Editoriale
Stato, collettività, individui, consenso
Questo fascicolo è, in larga misura, la riedizione del I numero della “II serie” di
Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia, uscito nel 1995, il quale proponeva una serie di elementi che mostrassero lo sviluppo storico della riflessione
filosofica sul rapporto di accettazione, da parte dei sudditi, del potere politico.
Ad esso affiancammo – e qui riproponiamo – la traduzione commentata di un
testo filosofico classico sul tema: il Discorso sulla Servitù Volontaria di Étienne de
La Boétie – il grande amico di Michel de Montaigne, autore di un testo scritto
“in onore della libertà contro i tiranni.”
La questione dell’acquiescenza al potere politico – anche quando esso compie
gli atti più efferati e gravidi di disastrose conseguenze – è di una tale importanza
oggi che ci è sembrato di notevole utilità riproporre ed ampliare quelle riflessioni. Sono passati dieci anni da allora, durante i quali la questione del consenso a
politiche sempre più pericolose per la stessa sopravvivenza della vita in quanto
tale è divenuto sempre più un nodo centrale.
Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di
Filosofia... costituisce un momento comunitario di lavoro collettivo e di confronto
tematico – un “laboratorio” – in vista di
un rinnovamento extraistituzionale del
dibattito e della ricerca filosofica.
Il progetto parte da alcune constatazioni. Innanzitutto, uno stato sociale di
marginalità culturale delle discipline filosofiche trova oggi riflesso nella cultura
che di esse si occupa in modo specialistico, in una forma di autocomprensione
della Filosofia, che tende a racchiudere
le attività filosofiche nel circolo delle
attività solitarie della riflessione, della
lettura e della scrittura, e a circoscrivere
il loro momento pubblico nei luoghi,
istituzionalmente predisposti, dell’insegnamento scolastico/universitario e del
convegno tra esperti. Ora, ciò che rischia di andare perduto e/o occultato in
queste immagini della Filosofia è proprio una caratteristica che è stata matrice
essenziale per la nascita stessa di questa
disciplina. Tale caratteristica va individuata nella pretesa della Filosofia di essere una modalità di partecipazione diretta alle forme di comprensione dell’essere e della vita sociale, nonché di revoca di quel consenso che viene concesso,
per autorità di rivelazione o di tradizione, per timore della forza o per invidia,
ai poteri culturali e politici vigenti.
Il progetto di Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia... è volto perciò
alla costruzione di un lavoro di ricerca
non elitario ed esoterico, ma che riscopra
invece quel ruolo sociale che la Filosofia
aveva all’atto della sua nascita e che ne ha
caratterizzato i suoi momenti più fecondi.
L’obiettivo è quello di mostrare come la
Filosofia possegga la capacità di parlare in
modo razionale e sensato, di offrire, in
altre parole, validi momenti di riflessione
ed elaborazione di categorie e comportamenti culturali, sui nodi cruciali dei vari e
diversi campi dell’esperienza umana.
Al di là di ciò, non esiste una “linea”
culturale prefissata della pubblicazione, il
che la rende simile ad una sorta di matematico insieme di Cantor: come questo,
essa è definita in modo esclusivo dai suoi
elementi, in altre parole dai testi che di
volta in volta, numero per numero, costituiranno l’ossatura del dibattito e del lavoro collettivo. D’altronde la redazione stessa è costituita da persone provenienti da
esperienze culturali e politiche eterogenee,
che ritrovano nell’autogestione culturale –
in una forma e non in un contenuto – il
loro punto di incontro.
Scrivere su Porta di Massa – Laboratorio
Autogestito di Filosofia... significa, pertanto,
riaffermare la volontà di mantenere uno
spazio aperto e totalmente autogestito di
discussione e di dibattito. Ciò, ovviamen-
1
“(...) à l’honneur de la liberté
contre les tyrans.” MONTAIGNE, Michel de, Essais, Paris, Garnier, 1962, pp. 198.
2
te, non implica affatto la corresponsabilità
reciproca degli indirizzi d’indagine. Il ruolo e la responsabilità del dibattito redazionale e, in ultima istanza, quello del direttore sono limitati perciò, nella piena libertà
di indirizzi culturali dei singoli, alla garanzia nei confronti del lettore della correttezza scientifica dei materiali presentati
alla sua attenzione.
D’altro canto, la vita umana associata, nell’esperienza di ciascuno di noi, è
colma d’inutili sofferenze ed irrazionalità, che rimandano ad una riflessione sui
meccanismi del loro superamento. La
rivista che avete tra le mani, nei suoi
limiti, è pertanto anche un esperimento
utopico: è il tentativo di mostrare la possibilità di fare Filosofia e, in generale,
Scienza in un luogo che non è quello
degli spazi istituzionali, attraverso un’esperienza redazionale comunitaria e libertaria che si pone come alternativa alle
gerarchie culturali e politiche della Filosofia ridotta a sapere morto ed istituzionalizzato, a mero “genere letterario”.
La particolarità della rivista – ciò che
la rende un “laboratorio” – consiste in
un particolare metodo di lavoro redazionale. La redazione è composta, numero
per numero, da chi propone un articolo
su una determinata parola-chiave: si può
trattare di chi partecipa in maniera fissa
alla redazione, così come di chi dà il suo
contributo solo per quello specifico numero. In entrambi i casi, chi presenta un
articolo s’impegna contestualmente a
partecipare al lavoro redazionale, che si
svolge secondo un’ottica comunitaria. In
altri termini, non è possibile consegnare
il proprio contributo e basta: chi presenta un articolo s’impegna a leggere quelli
di tutti gli altri partecipanti al numero ed
a fornire loro spunti critici, nei limiti
ovviamente delle conoscenze e/o possibilità di ognuno.
Il lavoro redazionale, inoltre, è sottoposto ad una norma generale: in linea di
principio, non va criticata l’idea di base,
l’opzione culturale di fondo del singolo,
ma esclusivamente la sua espressione
scientifica. Questo significa che chi si
ritrova a leggere un contributo di cui
non condivide l’impostazione di base,
deve fare lo sforzo concettuale di entrare all’interno di quelle idee – che possono essere estremamente distanti dalle
sue – e pensare come queste stesse idee
potrebbero essere espresse con maggiore incisività e coerenza logica. Tale meccanismo fa sì che il collettivo redazionale si sostenga vicendevolmente in un’ottica libertaria, senza cioè censurare in
alcun modo le peculiarità concettuali dei
singoli, ma, al contrario, arricchire le
sue potenzialità espressive. Questo, ovviamente, cum grano salis: il ruolo del Comitato di Redazione e, in ultima istanza,
del Direttore Responsabile, consiste
anche nell’individuare quelle opzioni
culturali che appaiono loro irrimediabilmente contraddittorie e garantire, quindi, il lettore della correttezza scientifica
dei materiali che, alla fine, vengono presentati alla sua attenzione.
Si tratta, evidentemente, di un meccanismo redazionale coerente con il tentativo di porsi al di fuori dei luoghi e
delle gerarchie del sapere istituzionalizzato. La parola-chiave serve da spunto
per aprire un ricco dibattito collettivo,
che si sviluppa in numerose riunioni
redazionali, le quali non hanno lo scopo
di giungere a definire una “linea” alla
quale i redattori devono sottostare, bensì alla presentazione di un ventaglio di
proposte di ricerca diversificate, volte ad
offrire al lettore i problemi, i risultati, le
ambiguità connesse al tentativo di dare
conto, secondo ragione, almeno parzialmente, degli svariati mondi che una determinata parola ha il dono di offrire alla
riflessione degli esseri umani.
Parallelamente a questo tipo di lavoro
redazionale, il collettivo lavora anche
intorno all’edizione di un “classico” della
storia del pensiero filosofico, congruente
con la parola chiave prescelta, che viene
allegato alla rivista. Il collettivo redazionale lavora poi anche sul territorio, nel
tentativo di riportare il pensiero concettuale nell’agorà, offrendo soprattutto al
di fuori dei luoghi deputati istituzionalmente alla ricerca filosofica, numerosi
spazi di conoscenza, di confronto e di
dibattito. Quest’ultimo genere d’attività è
riuscito a coinvolgere centinaia di persone, mentre la stessa, più impegnativa,
attività redazionale di “laboratorio” è
riuscita comunque ad attrarre in questi
anni l’attenzione di decine di persone.
Negli ultimi tempi, inoltre, si sta cercando di esportare il progetto culturale sotteso alla rivista anche al di fuori della
città di Napoli, in cui questa esperienza è
nata e si è radicata.
3
Étienne de La Boétie
Discorso sulla
Servitù Volontaria
Titolo originale dell’opera
Discours de la Servitude Volontarie
(1546?)
Traduzione di Vincenzo Papa
Saggio introduttivo
“Un’Ambigua Utopia Repubblicana”
e note al testo
di Enrico Voccia
4
5
Enrico Voccia
Un’ambigua Utopia Repubblicana
In primo luogo, credo che sia fuori dubbio
che, se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che
ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti
ai genitori, seguaci della ragione e servi di
nessuno. (Étienne de La Boétie, Discorso sulla
Servitù Volontaria)
N
egli Essais di Montaigne noi troviamo un lungo capitolo intitolato “Dell’amicizia”, quasi totalmente
dedicato alla celebrazione ed al ricordo
di un amico scomparso in giovane età.
D’altronde, ciò che noi chiamiamo ordinariamente amici e amicizie, non sono che
accostamenti e familiarità annodate per
qualche occasione o convenienza, attraverso la quale le nostre anime si trattengono reciprocamente. Nell’amicizia di cui
parlo, esse si mescolano e si confondono
l’una nell’altra, in un insieme così universale, che esse smarriscono e non ritrovano
più la connessione che le ha unite. Se mi
si costringesse a dire perché l’amavo, sento che non potrei esprimere la cosa altrimenti che rispondendo: “Perché era lui,
perché ero io.” (...) Ci cercavamo prima
di esserci visti (...) ci abbracciavamo per
mezzo dei nostri nomi. E al nostro primo
incontro, che avvenne casualmente in una
grande festa e riunione cittadina, ci trovammo così presi, così conosciuti, così
obbligati fra noi, che da allora niente fu
tanto vicino quanto l’uno all’altro. (...) Le
nostre anime hanno viaggiato insieme
talmente unite, si sono considerate con
così ardente affetto, e di questo stesso
affetto si sono scoperte fino al fondo delle viscere l’una e l’altra, tanto che, non
solo io conoscevo la sua come la mia, ma
certamente mi sarei affidato più volentieri
a lui che a me stesso.
Queste pagine sono state per lungo
tempo il migliore passaporto per la
posterità di Étienne de La Boétie, l’au-
tore di un testo “maledetto” che –
spesso e volentieri in edizioni clandestine – ha percorso con la sua carica
liberatoria i movimenti di opposizione
all’ancien régime prima, allo stato borghese/liberale poi, e che in Italia conobbe la sua prima traduzione durante
la Rivoluzione Napoletana del 1799.
Vita di un ateniese antico
nella Francia del XVI secolo
Ètienne de La Boétie era nato il I novembre del 1530 a Sarlat, piccola città
del Périgord non lontana dal capoluogo della regione, Périguex: restato orfano in giovane età era stato allevato
dallo zio, che era il curato di Bouilhonas, e da questi avviato agli studi. In
questo periodo era Vescovo di Sarlat
un cugino dei Medici di Firenze, Nicolò Gaddi, personaggio dotato di un’enorme cultura – legato strettamente
alle esperienze dell’umanismo italiano
– che intendeva fare della propria diocesi una sorta di “Atene del Périgord”.
In questo sogno classicista il giovane
La Boétie venne ben presto introdotto: fu in un tale ambiente che egli entrò in contatto con il culto e le idee
repubblicane dell’antichità classica che
forniranno gli strumenti concettuali al
suo pensiero maturo.
Dopo gli studi collegiali gli si fece
balenare davanti l’occasione di accedere alla magistratura ed Étienne, allora,
si iscrisse alla Facoltà di Diritto dell’Università di Orléans. Il giovane pensatore francese incontrò nei suoi studi
universitari una serie di insegnanti
molto brillanti e, spesso, anche assai
poco ortodossi: in effetti la Facoltà di
Diritto cui si era iscritto La Boétie era
all’avanguardia degli studi giurispru-
1
MONTAIGNE, Michel de,
Essais, Paris, Garnier, 1962,
pp. 203/220: “Au demeurant, ce
que nous appellons ordinairement amis et amitiez, ce ne sont
qu’accoinctances et familiaritez
nouées par quelque occasion ou
commodité, par le moyen de
laquelle nos ames s’entretiennent.
En l’amitié dequoy je parle, elles
se meslent et confondent l’une
en l’autre, d’un melange si universel, qu’elles effacent et ne
retrouvent plus la couture qui les
a jointes. Si on me presse de dire
pourquoy je l’aymois, je sens que
cela ne se peut exprimer, qu’en
respondant: "Par ce que c’estoit
luy; par ce que c’estoit moy." (...)
Nous nous cherchions avant que
de nous estre veus (...) nous nous
embrassions par noz noms. Et à
notre premiere rencontre, qui fut
par hazard en une grande feste et
compagnie de ville, nous nous
trouvasmes si prins, si cognus, si
obligez entre nous, que rien dès
lors ne nous fut si proche que
l’un à l’autre. (...) Nos ames ont
charrié si uniement ensemble,
elles se sont considerées d’une si
ardant affection, et de pareille
affection descouvertes jusques au
fin fond des entrailles l’une à
l’autre, que non seulement je
connoissoy la sienne comme la
mienne, mais je me fusse certainement plus volontiers fié à luy
de moy qu’à moy.”
2
Discorso di Stefano della Boétie
della schiavitù volontaria o il
Contra uno, Napoli, 1799. Traduttore e curatore dell’opera fu Cesare Paribelli, un prigioniero politico del regime borbonico.
6
1
Anne du Bourg, Professore
di Diritto all’Università di
Orléans nonché Consigliere al
Parlamento della città di Parigi,
era assai noto sia per la sua vasta
ed indiscussa cultura giuridica sia
per la sua dichiarata fede protestante, che lo portò, di fronte alla
persona stessa del re Enrico II, a
contestare vivamente la repressione antiugonotta. La sua coraggiosa presa di posizione gli costò
la vita: nel 1559 venne condannato all’impiccagione ed il suo corpo fu successivamente bruciato.
Étienne de La Boétie, benché
cattolico, avvertì fortissimamente
l’influenza del suo maestro all’Università; è pressocché unanimemente riconosciuto che il Discorso
sulla Servitù Volontaria risente dell’influsso di alcune delle idee di
Anne du Bourg.
2
Nel 1557 il Parlamento di
Bordeaux fece giustiziare il
leader ugonotto Bernard de Borda; l’anno dopo inviò al rogo
Jean de Caze e Arnaud Monnier,
due giovanissimi accusati di eresia; l’anno dopo ancora fu la volta di un mercante della città accusato di aver istigato altre persone
a mutilare le statue della Madonna e del Cristo.
I protestanti vennero co3
stretti a restituire ai monaci
del monastero di S. Giacomo i
loro possessi di natura religiosa
(convento e chiese), mentre ai
cattolici venne ordinato di lasciar
svolgere agli ugonotti le loro
funzioni religiose nella chiesa di
Sainte-Foy. Nelle località minori,
dove era presente un unico edificio di culto, si stabilì il principio
dell’uso a rotazione dello stesso.
VOCCIA, Enrico
denziali dell’epoca. In questa sede infatti le opere di Lorenzo Valla, di Angelo Poliziano, di André Alciat circolavano abbondantemente e, con esse,
l’abitudine di applicare la filologia e le
conoscenze erudite di storia antica allo
studio del diritto. Ad Orléans insegnava in particolare Anne du Bourg:
l’interpretazione grammaticale delle
espressioni giuridiche, l’analisi semantica dei termini, le riflessioni di filosofia del diritto, l’esame critico dei testi
erano il tratto distintivo del suo insegnamento. La tipica forma mentis razionalistica e non puramente storicistica
delle argomentazioni che La Boétie
inserirà nel suo Discorso sulla Servitù
Volontaria si svilupperà proprio nel
clima culturale vissuto in questi anni
da docenti e discenti della Facoltà di
Diritto dell’Università di Orléans.
Dopo una brillante carriera di studi,
La Boétie si laureò in Giurisprudenza il
23 settembre del 1553; pochi giorni dopo, il 13 ottobre, ottenne la licenza reale
che gli consentiva di accettare la carica
di Consigliere al Parlamento di Bordeaux e, dopo un periodo di prova ed un
esame, il 17 marzo 1554 venne definitivamente integrato in tale carica. Tre
anni dopo, nel 1557, diverrà Consigliere
al Parlamento di Bordeaux anche Michel de Montaigne e nascerà tra i due la
celebre amicizia che quest’ultimo descriverà coi toni che già conosciamo.
I due amici svilupperanno la loro amicizia in un contesto politico estremamente travagliato: il Parlamento di
Bordeaux venne infatti trascinato, volente o nolente, nel pieno dei disordini
legati allo scontro religioso e al diffondersi della Riforma nel Midi acquitano.
Chiamato al lealismo realista, attraverso di esso passarono dapprima numerose condanne a morte e poi, nel
1560, l’applicazione di un editto reale
che, oltre a negare ogni diritto di associazione agli ugonotti, imponeva una
repressione feroce contro ogni istanza
alternativa al cattolicesimo.
É in questo contesto che nel 1560
venne affidata a La Boétie una missione segreta di riconciliazione religiosa
presso Caterina dei Medici, la reggente
al trono per il decenne Carlo IX –
missione nascosta sotto l’apparenza di
una discussione presso il potere centrale della paga dei magistrati della città. Il motivo per cui una missione così
delicata fu affidata ad un consigliere
così giovane e, fino ad allora, con una
carriera non particolarmente brillante,
va ricercata nel fatto che La Boétie era,
sotto molti punti di vista, l’uomo più
adatto per una tale incombenza. Innanzitutto il giovane consigliere si era
formato alla scuola intellettuale di Nicolò Gaddi, parente della reggente, ed
era perciò un elemento ben accetto
alla corte reale francese. Inoltre proprio il fatto che La Boétie era rimasto
notevolmente in ombra durante tutta
la sua attività di Consigliere al Parlamento di Bordeaux era segno evidente, al di là dei comportamenti obbligati
e della sua fede cattolica, di una posizione in qualche misura dissidente rispetto alla politica ottusamente repressiva attuata dal Parlamento nei confronti dei non cattolici.
Étienne de La Boétie per svolgere
questa missione entrò in contatto con
il cancelliere Michel de L’Hospital,
fautore della politica di pace e di tolleranza religiosa inaugurata dalla reggente, con cui si legò in un’amicizia al
tempo stesso personale e politica. Il
cancelliere affidò al giovane amico il
compito di farsi interprete presso il
Parlamento di Bordeaux, fino ad allora
seguace della politica repressiva e filocattolica legata al partito dei Guise,
della nuova linea di tolleranza i cui
punti salienti erano contenuti nell’ordinanza degli Stati Generali emanata
ad Orléans il 31 gennaio 1561. Dopo
aver svolto brillatemente tale compito,
de L’Hospital gli affidò il tentativo di
mediazione pacifica di alcuni scontri
religiosi avvenuti nella zona di Agenais. In tale compito La Boétie affiancò il luogotenente reale de Burie; il suo
ruolo fu essenziale nel raggiungere una
soluzione di compromesso sostanzialmente soddisfacente per entrambe le
parti in lotta.
Il rapporto strettissimo che legava
oramai il giovane cancelliere alla politi-
7
Un’ambigua Utopia Repubblicana
ca di conciliazione religiosa della reggente e del suo cancelliere si concretizzò nella pubblicazione della Mémoire
sur l’Edit de Janvier, dove La Boétie
prendeva posizione a favore della politica di relativa tolleranza religiosa della
reggente Caterina dei Medici e del suo
entourage. In questo testo egli denunciava, da un lato, i pericoli connessi agli
scontri religiosi che dilaniano una nazione, dall’altro, l’inutilità – anzi la
dannosità rispetto allo scopo della
conciliazione sociale – della repressione violenta. Il cattolicesimo sarebbe
dovuto restare la religione principale
dello stato francese, ma la strada per la
pacificazione nazionale consisteva, a
suo avviso, nella creazione di un
“cattolicesimo riformato” in cui cattolici tradizionali e protestanti avrebbero
potuto riconciliarsi.
In questo periodo Étienne de La
Boétie collabora con il suo grande amico Michel de Montaigne per convincere le ali cattoliche oltranziste del
Parlamento di Bordeaux a non ostacolare la politica di pacificazione nazionale portata avanti dalla reggente e dal
cancelliere de L’Hospital. Nel dicembre 1562 egli è ancora una volta protagonista di un riuscito tentativo di pacificazione, entrando a far parte di una
missione incaricata di arrestare un piccolo esercito ugonotto che si dirigeva
verso Bordeaux. Dopo vari anni di
anonimato, La Boétie cominciava ad
assumere un ruolo politico di una
qualche rilevanza; pochi mesi dopo
però, all’età di nemmeno 33 anni, egli
si ammalò bruscamente. Sentendosi
prossimo alla morte, il 14 agosto 1563
egli redasse il suo testamento; Montaigne era accorso al suo capezzale e, il
18 agosto, Étienne de La Boétie morì
tra le sue braccia, invocando il nome
del grande amico che ne raccoglieva
l’ultimo respiro.
Un ambiguo esecutore testamentario
Durante la sua breve vita Étienne de
La Boétie non ebbe materialmente il
KRITIOS e MNESIOTES, I Tirannicidi
tempo di pubblicare la maggior parte
dei suoi lavori; nel testamento redatto
poco prima di morire egli lasciò la sua
biblioteca e soprattutto i suoi manoscritti a Montaigne. Questi deciderà di
onorare la memoria del grande amico
scomparso pubblicandone a più riprese le opere, ma in quest’attività di esecutore testamentario si comporterà in
maniera a dir poco assai cauta. Innanzitutto tra la morte dell’amico e la
pubblicazione di alcuni suoi testi lascia
passare ben sette anni – un periodo di
tempo assai lungo, difficilmente giustificabile con le necessità tecniche dell’ordinamento dei manoscritti. Inoltre, e
soprattutto, Michel de Montaigne esclude con estrema cura dalla pubblicazione non solo il Discorso sulla Servitù
Volontaria ma anche qualunque testo
di La Boétie che abbia sia pur lontanamente a che fare con esso. Montaigne
infatti dell’amico scomparso fa stampare una serie di poesie e le traduzioni
in francese di alcune opere di Senofonte e Plutarco; inserisce inoltre nelle
cinque edizioni dei suoi Essais pubbli-
1
Il testo, considerato per
lungo tempo come perduto,
fu ritrovato nel 1917 e venne
edito a cura di Paul Bonnefon
(Paris, Brossard, 1922); l’editto di
cui si parla è quello che la reggente e il suo cancelliere emanarono il 17 gennaio 1562 in favore
della conciliazione nazionale.
2
La morte dell’amico è efficacemente descritta da Montaigne in una lettera al padre. Cfr.
MONTAIGNE, Michel de, Oeuvres complètes, Parigi, Gallimard,
1962, pp. 1347/1365. É incerta la
malattia che ne ha causato della
morte: a giudicare dalla testimonianza di Montaigne (“un flux de
ventre avec des tranchées”) potrebbe trattarsi di una grave forma di dissenteria o, forse, di colera; ma non si può escludere che
egli sia stato invece vittima dell’epidemia di peste che imperversava in quel periodo nell’Agenais.
VOCCIA, Enrico
8
1
MONTAIGNE, Michel de,
Essais, Paris, Garnier, 1962,
pp. 198/199: “C’est un discours
auquel il donna nom La Servitude
Volontaire; mais ceux qui l’ont
ignoré, l’ont bien proprement
depuis rebaptisé Le Contre Un. Il
l’escrivit par maniere d’essay, en
sa premiere jeunesse, à l’honneur
de la liberté contre les tyrans. Il
court pieça és mains des gens
d’entendement, non sans bien
grande e méritée recommandation: car il est gentil, et plein ce
qu’il est possible. Si y a il bien à
dire que ce ne soit le mieux qu’il
peut faire; et si, en l’aage que je
l’ay conneu, plus avancé, il eut
pris un tel desseing que le mien
de mettre par escrit ses fantasies,
nous verrions plusieurs choses
rares et qui nous approcheroient
bien prês de l’honneur de l’antiquité; car, notamment en cette
partie des dons de nature, je n’en
connois point qui luy soit comparable. Mais il n’est demeuré de
luy que ce discours, encore par
rencontre, et croy qu’il ne le veit
onques depuis qu’il luy eschapa,
et quelques memoires sur set
edict de Janvier, fameus par nos
guerres civiles, qui trouveront
encores ailleurs peut estre leur
place. C’est tout que j’ay peu
recouvrer de ses reliques, moy
qu’il laissa, d’une si amoureuse
recommandation, la mort entre
les dents, par son testament, hériter de sa bibliothèque et de ses
papiers, outre le livret de ses oeuvres que j’ay fait mettre en lumiere. Et si, suis obligé particulierement à cette piece, d’autant
qu’elle a servy de moyen à notre
premiere accoinctance. Car elle
me fut montrée longue piece
avant que je l’eusse veu, et me
donna la premiere connaissance
de son nom, acheminant ainsi
cette amitié que nous avons
nourrie, tant que Dieu a voulu,
entre nous, si entiere et si parfaite
que certainement il ne s’en lit
guiere de pareilles, et, entre nos
hommes, il ne s’en voit aucune
trace en usage.”
BRUEGEL, Pieter (il vecchio), La Torre di Babele
cate durante la vita, in appendice al
capitolo dedicato all’amicizia, 29 sonetti di La Boétie di contenuto per lo
più amoroso. Ma il Discorso sulla Servitù
Volontaria cita esplicitamente il passaggio di una poesia dal contenuto chiaramente politico; di tali versi non c’è più
traccia nella biblioteca di Montaigne,
così come dello stesso manoscritto
della principale opera politica di La
Boétie.
La difficoltà che Montaigne prova
nei confronti dell’aspetto politico dell’attività di pensiero dell’amico scomparso è patente in due passaggi del
capitolo XXVIII dei suoi Essais:
É un discorso al quale diede nome La
Servitù Volontaria; ma quelli che hanno
ignorato ciò, l’hanno assai propriamente
ribattezzato in seguito Il Contr’Uno. Lo
scrisse come per un saggio, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà contro i tiranni. Da molto tempo è nelle mani
delle persone d’ingegno, non senza enorme e meritata fama: poiché è nobile, e
denso quant’è possibile. Si deve ciononostante dire che non sia il meglio che avrebbe potuto fare; e se, all’età in cui io
l’ho conosciuto, più maturo, avesse preso
lo stesso disegno mio di mettere per iscritto i suoi pensieri, vedremmo molte cose
pregiate e che ci richiamerebbero assai da
vicino la grandezza dell’antichità; infatti,
specialmente nella parte dei doni di natura, non conosco nessuno che gli sia comparabile. Ma non è avanzato di lui che
quel discorso, forse per caso, e credo che
egli non l’abbia più visto dopo che gli
sfuggì dalle mani, ed alcune memorie su
quell’editto di gennaio, famoso a causa
delle nostre guerre civili, che troveranno
forse anch’esse altrove il loro posto. É
tutto ciò che ho potuto recuperare delle
sue reliquie, io che egli lasciò, con una
raccomandazione così amorosa, la morte
tra i denti, con il suo testamento, erede
della sua biblioteca e dei suoi manoscritti,
oltre al libretto delle sue opere che ho
fatto pubblicare. E sono particolarmente
riconoscente a quest’opera, in quanto essa
è servita come mezzo per la nostra prima
conoscenza. Infatti essa mi fu mostrata
molto tempo prima ch’io l’avessi veduto,
e mi fornì la prima conoscenza del suo
nome, avviando così quell’amicizia che
abbiamo coltivato tra di noi, per tutto il
tempo che Dio ha voluto, così integra e
così perfetta che di sicuro non se ne legge
niente di simile, e, fra noi contemporanei,
non se ne vede alcuna traccia dell’uso.
Ma andiamo un po’ a parlare di questo
ragazzo di sedici anni. Poiché ho riscontrato che quell’opera è stata successivamente pubblicata, e per un cattivo fine, da
coloro che cercano di turbare e cambiare
la forma del nostro governo, senza darsi
cura di sapere se lo miglioreranno, che lo
hanno unito ad altri scritti farina del loro
Un’ambigua Utopia Repubblicana
sacco, recedo dalla mia idea iniziale di
metterla qui. E affinché la memoria dell’autore non abbia a soffrirne nei confronti
di coloro che non hanno potuto conoscere da vicino le sue opinioni e le sue azioni,
li avviso che questo soggetto fu trattato da
lui nella sua primissima giovinezza, soltanto come per un esercizio, come soggetto
volgare e affrontato mille volte nei libri.
Non metto assolutamente in dubbio che
egli non credesse in ciò che scriveva, perché era abbastanza coscienzioso da non
mentire neanche per gioco. E so anche
che, se avesse dovuto scegliere, avrebbe di
gran lunga preferito essere nato a Venezia
che a Sarlac; ed a ragione. Ma egli aveva
un’altra massima sovranamente scolpita
nella sua anima, obbedire e sottomettersi
scrupolosamente alle leggi sotto le quali
era nato. Non ci fu mai un miglior cittadino, né più affezionato alla pace del suo
paese, né più nemico dei rivolgimenti e
delle innovazioni del suo tempo. Egli
piuttosto avrebbe impiegato le sue capacità per spegnerli, che a fornire materiale
per fomentarli ancora di più. Aveva il suo
spirito forgiato sul modello di altri secoli
piuttosto che di questo.
Il problema è evidente: il testo dell’amico scomparso possiede una valenza
politica innegabile e, se ciò non bastasse, circola in edizioni clandestine edite
dalle correnti repubblicaneggianti dell’
opposizione protestante alla monarchia francese. Farsene editore ufficiale
creerebbe dunque grossi problemi a
Montaigne – che d’altronde sente l’obbligo morale di parlarne comunque,
dal momento che si tratta in assoluto
dell’opera più nota di La Boétie e che
lui stesso aveva avuto occasione di
leggere manoscritta prima del 1557.
Altrettanto evidente del suo imbarazzo
è poi la strategia messa in atto nei passaggi citati: separare le riflessioni del
giovane La Boétie da quelle del suo
pensiero maturo.
Montaigne, innanzitutto, fa notare
che i promotori delle edizioni clandestine del Discorso sulla Servitù Volontaria
l’hanno pubblicato come Il Contr’Uno
– mentre tutti coloro che conoscevano
personalmente il suo autore erano perfettamente a conoscenza del vero titolo dell’opera. La Boétie, sembra sugge-
9
rire Montaigne, non era quindi evidentemente interno all’area politica, sociale e religiosa che curava la diffusione
del testo “unito ad altri scritti farina
del loro sacco”. Il testo sarebbe poi
stato scritto “nella primissima giovinezza” del suo autore, e non avrebbe avuto altro scopo che quello di produrre una esercitazione scolastica su
un tema retorico in qualche modo
classico e molto praticato nelle scuole
dell’epoca. La Boétie non lo rivide mai
in età matura (dunque non fu “il meglio che avrebbe potuto fare”) e, soprattutto, l’opera “gli sfuggì dalle mani”: Montaigne lascia cioè intendere
che l’amico scomparso avrebbe inizialmente controllato la circolazione dell’opera manoscritta, passandola solo
agli amici fidati, ma che in seguito
(“forse per caso”) gli sarebbe sfuggita
dalle mani, circolando in cerchie sempre più ampie fino a conoscere le
stampe clandestine post mortem. Montaigne corona queste argomentazioni,
volte in qualche modo a difendere l’onorabilità di La Boétie maturo dalle
sue intemperanze giovanili, teorizzando in lui l’accettazione di una sorta di
“morale provvisoria”: La Boétie continuava insomma a credere fermamente
nelle idee repubblicane giovanili, ma,
ciononostante, “aveva un’altra massima sovranamente scolpita nella sua
anima, obbedire e sottomettersi scrupolosamente alle leggi sotto le quali
era nato.”
La posizione di Montaigne presenta
numerose contraddizioni. Egli cerca di
presentare il testo dell’amico scomparso come poco più di una esercitazione
retorica giovanile; eppure è evidente
che a tale “esercitazione” La Boétie
doveva attribuire grande importanza,
dal momento che egli si preoccupava
di far circolare ampiamente il manoscritto – e non solo fra gli intimi, dal
momento che lo stesso Montaigne
aveva conosciuto l’opera prima di incontrarne personalmente l’autore.
Nemmeno convince l’idea sottintesa
nelle pagine citate che La Boétie avrebbe riscritto diversamente il testo
in età più matura. É divenuto infatti
1
MONTAIGNE, Michel de,
Essais, Paris, Garnier, 1962,
pp. 211/212: “Mais oyons un
peu parler ce garson de seize ans.
Parce que j’ay trouvé que cet
ouvrage a esté depuis mis en
lumiere, et à mauvais fin, par
ceux qui cherchent à troubler et
changer l’estat de notre police,
sans se soucier s’ils l’amenderont,
qu’ils ont meslé à d’autres escris
de leur farine, je me suis dédit de
le loger icy. Et affin que la memoire de l’auteur n’en soit interessée en l’endroit de ceux qui
n’ont peu connoistre de près ses
opinions et ses actions, je les
advise que ce subject fut traicté
par luy en son enfance, par maniere d’exercitation seulement,
comme subject vulgaire et tracassé en mille endroits des livres. Je
ne fay nul doubte qu’il ne creust
ce qu’il escrivoit, car il estoit
assez coscientieux pour ne mentir pas mesmes en se jouant. Et
sçay d’avantage que, s’il eut à
choisir, il eut mieux aimé estre
nay à Venise qu’à Sarlac; et avec
raison. Mais il avoit un’autre
maxime souverainement empreinte en son ame, d’obeyr et de
soubmettre très-religieusement
aux lois sous lesquelles il estoit
nay. Il ne fut jamais un meilleur
citoyen, ny plus affectionné au
repos de son païs, ny plus ennemy des remuements et nouvelletez de son temps. Il eut bien
plustost employé sa suffisance à
les esteindre, que à leur fournir
dequoy les émouvoir d’avantage.
Il avoit son esprit moulé au patron d’autre siècles que ceux-cy.”
2
É interessante notare che
Montaigne abbassa progressivamente l’età a cui l’amico
scomparso avrebbe scritto il Discorso sulla Servitù Volontaria: i
“sedici anni” citati nel testo erano, nelle edizioni precedenti,
diciotto.
10
1
L’espressione “enigma”
compare nel titolo di vari
saggi dedicati all’opera di La Boétie: si veda, p. e., Dr Armingaud,
Montaigne pamphletaire. L’énigme du
Contr’Un, Hachette, 1910 e Lablénie, Edmond, “L’Énigme de la
Servitude Volontaire”, in Revue de
XVI siècle, 1930, tomo XVII, pp.
203/227.
2
D’altronde anche questa a
ben vedere non è propriamente una lamentela, dal momento che lo stesso Montaigne
ritiene che – data l’ignoranza del
titolo preciso del testo – i suoi
editori clandestini “l’hanno assai
propriamente ribattezzato in
seguito il Contr’Uno”. In altri termini, il richiamo presente nel
nuovo titolo alla istituzione monarchica non sarebbe affatto
fuori luogo e non tradirebbe affatto il significato profondo dell’opera; ed anche questo atteggiamento di Montaigne appare assai
strano, vista la sua dichiarata
intenzione di presentare l’amico
scomparso come un campione di
fedeltà alle istituzioni politiche
“sotto le quali era nato”.
Le Réveille-Matin des Français et
3
de leurs voisins. Composé par
Eusèbe Philadelphe Cosmopolite en
forme de Dialogues, Bâle ed Ebimbourg, 1574, Middelburg, 1557 e
1578; Mémoires de l’Estat de France
sous Charles Neufiesme, contenans les
choses plus notables, faites et publiées
tant par les Catholiques que pars ceux
de la Religion, depuis le troisiesme Édit
de pacification fait au mois d’Aoust
1570, jusques au régne de Henry
troisiesme, edito dal pastore protestante Simon Goulart nel 1576,
nel 1578 e per ben due volte nel
1579. Entrambi i testi sono delle
raccolte; nel primo vi è citato
all’incirca un terzo del Discorso
sulla Servitù Volontaria, nel secondo l’edizione è quasi integrale.
All’inizio del Novecento si è
4
addirittura ipotizzato, oltre
che Montaigne fosse l’autore
delle interpolazioni al testo il cui
manoscritto conservava, che le
interpolazioni fossero state tali e
tante da doverlo considerare il
vero autore del Discorso sulla Servitù Volontaria: si veda Dr Armingaud, Montaigne pamphletaire. L’é-
VOCCIA, Enrico
persino un topos letterario l’imbarazzo
che prova un autore di fronte all’idea
di far leggere un testo scritto in anni
precedenti e nel quale non ci si riconosce più: ma Montaigne stesso ci informa che l’amico scomparso non aveva
alcun problema a diffondere il manoscritto del suo testo. Quanto poi alla
incondizionata adesione di La Boétie
“alle leggi sotto le quali era nato”, è la
stessa scrittura e diffusione di un’opera “sovversiva” come il Discorso sulla
Servitù Volontaria che rende poco credibile una simile informazione.
Ma le stranezze dell’atteggiamento
di Montaigne non terminano qui: è ora
il caso di addentrarci brevemente in
uno dei maggiori misteri che circondano l’opera e che ha fatto parlare di un
vero e proprio “enigma” che circonderebbe la sua genesi. Montaigne, l’abbiamo appena visto, afferma che
l’“esercitazione” sarebbe stata scritta
in età giovanile (nel 1546/1548) e mai
più rivista in età matura, e che egli avrebbe avuto occasione di leggerla prima dell’incontro con il suo autore
(avvenuto nel 1557). Egli inoltre, e
questo è il punto essenziale, non afferma affatto che il testo edito clandestinamente dalle correnti repubblicano/
protestanti di opposizione sia stato in
qualche modo interpolato dai suoi editori – limitandosi a lamentare il cambio del titolo ed il fatto che fosse
stato pubblicato insieme ad altri testi
farina di diverso sacco. Eppure sarebbe stato per lui facilissimo, se la sua
intenzione fosse stata davvero quella
di separare l’opera “giovanile” dell’amico dall’area politico/sociale che ne
aveva curato le edizioni clandestine,
denunciare una serie di evidenti interpolazioni del testo, di cui la più clamorosa è la citazione di un’opera (la Franciade di Ronsard) pubblicata ben nove
anni dopo la morte di La Boétie. Montaigne invece, su tutto ciò, tace; e si
tratta di un atteggiamento effettivamente strano.
Come spiegare questo comportamento da parte di Montaigne? Le ipotesi possibili sono solamente due. La
prima ipotesi, che sembrerebbe la più
naturale ed immediata, è che egli fosse
venuto a conoscenza del solo fatto
delle varie pubblicazioni clandestine
del testo col titolo mutato, senza che
avesse avuto occasione di mettere materialmente le mani su una delle copie.
La cosa sembra però plausibile solo ad
una prima occhiata: le copie manoscritte del Discorso sulla Servitù Volontaria come sappiamo erano state molteplici, e la loro diffusione incontrollata
già durante la vita dell’autore. Occorrerebbe pertanto presumere che non
solo Montaigne, ma nessuno dei tanti
che avevano letto il testo manoscritto
avesse avuto l’opportunità di avere tra
le mani una copia de Le Reveille-Matin
des Français et de leurs voisins... o delle
Mémoires de l’Estat de France sous Charles
Neufiesme... contenenti il testo di La
Boétie. Queste avevano, in effetti,
conosciuto una diffusione notevolissima: dal 1574 al 1579 il Discorso sulla
Servitù Volontaria vedrà la media di più
un’edizione all’anno. Sembra perciò
strano che all’orecchio di Montaigne
non fossero giunte le voci di tali interpolazioni e che lui non avesse provveduto a sfruttarle in difesa della memoria dell’amico scomparso.
La seconda ipotesi spiega la cosa
supponendo che l’autore per lo meno
di alcune delle interpolazioni del Discorso sulla Servitù Volontaria fosse stato
proprio Montaigne. Il grande amico
di La Boétie non poteva infatti non
notare la citazione della Franciade, specie nel momento in cui andava affermando che l’opera non era mai stata
rivista dai tempi della composizione
giovanile e si lamentava di una sua edizione clandestina da parte dei gruppi
di opposizione alla monarchia francese! Avrebbe allora taciuto, accettando
l’ipotesi che fosse perfettamente a conoscenza di tali interpolazioni al testo,
per il semplice fatto che era stato lui
ad operarne una larga parte o, quantomeno, ipotizzando in lui una qualcerta
“complicità” in tali correzioni...
É possibile allora che le varie pubblicazioni clandestine del Discorso sulla
Servitù Volontaria siano state il vero
modo con cui Montaigne ha tardiva-
11
Un’ambigua Utopia Repubblicana
mente adempiuto al suo compito di
esecutore testamentario? É possibile,
in altri termini, che egli -- o per lo meno il suo entourage – abbia fatto giungere il testo di La Boétie nelle mani della
pubblicistica di opposizione alla monarchia francese? E fino a che punto
potrebbe essersi spinta una tale
“complicità” nelle sue varie edizioni
clandestine?
Ci stiamo muovendo in un campo
in cui le evidenze oggettive sono per la
maggior parte disperse e risultano del
tutto irrintracciabili, come il suono
dell’albero caduto che il vescovo Berkeley non udì. Eppure ciò che ci resta
– l’ambiguo comportamento di Montaigne e le sue altrettanto ambigue affermazioni presenti negli Essais – ci
spinge in quella direzione. Ed allora ci
ritornano in mente le parole, filorepubblicane anche queste in maniera
ambigua, con cui Montaigne descrive
le posizioni politiche dell’amico scomparso: “E so anche che, se avesse dovuto scegliere, avrebbe di gran lunga
preferito essere nato a Venezia che a
Sarlac; ed a ragione.”
BOSCH, Hieronymus, Trittico del Giudizio (Giudizio Finale)
nigme du Contr’Un, Hachette, 1910
e i suoi due articoli comparsi nel
1906 nella Revue politique e parlamentaire. La tesi di Armingaud
provocò una polemica nella quale
P. Bonnefon, P. Villey, F. Strowski, R. Dezeimeris, H. Barckhausen e M. Lablénie intervennero riaffermando la sostanziale
paternità dell’opera a Étienne de
La Boétie. In tempi recentissimi
però Simone Goyard-Fabre,
curatore dell’ultima edizione
critica del testo di La Boétie
(sulla quale è condotta la presente traduzione), pur non riconoscendosi nella tesi di Armingaud ha affermato: “Néanmoins,
il n’est pas impossible que Montaigne ait inséré dans le manuscrit de son ami des interpolations
non négligeables; et, ainsi que le
remarque P. Villey, il n’est pas
impensable que Montaigne, lisant
e relisant l’essai de La Boétie, ait
apporté – ou ait laissé apporter
avec une certaine ‘complicité’ –
quelques corrections au manuscrit original du Discours.” Questa
posizione ci pare corretta, anche
perché le obiezioni che mettono
in evidenza come il progetto del
testo di Ronsard fosse già noto
durante la vita di La Boétie hanno poca forza. Occorre infatti
notare che: 1. Montaigne afferma
che il testo non sarebbe stato mai
ritoccato dopo il 1546/1548; 2.
anche ammettendo che Montaigne possa aver mentito su questo
punto, l’intero Discorso sulla Servitù Volontaria è costruito su citazioni di autori classici e di momenti storici alla base dell’insegnamento scolastico dell’epoca –
e di fronte a quest’aspetto essoterico avrebbe poco senso la citazione di un’opera ancora tutta da
scrivere ed il cui semplice progetto era conosciuto in cerchie molto ristrette; 3. infine, occorre
notare che il tono dell’intera opera è decisamente serioso e in certi
tratti sarcastico – per cui la lieve
ironia dell’accenno ai poeti della
Pleiäde risulterebbe essere un
episodio completamente isolato
nell’economia dell’opera. Insomma un’analisi anche solo superficiale dell’opera tenderebbe a
confermare l’eterogeneità stilistica del passaggio (che, sia detto
per inciso, ricorda molto di più
certi passaggi degli Essais montaignani).
VOCCIA, Enrico
12
1
Il testo che presentiamo in
questa traduzione è in buona
parte tratto dal cosidetto
“Manoscritto di Mesmes”, ovvero dalle trascrizioni – pressocché
identiche – che Henry de Mesmes e Claude Depuy, amici di
Montaigne, faranno del manoscritto originale presso la biblioteca dell’autore degli Essais. La
pressocché identità dei due manoscritti, ritrovati nel XIX secolo, è un ulteriore indizio a favore
della tesi che vede in Montaigne
l’autore di almeno alcune delle
interpolazioni al testo.
2
Da notare, oltre alla già citata traduzione italiana durante la Repubblica Napoletana del
1799, anche l’opera del noto rivoluzionario francese Marat The
chains of slavery... (London, 1774) e
Les chaînes de l’esclavage... (Paris,
1792), nel quale il testo di La
Boétie è abbondantemente parafrasato in vari punti.
Dopo le edizioni settecente3
sche, la riscoperta in chiave
filorepubblicana e democratica
del testo di La Boétie avverrà a
partire dall’edizione che verrà
curata da Félicité de Lamennais,
con una sua prefazione e le note
di Pierre Coste, e pubblicata a
Parigi, Daubrée et Cailleux, 1835.
Il successo del testo sarà tale che
nel giro di sei mesi conoscerà una
seconda ed anche una terza edizione e darà adito ad un notevole
dibattito intellettuale e politico (si
veda la bibliografia finale).
“In nome della libertà, contro i tiranni”
Abbiamo quindi (probabilmente) a
che fare con un testo dalla composizione assai complessa, nel quale, a partire dall’originaria stesura più o meno
giovanile da parte di Étienne de La
Boétie, si sono sovrapposte tutta una
serie di interpolazioni e/o rifacimenti
da parte di Montaigne, del suo entourage
e dei primi editori clandestini.
Nelle sue varie redazioni il testo godrà
di una notevole fortuna durante tutto
il XVI secolo e, dopo una breve eclissi
nel secolo successivo, ricomparirà come testo di opposizione all’ancien régime
durante il secolo dei lumi, conoscendo
poi le sue prime edizioni non clandestine durante gli eventi legati alla Rivoluzione Francese. I primi due terzi
del XIX secolo vedranno ulteriori e
numerose edizioni dell’opera, utilizzata
come pamphlet filorepubblicano contro
la politica restauratrice negli avvenimenti politico/sociali susseguenti il
Congresso di Vienna, ma il vero e
proprio “successo editoriale” del testo
di La Boétie si avrà con la nascita della
Prima Associazione Internazionale dei Lavoratori. Reinterpretato in chiave socia-
lista e libertaria, il testo, a partire dal
secondo terzo del XIX secolo e fino ai
giorni nostri, conoscerà numerosissime edizioni e verrà tradotto in quasi
tutte le lingue d’Europa e persino in esperanto.
Il motivo di una tale vitalità dell’opera di la Boétie può spiegarsi solo
con quella che che è forse la sua caratteristica peculiare. Scritto in un periodo storico ben determinato, il Discorso
sulla Servitù Volontaria è però strutturato in maniera tale da mantenere la sua
validità in ogni tempo ed in ogni luogo: in questo senso, nel suo tentativo
di evidenziare il fondamento del potere tirannico in quanto tale, è opera filosofica nel senso più profondo e specifico del termine.
L’opera viene scritta – dal solo Étienne de La Boétie o come opera collettiva poco importa – agli inizi del
XVI secolo, mentre le strutture politiche tardomedievali si vanno dissolvendo sotto l’avvento sempre più evidente delle monarchie nazionali centralizzate. La Boétie innanzitutto, ma anche
ognuno dei suoi possibili coautori –
Montaigne e gli stessi scrittori protestanti d’opposizione – sono immersi
pienamente in questo nuovo clima e,
come in tutti i momenti storici di pas-
L’ultima notevole edizione
4
in questa chiave del Discorso
sulla Servitù Volontaria è quella
comparsa nel 1976 in Critique de
la Politique, nell’edizione critica
stabilita da P. Léonard, con una
“Presentazione” a cura di M.
Abensour e M. Gachet. Accompagnano il testo, infatti, le prefazioni di Lamennais all’edizione
del 1835, un articolo di Pierre
Leroux del 1847, la prefazione di
Pierre Vermorel all’edizione del
1863, alcune pagine di Gustav
Landauer del 1907, un breve
passaggio di Simone Weil e, soprattutto, due testi critici di accompagnamento al testo a cura di
Pierre Clastres e Claude Lefort.
TRUMBULL, John, La Dichiarazione d’Indipendenza
Un’ambigua Utopia Repubblicana
saggio da un sistema politico all’altro,
l’effetto di straniamento è assai forte.
In momenti come questi le strutture
politico/sociali perdono il loro carattere di “naturalità” ed è più facile che
vengano alla luce nella riflessione le
strutture profonde della socialità: le
categorie del politico.
L’analisi di La Boétie è dedicata, in
apparenza, ad un tema specifico: la
critica al potere tirannico, attraverso
l’evidenziazione dei meccanismi strutturali e consensuali che sorreggono tale
forma di potere politico.
(...) vorrei solo comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante
città e nazioni tollerino talvolta un solo
tiranno, che non ha altro potere che quello
che gli danno; che ha il potere di nuocere
loro solo finché essi possono sopportarlo;
che non potrebbe far loro alcun male, se
non quando essi preferiscono sopportarlo
piuttosto che contraddirlo. È davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è
più da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non
costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati
dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo,
né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio.
Come è possibile insomma – si chiede
La Boétie – che gli uomini acconsentano
ad un potere sfacciatamente contrario
ad ogni loro possibile interesse e spesso addirittura ampiamente nocivo ad
essi? Come possono gli uomini innamorarsi delle loro catene? Questa domanda permette lo sviluppo di un interrogazione più generale sulle strutture del dominio, che porta l’autore ad
allargare in maniera estrema il concetto di “tirannia”. “Tiranno” è, nella
concezione di La Boétie, qualcosa di
più che il monarca centralizzatore del
XVI secolo e/o i suoi equivalenti funzionali del passato dell’umanità. L’
“Uno” di cui si parla nel Discorso sulla
Servitù Volontaria non è infatti necessariamente una singola persona, anche
se ai tempi di La Boétie tale figura politica coincideva spesso con quella del
13
monarca; essa è piuttosto la funzione
politica svolta da chi – singolo o persona giuridica collettiva – riesce ad imporre agli altri la legge della propria
volontà individuale. E, da questo punto di vista, conta ben poco il meccanismo politico con il quale il tiranno
giunge a governare.
Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli
altri ancora per successione ereditaria. Chi
lo ha acquisito per diritto di guerra si
comporta in modo tale da far capire che si
trova, diciamo così, in terra di conquista.
Coloro che nascono sovrani non sono di
solito molto migliori (...) Chi ha ricevuto il
potere dello Stato dal popolo dovrebbe
essere, forse, più sopportabile e lo sarebbe, penso, sennonché appena si vede innalzato al di sopra degli altri (...) è strano
di quanto superi gli altri tiranni in ogni
genere di vizio e perfino di crudeltà (...) A
dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche
differenza, ma non ne vedo affatto una
possibilità di scelta; e per quanto i metodi
per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile (...).
Esiste quindi per La Boétie una struttura profonda, indipendente dal tempo, dallo spazio e dalle contingenze
storiche, in base alla quale si innescano
le dinamiche che portano al paradossale fenomeno della “servitù volontaria”: difatti il grande amico di Montaigne può esemplificare la propria analisi con esempi tratti dalla storia antica
così come dalla medievale e da quella a
lui contemporanea, dalla storia della
civiltà europea come da quella africana
ed asiatica. Il tentativo di comprendere
il fenomeno della tirannia porta così
ad allargare l’analisi ai meccanismi universali di formazione del consenso al
potere e dell’aggregazione delle oligarchie politiche.
Qualunque governo, dice La Boétie, ha bisogno del consenso dei sudditi; e questo tanto più il potere politico
è “tirannico” nel senso comune del
Si vedano le riflessioni di
termine. Per potersi reggere un quaBertold Brecht su tale conlunque governo deve dunque mettere cetto. Cfr. BRECHT, Bertold,
in atto una serie di strategie volte alla Scritti teatrali, Torino, Einaudi,
creazione di tale consenso; e qui l’ana- 1971.
1
VOCCIA, Enrico
14
lisi di La Boétie si biforca, andando ad
analizzare dapprima i meccanismi di
formazione/estorsione della “volontà
di servire”, poi la ramificazione dell’organizzazione oligarchica che sfrutta
tale struttura consensuale.
L’estrema plasmabilità del carattere
umano mercè quella forma dell’educazione che è la vita sociale risulta essere
il fondamento dell’acquiescenza popolare alla tirannia:
1
Questa parte dell’analisi di
La Boétie ricorda assai da
vicino le idee alla base degli esperimenti novecenteschi di psicologia comportamentale sulle tecniche di rinforzo discontinuo: vedi
p. e. ZIMBARDO, Phylip G.,
Elementi di psicologia e vita, Napoli,
Idelson, vol. I, pp. 69/89.
2
Questa tesi – come molte
altre presenti nell’opera antitirannica di La Boétie – verrà
ripresa e generalizzata a qualunque forma di governo dal pensiero anarchico otto/novecentesco.
In effetti la gran parte degli strumenti concettuali dell’anarchismo
contemporaneo si vanno formando nella cultura europea proprio
a partire dalla riflessione filosofica dettata dalla nascita dello stato
moderno: le tesi di testi come il
Discorso sulla Servitù Volontaria o il
Leviatano di Hobbes verranno
generalizzate e/o mutate valutativamente di segno per ricomparire, organicamente collegate in
una teoria politica libertaria e
autogestionaria, dalla metà del
XIX secolo in poi. Cfr. p. e.
STIRNER, Max, L’Unico e la sua
proprietà, Milano, Adelphi, 1978 o
MALATESTA, Errico e MERLINO, Francesco Saverio, Anarchismo o Democrazia, Ragusa, La Fiaccola, 1974. Si tratta di meccanismi di trasmissione culturale molto evidenti, ma che ciononostante sono stati assai poco o quasi
per nulla approfonditi.
(...) la prima ragione della servitù volontaria è l’abitudine: come i più bravi destrieri
che prima mordono il freno e poi ne gioiscono, e mentre prima recalcitravano contro la sella, ora si addobbano coi finimenti
e tutti fieri si pavoneggiano sotto la bardatura. Dicono che sono sempre stati sottomessi, che i loro padri hanno vissuto così.
Pensano di essere tenuti a sopportare il
male e lasciano che gli si dia ad intendere
con l’esempio, basando sull’estensione del
tempo il potere di coloro che li tiranneggiano. Ma a dire il vero, gli anni non danno mai il diritto di fare il male, anzi ingigantiscono l’offesa.
Questa tesi però non resta isolata. Ovviamente l’abitudine, alla lunga, non
riuscirebbe a tenere in piedi un potere
politico che sfruttasse continuamente
e senza alcuna tregua i suoi sudditi;
non riuscirebbe cioé ad impedire continue rivolte. Ma il potere è attento ad
elargire di tanto in tanto panem et circenses ai suoi sudditi e, così facendo, non
solo li placa, ma fa sì che questi siano
stoltamente riconoscenti per questi
pretesi regali. Ringraziando il ladro che
restituisce loro una piccola parte del
maltolto, i sudditi si abituano così a
vedere nel tiranno addirittura una sorta di benefattore! Parlando degli imperatori romani, La Boétie ci dice che
I tiranni elargivano un quarto di grano, un
mezzo litro di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare: “Viva il re!”
Gli zoticoni non si accorgevano che non
facevano altro che recuperare un parte del
loro, e che quello che recuperavano, il
tiranno non avrebbe potuto dargliela, se
prima non l’avesse presa a loro stessi. Chi
avesse raccattato oggi un sesterzio, e si
fosse rimpinzato al pubblico festino, benedicendo Tiberio e Nerone e la loro bella
generosità, l’indomani, costretto ad abbandonare i suoi beni alla loro avarizia, i
propri figli alla lussuria, il suo stesso sangue alla crudeltà di quei magnifici imperatori, non avrebbe detto una parola più di
una pietra (...).
Ma c’è di più. Il potere tirannico tende
ad atomizzare la società, fa di tutto per
impedire qualunque forma di aggregazione e comunicazione sociale e politica che non abbia a proprio fondamento l’obbedienza servile allo Stato. In
questo senso il potere tirannico si presenta a sua volta come un privato, come per l’appunto l’“Uno”; ma quest’Uno è il privato più forte, talmente
forte da controllare i flussi della comunicazione sociale e da riuscire a imporre ideologicamente i propri interessi
privati come “bene comune”, “utilità
pubblica”. Il tiranno, infatti, nel momento in cui porta avanti i propri interessi, non trascura di creare consenso
intorno alla propria politica presentando i suoi interessi particolari come
“interesse generale della società”.
Gli imperatori romani non dimenticarono
neanche di assumere di solito il titolo di
tribuno del popolo, sia perché quella carica era ritenuta sacra, sia perché era stata
istituita per la difesa e la protezione del
popolo, e sotto la tutela dello Stato. Così
si garantivano che il popolo si fidasse di
più di loro (...) Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di
malefatta, anche importante, facendola
precedere da qualche grazioso discorso sul
bene pubblico e sull’utilità comune (...).
L’altro strumento di creazione del
consenso – dell’abitudine alla servitù
volontaria nel linguaggio di La Boétie
– è la creazione di quella che nella storia politica del XX secolo verrà detto il
“culto della personalità” del tiranno.
Intorno alla figura del tiranno, viene
detto, si sono in tutti i tempi impostati
una serie di meccanismi della comunicazione politica volti ad offrire di esso,
coerentemente con la sua rappresentazione politica come del privato più
forte (l’“Uno”), un’immagine superoministica. Il tiranno, in altri termini,
cerca di presentare al popolo la sua
Un’ambigua Utopia Repubblicana
superiorità politica come il frutto di
una originaria e particolarmente accentuata superiorità gerarchica a base naturalistica: egli “non è un uomo come
tutti gli altri”. L’utilizzo della religione
come instrumentum regni è in effetti, nell’analisi che fa La Boétie di tale meccanismo politico, strettamente collegato
all’immagine superoministica che il
tiranno vuole dare di sé; proprio perché non è un uomo comune, ma è
qualcosa di “più di un uomo”, che egli
ha un rapporto particolare con il divino – è un “Unto dal Signore”. La tesi
della legittimità divina del potere monarchico, che recupera ed attualizza a
favore del potere monarchico degli
Stati accentrati l’ideologia imperiale
tardoantica e medievale, viene da La
Boétie impietosamente smontata e
ricondotta nella sua essenza ad un tipico meccanismo ideologico volto alla
creazione dell’abitudine alla servitù
volontaria.
Ma come fa il potere politico ad
instillare così profondamente nella
società l’accettazione di tali meccanismi ideologici? Come è possibile che
l’ideologia dell’interesse dell’“Uno”
come interesse pubblico, il culto della
sua personalità spinto talvolta fino alla
15
semidivinizzazione, ecc. vengano così
favorevolmente accolti dalla maggior
parte dei sudditi? Ancora una volta il
grande amico di Montaigne precorre
una serie di indagini contemporanee di
Psicologia Sociale volte ad evidenziare
come il consenso, spesso, si configuri
come una risposta selettiva alle pressioni alla conformità di gruppo.
Innanzitutto abbiamo già detto che il
potere tirannico fa di tutto per impedire la comunicazione sociale delle idee
non conformiste, critiche nei confronti della propria ideologia, e veicola invece nel modo più ampio e capillare le
voci consenzienti. Quel che non abbiamo ancora detto è che La Boétie
individua, al di là del puro dato osservativo, il senso profondo di una tale
meccanismo di censura: di fronte alla
nudità del re, ogni suddito atomizzato,
pur vedendola, applaude vedendo applaudire gli altri; di fronte all’apparente consenso generale, essendo pericoloso
esprimere le proprie percezioni del
reale agli altri (l’unico metodo possibile per comprendere quelle altrui), preferisce alla fine modificare le proprie
idee. Il dissenso dei singoli individui si
trasforma così paradossalmente nel
consenso della massa.
1
RUBENS, Pieter Paul, L’Entrata Trionfale di Costantino a Roma
Un’interessante rivisitazione
di questi esperimenti, svoltisi nelle università statunitensi alla
metà del XX secolo, è l’articolo
di GALIANI, Riccardo, “Il consenso ingannatore”, in questo
stesso numero di PORTA DI
MASSA – Laboratorio Autogestito
di Filosofia Epistemologia e Scienze
Politico-Sociali.
VOCCIA, Enrico
16
Ora, comunemente, lo zelo e l’affetto di
quelli che hanno conservato, nonostante il
tempo, la devozione alla libertà, per quanto siano numerosi, resta senza effetto per
il fatto che non si conoscono reciprocamente: sotto il tiranno, gli viene tolta del
tutto la libertà di fare, di parlare e quasi
anche di pensare, e rimangono tutti isolati
con le loro idee.
La maggior parte degli uomini trova
così vantaggioso non opporsi al tiranno, e qualcuno individua addirittura il
suo vantaggio personale nella collaborazione con esso.
1
Per quanto concerne la
“Teoria dei Giochi” rimandiamo a NIGEL, Howard, Paradoxes of Rationality: Theory of metagames and political behavior, Cambridge, Massachussets and London,
M.I.T. Press, 1971 e al più facilmente rintracciabile D’AMORE,
Bruno, “Cenni storici sulla teoria
dei giochi”, in Cultura e Scuola, 66,
pp. 198/208. La concezione protosistemica di La Boétie degli
attori del gioco sociale e politico
la si ritroverà in maniera ancora
più evidente nel Leviatano di Thomas Hobbes.
2
APEL, Karl-Otto, “Il problema di una macroetica universalistica della co-responsabilità”,
in Informazione Filosofica, n. 11,
febbario 1993, pp. 16/23, p. 21.
Non sono le truppe di cavalleria, non sono i battaglioni di fanteria, non sono le
armi che difendono il tiranno. Non lo si
crederà immediatamente, ma certamente è
vero: sono sempre quattro o cinque che
sostengono il tiranno, quattro o cinque
che mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei
hanno avuto la fiducia del tiranno (...)
Questi sei orientano così bene il loro capo, che a causa dell’associazione, egli deve
essere disonesto, non solamente per le sue
malefatte, ma anche per le loro. Questi sei
ne hanno seicento che profittano sotto di
loro, e fanno con questi seicento quello
che fanno col tiranno. Questi seicento ne
tengono seimila sotto di loro (...) Da ciò
derivano grandi conseguenze, e chi vorrà
divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà
che, non seimila, ma centomila, milioni, si
tengono legati al tiranno con quella corda
(...) si trovano alla fine quasi tante persone
per cui la tirannia sembra redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita.
La Boétie usa spesso espressioni spregiative nei confronti di chi si sottomette al tiranno, come pure nei confronti
di chi cerca di risalire la scala gerarchica e divenire suo collaboratore più o
meno diretto. Tali espressioni non ci
devono però trarre in inganno: nella
sua analisi la catena del vantaggio gerarchico si costituisce e funziona al di
là della volontà e della moralità del
singolo. La Boétie afferma ripetutamente durante tutto il suo Discorso sulla
Servitù Volontaria una concezione radicalmente egualitaria degli uomini, e
come abbiamo già visto nelle sue analisi rivolte all’evidenziazione di quei
fenomeni che oggi conosciamo come
risposte alla pressione alla conformità
del gruppo, l’immagine che egli ha degli uomini inseriti nella dinamica sociale della tirannia è assai simile a quello
che sarà il postulato della moderna
“Teoria dei Giochi”. I sudditi appaiono cioè degli attori razionali volti
a massimizzare il proprio vantaggio
personale, coinvolti sotto la tirannia in
un perverso gioco a somma zero, nel
quale la maggior parte dei giocatori –
per mancanza di informazioni essenziali – invece di perseguire il proprio
vantaggio oggettivo, si accontenta timorosamente di ciò che appare loro il
male minore nella situazione data: l’acquiescenza al potere. E ora risulta anche evidente perché La Boétie non
consideri la democrazia di per sé alternativa alla tirannia.
(...) quelli che sono posseduti da una ardente ambizione e da una notevole avidità, si ammassano attorno a lui [il tiranno]
e lo sostengono per prendere parte al bottino, ed essere, sotto il gran tiranno, tirannelli anch’essi. (...) Così il tiranno rende
servi i sudditi gli uni per mezzo degli altri
(...) Ecco i suoi difensori, le sue guardie, i
suoi alabardieri. Non che a loro stessi non
capiti di subire qualche volta da lui, ma
questi esseri perduti e abbandonati da Dio
e dagli uomini sono contenti di sopportare il male per farne (...)
É nota la famosa teoria della “Società
dei due terzi” che evidenzia uno dei
rischi totalitari ed oligarchici insiti nella democrazia: “la tentazione di una
politica sociale che sfrutti il meccanismo maggioritario della democrazia
parlamentare per soddisfare i due terzi
della popolazione a scapito del terzo
restante”. Ma La Boétie evidenzia
un rischio ancora maggiore, insito nella catena del vantaggio gerarchico: il
meccanismo della “Società dei due
Terzi” è un meccanismo ricorsivo che,
alla fine del processo, non soddisfa
pienamente nemmeno i “due terzi”
della società ma solo una ristretta oligarchia. La catena del vantaggio gerarchico infatti funziona, come abbiamo
visto in precedenza, “a cascata”: di
Un’ambigua Utopia Repubblicana
fronte al rischio insito nella ribellione,
la maggior parte degli uomini che hanno accettato di collaborare con il governo tirannico e che si trovano ai livelli minori della gerarchia vengono a
loro volta ferocemente tiranneggiati
dai livelli superiori. L’ unico loro vantaggio residuo consiste nel poter ferocemente tiranneggiare a loro volta i
“senza potere”; ma così facendo non
fanno altro che attirare su di loro l’attenzione dei dominati – che spesso e
volentieri individuano in loro i veri
artefici dell’oppressione – facendone
salvo il tiranno e dando vita alla favola
del Re Buono e dei Ministri Cattivi. É
questo meccanismo che rende inessenziale il fatto che il tiranno sia tale per
elezione popolare, eredità o per conquista manu militari dello stato.
L’umanità intera appare nella rifles-
17
sione di La Boétie prigioniera di un
gioco perverso, che appare come una
malattia snaturante la sua vera e libera
essenza. Come può sfuggire da questa
trappola “e, per così dire, da bestia
ritornare uomo”? Il vero onore tributato alla libertà dal Discorso sulla Servitù
Volontaria è un invito alla disobbedienza civile. Se il fondamento della tirannia è il consenso, organizzare il suo
rifiuto è l’unica strada che può spezzare l’incanto. “Siate decisi a non servire
più, ed eccovi liberi”. Certo La Boétie
lascia aperti molti interrogativi senza
risposta sul come, nello specifico, si
possa percorrere la strada della liberazione, il rifiuto del consenso. Ma la
pars destruens della sua opera resta notevolissima ed è stata viatico sufficiente
nei secoli per un testo scritto “in onore della libertà, contro i tiranni”.
REMBRANDT, Harmenszoon van Rijn, Mosè Distrugge le Tavole della Legge
VOCCIA, Enrico
18
Bibliografia
Principali edizioni del Discorso sulla Servitù Volontaria
• Edizione parziale senza indicazione dell’autore, senza
titolo e alquanto rimaneggiata in COSMOPOLITE,
Eusèbe Philadelphe, Le Réveille-Matin des Français et de
leurs voisins, Bâle, edizione clandestina, 1574 (successive
edizioni appariranno già lo stesso anno ad Edimburgo).
• Edizione quasi completa senza indicazione dell’autore e
col titolo Contr’Un in GOULART, Simon, Mémoires de
l’Estat de France sous Charles Neufiesme, contenans les choses
les plus notables, faites et publiées tant par les Catholiques que
par ceux de la Religion, depuis le troisiesme Édit de pacification
fait au mois d’Aoust 1570, jusques au règne de Henry troisiesme, Luogo di edizione sconosciuto, edizione clandestina, 1576 (Successive edizioni appariranno a Meidelbourg nel 1578 e nel 1579).
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire ou Contr’Un, in MONTAIGNE, Michel de, Essais,
Parigi e Ginevra, 1727, Londra, 1739, Parigi, 1740,
Londra, 1745.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitude Volontaire, in
LAFITE, Discours de Marius, plébéien et consul, traduit en
prose et en vers français du latin de Salluste; suivi du Discours
d’Étienne de La Boétie, ami de Montaigne et conseilleur au Parlament de Bordeaux, sur La Servitude Volontaire, traduit de
français de son temps an français d’aujourd’hui, Parigi, 1789.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire ou Contr’Un, edizione parziale in MARÉCHAL,
Sylvain, L’Ami de la Révolution ou Philippiques dédiées aux
représentants de la nation, aux gardes nationales et à tous le
français, Parigi, 1791, pp. 137/183 (“Supplemento” all’ottava filippica).
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discorso di Stefano della Boétie
della schiavitù volontaria o il Contra Uno, traduzione italiana
di Paribelli, Cesare, Napoli, 1799.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, De la Servitude Volontaire ou Le
Contr’Un, a cura di de La Mennais, Félicité, Parigi, 1835.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, De la Servitude Volontaire ou
Le Contr’Un, a cura di Teste, Charle, Parigi, Delhasse,1836.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, in Oeuvres complètes, a cura di Feugère, Leon, Paris,
Delalain, 1846.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitude Volontaire, Parigi, Firmin/Didot, 1853.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitude Volontaire, in
AA. VV., a cura di Poupart, Auguste, Tyrannie, usurpa-
•
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•
tion et servitude volontaire (raccolta di scritti di Vittorio
Alfieri, Benjamin Constant ed Étienne de La Boétie),
Bruxelles, 1853, pp. 143/170.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, Parigi, Dubuisson, 1863.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Il Contr’Uno o Della servitù
volontaria, discorso di Stefano de La Boétie, con la lettera del
signor de Montaigne circa alla ultima malattia e alla morte dell’autore, traduzione italiana di Fanfani, Pietro, Milano,
Daelli, 1864.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Jouast, D., Parigi, Librarie des Bibliophiles, 1872.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, in Oeuvres complètes, a cura di Bonnefon, Paul, Bordeaux e Paris, 1892.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, Bruxelles, 1899.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Charrier, C., Parigi, Hatier, 1926.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Laisant, C. A., Parigi, La Brochure mensuelle, 1931.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Verhandeling over de vrijwillige
slavernij, traduzione olandese di de Ligt, Barthelemy, La
Haye, 1933.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Estienne de la Boétie’s Discours de la Servitude Volontaire (Le Contr’Un) und seine
Beziehungen zu den staatspolitischen Schrifttendes 16 Jahrunderts in Frank Reich, traduzione tedesca di Schmidt,
Hans, Marburg, 1934.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Gilliard, Edmond, Parigi, Porte de
France, 1943.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire ou le Contr’Un, a cura di du Raisin, 1944.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Il Contr’Uno, traduzione di
Fanfani, Pietro, Firenze, Le Monnier, 1944.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire ou le Contr’Un, Bruxelles, 1947.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Hincker, François, Paris, Édition Sociales, 1971.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Speech about the Voluntary
Slavery, traduzione inglese di Rothbard, Murray N.,
New York, 1975.
DE LA BOÉTIE, Étienne, Discours de la Servitude Volontaire, a cura di Léonard, P., Parigi, Payot, 1976.
Un’ambigua Utopia Repubblicana
• DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitù Volontaria, traduzione italiana di Fanfani, Pietro, Catania, Anarchismo,
1978.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discorso sulla servitù volontaria, traduzione italiana di Geninazzi, Luigi, Milano,
Jaca Book, 1979.
• DE LA BOÉTIE, Étienne, Discorso sulla servitù volontaria, traduzione italiana di Capriglione, Franco, Napoli,
Procaccini, 1993.
Riflessioni sull’opera di
Étienne de La Boétie
• MONTAIGNE, Michel de, “Fragment d’une lettre que
Monsieur le Conseiller de Montaigne escrit à Monseigneur de montaigne son père, concernant quelques
particularitez qu’il remarqua en la maladie & mort de
feu Monsieur de La Boétie”, 1563 (?), in Oeuvres complètes, Parigi, Gallimard, 1962, pp. 1347/ 1365 (traduzione
italiana come “Lettera al padre sulla morte di Étienne
de La Boétie” in DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitù
Volontaria, op. cit., pp. 41/46).
• MONTAIGNE, Michel de, Essais, Bordeaux, Millanges, 1580.
• GONDI, Jean François Paul de, La Conjuration du comte
de Jean-Louis de Fiesque, Parigi, 1633.
• MORERI, voce “La Boétie” in Le Grand Dictionnarie Historique, Lyon, III edizione del 1683, I volume, p. 616.
• BAILLET, A., Jugements des savants sur les principaux ouvrages des auteurs. Amsterdam, 1685 (II edizione 1725), II
volume, p. 425; IV volume, p. 85; V volume, p. 44; VI
volume, pp. 211/212.
• D’AUBIGNÉ, Histoire universelle, Amsterdam, 1726,
libro I, p. 670.
• MARAT, The chains of the slavery, wherein the Clandestine
and Villainous Attempts of Princes to ruin Liberty are pointed
out and the Dreadful Scenes of Despotism Disclosed, to Which is
prefixed on Adress to the Electors of Great Britain, in order to
Draw their Timely Attention to the Choice of Proper Representatives in the Next Parliament, Londra, 1774.
• MARAT, Les chaînes de l’esclavage (traduzione del testo
inglese The chains of slavery, whwrein... Londra, 1774), Parigi, 1792.
• DE LA MENNAIS, Félicitè, “Prefazione” a DE LA
BOÉTIE, Étienne, De la Servitude Volontaire ou Le
Contr’Un, a cura di de La Mennais, Félicité, Parigi, 1835
(traduzione italiana in DE LA BOÉTIE, Étienne, La
Servitù Volontaria, op. cit., pp. 47/54).
• FEUGÉRE, Leon, Étienne de La Boétie, ami de Montaigne;
étude sur sa vie et ses ouvrages, précédée d’un coup d’oeil sur les
origines de la littérature français, Parigi, Labitte, 1845.
• PAYEN, J. F., “Note bibliographique sur Étienne de
La Boétie”, in Bulletin de Bibliophile, n. 20, agosto 1846,
Parigi, pp. 904/908.
19
• LEROUX, Pierre, “Il Contr’Un di Étienne de La Boétie”, in Revue Sociale, agosto/settembre 1847, pp.
169/172 (traduzione italiana in DE LA BOÉTIE,
Étienne, La Servitù Volontaria, op. cit., pp. 54/59).
• POUPART, Auguste, Tyrannie, usurpation et Servitude
Volontaire, Bruxelles, 1853.
• PAYEN, J. F., Notice bio-bibliographique sur La Boétie,
l’ami de Montaigne, suivie de La Servitude Volontaire,
donnée pour la première fois selon le vrai texte de l’auteur,
d’après un manuscrit contemporain et authentique, Parigi,
Firmin/Didot, 1853.
• SAINTE-BEUVE, C. A., “Étienne de La Boétie”, in
Le Moniteur, 14 novembre 1853.
• PRÉVOST-PARADOL, A., “Études sur les moralistes
français: Étienne de La Boétie”, in Journal des Débats, 19
dicembre 1859.
• VERMOREL, Auguste, “Prefazione” a DE LA
BOÉTIE, Étienne, De la Servitude Volontaire ou Le
Contr’Un, Parigi, Dubuisson, 1863 (traduzione italiana in DE LA BOÉTIE, Étienne, La Servitù Volontaria, op. cit., pp. 59/65).
• DEBERLY, A., Étude sur Estienne de La Boétie – Traité de
la Servitude Volontaire ou Contr’Un, Amiens, 1864.
• FILLON, B., La devise de La Boétie et le juriste fontenaisien
Pierre Fouschier, 1872.
• HABASQUE, F., Un magistrat au XVI siècle, Estienne de
La Boétie, Agen, 1876.
• MAGNE, E., Étude sur Estienne de La Boétie, Périgueux, 1877.
• COMBES, F., Essai sur les idées politiques de Montaigne et
La Boétie, Bordeaux, 1882.
• BONNEFON, Paul, Estienne de La Boétie. Sa vie, ses ouvrages et ses relations avec Montaigne, Bordeaux, 1888.
• BONNEFON, Paul, Montaigne et ses amis, Parigi, Colin, 1898.
• BONCOUR, P.-J., Estienne de La Boétie et les origines des
libertés modernes, Parigi, Alcan, 1900.
• JOUVENEL, H. de, Recensione di BONCOUR, P.-J.,
op. cit., in Revue de Sociologie, n. 5, maggio 1900, pp.
376/379.
• LANDAUER, Gustav, Die Revolution, Frankfurt, 1907,
pp. 70/71 e 85/92 (traduzione italiana parziale in DE
LA BOÉTIE, Étienne, La Servitù Volontaria, op. cit.,
pp. 66/68).
• ARMAINGAUD, Dr., Montaigne pamphlétaire. L’énigme
du Contr’Un, Parigi, Hachette, 1910 (volume che raccoglie vari articoli comparsi in diverse riviste tra il 1906 ed
il 1909, nel quale si esponeva la tesi della paternità sostanzialmente montaigniana del Discorso sulla Servitù Volontaria).
• VILLEY, Pierre, “Le véritable auteur du Discours de la
Servitude Volontaire: Montaigne ou La Boétie?”, in Revue
Litteraire de la France, ottobre/dicembre 1906, pp.
727/741.
• DEZEIMERIS, R., Sur l’obiectif réel du Discours d’Estienne
de La Boétie de La Servitude Volontaire. Remarque nouvelles,
Bordeaux, 1907.
20
• BARRÉRE, Joseph, Estienne de La Boétie contre Nicolas
Machiavel. Étude des mobiles qui ont déterminé Estienne de La
Boétie à écrire le Discours de la Servitude Volontaire,
Bordeaux, 1908.
• BARRÉRE, Joseph, “La Boétie e Machiavel, d’après
une publication récente. Réponse à M. le Dr. Armaingaud”, in Revue philomatique de Bordeaux et du Sud-Ouest,
Bordeaux, 1909.
• DELARUELLE, L., “L’inspiration antique dans le Discours de la Servitude Volontaire”, in Revue d’Histoire littéraire
de la France, 1910, pp. 34/72.
• BARRÉRE, Joseph, L’Humanisme et la politique dans le
Discours de la Servitude Volontaire. Étude sur les origines
du texte et l’objet du Discours d’Estienne de La Boétie, Parigi,
Champion, 1923.
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• BONANNO, Alfredo Maria, “Introduzione” a DE LA
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BOÉTIE, Étienne, Discorso sulla servitù volontaria, traduzione italiana di Capriglione, Franco, Napoli, Procaccini, 1993.
• GIANNINI, Giorgio, “Ghirigori sulla libertà. In margine
al Discorso sulla Servitù Volontaria di É. de La Boétie”, in
L’Osservatore Romano, quotidiano, Sabato 11 febbraio 1995.
21
Étienne de La Boétie
Discorso sulla Servitù Volontaria
traduzione italiana di Vincenzo Papa
Nell’aver molti signori non ci vedo bene alcuno
Che uno solo comandi, e che il re sia solo uno
così diceva Ulisse in Omero, parlando
in assemblea. Se avesse detto soltanto:
Nell’aver molti signori non ci vedo bene alcuno
non avrebbe potuto dire niente di meglio. Ma mentre, seguendo il filo del
ragionamento, si doveva dire che il
dominio di molti non può essere conveniente perché il potere di uno solo,
dal momento in cui prende il titolo di
signore, è duro e irragionevole, egli
invece ha aggiunto:
Che uno solo comandi, e che il re sia solo uno
Bisognerebbe, in questo caso, scusare
Ulisse, che forse doveva usare quel
linguaggio per sedare la rivolta dell’esercito, adattando, credo, il suo discorso più alla circostanza che alla verità.
Ma, per parlare consapevolmente, è
una tremenda disgrazia essere soggetti
a un padrone, della cui bontà non si
può mai esser certi, visto che, quando
vuole, può sempre essere malvagio; e
avere più padroni significa essere altrettante volte sventurati. Non voglio
per il momento discutere quella questione così dibattuta, se cioè le altre
forme di pubblico potere siano migliori della monarchia, tuttavia vorrei sapere, prima di mettere in discussione
quale posto la monarchia debba avere
tra le forme di governo, se essa debba
averne uno, poiché è difficile credere
che vi sia qualcosa di pubblico in un
governo in cui tutto è di uno solo. Ma
questa questione va messa da parte per
un’altra volta, e richiederebbe una trattazione a sé, o piuttosto si tirerebbe
dietro ogni sorta di disputa politica.
Per ora, vorrei soltanto comprendere come è possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e nazioni tollerino talvolta un solo tiranno, che
non ha altro potere che quello che gli
danno; che ha il potere di nuocere loro
solo finché essi possono sopportarlo;
che non potrebbe far loro alcun male,
se non quando essi preferiscono sopportarlo piuttosto che contraddirlo. È
davvero sorprendente, e tuttavia è così
comune che c’è più da dispiacersi che
da stupirsi nel vedere milioni e milioni
di uomini servire miserevolmente, col
collo sotto il giogo, non costretti da
una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati ed affascinati dal
nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è
solo, né amare le qualità, visto che nei
loro confronti è inumano e selvaggio.
La debolezza umana è tale, che dobbiamo spesso ubbidire alla forza; dobbiamo prendere tempo, non possiamo
essere sempre i più forti. Dunque, se
una nazione è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la
città di Atene ai trenta tiranni, non
bisogna stupirsi che serva, ma compiangere quella sventura; o meglio ancora, né stupirsi né lamentarsi, ma
sopportare il male pazientemente e
riservarsi per l’avvenire una sorte migliore.
La nostra natura è tale che i comuni
doveri dell’amicizia prevalgono per
una buona parte della nostra vita. È
ragionevole amare la virtù, apprezzare
le buone azioni, essere riconoscenti
verso chi ci ha fatto del bene e limitare
spesso il nostro benessere per accrescere l’onore e l’utile di chi amiamo
meritatamente. Così, se gli abitanti di
un paese avessero trovato qualche
grande personaggio che gli avesse dato
1
OMERO, Iliade, II, vv. 204205. La traduzione non è
stata condotta sull’originale greco
ma, come in tutti i casi che seguiranno, ha cercato di rendere la
traduzione francese di La Boétie.
Il contesto in cui Omero fa pronunciare ad Ulisse tali parole è il
seguente: sono passati nove anni
dall’inizio dell’assedio alla città di
Troia e l’esercito greco, stanco e
sfiduciato, è a un passo dalla
rivolta; gli stessi capi achei sono
in forte dissidio tra di loro per
problemi di leadership.
2
Il testo originale è, a nostro
avviso, contorto nell’espressione e va interpretato alla luce di
quanto La Boétie dirà nel seguito. Il concetto è il seguente: è
giustissimo dire che avere molti
signori non arreca alcun bene,
ma questo non perché siano molti bensì perché essi sono dei tiranni. Pertanto invocare un singolo tiranno contro la tirannia
dei molti è insensato poiché è la
la signoria politica in quanto tale
che è un male, non il numero
delle persone che la esercitano.
Qui è evidente come l’appel3
lativo di “Uno” utilizzato da
La Boétie per definire la tirannia
non coincida con il potere assoluto di un singolo individuo, che
è solo un caso limite di tale forma
politica. Infatti tale concetto viene esemplificato storicamente
attraverso il ricordo della sconfitta di Atene ad opera di Sparta,
che impose nel 404 a. C. al governo della rivale sconfitta la
feroce dittatura di trenta cittadini
ateniesi appartenenti al partito
aristocratico e filospartano.
22
1
Si tratta delle battaglie di
Maratona (490 a. C.), delle
Termopili (480 a. C.) e di Salamina (480 a. C.). Milziade e Temistocle erano gli strateghi ateniesi
vittoriosi sugli eserciti e sulle
flotte persiane rispettivamente a
Maratona e a Salamina; Leonida
era il generale spartano divenuto
celebre per la sua morte eroica
avvenuta al passo delle Termopili, dove egli, con altri trecento
soldati di Sparta, si sacrificò per
ritardare l’avanzata dell’esercito
persiano e dare tempo agli eserciti greci di riorganizzarsi.
DE LA BOÉTIE, Étienne
prova di una grande previdenza nel
salvaguardarli, di un grande coraggio
nel difenderli, di una grande cura nel
governarli; se, da quel momento, essi
si abituassero ad obbedirgli ed a fidarsene fino al punto di riconoscergli alcuni privilegi, non so se sarebbe una
cosa saggia, visto che lo si toglierebbe
da dove faceva bene, per innalzarlo
dove potrebbe far male. Ma certo, non
si potrebbe fare a meno di amare e di
non temere alcun male da chi si è ricevuto solo bene.
Ma, buon Dio! che storia è questa?
Come diremo che si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato vizio? Vedere un
numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non essere governati,
ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né parenti, né mogli
né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro cui bisognerebbe
difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma di uno solo. E
non di un Ercole né di un Sansone,
ma di un solo omuncolo, molto spesso
il più vile ed effeminato della nazione;
non avvezzo alla polvere delle battaglie, ma a malapena alla sabbia dei tornei; non solo incapace di comandare
gli uomini con la forza, ma in imbarazzo già a servire vilmente l’ultima donnicciola! Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono
sono codardi e deboli? Se due, tre o
quattro persone non si difendono da
un’altra, questo è strano, ma tuttavia
possibile; si potrà ben dire giustamente
che è mancanza di coraggio. Ma se
cento, mille sopportano uno solo, non
si dovrà dire che non vogliono, che
non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? Se si vedono, non
cento, non mille uomini, ma cento
paesi, mille città, un milione di uomini
non assalire uno solo, che li tratta nel
migliore dei casi come servi e schiavi,
come potremmo chiamare questa?
Vigliaccheria? Ora, naturalmente in
tutti i vizi ci sono dei limiti, oltre i qua-
li non possono andare: due uomini, e
forse anche dieci, possono temere uno
solo; ma se mille, un milione, mille
città non si difendono da uno solo
questa non è vigliaccheria, perché non
arriva fino a questo punto; proprio
come il coraggio non arriva fino al
punto che uno solo dia la scalata ad
una fortezza, assalga un esercito, conquisti un regno. Dunque quale vizio
mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e
per il quale non si trova un termine
sufficientemente offensivo, che la natura rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?
Si mettano cinquantamila uomini
armati da una parte e altrettanti dall’altra; li si schieri in battaglia e li si faccia
scontrare, gli uni liberi, combattenti
per la loro libertà, gli altri per toglierla
loro. A chi si pronosticherebbe la vittoria? Chi andrà al combattimento con
più coraggio, quelli che sperano come
ricompensa di salvaguardare la loro
libertà, o quelli che come contropartita
dei colpi inferti o ricevuti possono
aspettarsi solo la schiavitù altrui? Gli
uni hanno sempre davanti agli occhi la
felicità della vita passata e l’aspettativa
di una gioia simile per l’avvenire; non
pensano a quel poco che patiscono il
tempo che dura una battaglia, ma a
quello che dovranno sopportare per
sempre loro stessi, i loro figli e tutta la
discendenza. Gli altri non hanno niente che li imbaldanzisca, se non un pizzico di bramosia che si smussa subito
contro il pericolo e che non può essere tanto ardente da non spegnersi, forse, alla minima goccia di sangue che
esca dalle loro ferite. Nelle battaglie
così famose di Milziade, Leonida e
Temistocle, avvenute duemila anni
fa e che ancora oggi sono così presenti
nella memoria dei libri e degli uomini
come fosse accaduto l’altro ieri, che
furono combattute in Grecia per il
bene dei Greci e come esempio per il
mondo intero; ebbene, cosa diede ad
un così piccolo numero di uomini,
quali erano i Greci, non il potere, ma il
coraggio di resistere alla forza di navi
che riempivano il mare intero, di scon-
Discorso sulla Servitù Volontaria
figgere tanti popoli, talmente numerosi
che le truppe dei Greci non avrebbero,
eventualmente, neanche potuto fornire dei comandanti agli eserciti nemici?
In quei giorni gloriosi non si svolgeva
tanto la battaglia dei Greci contro i
Persiani, quanto la vittoria della libertà
sul dominio, della lealtà sulla bramosia.
É straordinario sentir parlare del
coraggio che la libertà mette nel cuore
di chi la difende; ma ciò che avviene in
tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i
giorni, cioè che un uomo ne opprima
centomila e li privi della loro libertà,
chi potrebbe crederlo se lo si sentisse
solo raccontare e non vederlo? E se
avvenisse solo in paesi stranieri ed in
terre lontane, e lo si raccontasse, chi
non penserebbe che sia piuttosto una
favola e una invenzione e non una cosa vera? Per di più questo tiranno solo,
non c’è bisogno di combatterlo, non
occorre sconfiggerlo, è di per sé già
sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non
bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per sé, a
patto di non fare niente contro di sé.
Sono dunque i popoli stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché smettendo di servire ne
sarebbero liberi. È il popolo che si
assoggetta, che si taglia la gola e potendo scegliere fra l’essere servo e l’essere libero, lascia la libertà e prende il
giogo; che acconsente al suo male, o
piuttosto lo persegue. Se gli costasse
qualcosa recuperare la libertà, non lo
inciterei, sebbene l’uomo non dovrebbe avere niente di più caro che affermare il suo diritto naturale e, per così
dire, da bestia ritornare uomo. Ma non
pretendo lui un tale coraggio; gli concedo pure che preferisca una certa sicurezza di vivere miserabilmente ad
una incerta speranza di vivere nell’agiatezza. Ma se per avere la libertà basta desiderarla, se c’è solo bisogno di
un semplice atto di volontà, quale popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola ottenere
solo con un desiderio, e che lesini la
volontà di recuperare il bene che do-
23
vrebbe riacquistare a prezzo del proprio sangue, e la cui perdita dovrebbe
rendere insopportabile la vita e desiderabile la morte a tutte le persone dignitose? Certo, come il fuoco di una piccola scintilla diviene grande e si rafforza sempre, e più trova legno, più è
pronto a bruciarne, e se non vi si mette dell’acqua per spegnerlo, basta non
metterci più legno, non avendo più da
consumare, si consuma da sé, diviene
senza forza e non è più fuoco; allo
stesso modo i tiranni, più saccheggiano, più esigono, più rovinano e distruggono, più gli si dà, più li si serve,
tanto più si rafforzano e divengono
sempre più forti e più rinvigoriti per
annientare e distruggere tutto; ma se
non gli si dà niente, se non gli si obbedisce, senza combattere, senza colpire,
restano nudi e sconfitti e non sono più
niente, o sono come il ramo che diviene secco e morto quando la radice non
ha più linfa e nutrimento.
I coraggiosi non temono il pericolo
per ottenere ciò che desiderano. Gli
avveduti non rifiutano la fatica. I vili e
gli ottusi non sanno sopportare il male
né riconquistare il bene: si limitano a
desiderarlo, e la virtù di aspirarvi gli è
negata dalla loro vigliaccheria, restandogli per natura il desiderio di averlo.
Questo desiderio, questa volontà di
aspirare a tutte le cose che, una volta
ottenute, li renderebbero felici e contenti, è comune ai saggi ed agli stolti, ai
coraggiosi ed ai codardi. C’è una sola
cosa di cui, non so perché, manca agli
uomini il desiderio naturale: è la libertà, che pure è un bene così grande e
piacevole, che una volta perduto, tutti
i mali vengono uno dietro l’altro, e
perfino i beni che restano dopo di lei
perdono completamente gusto e sapore, corrotti dalla servitù. Solo la libertà,
gli uomini non la desiderano perché,
così pare, se la desiderassero essi l’otterrebbero; come se rifiutassero di fare
questa conquista solo perché troppo
facile.
Poveri e miseri popoli insensati,
nazioni ostinate nel vostro male e cieche nel vostro bene, vi lasciate strappare sotto gli occhi la parte migliore
DE LA BOÉTIE, Étienne
24
1
Il termine è utilizzato da La
Boètie nel senso stretto, specifico e originario di “pensatori
dell’accademia”, ovvero Platone
ed i suoi seguaci. Per comprendere la specifica attenzione alle posizioni platoniche va ovviamente
tenuto conto del grande fiorire (e
della relativa fama) che ebbe la
rinascita neoplatonica fiorentina
del XVI secolo.
del vostro reddito, saccheggiare i vostri campi, derubare le vostre case e
spogliarle dei mobili antichi e di famiglia! Vivete in modo da non poter vantare niente che sia vostro; e ciònonostante sembrerebbe per voi un grande
favore tenere in affitto i vostri beni, le
vostre famiglie e le vostre vite. E tutto
questo danno, questa disgrazia, questa
rovina, non vi viene da molti nemici,
ma bensì da un solo nemico, da colui
che voi fate così potente com’è, per il
quale andate coraggiosamente in guerra, per la cui grandezza non rifiutate
certo di affrontare la morte. Colui che
tanto vi domina non ha che due occhi,
due mani, un corpo, non ha niente di
più dell’uomo meno importante dell’immenso ed infinito numero delle
nostre città, se non la superiorità che
gli attribuite per distruggervi. Da dove
ha preso tanti occhi, con i quali vi spia,
se non glieli offrite voi? Come può
avere tante mani per colpirvi, se non le
prende da voi? I piedi con cui calpesta
le vostre città, da dove li ha presi, se
non da voi? Come fa ad avere tanto
potere su di voi, se non tramite voi
stessi? Come oserebbe aggredirvi, se
non avesse la vostra complicità? Cosa
potrebbe farvi se non foste i ricettatori
del ladrone che vi saccheggia, complici
dell’assassino che vi uccide e traditori
di voi stessi? Seminate i vostri frutti,
affinché ne faccia scempio. Riempite
ed ammobiliate le vostre case, per rifornire le sue ruberie. Allevate le vostre figlie perché abbia di che inebriare
la sua lussuria. Allevate i vostri figli,
perché, nel migliore dei casi, li porti
alla guerra e li conduca al macello, li
faccia ministri delle sue bramosie, ed
esecutori delle sue vendette. Vi ammazzate di fatica perché possa trattarsi
delicatamente nei suoi lussi e voltolarsi
nei suoi piaceri sporchi e volgari. Vi
indebolite per renderlo più forte e rigido nel tenervi la briglia più corta. E di
tutte queste indegnità, che neanche le
bestie potrebbero accettare o sopportare, voi potreste liberarvi se provaste,
non dico a liberarvene, ma solo a volerlo fare. Siate decisi a non servire
più, ed eccovi liberi. Non voglio che lo
scacciate o lo scuotiate, ma solo che
non lo sosteniate più, e lo vedrete, come un grande colosso al quale è stata
tolta la base, piombare giù per il suo
stesso peso e rompersi.
Certo i medici consigliano giustamente di non toccare le ferite incurabili, ed io non mi comporto saggiamente volendo dare consigli al popolo,
che ha perso da lungo tempo ogni
consapevolezza, e che, visto che non
sente più il suo male, dimostra che la
sua malattia è mortale. Cerchiamo
dunque per ipotesi, di capire come si
sia così profondamente radicata questa
ostinata volontà di servire, da far sembrare che lo stesso amore della libertà
non sia così naturale.
In primo luogo, credo che sia fuori
dubbio che, se vivessimo secondo i
diritti che la natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai
genitori, seguaci della ragione e servi
di nessuno. Tutti gli uomini sono testimoni, ciascuno per sé, dell’obbedienza
che ognuno, senz’altro impulso che
quello naturale, porta a suo padre e a
sua madre. Quanto alla questione se la
ragione sia innata o meno, questione
dibattuta a fondo dagli accademici
ed affrontata da ogni scuola di filosofi,
per il momento non penso di sbagliare
dicendo che nell’animo nostro c’è un
seme naturale di ragione, che, coltivato
dal buonsenso e dal costume, fiorisce
in virtù e, al contrario, non riuscendo
spesso a resistere contro i vizi acquisiti, si isterilisce soffocato. Ma di sicuro,
se mai c’è qualcosa di chiaro ed evidente nella natura, che è impossibile
non vedere, è che la natura, ministro
di Dio, la governatrice degli uomini, ci
ha fatti tutti della stessa forma, e come
sembra, allo stesso stampo, perché
possiamo riconoscerci reciprocamente
come compagni o meglio come fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva,
ha avvantaggiato nel corpo o nella
mente gli uni più degli altri, non ha
inteso per questo metterci al mondo
come in recinto da combattimento, e
non ha mandato quaggiù né i più forti
né i più furbi come briganti armati in
Discorso sulla Servitù Volontaria
una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto, bisogna credere
che la natura dando di più agli uni e di
meno agli altri, abbia voluto lasciar
spazio all’affetto, perché avesse dove
esprimersi, avendo gli uni potere di
dare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Da quando questa buona madre ci
ha dato a tutti la terra intera per dimora, ci ha alloggiati tutti in una certa
misura nella stessa casa, ci ha formati
sullo stesso modello, perché ognuno
potesse specchiarsi e quasi riconoscersi l’uno nell’altro; se ci ha dato a tutti
questo gran dono della voce e della
parola per familiarizzare e fraternizzare di più, e per reciproca e comune
dichiarazione dei nostri pensieri, arrivare ad una comunione delle nostre
volontà; se ha cercato con ogni mezzo
di stringere così saldamente il vincolo
della nostra alleanza e associazione; se
ha mostrato in ogni cosa, che voleva
farci non solo tutti uniti ma addirittura
una cosa sola, non bisogna dubitare
che siamo naturalmente liberi, perché
siamo tutti compagni, e a nessuno può
venire in mente che la natura abbia
messo qualcuno in servitù, dopo averci messo tutti insieme.
Ma, in fondo, è del tutto inutile
discutere se la libertà sia un dato di
natura, visto che non si può tenere
nessuno in schiavitù senza fargli torto,
e che non c’è niente al mondo di così
contrario alla natura, che è tutta razionale, dell’ingiustizia. Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per ciò stesso, a mio avviso, che
non solo siamo nati in possesso della
nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla. Ora, se per caso avessimo qualche dubbio in proposito e
fossimo tanto imbastarditi da non poter riconoscere i nostri beni né le nostre inclinazioni innate, vi dovrò trattare come meritate, e far salire, per
così dire, le bestie in cattedra, per insegnarvi la vostra natura e condizione.
Gli animali, per Dio! se gli uomini non
fanno troppo i sordi, gli gridano: VIVA LA LIBERTÀ! Molti muoiono
appena sono catturati: come il pesce
muore appena fuori dall’acqua, così
25
quelli chiudono gli occhi e non vogliono sopravvivere alla loro libertà naturale. Se gli animali avessero tra loro
qualche gerarchia, farebbero dell’esser
liberi la loro nobiltà. Gli altri, dai più
grandi ai più piccoli, quando sono catturati, fanno un resistenza così accanita con unghia, corna, becco e zampe,
da dimostrare a sufficienza quanto gli
sia caro ciò che stanno per perdere.
Poi, una volta catturati, ci danno tanti
segni visibili della consapevolezza che
hanno della loro disgrazia, che è facile
osservare che per loro è più un languire che un vivere, e che continuano la
loro vita più per rimpiangere il felice
stato perduto che perché soddisfatti
della prigionia. Cos’altro vuol dire l’elefante che, essendosi difeso fino allo
stremo, non vedendo altra possibilità
e sul punto di essere catturato, sfonda
le sue mascelle e rompe i suoi denti
contro un albero, se non che il grande
desiderio che ha di restare libero com’è, gli dà dell’intelligenza e decide di
mercanteggiare con i cacciatori barattando l’avorio dei suoi denti come riscatto per la sua libertà? Noi adeschiamo il cavallo fin dalla sua nascita per
addomesticarlo a servire; eppure non
lo sappiamo blandire in modo tale
che, al momento di domarlo, non
morda il freno e non scalci contro lo
sperone, come (parrebbe) per mostrare alla natura e testimoniare almeno in
quel modo, che se serve, non è per sua
volontà, ma per nostra costrizione.
Cos’altro dire?
Anche i buoi gemono sotto il peso del giogo
E gli uccelli in gabbia si lamentano,
come ho detto in altre occasioni, per
passatempo nelle mie rime francesi.
Perché scrivendoti, o Longa, non
esito a mescolare i miei versi, che non
ti ho mai letto, perché se tu avessi mostrato di apprezzarli, sarei stato considerato un vanaglorioso. Così dunque,
se ogni essere dotato di sensibilità, dal
momento che ce l’ha, avverte il male
della sottomissione ed insegue la libertà, se le bestie, che pure sono fatte per
servire l’uomo, possono adattarsi a
1
Queste rime non sono state
ritrovate nella biblioteca di
Montaigne: che si tratti di una
perdita accidentale o della censura da parte dell’amico (che, lo
ricordiamo, non pubblicò il Discorso sulla Servitù Volontaria) di
rime di contenuto politico per
ragioni di quieto vivere e/o perché in tal modo riteneva di rispettare meglio la memoria dell’amico scomparso non abbiamo
alcun modo di saperlo.
2
Il manoscritto di Mesmes da
cui è stata sostanzialmente
ricavata la presente edizione del
Discorso dulla Servitù Volontaria era
dedicata per l’appunto a Longa,
predecessore di La Boètie al Parlamento di Bordeaux.
26
1
L’episodio biblico cui allude
La Boétie è quello che viene
descritto nel I libro di Samuele, 8.
Fra l’altro le parole con cui il
vecchio Samuele cerca inutilmente di scoraggiare il popolo di Israele dall’insana idea di sottomettersi volontariamente ad un re
ricordano vari passaggi del Discorso sulla Servitù Volontaria:
“Prenderà i vostri figli e li destinerà in parte ai suoi carri e ai suoi
cavalli; in parte perché corrano
davanti al suo cocchio. Altri li
farà capi di migliaia, di centinaia e
di cinquantine; altri infine li destinerà a coltivare i suoi campi, a
mietere le sue messi, a preparargli
armi da guerra ed il necessario
per i suoi carri. Anzi prenderà
pure le vostre figlie, perché facciano da profumiere, da cuoche e
da panettiere. Prenderà i migliori
dei vostri campi, dei vostri vigneti e dei vostri oliveti, per darli ai
suoi ministri. Preleverà le decime
sulle vostre messi e sulle vostre
vigne, per darle ai suoi cortigiani
ed ai suoi ufficiali. Prenderà invece i vostri servi e le vostre serve, i
vostri bovi migliori o i vostri
asini, e se ne servirà per i suoi
lavori. Esigerà infine la decima
sui vostri greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi. Allora vi
lamenterete del re, che vi siete
scelto, tuttavia il Signore non vi
esaudirà.”
2
Pisistrato impose la sua tirannia ad Atene nel VI secolo a. C.; l’Alessandro di cui si è
parlato è ovviamente Alessandro
Magno, che nel IV secolo a. C.
conquisterà la Grecia e la incorporerà nell’Impero Macedone.
DE LA BOÉTIE, Étienne
servire solo manifestando il desiderio
contrario, quale evento sventurato ha
potuto snaturare talmente l’uomo, l’unico nato davvero per vivere liberamente, e fargli perdere il ricordo del
suo stato primitivo ed il desiderio di
riacquistarlo?
Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni
ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza
delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi lo ha acquisito per
diritto di guerra si comporta in modo
tale da far capire che si trova, diciamo
così, in terra di conquista. Coloro che
nascono sovrani non sono di solito
molto migliori, anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano
con il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo
la loro indole di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come
loro proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo dovrebbe
essere, forse, più sopportabile e lo sarebbe, penso, sennonché appena si
vede innalzato al di sopra degli altri,
lusingato da quel non so che chiamato
grandezza, decide di non spostarsi più
da lì. Di solito, costui decide di consegnare ai suoi figli il potere che il popolo gli ha lasciato; e dal momento che
questi hanno concepito quest’ idea, è
strano di quanto superino gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino
di crudeltà, non trovando altri mezzi
per garantire la nuova tirannia che estendere la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà, che,
per quanto vivo, gliene si possa far
perdere il ricordo. A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza,
ma non ne vedo affatto una possibilità
di scelta; e per quanto i metodi per
arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare è quasi sempre simile: gli
eletti trattano i sudditi come se avessero catturato dei tori da domare; i conquistatori li considerano una loro preda; i successori pensano di farne dei
loro schiavi naturali.
Ma a proposito, se per caso nascessero oggi delle persone del tutto nuo-
ve, non abituate alla sottomissione, né
attratte dalla libertà, e che non conoscessero cos’è l’una e cos’è l’altra, se
non a stento i nomi; se gli si prospettasse di essere servi o di vivere liberi,
quali regole sceglierebbero? Senz’altro
preferirebbero obbedire alla sola ragione anziché servire un uomo; a meno che non si tratti di quelli d’Israele, i
quali, senza costrizione né bisogno,
istituirono un tiranno: così non leggo
mai la storia di quel popolo senza provarne risentimento, quasi fino a diventare così disumano da rallegrarmi dei
tanti mali che gliene derivarono.
Certamente tutti gli uomini, finché
conservano qualcosa di umano, se si
lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono ingannati: costretti dalle
armi straniere, come Sparta o Atene
dalle forze di Alessandro, o dalle fazioni, come il governo di Atene prima
di cadere nelle mani di Pisistrato.
Spesso gli uomini perdono la libertà
con l’inganno, ed in questo, sono più
frequentemente ingannati da se stessi
di quanto non siano sedotti dagli altri:
così il popolo di Siracusa, principale
città della Sicilia (mi dicono che oggi si
chiama Saragozza), oppresso dalle
guerre, badando sconsideratamente
solo al pericolo immediato, innalzò
Dioniso, primo tiranno, e gli diede
l’incarico di guidare l’esercito, non accorgendosi di averlo reso così potente
che quel furfante, ritornato vittorioso,
come se avesse vinto non i suoi nemici
ma i suoi concittadini, si fece da capitano re e da re tiranno.
È incredibile come il popolo, appena è assoggettato, cade rapidamente in
un oblio così profondo della libertà,
che non gli è possibile risvegliarsi per
riottenerla, ma serve così sinceramente
e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che non abbia perduto la libertà,
ma guadagnato la sua servitù. È vero
che, all’inizio, si serve costretti e vinti
dalla forza, ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno
volentieri quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così che
gli uomini che nascono sotto il giogo,
e poi allevati ed educati nella servitù,
Discorso sulla Servitù Volontaria
senza guardare più avanti, si accontentano di vivere come sono nati, e non
pensano affatto ad avere altro bene né
altro diritto, se non quello che hanno
ricevuto, e prendono per naturale lo
stato della loro nascita. E tuttavia non
c’è erede così prodigo e trascurato da
non dare un’occhiata qualche volta ai
registri di famiglia, per vedere se gode
di tutti i diritti di successione, o se si è
tramato qualcosa contro di lui o contro il suo predecessore. Ma è certo che
la consuetudine, che ha una grande
influenza su di noi, ne ha soprattutto
nell’insegnarci a servire e, come si dice
di Mitridate che si abituò a bere il veleno, nell’insegnarci ad ingoiare ed a
non trovare amaro il veleno della servitù. Non si può dire che la natura non
abbia un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso o
nell’altro; ma bisogna altresì confessare che ha su di noi meno potere della
consuetudine: infatti l’indole naturale,
per quanto sia buona, si perde se non
è curata; e l’educazione ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia,
malgrado l’indole. I semi del bene che
la natura mette in noi sono così piccoli
e fragili da non poter sopportare il minimo impatto di un’educazione contraria; si conservano con più difficoltà
di quanto si rovinino, si disfino e si
riducano a niente: né più né meno che
gli alberi da frutta, che hanno tutti
qualche qualità specifica, che conservano bene se li si lascia crescere, ma
che perdono subito per portare altri
frutti estranei e non i loro, secondo gli
innesti. Le erbe hanno ciascuna la loro
proprietà, la loro qualità naturale e la
loro specificità; ma tuttavia il gelo, il
tempo, il terreno o la mano del giardiniere vi aggiungono o diminuiscono
gran parte della loro virtù, per cui la
pianta vista in un posto, è impossibile
riconoscerla in un altro luogo.
Chi vedesse i Veneziani, un pugno
di uomini che vivono così liberamente
che il più misero di loro non vorrebbe
essere il re, nati e cresciuti in maniera
tale che non riconoscono altra ambizione se non quella di gareggiare a chi
meglio conserverà gelosamente la li-
27
bertà, educati sin dalla culla in maniera
tale che non scambierebbero una briciola della loro libertà con tutte le felicità della terra; chi avrà visto queste
persone e partendo di là se ne andrà
nelle terre di colui che chiamiamo il
Gran Signore, vedendo lì delle persone nate solo per servirlo e morire
per mantenere la sua potenza, penserebbe che questi e gli altri abbiano la
stessa natura, o piuttosto non penserebbe che, uscendo da una città di uomini, sia entrato in un parco di animali? Si racconta che Licurgo, il legislatore di Sparta, aveva allevato due cani,
tutti e due fratelli ed allattati dello stesso latte, l’uno ingrassato in cucina, l’altro abituato ai campi e al suono della
tromba e del corno, e volendo mostrare al popolo spartano che gli uomini
sono come li fa l’educazione, mise i
due cani in piazza, e tra loro una scodella di zuppa ed una lepre: l’uno corse alla zuppa e l’altro alla lepre.
“Eppure – disse – sono fratelli.”. Egli
dunque, con le sue leggi e la sua politica, educò così bene gli Spartani, che
ognuno di loro preferì morire mille
volte piuttosto che riconoscere altro
signore che il re e la ragione.
Vorrei ricordare un discorso che
tenne una volta uno dei favoriti di Serse, il gran re dei Persiani, con due
Spartani. Mentre Serse preparava il
suo grande esercito per conquistare la
Grecia, inviò i suoi ambasciatori per le
città greche a chiedere dell’acqua e
della terra: era la maniera che i Persiani
avevano di intimare alle città di arrendersi. Non ne inviò né ad Atene né a
Sparta perché quelli che erano stati
spediti da Dario, suo padre, gli Ateniesi e gli Spartani avevano gettato gli uni
nelle fosse e gli altri nei pozzi, dicendo
loro che prendessero quanta acqua e
terra volessero per portarla al loro
principe. Quegli uomini non potevano
sopportare che si attentasse alla loro
libertà neanche con la minima parola.
Per averli trattati così gli Spartani si
avvidero di essere incorsi nell’ira degli
dei, specie di Taltibio, dio degli ambasciatori: perciò per placarlo, presero la
decisione di inviare a Serse due loro
1
La libertà regnante presso la
Repubblica Veneta era in
alta reputazione tra gli umanisti
rinascimentali. Si trattava di un
mito, dato il carattere aristocratico ed autoritario dello Stato Veneto, ma La Boètie lo accetta
senza riserve. Lo stesso Montaigne testimonia che il suo amico
avrebbe preferito di gran lunga
nascere a Venezia piuttosto che a
Sarlat: cfr. MONTAIGNE, Michel de, Essias, Paris, Garnier,
1962, p. 212.
2
“Gran Signore” era l’appellativo che l’Occidente attribuiva al Sultano di Turchia, considerato come il simbolo vivente
per antonomasia della tirannia
politica.
28
1
La Boétie trae l’episodio
raccontato da ERODOTO,
Le Storie. Cfr. p. e. la traduzione
italiana di IZZO D’ACCINNI,
Augusta, Firenze, Sansoni, 1951,
pp. 690/691.
2
Pensatore e statista romano
del I secolo a. C. di ispirazione stoica. Oppostosi al protoimperialismo di Cesare in nome degli ideali dell’antica Repubblica Romana, dopo la sconfitta
di Tapso dell’anno 46 a. C., si
diede la morte trafiggendosi il
petto con la sua spada.
Silla (136/78 a. C.) fu il capo
3
indiscusso del partito aristocratico romano che istituì la sua
feroce dittatura in opposizione al
partito filopopolare. Nella storiografia filorepubblicana d’epoca
imperiale la sua figura appare
come quella del tiranno per antonomasia.
I Cimmeri omerici erano un
4
popolo leggendario che abitava un paese dove il sole non
sorgeva mai; Ulisse si recò nel
loro paese per evocare i morti ed
interrogare l’indovino Tiresia. I
Cimmeri storici, invece, erano
una popolazione originaria del
Chersoneo Taursico e delle regioni adiacenti fino al Tyras che
invase alla fine del VII secolo a.
C. la Lidia. Cfr. ERODOTO, op.
cit., pp. 8 e nota, 14 e nota, 15 e
74. La Boétie cita però il fatto
che tale popolo vivesse giorni e
notti di sei mesi l’uno; egli li confonde perciò molto probabilmente con i popoli antartici. Simone
Goyard-Fabre ha voluto vedere
in questo accenno ad un paese
dove il sole si mostra altrimenti
che a noi una reminescenza del
mito platonico della caverna. Cfr.
GOYARD-FABRE, Simone,
“Introduction” al Discours de la
Servitude Volontaire, Paris, Flammarion, 1983, p. 150, nota 53.
DE LA BOÉTIE, Étienne
concittadini per presentarsi a lui, che
disponesse di loro secondo la sua volontà, per vendicare gli ambasciatori
che essi avevano ucciso a suo padre.
Due Spartani, chiamati l’uno Sperto e
l’altro Buli, si offrirono di loro spontanea volontà per questo risarcimento.
Infatti vi si recarono, e sulla strada
arrivarono al palazzo di un Persiano
chiamato Indarne, che era luogotenente del re in tutte le città asiatiche della
costa. Questi li accolse con tutti gli
onori, fece loro una magnifica accoglienza e, dopo varie discussioni che
andavano da una cosa all’altra, chiese
loro perché rifiutassero così ostinatamente l’amicizia del re. “Vedete, Spartani, – disse – giudicate dalla mia persona quanto il re sappia onorare coloro che lo meritano, e pensate che se gli
apparteneste, egli farebbe lo stesso: se
vi avesse conosciuto, non c’è nessuno
fra voi che non sarebbe signore di una
città della Grecia.” “Riguardo a questo, Indarne, tu non sapresti darci un
buon consiglio – dissero gli Spartani –
perché hai provato il bene che ci prometti, ma non quello di cui noi godiamo: hai provato il favore del re; ma
non sai niente di quale gusto abbia la
libertà e quanto sia dolce. Se ne avessi
provato il gusto, tu stesso ci consiglieresti di difenderla, non con la lancia e
lo scudo, ma con le unghie e con i
denti.”
Solo lo Spartano diceva
quello che occorreva dire, ma certamente l’uno e l’altro parlavano come
erano stati educati: poiché era impossibile che il Persiano avesse rimpianto
della libertà, non avendola mai avuta,
né che lo Spartano sopportasse la soggezione, avendo gustato la libertà.
Catone l’Uticense, ancora ragazzo e sottoposto alla verga, andava e
veniva spesso dalla casa di Silla il dittatore, sia perché per la casata cui apparteneva non gli si sbarrava mai la
porta, e sia perché erano parenti stretti. Era sempre in compagnia del suo
maestro, quando ci andava, secondo
l’abitudine dei ragazzi di nobile famiglia. Egli si accorse che, nella casa di
Silla, in sua presenza o con il suo consenso, alcuni venivano imprigionati,
altri condannati; chi era esiliato, chi
strangolato; uno chiedeva la confisca
dei beni di un cittadino, l’altro la testa.
Insomma, tutto si svolgeva non come
a casa di un pubblico ufficiale, ma come a casa di un tiranno del popolo, e
non come in un tribunale di giustizia,
ma in un laboratorio di tirannia. Allora
il ragazzo disse al suo maestro: “Perché non mi date un pugnale? Lo nasconderò sotto il vestito: entro spesso
nella camera di Silla prima che si sia
alzato, ho il braccio sufficientemente
forte per sbarazzarne la città.” Ecco
un discorso che appartiene davvero a
Catone: un inizio degno della sua morte. Ed anche se non si dicessero né il
suo nome né il suo paese, e si raccontasse soltanto il fatto così com’è, la
cosa stessa parlerebbe da sé e si penserebbe subito che era Romano e nato a
Roma, quando la città era libera.
Perché dico tutto questo? Non certo perché io ritengo che il paese o il
territorio contino qualche cosa, poiché
in tutti i paesi la soggezione è amara e
piace l’esser libero; ma perché sono
dell’avviso che si debba avere pietà per
coloro che dalla nascita si sono trovati
il giogo al collo, oppure che li si scusi,
o meglio che gli si perdoni, se, non
avendo visto neanche l’ombra della
libertà e non avendone alcun sentore,
non si accorgono di quale danno derivi dall’essere schiavi. Se ci fossero dei
paesi, come racconta Omero riguardo
ai Cimmeri, dove il sole si mostra
diversamente che da noi, e dopo averli
illuminati per sei mesi continui, li lascia sonnecchianti nell’oscurità per
l’altra metà dell’anno, coloro che nascessero durante quella lunga notte, se
non avessero mai sentito parlare della
luce, si stupirebbero oppure forse, non
avendo visto il giorno, si abituerebbero alle tenebre in cui sono nati, senza
desiderare la luce? Non si rimpiange
mai quello che non si ha mai avuto, ed
il rimpianto viene solo dopo il piacere,
ed il ricordo della gioia passata accompagna sempre la conoscenza del male.
La natura dell’uomo è proprio quella
di essere libero e di volerlo essere, ma
la sua indole è tale che naturalmente
Discorso sulla Servitù Volontaria
conserva l’inclinazione che gli dà l’educazione.
Diciamo dunque che all’uomo risultano naturali tutte le cose alle quali
si educa e si abitua; ma gli è davvero
innato solo quello a cui spinge la natura semplice e non alterata: così la prima ragione della servitù volontaria è
l’abitudine: come i più bravi destrieri
che prima mordono il freno e poi ne
gioiscono, e mentre prima recalcitravano contro la sella, ora si addobbano
coi finimenti e tutti fieri si pavoneggiano sotto la bardatura. Dicono che sono sempre stati sottomessi, che i loro
padri hanno vissuto così. Pensano di
essere tenuti a sopportare il male e
lasciano che gli si dia ad intendere con
l’esempio, basando sull’estensione del
tempo il potere di coloro che li tiranneggiano. Ma a dire il vero, gli anni
non danno mai il diritto di fare il male,
anzi ingigantiscono l’offesa. Si trovano
sempre alcuni di carattere più fiero,
che sentono il peso del giogo e non
possono trattenersi dallo scuoterlo;
che non si abituano mai alla soggezione e, come Ulisse che per mare e per
terra cercava sempre di vedere il fumo
di casa sua, non possono fare a meno
di avvedersi dei loro diritti naturali e di
ricordarsi dei loro avi e del loro stato
primitivo. Sono spesso questi che, con
mente lucida e lo spirito acuto, non si
accontentano come il popolino, di
guardare ciò che è davanti ai loro piedi, ma guardano indietro ed avanti e
ricordano anche il passato per giudicare il futuro e valutare il presente. Sono
quelli che, avendo la mente di per sé
ben fatta, l’hanno ancora migliorata
con lo studio ed il sapere. Questi,
quand’anche la libertà fosse del tutto
persa e scomparsa dalla faccia della
terra, l’immaginerebbero e la sentirebbero nel loro spirito, e perfino l’assaporerebbero, e la servitù non sarebbe
di loro gusto, per quanto la si possa
imbellettare.
Il Gran Turco si è reso conto del
fatto che i libri e l’istruzione danno più
di qualunque altra cosa agli uomini il
senso e la consapevolezza di sé e l’odio per la tirannia; per questo sento
29
dire che nelle sue terre non ci sono
quasi più persone di cultura, né sono
richieste. Ora, comunemente, lo zelo e
l’affetto di quelli che hanno conservato, nonostante il tempo, la devozione
alla libertà, per quanto siano numerosi,
resta senza effetto per il fatto che essi
non si conoscono reciprocamente:
sotto il tiranno, gli viene tolta del tutto
la libertà di fare, di parlare e quasi anche di pensare, e rimangono tutti isolati con le loro idee. Perciò, Momo,
il dio burlone, non scherzava poi tanto
quando trovò da ridire sull’uomo che
Vulcano aveva forgiato, perché non
gli aveva messo una piccola finestra al
cuore, affinché attraverso di essa si
potessero vedere i suoi pensieri. Si è
detto che quando Bruto e Cassio
intrapresero la liberazione di Roma, o
meglio di tutto il mondo, non vollero
che ne facesse parte Cicerone, quel
grande pieno di zelo per il bene pubblico, e giudicarono il suo cuore troppo debole per un evento così grande:
si fidavano della sua volontà, ma non
erano affatto certi del suo coraggio. E
tuttavia, chi voglia ripercorrere gli avvenimenti del passato e gli annali antichi, ne troverà pochi che, vedendo il
loro paese male guidato ed in cattive
mani, avendo cercato con intenzione e
con onestà di liberarlo, non ci siano
riusciti, e che la libertà non si sia fatta
strada con le sue forze.
Armodio, Aristogitone, Trasibulo,
Bruto il vecchio, Valerio e Dione
realizzarono felicemente quanto avevano progettato; in questi casi, quasi
mai la fortuna fa difetto alla buona
volontà. Bruto il giovane e Cassio eliminarono felicemente la servitù, ma
restaurando la libertà morirono: non
indegnamente (perché sarebbe blasfemo dire che ci sia stata qualche cosa di
indegno nella vita o nella morte di
quelle persone). Ma certo con gran
danno, perpetua sventura e completa
rovina della repubblica, che fu seppellita con loro. Le altre imprese che sono state compiute in seguito contro gli
imperatori romani non erano che congiure di persone ambiziose che non
sono da compiangere per gli inconve-
1
In senso stretto il Sultano di
Turchia, ma è probabile che
si tratti di una figura di copertura
usata da La Boétie per stigmatizzare la politica dei tiranni in generale ed in particolare quella
delle monarchie francesi.
2
Nella mitologia greca antica
Momo era la personificazione del Sarcasmo, figlia della Notte e sorella delle Esperidi.
Il dio zoppo della mitologia
3
greca antica, fabbro del pàntheon olimpico.
Gli esecutori filorepubblica4
ni dell’assassinio di Gaio
Giulio Cesare durante le idi di
marzo del 44 a. C.
5
Armodio e Aristogitone uccisero nel 514 a. C. il tiranno
ateniese Ipparco nel tentativo di
portare istituzioni libere nella
loro città. Trasibulo fu tra i protagonisti principali della cacciata
dei Trenta Tiranni ateniesi nel
403 a. C. Bruto il vecchio e Valerio furono tra i fondatori della
Repubblica Romana antica. Dione rovesciò la tirannide di Dioniso a Siracusa, divenendo però a
sua volta un tiranno.
30
DE LA BOÉTIE, Étienne
1
L’argomentazione si trova in
realtà nel testo ippocratico
intitolato Le arie, le acque e i luoghi.
Cfr. IPPOCRATE, Opere, traduzione di VEGETTI, Mario, Torino, U.T.E.T., 1965, p. 192.
2
3
Artaserse (464/424 a. C.), re
dei Persiani.
SENOFONTE, La tirannide,
traduzione italiana di TEDESCHI, Luciano, Palermo,
Sellerio, 1986.
Simonide di Ceo (554/468 a.
4
C.) fu uno dei più grandi
lirici greci; Senofonte lo mette a
confronto con Gerone, tiranno di
Siracusa dal 478 al 466 a. C., alla
cui corte il poeta era vissuto per
qualche tempo.
5
Publio Cornelio Scipione
(detto l’Africano) fu un generale romano distintosi durante le
guerre puniche, famoso anche
per la sua magnanimità e lealtà
nei confronti sia degli amici che
degli stessi avversari.
L’Eunuco, atto
6 TERENZIO,
III, sc. I., v. 25.
Ciro il Grande, fondatore del7
l’Impero Persiano e suo primo
imperatore dal 558 al 538 a. C.
Creso di Lidia salì al trono
8
nel 561 a. C. Il suo regno, in
cui sviluppò una vivace attività
mercantile ed attrasse nella sua
orbita le città della Grecia ionica,
è ricordato come un periodo di
enorme ricchezza e fasto per la
Lidia e le città greche collegate; al
suo servizio operò come ingegnere il primo filosofo e scienziato
della storia del pensiero occidentale, Talete di Mileto. Entrato in
conflitto con Ciro, Creso perse il
trono con la conquista di Sardi
nel 546 a. C. “Creso aveva sostenuto nelle città ioniche il partito
democratico; Ciro, al contrario, si
appoggiò sull’aristocrazia e vi
stabilì dei tiranni, i quali, non
potendo mantenersi che col suo
appoggio, erano destinati ad essere docili strumenti nelle sue mani.” (PIRENNE, Jacques, Storia
Universale, Firenze, Sansoni, 1972,
I vol., pp. 125/126).
nienti che gli sono capitati, essendo
evidente che non desideravano eliminare ma spostare di capo la corona,
con la pretesa di scacciare il tiranno e
mantenere la tirannia. A costoro non
vorrei che avesse arriso il successo, e
sono contento che abbiano mostrato,
con il loro esempio, che non bisogna
abusare del santo nome della libertà
per compiere imprese malvagie.
Ma per tornare al nostro discorso,
che avevo perso di vista, la principale
ragione per cui gli uomini servono volontariamente, è che nascono servi e
sono educati come tali. Da questo deriva che facilmente essi divengono,
sotto i tiranni, vili ed effeminati. È ad
Ippocrate, il progenitore della medicina, che dobbiamo questa intuizione,
che l’ha esposta in uno dei suoi libri
dal titolo Le Malattie. Questo personaggio aveva in tutti i sensi un cuore
nobile, e lo dimostrò chiaramente
quando il Gran Re volle attirarlo
presso di lui con offerte e grandi doni,
ed egli rispose francamente che avrebbe avuto degli scrupoli ad impegnarsi a
guarire i Barbari che volevano uccidere i Greci, ed a servire con la sua arte
chi progettava di assoggettare la Grecia. La lettera che gli inviò trova ancora posto tra le altre sue opere, e testimonierà per sempre del suo cuore leale e della sua natura nobile. Dunque è
certo che con la libertà si perde di colpo anche il valore. Le persone asservite non hanno né vigore né asprezza
nella lotta: vanno negligentemente verso il pericolo quasi come costretti ed
appesantiti, e non sentono affatto nel
loro cuore ribollire l’ardore della libertà che fa disprezzare il pericolo e dà
voglia di acquistare l’onore e la gloria
con una bella morte tra i propri compagni. Le persone libere fanno a gara,
ognuno per il bene comune, ognuno
per sé, aspettando di aver tutti la loro
parte di male nella sconfitta o di bene
nella vittoria. Ma le persone asservite,
oltre a questo coraggio guerriero, perdono anche la vivacità in tutte le altre
cose, e hanno il cuore abietto e debole
e incapace di aspirare a grandi cose. I
tiranni lo sanno bene, e, vedendoli
prendere questa piega, ve li spingono
per farli infiacchire di più.
Senofonte, storico autorevole e di
primo rango tra i Greci, ha fatto un
libro in cui fa parlare delle miserie
del potente Simonide con Gerone,
tiranno di Siracusa. Questo libro è
pieno di onesti e profondi rimproveri,
che, secondo me, sono anche esposti
ottimamente. Fosse piaciuto a Dio che
i tiranni di tutti i tempi l’avessero messo davanti agli occhi e se ne fossero
serviti da specchio! Non posso credere
che non avrebbero riconosciuto i loro
difetti ed avrebbero avuto qualche vergogna delle loro tare. In quel trattato
egli racconta la pena in cui vivono i
tiranni, che facendo male a tutti, sono
costretti a temere tutti. Tra le altre cose, vi è scritto che i cattivi monarchi si
servono di mercenari stranieri per la
guerra, non osando mettere le armi in
mano alla loro gente, alla quale hanno
fatto torto. (Ci sono stati dei buoni
sovrani che hanno assoldato delle popolazioni straniere, come i Francesi
stessi, più in passato che oggi, ma con
l’intenzione di salvaguardare i loro
concittadini senza curarsi di perdere
del denaro pur di risparmiare uomini.
È quanto sosteneva, mi pare, Scipione
l’Africano,
che avrebbe preferito
salvare un cittadino piuttosto che aver
sconfitto cento nemici). Ma quello che
è assolutamente certo è che il tiranno
non pensa mai che il potere gli sia garantito, finché ha sotto di lui un solo
uomo di valore. Dunque a buon diritto gli si potrà dire quello che Trasone
in Terenzio si vanta di aver rimproverato al domatore di elefanti:
Per questo così bravo siete
perché avete in governo delle bestie.
Ma quest’astuzia dei tiranni nell’abbrutire i loro sudditi non la si può comprendere più chiaramente che nell’atteggiamento di Ciro nei confronti
dei Lidi, dopo che si fu impadronito di
Sardi, la principale città della Lidia, e
che ebbe preso in ostaggio e fatto prigioniero Creso, quel re tanto ricco.
Appena gli fu portata la notizia che i
Discorso sulla Servitù Volontaria
Sardesi erano in rivolta, li avrebbe potuti schiacciare subito; ma, non volendo né mettere a sacco una città così
bella, né essere sempre obbligato a
mantenervi una guarnigione per sorvegliarla, concepì un grande espediente
per garantirsene il controllo: vi impiantò dei bordelli, delle taverne e dei
giochi pubblici, e fece pubblicare un’ordinanza perché gli abitanti ne facessero uso. Si trovò così bene con questo presidio che in seguito non fu mai
necessario un solo colpo di spada contro i Lidi. Quelle persone povere e
miserabili si divertirono ad inventare
ogni sorta di giochi tanto che i Latini
ne hanno tratto una loro parola e ciò
che noi chiamiamo passatempo, essi lo
chiamano LUDI, cioè LYDI.
Non tutti i tiranni hanno dichiarato
così espressamente di voler effeminare
la loro gente; ma, a dire il vero, quello
che lui ordinò formalmente e completamente, gli altri lo hanno ottenuto surrettiziamente. In realtà, questa è il tipico atteggiamento del popolino, sempre
più numeroso nelle città, che è sospettoso verso chi lo ama ed ingenuo verso
chi lo inganna. Non pensiate che vi sia
alcun uccello che si catturi meglio alla
pania, né pesce che per golosità del
verme, si attacchi più rapidamente all’amo di quanto tutti i popoli vengano
attratti rapidamente alla servitù, per la
minima piuma che passi loro, come si
dice, davanti alla bocca. Ed è straordinario che si lascino andare così presto,
basta solo che li si solletichi. I teatri, i
giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i quadri ed altre simili distrazioni poco serie,
erano per i popoli antichi l’esca della
servitù, il prezzo della loro libertà, gli
strumenti della tirannia. Questi erano i
metodi, le pratiche, gli adescamenti che
utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare i loro sudditi sotto il giogo.
Così i popoli, istupiditi, trovando belli
quei passatempi, divertiti da un piacere
vano, che passava loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati, imparano a leggere.
31
I tiranni Romani trovarono anche
un altro stratagemma: festeggiare spesso le decine pubbliche, ingannando
quella gentaglia che si lascia andare più
di ogni altra cosa ai piaceri della gola.
Il più intelligente e colto tra loro non
avrebbe lasciato la sua scodella di zuppa per ritrovare la libertà della repubblica di Platone. I tiranni elargivano un
quarto di grano, un mezzo litro di vino
ed un sesterzio; e allora faceva pietà
sentir gridare: “Viva il re!” Gli zoticoni
non si accorgevano che non facevano
altro che recuperare una parte del loro,
e che quello che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se
prima non l’avesse presa a loro stessi.
Chi avesse raccattato oggi un sesterzio, e si fosse rimpinzato al pubblico
festino, benedicendo Tiberio e Nerone
e la loro bella generosità, l’indomani, costretto ad abbandonare i suoi
beni alla loro avarizia, i propri figli alla
lussuria, il suo stesso sangue alla crudeltà di quei magnifici imperatori, non
avrebbe detto una parola più di una
pietra, non si sarebbe commosso più
di un tronco. Il popolino ha fatto sempre questo: subito pronto e dissoluto
verso il piacere che non può ottenere
onestamente, e del tutto insensibile
verso il torto ed il dolore che non può
sopportare onestamente. Non vedo
oggi nessuno che, udendo parlare di
Nerone, non tremi al solo nome di
questo spregevole mostro, di questa
ripugnante peste del mondo; e tuttavia, di costui, di quest’incendiario, di
questo boia, di questa bestia selvaggia,
si può ben dire che dopo la sua morte,
spregevole quanto la sua vita, il nobile
popolo romano ne ebbe un tale dispiacere, ricordandosi dei suoi giochi e dei
suoi festini, che fu sul punto di portarne il lutto; così scrive Cornelio Tacito,
autore coraggioso e serio ed affidabile. Tutto questo non sembrerà strano, visto che quello stesso popolo aveva fatto lo stesso in precedenza alla
morte di Cesare, che abolì le leggi e la
libertà; personaggio che non ebbe, mi
pare, niente che valesse, poiché la sua
stessa umanità, tanto decantata, fu più
dannosa della crudeltà del più disuma-
1
Etimologia fantasiosa, ma
assai diffusa presso gli autori
romani antichi.
2
Tiberio, imperatore romano
dal 14 a l 37 d. C., salì al
trono sostenuto dall’esercito (da
lui precedentemente condotto in
maniera brillante nelle campagne
di Germania); proseguì l’opera di
centralizzazione imperiale e di
esautorazione dei poteri del Senato iniziata da Cesare e proseguita da Augusto – non esitando
a condannare a morte vari senatori romani che si opponevano
alla sua politica. Nerone, imperatore romano dal 54 al 68 d. C.,
dopo un iniziale tentativo di mediazione istituzionale proposto
dal filosofo Seneca, proseguì
l’opera di Tiberio mettendo anch’egli a morte numerosi membri
della classe senatoria e confiscandone le proprietà; morì suicida in
seguito ad un sollevamento dei
governatori militari in nome della
difesa delle antiche prerogative
del Senato del Popolo Romano.
Publio Cornelio Tacito, sto3
rico romano filorepubblicano di illustre famiglia equestre,
nacque all’incirca nel 54 d. C. e
morì durante il principato di Adriano (117/120 d. C.).
32
1
Gaio Giulio Cesare (100/44
a. C.), di nobile famiglia si
schierò con il partito popolare di
Mario e fu condannato a morte
da Silla. Tornò a Roma alla morte
di questi e collaborò con i consoli
Pompeo e Crasso, fu tribuno
militare, poi questore di Spagna e
nel 59 a. C. console. Dopo aver
annesso la Gallia alla repubblica,
la sua popolarità crebbe enormemente. Ciò causò la rottura con
Pompeo e Crasso e l’apertura di
una guerra civile, conclusasi con
la sua vittoria e la nomina a dittatore. Il suo progetto di abbattere
il potere senatorio attraverso la
forza popolare era riuscito, ma,
mentre si apprestava a fondare
una monarchia di stampo orientale, venne ucciso da una congiura filorepubblicana. Gli venne
elevata nel Foro una colonna alta
circa venti piedi, costruita con
pietre provenienti dalla Numidia.
La colonna portava la scritta Al
Padre del popolo romano (cfr. SVETONIO, Vite dei Cesari, traduzione di MARCHESI, Concetto, Firenze, Le Monnier, 1969, p. 53).
2
Pirro, re dell’Epiro dal 297 al
272 a. C., famoso per le sue
eccezionali qualità di capo militare che gli permisero, sovrano di
un piccolo regno, di sconfiggere
a più riprese sia le forze di Roma
sia quelle di Cartagine.
Generale romano che appro3
fittò della guerra civile apertasi nel 69 d. C. dopo il suicidio di
Nerone per farsi eleggere imperatore: proseguì la politica di accentramento del potere politico ed
esautorazione delle prerogative
senatoriali del suo predecessore.
SVETONIO, Vite dei
4 Cfr.
Cesari, op. cit., p. 330.
dei figli del dio Eolo
5 Uno
nella mitologia greca antica.
Publio Virgilio Marone (70/
6
19 a. C.). Legatosi agli ambienti epicurei e a quello dei poetae novi scrisse varie opere che lo
consacrarono, ancora vivente,
come uno dei maggiori poeti
della latinità. L’inferno di cui
parla La Boétie è l’Ade in cui
Virgilio fa scendere Enea su indicazione della Sibilla Cumana.
DE LA BOÉTIE, Étienne
no tiranno, perché fu proprio quella
sua velenosa dolcezza che indorò la
pillola della servitù per il popolo romano Ma, dopo la sua morte, quel popolo che aveva ancora in bocca il gusto dei suoi banchetti e nella mente il
ricordo delle sue prodigalità, per rendergli gli onori e cremarlo, fece a gara
ad ammucchiare i banchi del foro, e
poi gli innalzò una colonna, come al
Padre del popolo (così riportava il capitello), e gli rese più onore da morto, di
quanto se ne sarebbe dovuto rendere
ad un vivo, a parte forse a quelli che
l’avevano ucciso.
Gli imperatori romani non dimenticarono neanche di assumere di solito il
titolo di tribuno del popolo, sia perché
quella era ritenuta sacra, sia perché era
stata istituita per la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello
Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di loro, come se
dovesse sentirne il nome e non invece
gli effetti. Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere
di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso
discorso sul bene pubblico e sull’utilità
comune. Tu infatti conosci bene, o
Longa, il formulario che potrebbero
usare assai finemente in alcune situazioni. Ma, nella maggior parte dei casi,
non ci può essere tanta finezza dove
c’è tanta impudenza. I re d’Assiria, e
dopo di loro quelli della Media, si presentavano al pubblico il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il dubbio che fossero in qualche cosa più
che uomini, e lasciare in questa fantasticheria i popoli che lavorano volentieri di fantasia nelle cose che non possono giudicare a vista. Così tante popolazioni, che furono per moltissimo
tempo sotto il dominio assiro, con
quel mistero si abituavano a servire e
servivano più volentieri, non sapendo
quale padrone avessero, né quasi se ne
avessero, e temevano tutti, per fede,
uno che nessuno aveva mai visto. I
primi re d’Egitto non si mostravano
quasi mai, senza portare sulla testa un
gatto, un ramo o del fuoco; e, così facendo, con la stranezza della cosa, da-
vano ai loro sudditi un senso di riverenza ed ammirazione; laddove, alle
persone che non fossero state troppo
stupide o troppo asservite, non avrebbero suscitato che lazzi e risate.
È penoso ricordare quanti espedienti abbiano utilizzato i tiranni nel
passato per consolidare la loro tirannia; di quanti mezzucci si servivano,
trovando sempre il popolino fatto apposta per loro, che si lasciava prendere
nella rete per quanto male la tendessero; e che si lasciava ingannare così facilmente da essere più sottomesso
quanto più lo prendevano in giro.
Che dire poi di un’altra bella favola
che i popoli antichi presero per oro
colato? Essi credettero fermamente
che il pollice di Pirro, re degli Epiroti,
facesse miracoli e guarisse i malati
alla milza; e ingigantirono la favola,
sostenendo che quel dito, dopo la cremazione del cadavere, si fosse ritrovato tra le ceneri, intatto nonostante il
fuoco. Eppure è così che il popolo
sciocco fabbrica da sé le menzogne, e
poi ci crede. Molti lo hanno scritto,
ma in modo che è facile vedere che
l’hanno raccolto dalle voci di città e
dalle chiacchiere del popolino. Vespasiano, di ritorno dalla Assiria e passando per Alessandria per recarsi a
Roma ad impadronirsi dell’impero,
fece meraviglie: raddrizzava gli zoppi,
rendeva vedenti i ciechi, e tante altre
belle cose nelle quali chi non riusciva a
vedere il trucco, era a mio avviso più
cieco di quelli che guariva. I tiranni
stessi trovavano molto strano che gli
uomini potessero sopportare uno che
faceva loro del male; essi volevano
farsi scudo della religione, e se possibile, prendere a prestito qualche prova
della divinità a sostegno della loro vita
malvagia. Dunque Salmoneo, se si
crede alla sibilla di Virgilio nel suo inferno, per essersi preso gioco del
popolo così ed aver voluto spacciarsi
per Giove, sconta ora le sue pene nell’inferno più profondo,
Soffrendo crudeli tormenti per voler imitare
I tuoni del cielo, e i fuochi di Giove,
Sopra quattro corsieri, quegli andava traballando,
Discorso sulla Servitù Volontaria
Montato in groppa, con in pugno
una grande fiaccola brillante.
Tra i popoli greci ed in pieno mercato,
Nella città di Elide in alto aveva camminato
E facendo il suo affronto così usurpava
L’onore che, senza dubbio, apparteneva agli dei.
Il folle, che la tempesta e l’inimitabile fulmine
Contraffaceva, col bronzo e con una spaventosa corsa
Di cavalli dal piede di corno, il Padre onnipotente;
Il quale, subito dopo, punendo la grande offesa,
Lanciò, non una fiaccola, non una luce
di una torcia di cera, con il suo fumo,
E col duro colpo di una orribile tempesta,
Lo portò giù, i piedi sopra la testa.
Se costui che faceva solo lo sciocco, e
viene a quest’ora trattato laggiù come
si conviene, credo che quelli che hanno abusato della religione, per essere
cattivi, vi si trovano ancora meglio.
I nostri seminarono in Francia non
so che genere di rospi, di fiordalisi,
l’ampolla e l’orifiamma. Cose che,
comunque sia, non voglio mettere in
dubbio, poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto sin qui l’occasione
di dubitarne. Infatti, abbiamo sempre
avuto dei re tanto buoni in tempo di
pace quanto valorosi in guerra, che
sebbene nascano re, sembra che non
siano stati fatti come gli altri dalla natura, ma scelti da Dio onnipotente,
prima della nascita, per il governo e la
salvezza di questo regno. E quand’
anche così non fosse, non vorrei per
questo scendere in campo per contestare la verità delle nostre storie, né
esaminarle tanto minuziosamente, per
non distruggere quei bei temi, in cui
potrà cimentarsi la nostra poesia francese, rinnovata del tutto, sembra, dal
nostro Ronsard, dal nostro Baïf, dal
nostro Du Bellay, che in questo hanno
talmente fatto progredire la nostra lingua, che oso sperare che presto né i
Greci né i Latini ci saranno superiori,
se non per essere stati i primi. E certamente farei gran torto alle nostre rime,
(poiché uso volentieri questo termine,
e non mi dispiace perché, sebbene
molti l’abbiano reso meccanico, tuttavia vedo molte persone che lavorano
per nobilitarlo ancora e restituirgli l’onore antico), ma dicevo, le farei gran
torto togliendole quei bei racconti di
33
re Clodoveo, ai quali mi pare già di
vedere, con quanto piacere e con
quanta facilità si eserciterà la vena del
nostro Ronsard, nella sua Franciade.
Ne comprendo la qualità, ne riconosco lo spirito acuto, so la grazia dell’uomo: trarrà profitto dall’orifiamma
quanto i Romani dalle loro ancelle
e gli scudi caduti dal cielo,
come dice Virgilio. Trarrà profitto
dalla nostra ampolla quanto gli Ateniesi dal paniere di Erittone. Farà
parlare delle nostre armi altrettanto
bene che essi del loro olivo che conservano ancora nella torre di Minerva.
Sarei certamente irriguardoso a voler
smentire i nostri libri e saccheggiare
così le terre dei nostri poeti. Ma per
tornare all’ argomento da cui non so
come mi ero allontanato, non è mai
successo che i tiranni, per garantirsi,
non si siano sforzati di abituare il popolo, non solo alla obbedienza ed alla
servitù verso di loro, ma anche alla
devozione. Dunque ciò che ho detto
finora per abituare le persone alla servitù volontaria, serve ai tiranni solo
per il popolino e la plebaglia.
Ma ora vengo a un punto, che è a
mio avviso la risorsa ed il segreto del
dominio, il sostegno ed il fondamento
della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le guardie ed i posti di sentinella
salvaguardino i tiranni, a mio avviso si
sbaglia di grosso; e se ne servono, credo, più per l’aspetto formale e di spauracchio che perché ci facciano affidamento. Gli alabardieri impediscono di
entrare nel palazzo ai poveracci senza
mezzi, non agli uomini ben armati e
pronti all’azione. È facile verificare che
ci sono stati meno imperatori romani
che siano sfuggiti a qualche pericolo
grazie al soccorso delle loro guardie, di
quanti siano stati uccisi dai loro stessi
pretoriani. Non sono le truppe di cavalleria, non sono i battaglioni di fanteria, non sono le armi che difendono
il tiranno. Non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono
sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che
1
2
VIRGILIO, Eineide, vv. 585/594.
Si tratta dei segni araldici
della casa reale di Francia e
delle altre nobiltà maggiori, la cui
genealogia è suggerita da La Boétie in antichi tentativi di spacciarsi
per maghi e taumaturghi. Si veda
BLOCH, Marc, I re taumaturghi.,
Torino, Einaudi, 1973.
Qui e nel seguito l’elogio di
3
La Boétie nei confronti delle
dinastie reali francesi è ironico.
La Boétie allude qui alle
4
leggende sulle capacità taumaturgiche e il rapporto privile-
giato delle dinastie reali con il
creatore, leggende a fondamento
ideologico del concetto della
monarchia di diritto divino.
5
La Franciade di Ronsard, è
stata pubblicata nel 1572,
ossia nove anni dopo la morte di
La Boétie. L’argomento è abbondantemente dibattuto nella nostra introduzione al testo.
Virgilio racconta la leggenda
6
dello scudo di bronzo che,
sotto il regno di Numa, cadde dal
cielo nel territorio della prima
Roma. La sibilla Egeria affermò
che alla conservazione di tale
scudo era legata la salvezza della
città; Numa, allora, per evitare il
furto dello scudo da parte dei
nemici di Roma, ne fece fare
altre undici copie per confondere
gli eventuali ladri.
7
La Boétie parla dell’ampolla
che contiene l’olio che serviva per una serie di atti sacramentali. legati al potere politico (le
“unzioni” reali in primo luogo).
Cfr. BLOCH, Marc, op. cit.
Leggendario re d’Atene, me8
tà uomo, metà serpente che
guidava un carro che nascondeva
la parte serpentina, del suo corpo. Pausania (cfr. PAUSANIA,
Guida della Grecia, Milano, Mondadori/Valla, 1982, p. 75) racconta come Minerva avrebbe
rinchiuso Erittone in un paniere.
La leggenda del “paniere di Erittone” era conosciuta nel XVI
secolo soprattutto attraverso
Ovidio (cfr. OVIDIO, Opere,
Torino, U.T.E.T., II vol., p. 185).
34
1
2
DE LA BOÉTIE, Étienne
Ovviamente Gaio Giulio
Cesare.
Probabile errore del copista
o meno probabile lapsus
dello stesso La Boétie: siciliens per
ciciliens. La Cicilia era una provincia dell’Asia Minore che fa oggi
parte della Turchia asiatica.
Gneo Pompeo Magno (106/
3
48 a. C.), uomo politico e
generale romano. Nel 67 venne
inviato contro i pirati della Cicilia, riuscendo a sconfiggerli in
breve tempo.
mantengono l’intero paese in schiavitù. È sempre successo che cinque o sei
hanno avuto la fiducia del tiranno, che
si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui, per essere i complici delle
sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, e partecipi ai bottini delle sue scorrerie.
Questi sei orientano così bene il loro
capo, che a causa dell’associazione,
egli deve essere disonesto, non solamente per le sue malefatte, ma anche
per le loro. Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e
fanno con questi seicento quello che
fanno col tiranno. Questi seicento ne
tengono seimila sotto di loro, che hanno elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle provincie, o
la gestione del denaro pubblico, affinché appoggino la loro avarizia e crudeltà e che le mettano in atto al momento opportuno; e d’altro canto facendo tanto male non possono resistere, né sfuggire alle leggi ed alla pena,
senza la loro protezione. Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà
divertirsi a sbrogliare la matassa, vedrà
che, non seimila, ma centomila, milioni, si tengono legati al tiranno con
quella corda, servendosi di essa come
Giove in Omero, che si vanta, tirando
la catena, di ricondurre verso sé tutti
gli dei. Da ciò deriva la crudeltà del
Senato sotto Giulio, la fondazione
di nuovi Stati, la creazione di uffici;
non certo, a conti fatti, riforma della
giustizia, ma sostegno della tirannia.
Insomma che ci si arrivi attraverso
favori o sotto favori, guadagni e ritorni
che si hanno sotto i tiranni, si trovano
alla fina quasi tante persone per cui la
tirannia sembra redditizia, quante
quelle cui la libertà sarebbe gradita.
Proprio come i medici dicono che
quando nel nostro corpo c’è qualcosa
di guasto, se in un’altra parte non c’è
nulla che non va, questa finisce per
cedere alla parte infetta: allo stesso
modo, dal momento che un re si è dichiarato tiranno, tutti i malvagi, tutta la
feccia del regno, non parlo di quel
gran numero di ladri e furfanti bollati,
che in una repubblica possono fare
ben poco, nel bene e nel male, ma
quelli che sono posseduti da una ardente ambizione e da una notevole
avidità, si ammassano attorno a lui e lo
sostengono per prendere parte al bottino, ed essere, sotto il gran tiranno,
tirannelli anch’ essi. Così fanno i grandi ladri ed i famosi corsari: gli uni scoprono il territorio, gli altri pedinano a
cavallo i viaggiatori per derubarli; gli
uni tendono imboscate, gli altri sono
in agguato; alcuni massacrano, altri
spogliano, e sebbene vi siano tra loro
delle egemonie, e gli uni siano solo
servi e gli altri capi della banda, alla fin
fine non ce ne è uno che non partecipi
se non al bottino, almeno alla sua ricerca. Si dice bene che dei pirati della
Sicilia non solo si adunarono in numero tale che si dovette spedire contro di loro Pompeo il grande, ma
attirarono persino dalla loro parte diverse belle e popolose città, nei cui
porti si mettevano al sicuro, al ritorno
dalle scorrerie, e in cambio davano
loro qualche ricompensa per l’occultamento del bottino.
Così il tiranno rende servi i sudditi
gli uni per mezzo degli altri, ed è salvaguardato da coloro dai quali dovrebbe
guardarsi, se valessero qualcosa; secondo il detto che per spaccare del
legno, occorrono dei cunei dello stesso legno. Ecco i suoi difensori, le sue
guardie, i suoi alabardieri. Non che a
loro stessi non capiti di subire qualche
volta da lui, ma questi esseri perduti e
abbandonati da Dio e dagli uomini
sono contenti di sopportare il male per
farne, non a colui che gliene fa, ma a
chi lo sopporta come loro, e non ne
può più.
Tuttavia, vedendo queste persone
che servono il tiranno per trarre profitto dalla sua tirannia e dalla servitù
del popolo, mi assale spesso lo stupore
per la loro disonestà, e talvolta la pietà
per la loro stupidità: poiché, a dire il
vero, che altro vuol dire l’avvicinarsi al
tiranno se non allontanarsi dalla propria libertà, e per così dire, stringere a
due mani ed abbracciare la servitù?
Che mettano un po’ da parte la loro
ambizione e che si liberino un po’ del-
Discorso sulla Servitù Volontaria
la loro avarizia, e poi si osservino e
che si esaminino, e vedranno chiaramente che i campagnoli, i contadini,
che ogni volta che possono calpestano
sotto i loro piedi, e trattano peggio che
forzati e schiavi, vedranno, dico, che
costoro, pur così maltrattati, sono tuttavia in confronto a loro fortunati e in
una certa misura liberi. Il contadino e
l’artigiano, per quanto siano asserviti,
facendo quello che gli hanno detto di
fare se ne liberano.
Ma il tiranno vede gli altri che gli
sono accanto, che implorano e mendicano il suo favore: non devono solamente fare ciò che dice, ma pensare
ciò che vuole, e spesso per soddisfarlo,
che precorrano persino i suoi pensieri.
Non basta che gli obbediscano, devono addirittura compiacerlo; occorre
che si facciano in quattro, che si tormentino, che si ammazzino di fatica
per i suoi affari e poi che si compiacciano del suo piacere, che rinuncino al
loro gusto per il suo, che forzino il
loro temperamento, che si spoglino
del loro carattere. Devono prestare
attenzione alle sue parole, alla sua voce, ai suoi segni ed ai suoi occhi. Non
devono avere né occhio né piede né
mano che non sia in guardia per spiare
le sue volontà e per scoprire i suoi
pensieri. Questo sarebbe vivere felici?
Questo si chiama vivere? Ci può essere al mondo niente di meno sopportabile di questo, non dico per un uomo
coraggioso, non dico per uno di buoni
natali, ma semplicemente per uno che
possegga il senso comune, o anche
solo le fattezze di un uomo? Quale
condizione può essere più miserabile
di quella di vivere così, in cui non si ha
niente per sé, dipendendo da altri per
la propria gioia, la propria libertà, il
proprio corpo e la propria vita?
Ma essi vogliono servire per possedere beni: come se potessero guadagnare qualcosa per sé, dato che non
possono dire neanche di appartenere a
sé stessi. E come se qualcuno potesse
avere niente di proprio sotto un tiranno, vogliono fare in modo che i beni
siano loro e non si ricordano che sono
loro che gli danno la forza per togliere
35
tutto a tutti, e di non lasciar nulla che
si possa dire appartenga a qualcuno.
Vedono che niente rende gli uomini
soggetti alla sua crudeltà quanto le sostanze; che non esiste nessun crimine
verso di lui degno di morte come la
proprietà; che ama solo le ricchezze e
si sbarazza dei ricchi; ed essi si vanno
a presentare, come davanti al macellaio, per offrirsi così grassi e messi a
nuovo da fargliene venire voglia. I
suoi favoriti non dovrebbero tanto
ricordare coloro che, accanto ai tiranni, hanno guadagnato molte ricchezze
quanto di quelli che, avendone accumulato per qualche tempo, hanno poi
perduto i beni e la vita; non deve venir
loro in mente quanti hanno guadagnato ricchezze, ma quanto pochi di loro
le hanno conservate.
Si ripercorrano tutte le storie antiche, si considerino quelle di cui abbiamo memoria, e si vedrà con chiarezza
quanto è grande il numero di coloro
che, avendo guadagnato con mezzi
disonesti la confidenza dei principi,
avendo utilizzato la loro malvagità o
abusato della loro ingenuità, alla fine
sono stati annientati da quegli stessi
che avevano trovato tanta facilità nell’innalzarli, e che hanno mostrato altrettanta incostanza per abbatterli.
Certamente nel novero così esteso di
persone che si sono mai trovate vicine
a tanti cattivi sovrani, poche, o nessuna, non hanno saggiato qualche volta
su se stessi la crudeltà del tiranno che
avevano precedentemente aizzato contro gli altri, e che hanno alla fine arricchito loro stessi con le loro spoglie.
Anche le persone dabbene, se qualche volta se ne trova qualcuna amata
dal tiranno, o perché nelle sue grazie,
o perché risplende in lei la virtù e l’integrità, che persino ai più cattivi ispira
un certo rispetto di sé quando la si
vede da vicino, ma le persone dabbene, io dico, non ci potrebbero resistere; occorre che sentano il male comune e che a loro spese provino cos’è la
tirannia. Un Seneca, un Burro, un
Trasea, questa terna di brave persone, due dei quali furono avvicinati dalla cattiva sorte al tiranno che mise loro
1
Lucio Anneo Seneca (5/65
d. C.), filosofo e uomo politico romano, tra i massimi esponenti dello stoicismo. La sua
carriera politica fu estremamente
burrascosa: conseguì la questura,
ma subì anche una condanna a
morte revocatagli all’ultimo momento e trasformata in un esilio
in Corsica. Tornato a Roma,
ottenne grazie ai favori dell’imperatrice Agrippina la pretura e si
dedicò all’educazione del figlio di
questa, Nerone. Con la salita al
trono di quest’ultimo, Seneca ne
divenne il consigliere più fidato
ed uno degli uomini più potenti
dello Stato. Durante i primi anni
del suo impero, in effetti, il giovanissimo Nerone sembrò incarnare l’ideale stoico del rex iustus –
da cui però si allontanò ben presto incarnando sempre di più il
modello monarchico di matrice
orientale. L’atteggiamento di
Seneca nei confronti del nuovo
corso del potere imperiale fu di
sostanziale accondiscendenza;
trovatosi ciònonostante del tutto
isolato politicamente, si ritirò a
vita privata nel 62 d. C. Coinvolto, a torto o a ragione, nella congiura di Pisone ricevette l’ordine
di suicidarsi dallo stesso Nerone.
2
Sesto Afrenio Burro (?/62
d. C.), collaboratore di Seneca, rifiutò di cooperare con Nerone nell’ assassinio della madre
Agrippina e morì – quasi sicuramente avvelenato – nel 62 d. C.
Publio Clodo Peto Trasea
3
(?/66 d. C.), senatore romano che condusse una integerrima
politica filorepubblicana di opposizione a Nerone. Coinvolto nella
congiura dei Pisoni fu costretto
da questi al suicidio; a differenza
di Nerone e Burro (la cui opposizione a Nerone è da La Boétie
alquanto idealizzata) incarnò
politicamente il rigorismo dell’ideologia e della morale stoica.
36
1
Messalina (15/48 d. C.) visse
alla corte di Claudio e fu la
madre di Britannico e di Ottavio.
É restata alla storia come esempio di donna dai costumi sessuali
dissoluti.
2
Il personaggio di cui La
Boétie racconta l’episodio
più o meno leggendario è l’Imperatore romano Caligola (12/41 d.
C.). Cfr. SVETONIO, Vite dei
Cesari, op. cit., pp. 193/194.
Domiziano, imperatore dall’
3
80 al 96 a. C., rimane famoso
per l’avidità di denaro che lo
spinse a condannare a morte i
cittadini più facoltosi per incamerarne le ricchezze (è perciò probabile che egli sia il modello cui
si è ispirato La Boétie nella descrizione della bramosia del tiranno). Commodo, imperatore dal
180 al 192 d. C., è restato famoso
per le sue stranezze ed atrocità.
Antonino il Pio, imperatore dal
138 al 161 d. C., ha però lasciato
alla storia l’immagine del rex iustus
e, d’altronde, a differenza dei
primi due, è morto di morte naturale; in effetti anche sulla morte
di Commodo La Boétie è impreciso (il suo assassinio è avvenuto
per mano di un atleta di nome
Narcisso).
DE LA BOÉTIE, Étienne
in mano la gestione dei suoi affari, entrambe stimati da lui, entrambe amati.
Per di più uno l’aveva allevato e considerava come pegno della sua amicizia
l’educazione della sua infanzia. Ma
questi tre testimoniano a sufficienza
con la loro morte crudele, quanta poca
garanzia vi sia nel favore di un cattivo
padrone. E, a dire il vero, quale amicizia si può sperare da colui che ha il
cuore così duro da odiare i suoi sudditi, che non fanno che obbedirgli? E da
colui il quale, per non sapere neanche
amare, impoverisce se stesso e distrugge il suo dominio?
Ora, se si vuol dire che questi sono
caduti in quegli inconvenienti per aver
vissuto rettamente, si osservi attentamente attorno allo stesso, e si vedrà
che quelli che arrivarono nella sua grazia e vi si mantennero con mezzi disonesti non durarono più a lungo. Chi ha
sentito parlare di un amore così disponibile, di un affetto così ostinato? Chi
ha mai visto un uomo così ostinatamente accanito verso una donna quanto lui verso Poppea? Ora, lei fu in seguito avvelenata da lui stesso. Agrippina, sua madre, aveva ucciso suo marito Claudio, per fargli posto al trono.
Per favorirlo, non aveva mai avuto
difficoltà a fare e sopportare qualsiasi
cosa: dunque il suo stesso figlio, il suo
allievo, l’imperatore fatto con le sue
mani, dopo vari tentativi falliti, alla
fine le tolse la vita. E tutti allora dissero che aveva fin troppo meritato quella punizione, se fosse stato da altre
mani che quelle di colui al quale lei
aveva dato la vita. Chi fu mai più accondiscendente, più semplice, o per
meglio dire, più tonto dell’imperatore
Claudio? Chi fu mai più invaghito di
una donna che lui di Messalina?
Ciononostante, la mise infine tra le
mani del boia.
L’ingenuità caratterizza sempre i
tiranni, se ne hanno, nel non sapere
fare il bene, ma non so come alla fine,
quando si tratta di praticare la crudeltà,
anche verso coloro che gli sono vicini,
la loro intelligenza, per quanto poca ne
abbiano, si risveglia. Molto famoso è il
motto di spirito di quell’altro che, ve-
dendo la gola scoperta della moglie,
che amava tantissimo, e senza la quale
sembrava non avrebbe saputo vivere,
gliela carezzò con queste parole:
“Questo bel collo sarà presto tagliato,
se lo ordino.” Ecco perché la maggior parte degli antichi tiranni erano di
solito uccisi dai loro favoriti, che, avendo conosciuto la natura della tirannia, non potevano essere tanto sicuri
della volontà del tiranno quanto diffidavano della sua potenza. Così fu ucciso Domiziano da Stefano, Commodo da uno dei suoi stessi amici, Antonino da Macrino, e così pressoché tutti
gli altri.
È per questo che il tiranno non è
mai amato né ama. L’amicizia è una
cosa sacra, e si stabilisce solo fra brave
persone, e con una stima reciproca.
Essa si coltiva non tanto con i favori
quanto con la vita retta. Quello che
rende un amico certo dell’altro, è la
conoscenza che ha della sua integrità:
le garanzie che ne ha, sono la sua bontà naturale, la fede e la costanza. Non
può esservi amicizia laddove c’è la crudeltà, laddove c’è la slealtà, laddove c’è
l’ingiustizia. E fra i disonesti, quando
si associano, c’è un complotto, non
una compagnia; non si amano vicendevolmente, ma si temono l’un l’altro;
non sono amici, ma sono complici.
Ma anche se non ci fossero questi
ostacoli sarebbe comunque difficile
trovare in un tiranno un amore sicuro,
perché essendo al di sopra di tutti, e
non avendo compagni, è già al di là dei
confini dell’amicizia, che ha il suo vero
terreno di coltura nell’eguaglianza, che
non vuole mai contravvenire alla regola, anzi è sempre uguale. Ecco perché
tra i ladri c’è davvero (così si dice) una
certa fiducia nella spartizione del bottino: perché sono pari e compagni, e se
non si amano, almeno si temono l’un
l’altro e non vogliono diminuire la loro
forza disunendosi. Ma i favoriti del
tiranno non possono avere alcuna garanzia, dal momento che ha imparato
da loro che egli può tutto, e che non
c’è né diritto né dovere che lo obblighi,
dato che la sua condizione gli fa considerare il suo arbitrio come la ragione,
Discorso sulla Servitù Volontaria
non gli fa avere nessun compagno, ma
essere il padrone di tutti. Dunque è
davvero penoso che, pur vedendo tanti
esempi lampanti, vedendo il pericolo
così presente, nessuno voglia imparare
dalle altrui disgrazie e che, di tante persone che si avvicinano così volentieri ai
tiranni, non ce n’è uno che abbia l’accortezza ed il coraggio di dir loro quello che disse nella favola, la volpe al
leone, che faceva il malato: “Verrei
volentieri a farti visita nella tua tana,
ma vedo troppe tracce di animali che
vanno avanti verso di te, e non ne vedo una che ritorni indietro.”
Questi miserabili vedono luccicare i
tesori del tiranno e osservano sbalorditi i raggi della sua ostentazione; e, attratti da questa luce, si avvicinano e
non si accorgono di mettersi nella
fiamma che inevitabilmente li consumerà: così il satiro indiscreto (come
dicono le favole antiche), vedendo
luccicare il fuoco scoperto da Prometeo, lo trovò così bello che andò a baciarlo e si bruciò. Così pure la farfalla,
nella speranza di godere di un certo
piacere, si mette nel fuoco, perché riluce, e prova l’altra qualità, quella di
bruciare, come dice il poeta toscano.
Ma concediamo pure a questi graziosi
favoriti che sfuggano alle mani di colui
che servono, non si salverebbero mai
dal re che viene dopo. Se questi è buono, bisogna rendere conto e riconoscere almeno allora la ragione; se è disonesto e simile al loro padrone, non sarà
possibile che non abbia i suoi favoriti, i
quali di solito non si accontentano di
prendere il posto degli altri, ma ne vogliono il più delle volte i beni e le vite.
Come può accadere dunque che si trovi qualcuno che, con un pericolo così
grande e con così poca sicurezza, voglia prendere questo posto disgraziato
per servire con una tale difficoltà un
signore così pericoloso? Che tormento,
che martirio è questo, mio Dio? Esistere giorno e notte solo per pensare a
piacere ad un uomo solo, e tuttavia
aver timore di lui più di ogni altro al
mondo; avere sempre l’occhio vigile,
l’orecchio in ascolto, per intuire da dove verrà il colpo, per scoprire le imbo-
37
scate, per avvertire la rovina dei suoi
compagni, per scoprire chi lo tradisce,
ridere con tutti e tuttavia temere tutti;
non avere nessun nemico aperto né
amico certo; sempre con il viso sorridente e il cuore paralizzato; non poter
essere lieto e non osare essere triste!
Ma è un piacere considerare quello
che ricevono in cambio di questo gran
tormento, ed il bene che possono aspettarsi dal sacrificio della loro miserabile vita. Di norma il popolo, non
accusa il tiranno per il male che subisce, ma quelli che lo governano. Di
costoro, i popoli, le nazioni, tutto il
mondo a gara, perfino i contadini e i
paesani, sanno i nomi, scoprono i loro
vizi, addossano su di loro mille oltraggi, mille bassezze, mille maledizioni;
tutti i loro discorsi, tutti i loro voti sono contro questi. Ad essi addebitano
tutte le disgrazie, tutte le pesti, tutte le
loro carestie. E se talvolta gli fanno in
apparenza certi onori, nello stesso istante li maledicono nel loro cuore, e
provano orrore per loro più che per le
bestie feroci. Ecco la gloria, ecco l’onore che ricevono dal loro servizio
verso la gente, che se potesse fare in
mille pezzi il loro corpo, non sarebbe
ancora soddisfatta né sollevata almeno
in parte dalla sua pena. Ma anche dopo che sono morti, i posteri si danno
da fare perché il nome di quei mangiapopoli sia annerito dall’inchiostro di
mille penne, e la loro reputazione fatta
a pezzi in mille libri, e perfino le ossa,
per così dire, trascinate dalla posterità,
che le punisce anche dopo la loro
morte della loro vita malvagia.
Impariamo dunque una buona volta a fare il bene. Leviamo gli occhi al
cielo, sia per nostro onore, sia per l’amore stesso della virtù, sia, per parlare
secondo verità, per l’amore e l’onore
di Dio onnipotente, che è sicuro testimone delle nostre opere e giudice giusto delle nostre colpe. Da parte mia
penso proprio, e non mi sbaglio, che
non ci sia nulla di così contrario a
Dio, tanto buono e liberale, come la
tirannia, che egli riservi laggiù delle
pene particolari per i tiranni ed i loro
complici.
1
La favola esopea citata è
quella celeberrima della volpe e del leone. Cfr. ESOPO,
Favole, traduzione di MARCHESI, Concetto, Milano, Feltrinelli,
1976, pp. 38/39.
2
Il poeta toscano in questione è Petrarca; la lirica è il
XVII sonetto. Cfr. PETRARCA,
Canzoniere, Torino, Einaudi, 1964, p. 19.
38
ANONIMO, Teseo ed il Minotauro
39
Marco Celentano
La Scissione della Relazione tra Filosofia e Politica nel Pensiero Antico ed il
Ripiegamento del Filosofo su Se Stesso
1
Nella riflessione dell’ultimo Seneca il saggio, il filosofo, appare come colui che, ritirandosi da ogni impegno diretto nella vita pubblica, “deve
vivere in pace e in tranquilla solitudine, per potersi dedicare alla contemplazione”. Il modello ideale di esistenza filosofica, incarnato dalla figura
del sapiente, viene a coincidere con
l’utopia di una perfetta autarchia individuale, mentre il mondo della società
e della politica torna a confondersi in
una più ampia dimensione cosmica, il
cui ordine acquista, per l’ineluttabilità
che lo contraddistingue, i caratteri del
“naturale” e del “divino”.
Nella Roma imperiale, in cui si
svolge la riflessione dello stoico Seneca, il margine di scelta che resta al filosofo, in ambito “pubblico”, sembra
effettivamente essere rigidamente definito dall’alternativa tra una totale rinuncia alla politica attiva e la servitù
consapevole nei confronti del tiranno.
Una simile caratterizzazione della
sofia e della filosofia come discipline che
implicano l’astensione ed il distacco
dall’attività pubblica non rappresentava
tuttavia un momento di continuità con
la tradizione culturale della filosofia
greca, quanto piuttosto il compiersi di
un processo di rovesciamento di questa tradizione ed il sanzionamento teorico di una scissione storicamente già
avvenuta: la scissione di quella relazione che aveva visto, fin dalle loro origini, le figure del “sapiente” e del filosofo intimamente legate a quelle del
“legislatore” e del riformatore politico.
Plutarco, un pensatore che nasce
quasi cinquant’anni dopo Seneca, e
che all’interno dell’impero romano ri-
coprirà importanti cariche sia religiose
che politiche, si riallaccia direttamente
a questa tradizione presentando, ne Il
simposio dei sette sapienti, queste figure
“capostipite” della filosofia greca come portatrici del grande rinnovamento
in senso “democratico” ed antitirannico della cultura greca. Anche in un’altra opera, il Maxime cum principibus viris
philosophes disserendum, il “platonico”
Plutarco insiste sul valore “pubblico”
dell’attività filosofica, criticando il disimpegno teorizzato e praticato da
altre scuole filosofiche, principalmente
dalla scuola stoica che, per lo stesso
motivo, sarà suo bersaglio polemico
anche nel De Stoicorum repugnantis.
La coesistenza di queste due immagini così diverse e contrastanti del
“sapiente” nella tarda tradizione filosofica greca era in effetti il risultato di un
processo che, segnando alcune delle fasi
più drammatiche della storia sociale
greca, aveva condotto alla scissione tra
attività filosofica e attività politica. Il
passaggio culturale dall’ideale di una
“perfetta compenetrazione tra attività
intellettuale e attività sociale e politica”,
originariamente caratteristico della figura del “sapiente”, a quel “modello di
‘saggio contemplativo’ che compare,
sembra, nel V secolo a. C. e trionfa in
epoca ellenistica per perpetuarsi nei secoli successivi”, trova le proprie premesse nelle lotte politiche del VI e del
V secolo a. C. e il proprio primo punto
nodale di svolta in quegli eventi del IV
secolo che furono legati alla condanna a
morte di Socrate ed alla riforma platonica della filosofia, per essere poi sancito
dal mutato quadro politico, dopo la
perdita dell’indipendenza greca.
1
SINCLAIR, T. A., Il pensiero
politico classico, Bari, Laterza,
1973, pp. 413/414.
2
Di quest’opera, che in passato è stata considerata spuria
da alcuni studiosi, sembra oggi
accertata la paternità. Cfr. PUPPINI, P., “A tavola con la saggezza”, in PLUTARCO, Il simposio dei sette sapienti, Palermo, Sellerio, 1991.
PUPPINI, P., “A tavola con
3
la saggezza” in PLUTARCO, Il simposio dei sette sapienti, op.
cit., p. 100.
40
CELENTANO, Marco
Risulterebbe probabilmente impossibile comprendere la nascita stessa
della filosofia, quale si venne delineando tra VI e IV secolo a. C., e le sue
successive trasformazioni, senza tener
conto sia della vocazione politica che
alle origini caratterizzò le azioni, le
riflessioni ed i discorsi dei filosofi, sia
del fallimento e dell’esito tragico cui
questa vocazione andò incontro, già
durante i primi secoli di vita della filosofia. Questa sconfitta o fallimento,
che trovarono nell’accusa di “empietà”
e nella condanna a morte di Socrate il
loro evento forse più emblematico e
tragico, ebbero come esito trasformazioni così profonde della filosofia, che
solo attraverso di esse possiamo comprendere gli sviluppi successivi di questa disciplina. Se queste trasformazioni
trovano nelle svolte che Platone impresse alla pratica e alla teoria filosofica la loro matrice, uno dei motivi sta
proprio nel fatto che Platone cercò di
ripensare il nesso tra politica e filosofia a partire dall’evento della condanna
a morte e dell’esecuzione di Socrate.
Soffermandoci adesso a considerare specificamente la valenza “politica”,
in altre parole d’intervento diretto nelle forme di autocomprensione ed autoorganizzazione della Polis, che la figura del “sapiente” ed il concetto di
“sapienza” rivestirono, soprattutto tra
VI e IV secolo a. C., nell’epoca delle
origini della filosofia greca, ed utiliz-
MASOLINO DA PANICALE, Il Festino di Erode
zando le trasformazioni del concetto
di “sapienza” e della figura del “sapiente” come un indice del trasformarsi della relazione tra filosofia e politica,
cercheremo in queste pagine di ripercorrere brevemente gli eventi della
storia sociale della filosofia, da Solone
a Platone. Insomma ripercorreremo
quegli eventi che, dal “sapiente” del
VI secolo la cui attività fu più fortemente caratterizzata in senso politico,
all’ultimo dei grandi filosofi dell’epoca
classica greca che tentò l’attuazione di
un progetto politico globale, segnarono l’evolversi della relazione tra attività filosofica e attività politica, e la sua
prima drammatica rottura all’interno
della cultura greca.
Ricostruendo questo percorso cercheremo di porci essenzialmente tre
domande: in che modo, ovvero con
quali pretese, la filosofia ed il movimento sapienziale che la precedette, si
accostarono alla politica e quale fu il
senso dell’innovazione da essi introdotta in quell’ambito? Quali trasformazioni fondamentali la filosofia stessa subì dal fallimento di questo suo
primo grande tentativo di partecipazione diretta alla regolamentazione ed
all’autoorganizzazione della vita sociale, nonché dalla presa d’atto platonica
di questo fallimento? Quali trasformazioni subì entro questo percorso che
va da Solone a Platone, la stessa nozione filosofica dell’agire politico?
La Scissione tra Filosofia e Politica...
2
La parola sofos, scrive Hegel, significava in greco “uomo saggio” nel
senso di capace di un sapere “pratico”,
che rivela un’utilità “non soltanto per
sé” ma anche per la collettività, “uomo
di buon naso”, “astuto”, “ingegnoso”,
“versato in tutte le mansioni del vivere
pubblico e privato”.
Essa dovè caricarsi forse proprio durante il VI secolo anche di una più specifica valenza
politica, se alcuni interpreti posteriori
come Dicearco qualificarono i “saggi”
di quell’epoca come “né sapienti né
filosofi, ma uomini esperti e legislatori”. Vicini all’ambiente culturale che
gravitava intorno al tempio di Apollo,
a Delfi, i “sapienti” del VI secolo (sui
cui nomi le fonti antiche non concordano, tranne che per quattro: Talete,
Solone, Biante e Pittaco) ebbero a particolare modello e punto di riferimento la tradizione oracolare e lo stile espressivo degli indovini del tempio, e
svolsero la propria riflessione “inquadrandola in un atteggiamento mentale
gradito al dio che veneravano”: “le
massime concise che le epoche seguenti hanno tramandate come profferite dalle labbra dei `Sette saggi’ presentano i segni dell’influenza salutare
di Apollo”, “detti come ‘É difficile
essere buoni’ o ‘Non chiamare felice
nessun uomo finché la sua vita non è
finita’ testimoniano della saggezza
gentile e piacevolmente ironica che
aveva parlato dal santuario di Delfi”.
Alla figura del “sapiente”, che rappresentò per la loro cultura un modello ideale di vita e di conoscenza, i greci
attribuirono sempre le qualità della
“moderazione” e della “prudenza”,
dell’“equilibrio” e della “giustizia”. Gli
uomini che incarnarono questa figura
furono tuttavia, almeno nei due casi a
noi più noti, non semplici continuatori
bensì profondi innovatori di una cultura. É caratteristico di figure come
Solone o Talete il fatto che pur essendo innovatori radicali di aspetti costitutivi della cultura e della società del
loro tempo, essi non furono percepiti,
o meglio la cultura posteriore greca
non li raffigurò come “nemici” della
tradizione. Sulla loro opera e sul loro
comportamento non si abbatté quell’
accusa di “tradimento”, di “divulgazione di un segreto religioso, estensione
ad un gruppo aperto d’un privilegio
riservato, diffusione di un sapere prima proibito” che in seguito fu alla
base di tante condanne nei confronti
dei filosofi e della filosofia. Essi però
rivoluzionarono o cominciarono a rivoluzionare, con una svolta carica di
conseguenze, le tradizioni religiose,
politiche e culturali, i sistemi di produzione e trasmissione del sapere, i privilegi e i poteri su cui si era precedentemente basata la vita associata, già per il
fatto che, nella sfera della conoscenza
come in quella della politica, “non ricorsero a un dio per attribuirgli la paternità della propria opera”: “Solone,
come gli altri legislatori, ammetteva
che la giustizia veniva dagli dei, ma
non si appellava a una missione divina
e neppure, in alcun senso rilevante, a
una guida divina”.
Se la “sapienza” significò in questo
senso assunzione umana dell’azione
politica, del comportamento etico, delle pratiche conoscitive, il movimento
sapienziale, pur muovendosi nel solco
di una non rottura con la tradizione,
dette inizio di fatto ad un atteggiamento di revoca di quel consenso aprioristico e incondizionato che la tradizione precedente e l’opinione comune
avevano concesso all’ordine sociale e
politico esistente, considerandolo come “naturale”, apparentandolo alla
sfera del sacro, accreditando il mito di
una sua origine divina. É difficile valutare l’impatto che questa modificazione dovette avere sulle forme della vita
associata. L’assunzione umana e personale dei discorsi e delle pratiche politiche, iniziata col movimento sapienziale, ebbe, alla lunga, l’effetto di delegittimare, almeno in una certa fase e in
certi luoghi della civiltà greca, quei discorsi e quelle pratiche che basavano
la propria autorità solo sulla continuità
con la tradizione o sulla pretesa di un
rapporto privilegiato col divino. L’introduzione della filosofia finì per spostare di fatto il luogo deputato alla decisione politica, indicando il terreno
41
1
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lezioni sulla storia
della filosofia, Firenze, La Nuova
Italia, 1967, vol. I. pp. 221/222.
2
DIOGENE LAERZIO,
citato in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari, Laterza,
1983 , vol. I. p. 71.
ZIMMERN, A., “Il com3
monwealt greco” in L’origine
dello stato greco, antologia a cura di
Codino, F., Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 143.
VERNANT, Jean-Pierre,
4
Mito e pensiero presso i greci,
Torino, Einaudi, 1970, p. 402.
5
FINLEY, M. L., “Gli antichi
greci”, in L’origine dello stato
greco, op. cit.
42
CELENTANO, Marco
del confronto tra i discorsi e tra le pratiche, della valutazione dei discorsi e
delle pratiche sulla base della loro
maggiore o minore capacità di produrre “vantaggi” per la comunità, come il
solo luogo deputato alla maturazione
delle scelte politiche. Tuttavia se il
concetto di “sapienza” (sofia) rappresentò per i greci un vertice ideale della
conoscenza, se il “sapiente” divenne
per la cultura greca figura ideale di un
connubio e di un equilibrio tra sapere
pratico (saper fare, sapere di utile collettivo) e comprensione razionale, tra
sapere delle “cause” e sapere dei
“fini”, tra rispetto delle tradizioni religiose e rinnovamento dei costumi, il
trasformarsi della sofia in filosofia significò di fatto la rottura di quegli equilibri e l’esplosione dei conflitti sociali e
culturali in essi latenti.
Nell’operetta di Plutarco sopra
3
citata, in cui si descrive una discussione tra i “sette sapienti” ed altri
convitati riuniti dal tiranno Periandro
alla sua tavola, Solone esprime il
proprio parere affermando “che il non
comandare è preferibile al comandare”: una tale opinione si addice alla
figura di Solone quale la cultura greca
posteriore l’ha tramandata.
Verso gli inizi del VI secolo, ad Atene “un pugno di famiglie controllava
tutte le risorse e tutte le sanzioni” e la
città “era di fronte ad una situazione
rivoluzionaria, del tipo che altrove aveva portato all’affermarsi della tiran-
nide”. In questo contesto maturò l’esigenza di codificare e fissare per iscritto
“le leggi costituzionali, civili, sacrali e
criminali”, e “Solone fu scelto per accordo e incaricato di riformare lo stato”. “Questo è il punto – scrive Finley
– egli fu scelto dagli stessi ateniesi, di
loro iniziativa, e per loro autorità”,
“egli non era ‘chiamato’ e non aveva
vocazione, né prese il potere da tiranno”, mentre “la classe dirigente, sembra, cercò la sua mediazione solo per
paura di una rivoluzione che avrebbe
potuto spazzarla via”. Solone afferma
poi nei suoi poemi di aver voluto cercare l’equità e l’equilibrio ma di essersi
schierato innanzitutto contro l’“arroganza” e la “superbia” di quei “reggitori del popolo” diventati “ricchi grazie
alle loro opere inique”, contro “questa
piaga insanabile” che vedeva i cittadini
poveri “venduti schiavi, costretti indegnamente in catene”. Egli adottò la
misura rivoluzionaria di abolire la
schiavitù per debiti, onde far liberare
tutti coloro che, per tale motivazione,
erano costretti a lavorare per conto di
altri senza compenso, e restituire ai
proprietari originari “le terre che questi avevano perdute per darle in garanzia di prestiti”. Riformò inoltre le regole dell’accesso alle cariche governative, modificando una situazione di fatto, che vedeva il monopolio del potere
politico tramandarsi per discendenze
familiari, e “senza badare ai diritti della
nascita, istituì quattro classi distinte
sulla base del reddito agricolo. L’appartenenza a queste classi costituiva il
1
Inserito nel novero dei
“sette sapienti” da alcune
fonti antiche, Periandro, essendo
stato tiranno di Corinto, venne
spesso, dalle fonti posteriori,
come in questo caso da Plutarco,
estromesso dal gruppo, avendo
acquisito il concetto di “tiranno”
una connotazione negativa.
2
3
FINLEY, M. I., op. cit.,
p.149.
ibid.
BRUEGEL, Pieter, Pieter (il vecchio), Predica del Battista
La Scissione tra Filosofia e Politica...
titolo per rivestire cariche pubbliche”.
Infine, come conferma egli stesso
nei suoi scritti posteriori, ricevuta l’offerta di diventare tiranno della città,
rifiutò, e, completata la sua opera,
“lasciò Atene per dieci anni in modo
che la comunità potesse sperimentare
senza pregiudizi il suo programma”.
Anche se i conflitti che egli cercò di
risanare tornarono ad esplodere con
virulenza in seguito, e la tirannide, che
il poeta/legislatore aveva rifiutato, fu
poi portata ugualmente ad Atene da
Pisistrato, Solone “restò nella memoria degli ateniesi, indipendentemente
dai partiti, come l’uomo che infine li
aveva avviati sulla strada della grandezza”. “Le sue istituzioni fornirono
uno schema sul quale furono possibili
ulteriori sviluppi”, che portarono ai
regimi democratici del V secolo, e
questo schema “non venne mai del
tutto abbandonato finché Atene rimase libera”. Non lo stesso si può dire
di quei filosofi che, successivamente,
tra sesto e quarto secolo, tentarono di
rinnovare, e trasformare in senso
“democratico”, “tirannico” od “oligarchico”, le istituzioni delle loro città.
Seppure raggiunsero, già in vita, una
fama talvolta leggendaria, essi non poterono più essere infatti uomini apprezzati “indipendentemente dai partiti”: furono invece uomini chiaramente
di parte, che spesso pagarono in prima
persona, e ad un prezzo molto alto, le
proprie scelte culturali e politiche.
Nel clima di profonde trasformazioni sociali e politiche e nell’acceso
scontro tra fazioni “democratiche” e
“aristocratiche“, che dominarono buona parte del V secolo, i filosofi furono
quasi sempre al centro delle vicende
sociali e degli scontri politici che si
svolsero nelle loro città. Alcuni di essi
presero le difese di una parte, alcuni
dell’altra, determinate scuole filosofiche si mossero nel segno di una continuità con la tradizione religiosa e scelsero di mantenere l’obbligo del segreto
sulle loro dottrine, altre si orientarono
ad un ragionamento laico e alla pubblica discussione. Ma sia quando si richiamarono al rispetto delle tradizioni
religiose e politiche, sia quando se ne
fecero critici, i filosofi espressero la
loro riflessione, introducendo un’idea
e una pretesa del tutto nuova: quella
per cui non un’autorità tramandata,
incontestabile e incomprensibile, né
semplicemente l’autorità della forza,
bensì “la scienza deve governare” negli atti dei singoli e della comunità. La
forza di questo punto di vista va intesa
a prescindere da come poi ognuno dei
singoli pensatori riempì di propri contenuti, o di motivi ideologici che gli
provenivano dalla sua cerchia sociale e
culturale, il proprio modello di
“scienza” (Episteme): comune ai diversi
filosofi fu l’idea che il proprio discorso
potesse avere la meglio su quello degli
altri in quanto riconoscibile, nell’ambito di un corretto argomentare, come
più “saggio”, più razionale, più capace
di comprendere le cause dei fenomeni
e di descrivere correttamente le esperienze, più capace di stabilire le regole
di un discorso in cui il parlante non
inganni sé stesso, e perciò come discorso portatore e indicatore di un
maggior vantaggio pratico per la comunità. Questa pretesa portò perciò di
fatto con sé la designazione del confronto tra i discorsi, dell’esame da parte di ognuno dei vantaggi e degli svantaggi di una determinata pratica, come
modalità e luoghi deputati alla decisione delle forme di autoregolamentazione e autoorganizzazione della vita politica della comunità. Questo passaggio
si rende tanto più significativo e visibile proprio in quei pensatori che più
ostili o distaccati si mostrarono di
fronte al nuovo corso, orientato in
senso antiaristocratico, degli eventi
politici. Ad ascoltare “non me ma il
logos” invitava ad esempio già il solitario Eraclito:
Eraclito, si noti bene, non è per niente un
democratico, al contrario è un uomo di
origine e di pensiero aristocratici, nemico
del nuovo corso della società greca. Questa frase che esprime l’essenza del nuovo
discorso filosofico è tanto più notevole in
bocca ad un personaggio del genere, a
dimostrazione di come il nuovo modo di
pensare sia ormai diffuso al punto tale che
43
1
2
3
4
FINLEY, M. I., op. cit., p.
146.
FINLEY, M. I., op. cit., p.
150.
ibid.
ibid.
44
CELENTANO, Marco
nessuno, nemmeno gli oppositori più radicali delle forme che ne hanno accompagnato l’avvento, vive ormai al di fuori di
esso. L’aristocratico Eraclito non invoca il
mito a difesa del suo discorso, né fa appello alla nobiltà degna di fede della sua
origine.
399 a. C. la restaurata demo4 Nel
crazia ateniese pronuncia e mette
1
2
VOCCIA, Enrico, “Gli inizi
della Filosofia”, testo inedito.
NIETZSCHE, Friedrich, La
filosofia nell’epoca tragica dei greci, in NIETZSCHE, F., Opere,
vol. III, tomo II, Milano, Adelphi, 1973, p. 276.
in atto la condanna a morte di Socrate.
Una stagione di guerre civili e di delitti
politici, una trafila di condanne religiose e politiche nei confronti dei filosofi,
precedono la vicenda di Socrate, eppure è essa a fissare, quantomeno per
Platone, un punto di irreversibilità nella pratica politica della filosofia.
Platone raccoglie gli esiti estremi di
due atteggiamenti diversi di fronte alla
politica: quello del potere costituito
che in nome della legge pronuncia la
condanna di Socrate, difendendo la
propria conservazione, e quello di Socrate che, in nome del rispetto della
legge, a quella condanna si sottomette.
A partire dalla valutazione di questo
duplice esito Platone si decide per una
riforma radicale del progetto politico
della filosofia, riforma che appare connotata in modo ambivalente, rispetto
alle pratiche e alle teorie politiche di
altri pensatori precedenti o contemporanei, da una acutizzata consapevolezza “rivoluzionaria” delle condizioni
necessarie ad una modificazione radicale dell’ordine sociale, e da una spiccata tendenza ad un’involuzione “reazionaria” delle pratiche politiche della
filosofia. “Da Platone in poi, il filosofo è in esilio e cospira contro la sua
patria”.
Con la condanna di Socrate diviene chiaro, almeno per Platone, che la
filosofia non può giungere pacificamente ad una radicale modificazione
delle istituzioni sociali e politiche,
poiché i poteri costituiti non solo non
tollerano modificazioni rivoluzionarie
al proprio interno, ma sono disposti,
contro di esse, a giungere alle estreme
conseguenze. A partire da questa
consapevolezza matura anche il distacco platonico dall’etica sacrificale
di Socrate, ed il tentativo di un suo
superamento. Con Platone il filosofo
perde le speranze di giungere a “far
governare la scienza” con le sole armi
del discorso e della dialettica: quest’ultima è indispensabile per governare, ma deve essere una forza militare a sostenerla, e una concentrazione
monarchica del potere a garantire l’unità dello Stato. Nel passaggio dall’idea di un “governo della scienza” all’idea di un “governo dei filosofi” si
consuma però il sacrificio di quella
innovazione profonda di cui la pratica filosofica era stata portatrice in
politica, ovvero dell’utopia filosofica
della polis come luogo del confronto
tra i discorsi e dell’autodeterminazione collettiva delle forme di organizzazione. Dell’antica nozione sapienziale
e filosofica per cui “il non comandare
è preferibile al comandare” resta una
traccia nella riflessione platonica, ma
il suo effetto è paradossale: i filosofi
devono governare perché sono gli
unici che non vorrebbero farlo, che
vorrebbero far altro; questa loro elettiva lontananza dalla sete di potere
dovrebbe far da garante sul loro senso di giustizia. Il filosofo platonico si
fa qui erede di quel senso di “nobiltà
intrinseca” del proprio agire che era
stata nelle pretese e nelle forme di
autorappresentazione dell’aristocrazia. Il “governo dei filosofi” si distingue, in ultima analisi, dalle antiche
costituzioni monarchiche solo per
l’istituto della rotazione.
Speculari rispetto alle riforme del5
l’agire politico della filosofia, introdotte da Platone, sono le innovazioni che egli introduce nelle pratiche
di formazione e di espressione del filosofo. Tra queste le più evidenti e sostanziali sono due: la sostituzione del
dialogo parlato, socratico, con il dialogo pensato e scritto da un unico autore, e la sostituzione del luogo pubblico
con un luogo privato in cui fare filosofia e formare i filosofi. L’Accademia
platonica, riprendendo in parte il modello delle scuole pitagoriche, è istitu-
La Scissione tra Filosofia e Politica...
zione filosofica, scolastica e politica insieme, e mantiene una certa tendenza
al segreto, un aspetto “misterico”.
Dopo il fallimento dei tentativi politici di Platone l’ipotesi di un “governo dei filosofi”, e ancor più l’utopia
filosofica di un autogoverno della comunità, perderanno senso e attualità,
poiché sarà l’intera Grecia a perdere la
propria autonomia politica, cadendo
sotto la superiore potenza militare della monarchia macedone.
A partire dalle svolte che Platone
imprime alla pratica e alla teoria filosofica (la cui discussione dettagliata esula
dagli intenti di questo articolo), dal
fallimento pratico del progetto governativo di Platone, inteso come tentativo di dare risposta ad una sconfitta
dell’originario atteggiamento politico
della filosofia, e dalla perdita di autonomia della Grecia, la filosofia comincerà a sua volta a perdere le proprie
caratteristiche originarie di forma di
partecipazione diretta alla scena sociale e politica.
Dall’epoca di Platone, l’epoca di
una prima radicale sconfitta dell’azione
politica dei filosofi e dell’affermarsi di
una prima forma di ritiro del filosofo
dalla scena sociale, si dipartono i fili
intrecciati che in mutati contesti sociali
e politici porteranno all’emergere di
un’altra immagine non solo della filosofia ma anche del filosofo stesso.
Quest’immagine, oggi profondamente
radicata nel linguaggio, ha anch’essa
45
una sua radice antica (si pensi al racconto, riportato anche da Platone nel
Teeteto, su Talete che “mentre osservava le stelle e guardava in alto cadde in
un pozzo”) ma diventerà preminente solo a partire dall’epoca postplatonica. Essa caratterizza il filosofo come
uomo solitario, dedito alla contemplazione e alla meditazione, orientato a
perseguire un distacco e un’autonomia
nei confronti del mondo e del corpo,
come colui che si rifiuta di inseguire
ciò che i “molti” reputano importante
(piacere, amore, felicità, potere), come
persona infine che trova il proprio
spazio espressivo nel privato pensare,
leggere e scrivere, piuttosto che nel
pubblico agire, nella “teoria” piuttosto
che nella pratica.
Il trionfare di questa immagine, in
epoca post-ellenistica, può essere considerato il risultato del lento precipitare di uno stato sociale, che investì la filosofia ma ovviamente non soltanto essa, in dato culturale e professionale: il
trasformarsi della sconfitta di quella
pretesa di radicale rinnovamento politico di cui era stata portatrice la filosofia, in uno statuto disciplinare e in una
forma di autocomprensione in cui il
filosofo si autoesclude dalla scena del
politico; il trasformarsi di un ripiegamento del filosofo su sé stesso in quella forma di consenso alla tirannia che
offrì, da allora in poi, a molti filosofi, il
mestiere di consiglieri di principi, imperatori e governanti.
1
RUBENS, Pieter Paul, L’Entrata Trionfale di Costantino a Roma
AA.VV., I presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari,
Laterza, 1983, I vol., p. 88.
46
DE ROSA, Giulio
Giulio De Rosa
Note Critiche sull’Atenaion Politeia
omposto molto probabilmente
C
tra il 431 ed il 424 a. C., durante
la prima fase della guerra del Pelopon-
1
Per una discussione più approfondita del complesso dibattito sulla paternità del breve
trattato si veda CANFORA, Luciano, “Studi sull’Atenaion Politeia”, in Memorie dell’Accademia delle
Scienze di Torino, V, 4, 1980, e
CANFORA, Luciano, “Crizia
prima dei Trenta”, in AA. VV., I
Filosofi e il potere nella società e nella
cultura antiche, Napoli, 1988, pp.
29/41.
neso, l’Atenaion Politeia è un dialogo
dalla paternità anonima (e destinata a
rimanere tale). Non siamo di fronte
ad un’opera di teoria politica ma ad
una riflessione “empirica” sul carattere
della democrazia e sulla difficoltà da
parte dei suoi avversari di abbatterla –
ovvero sulla coesione interna e sulla
coerenza complessiva di un tale sistema politico. Esso si presenta sotto forma di dialogo tra due interlocutori,
“A” e “B”. Il primo è un conservatore
moderato e intelligente che espone le
tesi dell’autore stesso, rispondendo
man mano alle sollecitazioni che gli
provengono del secondo dialogante.
Quest’ultimo è su posizioni oligarchiche come il primo ma molto più oltranzista, pregiudizialmente ostile nei
confronti di qualunque manifestazione
del regime democratico e politicamente poco flessibile.
Dal punto di vista dei contenuti
trattati possiamo dividere lo scritto in
quattro parti. Nella prima “A” esprime
una serie di giudizi tesi ad illustrare
“oggettivamente” la potenza politica
del demos ateniese: questo, formato dai
nuovi ceti emergenti dei commercianti, artigiani e marinai, dimostra capacità e coerenza nel conservare il regime
instaurato. Il demos infatti evidenzia un’
estrema cura nel lasciare ai nobili quelle cariche colme di responsabilità che
comportano per chi le ricopre gravissimi rischi e pochi meriti, e nel dare,
nelle assemblee pubbliche, largo spazio alla “canaglia” ed ai poveri a scapito dei ricchi e delle “persone per bene”: entrambe queste tattiche rafforzano la democrazia. “B” replica che l’unico scopo del popolo quando giunge
al governo sembra essere quello di
“governare liberamente”, in altre parole “governare male purché si governi”,
ma “A” gli risponde che del “malgoverno” al demos non importa nulla –
anzi la sua strategia politica è rivolta
coscientemente al conseguimento di
esso nei modi sopra accennati. Il governo dei “peggiori”, infatti, non può
essere che malgoverno.
Lo sperpero del denaro pubblico in
continue feste e la considerazione sociale relativamente elevata di cui godono gli schiavi nella città di Atene
(spiegata attraverso la loro fondamentale importanza per il mantenimento
della potenza economica e commerciale dell’Impero), sono gli argomenti
che “A” utilizza per passare alla seconda parte del dialogo. In essa infatti l’anonimo autore si sofferma sulle caratteristiche dell’impero commerciale e
marittimo di Atene, e sulla sapienza
politica mostrata dal demos nel conservarlo anche attraverso il sagace rapporto con gli alleati. Questi essendo
stati costretti a dirimere le proprie
controversie giuridiche presso i tribunali ateniesi, in tal modo sono necessitati a mantenere buoni rapporti con il
demos ateniese che tanta parte ha nella
formazione di tali istituzioni. L’unico
punto di debolezza della potenza –
essenzialmente marinara – dell’Impero
consiste nel fatto che Atene non è un’isola e, di conseguenza, è esposta
agli attacchi terrestri che di tanto in
tanto devastano il suo territorio.
Nella terza parte “A” illustra la diversità dei modi e dei tempi della strategia politica fra regimi politici oligarchici e democratici. I primi sono infatti costretti ad una politica fatta sostanzialmente di moderazione, alleanze e
compromessi (poiché la responsabilità
Note Critiche sull’Atenaion Politeia
delle decisioni politiche è chiaramente
definita), mentre i secondi si lanciano
molto più facilmente in decisioni avventate (la responsabilità delle decisioni politiche essendo qui in qualche
modo collettiva e “impersonale”). Il
punto che nella “impersonalità” della
decisione politica consista il fondamento del potere del demos è testimoniato dal fatto che questi, tollerantissimo quando nelle commedie si mette
in scena e si scherniscono i difetti di
un singolo individuo, anche se d’origine popolare, dimentica ogni liberalità
quando ad essere messo in scena e
schernito è il popolo in quanto tale.
Altro aspetto tipico della democrazia,
a giudizio di “A”, è la lentezza di qualsivoglia pratica burocratica che riguardi il singolo, poiché ad essi s’antepone
il disbrigo degli affari “collettivi” (allestimento di feste, spettacoli,
delibere sulle guerre, sulla politica economica, ecc.); il singolo è così spesso
costretto a sborsare denaro per corrompere i funzionari pubblici ed accelerare in tal modo le sue pratiche.
La quarta parte del trattato s’apre
con l’acuta considerazione di “A” che
tutto quanto elencato non sono i “difetti”, bensì la forza della democrazia;
essa può reggersi proprio perché si
comporta in questa maniera. Risulta
pertanto utopistico immaginare di
“cambiarla dall’interno”: si tratta di un
regime politico con leggi ferree, perfettamente integrato ed omogeneo,
che può sopportare mutamenti interni
molto delimitati. D’altronde, argomenta “A”, ognuno fa i propri interessi; il
regime democratico è per definizione
la condizione politica consona alle aspirazioni del demos. Nulla di che stupirsi dunque, dal momento che “il simile favorisce il proprio simile”,
nemmeno se nei rapporti con le altre
città greche il regime democratico favorisce le componenti “canagliesche”
a scapito dei “migliori”: questi infatti
sono i nemici giurati del demos. La democrazia non potrà perciò mai permettere che qualcuno la convinca a
schierarsi con i “migliori” – pena la
sua dissoluzione.
47
Da un punto di vista formale il testo riflette l’acquisizione della tecnica
argomentativa della sofistica, poiché il
dialogante “A” illustra le sue tesi sul
regime democratico assumendo su di
sé il punto di vista opposto, la tesi
contraria, mostrandone l’intima coerenza e validità. Come dicevamo all’inizio, infatti, questo testo non consiste
in una critica negativa né in una svalutazione preconcetta della democrazia,
ma in un’intelligente discussione sulle
strategie, sui metodi e sui valori di cui
si serve il demos per difendere il regime
da esso costruito. Possiamo infatti
constatare che tutta l’esposizione di
“A” – nella quale s’identifica la posizione dell’autore – è straordinariamente obiettiva, e sembra scaturire da una
sorta di rassegnazione ammirata nei
confronti di una strategia politica spietata, priva di smagliature, difficilissima
da scardinare e che appare, di conseguenza, come il risultato di una notevole sapienza politica.
“A” (contrariamente al dialogante
“B” che mostra un’ostilità atavica e
risentita nei riguardi del demos giustificata dalla sua presunta rozzezza o malvagità) vede nel popolo ateniese un
soggetto politico maturo che, avendo
oramai una chiara percezione del proprio compito e del proprio ruolo, ha
creato una forma politica caratterizzata
dal meccanismo dell’esclusione che è
lo specchio dei propri interessi e dei
propri valori. “A” afferma chiaramente: “Io al popolo la democrazia gliela
perdono. É comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso”. L’astio e il livore nei riguardi del demos –
responsabile della condizione di atimòs
(fuoriuscito politico) dell’anonimo –
ha lasciato il posto al tentativo di comprensione delle sue ragioni politiche
che ne hanno dettato il comportamento, risultato alla distanza vincente.
Ma che caratteristiche ha il demos
ANONIMO ATENIESE,
oggetto di discussione in quest’opera?
Atenaion Politeia, traduzione
Come poi vedremo in Aristotele, esso
di CANFORA, Luciano, Palerè un ceto composto da artigiani, mari- mo, Sellerio, 1991, p. 34.
nai, commercianti che, una volta costruite sulle proprie virtù tecnico/
ANONIMO ATENIESE,
professionali la propria fortuna e la
Atenaion Politeia, op. cit., p. 30
1
2
48
1
2
DE ROSA, Giulio
PLATONE, Repubblica, VII,
577a.
Cfr. ARISTOTELE, Politica,
traduzione di LAURENTI,
Renato, Bari, Laterza, 1993, pp.
121/126.
ATENIESE,
3 ANONIMO
Atenaion Politeia, op. cit., p. 29.
Cfr. CANFORA, Luciano,
4
“Studi sull’Atenaion Politeia”,
op. cit., pp. 17/33.
5
ANONIMO ATENIESE,
Atenaion Politeia, op. cit., pp.
33/34.
Cfr. ROUSSEAU, Jean6
Jacques, Il contratto sociale,
traduzione di GERRATANA,
Valentino, Torino, Einaudi, 1980,
capitolo IV (“Della Democrazia”), pp. 92/94.
prosperità dell’Impero Ateniese, si è
anche impossessato di quel sapere pratico per eccellenza che è la virtù politica, grazie alla quale ha tradotto pubblicamente la propria potenza e dettato la
propria egemonia. Il popolo ateniese
ha così mostrato un notevole dinamismo, che ha travalicato l’ambito delle
occupazioni private per sfociare in
ambito pubblico sia all’interno della
città (nella forma dell’egemonia sugli
altri ceti) sia all’esterno d’essa (nella
forma dell’egemonia sugli alleati della
Lega Attica). Questo dinamismo ha
posto le condizioni dapprima per la
nascita di una coscienza politica e, successivamente, di un vero e proprio regime politico consono ai valori del demos e basato sui meccanismi dell’esclusione degli antichi ceti dominanti dalle
leve del potere.
Ma quali sono i valori che il demos
ha incarnato nella democrazia antica?
É opinione dell’anonimo ateniese che
questo regime politico – come tutte le
forme politiche storicamente realizzatesi – consista in una società politica
esclusiva dal punto di vista della rappresentanza e per niente egualitaria. Così
come Platone considererà la democrazia “il regime in cui hanno il sopravvento i poveri” e dove, “in quanto gli
ottimi uccidono i poveri (…) la distribuzione degli uffici viene fatta per sorteggio” e allo stesso modo Aristotele la concepirà quale “degenerazione”
del regime costituzionale, in cui la volontà arbitraria del demos si sostituisce
alle leggi, per l’anonimo essa è il governo di coloro che osteggiano la
“gente per bene”: “Io dico che il popolo di Atene sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla canaglia. Ma pur
sapendolo predilige quelli che gli sono
benevoli ed utili, anche se sono canaglie, e la gente per bene la odia proprio
in quanto per bene; pensano infatti
che la virtù, nella gente per bene, sia
nata per nuocere al popolo, non per
giovargli”.
Certamente, così come qualcuno ha
messo in evidenza, queste affermazioni nascono in un periodo dell’esperienza della democrazia ateniese antica
– quello immediatamente successivo
alla grande stagione periclea – in cui
essa è in preda ad una profonda involuzione rispetto al modello originario.
É anche vero però, d’altra parte, che
l’argomentazione dell’anonimo vuole
mettere in luce soprattutto che il carattere “degenerativo” ed intollerante del
regime politico democratico in cui si
trova a vivere non è un dato accidentale o contingente ma strutturale. La
democrazia si trova perciò nell’impossibilità materiale di tradursi in isonomia,
nel regime di ciò che è uguale e giusto.
Ciò accade proprio perché essa è il
prodotto di una coscienza politica che
s’ispira ai valori del “simile in funzione
del proprio simile”. Infatti la scelta di
campo da lei operata è prospetticamente orientata in funzione di determinati interessi che non le permetteranno mai d’elevarsi al punto di vista
dell’equidistanza di tutti gli interessi e
di tutti i valori di una comunità politica, cosa che costituisce il fondamento
e la condizione dell’isonomia.
Ciò considerato si comprende anche il significato dell’altra affermazione impietosa contenuta nel breve dialogo, vale a dire che “molto non è
possibile modificare senza intaccare
l’essenza stessa della democrazia”.
L’anonimo considera in altre parole
assolutamente illusorio seguire la strada dei correttivi per migliorare la democrazia ed adattarla alle nuove situazioni, poiché essi non potranno mai
mutare la sua natura ferocemente esclusivista – a meno di capovolgerla
radicalmente in un regime altro che
non rispetti più i suoi valori originari e
che con essa non abbia più niente a
che fare. L’autore del dialogo sembra
anticipare qui alcune conclusioni rousseauiane de Il Contratto Sociale sull’impossibilità della democrazia – intesa
come regime della totalità che governa
in favore della totalità – proprio perché essa è pur sempre espressione di
una coscienza politica che può operare
solo in nome del “giovare a se stesso”
e dell’“interesse” – e ciò anche nel rarissimo caso che tale interesse coincida
con quello della comunità intera.
Note Critiche sull’Atenaion Politeia
49
7
Cuma (NA), Camera Pentagonale di Accesso al cosiddetto Antro della Sibilla
Come osserverà in seguito Aristotele, anche per l’anonimo ateniese l’origine e il fondamento delle diverse
costituzioni politiche si trova nella dialettica del conflitto di classe tra i ricchi
e i poveri. In tal senso qualsiasi forma politica sarà pur sempre destinata
ad essere una forma politica “interessata”, che non governerà mai “la comunità in funzione della comunità”.
In tal senso – e qui mettiamo a fuoco
il limite dell’analisi dell’Anonimo –
non si comprende su cosa sia fondata
la sua predilezione nei riguardi del re-
gime oligarchico, ancora da lui dipinto
come il governo dei “perbene”, che
governa la comunità in nome della
virtù e del sapere, in poche parole la
comunità in nome di se stessa. Infatti
appare chiaro da tutta la sua analisi
precedente che ogni forma politica
sarà irrimediabilmente di parte e destinata a governare in funzione di sé e in
nome del tutto, proprio perché nessuna
di essa potrà mai corrispondere ad un
punto archimedico esterno al mondo
degli interessi privati e capace di sublimarli.
I termini precisi del ragionamento aristotelico sono i seguenti: “la pluralità delle costituzioni è dovuta al fatto che ogni
stato ha un considerevole numero di parti” (ARISTOTELE, Politica, op. cit., p. 119). Dall’osservazione storico/empirica il filosofo giunge ad affermare che le
costituzioni fondamentali sono
due, l’oligarchia e la democrazia;
egli specifica poi che “si ha democrazia quando stanno al potere uomini liberi e poveri, che sono in maggioranza, oligarchia
quando vi stanno uomini ricchi e
nobili, che sono in minoranza” (ARISTOTELE, Politica, op.
cit., p. 121). Si tenga infine presente che per “poveri” Aristotele
– così come l’Anonimo Ateniese
– non intende affatto i lavoratori
manuali in genere, bensì tutti coloro che, pur non essendo schiavi
o ridotti in miseria, non godono
pienamente, ma solo in parte,
dell’otium. Per “poveri” perciò
qui Aristotele intende tutti gli uomini liberi che non possono fare
a meno di lavorare per vivere.
50
Enrico Voccia
Questioni di Fondazione della Società.
Lettura de L’Unico e la sua Proprietà di
Max Stirner
Premessa. L’eterodossia
del pensiero stirneriano
1
Si faccia riferimento in particolare alle idee espresse da
Coleridge, Ruskin, Southey, Ticknor e Stendhal. Sull’enorme
influenza dell’economia politica
classica nei confronti della riflessione romantica cfr. RANCHETTI, Fabio, La formazione della scienza economica, Torino, Loescher,
1977, pp. 13/14.
Tra i testi “classici” della tradizione del
pensiero filosofico contemporaneo,
L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner
viene a trovarsi in una condizione paradossale. La sua valenza di testo politico gli dona da sempre lettura e diffusione notevole negli ambiti più disparati, mentre l’insegnamento e la ricerca
accademica – attenti talvolta a vere e
proprie cineserie e/o ad autori che
l’argomentazione filosofica non sanno
nemmeno dove sia di casa – si può
dire che lo ignori pressoché completamente. Eppure i manuali di Storia della Filosofia citano, unanimemente,
questo testo come un momento fondamentale della riflessione sui fondamenti dell’agire sociale portata avanti
dalla cosiddetta “sinistra hegeliana”.
Il motivo di quest’esclusione/
rimozione è in realtà facilmente comprensibile, purché si tenga conto della
preminenza pressoché assoluta, nella
cultura contemporanea, della critica
romantica del moderno. La società
moderna, secondo questa diffusissima
visione, sarebbe caratterizzata da valori puramente materiali quali la produzione, la tecnica, il profitto, la merce,
ecc.: tale situazione precipiterebbe
l’uomo in una condizione di alienazione, di perdita della sua essenza umana,
di incapacità a riconoscere il vero senso della vita. Questa visione della modernità nasce per l’appunto nel movimento romantico, ma si è rapidamente diffusa ed ha trovato una assai
vasta rispondenza nella cultura contemporanea, ed oggi è un leit-motiv che
accomuna “trasversalmente” le principali visioni del mondo.
Tenendo presente una tale condizione, è comprensibile come qualunque
voce che si ponga fuori del coro sia
guardata con sospetto e sottoposta a
meccanismi di esclusione/rimozione.
Max Stirner, in effetti, sostiene la tesi
esattamente contraria a quella appena
esposta: a suo giudizio, lungi dall’essere
dominata da valori puramente materiali,
la società contemporanea è totalmente
ideologizzata e sacralizzata. Secondo
l’autore de L’Unico e la sua proprietà, infatti, noi non ci troviamo immersi nel
regno dei valori materiali bensì in quello
degli “spiriti”, dei “fantasmi”, delle
“idee fisse”; e, se ciò non bastasse, la
tesi stirneriana ha come corollario diretto l’idea che i critici romantici del moderno non sono nemmeno dei critici
ma, al contrario, gli ideologi (nel senso
marxiano del termine) maggiormente
autentici della società contemporanea.
Su cosa si fonda questa tesi sicuramente eterodossa rispetto alla corrente
dominante del pensiero contemporaneo? Stirner sostiene esplicitamente
che ciò che è accaduto con il passaggio
dall’età medievale/moderna a quella
contemporanea non è stato un processo di desacralizzazione, di pura e semplice messa fuori gioco della potenza politica della mentalità religiosa, ma un
semplice mutamento dell’oggetto sacralizzato. Utilizzando a piene mani l’armamentario concettuale della critica hegeliana al “dover essere”, Stirner conclude che l’“Uomo” ha scalzato Dio
dall’altare dei meccanismi ideologici.
Che cos’è l’ideale se non l’io di cui si va in
cerca e che resta sempre lontano? Si cerca
51
se stessi, perciò non si ha ancora se stessi,
si aspira a ciò che si deve essere, perciò non
si è. Si vive nello struggimento: per secoli si è
vissuti in esso, si è vissuti nella speranza.
(...) Forse che questo riguarda solo la cosiddetta gente pia? No, riguarda tutti quelli che appartengono a quest’epoca storica
che sta tramontando, anche quelli di cui si
dice che sono “uomini di vita”. Anche per
loro c’è sempre una Domenica, attesa
dopo i giorni di lavoro, e oltre all’agitazione mondana c’è il sogno di un mondo
migliore, di una felicità universale per
l’uomo, insomma un ideale. (...) Ovunque
struggimento, speranza, e nient’altro.
Chiamatelo pure, per quel che mi riguarda, romanticismo.
(...) Nel caso di queste persone religiose
che sperano nella vita eterna e considerano la vita terrena come una semplice preparazione per l’altra, salta subito agli occhi
la subordinazione della loro esistenza terrena, da loro posta completamente al servizio della speranza in quella celeste, ma ci
si sbaglierebbe di grosso se si attribuisse ai
più illuminati meno spirito di sacrificio.
(...) Forse che, per presentarne subito il
concetto liberale, la vita “umana” e
“veramente umana” non è la vera vita?
Forse che ognuno ha già in partenza questa vita veramente umana o non deve
piuttosto innalzarsi a tanto con grandi
fatiche? Ce l’ha già come sua vita presente
o non deve piuttosto raggiungerla come
sua vita futura, di cui parteciperà solo
quando “non sarà più macchiato da nessuna forma di egoismo”? Secondo questa
concezione la vita è fatta solo per acquistarsi la vita, e si vive solo per rendere
viva in noi l’essenza dell’uomo, si vive per
amore di questa essenza. Si ha la propria
vita solo per acquistarsi, per mezzo di
essa, la vita “vera”, depurata da ogni forma di egoismo. Per questo si ha paura di
fare della propria vita l’uso che più ci piacerebbe: di essa si deve fare il “giusto uso” e nessun altro.
Insomma, si ha una missione nella vita, un
compito per la vita, si ha da realizzare e
attuare qualcosa con la propria vita, un
qualcosa per il quale la nostra vita è solo
un mezzo e uno strumento, un qualcosa
che vale più di questa vita, un qualcosa a
cui si deve tutta la vita. Si ha un Dio che
pretende vittime vive. Soltanto la brutalità
del sacrificio umano è andata perduta col
tempo; il sacrificio umano stesso è rimasto inalterato (...) noi “poveri peccatori” ci
portiamo al macello in sacrificio per
l’“essenza dell’uomo”, per l’“idea dell’umanità”, per l’“umanitarismo” e come
altrimenti si chiamano idoli e dèi.
Il linguaggio e l’egoismo
come fondamenti dell’
agire normativo
“Linguaggio” ed “egoismo” sono i
concetti chiave utilizzati da Stirner nella sua analisi del fondamento dell’agire
sociale umano regolato da norme.
L’Unico e la sua proprietà svolge incessantemente l’idea che dietro qualunque
comportamento sociale, ivi compresi
quelli apparentemente “altruistici” e/o
“ascetici”, vi siano interessi assolutamente egoistici.
La posizione stirneriana coniuga e
porta alle estreme conseguenze le tradizioni filosofiche dell’intellettualismo
etico e dell’utilitarismo: ogni essere
umano regola la sua azione in conformità a ciò che, in un momento dato,
gli appare essere il comportamento
migliore in vista della soddisfazione
dei suoi interessi egoistici. Quando
Stirner parla d’interessi egoistici, non
vuole intendere che il singolo potrebbe operare una scelta tra interessi
“privati” ed interessi “pubblici”; la sua
tesi anzi è proprio che gli “interessi
pubblici”, il “bene comune”, ecc. siano oggettivamente inesistenti, pure funzioni
linguistico/ideologiche con le quali si portano avanti i propri interessi privati
depotenziando le altrui volontà.
Ma se l’egoismo è il fondamento
ultimo d’ogni azione umana, come
spiegare il fatto che la grande maggioranza degli uomini acconsente a formazioni politiche, modi di produzione,
idee religiose e morali sfacciatamente
contrari ai loro interessi? La risposta di
Stirner è che l’attuale sistema di dominio deve necessariamente fondarsi sul
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, traduzione di
linguaggio. Infatti, gli esseri umani, per
portare avanti i loro interessi, devono AMOROSO, Leonardo, Milano,
cooperare con i loro simili; e lo stru- Adelphi, 1979, pp. 335/336.
mento indispensabile per tale cooperaSTIRNER, Max, L’Unico e la
zione è per l’appunto il linguaggio. I
sua proprietà, op. cit., pp.
meccanismi del dominio dell’uomo 336/337.
1
2
52
VOCCIA, Enrico
sull’uomo passeranno perciò anch’essi
per lo strumento principe della comunicazione intersoggettiva: la “parola”.
Se si tratta d’intendersi e comunicare con
gli altri, posso ovviamente far uso solo dei
mezzi umani, di cui dispongo perché sono
anche uomo, oltre ad essere me stesso. (...)
Il linguaggio o “la parola” ci tiranneggiano
nel modo più brutale perché ci sollevano
contro un intero esercito di idee fisse.
Il meccanismo ideologico delle idee fisse
1
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp.
360/361.
2
L’influenza di tale concezione stirneriana sul concetto
marxiano di “ideologia” è evidente. L’Unico e la sua proprietà era
stato letto con estrema attenzione
da Karl Marx: L’ideologia tedesca di
Marx ed Engels è dedicato in
larga parte alla discussione critica
delle tesi di Max Stirner.
3
/53.
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp. 52-
Max, L’Unico e la
4 STIRNER,
sua proprietà, op. cit., p. 11.
Prima di andare avanti occorre sgombrare preliminarmente il campo da un
possibile equivoco. La riflessione stirneriana non è rivolta a rendere evidente il fatto banale che alcuni uomini
possono ingannare coscientemente
altri uomini attraverso l’utilizzo di una
particolare dialettica; il meccanismo
linguistico/ideologico che viene analizzato è invece del tutto inconscio, al
punto tale che i personaggi che ricevono evidenti vantaggi dal suo funzionamento e coloro che altrettanto evidentemente ne vengono svantaggiati possono essere accomunati dalla “fede” in
esso. Torquemada e la sua vittima possono entrambi credere in perfetta buona fede nella validità del cristianesimo;
anzi il potere del torturatore si basa
proprio sul fatto che esiste tale condivisione. In quest’ottica il potere ottenuto, di fatto, da una piccola parte della società contro la stragrande maggioranza degli uomini è un risultato del
processo, non un suo scopo coscientemente perseguito. Questo meccanismo, vero e proprio fondamento della
“società gerarchica”, ha molto a che
fare per Stirner con la logica della follia
– tant’è vero che il termine che egli
utilizza per definirlo è fissazione.
Che cos’è che chiamiamo “idea fissa”?
Un’idea che ha soggiogato l’uomo. Se voi
riconoscete che una tale idea fissa è sintomo di pazzia, rinchiudete chi ne è schiavo
in un manicomio. E forse che la verità di
fede di cui non si può dubitare, la maestà,
per esempio, del popolo alla quale non si
può attentare (chi lo fa è reo di lesa maestà), la virtù contro la quale il censore non
può permettere una sola parola, affinché
la moralità si mantenga pura, ecc., non
sono tutte “idee fisse”? (...) Un povero
matto del manicomio è convinto, nel suo
delirio, di essere Dio Padre o l’Imperatore
del Giappone o lo Spirito Santo, ecc.; un
bravo borghese è convinto di essere chiamato ad essere un buon cristiano, un protestante credente, un cittadino fedele, un
uomo virtuoso, ecc. – bene nell’un caso
come nell’altro si tratta esattamente della
stessa cosa: di un “idea fissa”. Chi non ha
mai tentato e osato non essere un buon
cristiano, un protestante credente, un uomo virtuoso, ecc. è schiavo e succubo della
fede, della virtuosità, ecc. Gli scolastici
filosofavano solo all’interno dei dogmi della
Chiesa; papa Benedetto XIV scrisse opere
ponderose restando sempre all’interno delle
superstizioni papistiche, senza mai metterle in dubbio; allo stesso modo ci sono
scrittori che riempiono grossi in-folio sullo
Stato, senza mai mettere in questione la
stessa idea fissa dello Stato e i nostri giornali rigurgitano di politica, perché sono
fissati sull’idea che l’uomo sia fatto per
diventare uno zóon politikón; e così i sudditi
vegetano nella sudditanza, i virtuosi nella
virtù, i liberali nell’“umanità”, ecc., senza
provar mai sulle loro idee fisse il coltello
tagliente della critica. E così quei pensieri
sono ostinati e irremovibili come le manie
di un pazzo: chi li mette in dubbio, compie atto sacrilego. Ecco cos’è veramente
sacro: l’idea fissa.
Il meccanismo che Stirner descrive è
fondato sostanzialmente su di un meccanismo di depotenziamento della volontà politica delle classi subalterne. Il testo
stirneriano inizia difatti proprio con la
constatazione che le classi superiori –
“coloro per la cui causa noi dobbiamo
lavorare, sacrificarci ed entusiasmarci” – possiedono la capacità politica
di far passare i propri interessi privati
per interessi pubblici. Le religioni di
tutti i tempi, ivi compresa l’attuale
“religione dell’Uomo”, sono interpretate da Stirner come puri meccanismi
ideologici. Le classi superiori non affermano affatto di voler portare avanti
i propri interessi privati e di subordinare a questi ogni interesse altrui, e in
Questioni di Fondazione della Società… Max Stirner
primo luogo gli interessi dei senza potere: esse affermano al contrario di
voler portare avanti obiettivi per quest’ultimi psicologicamente e/o socialmente desiderabili, almeno all’apparenza. Questi obiettivi sono ampiamente sbandierati ed utilizzati come
collante sociale, meccanismo ideologico unificante dei desideri di tutti gli
strati della società: il servo e il padrone
hanno tutti uguale interesse a salvarsi
l’anima, a captare la benevolenza della
divinità sulla società nel suo complesso, a mostrarsi potenti verso i nemici
esterni, a combattere la disoccupazione... Le classi dominanti si fanno allora
benignamente carico del compito di
portare a compimento tali obiettivi,
“sacrificandosi” per essi. Per un puro
caso, però, le strategie volte a conseguire tali obiettivi “collettivi” coincidono stranamente con gli interessi privati dei potenti.
Com’è possibile che le classi subalterne caschino da millenni in un simile
inganno, apparentemente facile da
smascherare? Questo accade perché gli
interessi privati di queste classi sono
accusati d’egoismo, in altre parole di voler sabotare in maniera bieca il “bene
53
pubblico”. Le classi subalterne vengono educate ad aver vergogna di sé, dei
propri desideri, della loro stessa vita;
qualunque loro azione non subordinata agli interessi dei ceti dominanti è
bollata come “asociale”, “dominata da
volgari interessi privati” e additata al
pubblico ludibrio. La richiesta di un
piccolo aumento salariale da parte dei
lavoratori è negata come contraria agli
interessi della società, dello sviluppo
dell’economia, della creazione di nuova occupazione, ecc., mentre l’arricchimento dei grandi proprietari e dei burocrati statali viene fatta apparire come
uno strumento per conseguire il “bene
pubblico”.
Accade così che le stesse classi subalterne educate partecipino alla repressione di quelle sue componenti che
vogliono, coscientemente o perché
giunte alla disperazione, dar libero sfogo al loro egoismo; esse per prime credono infatti che il perseguimento degli
“interessi pubblici” comporti la loro
subalternità. “Le cose vanno male perché finora abbiamo vissuto sopra le
nostre possibilità”: un tale modo di
pensare – implicitamente autodenigratorio – ha necessariamente come co-
1
LORENZETTI, Ambrogio, Effetti del Cattivo Governo (La Tirannide)
L’interesse di Max Stirner
verso il problema dell’educazione è evidente in molti altri
suoi scritti: vedi, p. e., STIRNER,
Max, Über Schlegesetze (Sulle leggi
scolastiche) e, soprattutto, Das unwahre Princip unserer Erziehung oder:
Humanismus und Realismus (L’ingannevole principio della nostra educazione, ovvero l’umanesimo ed il realismo).
54
VOCCIA, Enrico
rollario che gli interessi della nazione
possono essere realizzati solo attraverso l’arricchimento di chi è già ricco ed
il contemporaneo nuovo impoverimento di chi povero già è. I poveri, i
senza potere, sono così intrappolati
nel meccanismo inutile ed anzi controproducente della denuncia morale: invece
di perseguire coerentemente e senza
remore i propri interessi privati, si limitano di solito ad accusare i potenti
di “cattiveria”, di “immoralità”, insomma d’egoismo. Ma condannando
la prassi dell’egoismo essi introiettano
sempre di più quel meccanismo che li
ha depotenziati politicamente, portandoli a rinnegare i propri interessi, a
farli vergognare di se stessi e a credere
che – se non l’azione del singolo potente – gli interessi privati delle classi
dominanti coincidano proprio con
l’“interesse generale della società”.
Secondo la borghesia ognuno è possessore o “proprietario”. Come mai, allora, i
più non hanno praticamente niente? Dipende dal fatto che i più sono contenti già
solo del fatto di essere possessori, anche
se quel che posseggono non sono che i
loro stracci (...)
1
2
3
4
5
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp. 275.
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., p. 126.
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp. 52/53.
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., p. 224.
“Privato” ovviamente non
nel senso d’individuo, ma in
quello di “persona giuridica”; nel
senso cioè per cui si parla, p. e.,
di interessi privati della FIAT
(che pure non era composta dal
solo Giovanni Agnelli).
6
Poiché nella società si manifestano i peggiori disagi, soprattutto gli oppressi, cioè
gli appartenenti alle classi sociali inferiori,
pensano di trovare la colpa nella società
stessa e si pongono il compito di scoprire
la società giusta. É solo il vecchio fenomeno
per cui si cerca la colpa in tutti gli altri
prima che in se stessi; la si cerca quindi nello Stato, nell’egoismo dei ricchi, ecc. i
quali invece debbono la loro esistenza
proprio alla nostra colpa.
(...) voi ripetete sempre meccanicamente a
voi stessi la domanda che avete sentito
porre: “A che cosa sono chiamato? Che
cosa devo fare?”. Basta che vi poniate queste domande e vi fare dire e ordinare ciò che
dovete fare, vi farete prescrivere la vostra
vocazione (...).
Questo, secondo Stirner, è il meccanismo ideologico con il quale le classi
subalterne vengono depotenziate poliSTIRNER, Max, L’Unico e la ticamente e instradate in un vicolo ciesua proprietà, op. cit., p. 208.
co. Credendo di perseguire il loro inte-
resse, esse in realtà inseguono solo dei
fantasmi senza esistenza oggettiva – la
volontà di Dio, l’essenza dell’Uomo, il
bene pubblico, la giustizia, l’altruismo,
ecc. – e così facendo consentono paradossalmente all’interesse delle classi
dominanti: “Il bene comune può esultare mentre io devo ‘chinare la testa’,
lo Stato può prosperare nel modo più
splendido mentre io faccio la fame”.
Il consenso come fondamento dello Stato
Il potere politico, lo Stato, è quindi
nell’analisi di Stirner l’esatto contrario di
una funzione pubblica. Vale la pena di
specificare che la gestione privatistica
delle funzioni di governo appare essere un momento strutturale del potere
politico e non un dato storico contingente – una sorta d’usurpazione in
vista dei loro scopi privati che alcuni
uomini fanno di quelle che dovrebbero essere delle istituzioni dedite alla
cura degli interessi collettivi. Quest’ultimo ragionamento Stirner lo bolla
come un cedimento alla retorica del
“dover essere”: gli uomini di Stato dovrebbero accantonare i loro interessi
particolari, e dovrebbero dedicarsi agli
interessi pubblici. Sta di fatto che ogni
singolo ha interessi diversi da quelli di
ciascun altro, che gli “interessi generali
della società” e cose simili si sono dimostrati essere nient’altro che meccanismi ideologici per portare avanti al
meglio determinati interessi privati.
Dal momento quindi che esistono solo ed esclusivamente interessi privati,
lo Stato nell’analisi stirneriana non è
altro che il privato più forte – così forte proprio perché riesce a convincere il
resto della società che il perseguimento dei suoi scopi privati coincide proprio con il “bene pubblico”.
Tutti i tipi di governo partono dal principio
che tutto il diritto e tutto il potere appartengono al popolo preso nella sua collettività. Nessuno di essi, infatti, tralascia di richiamarsi alla
collettività e il despota agisce e comanda “in
nome del popolo” esattamente come il pre-
Questioni di Fondazione della Società… Max Stirner
ENSOR, James, L’Ingresso di Cristo a Bruxelles
sidente o qualsiasi aristocrazia.
Il fondamento della potenza dello Stato è dunque il paradossale consenso alla
sua politica – in primo luogo alla
“necessità” della sua esistenza – che
questi riesce ad estorcere all’intera società, soprattutto alle classi inferiori
che ne subiscono gli effetti negativi.
L’operaio starebbe davvero molto meglio
se il padrone, con le sue leggi, le sue istituzioni, ecc. – tutte cose poi che è l’operaio
a pagare – non esistesse affatto. Ma con
tutto ciò il povero diavolo ama lo stesso il
suo padrone.
Come nella cinquecentesca analisi di
La Boétie, anche per Stirner quindi
il vero fondamento della tirannia – che
per lui coincide tout court con lo Stato –
non sono i – pur importanti – apparati
militari e burocratici, bensì il paradossale consenso che questi riesce ad estorcere ai dominati. Senza l’educazione dei sudditi a quella paradossale forma di consenso che egli chiama fissazione, “credenza nei fantasmi”, “idee
fisse”, il potere politico resterebbe in
piedi ben poco.
L’egoismo come fondamento dell’uguaglianza reale e
del rifiuto del consenso
Se le classi dominanti fanno leva sull’-
egoismo altrui – cercano, infatti, di
convincere le classi dominate che i
loro interessi coincidono con quelli del
potere – è segno evidente per Stirner
che questa è l’unica molla dell’agire
umano. L’unica possibile strategia di
rifiuto del consenso dovrà perciò passare a sua volta proprio per
l’“egoismo”, per i “biechi interessi materiali del singolo”. In effetti, la tesi di
Stirner è che l’egoismo è distruttivo se
e solo se una parte della società è depotenziata in questo suo egoismo, a
tutto vantaggio della parte restante.
L’egoismo generalizzato, invece, eguaglierebbe, di fatto, le condizioni umane, impedendo la formazione della
gerarchia sociale. “Ciò che Stirner vuol
dire è evidente: la scelta che si pone
non è tra arbitrio personale da un lato
e ordine legale/morale dall’altro. La
scelta effettiva è fra un arbitrio personale nudo e quindi non pericoloso, ed
un arbitrio personale che, grazie alle
armi della morale e della legge, può
assumere una legittimazione, una potenza e una impunità, e può quindi
esaltare a dismisura la sua componente
distruttiva, che sarebbe rimasta, altrimenti, di dimensioni innocue.”
L’universalizzazione dell’egoismo
porterebbe quindi, di fatto, ad una società egualitaria, anche se Stirner non
ama questo termine. Il riconoscimento
dell’unicità dei singoli, delle loro aspirazioni, interessi e desideri, impedirebbe,
55
1
2
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., p. 324.
Cfr. LA BOÉTIE, Étienne,
Discorso sulla Servitù Volontaria, traduzione di PAPA, Vincenzo, allegato al presente fascicolo
di PORTA DI MASSA – Laboratorio Autogestito di Filosofia, Epistemologia e Scienze Politico-Sociali.
AA. VV., La tirannia delle
3
parole: una lettura di Max Stirner, Napoli, Comidad, 1989, p.
19. Stirner sta qui utilizzando
uno strumento classico della riflessione etico/morale: quello di
domandarsi gli effetti della generalizzazione di un comportamento del singolo (“cosa accadrebbe
se tutti facessero così”). Solitamente, questo strumento serve a
mostrare come ciò che – dal
punto di vista del singolo – appare un comportamento apparentemente valido o quantomeno neutro dal punto di vista morale (p.
e. “io posso nascondere la verità
delle cose agli altri, se io so cosa
è giusto per loro sapere o meno”), è in realtà un comportamento del tutto negativo se visto
dal punto di vista della sua generalizzazione (“anche gli altri decideranno per me ciò che io devo
o non devo sapere”). In questo
caso, però, Stirner utilizza questo
strumento classico dell’argomentazione filosofica per mostrare
come un comportamento che,
oggettivamente negativo se isolato al singolo, è portatore di notevoli potenzialità positive se universalizzato.
56
VOCCIA, Enrico
CHAGALL, Marc, Rivoluzione (studio preparatorio)
infatti, la formazione delle gerarchie
sociali. Se non hanno fantasmi da adorare e/o da temere, idoli cui sacrificarsi, gli individui venderanno a caro
prezzo la loro merce, e nessuno sarà
perciò più in grado di sfruttare il lavoro altrui. Il “proletario” Stirner suggerisce perciò alla classe sociale di cui
sociologicamente fa parte di valorizzare al massimo le proprie capacità lavorative, di non svenderle a nessun costo
nei confronti delle classi dominanti,
impedendo così il perpetuarsi del meccanismo gerarchico.
1
In più luoghi della sua opera
Stirner si definisce tale (o
anche “povero”): in effetti, egli
proveniva da una famiglia di modeste condizioni economiche e
viveva dello stipendio di maestro
elementare. L’Unico e la sua proprietà ha, in ogni caso, come interlocutore privilegiato le classi
lavoratrici, il che ha portato a
parlare – a nostro avviso con
buone ragioni – di un
“operaismo” stirneriano.
noi non vogliamo regali da voi, ma non
vogliamo nemmeno regalarvi niente. Per
secoli vi abbiamo fatto l’elemosina per
generosa stupidità, abbiamo dato l’obolo
di noi poveri a voi ricchi, vi abbiamo dato
ciò che non vi appartiene, è giunto il momento che apriate la vostra borsa, perché
d’ora in poi la nostra merce comincerà a
salire vertiginosamente di prezzo.
Una tale azione presuppone il rifiuto del
consenso non alla singola politica statale
e/o padronale ma all’idea di potere
politico in quanto tale, in altre parole
la fuga dai meccanismi ideologici su
STIRNER, Max, L’Unico e la cui si fondano i legami “religiosi” della
sua proprietà, op. cit., p. 284.
società gerarchica. Va tenuto presente
Cfr. su questo tema STIR- che per Stirner la borghesia non è la
NER, Max, L’Unico e la sua classe detentrice del potere statale, bensì
una classe vassalla nei confronti del
proprietà, op. cit., pp. 193/194.
2
3
potere dello Stato. Lo Stato è per Stirner l’unico vero proprietario che concede in feudo ad alcuni dei suoi servi
più fidati alcune parti della sua proprietà, sapendo di poterle avere indietro in ogni momento attraverso il diritto d’esproprio (ed è per questo che
egli vede nei progetti di Weitling e
Marx di statalizzazione dei mezzi di
produzione una semplice variante del
capitalismo). La classe “proprietaria”,
in cambio del suo feudo, svolge funzioni di controllo sulla classe lavoratrice e attira su di sé gli odi di questa, che
spesso vedono nello Stato un possibile
difensore contro le angherie dei suoi
feudatari. La concessione in feudo della proprietà dei mezzi di produzione
permette così allo Stato di diffondere
nella società una sorta di versione moderna della favola del Re Buono e Dei
Ministri Cattivi.
Rifiutare il consenso alla società
gerarchica significa dunque, per Stirner, rompere il meccanismo ideologico d’autodenigrazione che porta il singolo a rinnegarsi, a credersi un essere
abietto, le cui inclinazioni e i cui desideri devono necessariamente passare
in secondo piano davanti a Dio, alla
Patria, alla Nazione, al Bene Pubblico,
all’Interesse Generale, alla Società, alla
Comunità, alla Chiesa, all’ Uomo, alla
Verità, alla Santità e via all’infinito.
Questioni di Fondazione della Società… Max Stirner
Per questo Stirner afferma che noi
viviamo ancora pienamente immersi in
una cultura mitico/religiosa: dal suo
punto di vista è assolutamente indifferente inginocchiarsi davanti alla volontà di Dio o all’essenza dell’Uomo, alla
Fede o alla “Libertà”. Avremo sempre
a che fare con meccanismi ideologici
che depotenzieranno alcuni individui a
tutto favore di altri, creando servi e
padroni – la società gerarchica. Negare
il consenso a tali meccanismi ideologici appare a Stirner come l’unica strada
dotata di senso per la costruzione di
una società in cui la follia non sia la
norma dominante, al punto tale da far
apparire degni di alta considerazione
ed offerti a modelli di comportamento
i comportamenti più assurdi ed autolesionisti.
Come non esaltare la coscienza di Socrate,
che gli fa rifiutare il consiglio di evadere
dal carcere? Ma non capite che Socrate è
pazzo a concedere agli ateniesi il diritto di
condannarlo? (...) Il fatto di non fuggire fu
appunto la sua debolezza, il suo delirio,
per cui credeva di avere ancora qualcosa
in comune con gli ateniesi, ossia l’idea di
essere un membro (e solo un membro) di
quel popolo. (...) Avrebbe dovuto restare
sulle sue posizioni e, dato che non aveva
pronunciato contro se stesso una sentenza
di morte, avrebbe fatto bene a disprezzare
la sentenza degli ateniesi e a fuggire. Ma
egli, invece, si sottomise, riconoscendo
nel popolo il suo giudice, immaginando di
essere piccola cosa di fronte alla maestà
del popolo. Il fatto di sottomettersi, come
a un “diritto”, al potere violento al quale in
realtà soggiaceva, fu tradimento di se stesso: fu virtù.
Stirner vede dunque nella Società senza Stato – in quella che lui chiama
l’“Associazione degli Egoisti” – il
compimento definitivo del processo
storico di demitizzazione avviato al
tempo dell’antica Grecia. Gli esseri
umani hanno imparato col tempo che
gli esseri supremi delle religioni non
erano altro che fantasmi; ora è auspicabile che ogni singolo giunga finalmente a comprendere di non avere un
fine nella vita cui tendere, diverso dai
suoi desideri ed aspirazioni. L’uomo
57
singolo non deve diventare un “vero
Uomo” più di quanto un cane deve
diventare un “vero Cane”. É questo
l’insegnamento più interessante che la
lettura di un testo come L’Unico e la
sua proprietà può dare: il gioco dell’autodenigrazione, del sentirsi impotenti
ed umili di fronte ad entità esterne,
qualunque esse siano, di rinnegare la
propria individualità, il proprio specifico senso della vita a favore di sensi a
noi estranei è un gioco senza senso; che,
infine, dietro l’apparente razionalità del
consenso all’ideologia “umanistica”,
alla società capitalistico/liberale moderna, può nascondersi una lucida –
ma non per questo meno distruttiva –
follia.
Appendice I. Stirner e
la Tradizione Filosofica
Stirner ha subito, nel corso degli anni,
una lettura sostanzialmente legata al
cosiddetto “irrazionalismo” o, per utilizzare una terminologia maggiormente in voga, al “pensiero debole”: in
particolare, il nome cui è stato più frequentemente legato è stato quello di
Nietzsche. Mi sembra invece evidente che una tale lettura sia inconsistente e, in larga misura, dovuta ad un
sostanziale fraintendimento del suo
pensiero.
Alcuni chiarimenti preliminari: il
termine “Filosofia”, come molti altri, è
usato in svariate accezioni, sia “colte”
sia “popolaresche”. Si usa talvolta per
indicare la complessiva “visione del
mondo” di una persona, in altre parole
l’insieme delle sue idee sul mondo,
sulla conoscenza, sulla politica, sulla
vita sociale, sulla religione… Altre volte, invece, si usa per indicare una qual
certa abilità nel sapersi muovere tra le
cose del mondo, nelle difficoltà della
vita quotidiana, nell’adattarsi alle circostanze senza però lasciarsene sopraffare. Altre volte, invece, si usa il termine
per indicare una visione del mondo
argomentata razionalmente e con estremo rigore concettuale. Si usa il termine in questo senso – sostanzialmen-
1
2
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., p. 225.
Vedi, per una ricostruzione
della lettura di Stirner, l’ottimo (in generale) FERRI, Enrico,
La Città degli Unici. Individualismo,
Nichilismo, Anomia, Torino, Giappichelli - Multiversum, 2002.
58
1
Vedi VOCCIA, Enrico, “Cos’è la Filosofia. Tecnica, Linguaggio, Verità, Fondamento”, in
PORTA DI MASSA – Laboratorio
Autogestito di Filosofia, VIII fascicolo (“Filosofia”), Napoli, La Città
del Sole, 2002, pp. 19-23.
2
Vedi p. e. HEGEL, Gorge
Wilhelm Friedrich, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, Bari, Laterza, 1984, pp. 4-5
(§ 1). In generale, poi, la stessa
struttura de L‘Unico e la sua Proprietà ricorda assai da vicino la
Fenomenologia dello Spirito hegeliana, per non ricordare la testimonianza di Engels che lo classifica,
all’interno del gruppo dei giovani
hegeliani, come il più interessato
alle questioni legate alla Filosofia
nel senso “forte” (lettera di Friedrich Engels a Max Hildenbrandt, in FERRI, Enrico, La
Città degli Unici. Individualismo,
Nichilismo, Anomia, op. cit., p.
167-169).
VOCCIA, Enrico
te come sinonimo di “scienza” – soprattutto in area linguistica anglosassone. Il termine è usato talvolta anche
per indicare un atteggiamento di pensiero “aperto“, rivolto continuamente
all’indagine, “critico”.
Altre volte, infine, si usa il termine
“Filosofia” per indicare una particolare scienza, nata in Grecia più di duemilacinquecento anni fa in contrapposizione alle forme del pensiero mitico,
che cerca di trovare e analizzare il fondamento logico di verità di qualsiasi
conoscenza (scientifica, morale, religiosa, politica, ecc.). Si usa allora il termine con questo significato, quando si
fa riferimento – come abbiamo già
accennato – ad un sapere scientifico
che indaga soprattutto – anche se non
esclusivamente – le verità “assolute”,
in quanto esse, essendo valide sempre
e comunque, indipendentemente dal
particolare linguaggio usato o dal contesto cui si applicano, possono essere
usate come fondamento logico, criterio ultimo di giudizio di validità, per
tutte le altre verità.
Ovviamente qui non si tratta di stabilire un uso “giusto” o “sbagliato” del
termine; gli usi sono usi, e basta. Una
comunità di parlanti può utilizzare quel
suono o segno grafico attribuendogli il
significato che gli pare, purché sia cosciente di ciò e non cada negli equivoci.
Quello che, però, può essere evidenziato in maniera oggettiva, è che l’ultimo
significato del termine – Scienza del Fondamento – è qualcosa di assolutamente
peculiare nella cultura umana: mentre
tutti gli altri significati lo portano verso
la confluenza con altri aspetti culturali
(“visione del mondo”, “scienza”, “saggezza”, “atteggiamento critico”), l’aspetto di riflessione fondazionale è invece unico ed inconfondibile.
Stirner, mi pare evidente, rientra a
pieno in questa concezione “forte”,
fondazionalistica, della Filosofia: il suo
argomentare si basa proprio sul non
dare per scontato nulla, nel richiedere ad
ogni concetto di andare ben oltre l’accettazione del senso comune, e da
questo punto di vista i suoi debiti con
Hegel sono enormi. Lungi dal rico-
noscersi in un generico e banale appello ad un nichilismo gnoseologico e/o
ontologico, la sua causa è fondata “sul
Nulla” dell’inconsistenza delle argomentazioni ideologiche, delle “idee
fisse” che sostanziano la società gerarchica, che egli sottopone ad un’analisi
stringente e “nullificante”.
Appendice II. Il Linguaggio
come Fondamento della
Società
Di là da tutto ciò, è poi lo stesso contenuto della sua opera maggiore, come
abbiamo visto, ad essere tipicamente
“fondazionalistico”. Stirner, come abbiamo visto, svaluta sia il livello politico, sia il livello economico, sia il livello
culturale, come strutture portanti dell’essere sociale: tutte queste compagini,
infatti, non potrebbero essere quelle
che sono indipendentemente dal linguaggio. Il linguaggio, dunque, non è
per nulla un semplice strumento, più o
meno accidentale, bensì è il vero fondamento dell’agire sociale umano, ciò
che ne caratterizza l’essenza, e per
comprendere i paradossi della società
– il consenso sostanziale dei sudditi
alla loro penosa condizione, in primo
luogo – egli indaga nelle sue caratteristiche e nelle sue potenzialità.
Il linguaggio gli appare dotato di
caratteristiche distruttive – le “idee
fisse” – ma anche foriero di potenzialità positive enormi. In effetti, egli ritiene che la società gerarchica sia una
unione assurda, delirante, non in quanto fondata sul linguaggio tout court,
bensì in quanto fondata su di un uso
folle ed improprio del linguaggio stesso.
La sua idea di un’Associazione degli
Egoisti è legata, a doppio filo, al concetto che un uso diretto e proprio del
linguaggio – della comunicazione intersoggettiva – sia lo strumento per la
creazione di una società radicalmente
egualitaria. Per abbattere le “fissazioni”, per guarire l’umanità dalla follia,
Stirner invita ad un uso ampio e senza
remore della razionalità, del principio
logico di causalità e di quello di non
Questioni di Fondazione della Società… Max Stirner
contraddizione.
L’uso “folle” del linguaggio – e la
conseguente follia sociale che ne consegue – sono per lui proprio il risultato
della rinuncia, implicita od esplicita,
dei principi logici alla base del linguaggio corretto. Il “sacro” è per lui proprio questo, e vale la pena di richiamare, stavolta a questo riguardo, una precedente citazione di un passo della sua
opera maggiore:
Che cos’è che chiamiamo “idea fissa”?
Un’idea che ha soggiogato l’uomo. Se voi
riconoscete che una tale idea fissa è sintomo di pazzia, rinchiudete chi ne è schiavo
in un manicomio. E forse che la verità di
fede di cui non si può dubitare, la maestà,
per esempio, del popolo alla quale non si
può attentare (chi lo fa è reo di lesa maestà), la virtù contro la quale il censore non
può permettere una sola parola, affinché
la moralità si mantenga pura, ecc., non
sono tutte “idee fisse”? (...) Un povero
matto del manicomio è convinto, nel suo
delirio, di essere Dio Padre o l’Imperatore
del Giappone o lo Spirito Santo, ecc.; un
bravo borghese è convinto di essere chiamato ad essere un buon cristiano, un protestante credente, un cittadino fedele, un
uomo virtuoso, ecc. – bene nell’un caso
come nell’altro si tratta esattamente della
stessa cosa: di un “idea fissa”. Chi non ha
mai tentato e osato non essere un buon
cristiano, un protestante credente, un uomo virtuoso, ecc. è schiavo e succubo della
fede, della virtuosità, ecc. Gli scolastici
filosofavano solo all’interno dei dogmi della
Chiesa; papa Benedetto XIV scrisse opere
ponderose restando sempre all’interno delle
59
superstizioni papistiche, senza mai metterle in dubbio; allo stesso modo ci sono
scrittori che riempiono grossi in-folio sullo
Stato, senza mai mettere in questione la
stessa idea fissa dello Stato e i nostri giornali rigurgitano di politica, perché sono
fissati sull’idea che l’uomo sia fatto per
diventare uno zóon politikón; e così i sudditi
vegetano nella sudditanza, i virtuosi nella
virtù, i liberali nell’“umanità”, ecc., senza
provar mai sulle loro idee fisse il coltello
tagliente della critica. E così quei pensieri
sono ostinati e irremovibili come le manie
di un pazzo: chi li mette in dubbio, compie atto sacrilego. Ecco cos’è veramente
sacro: l’idea fissa.
Lo stato di follia causato dall’uso improprio del linguaggio è per lui fondamentale: se i meccanismi ideologici del
dominio possono agire con dilaniante
potenza, creando i sommi deliri e dolori della società gerarchica, è proprio
perché essi agiscono in una collettività
che è stata educata a svalutare gli strumenti di controllo del linguaggio, i
principi logici basilari. La potenza dell’analisi stirneriana è evidente se solo si
pone attenzione al fatto che, oggi, l’Occidente industrializzato, nonostante
gli indubbi progressi in tutti i campi
del sapere oggettivo, ha adottato, come “principio dell’opinione pubblica”,
non solo un generico umanesimo retorico, ma addirittura posizioni irrazionalistiche, emarginando, di fatto, nell’ambito della disciplina filosofica, qualunque riflessione coerentemente razionale. La spiegazione da dare a
1
2
MASACCIO, Tommaso, Il Pagamento del Tributo
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp. 52/53.
Vedi, di là dall’aspetto religioso d’alcune sue tesi, HÖSLE, Vittorio, Hegel e la fondazione
dell’idealismo oggettivo, Milano,
Guerini e associati, 1991. Vedi
anche, in un’ottica più laica, NAGEL, Thomas, L’Ultima Parola.
Contro il Relativismo, Milano, Feltrinelli, 1999.
60
1Per un’analisi del concetto di
“doppio legame” come meccanismo eziologico-causale delle sofferenze mentali vedi BATESON,
Gregory, JACKSON, Don D.,
HALEY, Jay e WEAKLAND,
John H., “Verso una teoria della
schizofrenia”, in BATESON,
Gregory, Verso un’ecologia della
mente, Milano, Adelphi, 1976, pp.
244-274, e WATZLAWICK,
Paul, BEAVIN, Allen e JACKSON, Don D., Pragmatica della
comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971. In generale, si ha un
“doppio legame” quando: 1.
avviene, in un determinato contesto, la comunicazione di un contenuto e, a livello di metacomunicazione, la sua negazione; 2. è
impossibile, di fatto, negare e/o
sfuggire a questa comunicazione
paradossale. Per esempio, un
padre, che condiziona fortemente
la sopravvivenza economica ed
affettiva di una figlia, può tenerla
letteralmente reclusa, impedendole di partecipare a qualunque
attività sociale, giustificando, a
livello di metacomunicazione, il
suo atteggiamento con una frase
del tipo “lo faccio perché tu sia
felice”. Per un’analisi del concetto di “doppio legame” come
meccanismo eziologico-causale
della schizofrenia e di altre sofferenze mentali vedi BATESON,
Gregory, JACKSON, Don D.,
HALEY, Jay e WEAKLAND,
John H., “Verso una teoria della
schizofrenia”, in BATESON,
Gregory, Verso un’ecologia della
mente, Milano, Adelphi, 1976, pp.
244-274, e WATZLAWICK,
Paul, BEAVIN, Allen e JACKSON, Don D., Pragmatica della
comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971. sociale, giustificando,
a livello di metacomunicazione, il
suo atteggiamento con un “lo
VOCCIA, Enrico
questo dato di fatto non può essere
altro che la necessità del controllo ideologico
delle classi subalterne. I meccanismi ideologici del dominio hanno bisogno, in
altri termini, di persone educate ad accettare per vere conclusioni contraddittorie con le premesse, a non notare
la contraddizione tra mezzi e fini, ecc.
Nel passato, questo ruolo “educativo” era svolto esclusivamente dalla religione. La pratica religiosa era comunemente, per la stragrande maggioranza delle persone tenute fuori di qualunque processo di scolarizzazione, la
fonte principale d’acculturazione. Una
fonte, questa, che combatteva strenuamente, persino nelle classi dominanti,
la diffusione di una cultura scientifica
e filosofica seria, portatrice in altri termini di una prassi coerente volta alla
ricerca della verità oggettiva.
La Rivoluzione Industriale, però,
ha imposto una sempre maggiore scolarizzazione delle classi subalterne,
accrescendo le potenzialità di un loro
accesso ad una forma mentis razionale e,
di conseguenza, di un loro sganciamento dal controllo ideologico del
dominio. L’apologia contemporanea
CARRÀ, Carlo, I Funerali dell’Anarchico Galli
delle varie forme d’irrazionalismo, allora, può essere letta come una sorta
di “meccanismo di assicurazione” da
parte delle classi dominanti nei confronti del rischio di essere costrette ad
“esporre” le classi dominate ai meccanismi logici della razionalità. Le masse
sono “istruite”, in altre parole introdotte ad una serie di contenuti e di
strutture argomentative valide dal punto di vista di un sapere oggettivo forte.
Al tempo stesso, però, questi stessi
contenuti e strutture argomentative
vengono, ad un livello metalinguistico
e con un’enorme pressione sociale,
fortemente negati e svalutati in quanto tali.
L’obiettivo cardine di un tale processo è stato l’infiltrarsi nella stessa
cultura del movimento operaio e socialista di tensioni irrazionalistiche, allo
scopo di depotenziarne le potenzialità
sovversive dello stato di cose presente.
La cultura contemporanea è perciò
rinchiusa in un tipico “doppio legame”, resa schizofrenica, immersa in
un contesto dove, alla fine dei conti,
l’unica “verità” che conta – e che resta
sostanzialmente indiscussa, nonostante le sue palesi contraddizioni – è
Questioni di Fondazione della Società… Max Stirner
quella del potere.
Appendice III. L’Uguaglianza
Ho già ricordato che Stirner usa raramente il termine “uguaglianza”, eppure non v’è filosofo che prima di lui
abbia così radicalmente sostenuto la
tesi della perfetta equipollenza di tutti
gli esseri umani – detto per inciso,
questo è uno dei punti che più rendono difficile il suo accostamento a Nietzsche, che sostiene con altrettanta
radicalità la posizione opposta.
Il
paradosso è facile da spiegare: sinora
si è cercato, a giudizio di Stirner, di
comparare l’uomo all’Uomo, alla sua
idea o, meglio, ad un suo ideale. L’uguaglianza, allora, diveniva un compito: occorreva adeguarsi ad un modello,
divenire un “vero uomo” e, anche se si
presupponeva l’uguaglianza radicale di
tutti gli uomini, in realtà si finiva sempre in un nuovo modello cui, di là dalle belle intenzioni dei suoi autori, alcuni uomini corrispondevano, altri meno… Per Stirner, invece, noi siamo già
uguali ora perché siamo sin da ora tutti diversi. Nulla dell’umano – dell’homo sapiens sapiens – ci è alieno, ma ognuno di
noi ha declinato la propria umanità in
modo unico, irripetibile ed imparagonabile. Di conseguenza, nessuno di noi è
“più” o “meno” uomo di altri, proprio
perché un modello della declinazione dell’umano, cui paragonare i singoli individui
effettivamente esistenti, non esiste. Di
conseguenza, la società gerarchica non
ha fondamento se non sul Nulla. L’unica società che possa vantare credito
nei confronti della ragione o, meglio,
di un uso proprio del pensiero, è solo
quella egualitaria. Non a caso perciò,
più che alla cosiddetta corrente
“individualista” – ben più influenzata
dal superominismo nietzscheano e,
dunque, da un dover essere modellizzante dell’Uomo – Engels vede l’eredità stirneriana nella corrente comunista dell’anarchismo, l’unica, in effetti, teoria politica che ha provato a sostanziare concretamente l’idea di un’“Associazione degli Egoisti”: un’Unione senza Valore, radicalmente egualitaria, non basata su di un modello
61
dell’umano da raggiungere, ma solo
sulla reciproca e pianificata cooperazione per il raggiungimento del maggior benessere possibile del singolo,
che è sempre libero di scindersi da
essa e di riorganizzarsi al meglio con
chi gli pare, dove le decisioni valgono
solo per chi le accetta.
Stirner, d’altronde, per quanto la
cosa possa sembrare paradossale, è
ben poco “individualista” e notevolmente “realista” nel delineare il rapporto tra gli “unici” e le loro associazioni egualitarie: lo è certamente – ed
ecco un nuovo apparente paradosso –
ben più del suo antagonista Karl
Marx. È nota, infatti, la riflessione del
pensatore socialista tedesco volta al
rifiuto dell’elaborazione utopistica.
Nel suo rifiuto di “prefigurare il futuro” egli però si costringe, ogni qualvolta è portato a descrivere in qualche
modo l’obiettivo del movimento socialista, ad una notevole genericità o,
talvolta, ad una sorta di pseudoutopismo del tutto irrazionale, privo
in pratica di quell’aspetto di progettazione sociale razionale che caratterizVedi, solo per fare un esemza il pensiero utopico. Quest’aspetto
pio, NIETZSCHE, Frieè stato fatto notare soprattutto da drich, Al di là del Bene e del Male.
Preludio di una Filosofia dell’AvveniDomenico Losurdo:
1
“Nella società comunista, in cui nessuno
ha una sfera di attività esclusiva ma ciascuno può perfezionarsi in qualsiasi ramo
a piacere, la società regola la produzione
generale e appunto in tal modo rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame,
dopo pranzo criticare, così come mi viene
voglia; senza diventare né cacciatore, né
pescatore, né pastore, né critico” [MEW,
vol. III, p. 33]. Se accogliamo tale definizione, allora il comunismo presuppone
uno sviluppo così prodigioso delle forze
produttive da cancellare i problemi e i
conflitti relativi alla distribuzione della
ricchezza sociale e quindi relativi al lavoro, e alla misurazione e al controllo del
lavoro, necessario alla sua produzione;
anzi, così configurato, il comunismo sembra presupporre la scomparsa, oltre che
dello Stato, della divisione del lavoro, e in
realtà dello stesso lavoro, il dileguare, in
ultima analisi, di ogni forma di potere e di
re, Milano, Rizzoli, 1992 (ma, per
i nostri scopi, è sufficiente anche
solo la lettura della parte IX –
“Che cos’è Aristocratico?”, pp.
233-268).
2
Vedi sempre la lettera di
Friedrich Engels a Max Hildenbrandt, in FERRI, Enrico, La
Città degli Unici. Individualismo,
Nichilismo, Anomia, op. cit., p.
167-169.
Vedi, p. e., il classico KRO3
POTKIN, Piotr, La Conquista del Pane, Catania, Anarchismo,
2002, ma anche il meno conosciuto ed inaspettato PISACANE, Carlo, La Rivoluzione, Torino, Einaudi, 1970 (particolarmente i capitoli: IX. Diritto di
proprietà; X. Governo; XI. Dichiarazione di principî; XVIII.
Risorgimento d’Italia).
LOSURDO, Domenico,
4
Utopia e stato di eccezione, Napoli, Laboratorio Politico, 1996, p. 76.
62
obbligazione.
La tesi generale di Losurdo è che Marx
sarebbe condizionato da posizioni
“anarchiche”: egli dimentica però che
queste posizioni marxiane nascono
proprio come critica all’anarchismo. Le
pagine citate, che s’inseriscono nella
tematica della “abolizione del lavoro”,
sono nate, infatti, proprio all’interno
della polemica antistirneriana. Stirner,
infatti, riteneva impossibile tale abolizione, e poneva invece ad obiettivo
della “unione degli egoisti”, dell’azione
dei proletari, la “liberazione del lavoro” dal capitalismo e dallo Stato: “Lo
Stato si fonda sulla schiavitù del lavoro; se il lavoro diventerà libero, lo Stato sarà perduto”. Anche la prefigurazione della scomparsa d’ogni forma
di potere e d’obbligazione fa parte della polemica antianarchica di Marx:
1
2
Stirner, infatti, affermava che
È ben vero che una società a cui aderisco
mi toglie alcune libertà, ma in compenso
me ne concede altre; non c’è niente da
dire nemmeno sul fatto che io stesso mi
privo di questa o di quella libertà (...). Per
quel che riguarda la libertà, non vi è differenza essenziale tra lo Stato e l’unione.
Neppure la seconda può nascere o conservarsi senza che la libertà venga limitata
(...). La religione e in particolare il cristianesimo, hanno tormentato l’uomo con la
pretesa di realizzare ciò che è contro la
natura e contro il buon senso; l’autentica
conseguenza di questa esaltazione religiosa, di questa tensione esagerata è nel fatto
che la libertà stessa, la libertà assoluta,
venne alla fine innalzata ad ideale (...).
Stirner, insomma, analizzato con attenzione, fa piazza pulita di mille preconcetti – nati sia tra i suoi avversari,
sia tra coloro che pretendono di ripe-
STIRNER, Max, L’Unico e la
sua proprietà, op. cit., pp. 124.
STIRNER, Max, L’Unico e la sua
proprietà, op. cit., pp. 321/322.
GOYA, Francisco, Il Sonno della Ragione Genera i Mostri
63
Lucia Aiello
“Consenso” ed “Obbedienza” attraver
so la Leggenda del Grande Inquisitore
di Dostoevskij
N
ella concezione comune, il consenso, perché sia tale, presuppone
una convergenza di giudizio, conformità
di voleri intorno alla validità di una proposizione. Ciò significa che esso è il risultato di una scelta tra più opzioni, una
scelta che impegna la volontà e la ragione e implica un giudizio di valore.
L’Obbedienza, così come è definita
nell’Enciclopedia Cattolica, è infatti “virtù
morale annessa alla giustizia, che regola i rapporti dei sudditi con l’autorità e
rende la volontà pronta ad eseguire il
comando del superiore”. Anzi, “se poi
si attende all’oggetto che l’obbedienza
disprezza per unirsi a Dio”, la volontà,
e cioè il più importante tra i beni spirituali, “l’obbedienza fra le virtù è la più
lodevole”.
Messa in questi termini, l’obbedienza non solo non implica un giudizio di
valore, ma esclude qualsiasi impegno
della volontà e della ragione, sottomesse in maniera incondizionata alla
volontà di un’autorità superiore, e
quindi apparirebbe in qualche modo
antitetica al consenso. Ma la morale
cattolica va oltre. Tre gradi di obbedienza vengono indicati:
1. obbedienza materiale: esecuzione
dell’opera comandata; non è virtù
specifica, ma solo osservanza della
legge;
2. obbedienza formale: esecuzione
dell’opera in quanto comandata;
obbedire cioè per il motivo del diritto del superiore sul suddito, confermando per questo la propria volontà a quella del superiore;
3. obbedienza di giudizio o cieca che
sottopone pure il proprio modo di
vedere a quello del superiore, rite-
nendo quanto è disposto dall’obbedienza come migliore di quanto
suggerisce la propria ragione. Qui
sta l’obbedienza perfetta, la quale
non discute l’intenzione, né pesa le
ragioni. Lodevole quanto ai precetti
umani, è assolutamente necessaria
nei riguardi di Dio e del magistero
infallibile della Chiesa, non potendo qui bastare un silenzio ossequioso, ma esigendosi piena sottomissione di giudizio.
Non è sufficiente dunque attenersi alle
leggi o sottomettersi ad una autorità.
Perché ci sia obbedienza è necessario
negare la propria volontà, o meglio,
negare la propria liberta con un atto di
volontà, un atto di negazione originario, premessa indispensabile di tutte le
successive non-scelte.
É il popolo che si assoggetta, che si taglia
la gola e, potendo scegliere fra l’essere
servo o l’essere libero, lascia la libertà e
prende il giogo, che acconsente al suo
male, o piuttosto lo persegue.
(...) se vivessimo secondo i diritti che la
natura ci ha dato e secondo gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti ai genitori, seguaci alla
ragione e servi di nessuno.
Due passaggi questi, tratti dal Discours
de la Servitude Volontiarie di Étienne de
La Boetie, che richiamano l’attenzione
su almeno due questioni importanti ai
fini di un dibattito che riguardi il consenso. Innanzitutto, il rifiuto della libertà, che per l’amico di Montaigne è
un “dato naturale”, una scelta, un atto
di volontà. In secondo luogo, si fa una
distinzione tra “obbedienza” ed “ser-
1TOMMASO, Summa Theologica,
II/II, q. 80, ultimo, in AA.VV.,
Enciclopedia Cattolica, Città del
Vaticano, Ente per l’ Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, 1948/1954, voll. 22, voce
“Obbedienza”.
2
Ibidem.
L’origine controriformistica
3
e, in particolare, gesuitica di
tale concezione è evidente: “So-
pra ogni altra cosa giova et è
molto necessario al profitto spirituale che tutti si diano alla perfetta obbedienza, riconoscendo il
superiore, qualunque egli sia, in
loco di Christo Nostro Signore, e
portandoli intera riverenza et
amore, et obediscano non solo
intieramente conprontezza, perfettione et humiltà debita nella
essecutione esterna a quanto sarà
loro imposto, senza scuse e mormorationi, ancor che comandi
cose difficili et alla sensualità
repugnanti; ma oltre di ciò si
sforzino haver interiormente una
vera rassegnatione et annegatione
del proprio volere et giuditio,
conformandolo con quello ch’il
superiore vuole e sente, in tutte
le cose ove non si conosce peccato, pigliando la volontà e giuditio del Superiore per regola del
proprio parere e sentire, acciò si
conformino più perfettamente
con la prima e somma regola
d’ogni buona volontà e giuditio,
la qual’è la eterna bontà e sapientia.” (LOYOLA, Ignazio di, Regole della Compagnia di Gesù, Roma,
1582, p. 9).
64
1
DOSTOEVSKIJ, Fëdor, I
fratelli Karamazov (Bratj’a
Karamazovy), traduzione italiana di
POLLEDRO, Alfredo, Milano,
Garzanti, 1974.
2
PAREYSON, Luigi, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed
esperienza religiosa, Torino, Einaudi, 1993.
AIELLO, Lucia
vitù”; si ammette cioè una forma di
obbedienza soggetta alla ragione, ben
distinta dalla servitù volontaria, un’obbedienza che trova la sua ragion d’essere ad esempio nell’ambito del sistema familiare gerarchicamente organizzato, e che è legittimata, si potrebbe
aggiungere proprio come nel caso della servitù volontaria, dalla decisione di
rimettersi ad una autorità superiore, a
prescindere da quali siano le motivazioni e le strategie che portano a questa adesione consensuale. Se, dunque,
la libertà è un “dato naturale”, se “non
si può tenere nessuno in schiavitù,
senza fargli torto, e che non c’è niente
al mondo di così contrario alla natura,
che è tutta razionale, dell’ingiustizia”,
perché, si chiede La Boetie, sembra
che nell’uomo sia più radicata la
“ostinata voglia di servire”?
É il quesito a cui il Grande Inquisitore dostoevskiano nel suo drammatico “dialogo” con Cristo dà una risposta decisa nelle sue argomentazioni, ma carica di ambiguità, soprattutto
se considerata nel complesso in cui si
inserisce e con cui interagisce in un
rapporto dialettico non superato in
una sintesi finale.
É necessario considerare l’episodio
nel suo insieme, dall’incontro di Ivan e
Alëša nell’osteria al racconto della Leggenda da parte di Ivan. Oggetto di discussione tra i due fratelli sono le questioni ultime, in primo luogo il problema dell’esistenza di Dio.
Si fronteggiano due punti di vista,
quello terrestre, euclideo, di Ivan e
quello celeste di Alëša. Alla base del
punto di vista euclideo non c’è la negazione di Dio. Ivan afferma che se
Dio non esistesse bisognerebbe crearlo. Alla base c’è il rifiuto del mondo
creato da Dio, un mondo in cui si paga un prezzo troppo alto per una non
meglio identificata armonia futura. É
questa armonia che Ivan rifiuta. Il suo
rifiuto del mondo è giustificato dall’inaccettabilità della sofferenza dei bambini, che innocenti vengono sottoposti
a torture inaudite. Non c’è riscatto per
quelle sofferenze; un mondo basato
sulla “sofferenza inutile”, come la de-
finisce Pareyson nei suoi vari studi
sulla tema della libertà, del bene e del
male in Dostoevskij, è un mondo
assurdo. Mettere in discussione il senso della creazione, metterne in risalto
il fallimento nel momento in cui se ne
afferma l’inaccettabilità, significa per
Ivan, secondo Pareyson, mettere in
discussione Dio, negarlo come senso
del mondo e quindi negarlo in toto.
A sostegno della sua tesi, per dimostrare come anche la Redenzione sia
un fallimento, Ivan racconta la Leggenda. Cristo ha rifiutato le tre tentazioni nel deserto e si è sacrificato sulla
croce per non privare gli uomini della
libertà, per essere scelto liberamente.
La responsabilità di scelta tra bene e
male è consegnata interamente all’uomo: l’uomo cioè fa un’esperienza più
originaria e profonda, di là del bene e
del male, che è quella della libertà. Il
bene e il male sono frutto della libertà;
senza libertà non ci sarebbe male, ma
neanche bene, perché il bene non è
veramente tale se c’è imposizione o
necessità. Questo sacrificio, lungi dal
liberare l’uomo dal dolore, non ha fatto che accrescerne l’infelicità caricandolo dell’enorme peso della libertà.
Il livello del discorso si è spostato
su un piano differente rispetto a quello
di La Boetie. Al centro del ragionamento di Ivan/Grande Inquisitore
non è il rapporto tra un tiranno o un
sistema di potere tirannico e i suoi
“servi volontari”; vi è l’individuo che,
essendo libero non per “dato naturale”, ma grazie al sacrificio di Cristo che
ha voluto l’uomo libero anche di scegliere il male, e quindi ha legittimato la
presenza del male come una delle possibilità di scelta date all’uomo, sperimenta nella sua concretezza i limiti di
questa esperienza originaria che è la
libertà. Essa cioè coinvolge l’uomo
nella sua interezza ed essenza e non
solo in quanto parte di una società organizzata per sistemi di potere gerarchizzati, la cui esistenza è strettamente
legata al consenso. Il problema è non
solo come il potere organizza il consenso, ed è questo l’aspetto su cui si
concentra maggiormente l’attenzione
“Consenso ed “Obbedienza”… Dostoevskij
di La Boetie, ma anche, per rifarsi a
Dostoevskij, quali elementi presenti
nell’uomo rendono efficace questa
azione.
Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu
avresti dato una risposta all’universale ed
eterna ansia umana, dell’uomo singolo
come dell’intera umanità: “Davanti a chi
inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto
libero più assidua e più tormentosa cura
che quella di cercare un essere dinanzi a
cui inchinarsi (...). Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o
quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno
tale che tutti credano in lui e lo adorino, e
precisamente tutti insieme.
Il rimprovero che Ivan/Grande Inquisitore rivolge a Cristo è il non aver
compreso che l’uomo non ha solo bisogno di essere libero, ma anche di
essere felice, e per esserlo ha bisogno
di soddisfare i cosiddetti bisogni primari, il “pane terrestre”, che la libertà,
per quanto preziosa, non garantisce.
La libertà è un dono che l’uomo non
riesce a gestire, perché in lui prevale lo
spirito di obbedienza, il bisogno di
inchinarsi, non tanto a un tiranno o a
un’autorità, che comunque può essere
rovesciata in nome di un’“ideale” più
alto, ma a qualcosa di incontestabile,
coralmente, per consenso comune. Cristo
non ha compreso che questo qualcosa
non può essere scelto, raggiunto autonomamente dopo aver percorso le
tortuose vie del male, ma si deve imporre, manifestare e deve rendere tangibile la possibilità di una felicita terrena e ultraterrena. Solo pochi eletti riescono a sopportare “un terribile fardello come la libertà di scelta”, e il
Grande Inquisitore è stato tra questi.
COURBET, Gustave, Funerale ad Ornans
65
Egli stesso si è svelato l’inganno e il
suo amore per l’umanità lo ha portato
a non dimenticarsi della stragrande
maggioranza dei deboli e a dar loro ciò
che la libertà non permette di raggiungere: la felicità terrena. La Chiesa, per
quindici secoli, afferma l’Inquisitore,
ha lavorato per questo. Ormai gli uomini sono convinti di essere perfettamente liberi. In realtà hanno deposto
la loro libertà ai piedi di chi ha accettato di passare con lui (il diavolo) non
rifiutando le sue tentazioni, ripudiando
la parola di Cristo, ma facendo credere
di fare tutto questo in nome di Cristo
stesso.
(...) Dispone della libertà degli uomini
solo chi ne acquieta la coscienza (...). Ci
sono sulla terra tre forze, tre sole forze
capaci di vincere e conquistare per sempre
la coscienza di questi deboli ribelli, per la
felicità loro; queste tre forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità.
L’uomo, pur nella sua debolezza, non
può sopprimere la coscienza e vuole
avere un concetto sicuro per cui vivere. Non solo il pane terrestre avrà da
questi “nuovi dei”:
(...). Certo li obbligheremo a lavorare, ma
nelle ore libere dal lavoro organizzeremo
la loro vita come un giuoco infantile con
canti e cori e danze innocenti. Oh, noi
consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini perché consentiremo
loro di peccare (…). Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li
porteranno a noi, e noi risolveremo ogni
caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal
grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere.
1
2
3
4
DOSTOEVSKIJ,
op. cit., pag. 271.
Fëdor,
DOSTOEVSKIJ,
op. cit., pag. 272.
Fëdor,
Ibidem.
DOSTOEVSKIJ, Fëdor, op.
cit., pag. 276.
66
AIELLO, Lucia
L’atto del Grande Inquisitore ha in sé
tutta la necessità morale della redenzione cristiana: egli si sacrifica per amore dell’umanità. Ivan/Grande Inquisitore è pieno di amore per l’umanità, si vota alla menzogna e si fa Uomo/Dio per difendere la felicità degli
altri, ben consapevole della sofferenza
che questa scelta costa a lui. Lo stesso
sentimento anima Kirillov, uno dei
Demoni, che compie un atto di negazione: si uccide e non per paura della
finitezza, per paura della morte, ma
per affermare il suo libero arbitrio e
per dimostrare a Dio che la sua migliore arma, il terrore della morte, ha
perduto il suo potere. Kirillov compie
una rivoluzione grandiosa:
1
DOSTOEVSKIJ, Fëdor, I
Demoni, traduzione italiana
di KUFFERLE, Rinaldo, Milano,
Garzanti, 1973, pag. 241.
2
3
4
3DOSTOEVSKIJ,
op. cit., p. 240.
Fëdor,
4DOSTOEVSKIJ,
op. cit., p. 241.
Fëdor,
Lo stesso concetto lo ritroviamo espresso ancora ne I
Demoni, laddove Šigalev teorizza
un modello di società in cui i
nove decimi dell’umanità sono
sottoposti al restante decimo.
Questa minoranza, appropriatasi
della libertà della maggioranza,
non dovrebbe far altro che pensare e agire per il benessere e la
felicità della maggioranza stessa.
Solo così secondo Sigalev è possibile raggiungere una società
perfetta, ma bisogna pagare un
prezzo: “Mi sono imbrogliato tra
i miei propri dati, e la mia conclusione è in diretta contraddizione
con l’idea iniziale da cui parto.
Partendo da un’assoluta libertà,
concludo con un assoluto dispotismo. Aggiungerò però che tranne la mia soluzione della formula
sociale non ce ne può essere nessun’altra”. (DOSTOEVSKIJ, Fëdor, op. cit., pag. 407)
(Kirillov) — Verrà e il suo nome sarà uomo/Dio.
(Stavrogin) — Dio/uomo?
(Kirillov) — No, uomo/Dio, c’è una differenza.
Il suo suicidio è un atto assolutamente
gratuito, la negazione volontaria della
vita, per amore della vita. Egli compie
un salto dalla necessità all’arbitrio incondizionato. Il primo gesto da Uomo/Dio è compiuto non solo per sé,
ma per l’umanità intera, per passare a
una società di Uomini/Dei, una società in cui, quando tutti si renderanno
conto che tutto è bene e che gli uomini sono buoni, allora non ci sarà più
male:
(…) L’uomo è infelice perché non sa di
essere felice; solo per questo. É tutto, tutto! Chi lo saprà, colui diventerà subito
felice, sull’istante;
svuota anche il senso della colpa e dell’espiazione; per una mente euclidea
tutto avviene naturalmente, tutto si
equilibra. Il rifiuto della Redenzione
porta alla concezione che tutto sia bene e a considerare il “bene” e il “male”
come aspetti della ciclicità della vita. Il
senso della vita non sta in un’armonia
futura, in Dio. Cade il senso dell’atto
supremo del Dio/uomo, per cedere il
posto all’uomo/Dio, il cui primo atto
non è una azione, ma una negazione,
una disobbedienza.
Ma i due gesti portano a esiti differenziati. Mentre il Grande Inquisitore
non vuole che l’inganno si sveli ed è
convinto che solo pochi eletti possano
sostenere il peso della responsabilità di
gestire la felicità terrena degli uomini,
Kirillov è invece convinto che tutti
gli uomini saranno Uomini/Dei: il gesto del Grande Inquisitore porta all’Obbedienza, il gesto di Kirillov porta
all’affermazione incondizionata del
libero arbitrio. Dal primo atto di ribellione da Uomo/Dio si apre la possibilità di mondi nuovi, in cui tutti saranno buoni nel momento in cui ne avranno coscienza, e cioè nel momento
in cui annulleranno il Divino che è in
loro e si ergeranno a Uomini/Dei,
comprensivi l’uno verso l’altro perché
coscienti della loro finitezza. Ciò che
accomuna Ivan/Grande Inquisitore a
Kirillov è la compassione, nel senso
etimologico del termine (dal latino cum
e passio: sentire, patire in comune): i
loro atti non sono motivati dalla sete
di potere o da manie di grandezza da
superuomo, ma dalla consapevolezza
della problematicità della condizione
umana.
e poi ancora, gli uomini
(...) sono molto cattivi (...) perché non
sanno d’essere buoni. Quando lo sapranno, non violenteranno la bambina. Hanno
bisogno di saperlo che son buoni, tutti
fino a uno.
Kirillov, come Ivan/Grande Inquisitore, rifiuta la libertà, non riconosce
quindi il sacrificio di Cristo e il valore
della Redenzione. In quest’ottica si
I
n Dostoevskij non troviamo una
sintesi a cui ricondurre in maniera
definitiva gli elementi di tensione. Obbedienza, libertà, libero arbitro, obbedienza come sottomissione, obbedienza-a-Dio, libertà-in-Dio, obbedienza
all’Inquisitore che è rifiuto della libertà
di Dio, libero arbitrio e volontà che
contrastano con la libertà in Dio: sono
i termini entro cui la tensione si svi-
“Consenso ed “Obbedienza”… Dostoevskij
luppa. Le tematiche sono intrecciate
tra di loro in un rapporto dialettico
che Dostoevskij evidenzia in tutta la
sua problematicità e ambiguità, grazie
alla struttura polifonica dei suoi romanzi. Le argomentazioni contrapposte non solo sono affermate con uguale vigore, ma ognuna di esse è inserita
in un gioco di specchi che le moltiplica
e a volte le deforma.
Se è vero che la rivolta contro Dio,
l’affermazione del libero arbitrio, porta
alla costrizione e all’Obbedienza, è
anche vero che la causa originaria di
tutto ciò risiede proprio in quel sacrificio di Cristo per una libertà di cui la
maggior parte degli uomini non possono fruire perché incapaci di gestirla.
Anche i personaggi votati totalmente al bene, quelli che dovrebbero
essere i portavoce dell’etica cristiana,
non sono inquadrabili nell’ambito dell’ortodossia ufficialmente riconosciuta,
escono dai quadri canonici, presentano
i tratti di quella che Pareyson chiama
“l’ambiguità del bene” che è anche
l’ambiguità dell’idea di libertà-in-Dio.
I confini tra Consenso e Obbedienza risultano, di conseguenza, sempre
più sbiaditi, nel momento in cui un
atto di obbedienza si qualifica come
atto di volontaria rinuncia alla libertà
di scegliere, e quindi, ancora una volta
esercitazione delle possibilità date da
quel dono o dato originario. É la questione della libertà, e il concetto che di
essa si è veicolato nel corso dei secoli,
che è problematica e si ripropone in
tutta la sua scottante attualità. É o no
legittimo, per estremizzare, evidenziare il grado di consenso e di esaltazione, che comunque va registrato, delle
folle, perché di folle si tratta, e non
anonime, ma fatte di uomini concreti,
per il più dispotico dei regimi, cioè la
dittatura?
DELLA FRANCESCA, Piero, San Girolamo ed un Devoto
67
68
Aldo Oliveri
Consenso e Validità Scientifica
L
1
Cfr. p. e. GALILEO, Galilei, Il Saggiatore, traduzione
dal latino di SOSIO, Libero, Milano, Feltrinelli, 1992.
2
POPPER, Karl Raimund,
The logic of Scientific Discovery,
(1934), trad. it. di TRINCHERO,
M., La logica della scoperta scientifica,
Torino, Einaudi, 1970.
Per un primo approccio a
3
Feyerabend si può consultare FEYERABEND, Paul K.,
Against method. Outline of an anarchistic theory of knowledge, (1975)
traduzione italiana a cura di SOSIO, Libero, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza, Milano, Feltrinelli,
1979 e FEYERABEND, Paul K.,
Der wissenschaftstheoretische Relismus
und die Autoritt der Wissenschaften,
(1978) traduzione italiana di ARTOSI, A., Il realismo scientifico e
l’autorità della scienza, Milano, Il
Saggiatore, 1983.
KUHN, Thomas S., The Struct4
ure of Scientific Revolution, (1962)
traduzione italiana di CARUGO,
A., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi 1969.
5
MORIN, Edgard, Science avec
conscience, (1982) traduzione
italiana di QUATTROCCHI, P.,
Scienza con coscienza, Milano, Angeli, 1992.
’immagine -- di origine positivistica -- che la maggior parte delle
persone hanno della scienza è quella
di uno sviluppo progressivo ed indefinito verso la piena comprensione della realtà fenomenica che ci circonda. I
dati sperimentali disponibili in un dato momento, o almeno il maggior numero possibile di essi, vengono ordinati in una teoria capace di predire
nuovi fenomeni, di determinare le
loro caratteristiche quantitative con
un apposito esperimento approntabile, effettivamente o anche solo di
principio, allo scopo. Quando le teorie, che nascono sempre da ipotesi
connettive e formalizzate matematicamente (motivo per cui il metodo
scientifico è definito anche ipotetico/
deduttivo) sono più di una, e spesso
tra loro alternative, si cerca di ideare
quell’esperimento, definito cruciale,
che permette di stabilire quale teoria è
quella “vera”.
Il metodo della verifica sperimentale sembrerebbe, dunque, costituire un
arbitro imparziale della validità oggettiva di una teoria rispetto alle altre teorie alternative, della sua effettiva
“corrispondenza” con la realtà.
Certo nuovi dati possono, ogni tanto, mettere in discussione questa corrispondenza e ricordarci che le teorie
scientifiche sono un prodotto dell’attività spirituale dell’uomo, di quel
“soggetto”, cioè, che la scienza, basata
sul postulato di oggettività, tende ad
estromettere o a ridurre ad occasionale
produttore di teorie intrinsecamente
valide. In questi casi allora si tende a
dire che la scienza è progressiva, tende
cioè ad un accumulo della conoscenza
attraverso un movimento lineare, forse
infinito, l’unico in grado di cogliere la
complessità del reale e ricondurlo a
quell’unità strutturale fondamentale da
cui ha origine. Molti scienziati sono
così fiduciosi del loro metodo, del fatto che la realtà ultima sia esprimibile in
termini matematici, e quindi ideali,
come aveva sostenuto per primo Galileo, da ritenere l’effettiva realtà fenomenica nient’altro che un’approssimazione, distorta soggettivamente dai
nostri sensi limitati, di quella “vera”,
oggettiva, da loro descritta.
L’epistemologia critica moderna, in
ogni caso, ci ha fatto capire come tale
sviluppo non sia affatto lineare e come
in realtà risente degli interessi e dei
valori sociali e culturali entro cui l’attività scientifica opera. Popper, ad esempio, sottolineando il carattere induttivo, e quindi intrinsecamente probabilistico, delle sue leggi ha evidenziato come la conoscenza scientifica
non progredisca per accumulo di verità, e dunque come le basi della scienza
siano meno solide di quanto sembri:
essa non poggia sulla roccia ma è
“costruita su palafitte”. Feyerabend
ha poi parlato di scienza anarchica per
sottolineare come non esistano regole
precise nella costruzione delle teorie
scientifiche. Ogni teoria costituisce
una visione del mondo costruita sulla
base di una parte delle esperienze disponibili e può venir criticata solo da
un’altra teoria che si poggia anch’essa
su una base di esperienze parziali. Le
due teorie, così costruite, sono, come
le definì per primo Kuhn, incommensurabili e la scelta tra loro non avviene
più sulla base di criteri oggettivi ma sui
giudizi soggettivi espressi dalla comunità degli scienziati. Come sostiene
Morin: “L’ultima scoperta dell’epistemologia anglosassone è che è scientifico ciò che è riconosciuto come tale
dalla maggioranza degli scienziati. Vale
a dire che non esiste alcun metodo
oggettivo per considerare la scienza
come oggetto di scienza e lo scienziato
come soggetto.”
69
La validità scientifica si basa così
sulla retorica, sulla capacità persuasiva
dei suoi autori. Storicamente si è assistito diverse volte alla contrapposizione di teorie “rivali”, formulate sulla
base di una diversa valutazione dei dati
sperimentali, risolta con l’adozione da
parte della comunità scientifica di una
delle due. In ogni teoria, che non sia
una invenzione arbitraria, c’è sempre
un certo contenuto di verità, e spesso
una teoria “perdente” in un determinato momento storico ha rivelato successivamente tutta la sua fecondità
concettuale; ma sul momento è proprio la valutazione degli “addetti ai
lavori”, il loro consenso, il loro giudizio
sull’importanza delle “prove” sperimentali a decidere un tipo di sviluppo
scientifico/tecnologico, più o meno
proficuo, rispetto a possibili percorsi
alternativi.
Venuta meno la certezza dogmatica del sapere scientifico/sperimentale, sottolineata la sua relatività culturale e storica, bisogna ancora considerare la sua dipendenza dalla sfera
soggettiva dello scienziato. Infatti
Popper stesso ha sottolineato come
la sua messa in evidenza della validità
induttiva delle leggi scientifiche era
riferita a quello che Reichenbach
ha definito come il contesto di giustificazione della scoperta già avvenuta,
mentre la scoperta vera e propria
rientrava nella sfera soggettiva dello
scienziato sia pure inserito nella tradizione culturale e scientifica della propria epoca. Per quanto riguarda l’aspetto relativo al contesto della scoperta scientifica ci si rende sempre
più conto di come l’invenzione scientifica (come forse è più giusto chiamarla) per quanto mai arbitraria e
sempre comunicabile simbolicamente, non sia riducibile ad un mero algoritmo deduttivo. In caso contrario,
i computer avrebbero già dovuto produrre infinite scoperte scientifiche ed
invece si limitano ad eseguire velocemente calcoli di cui non capiscono
nulla.
Alla base della scoperta scientifica
c’è infatti una comprensione delle connessioni tra i fenomeni di tipo analogico che è frutto dell’intuizione soggettiva dello scienziato, di tutto il suo bagaglio di esperienze, del suo “vissuto”,
tradotta in formalizzazione simbolica e
riscontrata dal dialogo sperimentale.
Certo, la familiarità con la materia trattata, la conoscenza approfondita dei
fenomeni e della metodologia d’indagine favorisce l’elaborazione di ipotesi
1
BRUEGEL, Pieter (il vecchio), Il Paese di Cuccagna
REICHENBACH, Hans,
The Rise of Scientific Philosophy,
(1951) traduzione italiana di PARISI, D. E e PASQUINELLI,
A., La nascita della filosofia scientifica, Bologna, Il Mulino, 1961.
70
pertinenti: la competenza non si improvvisa ma è conseguenza di studi
laboriosi. Tuttavia, la competenza tecnica, pur indispensabile, non è di per
sé sufficiente alla produzione di idee
innovative. Queste, generalmente, si
presentano in scienziati relativamente
giovani, con un bagaglio tecnico già
notevole ma in cui il sapere acquisito
non ha ancora ucciso il piacere dell’immaginazione, della fantasia. Un esempio di idea innovativa (riferita ad
un nuovo modo di vedere fenomeni di
organizzazione della materia in condizioni termodinamiche lontane dall’equilibrio, conosciute come “celle di
Bernard” e denominate nella della Teoria della Complessità da Prigogine
“strutture dissipative”) è quella dell’irreversibilità temporale. La scienza
classica, in particolare la meccanica,
formula le sue leggi servendosi di equazioni differenziali di secondo grado
che sono invarianti alla trasformazione
+t
-t; concepisce cioè il tempo come un parametro reversibile e quindi
postula l’equivalenza di passato e di
presente. La proposta di Prigogine
tende invece a rendere coerente il concetto scientifico del tempo con quello
1
PRIGOGINE, Ilya e
STENGERS, Isabelle, La
nouvelle alliance. Metamorphose de la
science, (1979), traduzione italiana
di NAPOLITANI, P., La nuova
alleanza, Torino, Einaudi, 1981.
MERZ, Mario, 610 Funzione di 15
della nostra esperienza vissuta, ribaltando quindi completamente la filosofia scientifica dominante che identifica
la percezione del mutamento come un
limite delle nostre capacità conoscitive
nei confronti di una realtà idealisticamente oggettiva e invariante. Idee innovative come questa, per affermarsi,
devono prima penetrare nella mentalità, fondamentalmente conservatrice,
degli scienziati, ottenere il loro consenso e con esso la realizzazione di un
programma di ricerche finalizzate. Infatti gli esperimenti costano, richiedono finanziamenti che vengono elargiti
sulla base della loro presunta validità
(conoscitiva ma anche relativa a vantaggi economico/militari) e che sono
necessari per allestire quella “sceneggiatura” sperimentale che, sola, permette di interrogare la natura sulla base di un’idea preconcetta. Il consenso
della comunità scientifica (sulla base di
concezioni ideologiche e metafisiche
come sulla base di interessi economici
e politici) è quindi il fondamentale criterio di validità scientifica su cui poggia lo sviluppo della scienza, della tecnica, e, in definitiva, del modello sociale in cui vivremo.
71
Riccardo Galiani
Il Consenso Ingannatore
Cominciamo con alcune definizioni:
Consenso: incontro di volontà; conformità,
concordia di volontà, giudizi, opinioni,
sentimenti, o accordo su un punto specifico, fra due o più persone (ZINGARELLI, Nicola, Vocabolario della lingua Italiana,
1970);
Consent: to agree together; voluntary agreement to or acqiuscence in what another
proposes or desires; agreement in feeling,
sympathy (The Oxford Universal Dictionary,
1973);
Consenso: atteggiamento di adesione ad un
costrutto potenzialmente o attualmente
normativo (cfr. STRADA, Vittorio, voce
“Consenso/Dissenso”, in Enciclopedia Einaudi, 1978; vol. III, pp. 806-817, p. 806).
Consideriamo prima le definizioni
contenute nei due dizionari; ciò che in
esse viene sottolineato è l’aspetto dinamico del fenomeno “consenso”: qualcosa che diviene in un contesto relazionale. Il consenso come possibile
risultato di un incontro tra individui
(condizione necessaria), tra le loro volontà ed il loro sentire (agreement in feeling; condizioni necessarie e sufficienti). Un film statunitense, La parola ai
giurati , che ha per oggetto la seduta
di una giuria popolare, chiamata ad
esprimersi su di un caso di presunto
parricidio, rappresenta forse un buon
esempio dei rapporti esistenti tra tali
condizioni ed il manifestarsi di un
consenso.
All’inizio undici giurati su dodici
sono concordi (esprimono apparentemente un consenso) nel ritenere colpevole l’imputato; il dodicesimo dissente non tanto perché convinto del
contrario, ma piuttosto perché ha ragione di dubitare della veridicità della
convinzione degli altri e del consenso
manifestato riguardo ad essa. Nello
spazio di alcune ore, i dodici giurati si
ritroveranno concordi sulle posizioni
del sostenitore del “ragionevole dubbio”. Il consenso ha cambiato segno.
Individui certi di aver già trovato l’accordo tra le loro volontà ed il loro sentire, hanno negoziato il valore attribuito alle proprie convinzioni ed hanno
prodotto un mutamento. Un nuovo
consenso.
Il consenso appare quindi come il
risultato della dinamica generata dall’incontro di più individui. Tuttavia,
l’incontro contenuto nell’esempio scelto ha luogo in condizioni particolari.
Esso si trova come “tra parentesi”; le
persone non si conoscono, hanno momentaneamente reciso – sospeso – i
legami con il contesto sociale cui appartengono; la decisione che dovranno
prendere non avrà influenza sulla
struttura delle loro relazioni sociali
intese in senso “esteso” (è possibile
cioè immaginare una moglie più o meno fiera del resoconto fattole dal marito; con più difficoltà immaginiamo lo
stesso marito mettere al corrente di
quanto accaduto un capoufficio o un
cliente). Siamo quindi di fronte ad una
situazione anomala. Ciononostante
essa contiene un elemento fondamentale per determinare la natura “reale”
del consenso, e cioè il riferimento alla
Legge, come norma comune ad un
numero di individui superiore a quello
rinchiuso nella camera di consiglio. La
situazione considerata permette cioè di
osservare la struttura stratificata del
consenso: il primo strato visibile è
quello dell’incontro tra il volere ed il
sentire di due o più individui, mentre
lo strato successivo, che comprende il
primo, è costituito dall’incontro tra il
volere ed il sentire di uno o più individui ed il volere ed il sentire di una
maggioranza. Di questi due ultimi fe-
1
LUMET, Sidney (regia di),
Twelve angry men, 1957.
GALIANI, Riccardo
72
1
GERGEN, K. J., e GERGEN, M. M., Social Psychology, New York, Springer/Verlag,
1986 (traduzione italiana Psicologia
Sociale, Bologna, Il Mulino, 1990,
p. 190)
2
Il riferimento al termine
tedesco Kultur, che ritorna in
diversi passaggi dell’articolo, è
dettato dall’esigenza di sottolineare, più di quanto consenta l’uso
distinto dei termini italiani
“cultura” e “civiltà”, il legame
strutturale esistente tra gli elementi, propri ad ogni contesto
sociale, atti a produrre un arricchimento intellettuale dei membri
di una civiltà, e la civiltà stessa. Il
termine Kultur si presta cioè a
significare contemporaneamente
“grado di civiltà” e “livello culturale”, una contemporaneità che
nella lingua italiana permane esclusivamente nell’uso dotto dei
termini “cultura” e “civiltà”. Per
una discussione più approfondita
della questione si rinvia alle voci
“Civiltà” e “Cultura/Culture”,
rispettivamente di SACHS, I. e di
LEACH, E., dell’Enciclopedia Einaudi, Torino, 1978.
3
Ibid.
nomeni ciò che appare è la loro, già
compiuta, trasformazione in norma,
ovvero la codificazione di un antico
consenso. Il prevalere di questo codice
sedimentato sui codici alternativi che
possono risultare dagli incontri
“minimi” tra sentire e volontà è ciò
che costituisce la continuità, necessariamente conservatrice, di una cultura
(Kultur). Le forme della conservazione, per essere efficaci, devono però
agire non solo sulle altre possibili forme di consenso, ma sulle premesse
stesse del consenso, ovvero sul volere
ed il sentire individuale.
A questo punto, la definizione di
consenso ricavata dall’articolo “Consenso/Dissenso” di Vittorio Strada,
pare più soddisfacente: “atteggiamento
di adesione ad un costrutto potenzialmente o attualmente normativo”.
Trattando del consenso occorre quindi
considerare la relazione con questo
tipo di costrutto. Può essere utile, per
comprendere la natura di questa relazione, muovere da una sua manifestazione estrema di carattere adesivo: la
condivisione di un pregiudizio.
Sono cresciuto nel Minnesota, dove ci
sono molti pregiudizi contro gli indiani
(...). E, devo dire, che per un sacco di
tempo anch’io l’ho pensata così. Dopo
essere venuto all’università, ed aver cominciato a riflettere sulla condizione di
vita degli indiani, ho cominciato a pensare
che gli atteggiamenti così comuni al mio
paese sono precostituiti. Ma la cosa terribile è che ogni volta cha vado a casa per
un po’ mi accorgo di scivolare di nuovo
dentro l’antico modo di pensare (...). é
veramente difficile dire ai miei amici che
loro sono un branco di razzisti fanatici.
Il brano citato consente di osservare,
secondo un diffuso manuale di psicologia sociale, l’azione di “uno dei più
potenti meccanismi di sostegno al pregiudizio: il consenso sociale”. Ma da
cosa, e come, nasce questo consenso?
Adoperando ancora le categorie della
psicologia sociale potremmo rispondere che il consenso (per sua natura, sociale) è il risultato della pressione all’uniformità/conformità, o, meglio: il
consenso rappresenta l’obiettivo implicito (ed ultimo) della pressione all’uniformità/conformità, espressione che
si riferisce al processo concludentesi
con l’adesione ad una norma (più
spesso implicita che esplicita). E l’adesione ad una norma, o meglio ad un
corpus normativo, costituisce la struttura e la ragion d’essere di ogni Kultur.
L’esistenza e l’efficacia della pressione
all’uniformità/conformità è stata l’oggetto di alcuni esperimenti di psicologia sociale, divenuti ormai classici.
Consideriamo brevemente quanto posto in luce da tre di questi studi.
1. Con l’intenzione di valutare gli effetti prodotti dal confronto sociale,
Muzafer Sherif nel 1935 allestì ad Harvard un esperimento sulla valutazione
del movimento apparente. Dei soggetti vennero condotti uno alla volta all’interno di una camera completamente buia e ad ognuno di essi venne data
l’istruzione di valutare, discrezionalmente, il “movimento” compiuto da
un punto di riferimento luminoso in
posizione fissa (l’illusione ottica, nota
come effetto autocinetico, è dovuta alle
condizioni di oscurità). Successivamente ai soggetti venne chiesto di ripetere l’operazione riuniti in piccoli
gruppi. L’assunto da cui muoveva Sherif era che, non esistendo alcun criterio obiettivo per valutare il movimento
del punto luminoso, le eventuali variazioni di giudizio si sarebbero potute
ascrivere totalmente al mutare delle
condizioni sperimentali, ovvero al dover formulare le valutazioni in gruppo.
I risultati parvero confermare l’ipotesi
formulata in merito all’influenza del
confronto sociale: nella condizione di
gruppo le valutazioni individuali tendono ad uniformarsi, mentre quelle espresse in precedenza singolarmente risultano, se illustrate graficamente, molto
più disperse. Questa tendenza all’uniformità può essere interpretata come un
adeguamento inconsapevole (non prodotto cioè da una riflessione, ma manifestantesi come nuova e diversa percezione) alla presunta opinione comune;
tale adeguamento sarebbe sollecitato
73
Il Consenso Ingannatore
dallo stesso confronto sociale. Come
dimostrarono successive interviste ai
partecipanti all’esperimento, l’effetto
di questa tendenza uniformante può
permanere per circa un anno, posto
che non intervengano diversi fattori di
influenza.
2. Salomon Ash nel 1946 chiese ad
alcuni soggetti, volontari in una presunta ricerca sulla percezione, di valutare comparativamente la lunghezza di
alcune rette disegnate su di un pannello; il compito dei partecipanti è cioè
quello di valutare se le rette in questione sono più grandi o più piccole di
una retta assunta come parametro. I
gruppi sperimentali sono composti da
“complici” dello sperimentatore e da
un unico soggetto “ingenuo”. Le valutazioni vengono eseguite a voce alta;
dopo la prima tornata di valutazioni
che, in quanto reali, risultano concordi, il soggetto ingenuo, a cui spetta, in
ogni tornata, di formulare la sua valutazione per ultimo, è messo di fronte
ad una serie di palesi errori di valutazione: i soggetti complici dello sperimentatore dichiarano cioè di ritenere
di lunghezza uguale alla retta parametro rette più corte di alcune decine di
centimetri. I risultati di questi esperimenti dicono che nel 33% dei casi il
soggetto ingenuo fornisce, in queste
circostanze, un giudizio concorde con
quello espresso dalla maggioranza dei
presenti, anche nel caso in cui l’errore
resta di proporzioni notevoli. Si parla in questo caso di pressione alla conformità, in quanto il soggetto, per non
differenziarsi dalla maggioranza, muta
consapevolmente il proprio giudizio; uno
sviluppo per nulla infrequente di questa conformità è la convinzione postuma dell’erroneità della propria percezione: il soggetto preferisce distorcere
il proprio dato percettivo anziché accettare di aver ceduto ad una pressione
sociale.
3. Nel 1965 Stanley Milgram organizzò il seguente esperimento: ad alcuni
1
Una tale conformità di errore non è evidenziata dai
gruppi di controllo, composti
unicamente da soggetti ingenui.
2
GENTILE DA FABRIANO, Adorazione dei Magi
Per quanto sia teoricamente
possibile, l’eventualità che
tutti i soggetti esaminati da Ash
(o la maggior parte di essi) si
siano conformati inconsapevolmente alle valutazioni del gruppo
per ragioni non previste dalla
procedura sperimentale appare
estremamente remota.
GALIANI, Riccardo
74
soggetti viene offerta una somma di
danaro (circa 4 dollari e mezzo, somma modesta) per partecipare ad un
progetto di ricerca presso una prestigiosa università. Le finalità dell’esperimento comunicate sono quelle di uno
studio degli effetti prodotti dalle punizioni sull’apprendimento. I soggetti
pagati, che sono la componente ingenua dell’esperimento, dovranno esercitare l’eventuale azione punitiva su di
un complice degli sperimentatori (l’
“allievo”), collocato nella stanza attigua a quella in cui si trova il soggetto
(sicché egli può sentire, ma non vedere, le reazioni dell’allievo alle punizioni
inflittegli), servendosi di un apparecchio che somministra scosse elettriche,
da un minimo di 15 ad un massimo di
450 volt. All’allievo vengono poste
dallo sperimentatore, che si trova nella
stessa stanza del soggetto retribuito
per fungere da esecutore, delle domande; ad ogni risposta errata il soggetto
deve somministrare una scossa di intensità crescente. Tali scosse si somministrano premendo alcuni pulsanti indicanti il grado di pericolosità della
scossa stessa. Sotto la pressione dello
sperimentatore, il 62% dei soggetti,
pur opponendo in alcuni casi una notevole resistenza, arrivò a premere il
pulsante contrassegnato come “scossa
estremamente pericolosa” (450 volt),
anche dopo che l’“allievo” aveva apertamente dichiarato di sentirsi male e di
essere sofferente di cuore. L’ipotesi di
Milgram era per l’appunto che una
pressione autoritaria potesse produrre,
partendo da un consenso rappresentato dall’adesione all’esperimento, un’obbedienza (una forma di consenso)
“distruttiva”. Come si vede, nel setting
sperimentale allestito da Milgram la
pressione non è esercitata da una
“maggioranza”, ma da un’autorità la
quale, agli occhi del soggetto, esercita
in questo caso il proprio potere nello
stesso modo in cui lo esercita la maggioranza: rendendo inadeguata
(quando non pericolosa) l’espressione
di una diversità di opinioni e di azioni,
quindi di un dissenso. Un tale esercizio di potere si manifesta, nella fatti-
specie, attraverso il prestigio di un’istituzione, di un sistema, quello universitario, rappresentato dall’autorità dello
sperimentatore.
Non era nelle intenzioni degli autori
analizzare, attraverso questi esperimenti, la natura del consenso; mi pare
tuttavia legittimo l’aver posto in relazione le categorie di “uniformità”,
“conformità” ed “obbedienza”, proprie della psicologia sociale, con la natura del consenso, per quanto si potranno avanzare altre obiezioni sulla
liceità della generalizzazione di un simile modello interpretativo.
Ad esempio, si obietterà che lo
stesso Ash escluse l’automatica estensione delle considerazioni ricavabili
dai risultati ottenuti a contesti diversi,
più ampi e meno caratterizzati dall’interazione diretta tra le persone, mentre l’ influenza degli altri fattori riconosciuti da Ash come agenti sul grado
di conformità espresso – l’ambiguità
dello stimolo, l’attrazione verso il
gruppo, le prospettive di interazioni
future – è facilmente riscontrabile anche in situazioni non così fortemente
caratterizzate come quelle del setting
sperimentale creato da Ash. Tuttavia,
credo che ostacoli di questo tipo possano essere superati affermando che la
conformità rappresenta, per così dire,
l’aspetto paradossale, immaturo del
consenso, vista la distorsione consapevole della percezione e del giudizio;
paradosso che può darsi solo in condizioni che assicurano l’interazione
faccia a faccia di un certo numero di
individui.
Non ha bisogno di rapporti ispirati
al paradosso la relazione uniformità/
consenso, così come si può ricavare
dall’esperimento di Sherif; qui l’omologazione si produce senza l’apporto
della consapevolezza e la convinzione
cui dà luogo ha, come visto, effetti
ben più duraturi, creando un arco di
tempo durante il quale negli individui
uniformatisi in tale maniera riguardo
ad un giudizio può facilmente svilupparsi ciò che definiamo consenso.
75
Il Consenso Ingannatore
ROSENQUIST, F-111 (particolare)
Un aspetto particolare del consenso, che pare essere ciò a cui in molti
casi esso si riduce, è messo in luce dall’esperimento di Milgram. In tali circostanze il consenso consiste nell’accettare, nel condividere, finché l’esperimento è in corso e vi si continua a
partecipare, la necessita della procedura proposta dallo sperimentatore, per
quanto la manifestazione concreta di
questa condivisione, cioè la somministrazione della scossa, possa essere
preceduta da un’opposizione veemente e da un travaglio interiore. Nonostante possa essere considerato un
comportamento che, sin dal principio,
assume una forma diversa dal consenso, l’obbedienza all’autorità, l’atto dell’obbedire non può compiersi senza
un consenso preliminare. La necessita
“interiore” di comportarsi in maniera
coerente con un tale consenso
è proprio ciò che l’esperimento di Milgram mostra essere un elemento esclusivamente situazionale, e quindi, dal
punto di vista individuale, un costrutto
artificiale, difensivo. Il soggetto cioè è
vincolato dalla propria adesione all’esperimento solo se continua a riconoscere il valore dell’esperimento stesso,
e quindi dell’autorità (dell’istituzione)
che lo ha organizzato; allo stesso modo, solo se continua a riconoscere
“interiormente” la norma nel comportamento dei più il soggetto sarà disposto ad acconsentire ad una valutazione
palesemente errata ma sostenuta dalla
maggioranza.
Dall’aver acquisito questi esempi nella
loro funzione di elementi che testimoniano della circolarità della catena Kultur - pressione all’uniformità/conformità - consenso - mantenimento del
pregiudizio (caso limite della conservazione della norma) - Kultur, ricaviamo
una domanda: può darsi un consenso
non indotto? In altri termini: esiste la
libera scelta del consenso?
I territori di una tale liberta dovrebbero essere, considerato quanto detto,
quelli che cominciano oltre i confini
del contesto sociale, i territori dell’individuo chiuso in se stesso. Si tratterebbe cioè di un consenso non comunicato, ovvero di un “puro sentire”
orientato alla decisione: io sento che
ciò che si dice sugli – e agli – indiani
del Minnesota è vero, assumo questo
sentimento come una mia decisione
riguardo ciò che è reale e la tengo per
me, non partecipo con essa ad una
“comunità del sentire”, né avverto la
presenza di questa comunità nel processo di formazione della mia decisione. Possiamo ritenere sufficiente questa “difesa” del consenso?
A mio parere no; e questo perché
dopo Freud quali che siano i nostri
convincimenti, le decisioni individuali,
insomma quelle manifestazioni del
76
pensiero che per molti costituiscono
uno scudo con cui parare gli attacchi
della pressione conformante/uniformante, produttrice di consenso, non
possono non apparire come il risultato
di un altro tipo di pressione (termine
quanto mai “dinamico”): quella originata dal confronto tra le diverse componenti della personalità di colui che
“decide”. Il comportamento, l’azione
consapevole, è sempre il risultato di
un cedimento sotto una pressione: sia
quella del mondo esterno, sia quella
del mondo interno e di ciò che lo costituisce (l’insieme mente/corpo).Va
da sé che il soffrire o meno per tale
cedimento, il suo apparire o non apparire esplicitamente in quanto tale, dipende dal “peso” (ossia dal valore)
assegnato all’oggetto della decisione e
dalla violenza della pressione esercitata. A ben vedere entrambi gli elementi
citati (il valore dell’oggetto e la forza
della pressione) fanno anch’essi parte
di quella catena o circolo all’interno
del quale ha luogo il consenso, poiché
ad esso appartengono i criteri valutativi che contribuiscono alla “taratura”
dell’oggetto della decisione ed alla misurazione della pressione esercitata. In
altre parole, il comodo e chiaro riferimento al soggetto come unità compiuta e conclusa viene meno anche e soprattutto nell’analisi del processo decisionale; tenere conto di questo equivale a ampliare per poi ridiscutere i termini che definiscono il consenso, e
cioè: se il comportamento può essere
in ogni caso interpretato come il risultato di una “pressione”, anche ciò che
usualmente è definito decisione deve
essere inteso come consenso, ovvero
come il risultato di una negoziazione,
svoltasi all’interno di ciò che convenzionalmente definiamo soggetto, tra
forze non aventi un eguale potere negoziale. “Non è solo il nevrotico che
non è padrone di se stesso, lo è, innanRICOEUR, Paul, De l’inter- zitutto, l’uomo che ha una morale,
pretation. Essai sur Freud l’uomo etico”,
dove per ethos si in(traduzione italiana Genova, Il
tende
“mores,
Sittlichkeit,
cioè costumi,
Melangolo, 1991, p. 175).
morale effettiva”; e l’esercizio del
consenso sta proprio nell’adesione ad
Ibid., p. 178.
un uso (anche e soprattutto “quotidia-
1
2
GALIANI, Riccardo
no”) o alla proposta di mutamento di
un uso in vigore.
Si potrà a questo punto obiettare
che una tale conclusione poggia su di
una premessa falsa, quella per la quale
ogni consenso (sociale) è il risultato di
una pressione, come se il modello sperimentale approntato dagli psicologi
sociali fosse universalmente valido.
Non sempre, si dirà, si danno condizioni come quelle create negli studi di
Ash, Sherif e Mowrer, mentre ciò che
abitualmente si definisce consenso si
manifesta nelle più svariate circostanze. Proviamo allora a distinguere tra
due possibili tipi di consenso: quello
palesemente conforme rispetto a qualcosa che possiamo far rientrare nella
categoria della “maggioranza” (come
nel caso degli esperimenti di Sherif ed
Ash riguardo al piccolo gruppo), e
quello che, riprendendo le definizioni
da cui siamo partiti, possiamo ascrivere all’incontro di due o più volontà
individuali. Tuttavia parlare ancora, in
questo contesto, di volontà “chiare e
distinte” crea un certo imbarazzo, equivalendo ad un rifiuto del confronto
con l’ormai non più nuovo, ma sempre disorientante statuto del soggetto
(beninteso l’imbarazzo nasce non dalla
contraddizione in sé, ma dal fatto che
essa poggerebbe sul disconoscimento
di quello che è il risultato della recente
storia del pensiero occidentale).
Rispetto a ciò che è in uso, resta
quindi il primo tipo di consenso; rispetto a ciò che è sfuggito all’uso resta
una possibilità, che è quella di restituire al significante “consenso” il suo
significato di “simpatia” svincolata
dall’intenzione di cui dobbiamo necessariamente (ed illusoriamente) ritenerci
titolari. Tale significato sembrerebbe
conservarsi nelle forme degli atti “ingenui” (“voto per lui così… perché mi
ispira simpatia”); ma la fiducia in questa conservazione è minata da un dubbio: che l’elemento ingenuo sia tale
solo in virtù del fatto che è questo il
suo ruolo all’interno della catena circolare cui in precedenza ho fatto riferimento, non perché il suo posto sia al
di fuori di essa. Non si tratta di inge-
77
Il Consenso Ingannatore
nuità “naturale”, ma di ingenuità
“culturale”. L’azione (o meglio la non
azione) dell’elemento ingenuo che manifesta consenso, non è ispirata alla
“simpatia”; si tratta piuttosto del risultato meno visibile ma al tempo stesso
più duraturo della pressione all’uniformità. “Mi piace perché è proprio come
uno di noi, come me. Ma io come sono? non lo so; so però che mi piacerebbe essere come lui”. Nel caso di
simili atti ingenui non è possibile conservare nemmeno la forma
“consenso”, termine che comunque
è depositario, come abbiamo visto, di
una tensione derivante dalle dinamiche
inter ed intrapsichiche; in questo caso
si da solo assenso. Su questo assenso
grava il sospetto di essere l’espressione
di una mortificazione, in quanto esso
mostra la fragilità del suo produttore
in un modo in cui non siamo ancora
disposti ad accettarla; un tale sospetto
cadrebbe se da una frase come quella
citata ad esempio, potesse scomparire
la risposta “non lo so” alla domanda
“ma io come sono?”. L’unico efficace
strumento di difesa a disposizione dell’individuo (che suo malgrado deve
vivere traendone piacere e vantaggio
all’interno della catena culturale) per
tutelare la propria unicità sarebbe
quindi la conoscenza delle forme dell’agire della pressione conformante/
uniformante, il che equivale a conoscere la propria natura psicologica.
Tuttavia appare difficile immaginare
una modalità di trasmissione di un tale
sapere a sua volta libera dai vincoli
della “cultura”; riesce cioè difficile im-
maginare in che modo questo sapere,
prodotto dall’uomo, possa divenire
patrimonio di quello stesso uomo che
vive all’interno di un sistema necessariamente consensuale conservando la
propria valenza destabilizzante. Il destino cui esso va incontro consiste in
un’alternativa illusoria quanto il movimento del punto luminoso nell’esperimento di Ash: o riprodursi mutando
per assumere una forma acquiescente
e stabilizzante (così come è accaduto
finora per la massima parte della conoscenza psicologica; prima “alternativa”); conservare la propria diversità al
di fuori o di là del circolo culturale
stesso, divenendo così “incomunicabile”, non visibile e non udibile (seconda
“alternativa”).
Per tornare, in conclusione, alla distinzione che, ricercando un’autentica
soggettività del consenso, abbiamo
provato a cogliere nell’uso fatto del
termine in oggetto, bisogna dunque
riconoscere il carattere artificioso di
una tale separazione tra senso consueto e senso desueto del termine stesso:
resta quindi il primo tipo di consenso,
la cui natura e la cui funzione sono
evidenziate da esperimenti come quelli
di Ash, Sherif e Mowrer, il consenso
“necessario” al mantenimento della
catena circolare che rappresenta la dinamica culturale. Il fare parte di questa
catena è l’elemento che giustifica la
necessita del consenso così come ci
appare ora; difficilmente il nostro agire
parla di un dissenso alla Kultur.
RODCENKO, Aleksandr, Manifesto di Propaganda del Libro
78
GAGNO, Rosaria
Rosaria Gagno
John Rawls e la Stabilità
della Società Ben Ordinata
Il contrattualismo e la
promessa della società
migliore
1
Vilfredo Pareto (1848/1923)
è uno dei maggiori esponenti della scuola economica neoclassica. Walras, prima di lui, aveva dimostrato come solo una situazione di concorrenza “perfetta” possa generare un equilibrio
efficiente tra la dinamica dei
prezzi e i programmi di azione
individuale. Tale equilibrio costituisce, secondo Pareto, un “ottimo sociale”, cioè una situazione
dalla quale non è possibile allontanarsi senza danneggiare almeno
un individuo, e al di là della quale
l’unanimità non trova più posto.
Va osservato come una tale situazione di “concorrenza perfetta”
risulta essere, ovviamente, del
tutto ipotetica.
La natura generale del contratto è
quella di fornire uno schema tipico di
ingresso volontario in società. In Una
teoria della giustizia Rawls affida a questo strumento teorico il compito di
realizzare una promessa: far germinare
la società migliore dalla correzione
morale del mercato. Si tratta, per il
filosofo americano, di salvare le certezze Pareto/efficienti secrete dagli
equilibri di mercato, correggendone
gli esiti sociali controintuitivi mediante
il ricorso a principi di giustizia sostanziale che siano il luogo del bene comune, dell’utilità pubblica, del consenso
dialogico. Da un lato Rawls assume la
logica di mercato come ossatura obiettiva e razionale di una teoria della giustizia sociale, dunque come parte formale dell’etica, dall’altro è alla ricerca
di vincoli morali alla massimizzazione
del benessere perché interpreta la caduta del consenso, cui le moderne democrazie a capitalismo avanzato sono
esposte, come una richiesta di moralità
che la cittadinanza rivolge alla struttura fondamentale della società. In questa prospettiva il contrattualismo, dettando le condizioni essenziali per un’adesione e una fedeltà libere e non naturali, offrirebbe ai contraenti sociali la
possibilità di valutare di volta in volta
il loro operato alla luce dei principi di
giustizia sociale eletti: il senso dell’artificialità della statuizione e la volontarietà dell’obbligazione politica sono le
condizioni di possibilità della società
migliore.
Ma se conveniamo che è delle moderne società a capitalismo avanzato
che stiamo parlando, allora va rilevato
che, come è indubbia l’artificialità delle
loro strutture giuridico/istituzionali,
così è altrettanto certa la forma naturale che in esse assume il consenso.
Questa affermazione non è interessata
ad avallare l’ ovvietà per cui ciascuno
propriamente sceglie il suo ruolo di
consociato, quanto a negare che l’operato delle istituzioni sia di volta in volta apprezzabile con la consapevolezza
della sua artificialità e modificabilità. Il
consenso o la mancanza di un dissenso che abbia peso politico, quale è
quello che si estrinseca nella richiesta
generica di moralità, non sono in grado di generare dal loro seno la società
migliore. La ragione sta nel fatto che
tale consenso meccanico o tale forma
di protesta/dissenso spoliticizzati hanno dalla loro un atteggiamento molto
diffuso (percepito come diritto) di insofferenza verso tutto ciò che sembra
minacciare la sicurezza dei possessi
individuali e la tranquillità della vita
privata. Questo consentire è un chiaro
segno della distanza degli uomini dall’azione politica, il segno cioè di una
povertà culturale, di una deresponsabilizzazione rispetto al fare, di una impossibilita di immaginare scopi comuni e nominarli.
Se nelle società a capitalismo avanzato la stabilita e il consenso non derivano dalla “legittimità razionale” dell’autorità, ma dal fatto che la statuizione
si è trasformata per la collettività in un
dato naturale, allora la possibilità di
esprimere un punto di vista diverso
dal corso del mondo risiede esclusivamente in una ragione colta e sapiente
che lo comprenda e lo giudichi: solo
ad una siffatta ragione le regole del
gioco potranno apparire confutabili.
Rawls però non pensa ad una ragione
John Rawls e la Stabilità della Società Ben Ordinata
colta quando detta le condizioni per
approdare alla stipulazione equa dei
principi di giustizia sociale, né vi è
traccia in Una teoria della giustizia della
tensione drammatica che insorge tra
coscienza morale e istituzioni quando
esse vengono messe in discussione.
L’interscambio di razionalità strumentale ed intuizioni morali di senso comune annulla la tragicità della rivolta
morale dell’individuo.
É delle istituzioni quello che ne è
dei rapporti degli uomini tra loro e
con le cose. Il mondo è opaco e muto;
tanto più lo si concepisce come costruzione umana tanto più si fa silenzioso, diventa sfuggente il sapere implicito nelle cose che quotidianamente
si producono e si usano. Il mondo di
oggetti, costruiti in gran parte attraverso il soggiogamento della natura,
ridiventa esso stesso natura. É per
questo che chiunque voglia porre un
problema di cambiamento sociale è
tenuto a farne una questione di cultura. Il contesto rawlsiano di scelta dimostra che – nonostante un apparente
rifiuto della metafisica – c’è nell’autore americano una forte pretesa fondazionale. Essa rimanda alle nozioni di
razionalità, natura umana, imparzialità,
autonomia individuale, soggettività
morale e le sottrae al contesto storico
che solo può determinarne i contenuti. Quelle nozioni, così deprivate, fondano la loro validità universale facendo leva unicamente sulla forza emotiva delle parole, una forza che, pur derivando dalla loro genesi temporale,
finisce per diventare (a causa di smemoratezza) appello ad un’astorica obiettività e ragionevolezza. Ma ciò significa che il presunto fondamento,
ossatura formale e ordine dell’azione
umana, è di fatto in balia della contingenza che si vorrebbe addomesticata
con il suo aiuto.
La violenza e l’arbitrarietà possono
assumere le sembianze del diritto perché i valori morali che esso incorpora
non sono in grado di garantirsi da soli
una loro applicazione fedele. L’ordine
è un ordine della violenza, dunque
non è violenza.
La forza dei diritti sta nella ragione
storica di chi li persegue, cioè sta nei
bisogni concreti che, a rigore, non sono diritto. Se ciò che rappresenta la
vita reale, la forza delle passioni, la
ricchezza delle culture, la carnalità dei
bisogni, la forza emancipatoria del sapere, la critica all’omologazione, la
protesta sociale, se tutto ciò viene
chiamato diritto e chiede come tale di
essere riconosciuto dalle istituzioni,
allora non potrà che spogliarsi della
sua valenza passionale e anticonformista. Qualunque bisogno chieda riconoscimento giuridico finisce, se soddisfatto, per essere inglobato in un sistema di diritti, cioè entro una struttura
di riconoscimenti di cui non potrà mutare la logica.
Alla società migliore non si perviene portando a compimento le buone
ragioni di una morale di senso comune. La rivolta morale si colloca dopo la
certezza e contro il diritto statuito,
non al suo interno.
Molto grossolanamente possiamo
dire che quando nella riflessione politica diventa centrale il problema del
consenso, unito a quello della tutela
dei diritti e del cambiamento sociale, si
possono dare due alternative: o si vuol
far valere un punto di vista esterno, di
rifiuto della logica degli ordinamenti
giuridici vigenti, oppure si fa un discorso di riformismo interno e garantismo giuridico. Rispetto a queste opzioni, la riproposizione contemporanea del contrattualismo, che ripropone
il pathos catartico della protesta morale
alle ragioni della ratio strumentale,
sembra avere una forte connotazione
ideologica.
Una domanda interlocutoria
Perché una teoria della giustizia di ispirazione liberale e contrattualistica si
vede necessitata a fissare la sua attenzione sulla razionalità umana intesa
come volontà pratica? Il fatto è che,
paradossalmente, la fiducia nei confronti di una società ben ordinata trova il suo più fecondo alimento nell’il-
79
GAGNO, Rosaria
80
1
Con riferimento alla suddivisione arendtiana dell’attività
umana in “lavorare”, “operare” e
“agire”, per superamento artificiale del processo naturale si intende la costruzione di un mondo di oggetti non naturali propria
dell’operare; per superamento
culturale intendiamo invece quella forma di azione che afferisce
all’agire, alla interazione umana,
alla pluralità e alla differenza. Cfr.
ARENDT, Hannah, Vita activa,
traduzione di Finzi, S., Milano,
Bompiani, 1984.
2
Il principio organizzatore
della società è la lotta con la
natura esterna. Scrive Eric Weil:
“Ogni società costituisce una
comunità di lavoro. La società
moderna si comprende e si organizza in vista di uuna lotta progressiva con la natura esterna”.
(WEIL, Eric, Filosofia politica,
traduzione di Cofrancesco, L. B.,
Napoli, Guida, 1973, p. 75).
lusione collettiva di una sfera di vita
privata come luogo dell’inviolabilità.
Senza il sogno della progettualità, senza il miraggio della pianificazione del
senso, non sarebbe possibile lo scioglimento del conflitto all’interno delle
istanze amministrative dello Stato e
l’interpretazione della protesta civile
come richiesta di beni e servizi.
Rawls deriva il momento coattivo dell’autorità statale dalla libera scelta di
individui razionali, lo presenta come
l’esito di considerazioni di stretto interesse personale dei contraenti sociali in
posizione originaria.
L’unico modo per impedire al processo decisionale di sfociare in un credo individualistico e licenzioso è, per
Rawls, quello di forzare l’incontro tra
interesse personale e stabilità sociale
su un terreno dove l’etica di Stato
sembrerà essersi completamente neutralizzata: qui gli individui, adempiendo alla loro caratterizzazione morale,
chiederanno allo stato di erogare
quantità eque di beni principali, ed
esso soddisferà la richiesta senza entrare nel merito delle loro destinazioni
individuali. Rawls ha concepito la razionalità/moralità degli uomini come
capacita deliberativa, possibilità di elaborare piani di vita adeguati alle dotazioni di beni principali. Ma questo esercitarsi, spacciato per naturale, in
calcoli sull’ottima utilizzazione dei beni disponibili è il frutto di un’attitudine
indotta dal controllo delle passioni,
dall’etica della lungimiranza e del risparmio. Il controllo che ogni persona
è in grado di esercitare sulla propria
vita diventa garanzia di stabilità per lo
Stato erogatore inefficiente di prestazioni e servizi.
Lo statuto ambiguo delle
categorie in Una teoria
della giustizia
Ogni formazione storica produce e ha
prodotto sia beni materiali legati alla
sopravvivenza della specie, sia una
concezione del bene capace di mettere
in discussione il dato immediato della
sopravvivenza organica, cioè di chiedere ragione di un processo naturale e
di superarlo sia artificialmente che culturalmente.
Non interessano qui i modi in cui
storicamente si è determinato questo
processo di culturalizzazione che ha
riguardato le forme dell’agire degli
uomini tra loro e rispetto al mondo,
ma il suo senso più riposto che consiste in una separazione di piani, in una
contrapposizione di principi: da una
parte la natura con i ritmi ciclici dei
suoi meccanismi riproduttivi; dall’altra
la cultura, la sfera dell’azione libera,
dell’autonomia creatrice di senso nella
storia.
Sino all’avvento della modernità la
nozione di bene conservava la sua specificità nell’afferire ad un livello altro
rispetto a quello della vita naturale o
del bisogno che costruisce il mondo,
nella possibilità di mettere tra parentesi, come necessità, quel processo interminabile di produzione e soddisfacimento di bisogni, nella possibilità ancora di includere l’“evento” nella condizione umana. Ora, se Rawls può
trattare il “bene” e i “beni” come parole attinenti ad una stessa area semantica, ciò è sintomo che qualcosa di non
trascurabile è intervenuto a modificare
la comprensione che l’uomo per secoli
ha avuto dei suoi rapporti con il mondo. Se il bene è linguisticamente appiattito sui beni vuol dire che la separazione tra livello naturale di riproduzione della vita e conservazione della
specie, e livello culturale, politico e di
riflessione sulle forme possibili dello
scambio metabolico con la natura esterna è quanto meno molto assottigliato. Che Rawls abbia dunque ragione, che sia una pratica effettiva di vita
ad autorizzare la sovrapposizione dei
piani? Le cose non stanno così. Se è
vero che una confusione è resa possibile dalla pervasività del principio del
lavoro sociale, l’esistenza di due parole distinte non è però un fenomeno
di mera arcaicità linguistica: esse rimandano a categorie eterogenee.
Rawls nella sua opera offre un chiaro esempio di riduzione dell’agire poli-
John Rawls e la Stabilità della Società Ben Ordinata
tico all’agire sociale e trasferisce alla
dimensione sociale categorie come il
bene, la bontà, la giustizia che hanno
rinviato storicamente ad altro. La situazione è per certi versi paradossale:
da un lato uno spiccato realismo teorico e fors’anche politico ci vuol far intendere come di fatto sono andate le
cose, e cioè come il principio universale dell’organizzazione del lavoro abbia
prevalso sulle altre forme dell’agire
umano; dall’altro lato, dismettendo se
stesso come principio di legittimazione, si serve a questo scopo delle categorie sorte dalla sfera dell’azione libera, quando non dall’aperta ostilità nei
confronti del principio sociale. L’uso
generico delle categorie e il loro spessore semantico consentono a Rawls di
tradurre efficienze con giustizia, beni
con bene, capacità produttiva con facoltà morale prendendo sul serio queste traduzioni. Il principio sociale si
trova investito della forza di valori nati
altrove perché è offuscato il senso di
quell’altrove. L’uso non problematizzato delle categorie è autorizzato dall’ipotesi di una loro comprensione comune che, in quanto comune, ha dignità etica e pubblica. L’equivoco di
fondo è credere che per correggere il
principio sociale, percepito come insufficiente ad esaurire il senso di nozioni come giustizia e bene, basti mostrare che nella società c’è spazio per
opinioni condivise e per un senso comune opportunamente epurato da
pregiudizi, in grado di aggiungere all’autocoscienza sociale una patente di
eticità.
L’organizzazione capitalistica del lavoro fa assurgere alla dignità della sfe-
81
ra pubblica le forme di agire legate al
soddisfacimento dei bisogni, conferendo al principio sociale la capacità di
dar luogo morbidamente ad una sfera
di vita privata come sede del senso.
L’elemento che opera la mediazione
tra il mercato e la realizzazione del
senso è l’ideale della pianificazione, del
progetto di vita ottimale.
Forse che questa assunzione significhi altro che una fiducia cieca nelle
potenzialità del sapere tecnico? Il successo dei piani di vita individuali, razionalmente formulati, cui si affida il
compito dello sviluppo integrale della
persona, si fonda sulla presunta docilità ed illimitata disponibilità del sapere
tecnico. Ma il sapere tecnico in se stesso sfugge al controllo dei singoli poiché riproduce nel suo seno le dinamiche dell’incessante meccanismo riproduttivo naturale, perché è separato
dalla vita presa come un tutt’uno ed è
invece legato alla discontinuità temporale, al tempo scandito dalle operazioni parziali e parcellizzate del lavoro
quotidiano.
Non sembra azzardato sostenere
che ci troviamo di fronte ad uno dei
luoghi fondamentali del liberalismo
contemporaneo: l’ideologia delle risorse umane. L’illusione del progetto di
vita razionale e sensato, che fa dell’insuccesso una questione di demerito
personale, è la traduzione a livello individuale dell’impresa che valorizza il
lavoro e diventa “ambiente di vita”.
Non è un caso che la richiesta di moralità nelle democrazie a capitalismo
avanzato proceda parallelamente ad
una spietata concorrenza per i beni
posizionali scarsi, ad una forte crisi
1
DA VINCI, Leonardo, Ultima Cena
La prospettiva rawlsiana
richiama da vicino quell’"elogio dell’etica" di cui, sempre
in ambito di lingua inglese, ha
parlato Hirsch riflettendo sulla
necessità di un ritorno alla morale come unico antidoto proponibile contro i limiti oggettivi, sociali e materiali, dello sviluppo.
Cfr. HIRSCH, Fred, I limiti sociali
allo sviluppo, traduzione di Aleotti,
L., Milano, Bompiani, 1981.
82
GAGNO, Rosaria
economica e ad una sempre più spinta
tecnologizzazione del lavoro. Ideologia della pianificazione ed interpretazione sovrastrutturale della crisi avvicinano così Rawls ai teorici del funzionalismo sistemico.
Linguaggio dei diritti e soggettivizzazione del conflitto
1
Cfr. a questo proposito OFFE, Claus, “Iniziative popolari e riproduzione della forza
lavoro nel tardo capitalismo”, in
OFFE, Claus, Lo stato nel capitalismo maturo, traduzione di Zolo, D.,
Milano, Etas, 1977, pp. 205-218.
Alcuni interpreti hanno legato la fortuna dell’opera di Rawls al diffondersi,
tra i cultori di etica, della convinzione
dell’autonomia della giustizia rispetto
alla crescita del benessere, e perciò alla
convinzione che la prima possa farsi
carico degli interessi di soggetti che
chiedono di essere giuridicamente riconosciuti. In realtà però la stretta
convergenza tra filone orientativo dell’etica e linguaggio dei diritti – lungi
dall’essere una manifestazione dell’autonomia della giustizia dalla crescita
economica – diventa il simbolo dell’impossibilità per la prima di definire
un luogo di nascita dei diritti diverso
da quello della distribuzione dei beni.
É la natura delle richieste avanzate che
determina la qualità di un soggetto
come soggetto giuridico e, nella rawlsiana società ben ordinata, tutti i
soggetti sociali sono soggetto di diritto
in quanto tutti rivolgono alle istituzioni richieste formulabili in termini di
beni principali. Dietro alla definizione
dei beni principali non c’è un ideale
umano ma un modello di sviluppo che
collega la giustizia alla loro equa ripartizione. Certo ciò equivale al riconoscimento che l’equità della distribuzione non è il prodotto automatico della
crescita, ma non ha niente a che vedere con l’autonomia della giustizia come
luogo della ridefinizione di ciò che è
bene, di ciò che è bene produrre e come produrlo. L’autonomia qui significa semplicemente che i limiti dello sviluppo sono emersi come esclusione da
esso di soggetti che rivendicano il diritto a goderne e nello stesso tempo la
loro fede che detti limiti siano correggibili mediante interventi istituzionali
al suo interno. Su questo equivoco si
gioca la partita dell’adesione e del consenso. Il sistema si difende dal collasso
tentando di perfezionare la sua elasticità, cioè la capacità di rispondere di
volta in volta ai problemi sociali man
mano che i nodi si presentano al pettine. Il linguaggio dei diritti soggettivizza il conflitto sociale e trasforma la
debolezza potenziale del sistema, cioè
la sua carenza di autocomprensione, in
sua capacità di risposta.
Abbiamo visto prima come l’ideale
della pianificazione esponesse il singolo ad un insuccesso concettualizzabile
come destino individuale. Allo stesso
esito si approda traducendo il malessere sociale nella richiesta di diritti.
L’abitudine ad una fruizione individuale dei beni fa sbiadire il senso di
essa come parte della riproduzione
materiale della vita. Il consumo o l’uso
dei beni prodotti socialmente, inteso
come fatto privato, significativo per la
qualità di vita di un individuo e per i
suoi progetti, determina forme di protesta sociale che sfociano nella richiesta di beni e di servizi. Questa non è
semplicemente una forma di protesta
che si serve di vie legali: essa ha semplicemente interiorizzato l’individualismo come unica forma di produzione
e riproduzione della vita, come unica
possibile forma di consumo nonché di
titolarità delle rivendicazioni. Il malessere sociale è diventato patologia individuale presupponendo la moralità/
elasticità del sistema.
Senso comune come principio di legittimizzazione istituzionale e come strategia
di giustificazione dei principi
Si può pensare che teorie come quella
di Rawls traggano la loro forza persuasiva da un uso impudico del senso e
del linguaggio comuni; tuttavia tale
constatazione non sarebbe niente di
più che una critica aristocratica – anche piuttosto scontata – se non fosse
in grado di dimostrare che quel linguaggio e quel richiamo costanti al
John Rawls e la Stabilità della Società Ben Ordinata
senso comune, lungi dall’essere un
vezzo poco attraente, costituiscono il
canale privilegiato attraverso cui il liberalismo contemporaneo fa propria
l’utopia sociale dei nostri tempi: la vita
privata come luogo del senso. Rawls in
realtà compie un’operazione molto
raffinata nella misura in cui riesce a
fare del linguaggio comune il linguaggio di una teoria scientifica.
Per Rawls giustificare vuol dire fornire buone ragioni, e la migliore giustificazione cui un lavoro intellettuale
possa aspirare è la plausibilità del suo
insieme. Il significato principale della
posizione originaria in Una teoria della
giustizia è quelle di rendere possibile la
deduzione dei principi di un’etica pubblica a partire da scelte individuali. Sta
proprio qui l’aderenza della teoria all’abito argomentativo del ragionar comune. Non c’è dubbio che si è inclini ad
immaginare esattamente così l’imparzialità, come minimo comun denominatore di scelte individuali dal lato della domanda, come neutralità delle politiche istituzionali dal lato dell’offerta.
Questo concetto di imparzialità, che è
il frutto delle condizioni oggettive della produzione e riproduzione della vita
nella società reale, viene trasferito tal
quale da Rawls nella ipotetica situazione contrattuale mediante il velo d’ignoranza. Strategie di legittimazione e
rapporti di potere causano, nella società reale, la trasformazione del conflitto
MAESTRO DI MOULINS, Natività
in malessere individuale e fanno del
potere una questione di meriti soggettivi; velo d’ignoranza e scelta individuale riproducono la medesima frammentazione in posizione originaria.
Occorre aver presente il nesso tra
senso comune, ignoranza delle radici
della conflittualità sociale e senso della
vita come destino individuale. L’individuo in posizione originaria è ridotto
ad entità fondamentale del consumo,
ma c’è di più. Su questa riduzione poggiano la presunta neutralità del momento istituzionale, la possibilità per
esso di promuovere politiche di settore con relativo successo e i limitati
margini di autocorrezione concessi al
sistema.
Non si possono avere dubbi riguardo al fatto che il senso comune costituisce la struttura profonda della strategia rawlsiana di giustificazione dei
principi, dove il compito di verificare
la teoria spetta, in ultima istanza, alle
intuizioni di fondo che costituiscono il
senso di giustizia di un uomo maturo e
bene educato da istituzioni democratiche. Ed il senso comune non si annida
tanto nei contenuti dei giudizi ponderati, nell’ovvietà di un vocabolario che
giudica riprovevoli discriminazione
razziale e sessuale, intolleranza rispetto
alle altrui convinzioni religiose, politiche, filosofiche o che in un modo altrettanto certo ritiene giustamente fondata la pari dignità degli individui, il
83
84
valore della libertà e dell’autonomia
della persona, ma nell’astoricità di
quelle assunzioni, nella carenza di analisi che le sottende. Non sembra inverosimile sostenere allora che, sebbene
operi attraverso una categoria forte di
cittadinanza, identità personale e soggettività morale, Rawls si avvicini non
poco alle tesi relative alla contingenza
assoluta dell’esperienza umana che
pongono al centro della loro attenzione lo studio del particolare e delle tradizioni, facendone il perno di una rivalutazione etnocentrica dei valori di
appartenenza ad una determinata comunità storica.
Rawls e la giustizia
internazionale. Una
riflessione ulteriore
1
“Oggi gli stati/nazione, sia
intermini organizzativi che
di processo sociale, sono società
di gran lunga più partecipate di
qualsivoglia stato territoriale del
passato sul piano dell’istruzione,
dei mezzi di comunicazione, delle
comunicazioni materiali e della
espressione pubblica, tanto che si
può scorgere abbastanza facilmente la complicità fra poteri
statali e popolazioni soggette nel
determinare il luogo degli interessi che questi poteri devono rappresentare" (DUHN, John, La
teoria politica di fronte al futuro, traduzione di Berti, L., Milano, Feltrinelli, 1983, p. 134).
Razionalità individuale e conseguibilità
di un’equa ripartizione dei beni principali all’interno della società bene ordinata sono le vie della legittimazione
suggerite da Rawls alle moderne democrazie a capitalismo avanzato.
Chi nutrisse dubbi in proposito
potrebbe domandarsi come mai
Rawls, che pure ha impostato l’intero
impianto della sua opera avendo particolare riguardo per la nozione di giustizia distributiva, abbia trattato solo
marginalmente il tema dei rapporti tra
giustizia locale e giustizia globale. Il
motivo a nostro parere sta nel fatto
che le ragioni avanzate in favore dell’equità interna delle politiche distributive sono anche le ragioni di giustificazione e di costruzione del consenso
dello stato/nazione interventista. Proprio per questo non potrebbero essere
altrettanto efficaci sul piano internazionale. La via della conciliazione sociale domestica è percorribile sulla
scorta di convinzioni radicate nel senso comune: l’illusione della libera espansione delle volontà individuali e
l’appartenenza ad una comunità nazionale integrata. Ora, una politica redistributiva applicata a livello globale le
metterebbe in crisi entrambe: la prima
interferendo con le dotazioni di beni
principali spettanti a ciascun individuo; la seconda anteponendo l’interesse sovranazionale a quello comunitario.
La cultura occidentale è una cultura
cosmopolita, nelle sue vene scorre il
sangue di un’etica universalistica e i
suoi umori si animano intorno alla pari
dignità di ogni uomo e di ogni cultura,
e tuttavia essa non ha contribuito al
successo di alcun insieme sovranazionale politicamente rilevante. Il nazionalismo resta un sentimento di massa
molto forte che ha legami stretti con le
politiche distributive e con i cosiddetti
problemi di giustizia sostanziale.
certo Rawls in nessun luogo della sua
opera esterna simpatie comunitarie,
ma è pur vero che, mentre si premura
di eliminare ogni sentimento morale
dalla posizione originaria, lascia che la
nozione di cittadinanza come appartenenza ad uno stato autosufficiente faccia il suo gioco.
D’altra parte s’inganna chi ritiene
che il contrattualismo, come fondamento di una teoria della giustizia sociale, contenga le omeomerie della radicalizzazione che, spinte a manifestarsi liberamente, potrebbero addirittura
costituire gli elementi fondativi di una
nuova teoria dell’ordine mondiale giusto. In realtà il contrattualismo o è la
veste ideologica di una prassi politica
già sperimentata oppure non può che
tacere. Il contrattualismo, poiché azzera la funzione sociale del sapere, può
produrre esclusivamente utopie sociali
praticabili – cioè già praticate.
CHAGALL, Marc, Soldato che Beve
85
Giuseppe Perfetto
L’Espressione Ideologica del Consenso
alla Schiavitù nel Pensiero Cristiano e
Liberale. Una Lettura del Lavoro di Domenico Losurdo
In vari luoghi della sua opera di ricercatore, il Professor Domenico Losurdo ha condotto una serrata analisi
sulla giustificazione ideologica dell’istituto della schiavitù nella tradizione
cristiano/liberale – un momento della
cultura occidentale assai spesso rimosso ed anche occultato dalla cultura
ufficiale. In questa sua linea di ricerca
Losurdo è andato evidenziando come
Nietzsche, pensatore che passa per
critico radicale del moderno pensiero
cristiano/liberale, può invece essere
tranquillamente letto come la massima
espressione proprio di quel pensiero,
smussato dai falsi moralismi e da determinate mistificazioni ideologiche.
In altri termini, Nietzsche rappresenterebbe un “liberale estremista” che
considera l’istituto della schiavitù in
modo più spregiudicato e duro, privandolo delle tradizionali trasfigurazioni ideologiche.
Nelle sue analisi, infatti, Losurdo
sovverte le convinzioni della storiografia ufficiale, secondo cui la storia del
liberalismo coinciderebbe con la storia
della libertà ed il cristianesimo avrebbe
comportato inevitabilmente, con il suo
avvento, la soppressione dell’istituto
della schiavitù. Tutta la tradizione cristiano/liberale, in piena continuità con
la corrente principale di pensiero dell’antichità classica, ha quasi unanimemente teorizzato una giustificazione
della schiavitù come momento necessario per il progresso storico e per lo
sviluppo della civiltà, neutralizzando e
in certi casi obliando la potenziale carica eversiva del cristianesimo in nome
di una libertà in interiore homine, ricor-
rendo inoltre al peccato originale come colpa che avrebbe distrutto la originaria libertà degli uomini e legittimato la schiavitù.
Ripercorrendo le tappe del pensiero liberale, partendo da Grozio, padre
spirituale di tale corrente, Losurdo
mostra come quest’ultimo giustifichi la
schiavitù facendo uso sia del vecchio
testamento che della tradizione greco/
classica: nel De Jure Legis ac Pacis, infatti, la schiavitù viene sussunta sotto la
forma di un “contratto” stipulato tra il
lavoratore che si impegna ad erogare
forza/lavoro per un “determinato”
periodo di tempo (coincidente con la
sua intera vita), ed il padrone, che in
cambio gli procura gli elementi per la
sopravvivenza materiale. “Contratto”
questo che può anche essere il risultato del diritto di guerra, dove il vincitore
piuttosto che togliere la vita al vinto
scambia quest’ultima con l’assoggettamento vita natural durante. Quest’ultimo tipo di contratto, secondo Grozio,
si realizzerebbe in particolare nelle
guerre coloniali perché in quei paesi
l’istituto della schiavitù sarebbe ancora
in uso.
Locke, dal canto suo, dichiara sostenibile la schiavitù nelle colonie per
fini umanitari, ritenendola un mezzo
necessario per poter civilizzare le popolazioni extraeuropee; rifiuta però la
concezione contrattualistica groziana
della schiavitù che, a suo avviso, rischierebbe di giustificare l’introduzione di tale istituto anche nei paesi europei. Ma in Locke, così come poi in
Nietzsche, la civiltà è il frutto delle
fatiche anonime della maggioranza
1
Faremo qui riferimento in
particolare al ciclo seminariale “Il filosofo e la schiavitù.
Lavoro salariato e lavoro servile
nel pensiero moderno”, svoltosi
a Napoli dal 21 al 25 novembre
1992 presso la sede dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, e
all’intervento “Nietzsche, il moderno e la tradizione liberale” al
convegno “Metamorfosi del moderno”, svoltosi a Cattolica dal
18 al 20 1986. Una sintesi del
seminario dal titolo “Il filosofo e
la schiavitù”, a cura di PERFETTO, Pino, è su Informazione Filosofica, n. 11, pp. 56/57. Per l’intervento su Nietzsche, si vedano gli
Atti del Convegno “Paradossi del
moderno”, Urbino, QuattroVenti, 1988, pp. 115140.
2
É celebre, a puro titolo di
esempio, la tesi aristotelica
secondo cui vi sarebbero uomini
per natura incapaci di autogovernarsi e quindi bisognosi di un
padrone che li guidi; altrettanto
celebre l’altra sua tesi secondo la
quale il lavoro manuale sarebbe
sinonimo di condizione servile.
Per questa ragione Grozio
3
considera “giuste”, ovvero
improntate alla giustizia formale,
la conduzione di tali guerre.
86
1
LOCKE, John, Saggio sull’Intelletto Umano, traduzione italiana a cura di ABBAGNANO,
Nicola, Torino, 1971, 148.
2
Cfr. su questo punto LOSURDO, Domenico, “Nietzsche, il moderno e la tradizione
liberale”, op. cit., pp. 1201-21.
PERFETTO, Giuseppe
degli uomini, costretta a lavorare e che
per tale motivo è incapace di sollevare
i suoi pensieri al di sopra della bruta
materialità. Pertanto egli afferma nel
Saggio sull’Intelletto Umano che “non ci si
può aspettare che un uomo che sgobba tutta la vita in un mestiere faticoso
conosca la varietà delle cose che ci
sono al mondo più che un cavallo da
soma, che è portato avanti e indietro
dal mercati per un sentiero ristretto ed
una strada sporca, possa essere esperto
della geografia del paese.”
Ciò che emerge dal pensiero di
questi autori, al pari del pensiero politico dell’antichità classica, è la mancanza di una concezione universalistica
dell’uomo. Tale mancanza conduce al
culto di una pseudouniversalità falsa e
mistificatoria, dove la maggioranza
degli uomini ha diritto di vivere solo
per realizzare un “Utile Collettivo” dal
quale, però, per definizione sono esclusi e ne costituiscono solo le vittime
sacrificali.
La mancanza di una concezione
universalistica dell’uomo, fa notare
Losurdo, è presente anche in una delle
poche voci antischiavistiche del pensiero liberale inglese del Settecento,
Adam Smith. Questi difatti argomenta
la sua condanna con ragionamenti meramente economicistici: il rapporto di
lavoro servile è un rapporto fondamentalmente improduttivo, poiché lo
schiavo deve essere mantenuto per
tutta la vita e per di più produce poco
a causa della mancanza d’incentivi.
Esso continua ad esistere, e qui Smith
ricorre ad una spiegazione psicologistica, solo in virtù dell’irrazionale sete di
potere del padrone.
Nell’Illuminismo le considerazioni
sulla schiavitù vengono influenzate
dalle diverse realtà politiche presenti
nei differenti paesi europei. Si assiste
difatti in Inghilterra alla difesa massiccia della tratta dei negri condotta da
questo stesso paese, mentre in Francia
il dibattito politico è assai più vivace e
conflittuale. In questo clima di scontro
politico la posizione di Montesquieu si
attesta su posizioni moderate, e le sue
considerazioni sull’istituto della schia-
vitù presentano delle palesi contraddizioni: da una parte egli sembra condannare la schiavitù sottoponendo a
critica spietata tutte le tradizionali giustificazioni, dall’altro però sostiene che
in certi paesi, dove il clima è torrido, la
disciplina del lavoro può essere mantenuta solo facendo ricorso all’assoggettamento servile. Sicché, se analizziamo
il problema alla luce della ragione, la
schiavitù è senz'altro da condannare
ed abolire, ma se ricorriamo alla
“ragione naturale” bisogna accettarne
l’esistenza come dato di fatto irrimediabile. Le tesi di Montesquieu non si
distaccano quindi sostanzialmente da
quelle degli illuministi inglesi, ma in lui
è presente un ideologico pathos dei diritti dell'uomo che si manifesta attraverso una sorta di autocritica dell’Europa considerata responsabile delle
sterminio di indios e negri.
Paradossalmente le voci di condanna dell’istituto della schiavitù ci giungono da teorici dell’assolutismo monarchico come Bodin ed Hobbes, i
quali scardinano le giustificazioni contrattualistiche proposte dai liberali. Per
quanto riguarda il diritto di guerra, Bodin sostiene che la donazione della vita
da parte del vincitore non costituisce
affatto un atto di generosità, bensì un
puro calcolo basato esclusivamente
sull’interesse personale. Inoltre egli
evidenzia la mancanza di una concezione universalistica dell’uomo nell’in-
VECELLIO, Tiziano, Allocuzione di Alfonso d’
Avalos
87
L’Espressione del Consenso alla Schiavitù...
terpretazione del cristianesimo da parte della tradizione cristiano/liberale,
mostrando l’inconciliabilità tra predicazione evangelica e istituto della
schiavitù. Le tre grandi religioni monoteistiche hanno tagliato a metà la
legge di Dio, interpretando la tesi che
non bisogna fare prigionieri nell’ambito del proprio popolo in chiave etnocentrica piuttosto che universalistica.
Il punto di partenza di Hobbes è simile a quello di Grozio e di Locke, ma
egli non utilizza le trasfigurazioni ideologiche di questi ultimi per quanto riguarda l’istituto della schiavitù. Infatti,
mentre Grozio e Locke si richiamavano alla tradizione greco/classica per
sostenere che esistono uomini schiavi
“per natura”, Hobbes ritiene al contrario che, “per natura”, tutti gli uomini
sono uguali: dunque, se si vuole trovare la causa della disuguaglianza e della
stessa schiavitù, non bisogna ricorrere
a spiegazioni pseudonaturalistiche ma
fare appello alla dinamica sociale e storica. L’istituto della schiavitù, per
Hobbes, è pertanto un rapporto fondato esclusivamente sulla diversa forza
del padrone da una parte e dello schiavo dall’altra, e si configura pertanto
come frutto diretto ed anzi continuazione dello stato di guerra.
L’analisi di Losurdo porta poi questi a riflettere sul fatto che la realizzazione del consenso alla schiavitù nell’età tardo moderna e contemporanea
necessitava della liberazione dal sentimento della compassione, che continuava
a serpeggiare fra alcuni uomini delle
classi agiate. Accade così che all’interno della tradizione liberale inizia a
configurarsi, con Mandeville, un’esplicita condanna del sentimento della
compassione, vista come un’imperdonabile debolezza da bandire senz’altro
se si vuol proseguire secondo le inesorabili leggi generali della civiltà. Sentimento d’altronde tanto più pericoloso
in quanto genera come suo contraltare
il sentimento dell’invidia e del risentimento nelle classi più povere, le quali
tendono così a rivendicare l’uguaglianza e le libertà sociali. Man mano che le
masse popolari entrano nella vita poli-
tica e sociale rivendicando un ruolo da
comprimari, il pensiero liberale moderno erige delle barriere ideologiche
condannando con sempre più forza
tali rivendicazioni come “invidia” e
“risentimento”. Ne La Democrazia in
America, Tocqueville si scaglia contro il
“gusto depravato per l’uguaglianza che
porta i deboli a voler degradare i forti
al loro livello e che riduce gli uomini a
preferire l’uguaglianza nella schiavitù
alla disuguaglianza nella libertà.”
Solo in Rousseau, non a caso definito da Nietzsche come “uomo del
risentimento plebeo”, si trovano parole di fuoco contro la schiavitù e la povertà delle classi popolari. Egli sostiene che la tesi secondo la quale il colonialismo è indispensabile per la civilizzazione e la felicità dei popoli extraeuropei è un’ipocrisia che riveste ideologicamente interessi economici, così
come è altrettanto ipocrita sostenere
che le classi povere europee devono
rimanere tali in quanto abituate a tal
punto a vivere nella povertà da esserne
addirittura felici. Il ricco, afferma
Rousseau, “vede senza pietà quegli
infelici, oppressi da un lavoro incessante, ricavare a stento un pane secco
e nero che serve a prolungare la loro
miseria. Non trova strano che il prodotto sia in ragione inversa del lavoro,
e che un fannullone spietato e voluttuoso si ingrassi del sudore di un milione di miserabili stremati dalla fatica
e dal bisogno. É la loro condizione,
egli dice, vi sono nati, l’abitudine fa
tutto uguale e io non sono più felice,
sotto i miei ricchi soffitti, che un bovaro nella sua capanna, né, dovrebbe
aggiungere, il bue nella sua stalla.”
Ciò che viene denunciato con forza da
Rousseau, con il riferimento al bue, è
che il ricco non sussume sotto la categoria di uomo il povero ma lo riduce
alla pura funzione animale della prestazione del lavoro.
Un ulteriore
elemento nuovo delle componenti più
radicali dell’Illuminismo francese è,
infine, l’appello che viene lanciato agli
schiavi perché essi stessi si liberino da
questo indegno sopruso agendo in
prima persona.
1
TOCQUEVILLE, Alexis de,
La Democrazia in America,
traduzione italiana a cura di
MATTEUCCI, N., in TOCQUEVILLE, Alexais de, Opere politiche,
Torino, 1968, vol. II, p. 74.
2
ROUSSEAU, Jean-Jacques,
“Discorso sulla ricchezza”,
riportato in appendice a FETSCHER, Irving, La filosofia politica
di Rousseau, Milano, 1968, p. 272.
Da questo punto di vista,
3
potrebbe risultare significativa
la terminologia della riflessione
nietzscheana (l’“uomo del gregge”).
L’antischiavismo inglese in4
vece si limita solitamente a
rivolgere appelli alle classi dominanti affinché esse si “illuminino” e procedano a riforme nei
confronti delle masse popolari.
88
Uno degli ultimi pensatori che agisce e riflette in un periodo in cui la
schiavitù esisteva ancora come concreto istituto politico/sociale nell’ambito
della società occidentale è Nietzsche, e
la riflessione di Losurdo su quest’autore è di notevole interesse. Nietzsche,
difatti, conduce un accostamento tra
schiavitù nera e lavoro salariato, affermando che la continuità tra queste due
forme di schiavitù mostra l’inseparabilità tra istituto della schiavitù e sviluppo della civiltà. Egli a giudizio di Losurdo prosegue la corrente nominalistica della filosofia moderna, ancora
lungi da un concetto universale di uomo, leggendo in maniera assai spregiudicata e dura l’importazione massiccia
in Occidente delle popolazione Asiatiche ed Africane schiavizzate e sostenendo, in più occasioni, che la marcia
della civiltà assomiglia a quella di una
carro trionfale – cui sono aggiogati gli
schiavi catturati.
In un solo punto Nietzsche pare
divergere dalla tradizione cristiano/
liberale, e ciò accade notoriamente per
quanto riguarda le considerazioni sul
cristianesimo, ritenuto la religione del
risentimento, dell’odio, della vendetta
dei mal riusciti contro le classi ricche.
Tale rancore presente nel cristianesimo viene perpetuato, a suo giudizio,
da quelli che definisce gli “intellettuali
plebei”. In quest’ottica è interessante
notare la convergenza della sua critica
di Rousseau con quella di molti esponenti liberali: il ginevrino, “l’uomo del
risentimento plebeo”, avrebbe avuto la
colpa d’aver distrutto la salutare innocenza dello schiavo, aumentandone le
sofferenze ed eliminando la “serenità”
con cui essi erano attaccati – in un mitico ed ideologicamente richiamo al
passato – al carro della civiltà.
Come crediamo risulti evidente, la
riflessione di Domenico Losurdo
giunge a portare alla luce come non ci
sia stato istituto sociale inegualitario
che, per quanto oggi possa essere disprezzato ad ogni pie’ sospinto, non
abbia trovato ieri la sua corte di estimatori e giustificatori. E, volendo, l’oblio che circonda oggi queste posizioni
è a sua volta un fondamentale meccanismo ideologico consensuale, teso a presentare la teoria politica liberale, alla base
delle attuali forme politiche planetarie,
come un inno senza macchia alla libertà politica e magari sociale.
RUBENS, Pieter Paul, La Trinità Adorata dalla Famiglia Gonzaga
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