31. Verre e Catilina nemici “fortunati” Forse la prima immagine a cui pensiamo quando ascoltiamo il nome di Cicerone è quella dell’avvocato dalle arringhe senza scampo e del senatore salvatore della patria. Questo modo di pensare all’Arpinate è legato ai due episodi, probabilmente, più famosi e determinanti della sua carriera, di oratore e di politico: il processo a Verre e la denuncia della congiura di Catilina. Proprio coloro che Cicerone fece condannare in maniera esemplare per le loro malefatte e grazie ai quali ottenne il successo nella carriera forense e politica1, sono paradossalmente passati alla storia e vengono ancora oggi citati come esempio, rispettivamente, di malgoverno e di eversione e paragonati – a volte in maniera troppo immediata e “pericolosa” – a politici e personaggi della nostra scena politica. Cominciamo con Verre. La pessima amministrazione della provincia siciliana da parte del governatore romano e la denuncia di un Cicerone ancora non all’acme della carriera forense hanno ispirato il film di e con R. Giovampietro Il governo di Verre (1970), rappresentato, dallo stesso regista e con lo stesso titolo, anche a teatro. Ma il vero revival di Verre e delle Verrine si ha in Italia all’inizio degli anni Novanta a seguito della cosiddetta “Tangentopoli” o inchiesta “Mani Pulite”, cioè l’insieme delle inchieste giudiziarie e dei conseguenti processi che portarono alla luce i rapporti illeciti tra amministrazione pubblica e impresa e che vide protagonisti, da una parte, il pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Ilda Bocassini, Gherardo Colombo e guidato dal procuratore capo 1 Francesco Saverio Borrelli e dal suo vice Gerardo D’Ambrosio), dall’altra, imprenditori accusati di aver versato tangenti (quote di denaro concesso illegalmente) a politici in cambio della concessione di appalti o di favori oppure come forma di finanziamento illecito di partiti politici2. Verre venne dunque considerato l’archetipo del politico corrotto. A questo proposito ti proponiamo un articolo di Corrado Augias (giornalista, scrittore e conduttore televisivo) pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 30 gennaio 1993 che, partendo dalla lettura delle orazioni ciceroniane, paragona la situazione politica italiana dell’epoca a quella del 70 a.C. e l’Arpinate all’allora Pubblico Ministero Antonio Di Pietro. Parla Cicerone sembra Di Pietro di Corrado Augias Mi è successa una cosa molto curiosa. Leggevo il libro di cui subito dirò e sono stato inseguito da un pensiero parallelo e sfuggente che di continuo interferiva con ciò che andavo leggendo. La lettura era Il processo di Verre introdotto da Nino Marinone, recentemente ripubblicato dalla Rizzoli (2 voll. pagg. 1.266, lire 35.000). In altre parole, si tratta del famoso corpus delle “verrine”, una delle più potenti lezioni oratorie di tutti i tempi, una serie di requisitorie pronunciate da Cicerone all’età di 36 anni. Chi era Verre tutti lo ricordiamo dai tempi del liceo. Negli anni di cui stiamo parlando (73-71 a.C.), Verre era il pretore della Sicilia. Pessimo pretore, ladro e corrotto, stupratore di donne oneste e concussore. Talmente cattivo come amministratore che i siciliani, offesi, lo denunciarono a Roma. Verre in un primo momento contò sulla solidarietà del Senato. Poiché gli amministratori onesti non erano molti, la sua speranza era che, di fronte 1 Nel processo a Verre Cicerone si scontrò col principe del foro dell’epoca, Quinto Ortensio Ortalo; dopo lo smascheramento della congiura di Catilina, fu eletto console. 2 Per saperne di più clicca su http://it.wikipedia.org/wiki/Tangentopoli e vedi i filmati relativi alla puntata di Blu Notte di Carlo Lucarelli dedicata all’argomento: http://www.youtube.com/watch?v=egQE53DP8_Q, http://www.youtube.com/watch?v=HGEDuJ5mw3k, 2 all’accusa, scattasse la solidarietà di casta tanto più che le ragioni per comportarsi da ladri erano comuni a molti: rifarsi delle spese enormi sostenute per assicurarsi l’elezione alle varie magistrature. Il mascalzone non aveva fatto però i conti con Cicerone. È Cicerone stesso a informarci che, di solito, l’accusa in processi del genere era sostenuta o da giovani all’inizio della carriera, o da persone interessate a non colpire troppo duramente l’imputato. Nella Divinatio in Q. Caecilium che precede le orazioni contro Verre, Cicerone si scaglia appunto contro Quinto Cecilio Nigro, questore in Sicilia ai tempi di Verre che, in accordo con questi, aveva cercato di farsi assegnare la parte di accusatore. Il forte interesse di Cicerone ad assicurarsi l’accusa, derivava sia dalla sua ansia di vedere punito un disonesto inveterato come Verre, sia dall’aver intuito che quel processo avrebbe dato il colpo finale a un corrotto sistema politico ormai in agonia. La prima orazione (actio prima) fu detta in tribunale il 5 agosto del 70 a.C. Una frase colpì particolarmente: “Questo è il processo in cui voi giudicherete l’imputato, ma il popolo romano giudicherà voi”. L’accusa, sostenuta da numerosi testi, risultò talmente efficace che Verre, senza attendere la seconda prova del suo pubblico ministero, preferì andarsene in volontario esilio. Peraltro riuscendo a portarsi dietro la maggior parte dei suoi tesori. Quelli che aveva rubato, ovviamente. Mentre leggevo, seguitavo a ripetermi: dove ho già letto una storia del genere? Sono sicuro che la storia di Verre assomiglia a un’altra storia che ho sentito da qualche parte. Quale mai sarà? Catilina nell’arte Più ampia e varia fu la fortuna di Catilina, personaggio descritto non solo da Cicerone nelle Catilinarie e in una parte della Pro Caelio, ma anche dallo storico Sallustio che dedicò alla congiura da lui ordita un’intera monografia (Bellum Catilinae). Oltre agli storici antichi, pittori, drammaturghi e poeti si occuparono del sovversivo romano. Ben Jonson (1572-1637, drammaturgo e poeta d’età elisabettiana) gli dedicò http://www.youtube.com/watch?v=jKJqK8yl2aI, http://www.youtube.com/watch?v=haIrd0hnPXQ, 3 una tragedia intitolata Catiline. His Conspiracy e lo stesso fece Voltaire con la sua Rome sauvée (1748). Salieri musicò l’opera lirica Catilina basata sul libretto di G.B. Casti e G. Prosperi compose il dramma La congiura. Anche alcuni pittori si sono interessati alla congiura. Il quadro di Maccari rappresenta molto bene il punto di ciceroniano e potrebbe considerato un’illustrazione vista essere della prima Catilinaria: da una parte, l’oratore che pronuncia il proprio discorso d’accusa in piedi al centro del Senato; dall’altra Catilina, lasciato solo dai colleghi, posizionatisi a debita distanza da lui. C. Maccari (1840-1919), Cicerone contro Catilina, Roma, Salone d’onore di Palazzo Madama. Il dipinto di Niccolò Cassana (replica di una celebre composizione di Salvator Rosa) raffigura, invece, il momento in cui Catilina ed i suoi seguaci ordiscono segretamente la congiura e si preparano ad agire. Niccolò Cassana (1659-1714), La congiura di Catilina olio su tela, cm. 152x185. Immagine tratta dal sito http://www.porroartconsulting.it/pdf/Porro_asta_45_B.pdf. http://www.youtube.com/watch?v=rFCRGJrHghA, http://www.youtube.com/watch?v=bbK49JaE1kI. 4 Il ritrovamento del corpo di Catilina, morto tragicamente e gloriosamente in battaglia insieme a molti suoi compagni nei pressi di Pistoia, è al centro dell’opera di Segoni. Alcide Segoni (1847-1894), Ritrovamento del corpo di Catilina, Firenze, Galleria d’arte moderna. Immagine tratta dal sito http://www.numagazine.it/phpversion/viewrecensione.php?id=48. Una biografia moderna di Catilina Una biografia è stata dedicata dal giornalista e scrittore Massimo Fini a Catilina, Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (1996). Si tratta di una rivisitazione e rivalutazione del nemico di Cicerone (la cui congiura è considerata «la prima, anche se fallita, rivoluzione della Storia»3) e di una forte – forse eccessiva – svalutazione dell’Arpinate. Te ne proponiamo alcuni passi significativi relativi sia a Cicerone che a Catilina: 3 M. Fini, Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta, Milano, 1996, 11. 5 «Cicerone è davvero il campione dei campioni del benpensantismo ipocrita e sostanzialmente violento […] “Uomo di notoria doppiezza”, come lo definisce Mommsen, Cicerone quando si aprì lo scontro fra Cesare e Pompeo parteggiò ora per l’uno ora per l’altro, voltando e rivoltando gabbana mille volte, adulando ambedue in modo sfacciato e impudico, piegandosi alle più umilianti ritrattazioni. Era un politicante di terz’ordine, maneggione e intrigante, a livello di portaborse. E infatti nonostante si fosse profferto più volte a Pompeo e a Cesare come consigliere i due non lo degnarono di alcuna considerazione trattandolo in una maniera molto vicina al disprezzo. La sua vanagloria è rimasta proverbiale […]. A furia di menarla con la congiura di Catilina, che aveva scoperto e sventato, finì per venire a noia a tutti […]. Si autocelebrò in tutti i modi e scrisse anche, in tre volumi, un poemetto, fortunatamente perduto, sulla sua impresa e, in greco, una Storia del suo consolato che pure non ci è pervenuta»4. «Fu scannato senza pietà. Secondo le crudeli usanze del tempo gli vennero mozzate le mani e la testa che, portata a Roma, fu appesa ai rostri del Foro. Qualcuno, per dileggio, gli infilò uno spillone nella lingua a significare che era stato bravo solo con quella. A metà dell’Ottocento, il grande storico della latinità, Theodor Mommsen, tutt’altro che tenero con i catilinari ma evidenetemente stufo di diciotto secoli di enfatizzazione del ciceronismo e del suo protagonista, lo liquidò così: “Da uomo di Stato senza acutezza, senza opinioni e senza fini, Cicerone ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchici, e non fu mai altro che un egoista di vista corta”. È difficile dargli torto. Come uomo politico fu un mediocre pasticcione, come filosofo un modestissimo riciclatore di idee altrui, come poeta pessimo e anche come autore deve la sua fortuna soprattutto al fatto che i suoi scritti sono una specie di riepilogo, di epitome, di résumé delle regole della lingua latina e quindi utilissimi alla scuola, ma il suo stile ridondante, enfatico, retorico, pur tenendo conto che si tratta spesso di orazioni pronunciate in pubblico, suona ad un orecchio moderno 4 M. Fini, op. cit., 26ss. 6 irrimediabilmente fastidioso, soprattutto se raffrontato con l’asciuttezza ellittica di un Tacito o anche con la concisione incalzante del più modesto Sallustio. Fu invece, questo sì, un grande, grandissimo avvocato, il migliore, con Demostene, dell’antichità. Ma quelle che sono le sue doti di avvocato sono anche il suo deficit di uomo: la mancanza di convinzioni, il cinismo, l’opportunismo, l’ambiguità […]. Cicerone non era assolutamente in grado di capire il suo antagonista: gli era troppo agli antipodi. E il suo sconcerto è documentato dagli scritti posteriori alla morte di Catilina quando, passati gli anni, si sforza di valutarlo in modo più equanime […]. Uomo dai limitati orizzonti non può capire l’animo idealista e un po’ folle di Catilina. Proiettando sull’altro la sua ombra scambia l’impegno di Catilina a favore dei miseri e quindi a scapito dei ricchi, per pura cupidigia personale. Uomo gretto non concepisce che si possa condividere i propri averi con gli amici e spendersi generosamente per loro con le più faticose prestazioni e, se occorre, anche a rischio della vita. Piccolo borghese, gelosissimo dei propri privilegi, ansioso di essere ammesso nei salotti buoni, guarda con meraviglia questo patrizio, bello, affascinante, che si mischia ai diseredati e ai reietti mentre potrebbe avere la Roma-bene ai suoi piedi. Uomo d’ordine, timoroso di ogni stormir di foglia, nemico di ogni eccesso, attento alla salute e al “tengo famiglia”, rimane attonito di fronte alla sfrenata vitalità di Catilina e al modo in cui dilapida la sua esistenza. Per lui prova un istintivo orrore e l’uomo gli suscita un altrettanto genuino terrore. Le reprimende che gli rovescerà addosso nelle Catilinarie provengono da un sentimento autentico. Ma, sotto sotto, si avverte che Cicerone ha una confusa, inconfessabile ma a volte trasparente ammirazione per il suo avversario. Cicerone invidia a Catilina quello che a lui più di tutto manca e che l’altro più di tutto ha: il coraggio. Ed è il primo a stupirsi di aver battuto un simile avversario. È ancora Mommsen a far notare il paradosso per cui sarà “il più vile degli uomini di Stato romani” a sconfiggere l’uomo che portò contro il potere oligarchico l’attacco più radicale e pericoloso»5. 5 M. Fini, op. cit., 31ss. 7 Ecco una vera e propria apologia di Catilina: «È probabile che se il movimento catilinario avesse prevalso si sarebbe voltato in una dittatura personale perché questo era l’andazzo dei tempi, come dimostreranno di lì a poco, dopo le ambigue esperienze dei triumvirati, Cesare e Ottaviano. E Catilina aveva le qualità carismatiche che sono necessarie al dispotismo. Ma a parte che, a differenza di Cesare, per non dire di Ottaviano, Catilina era un generoso e un idealista, e ciò che gli mancò sempre fu il cinismo, non possiamo fare un processo alle intenzioni ma dobbiamo attenerci ai fatti. E i fatti dicono che nel programma catilinario non c’è traccia di autoritarismo e di cesarismo, al contrario si delinea una Repubblica basata sul bilanciamento dei poteri fra il Senato, le magistrature e le assemblee popolari (comizi centuriati, curiati e tributi) cui dovevano essere restituiti la dignità e soprattutto i poteri effettivi che col tempo avevano perduto. Coloro che hanno individuato nei Decemviri il tarlo ereditario del programma di Catilina, il segno dell’aspirazione ad un potere assoluto fanno un torto all’evidenza. I Decemviri erano, appunto, dieci e già il numero sembra escludere intenzioni di dittatura personale. Ciò a parte, avevano poteri indubbiamente eccezionali ma limitati nel tempo, nello spazio e nella competenza che era circoscritta alla questione agraria mentre per tutto il resto rimanevano pienamente operanti le consuete istituzioni repubblicane. Più in generale quello di Catilina è un tentativo di rivoluzione culturale tesa al riscatto economico e sociale ma anche morale dei ceti deboli ed emarginati in una società che, perduti gli antichi valori della virus ridotti ormai a mere giaculatorie, era diventata ferocemente materialista e dove i poveri erano disprezzati e i ricchi e i “vincenti” onorati e rispettati in quanto tali, a prescindere dai loro effettivi meriti. Nei discorsi di Catilina è costante, quasi ossessiva, la rivendicazione del diritto di tutti a una pari dignità sociale e alla libertà, che è tale se è anche libertà dal bisogno (“Eccola, eccola la libertà che tante volte avete invocato” dirà in un appassionato discorso ai suoi). Il suo potente richiamo alla Repubblica delle origini è il richiamo a un tempo in cui a tutti i cittadini, ricchi e poveri, patrizi e plebei, 8 era dovuto il rispetto e l’esibizione di arroganti disuguaglianze economiche era considerata un’offesa al costume e alla stessa legge al punto che “il ricco e il nobile, come il povero e quello di oscuri natali, non potevano comparire in pubblico che nella stessa semplice toga di lana bianca”. Se qualcuno meritava maggior considerazione era per quanto aveva fatto (o perlomeno i suoi avi avevano fatto), in pace e in guerra, non per quanto possedeva e ostentava. La dignitas era fondata su valori morali, di coerenza di vita, e non materiali. Sbaglia però chi, alla luce della storia recente, interpreta Catilina come un precursore della lotta di classe. Catilina non guarda, né può, verso un futuro lontano diciotto secoli e per lui inconcepibile, ma dietro di sé verso quella prima Roma in cui la sua gens, la gens Sergia, era stata importante e rispettata e le doti che contavano erano la forza, il coraggio fisico e morale, l’onore, la lealtà, il rispetto della parola data, lo spendersi generosamente, cioè le sue doti che adesso erano invece sommerse dalle virtù borghesi della doppiezza, della sottigliezza, dell’ambiguità, dell’intrigo, dell’avidità, le virtù volgari che Cicerone incarnerà così esemplarmente aggiungendovi di suo una viltà sconosciuta al mondo romano di allora. Catilina è un déraciné della sua classe e della sua epoca, è totalmente in controtempo: non è un borghese, non è un plebeo, non si riconosce nemmeno in un’aristocrazia che non è più intesa, né si intende, come élite del valore. Catilina è un aristocratico di un’aristocrazia scomparsa e perduta, è un patrizio delle origini e il suo assumersi, come dirà, “la causa generale dei disgraziati” non ha a che vedere con la lotta di classe ma proprio col suo essere aristocratico. Perché e della nobiltà autentica, quella del valore e dell’animo, e non del denaro e del privilegio, la generosità verso i deboli, i perdenti, i vinti. Catilina il gladiatore, Catilina il criminale, Catilina l’avventuriero, Catilina il violatore di Vestali è un uomo intrinsecamente morale se per moralità non si intende quella ipocrita, bacchettona, baciapile, sessuofobia, borghese del suo secolo ma la moralità profonda di chi è disposto ad andare incontro alla sua storia fino alle estreme conseguenze e a far fronte, a qualunque prezzo, alle responsabilità che si è assunto verso di sé e verso gli altri. In una società in cui si dice una cosa e se ne pensa un’altra, Catilina dice ciò che 9 pensa, fa ciò che dice e sogna un mondo dove alle parole corrispondano i fatti.è per questo che Catilina il forte, il duro, il resistente, il coraggioso, il valoroso, il guerriero soccomberà a avversari tanto più piccini di lui e sarà l’uomo di tutte le sconfitte»6. I tumultuosi eventi avvenuti a Roma tra il 63 ed il 62 a.C. hanno trovato eco anche sulla scena teatrale contemporanea. Del 2000 è il Caso Catilina (testo di Lucia Nardi e Annalisa Scafi, liberamente tratto da La congiura di Catilina di Sallustio e da Le Catilinare di Cicerone), spettacolo portato in scena da Luigi Di Majo, il quale, nei panni autobiografici di un avvocato dei nostri giorni cercherà di riaprire il processo a Catilina, indagando i fatti della storia e imbattendosi in Cicerone, Sallustio, Cesare e Catone; ma il caso Catilina gli farà scoprire anche delle analogie con il sistema giudiziario contemporaneo. Del 2008 è lo spettacolo della compagnia “La Bottega del Pane” Contro Catilina – attentato allo Stato, ispirato alle Catilinarie di Cicerone, ma con inserti di Aristofane, Euripide, Catullo, Sallustio e Ibsen: nella Roma degli anni Sessanta, da una parte, Cicerone nel Foro arringa il popolo romano richiamandolo all’unità e alla concordia politica, al rispetto della tradizione e all’esercizio delle virtù civili, dall’altra, nelle bettole e nei vicoli della Suburra si aggirano attori, guitti, poeti bohémien al seguito del caposcuola Catullo che, avvalendosi di exempla del passato (le commedie di Aristofane), esprimono un atteggiamento di aperto rifiuto verso l'etica del civis e la morale tradizionale. Concludiamo questa sezione con una riflessione più generale sulla “necessità” della costruzione del nemico, formulata da Umberto Eco intervenendo nell’ambito del ciclo di letture dei classici “Elogio della politica”, a cura del Centro Studi “La permanenza del classico” a Bologna il 15 maggio 2008 (puoi vedere l’intervento di Eco e la lettura dei testi cliccando su mms://stream1wn.cineca.it/politica/politica15_05.asf) e pubblicata, in sintesi, su La Repubblica del 16 maggio 2008. 10 L’arte sublime di denigrare il nemico di Umberto Eco Anni fa a New York sono capitato con un tassista dal nome di difficile decifrazione, e mi ha chiarito che era pakistano. Mi ha chiesto da dove venivo, gli ho detto dall’Italia, mi ha chiesto quanti siamo ed è stato colpito che fossimo così pochi e che la nostra lingua non fosse l’inglese. Infine mi ha chiesto quali sono i nostri nemici. Al mio «prego?» ha chiarito pazientemente che voleva sapere con quali popoli fossimo da secoli in guerra per rivendicazioni territoriali, odi etnici, continue violazioni di confine, e così via. Gli ho detto che non siamo in guerra con nessuno. Pazientemente mi ha spiegato che voleva sapere quali sono i nostri avversari storici, quelli che loro ammazzano noi e noi ammazziamo loro. Gli ho ripetuto che non ne abbiamo, che l’ultima guerra l’abbiamo fatta cinquanta e passa anni fa, e tra l’altro iniziandola con un nemico e finendola con un altro. Non era soddisfatto. Come è possibile che ci sia un popolo che non ha nemici? Sono sceso lasciandogli due dollari di mancia per compensarlo del nostro indolente pacifismo, poi mi è venuto in mente che cosa avrei dovuto rispondergli, e cioè che non è vero che gli italiani non hanno nemici. Non hanno nemici esterni, e in ogni caso non sono mai in grado di mettersi d’accordo per stabilire quali siano, perché sono continuamente in guerra tra di loro. Pisa contro Livorno, Guelfi contro Ghibellini, nordisti contro sudisti, fascisti contro partigiani, mafia contro stato, governo contro magistratura – e peccato che all’epoca non ci fosse ancora stata la caduta del secondo governo Prodi altrimenti avrei potuto spiegargli meglio cosa significa perdere una guerra per colpa del fuoco amico. Però, riflettendo meglio su quell’episodio, mi sono convinto che una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio di non avere avuto veri nemici. L’unità d' Italia si è fatta grazie alla presenza dell' austriaco o, come voleva Berchet, dell’irto e increscioso alemanno, Mussolini ha potuto godere del consenso popolare incitandoci a vendicarci 6 M. Fini, op. cit., 60ss. 11 della vittoria mutilata, delle umiliazioni subite a Dogali e ad Adua e delle demoplutocrazie giudaiche che ci infliggevano le inique sanzioni. Si veda che cosa è accaduto agli Stati Uniti quando è scomparso l’Impero del Male e il grande nemico sovietico si è dissolto. Rischiavano il tracollo della loro identità sino a che Bin Laden, memore dei benefici ricevuti quando veniva aiutato contro l’Unione Sovietica, ha porto agli Stati Uniti la sua mano misericordiosa e ha fornito a Bush l’occasione di creare nuovi nemici rinsaldando il sentimento d’identità nazionale, e il suo potere. Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo. Si veda la generosa flessibilità con cui i naziskin di Verona eleggevano a nemico chiunque non appartenesse al loro gruppo, pur di riconoscersi come gruppo. Ed ecco che questa sera non ci interessa tanto il fenomeno quasi naturale di individuazione di un nemico che ci minaccia, quanto il processo di produzione e demonizzazione del nemico. Nelle Catilinarie Cicerone non avrebbe avuto bisogno di disegnare una immagine del nemico perché del complotto di Catilina aveva le prove. Ma lo costruisce quando, nella seconda orazione, dipinge ai senatori l’immagine degli amici di Catilina, riverberando sul principale accusato il loro alone di perversità morale (...). Un diverso per eccellenza è lo straniero. Già nei bassorilievi romani i barbari appaiono come barbuti e camusi, e lo stesso denominativo di barbari come è noto allude a un difetto di linguaggio e quindi di pensiero. Tuttavia sin dall’inizio vengono costruiti come nemici non tanto i diversi che ci minacciano direttamente (come sarebbe il caso dei barbari), bensì coloro che qualcuno ha interesse a rappresentare come minacciosi anche se non ci minacciano direttamente, così che non tanto la loro minacciosità ne faccia risaltare la diversità, ma la loro diversità diventi segno di minacciosità. Si vedano i proclami contro i riti dionisiaci (di origine straniera) e quanto Tacito dice degli ebrei: profano è per loro tutto quello che è sacro per noi e quanto è per noi impuro per loro è lecito» (e viene in mente il ripudio anglosassone per i mangiatori di rane francesi o quello tedesco per gli italiani che abusano d’aglio). Gli ebrei sono «strani» perché si astengono dalla carne di maiale, 12 non mettono lievito nel pane, oziano il settimo giorno, si sposano solo tra loro, si circoncidono (si badi) non perché sia una norma igienica o religiosa, ma «per marcare la loro diversità», seppelliscono i morti e non venerano i nostri Cesari. Una volta dimostrato quanto siano diversi alcuni costumi reali (circoncisione, riposo del sabato) si può sottolineare ulteriormente la diversità inserendo nel ritratto costumi leggendari (consacrano l’effigie di un asino, spregiano genitori, figli, fratelli, la patria e gli dei) (...). Nuova forma di nemico sarà poi, con lo svilupparsi dei contatti tra i popoli, non solo quello che sta fuori e che esibisce la sua stranezza da lontano, ma quello che sta tra noi, oggi diremmo l’immigrato extracomunitario, che in qualche modo si comporta in modo diverso o parla male la nostra lingua, e che nella satira di Giovenale è il greculo furbo e truffaldino, sfrontato, libidinoso, capace di stendere sul letto la nonna di un amico (...). Il nemico sempre puzza, e tale Berillon all’inizio della guerra mondiale (1915) scriveva un La polychesie de la race allemande dove dimostrava che il tedesco medio produce più materia fecale del francese, e di odore più sgradevole (...). Mostruoso e puzzolente sarà, almeno dalle origini del cristianesimo, l’ebreo, visto che il suo modello è l’Anticristo, l’arcinemico, il nemico non solo nostro ma di Dio (...). Talora il nemico è percepito come diverso e brutto perché è di classe inferiore. In Omero Tersite («storto, zoppo di un piede; le spalle curve e ripiegate sul petto; la testa a punta coperta di una rara peluria, Iliade, II, 212) è socialmente inferiore ad Agamennone o ad Achille e pertanto invidioso di loro. Tra Tersite e il Franti di De Amicis c’è poca differenza, brutti entrambi, Ulisse percuote a sangue il primo e la società manderà Franti all’ergastolo (...). Pare che del nemico non si possa fare a meno. La figura del nemico non può essere abolita dai processi di civilizzazione. Il bisogno è connaturato anche all' uomo mite e amico della pace. Semplicemente si sposta allora l’immagine del nemico da un oggetto umano a una forza naturale o sociale che in qualche modo ci minaccia e che deve essere vinta, sia essa lo sfruttamento capitalistico, l’inquinamento ambientale, la fame del terzo mondo. Ma se pure questi sono casi “virtuosi”, ci ricorda Brecht che anche l’odio per l’ingiustizia stravolge la faccia. L’etica è dunque impotente di fronte al 13 bisogno ancestrale di avere nemici? Direi che l’istanza etica sopravviene non quando si finge che non ci siano nemici, bensì quando si cerca di capirli, di mettersi nei loro panni. Non c’è in Eschilo un astio verso i persiani, la cui tragedia egli vive tra loro e dal loro punto di vista. Cesare tratta i Galli con molto rispetto, al massimo li fa apparire un poco piagnoni ogni volta che si arrendono, e Tacito ammira i germani, trovandoli anche di bella complessione, limitandosi a lamentare la loro sporcizia e la loro renitenza ai lavori faticosi perché non sopportano caldo e sete. Cercare di capire l’altro significa distruggerne il cliché, senza negarne o cancellarne l’alterità. Ma siamo realisti. Queste forme di comprensione del nemico sono proprie dei poeti, dei santi, o dei traditori. Le nostre pulsioni più profonde sono di ben altro ordine (...). Se è così, la costruzione del nemico deve essere intensiva e costante. Ce ne offre un modello veramente esemplare George Orwell in 1984: «Come al solito, la faccia di Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo, era apparsa sullo schermo. S’udì qualche fischio, qua e là, fra i presenti. La donnetta dai capelli color sabbia diede in una sorta di gemito in cui erano mescolati paura e disgusto. Prima ancora che fossero passati una trentina di secondi d’Odio, incontrollabili manifestazioni di rabbia ruppero fuor da una metà del pubblico nella sala. Durante il suo secondo minuto, l’Odio arrivò fino al delirio. La gente si levava e si rimetteva a sedere con gran rimestio, e urlava quanto più poteva nello sforzo di coprire il belato di quella voce maledicente che veniva dallo schermo. La donnetta dai capelli color sabbia era diventata rossa come un peperone e apriva e chiudeva la bocca come un pesce tratto fuor d’acqua. La bruna dietro a Winston aveva cominciato a strillare: “Porco! Porco! Porco!”. Winston si accorse che anche lui stava strillando come tutti gli altri, e batteva furiosamente i tacchi contro il piolo della sedia. La cosa più terribile dei Due Minuti d’Odio non consisteva tanto nel fatto che bisognava prendervi parte, ma, al contrario, proprio nel fatto che non si poteva trovar modo di evitare di unirsi al coro delle esecrazioni. Una fastidiosa estasi mista di paura e di istinti vendicativi, un folle desiderio d’uccidere, di torturare, di rompere facce a colpi di martello percorreva l’intero gruppo degli astanti come una sorta di corrente elettrica, tramutando ognuno, 14 anche contro la sua stessa volontà, in un paranoico urlante e sghignazzante». Non è necessario raggiungere i deliri di 1984 per riconoscerci come esseri che hanno bisogno di un nemico. Le recenti elezioni ci hanno mostrato quanto può la paura dei nuovi flussi migratori. Allargando a una intera etnia le caratteristiche di alcuni suoi membri che vivono in una situazione di marginalizzazione, si sta oggi costruendo in Italia l’immagine del nemico rumeno, capro espiatorio ideale per una società che, travolta in un processo di trasformazione anche etnica, non riesce più a riconoscersi. La visione più pessimistica in proposito è quella di Sartre in Huis clos. Da un lato possiamo riconoscere noi stessi solo in presenza di un Altro, e su questo si reggono le regole di convivenza e mansuetudine. Ma più volentieri troviamo quest’Altro insopportabile perché in qualche misura non è noi. Così che riducendolo a nemico ci costruiamo il nostro inferno in terra. Quando Sartre chiude tre defunti, che in vita non si conoscevano, in una camera d’albergo, uno di essi capisce la tremenda verità: «Guardate che cosa semplice: insipida come una rapa. Non c’è tortura fisica, va bene? Eppure, siamo all’inferno. E nessun altro deve arrivare, qui. Nessuno. Fino alla fine, noi tre soli, insieme. Manca il boia. Hanno realizzato una economia di personale. Ecco tutto. Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due». 15