Presenza dei Classici nella Vita Nuova. Gli Echi classici nella Vita Nova
Il presente lavoro è un punto di partenza per l'approccio alla Vita Nuova di un qualunque classicista. Sfruttando il ricco apparato critico dell'edizione Einaudi abbiamo ripreso e approfondito tutti quei luoghi in cui è possibile riscontrare la presenza di un autore classico. In quanto approfondimento dell'opera del curatore della Einaudi, prof. Guglielmo Gorni, ci siamo limitati a una semplice schedatura in chiave classicista della scrittura dantesca.
“La Vita Nova, in sostanza, è la storia della lirica di Dante riportata a occasioni storiche e miti ispiratori che a quelle occasioni conferiscono pienezza di senso.”1 Intento di quest'opera sarà quello di sottolineare i passi e gli aspetti da cui traspare una presenza del panorama classico greco­romano.
1. [V. N. I,1]
In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo le parole le quali è mio intendimento d'asemplare in questo libello, e se non tutte almeno la loro sentenzia. [V. N. I,1]
Il proemio dell'opera ha un importanza per l'intera concezione del componimento, infatti si dichiara l'importanza della memoria come fondamento dell'intera struttura. Sin dall'inizio si stabilisce una grande intimità tra poeta e la propria interiorità più profonda quale è appunto la memoria. E' al di dentro della propria memoria che Dante trova la sua Vita Nova e decide di riproporre ciò che vi trova scritto in “questo libello”. Proprio sin dall'esordio stesso Dante intende prospettare al lettore un'idea attraverso la quale traspare evidentemente una presenza classica. Dante riversa il contenuto della 1 Dante, Vita nova a cura di Guglielmo Gorni, Einaudi, Torino 1996; p. XXXI
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propria memoria in un “libello”.
Libello è chiaramente un termine utilizzato con evidente riferimento al mondo classico. Il termine Libellus è nella prosa e nella poesia latine già in età classica, oltre a essere presente in Catullo ignoto al toscano Cui dono lepidum novum libellum/arida modo pumice expolitum? (Trad.: A chi donare il grazioso, nuovo libretto/ che l'aspra pomice ha appena levigato?) casualmente posto anch'esso ad inizio d'opera, in testi certo noti a Dante come l'Orazio satiro, Giovenale quidquid agunt homines, uotum, timor, ira, uoluptas,/ gaudia, discursus, nostri farrago libelli est. (Trad.:Tutto quanto fanno male gli uomini ­voto, paura, ira piacere fisico, gioie sfrenate, vagolare qua e là­ costituisce infatti... il pastone del nostro libretto)2; iamque uetus Graecos seruabat cista libellos/ et diuina opici rodebant carmina mures (Trad.: inoltre, una cesta già vecchia conservava libretti greci, e le... divine poesie le rodevano topi ignoranti.)3 ; l'esordio degli ovidiani Remdia amoris “Legerat huius Amor titulum nomenque libelli: / 'Bella mihi, video, bella parantur' ait.” (Trad.: Amore, poi che lesse il titolo del mio piccolo libro:/ "Contro di me, lo vedo, ­disse,­ si fa la guerra")4.
Catullo non poteva essere conosciuto da Dante mentre letture probabili possono essere state quelle di Orazio, Giovnale e Ovidio.
“Virgilio era la letteratura ufficiale del Medioevo, ma “tutti” continuavano a leggere Ovidio. Dante riconosce il suo debito verso Virgilio (avendo apprezzato il meglio di lui), ma l'effetto diretto e indiretto di Ovidio sulla scrittura di Dante è forse più grande di quello di Virgilio”5 Il Valore del Libello sarà quindi un valore formale, legato quindi più agli aspetti stilistici che contenutistici dell'opera dantesca. 2. [V. N. I, 5]
In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora nella secretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, 2 Giovenale, Satira I 85­86
3 Giovenale Satira III 206­207
4 Rem. I, 1­2
5 Ezra Pound, Aforismi e detti memorabili, a cura di G. Singh, Newton, Roma 1993; [ABC. 45] p. 68
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che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!”
Successivamente al proemio Dante racconta la prima apparizione di Beatrice, all'età di nove anni. Racconta come l'ha vista vestita di colore rosso e descrive quale è la reazione del proprio animo. Per descrivere le reazioni dell'animo Dante richiama una situazione presente già nel poeta a lui esemplare: Virgilio, punto di riferimento per tutto il medioevo. Si ricordi l'esclamazione della Sibilla, che subisce proprio tre trasformazioni in Aen, VI, 46 “deus, ecce, deus”: “Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum,/ quo lati ducunt aditus centum, ostia centum,/ unde ruunt totidem voces, responsa Sibyllae./ Ventum erat ad limen, cum virgo “Poscere fata/ tempus” ait “deus, ecce, deus!” (Trad.: L'immenso fianco della rupe euboica s'apre in un antro:/ vi conducono cento ampi passaggi, cento porte;/ di lì erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla./ Giunsero alla soglia quando la vergine: “E' tempo/ di chiedere i fati” disse; “il dio, ecco il dio!”.)6 Siamo ancora nei primi paragrafi del componimento, quando sceglie di rappresentare le prime apparizioni “sacre” facendo riferimento agli spiriti del proprio animo che al cospetto dei Beatrice si sento conquistati da Amore. Possiamo affermare comunque che gli spiriti nella dimensione creativa dantesca parlano latino, la lingua universale, e quindi trattandosi di funzioni di tutti gli uomini, la lingua classica svolge in questo caso un ruolo universalizzante.
3. [V. N. I, 9]
Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l'andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: “Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di Dio” 6Aen, VI 42­46
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Dopo aver descritto il primo assoggettamento del proprio animo ad Amore adottando immagini provenienti dall'innografia religiosa (“Apparuit iam beatitudo vestra!” oppure “heu, miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!”) Dante sceglie di adottare immagini o citazioni del mondo classico non per introdurre immagini del mondo spirituale ma per far comprende la grandezza delle più importanti immagini umane. Cita da Omero l'immagine secondo lui adottata per descrivere Elena di Troia, la donna più bella dell'antichità. Sceglie le dolcissime parole che impiega il più grande tra i poeti, che Dante collocherà poi come supremo nella schiera dei poeti all'inferno. Se Virgilio è citato per raccontare la sfera spirituale, Omero per descrivere la realtà umana per un luogo comune dell'antichità classica.
Il brano a cui fa riferimento il Poeta è: Ahime infelicissimo, che ho dato la vita a nobili figli/ nella vasta Troia, e non mi è rimasto nessuno,/ Non Mestore simile a un dio, né Troilo abile nel guidare cavalli,/ né Ettore che era come un dio tra gli uomini, e non pareva figlio di un uomo mortale, bensì di un dio.7 La citazione dantesca nell'originale quindi non è attribuita a Elena bensì a Ettore. La voce parlante è quella di Priamo che rimpiange il figlio morto. Su tutti è il rimpianto di Ettore a dominare, la sua figura quasi divina, come la ricorda Priamo aggiungendo il proprio orgoglio di genitore a quello di Ecuba ­XXII, 434 sg.­ e alla constatazione di Achille ­XXII, 394­.
E' un riferimento all'Iliade che però era ignota a Dante . La fonte più probabile in base agli studi svolti dal Marigo, è De intellectu et intelligibili di Alberto Magno.
4. [V. N. I, 14]
E pensando di lei, mi sopraggiunse uno soave sonno, nel quale m'apparve una maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura d'uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse;
Più in generale possiamo considerare l'intento dantesco di rifugiarsi nei classici come 7 Il XXIV, 255­259 Traduzione di Guido Paduano
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l'esigenza stilistica di saldi punti di riferimento. In tutta la produzione del fiorentino e in particolare nella Vita Nova, possiamo individuare l'influenza degli inni sacri. Ma in queste righe si può denotare anche una sorta di sperimentalismo nell'osare la via dei classici. All'età di diciotto anni a Dante appare la seconda visione di Beatrice, e la prima visione diretta di Amore che signoreggia. Dopo aver visto Beatrice di cui per la prima volta ne ha sentito la voce si sofferma a pensare . E' in questo pensiero che compare la “maravigliosa visione” (visione che induceva a meraviglia).
La visione che induceva a meraviglia è la prima delle tre, chiaramente definite, che si incontrano in quest'opera. Tutte le circostanze che si ripropongono, il tempo notturno in cui si verifica, elementi quali il pianto e il colore sanguigno del drappo e della nuvola, il modello che si può individuare è il sogno fatto da Enea di Ettore morto, narrato in Aen II 268­302. Riportiamo l'inizio della visione:
Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris/ incipit et dono divom gratissima srpit:/ in somnis ecce ante oculos maestissimun Hector/ visus adesse mihi largosque effubdere fletus,/ raptatus bigis ut quondam aterque cruento/ pulvere perque pedes traiectus lora tumentis. (Era il momento nel quale comincia agli affranti mortali/ il primo riposo e s'insinua gratissimo per dono degli dei;/ ed ecco, in sogno, mi sembra di vedere/ davanti agli occhi Ettore angosciato versare largo pianto,/ com'era nel giorno in cui lo trascinava la biga/ nero di polvere cruenta e trafitti dalle redini i piedi enfiati)8. Il clima che viene creato dal poeta sia per il dramma e gli stati d'animo che per l'importanza dei personaggi si mette in forte relazione con l'ambiente che Dante vuole ricreare.
5. [V. N. I, 18­19]
Appresso ciò poco dimorava che la sua letitia si convertia in amarisimo pianto; e così piangendo si ricogliea questa donna nelle sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo. Onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e 8 Aen II 268­273
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fui disvegliato. E immantamente cominciai a pensare, e trovai che l'ora nella quale era m'era questa visione apparita era stata la quarta della notte, sì che appare manifestatamente ch'ella fue la prima ora delle nove ultime ore della nocte.
Conclusasi la prima visione, Dante si desta e tornato alla realtà si accorge dell'ora in cui si trova. Questa scelta, riguardante l'ora è dettata dalla concezione del tempo nel mondo classico che Dante conosce attraverso Orazio e Ovidio. La dimensione viene ripresa da modelli classici e non è riproposta esclusivamente per rappresentare una dimensione umana: per descrivere uno stato più o meno puro, più o meno spirituale a dispetto di tutto il resto della narrazione. Là dove vuole ricorrere a una teoria del rapporto tra amore e tempo Dante si rifà sempre alla concezione già adottata da Orazio e Ovidio.
atque ego cum graecos facerem, natus mare citra,/ versiculos, vetuit me tali voce Quirinus/ post mediam noctem visus, cum somnia vera:/ 'in silvam non ligna feras insanius ac si/ magnas Graecorum malis inplere catervas. (E c'è di più: m'ero messo ­io nato al di qua del mare­ a comporre/ versi greci. Mi vietò di proseguire Quirino, apparsomi/ dopo mezzanotte, quando i sogni sono veritieri, dicendomi così ­Se decidessi d'infoltire le già fitte schiere dei Greci letterati,/ faresti una follia: come portare legna al bosco­)9; che poteva fondarsi su Ovidio: nec minus hesternae confundor imagine noctis,/ quamvis est sacris illa piata meis./ namque sub aurora iam dormitante lucerna/ somnia quo cerni tempore vera solent,/ stamina de digitis cecidere sopore remissis/ collaque pulvino nostra ferenda dedi. Era quasi l'aurora, sonnecchiava la lampada,/ era l'ora che porta i veridici sogni/ e mi cadde lo stame dalle dita che il sonno/ impigriva e posai il capo sul guanciale.10
Probabilmente si intende tra le ventuno e le ventidue, nella partizione moderna del giorno: prima di mezzanotte, che è l'ora dopo cui nascono i “somnia vera” I riferimenti temporali sono quindi adottati anch'essi dal retroterra culturale classico.
9 Orazio, Serm I X, 33
10 Her XIX 193­198
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6. [V. N. II, 1]
A questo sonetto fu risposto da molti, e di diverse sententie: tra li quali fu risponditore quelli cui io chiamo primo delli miei amici, e disse allora un sonetto, lo quale comincia Vedesti, al mio parere, omne valore. E questo fu quasi lo principio dell'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Alla chiusura del primo capitolo Dante racconta come aveva composto un sonetto nel quale raccontava l'apparizione d'Amore e chiedeva consiglio agli amici su come comportarsi. Nell'inizio del secondo capitolo parla di colui che per primo ha risposto all'appello. Oltre alla concezione di una dimensione spirituale, di una dimensione umana, e di una dimensione temporale Dante ricorre a immagini classiche anche per cercare di comprendere le realtà di amicizia esistenti nella cerchia tra gli stilnovisti. In tutta la Vita Nova Dante rende partecipi i suoi amici della propria interiorità. Il senso per cui proprio nel proemio si dichiara di voler mettere nel “libello” ciò che giace nel profondo della memoria significa che il Poeta vuole rendere partecipi i suoi amici dei propri affetti. Questa intera concezione viene a Dante dalla lettura del De Amicitia” di Cicerone. Come afferma Contini: “l'amicizia è l'elemento patetico definitorio dello stil novo” si confronti con:
“Ut igitur et monere et moneri proprium est verae amicitiae et alterum libere facere, non aspere, alterum patienter accipere, non repugnanter, sic habendum est nullam in amicitiis pestem esse maiorem quam adulationem, blanditiam, assentationem; quamvis enim multis nominibus est hoc vitium notandum levium hominum atque fallacium ad voluntatem loquentium omnia, nihil ad veritatem.” (Trad.: Come dunque è proprio della vera amicizia ammonire ed essere ammoniti; e l'una cosa fare francamente, non aspramente, l'altra accoglierla pazientemente, non dispettosamente; così si deve ritenere che non c'è peste maggiore nelle amicizie che l'adulazione, la cortigianeria, la piageria. Chiamalo con quanti nomi vuoi; si deve bollare questo vizio di uomini leggeri 7
e ingannevoli, che dicono ogni cosa per il piacere altrui, niente per verità.)11. In ogni momento la concezione dell'amicizia tra stilnovisiti è sincera, luogo di dibattito verace per il confronto e conforto.
L'amico è Cavalcanti, espressione che si ripete più volte nell'opera. Fonte della densa espressione sarà Orazio Carm. II VII 5 “Pompei, meorum prime sodalium”
O saepe mecum tempus in ultimum/ deducte Bruto militiae duce,/ quis te redonavit Quiritem/ dis patriis Italoque caelo,/ Pompei, meorum prime sodalium,/ cum quo morantem saepe diem mero/ fregi, coronatus nitentis/ malobathro Syrio capillos? (Trad.: Tante volte con me vicino a morte/ quando era Bruto il nostro generale/ Pompeo, il primo degli amici veri,/ ritorni cittadino, non so come,/ agli Dei dei padri e al cielo d'Italia?)12.
7. [V. N. III, 4]
Piangete, amanti, poi che piange Amore
Come nell'esordio dell'opera così lungo la redazione di diverse poesie appaiono degli echi catulliani di cui però è difficile ricostruire la fonte che abbia potuto riproporre Catullo a Dante se pur per via indiretta. Alla presenza della donna schermo tien dietro, senza soluzione di continuità la scomparsa di una compagna di Beatrice. Una vista della defunta introduce la prima scena collettiva del libro. Cosi per il dolore il Poeta è mosso al pianto analogo al dolore catulliano per la sofferenza di Clodia.
E' soltanto il Casini a produrre il catulliano “Lugete, o Veneres cupidinesque” di riscoperta più tarda e posteriore a Dante
8. [V. N. V, 1­2]
E acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini della 11 Cicerone De amicitia 91 Traduzione di Carlo Saggio
12 Orazio, Carmen II VII 5 Traduzione di Mandruzzato
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cortesia: onde molte fiate mi pensava duramente. E per questa cagione, cioè di questa soverchievole boce che parea che mi infamasse vitiosamente, quella gentilissima, la quale fu distruggitrice di tutti li vitii e regina delle vertudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, nel quale stava tutta la mea beatitudine.
Al cap. V della V. N. Dante ricorre a espressioni virgiliane per descrivere il distacco che si è creato tra la donna amata e il discepolo d'amore.
Successivamente l'apparizione in chiesa di Beatrice e l'altra apparizione al seguito da cui nasce l'idea in Dante della donna schermo (donna su cui proiettare le lodi), si verifica la morte di una donna gentile e il viaggio in una città vicina alla ricerca della donna schermo. Sulla via del ritorno incontra Amore che gli prospetta una nuova donna schermo. Una volta tornato Dante si mette alla ricerca della donna promessa, ma incontrata non ricambia il saluto.
Soverchievole voce, sembra richiamare in versione addomesticata, e in tono minore, la formula virgiliana “it per urbes” (Aen,IV 173) a propagare le iniziative di Enea. “Extemplo Libyae magnas it Fama per urbes,/ Fama, malum quo non aliut velocius ullum:/ mobilitate viget virisque adquirit eundo;/ parva metu primo, mox sese attollit in auras/ ingrediturque solo et caput inter nubila condit.” (Subito va la fama per le grandi città della Libia,/ la Fama, fulminea fra tutti i maiali; possiede/ vigore di movimento, e acquista forze con l'andare;/ dapprima piccola e timorosa; poi si solleva nell'aria, e avanza sul suolo, e cela il capo tra le nubi.)13. La forza della voce che invadeva ogni parte alla partenza di Enea da Didone. Per descrivere la vacuità Dante ricorre a un ambientazione analoga alla rarefazione bucolica tipica virgiliana. E successivamente a questa sua vacuità virgiliana il poeta si può rinchiudere nel suo secretum dove poter ragionar d'Amore.
13 Aen IV 173­177
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9. [V. N. VI, 4]
“lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: “Nomina sunt consequentia rerum””
Tra i ragionamenti sul significato della signoria d'Amore, se essa sia buona o cattiva e su come sia dolce ascoltare il nome d'amore. Dante per dar forza ai propri ragionamenti fa riferimento alla consolidata tradizione giuridica romana. La tradizione romana è sempre concepita per il suo grande spessore sul piano giuridico e per tutto il medioevo è stata un profondo nodo di riflessione . Basti pensare a tutto il ruolo che nel XIII secolo assume la concezione dell'impero.
Tale Glossa in particolare appartiene al Corpus iuris civilis di Giustiniano, codice che riassumeva tutte le leggi romane sia della repubblica che dell'impero. Si consideri che il Corpus iuris civilis è rimasto in vigore in alcune regioni europee fino al secolo scorso.
10. [V. N. X, 23]
Degli occhi suoi, come ch'ella li mova / escono spiriti d'amore inflammati,/ che féron gli occhi a qual che allor la guati, / e passan sì che 'l cor ciascun ritrova. / Voi vedete Amor pinto nel viso, / là ove non pote alcun mirarla fiso.
Nel decimo capitolo all'interno della celebre ballata “Donne ch'avete intellecto d'amore” in cui dichiara la sua concezione d'amore (Ancor l'à Dio per maggior gratia dato / che non po' mal finir chi l'à parlato. / Dice di lei Amor: “Cosa mortale / come esser può sì adorna e sì pura?”. Per decodificare la dimensione di questa realtà amorosa Dante ricorre anche più in generale all'immagine della medusa, tratta dalla mitologia classica. L'immagine scelta per raffigurare la forza d'Amore che trabocca al di fuori dal suo sguardo è chiaramente tratta dall'immaginario della mitologia classica. Beatrice appare qui come una Medusa che impietra con lo sguardo. Nella produzione lirica 10
dantesca richiama evidentemente le rime petrose e il concetto di donna pietra. Questi elementi mettono in evidenza come la mitologia classica abbia contribuito nella concezione di un passaggio così importante nella poetica dantesca come quello della donna pietra. Ripercorriamo alcuni passi del mito attraverso la fonte probabilmente più impiegata da Dante: Lucano. “Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus/ accipit Oceanum demisso sole calentum,/ squalebant late Phorcynidos arva Medusae,/ non nemorum protecta coma, non mollia suco, sed dominae voltu conspectis aspera saxis.” (Trad. Agli ultimi confini della Libia ­là dove la terra ardente accoglie l'Oceano, reso caldo dal sole che vi si tuffa­ si estendevano per largo tratto i campi desolati di Medusa, figlia di Forco, non protetti dalle fronde dei boschi, non ammorbiditi da linfe , bensì scabri di rocce: su di essi si era infatti posato lo sguardo della sovrana.)14
Hoc primum natura nocens in corpore saevas/ eduxit pestis: illis e faucibus angues/ stridula fuderunt vibratis sibila linguis,/ femineae qui more comae per terga soluti/ ipsa flagellabant gaudentis colla Medusae: surgunt adversa subrectae fronte colubrae/ vipereumque fluit depexo crine venenum. (Trad.: Nel suo corpo la natura malignia per la prima volta generò flagelli spaventosi: da quella gola i serpenti, con le lingue guizzanti, produssero sibili stridenti: essi poi, cadendo sulle spalle a mo' di chioma femminile, colpivano il collo di Medusa, che ne provava piacere: proprio sulla fronte si drizzavano, ergendosi, i colubri, mentre dal pettine colava giù veleno di vipere.)15
Hoc habet infelix, cunctis inpune, Medusa,/ quod spectare licet: nam rictus oraque monstri/ quis timuit? Quem, qui recto se lumine vidit,/ passa Medusa mori est? Rapuit dubitantia fata/ praevenitque metus: anima periere retenta/ membra nec emissae riguere sub ossibus umbrae. (Trad.:Questa chioma di serpenti era l'unica parte di Medusa dall'atroce destino, che chiunque potesse impunemente guardare: infatti chi ebbe il tempo di provare paura dinnanzi al suo ghigno mostruoso? Medusa consentì forse che qualcuno potesse morire, dopo averla guardata in viso? Ella affrettava repentinamente la morte mentre questa esitava a sopraggiungere, e perveniva la paura: le membra morivano, ma trattenevano l'anima, e lo spirito, che si sarebbe dovuto 14 Bellum Civile IX 624­629
15 Bellum Civile IX 629­635.
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separare dal corpo, si irrigidiva sotto le ossa.)16
11. [V. N. XIII, 15]
“Lascia piangere a noi e triste andare / (e fa peccato che mai ne conforta), / che nel suo pianto l'udiamo parlare” / “Ell'à nel viso la pietà sì scorta, / che qual l'avesse voluta mirare / sarebbe innanzi lei piangendo morta” A distanza di qualche capitolo dal passo precedente ritorna il tema della concezione di Beatrice come Medusa. Proprio in occasione di un funerale. Muore il padre di Beatrice, la figlia se ne addolora e Dante andando al funerale piange. Le donne si accorgono del pianto di Dante. Così il dolore del poeta si apre in un sonetto chiedendo alle donne notizie di Beatrice. Queste rispondono con un altro sonetto in cui affermano di riconoscere Dante come invasato d'Amore testimoniano l'effetto che Amore ha su di loro.
Anche in questa situazione l'immagine di riferimento che le donne usano per descrive il rapporto tra loro e Beatrice è tratto dalla mitologia, la medesima. Beatrice qui è recepita in figura di Medusa. Il classico effetto di colui che guarda in volto la medusa e ne rimane segnato a vita per via della pietrificazione viene reso nella figura di Beatrice grazie alla concezione dell'amore che viene concepita nello Stil Nuovo. Eumenidum crines solos movere furores,/ Cerberos Orpheo lenivit sibila cantu,/ Amphitryoniades vidit, cum vinceret, hydram:/ hoc monstrum timuit genitor numenque secundum/ Phorcys aquis Cetoque parens ipsaeque sorores/ Gorgones; hoc potuit caelo pelagoque minari/ torporem insolitum mundoque obducere terram. (Trad.: Le chiome delle Eumenidi produssero solo pazzia, Cerbero placò i suoi latrati al canto di Orfeo, l'Anfitrionide sopportò la visione dell'idra, mentre la vinceva: di un tale mostro, invece, ebbero paura anche il padre Forco, divinità favorevole alle acque, la madre Ceto e le sue stesse sorelle, le Gorgoni: costei era in grado di minacciare al cielo e al mare un 16 Bellum Civile IX 636­641.
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torpore mai provato e di rendere il mondo di pietra.)17
E caelo volucres subito cum pondere lapsa,/ inscopulis haesere ferae, vicina colentes/ Aethiopum totae riguerunt marmore gentes./ Nullum animal visus patiens ipsique retrorsum/ effusi faciem vitabant Gorgonos angues. (Trad.: Gli uccelli, appesantiti di colpo piombarono giù dal cielo, le fiere rimasero attaccate alle rocce, popolazioni intere ­ubicate vicino agli Etiopi­ si irrigidirono, divenendo di marmo. Nessun essere vivente riusciva a sopportarne lo sguardo e gli stessi serpenti, che le ricadevano sulle spalle, evitavano il volto della Gorgone.)18
Illa sub Hesperiis stantem Titana columnis/ in cautes Atlanta dedit caeloque timente/ olim Phlegraeo stantis serpente gigantas/ erexit montes bellumque inmane deorum/ Pallados e medio confecit pectore Gorgon. (Trad.: Ella trasformò in roccia Atlante, che sosteneva le colonne occidentali, cambiò in montagne i Giganti, che si ersero un giorno a Flegra sui loro piedi serpentini contro gli dei che li temevano, e dal centro della corazza di Pallade pose fine a quell'immane guerra fra divinità.)19
12. [V. N. XIV, 1­2]
Appresso ciò per pochi dì avenne che in alcuna parte della mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che mi convenia stare come coloro lii quali non si possono muovere. Io dico che nel nono giorno, sentendome dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era della mia donna. Al seguito dei pianti causati dalla sofferenza di vedere Beatrice addolorata per la morte del padre Dante si ammala per nove giorni. Così come gli effetti provenienti dalla visione di Beatrice afflitta vengono dal mondo mitologico, gli effetti provenienti da un 17 Bellum Civile IX 642­648. 18 Bellum Civile IX 649­653.
19 Bellum Civile IX 654­658
13
amore ricambiato vengono ripresi a Dante all'interno della grande tradizione della lirica latina. Il capitolo successivo infatti richiama un'ulteriore immagine ovidiana.
L'accesso morboso di nove giorni, senza remissione di dolore, prostra il poeta, infliggendogli simbolicamente una sorta di stimmate numerica. Si può ricordare che anche Clizia, che riappare in una rima dubbia nympharum inpatiens et sub Iove nocte dieque/ sedit humo nuda nudis incompta capillis,/ perque novem luces expers undaeque cibique/ rore mero lacrimisque suis ieiunia pavit/ nec se movit humo; tantum spectabat euntis/ ora dei vultusque suos flectebat ad illum. (Ma Clizia il dio della luce/ non volle più frequentarla, e fare l'amore, benché l'amore scusasse la gelosia Nella sua folle/ passione, marcì sedendo all'aperto/ sulla nuda terra coi capelli incolti, non sopportando le ninfe,/ giorno e notte. Per nove giorni non toccò cibo nè acqua/ si nutrì solo della rugiada e delle sue lacrime,/ senza muoversi da terra, guardando solo la faccia/ del dio che passava, e muoveva il volto seguendolo)20. Il modo di sentire la realtà, di concepire i sentimenti è un modo classico.
13. [V. N. XIV, 5]
Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello che io non sapea ove io mi fossi; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo via, meravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch'elli mi facea giudicare che piangessero;
Dante si rivolge alle donne addolorate per l'amicizia nei confronti di Beatrice. Il Poeta nel momento in cui le si rivolge le percepisce come scapigliate. La forza con cui l'innamoramento colpisce il poeta è una forza che contamina l'intera creazione, il modo di sentire questi fenomeni è proprio un modo classico. Dante dopo la risposta delle donne sogna (prevede) la morte di Beatrice e in questo sogno vede le donne e 20 Ovidio, Le metamorfosi IV 260­265
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l'ambientazione in modo particolare.
L'essere scapigliate è segno di lutto (come ancora al c. 5) e forse di stregoneria, come la Canidia oraziana: “Canidia, brevibus illigata viperis/ crinis et incomptum caput,/ iubet sepulcris caprificos erutas,/ iubet cupressos funebris/ ut uncta turpis ova ranae Sanguine/ plumamque nocturnae strigis/ herbasque, quas Iolcos atque Hiberia/ mittit venenorum ferax,/ et ossa ab ore rapta ieiunae canis/ flammis aduri Colchicis. (Trad.: Canidia, che ha nodi di viperette/ tra le chiome selvagge/ caprifico divelto dai sepolcri/ tristo cipresso piuma di civetta/ uova di rospo viscide di sangue/ erbe di Iolco erbe dell'iberia/ feconda di veleni ossa strappate/ alla bocca digiuna d'una cagna,/ fa bollire su fiamme d'incantesimo21. Basti pensare agli esametri virgiliani su prodigi avvenuti dopo la morte di Cesare descritti nelle Georgiche: “ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,/ cum caput obscura nitidum ferrugine texit/ impiaque aeternam timuerunt saecula noctem./ tempore quamquam illo tellus quoque et aequora ponti/ obscenaeque canes importunaeque uolucres/ signa dabant. quotiens Cyclopum efferuere in agros/ uidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam,/ flammarumque globos liquefactaque uoluere saxa!/ armorum sonitum toto Germania caelo/ audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes./ uox quoque per lucos uulgo exaudita silentis/ ingens, et simulacra modis pallentia miris/ uisa sub obscurum noctis, pecudesque locutae/ (infandum!); sistunt amnes terraeque dehiscunt,/ et maestum inlacrimat templis ebur aeraque sudant.” (Trad.:Pietà, poi che spento Cesare cadde, ebbe di Roma/ il sole, quando il fulgido capo di ruggine oscura/ coperse ed empi temettero gli uomni eterna la notte./ Anche laterra, però, anche il amre in quel tempo/ e le cagne impudiche e gli uccelli importuni/ davano segni. Quante vole l'Etna vedemmo/ rovesciare dai rotti crateri sui campi dei Ciclopi/ globi di fuoco e massi lanciar liquefatti!/ Un fragore di armi udì la Germania da tutto/ il suo cielo; e l'Alpi di moti inusati tremarono./ Anche fu udita nel sacro silenzio dei boschi una voce/ alta e visti furono pallidi spettri nel buio/ notturno e le bestie ­cosa nefanda­ parlarono;/ i fiumi si arrestarono, il suolo s'apre in voragini,/ piange l'avorio nei templi e sudano i bronzi)22.
21 Epod. V 15­24
22 Virgilio, Georgiche I,466­480
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14. [V. N. XIV, 12]
Onde altre donne, che per la camera erano, s'accorsero di me che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinità congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e diceanmi: “Non dormire più!”, e “Non ti sconfortare!”. Alla conclusione del sogno Dante in cui muore Beatrice è risvegliato da alcune donne, sommerso dalle lacrime. Tutte i loro modi di fare e di essere richiamano una dimensione classica. Virgilio costituisce l'esperienza più alta tra le letture del fiorentino. Tanto da poter individuare la sua presenza anche in espressioni non necessariamente rilevanti sul piano teorico­poetico. Si può riscontrare la presenza di Aen.II 86 peraltro non altrimenti definito dal contesto. L'immagine è semplice: Enea che descrive alcune delle peripezie affrontate nominando alcuni compagni di battaglia fino a ricordare le gesta del padre. “Fando aliquod si forte tuas pervenit ad auris/ Belidae nomen Palamedis et incluta fama/ gloria, quem falsa sub proditione Pelasgi/ insontem infando indicio, quia bella vetabat,/ demisere neci, nunc cassum lumine lugent:/ illi me comitem et consanguinitate ptopincum/ pauper in arma pater primis huc misit ab annis.” (Trad.: Se per caso, parlando, udisti il nome di Palimede,/ stirpe di Belo, dall'inclita fama, che sotto una falsa accusa, poiché si opponeva alla guerra,/ i Pelasgi misero a morte, inconsapevole, con indegno giudizio,/ ed ora lo piangono spento; saprai che a lui mi mandò compagno e consanguineo il mio povero padre,/ a combattere in questi luoghi fin dai primi anni)23. Il modo di riportare al presente la memoria e di fare riflettere sull'affetto familiare. Al di là della singola espressione “Compagno e cosanguigno” tutta la scena per il suo tono di confessione denota parentela con l'immagine dantesca. 23 (Aen II 81­87)
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15. [V. N. XV, 9]
io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver' lo loco là ov'io era, / l'una appresso dell'altra maraviglia; / e sì come la mente mi ridice, / Amor mi disse: “Quell'è Primavera, / e quell'à nome Amor, sì mi somiglia”.
Alcuni giorni dopo la febbre causata dal dolore per la morte del padre di Beatrice in sogno gli compare Amore che gli mostra una donna gentile e poi Beatrice stessa.
Nella conclusione del sonetto del quindicesimo capitolo si racconta in poesia la scena in cui Amore si volge al Poeta e mostra il nome della gentil donna apparsa. Non esclusivamente Virgilio, bensì anche Ovidio prende ampio spazio nel dizionario dantesco. Nella non definitezza del panorama e dei personaggi le scelte del poeta richiamano scelte già seguite da Ovidio. Riecheggia infatti l'ovidiano “nunc Erato, nam tu nomen Amoris habes” Ars am. II 16: Nunc mihi, siquando, puer et Cytherea, favete,/ Nunc Erato, nam tu nomen amoris habes./ Magna paro, quas possit Amor remanere per artes,/ Dicere, tam vasto pervagus orbe puer. (Ora a me, se mai quando, tu, Citerea, e tuo figlio, date aiuto,/ e Erato, anche tu, che da Amore hai nome. Grandi cose ho da dire: con quali arti possa non/ Amore, il ragazzo nel vasto mondo errante.)24
16. [V. N. XVI, 2]
E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora come se fosse uomo, appare per tre cose ch'io dico di lui. Dico che lo vidi venire: onde, con ciò sia cosa che venire dicta moto locale, e localmente mobile per sé secondo lo Phylosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dopo l'ulteriore apparizione d'Amore che gli mostra una donna gentile nel sedicesimo capitolo Dante fa una riflessione se l'amore sia una accidente oppure una sostanza. Il 24 Ovidio ars amatoria II 15­18
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modo di ragionare è aristotelico che è chiaramente considerato come “lo Philosofo”. Viene citato proprio ad inizio di capitolo proprio come premessa ad un importante ragionamento che Dante fa riguardo all'amore ma soprattutto riguardo allo stile che nei classici è stato adottato per descrivere o far parlare le cose animate piuttosto che non animate. La presenza aristotelica è fondamentale per tutto l'arco storico del medioevo. La riscoperta dei suoi scritti è un passo centrale per la storia del pensiero universale.
“Solo un corpo sia per sua natura passibile di moto locale”. Viene citato a riscontro l'Aristotele latino del De motu animalium, per l'assioma “ubi non est corpus non est motus”. Dante dimostra grande precisione anche nei dettagli filosofici.
17. [V. N. XVI, 7]
Onde con ciò sia cosa che alli poete sia conceduta maggiore licentia di parlare che alli prosaici dictatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a lloro sia maggiore licentia largita di parlare che agli altri parlatori volgari: Sempre nel sedicesimo capitolo, dopo la citazione aristotelica riguardo al modo di rappresentare amore e più in generale riguardo al modo di rappresentare qualcosa, Dante ricorre ad Orazio per giustificare il suo ragionamento sulla poesia a dispetto della prosa. In questo brano della Vita Nova infatti si portano delle riflessioni sulla poetica. Traspare la primaria distinzione tra prosa e poesia e si osserva come la poesia sia superiore alla prosa.
Il parallelo immediato che si può instaurare e proprio con l'Ars Poetica di Orazio: Credite, Pisones, isti tabulae fore librum/ persimilem, cuius, uelut aegri somnia, uanae
fingentur species, ut nec pes nec caput uni/ reddatur formae. "Pictoribus atque poetis/ quidlibet audendi semper fuit aequa potestas."/ Scimus, et hanc ueniam petimusque damusque uicissim,/ sed non ut placidis coeant immitia, non ut/ serpentes auibus geminentur, tigribus agni. (Credetemi, Pisoni, ci sarà una stretta analogia tra un quadro/ di quel genere ed un libro intessuto di visioni assurde/ come sogni d'un 18
malato, senza capo né coda, incapace/ a strutturarsi in unità. “Ma hanno sempre avuto giustamente/ facoltà, sia i pittori che i poeti, di tentare audaci esperimenti.”/ S'intende , ed è licenza che di volta in volta chiediamo o concediamo;/ ma non al punto che ferocia e mansuetudine siano mescolate, né/ che i serpenti siano accoppiati coi volatili, le tigri con gli agnelli.)25
Si avvicina poi al passo del De vulgari II X 5 “Vide ergo lector, quanta licentia data sit cantiones poetantibus.” Parlare vale in genere “esprimersi per iscritto” ma dal contesto si vede che qui vale specialmente “rivolgere la parola”, a qualsivoglia cosa o creatura, con pieno arbitrio.
18. [V. N. XVI, 9­10]
Che li poete abbiano così parlato come detto è, appare per Virgilio, lo quale dice che Iuno, cioè una dea nemica delli Troiani, parlò ad Eolo, signore delli vènti, quii nel primo dello Eneida “Eole, nanque tibi”, e che questo signore le rispuose quivi “Tuus, o regina, quid optes explorare labor; michi iussa capessere fas est”. Per questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata alle cose animate, nel secondo dello Eneida quivi “Dardanide duri”. Per Lucano parla la cosa animata quivi “Multum, Roma, tamen debes civilibus armis”. Per Oratio parla l'uomo alla sua scientia medesima sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Oratio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Homero, quivi nella sua Poetria “Dicmichi, Musa, virum”. Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, nel principio del libro ch'à nome Libro di Remedio d'Amore quivi “Bella michi, video, bella parantur, ait”. E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza 25 Orazio Ars poetica 6­13
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persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rectorico, e poscia domandato non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente. Continua la riflessione “filosofica” per quanto riguarda la teorizzazione poetica sul ruolo che hanno gli oggetti nell'universo dantesco. Dante permette al lettore di considerare quanto grande sia il debito che l'ex stilnovista ha nei confronti della grande tradizione greco­romana. Il discorso procede contemplando, classici alla mano tre casi di cose inanimate che parlano a cose parimenti inanimate, come accade nel “primo dello Eneida”; di cose inanimate che parlano a cose animate nel secondo dello Eneida; e da ultimo di cose animate che parlano a cose inanimate. Il terzo caso comporta tre esempi, tratti da Lucano, Orazio e Ovidio. Questa è una tripartizione tripartita nel terzo membro.
Si noti che la lista dei poeti (Virgilio, Lucano Orazio qui collegato a Omero, Ovidio) coincide con quella, cronologicamente disposta, del “nobile castello” del Limbo in inf. IV 86­93.
Riportiamo ora i passi che aveva alla mente Dante al momento della stesura di questo paragrafo. Giunone parla a Eolo: Aeole (namque tibi divom pater atque hominum rex/ et mulcere dedit fluctus et tollere vento), gens inimica mihi Tyrrenum navigat aequor,/ Ilium in Italiam portans victosque penatis:/ incute vim ventis submerasque obrue puppis/ aut age diversos etdissice corpora ponto. (Trad.: Eolo, poiché il padre degli dei e il re degli uomini/ ti assegnò di placare i flutti o di alzarli col vento,/ un gente a me ostile naviga il mar Tirreno,/ portando Ilio in Italia e i vinti Penati:/ infondi violenza ai venti e subissa e travolgi le navi,/ o incalzali, disperdili, e dissemina i corpi nel mare.)26 Eolo è considerato “Rex” sull'autorità almeno di Aen. I 52­54 “Hic vasto rex Aeolus 26 Aen I, 65­70
20
antro/ luctantis ventos tempestatesque sonoras/ imperio premit ac vinclis et carcere frenat.” (Qui in un vasto antro/ il re Eolo costringe ai suoi ordini i venti/ ribelli e le tempeste sonore, e in carcere e in ceppi li frena.)27 e poi Aen I 140­41 illa se iactet inaula/ Aeolus et clauso ventorum carcere regnet (si glorii in quella/ reggia, Eolo, e governi nel chiuso carcere dei venti)28, come in Aen I, 65­75, per convincerlo a scatenare una tempesta contro le navi dei troiani.
Sono dunque cose non vere, proprio “dei falsi e bugiardi” (inf. I 72) che Virgilio finge conversare tra loro. Se poi sono intesi (secondo la tradizione interpretativa che fa capo a Fulgenzio) come personificazioni di elementi e forze naturali (l'aria e il vento) anche più radicale sarà la licenza poetica: si tratterebbe dunque del cielo (Iuno), cosa inanimata, che parla ai venti, essi pure inanimati. Per altro verso, riferendosi alla pratica stessa di Dante, parodista di modi scritturali, Contini scrive: “anche gli enunciati di imitazione sacrale saranno semplici metafore”
“Tuus, o regina...” sono i versi di Aen I 76­77: Tuos, o regina, quid optes,/ explorare labor; mihi iussa capessere fas est. (Trad.: Tu cura, o regina,/ indagare cosa desideri; mio compito accogliere/ gli ordini)29.
“Nel secondo dello eneida” sarebbe da leggere, a norma della corretta citazione da Virgilio, e come hanno sempre fatto gli editori, nel terzo dello eneida anziché secondo, lezione concorde dei manoscritti. Ma qui non si è operata la correzione, per il sospetto che si tratti di un uso o errore d'autore; il quale, come è noto, sapeva “tutta quanta” l'”alta tragedia” di Virgilio (Inf. XX 113­14), e dunque tanto più facilmente poteva sbagliarsi, come chi citi a memoria.
Il “Dardanide duri” vada confrontato con Aen III 94­96 “Dardanide duri, quae vos a stirpe parentum /prima tulit tellus, eadem vos ubere laeto /accipiet reduces: antiquam exquirite matrem.” (Trad.: O duri Dardanidi , proprio la terra che vi produsse/ per prima dal ceppo degli avi, vi accoglierà al ritorno/ nel lieto seno. Cercate l'antica madre.)30 frase rivolta ai troiani dall'oracolo di Apollo in Delo, cosa che non è animata 27 Aen. I 52­54 28 Aen I 140­41
29 Aen I 76­77
30 Aen III 94­96
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perché il dio di questo nome (dio pur sempre falso e bugiardo”, per la discrezione dantesca) non sarebbe altri che il sole.(Fulgenzio.)
“Multum, Roma tamen ...”, diros Pharsalia campos/ inpleat et Poeni saturentur sanguine manes,/ ultima funesta concurrant proelia Munda,/ his, Caesar, Perusnia fames Mutinaeque labores/ accedant fatis et quas premit aspera classes/ Leucas et ardenti servilia bella sub Aetna:/ multum Roma tamen debet civilibus armis,/ quod tibi res acta est. (Trad.: Farsalo sommerga di sangue i campi maledetti e se ne sazino i mani cartaginesi, gli estremi combattimenti abbiano luogo nella funesta Munda, a questi tristi destini si aggiungano, o Cesare, la fame di Perugia e il travaglio di Modena e le flotte che si trovano sotto la rocciosa Leucade e le guerre servili sotto l'Etna infuocato: pur tuttavia Roma deve molto ai conflitti civili, dal momento che tutto ciò si è realizzato per te)31. “Molto, o Roma, peraltro tu devi alle guerre civili” 32, da Lucano che però legge debet (ma, segnala Barbi, la lezione accolta da Dante non è inattestata nella tradizione lucanea). Solo se si legge debes si può dire che parli la cosa animata, cioè l'autore stesso nella sua apostrofe iniziale, alla cosa inanimata, che non è altri che Roma.
alla sua scientia medesima: cioè alla sua stessa poesia, identifiacata come si vedrà con la Musa nella citazione che si fa del capoverso dell'Odissea, ricavato però dalla Poetria di Orazio (titolo medievale dell'epistola oraziana ai Pisoni, così designata anche in Conv. II XIII 10). E' il secondo esempio di cosa animata (l'autore) che parli a cosa inanimata, e risponde puntualmente all'obiezione riguardante la ballata già avanzata, e non risolta
Il “buono homero” sembra invocare il: “et idem/ indignor, quandoque bonus dormitat Homerus” (poi, però m'indigno per ogni pisolino che schiaccia il grande Omero)33, quando poi nel limbo dantesco Omero sarà detto “poeta sovrano”.
“Dic michi, Musa, virum”: da Ars poetica 141­142 “Dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae / qui mores hominum multorum vidit et urbis” (Trad.: La rovina di 31 Bellum Civile I, 38­45(La guerra civile di Marco Anneo Lucano a cura di Renato Badalì, UTET, Torino 1988)
32 Bellum civilie ossia Pharsalia I, 44
33 di Ars poetica 359 22
Priamo canterò, e la famosa guerra”./ E che cosa mai presenterà il millantatore, che sia degno d'una tale vanteria?)34 versione dell'inizio dell'odissea. Il Chigiano, per ipercorrettismo dantesco, traduce “O scienca, dimmi l'uomo”.
sotto vesta di figura o di colore retorico: riprende il sintagma del c. 7, sotto la metafora topica, già ciceroniana (cfr. ad esempio Brutus 262, “omni ornatu orationis tamquam veste detracta”)
19. [V. N. XVII, 8]
E però, lasciando lui, dico che questa mia donna venne in tanta gratia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte.
Dante dopo il ragionamento filosofico è colpito da come la sua donna passando attrae a sé l'attenzione di tutti. Descrivendola come onorata e laudata impiega una dittologia sinonimica, calco di espressioni affini della Sacra Scrittura “honor et gloria”, “honor et victoria”, se non è piuttosto ricordo virgiliano, “Dum iuga montis aper, fluvios dum piscis amabit,/ dumque thymo pascentur apes, dum rore cicadae,/ semper honos nomenque tuum laudesque manebunt.” (Trad.: Finché il cinghiale amerà i monti, e il pesce i fiumi,/ finché le api si nutriranno di timo, e le cicale di rugiada,/ sempre durerà questo rito e loderemo il tuo nome.)35
In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae/ lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet,/ semper honos nomenque tuum laudesque manebunt,/ quae me cumque vocant terrae (Trad.: Finché i fiumi correranno al mare, e il cielo pascerà le stelle,/ sempre durerà il tuo onore e il nome e la gloria,/ qualunque terra mi chiami)36
34 Ars poetica 141­142
35 (Egl. v 78)
36 (Aen I 607­610)
23
20. [V. N. XIX, 5]
E secondo l'usanza nostra, ella si partio in quello anno della nostra inditione, cioè degli anni Domini, in cui lo perfecto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta , ed ella fue delli cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una cagione. Con ciò sia cosa che, secondo Tholomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono; e secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giù secondo la loro abitudine insieme;
In questo capito Dante informa il lettore della morte di Beatrice seppur non volendosi soffermare in quanto fuori dal proposito dell'opera. Torna il tema del tempo e dell'ora e con esso il numero nove che come abbiamo osservato ricava da letture come Ovidio e Orazio. In questo brano in più viene preso in considerazione Tholomeo, scenziato ellenista, che sarà riferimento per l'astronomia fino a Galileo Galilei. Il sistema di catalogazione delle stelle infatti per tutta l'età antica e medievale era affidata al sistema Aristotelico­Tolemaico che considerava la terra al centro dell'universo e le stelle che rotassero nelle loro orbite su dei piani mobili. Tolomeo sarà poi collocato da Dante tra gli “spiriti magni” dell'Inferno (Inf. IV 142). In effetti inventore di un nono cielo come riportato nel convivio: “constretto dalli principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori dello Stellato”37
21. [V. N. XX, 12]
ma ven tristitia e voglia di sospirare e di morir di pianto, / e d'ogne consolar l'anima spoglia / chi vede nel pensero alcuna volta / quale fu, e 37 Conv. II, III, 5
24
com'ella n'è tolta.
Avvenuta la morte di Beatrice, di cui Dante non vuole parlare, nel poeta rimane il dolore che vuole invece sfogare. Così decide di comporre una canzone in cui ragiona di lei “Gli occhi dolenti per pietà del core”. All'interno della canzone possiamo osservare una certa presenza Virgiliana: “consolar l'anima spoglia” è una metafora allo stesso tempo scritturale e classica. Dispogliata è l'anima dell'amante, come già la città.
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/ si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/ dulce meum, miserere domus labentis et istam,/ oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. (Trad.: per il nostro connubio, per l'iniziato imeneo, se bene/ di te meritai, o qualcosa di me ti fu dolce,/ abbi pietà della casa che crolla, e abbandona,/ se ancora valgono le preghiere, questo pensiero)38. Sono parole che nell'Eneide recita Didone per sfogare il proprio dolore e scoraggiare la partenza di Enea. In particolare si osservi l'idea di “exue mentem” (abbandona questo pensiero). Tutta l'intenzione di Didone sembra ripresentarsi nello sfogo di dolore di Dante al pensiero della scomparsa Beatrice. 22. [V. N. XX, 14]
Poscia, piangendo, sol nel mio lamento / chiamo Beatrice e dico: “Or se' tu morta?” / E mentre ch'io la chiamo, mi conforta. Sempre nella canzone in cui Dante sfoga il dolore per la morte di Beatrice e ragiona su di lei sembra ora dialogare con colei che è stata invocata. Si potrebbe far riferimento al celebre prologo virgiliano del pastore Coridone “Tantuminter densas, umbrosa cacumina, fagos/ adsidue veniebat: ibi haec incondita solus / montibus et silvis studio iactabat inani” (Trad.: Soltanto si accontentava di venire assiduamente tra i densi faggi,/ vertici ombrosi; qui solitario, ai monti e alle selve/ lanciava con vana passione 38 Aen IV 316­319
25
rozzi lamenti)39. Il senso di solitudine, e di canto per sfogare il dolore d'amore è un tema fortemente bucolico.
23. [V. N. XXV, 4]
Color d'amore e di pietà sembianti / non preser mai così mirabilmente / viso di donna, per veder sovente occhi gentili o dolorosi pianti,/ come lo vostro, qualora davanti/ vedetevi la mia labbia dolente;
Dopo la morte di Beatrice Dante ovunque vede una donna dal volto pallido e che ispiri pietà quasi come se fosse innamorato sembra quasi che sia costretto a piangere. Come se fosse la donna stessa a strappare le lacrime al Poeta.
Il tema del sentirsi preso, invaso, sentirsi tirare le lacrime dagli occhi è già noto in Virgilio. “At regina gravi iamdudum saucia cura/ volnus alit venis et caeco carpitur igni.” (Ma già la regina, tormentata da un profondo affanno,/ nutre una ferita nelle vene, e un cieco fuoco la divora.)40. Presero, invasero, presero possesso di, è un'escursione semantica che va dalla Didone innamorata (“caeco carpitur igni” Aen, IV 2) a Francesca (“mi prese del costui sì forte” inf. V, 104)
24. [V. N. XXX, 6]
Nella quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere:con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s'abbia a quelle benedecte anime sì come 39 Egl. II 3­5
40 Aen IV, 1­2
26
l'occhio debole al sole: e ciò dice lo Phylosofo nel secondo della Metafisica. Nel trentesimo e penultimo capitolo della Vita Nuova alcune donne chiedono a Dante di poter avere dei componimenti. Dante risponde con un sonetto nel quale descrive la condizione della propria anima che altro non desidera dell'andare in cielo a riveder Beatrice. Nella strutturazione del componimento spiega come nella quarta parte il suo pensiero abbia fatto riferimento ad Aristotele. Già in convivio “ammirare loro eccellenza – la quale soverchia li occhi della mente umana, si come dice lo Filosofo nel secondo della Metafisica­ e afferma loro essere”41 Dante dimostra di conoscere il secondo della metafisica. L'importanza culturale di Aristotele è indiscussa soprattutto alla luce dell'importanza della filosofia scolastica nei confronti del pensiero dantesco. Anche per giustificare un semplice passo di un sonetto Dante si sente in dovere di ricorrere ad una vera e propria giustificazione.
Il motivo per cui è utile rivalutare la vita Nova
In un panorama poetico in cui è estremamente difficile ritrovare elementi per poter rilanciare e dare un nuovo corso alla poesia, la principale fonte di ispirazione dovrebbe venire dai Classici. E se dovessimo considerare in una ipotetica visione globale inerente al mondo della poesia chi potremmo considerare maestro se non il più grande poeta italiano di tutti i tempi: Dante Alighieri.
41 Convivio II IV 16­17 27
Indice generale
Presenza dei Classici nella Vita Nuova. Gli Echi classici nella Vita Nova.........................1
1. [V. N. I,1]...........................................................................................................1
2. [V. N. I, 5]..........................................................................................................2
3. [V. N. I, 9]..........................................................................................................3
4. [V. N. I, 14]........................................................................................................4
5. [V. N. I, 18­19]..................................................................................................5
6. [V. N. II, 1]........................................................................................................7
7. [V. N. III, 4].......................................................................................................8
8. [V. N. V, 1­2]......................................................................................................8
9. [V. N. VI, 4].....................................................................................................10
10. [V. N. X, 23]...................................................................................................10
11. [V. N. XIII, 15]...............................................................................................12
12. [V. N. XIV, 1­2]...............................................................................................13
13. [V. N. XIV, 5]..................................................................................................14
14. [V. N. XIV, 12]................................................................................................16
15. [V. N. XV, 9]...................................................................................................17
16. [V. N. XVI, 2].................................................................................................17
17. [V. N. XVI, 7].................................................................................................18
18. [V. N. XVI, 9­10]............................................................................................19
19. [V. N. XVII, 8]................................................................................................23
20. [V. N. XIX, 5].................................................................................................24
21. [V. N. XX, 12]................................................................................................24
22. [V. N. XX, 14]................................................................................................25
23. [V. N. XXV, 4].................................................................................................26
24. [V. N. XXX, 6]................................................................................................26
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