’album, la linea vocale dove la speranza emerge maggiormente era: “We
just have to sit back and hope for the best”1. La più inquietante: “The doctors
know best”2. Il disco fu un vero flop. Poche persone guardarono al di là del
make-up della band, e meno ancora si presero la briga di ascoltare effettivamente
l’album. La gente davvero non apprezzò i Doctors of Madness, ma il gruppo tirò
dritto a dispetto di tutto, e durante l’autunno del 1976 completò le date dell’End
Of The World tour, uno spettacolo stravagante e bizzarro dove si assisteva a cose
tipo esplosioni di manichini e in cui la band già eseguiva grandi parti del secondo
disco, realizzato rapidissimamente, Figments Of Emancipation. Ancora una volta,
si trattava di qualcosa di monumentale. Ancora una volta, fu un flop.
Anche se continuarono a esibirsi abbastanza regolarmente, e nonostante fosse
uscito il loro primo singolo in assoluto, Bulletin, un’invettiva potente contro i
mass-media, i Doctors rimasero in silenzio per gran parte del 1977.
1 - “Dobbiamo solo rilassarci e sperare per il meglio”.
2 - “I dottori la sanno lunga”.
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
Ma i loro desolati paesaggi da sogno non sono rimasti deserti a lungo, neppure
la loro condizione di capri espiatori preferiti dei media. Molto presto nel corso
dell’anno sarebbero emersi gli Ultravox a contendersi entrambe queste ambigue
corone.
L’origine degli Ultravox va rintracciata nel cantante John Foxx e nel bassista
Chris Cross e nella loro passione comune per i Roxy Music. Foxx aveva messo su
Melody Maker un annuncio per formare una band, in cui richiedeva solo fanatici
che condividessero quella passione. La coppia deve avere “fatto audizioni a tutti i
disperati di Londra”, ha ricordato Foxx, prima di scegliere finalmente Billy Curry,
Warren Cann e Steven Shears, e uscire a metà del 1975 con il nome di Tiger Lily.
I Tiger Lily hanno fatto un solo singolo, una versione ostentatamente oscura di
Ain’t Misbehavin di Fats Waller che è passata totalmente inosservata, nonostante
fosse stata scelta come tema portante della colonna sonora di un film porno del
1975. Leggermente ridimensionata, la band ha fatto una serie di date, soprattutto
al poco meno che salubre Doll’s House di King’s Cross, e contemporaneamente
ha continuato con foga la scrittura delle canzoni con le quali si sarebbe scrollata
di dosso la macchia dei Tiger Lily.
Secondo la leggenda, hanno adottato il nome Ultravox perché aveva provocato
il totale disprezzo di tutti quelli a cui lo avevano sottoposto. “Non piaceva a
nessuno, così abbiamo pensato che doveva possedere qualche virtù”, ha ammesso
Foxx, prima di riconoscere che anche la loro musica piaceva a pochissima gente.
Ogni postino sembrava dover portare l’ennesima lettera di rifiuto da parte di una
major, fino a che un demo, registrato nell’estate 1976 con l’allora sconosciuto
Steve Lillywhite, attirò la curiosità della Island Records, per la quale era stato
appositamente realizzato. Le influenze degli Ultravox erano spudoratamente
tratte dal gotha del catalogo più recente della Island: Roxy Music, Sparks, John
Cale, Eno. Entro la fine dell’anno la band era già in studio con quest’ultimo,
a lavorare all’album d’esordio. Tenendo presente che alcuni degli artisti a cui
sono stati paragonati dai critici più recenti neppure esistevano ai tempi in cui gli
Ultravox stavano registrando, l’album venne fuori come un intruglio affascinante:
“It’s not like anything I’ve ever known before”3, canta John Foxx sul primo singolo
Dangerous Rhythms, e ha ragione... quasi del tutto.
L’influenza di Eno ha facilitato sicuramente l’inserimento di ampi strati di
Bowie e delle successive sperimentazioni di Iggy, mentre l’eredità dei Roxy Music
permeava ampie parti della band.
Andando indietro nel tempo si può cogliere in qualche zona liminare addirittura
un accenno a Computer Love di William R Strickland, tanto che viene da chiedersi
se qualcuno della band abbia posseduto Wowie Zowie! The World of Progressive
Music, la compilation prodotta dalla Decca alla fine degli anni Sessanta, in cui
quel gioiello era facilmente reperibile. Ma l’imminente e non ancora ascoltato
Trans-Europe Express dei Kraftwerk è preconizzato con inquietante naturalezza,
mentre gli episodici lampi di furia devastante mostrano come la band non fosse
3 - “È diverso da tutto quanto abbia mai conosciuto prima d’ora”.
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e l'epopea oscura della musica inglese
per niente insensibile al tumulto che si svolgeva tutto intorno. Dalla fine del 1976,
molti live degli Ultravox sono avvenuti nel solco dell’illuminante e formativo
momento d’oro del Punk, e questa esperienza non ha mancato di lasciare tracce
nel loro sound. Anche nei loro momenti di maggior foga, gli Ultravox non erano
però destinati a divenire cloni di The Idiot (o suoi predecessori, bisogna tenere
a mente che dopotutto il loro disco è stato pubblicato almeno una quindicina
di giorni prima di quello di Iggy). In ogni caso avevano quantomeno qualche
influenza in comune, e non sarebbero di certo stati spazzati via dalla rivelazione
del disco di Pop.
Nonostante siano stati stroncati dalle riviste musicali, in un attacco che
avrebbe sancito la fine dell’era Foxx (e spianato la strada alla più tenace versione
capitanata da Midge Ure), gli Ultravox hanno tuttavia trovato diversi ascoltatori
interessati. Gary Numan, per l’ennesima volta, ne parla in maniera entusiastica
rivelandosi in grado di riconoscerne il ruolo guida per quanto riguarda l’adozione
dell’elettronica; senza contare che di lì a poco avrebbe individuato altri folli messia
senza i quali il mondo non sarebbe mai arrivato dove si trova ora.
I Rikki and the Last Days of Earth non possono essere anch’essi annoverati nel
numero dei profeti solo perché sono riusciti ad esprimere le proprie potenzialità
appena un paio di mesi più tardi, e tuttavia non bisogna tralasciare che sono stati
la prima band in assoluto a sfruttare appieno sia le potenzialità dell’elettronica,
sia le atmosfere sonore di The Idiot, riuscendo ad ottenere un amalgama coerente
(e ciò fu realizzato, per quanto possa sembrare sorprendente, senza l’utilizzo di
alcun synth). Il che non è privo di rilevanza e deve essere sottolineato con forza.
Già nel 1974, il boss dei Buzzcocks, Pete Shelley, aveva fatto abbastanza
esperimenti con un oscillatore per poter registrare un’ora e passa di nastro intitolato
Sky Yen, ma, nel 1977 se ne era solo sentito parlare. I The Future (che di lì a poco
sarebbero diventati Human League), i Cabaret Voltaire, Thomas Leer e altri in
un modo o nell’altro stavano tutti emergendo, e guardavano anche oltre, verso
l’algido futuro elettronico. Ma anche loro erano ancora ad un livello più teorico
che pratico, e di certo non erano stati ascoltati oltre i propri immediati confini.
Mentre invece i Rikki and the Last Days of Earth suonavano dal vivo già dalla
metà dell’estate del 1977; avevano aperto la prima Audition Night in assoluto
al Roxy Club il 29 giugno, e avevano suonato come headliner, sei settimane più
tardi, nello stesso mitico locale.
I Rikki and the Last Days of Earth erano un quintetto vestito di pelle nera, che
seppe immediatamente uscire dal coro grazie a un suono saturo di synth massicci
e al frontman Rikki Sylvan, la cui voce richiamava palesemente quella di Bryan
Ferry. Erano una miscela senza compromessi, tanto che ancora oggi, quando
capita che vecchi punk si ritrovino per rivangare la giovinezza ormai morta e
sepolta, prima o poi qualcuno inevitabilmente menziona i Rikki and the Last
Days of Earth, e gli altri scoppiano tutti a ridere. Sono generalmente ricordati (e
universalmente derisi), persino tra quelli che all’epoca non avevano mai sentito
parlare del gruppo, per aver pubblicato uno degli album più dileggiati di tutta
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Gothic Rock - Sisters Of Mercy, Bauhaus, Cure
l’esplosione punk della fine degli anni Settanta; anzi, per dirla come un critico,
quando la canzone migliore è la cover di un vecchio pezzo dei Rolling Stones,
una band è messa parecchio male. Tanto più che Street Fighting Man non doveva
affatto diventare il loro pezzo forte, ed infatti l’avevano relegata a b-side.
Ma ancora una volta, è stato qualche anno dopo, quando il nome di Sylvan è
apparso affianco a quello di Gary Numan nei credits di un disco di quest’ultimo,
Replicas, che la gente si è ricordata di quello che aveva fatto nel 1977, mentre
qualsiasi fama che oggi accompagna il cantante è dovuta per lo più al suo lavoro
innovativo al fianco del giovane William Orbit piuttosto che alla sua carriera
personale. Ad ogni modo, tramite il loro primo singolo pubblicato alla fine del
1977, il brutalmente aggressivo City Of The Damned, e con un album omonimo
all’inizio del nuovo anno, il gruppo capì con precisione quale fosse il proprio ruolo.
Il mondo stava per cadere a pezzi, e loro erano lì per orchestrare l’Armageddon.
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