cover manfio_Galassia sommersa 17/10/14 08:16 Pagina 1 soggetti rivelati isabella andreini “Non è possibile il poter con lingua narrare il valore e la virtù di questa donna”, annotava Giuseppe Pavoni nel descrivere il primo grande successo di Isabella Andreini. Attrice notissima e poetessa, nata a Padova nel 1562 e morta a Lione nel 1604, Isabella calcò le scene dei più grandi teatri europei, diventando in pochissimo tempo una vera e propria diva, acclamata e richiesta perfino alla Corte di Enrico IV, re di Francia, talmente famosa da dare il nome a una delle maschere della Commedia dell’Arte, l’Innamorata. Gli scritti qui presentati mettono in luce diversi aspetti della persona e del personaggio Isabella, esplorandone la vita, l’arte e l’attività letteraria, ma anche il rapporto con le Accademie e la diffusione iconografica del suo ritratto in incisioni e dipinti. Ne emerge il profilo di una donna, prima che di un’attrice, capace di esprimere con lucida intensità passioni e stati d’animo, e di provocare, sempre secondo le parole di Giuseppe Pavoni, “tal mormorio, e meraviglia ne gli ascoltatori, che mentre durerà il mondo, sempre sarà lodata la sua bella eloquenza, e valore”. 50 isabella andreini Carlo Manfio, storico del teatro, regista e poeta padovano, ha curato la regia di alcuni lavori ai quali ha partecipato come protagonista. Ha anche promosso alcune stagioni di concerti e collaborato nell’organizzazione di mostre d’arte. Nel 1984 ha curato le manifestazioni al Teatro Olimpico di Vicenza in occasione del terzo centenario della morte di Pierre Corneille, culminate nell’allestimento del Cid, con la regia e la partecipazione di Giorgio Albertazzi. Tra il 1989 e la fine del 1990 è stato direttore artistico dell’Orchestra da Camera di Belluno, con la quale ha realizzato in qualità di narratore Pierino e il lupo di Prokofiev. Su suo progetto la Regione del Veneto ha promosso l’edizione di Tutto il Teatro di Gino Rocca, opera in cinque volumi editi da Marsilio tra il 1997 e il 1998 e da lui curati, mentre per Biblos ha curato Narrativa e Teatro di Guido Rocca. una letterata in scena a cura di Carlo Manfio in copertina Giuliano Scabia, La barca d’Isabella si appresta ad attraversare il mondo oscuro, verso le Alpi, 2013 Padova, collezione privata e , ISBN ---- ILPOLIGRAFO soggetti rivelati ritratti, storie, scritture di donne collana di studi coordinata da Saveria Chemotti 50 isabella andreini una letterata in scena a cura di Carlo Manfio ILPOLIGRAFO Atti della Giornata Internazionale di Studi “Isabella Andreini. Da Padova alle vette della Storia del Teatro” nel 450° anniversario della nascita a cura di Carlo Manfio Padova, Auditorium Centro Culturale Altinate San Gaetano 20 settembre 2012 La giornata di studi e gli atti sono stati realizzati da con il contributo di Copyright © settembre 2014 Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail: [email protected] www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-871-6 INDICE 9 La vita, l’arte, il mito: un’introduzione alla figura di Isabella Canali Andreini Cristina Grazioli 25 Isabella Andreini: Vicende sceniche e registri d’interprete Stefano Mazzoni 51 Isabella Andreini «scrittora» Maria Luisa Doglio 61 Isabella Andreini e la morte dell’orso: nuovi documenti sull’ambiente milanese e sui comici Gelosi Elena Tamburini 101 Isabella delle Favole Roberto Cuppone 137 Isabella Andreini nelle immagini: indagine sopra alcuni ritratti ipotetici Maria Ines Aliverti 195 Una traduzione (?) francese delle Lettere di Isabella Andreini: François de Grenaille (1642) Silvia Fabrizio-Costa 211 Note sugli Autori ISABELLA DELLE FAVOLE 1 Roberto Cuppone Colui, che si propone di comporre una comedia [deve] prima considerar ben bene tutta la favola, la quale (come vuole il filosofo) è l’anima del Poema, et quella tutta come in un corpo ridotta darle un titolo conveniente.2 Parola di Isabella: dobbiamo crederci, a queste favole. Tanto più se consideriamo che espone questa sua idea nei Fragmenti (1620, ma per forza ante 1604), che insieme con le Bravure di Francesco Andreini e le Favole di Flaminio Scala (1607 e 1611, ma anch’esse concepite ben prima), nell’arco di tredici anni mettono nero su bianco la prima articolata esemplificazione (canovacci, parti comiche, parti serie) di quella che verrà definita poi Commedia dell’Arte. Sulle quali opere, sui rapporti di sodalità fra i tre autori e sulla comune strategia autopromozionale che li sottende talmente tanto è stato detto3, che forse proprio per questo si rischia di passarne sotto traccia i reali contenuti teatrali condivisi. Perché la loro esemplare si- 1 Si cita da FLAMINIO SCALA, Il teatro delle favole rappresentative, overo la ricreatione comica, boscareccia e tragica, divisa in cinquanta giornate, Venezia, Pulciani, 1611 (ed. moderna a cura di Ferruccio Marotti, 2 voll., Milano, Il Polifilo, 1976); d’ora in poi solo SCALA. 2 ISABELLA ANDREINI, Fragmenti di alcun scritture della signora Isabella Andreini, Comica Gelosa et Academica Intenta. Raccolti da Francesco Andreini Comico Geloso, detto il Capitano Spavento, e dati in luce da Flaminio Scala Comico e da lui dedicati all’Illustrissimo sig. Filippo Capponi, In Venetia, presso Gio. Battista Combi, 1627 [prima ed. Torino, Cavalleri, 1620], pp. 59-60. 3 Fra tutti, v. FERDINANDO TAVIANI, Bella d’Asia. Torquato Tasso, gli attori e l’immortalità, «Paragone Letteratura», XXXV, 408-410 febbraio-aprile 1984, pp. 3-76; e SIRO FERRONE, Dalle parti ‘scannate’ al testo scritto, «Paragone Letteratura», XXXIV, 398 aprile 1983, pp. 38-68, che descrive come Scala «regolarizzò le parti di compagnia eliminando le punte rilevate dei buffoni all’antica», imponendo una «disciplina quasi militare» in qualità di «luogotenente» del principe impresario don Giovanni dei Medici. 101 ROBERTO CUPPONE nergia (fra loro4, ma anche naturalmente con alcune altre significative opere-manifesto) risiede sì nel come (la pubblicazione, innanzitutto, di materiali di lavoro; la polemica antiaccademica, ma per costituirsi a nuova accademia; la nobilitazione estetica ed etica di una professione statu nascenti), ma soprattutto nel cosa, e cioè nella riformulazione sperimentale dei principi che definiscono la prassi teatrale, operata per exempla; un passaggio epocale, proprio come nella scienza: da Aristotele a Galileo5. Dunque, se è vero che favola6 – in riferimento al teatro – significa la stessa cosa per Isabella come per Francesco e Flaminio; e se, come sembra chiaro, Il Teatro delle Favole Rappresentative di Scala esemplifica sopra ogni cosa questa intesa («sempre più celebre si fece questa Compagnia, quando v’entrò la virtuosa Isabella [...] e allora fu, che il nostro Flaminio Scala si diede a scrivere altri nuovi Soggetti, a bella posta per quella gran Donna da lui inventati»7); c’è da stupirsi che finora non si sia cercato al suo interno, fra tutti questi cinquanta modelli esperti di composizione drammaturgica, l’imago dell’arte di Isabella, così evocata, celebrata, rimpianta, ma spesso data per irrecuperabile più per una sorta di feticismo alla rovescia, di culto della perdita, che per la reale impossibilità di ritrovarla qui fra le righe – complici oggi un certo perdurante storicismo negli studi teatrali e prima d’ora la tenace, penalizzante sottovalutazione dei canovacci da parte della tradizione crociana. Cui per fortuna qualcuno si è sottratto, vedendo nelle Favole la «immagine strutturale della drammaturgia scenica [...] soprattutto del Capitan Spavento di Francesco Andreini e dell’Innamorata di Isabella 4 Si pensi ad esempio che fu Flaminio nel 1616 a far imprimere in forma d’ottavo i Fragmenti postumi raccolti da Francesco Andreini, ricambiando così questi per la sua lusinghiera introduzione alla Favole (1611). 5 In questo senso, non appare dunque un caso che uno dei primi canovacci a stampa conosciuti appartenga proprio a Galilei: Argomento e traccia d’una commedia, in Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Firenze, Barbera, 1890-1909, IX; oggi in SCALA, pp. LXXVI-XC. 6 Per una discussione delle accezioni di favola, v. FERRUCCIO MAROTTI, Introduzione a SCALA, pp. XI-LXIII. 7 FRANCESCO SAVERIO BARTOLI, Notizie istoriche de’comici italiani che fiorirono intorno all’anno MDC fino ai giorni presenti, 2 voll., Padova, Conzatti, 1782 (rist. anast. Bologna, Forni, 1978); ad vocem “Andreini, Isabella”. 102 ISABELLA DELLE FAVOLE Andreini»8: è Marotti il primo, editando le Favole, a riconoscere come l’arte dell’Improvvisa consisteva soprattutto nell’«intrecciare le linee dei repertori mimici, gestuali e retorici dei diversi attori all’ordito dello scenario»9. E così certamente condivisibile è il suo giudizio secondo cui questo carattere rappresentativo del libro «è la definizione di come [...] attraverso la scelta di tali materiali esso restituisca un’immagine completa della scena, ottenuta non per descrizione, ma per presentazione di oggetti essenziali»10. Fino quasi a operare una paradossale normalizzazione, quel livellamento, secondo Ferrone, «con cui i nuovi ‘autori’ tendono a invecchiare e irrigidire, dall’improvviso al premeditato [...] i materiali isolati che gli attori contemporanei mettevano a loro disposizione»11. Dunque, abbandonando il pregiudizio che tutte queste favole possano parlarci della Andreini solo a patto di dimostrare che ella le abbia effettivamente rappresentate, come rifiutarsi di vedere che Isabella compare come tipo nella quasi totalità delle commedie di Scala (trentotto su quaranta; e nelle altre due non può non essere Aliffa, turca fatta cristiana, pure en travesti; e Flavia) e in un’opera regia su dieci (ma nelle altre è facilmente associabile ad Alvida, Coridone, Alvira, Rosalba, Teodora, Dorinda, Lisio, Giovanna12)? Come non notare che non a caso ben sei commedie sono addirittura espressamente intitolate a lei («io mi son compiaciuta di leggere, e di rilegger più volte la Poetica d’Aristotele, come principale di tutte l’altre poetiche, et ho trovato, che il titolo si debbe pigliare dal nome della persona principale, intorno al quale è il soggetto di tutta la comedia»13): La fortunata Isabella, Le burle d’Isabella, La travagliata Isabella14, La gelosa Isabella, Isabella astrologa, La pazzia d’Isabella F. MAROTTI, Introduzione, cit., p. XVI. Ivi, p. LV. 10 Ivi, p. LIII. 11 S. FERRONE, Dalle parti ‘scannate’ al testo scritto, cit., p. 64. 12 Tutte “belle d’Asia”, in un certo senso: per i rapporti di Isabella con l’Arcadia e segnatamente con Tasso e il ruolo da lei sostenuto nelle rappresentazioni di Aminta, si rimanda a F. TAVIANI, Bella d’Asia..., cit. 13 I. ANDREINI, Fragmenti..., cit., pp. 59-60. 14 Non sembra si sia notato finora – neppure da parte di Marotti – che paradossalmente proprio in questo canovaccio intitolato a Isabella il suo tipo non compaia: mentre sia probabilmente associabile (per esclusione) alla parte di Flavia. 8 9 103 ROBERTO CUPPONE – mentre l’autore ne riserva solo quattro al proprio tipo (Flavio), una a Tofano e poi a nessun altro? Come non constatare, insomma, che Isabella è l’unico tipo che, strutturalmente quando non nominalmente, sembra comparire in tutte e cinquanta le favole rappresentative? E che di conseguenza la Andreini, indiscussa creatrice, è l’unico attore di cui si può supporre che funga da modello unico per il proprio tipo (diversamente dagli altri attori, Gelosi o meno, che hanno ispirato gli innamorati uomini, i servi e i vecchi)? È evidente che tutto questo non basta a dimostrare che Isabella Andreini sia la stessa Isabella delle Favole, e cioè che le creazioni dell’attrice siano esattamente sovrapponibili al tipo di innamorata sintetizzato e idealizzato da Scala (ma come abbiamo visto anche certamente ispirato in vita da Isabella e in seguito come tale approvato da Francesco); ma per converso non si può certo negare che ella abbia contribuito sostanzialmente a ipostatizzarlo: che insomma possa essere definito una sua “creazione alla seconda”, il cui valore documentario (spesso indimostrabile) cede il passo a un indiscutibile valore di eredità artistica-ideologica. Quanto basta per giustificare la nostra legittima curiosità per questo ritratto di “Isabella delle Favole”. Isabella alias Bella d’Asia Dato dunque per plausibile questo primo assunto, e cioè che Flaminio Scala la ritenga irrinunciabile per la formazione di un cast tipico; il primo dato che dà da pensare è che la fa comparire praticamente sempre col suo nome in commedia, mentre nelle opere serie (10 su 50) preferisce dare al suo contributo drammaturgico (alla sua “parte”) altri nomi, quasi sempre diversi. Del resto è lei stessa a condividere che, sebbene la commedia non si discosti «da precetti della Tragedia, con la quale ella molte cose ha communi: come la rappresentazione, con tutto il resto dell’apparato, il Ritmo, e l’armonia, il tempo limitato, la favola drammatica, il verisimile, la ricognizione, et il rivolgimento»; ciononostante «nell’attione, ne i personaggi, ne i costumi, e nella dittione sia da lei molto dissimile»15. 15 I. ANDREINI, Fragmenti..., cit., p. 62. 104 ISABELLA DELLE FAVOLE Veramente notevole è che questa differenza fra commedia e tragedia (appunto «nell’attione, ne i personaggi, ne i costumi, e nella dittione»), a onta del mélange di serio e faceto, di comico e drammatico in cui i comici dell’arte – e segnatamente Isabella – andavano famosi («voi sapete [...] che la comedia fino alla tramutazione, e scioglimento suo, sempre esser piena di molti affanni, e travagli, che la fanno affettuosa molto; benché non habbia quell’attrocità in se, che ha la Tragedia»16), sia la stessa ragione per cui Torquato Tasso cela dietro lo pseudonimo di “Bella d’Asia”, anagramma di “Isabella d. A.”, delli Andreini, la destinataria del suo celebre sonetto: perché l’ammirazione del poeta non può indirizzarsi a un tipo fisso, ordinario pur nel suo virtuosismo, vuota parodia di femminilità; ma semmai a una ineffabile bellezza, esotica (barbara) per default, quale solo la poesia (qui intesa come tragedia) può produrre. E dunque la bella intuizione di Taviani, “solutore d’enigmi”, non sarebbe certo contestata, ma semmai confermata, dalla supposizione che Tasso si riferisca principalmente a un’altra (ad altre) identità teatrali di Isabella, meno enigmatiche, meno convenzionali e poetiche, e anzi più letterali: quelle appunto delle sue eroine drammatiche, quasi tutte di origine vagamente orientale, che Isabella assume nelle opere serie delle Favole (sezione della raccolta che la storiografia talvolta trascura, contribuendo così a tramandare lo stereotipo di una Commedia dell’Arte esclusivamente ridanciana o quanto meno drammatica per accidente). Una «bella d’Asia» si potrebbe certo definire, ad esempio, quella esotica «Rosalba incantatrice», eponima dell’«opera eroica» ambientata in una lontana «isola felice», dove questa omologa femminile del Prospero scespiriano dona ad Arlecchino «un libretto incantato» per controllare gli spiriti dell’isola. Oppure «l’innocente persiana» dell’omonima ariostesca «opera reale», che col bizantino nome di Teodora, novella Bradamante in armatura, salva il suo promesso «prencipe di Persia» a sua volta in abiti femminili. 16 Ivi, pp. 63-64. 105 ROBERTO CUPPONE O ancora quell’amazzone Dorinda, protagonista della trilogia dell’Orseida, autentico sequel ante litteram, che partorisce due gemelli all’orso che l’ha rapita, perché Pan aveva preconizzato che da quel «congiungimento» sarebbero nati «infiniti eroi e semidei»17 (vicenda al cui confronto King Kong sembra una favola da educande). O di nuovo Alvida, figlia del re d’Egitto, protagonista dell’omonima «opera regia», relegata in una spelonca a partorire e morire, ma che impietosisce i suoi carcerieri come il Sigismondo di Calderon. Oppure, last but not least, Alvira, La forsennata prencipessa, unica «tragedia» dove non a caso troviamo una nuova, ma meno celebre “pazzia” di Isabella; che, diversamente da quella della commedia omonima, non ha lo scontato lieto fine, perché invece ritroviamo Alvira «sopra un altissimo scoglio» a sciorinare i suoi spropositi, alla fine dei quali «salta nel mare, s’affoga, e non si vede più». A ricordarci un’altra celebre pazzia annegata nell’acqua e nei fiorami dei preraffaelliti. Cose da pazzi E appunto partendo da questo celebre numero, è noto come le due sintesi esistenti della pazzia di Isabella in commedia, quella per così dire documentaria, “esterna” (da spettatore), di Giuseppe Pavoni e quella drammaturgica, “interna” (da attore) di Flaminio Scala, divergano sostanzialmente; al punto di generare dubbi sul fatto che parlino dello stesso spettacolo, fino a «gettare nel più nero sconforto lo studioso» – per usare la spiritosa espressione di Marotti. Pavoni, che la vede a Firenze nel 1589, nella celebre replica in nozze di Cristina di Lorena, racconta che come pazza se n’andava scorrendo per la Cittade, fermando hor questo, & hora quello, e parlando hora in Spagnuolo, hora in Greco, hora in Italiano, & molti altri linguaggi, ma tutti fuor di proposito: & tra le altre cose si mise à parlar Francese, & à cantar certe canzonette pure alla Francese, che diedero tanto diletto alla Sereniss. Sposa, che maggiore non si potria esprimere. Si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi Comici, come del Pantalone, 17 Vale ricordare che nella mitologia greca Orseide è la ninfa che con Elleno genera tra gli altri Doro, Eolo e Xuto, capostipiti delle etnie greche. 106 ISABELLA DELLE FAVOLE del Gratiano, del Zanni, del Pedrolino, del Francatrippe, del Burattino, del Capitan Cardone, & della Franceschina tanto naturalmente, & con tanti dispropositi, che non è possibile il poter con lingua narrare il valore, & la virtù di questa Donna. Finalmente per fintione d’arte Magica, con certe acque, che le furono date à bere, ritornò nel suo primo essere, & quivi con elegante, & dotto stile esplicando le passioni d’amore, & i travagli, che provano quelli, che si ritrovano in simil panie involti, si fece fine alla Comedia; mostrando nel recitar questa Pazzia il suo sano, e dotto intelletto; lasciando l’Isabella tal mormorio, & meraviglia ne gli ascoltatori, che mentre durerà il mondo, sempre sarà lodata la sua bella eloquenza, & valore.18 La sequenza del numero della pazzia, come lo possiamo ricostruire attraverso gli occhi di uno spettatore particolarmente attento, appare dunque così scomponibile: a) il vagabondaggio: rappresentazione fisica del disorientamento, ma insieme coinvolgimento progressivo dell’attenzione degli altri personaggi («fermando hor questo, & hora quello») e indirettamente del pubblico verso l’evento che sta per prodursi; b) il topos buffonesco dei «diversi lenguazi» (si badi, mescolando linguaggi «tutti fuor di proposito», che non sono conosciuti dal personaggio, che qui peraltro risulta significativamente padovano come l’attrice; fra cui quel “Greco” o greghesco di evidente origine buffonesca veneta); rappresentazione plastica e convenzionale dell’ormai sopravvenuta pazzia: plastica nel senso di non solo verbale, nella misura in cui ogni lingua è una attitude19; e convenzionale, per l’allusione babelica e per il richiamo ai tratti 18 Diario descritto da Giuseppe Pavoni delle feste celebrate nelle solennissime nozze delli Serenissimi Sposi, il Sig. Don Ferdinando Medici e la Sig. Donna Christina di Lorena Gran Duchi di Toscana, Bologna, nella Stamperia di Giovanni Rossi, 1589; oggi in F. MAROTTI, Introduzione..., cit., pp. LXXIII-LXXV; cfr. anche CESARE MOLINARI, L’altra faccia del 1589: Isabella Andreini e la sua “Pazzia”, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del ’500, II. Musica e spettacolo; Scienze dell’uomo e della natura, Firenze, Olschki, 1983, pp. 565-573; e per una prima analisi teatrale del resoconto, v. GERARDO GUCCINI, Intorno alla prima Pazzia d’Isabella. Fonti-intersezioni-tecniche, «Culture Teatrali», 7-8, autunno 2002 - primavera 2003, pp. 167-208. 19 Cui ricorrono gli attori «che non solo imitano nelli affetti e proprietà delle azzioni, ma ancora, con l’introdur varie lingue, sono necessitati a procurare di sapere ottimamente imitare»; primo Prologo in F. SCALA, Il finto marito, Venezia, Baba, 1618 (fra le varie edizioni moderne, oltre alle due di Marotti, v. Commedie dei comici dell’Arte, a cura di Laura Falavolti, Torino, Utet, 1982). 107 ROBERTO CUPPONE c) d) e) f) demoniaci di questa confusione linguistica, così condivisi dalla tradizione medievale e giullaresca20; un focus dedicatorio, in cui Isabella prende a pretesto quella stessa convenzione (pazzia = plurilinguismo = teatro) per rivolgere espressioni, anche musicali, esplicite («canzonette»), alla sua prima spettatrice e dedicataria dello spettacolo, madrelingua francese, Cristina di Lorena (Isabella ha ventisette anni, Cristina ventiquattro: che ci sia forse più che piaggeria da parte di Isabella, forse identificazione?); esplicitando apertamente, ove fosse ancora necessario, il carattere metateatrale della rappresentazione, il suo essere intrinsecamente in limine; il climax parossistico dello specchio, dove sempre in modo metateatrale imita i propri compagni, le loro identità stereotipate, così come nella vita spesso la follia ci restituisce impietosamente le nostre “fissazioni”; in un sublime gioco, come ben si vede, che va oltre il virtuosismo imitativo, ma ambisce drammaturgicamente a significare le straordinarie potenzialità del teatro quando si volge alla quotidianità, facendosi mimesi; la “guarigione”, che ormai non può essere che convenzionale, favolistica appunto, rappresentata non come ci si aspetterebbe oggi, come superamento dei motivi della sofferenza, sui quali anzi il resoconto tace rumorosamente, ma solo come meccanico ripristino dello status ante («con certe acque, che le furono date à bere, ritornò nel suo primo essere»); infine la necessaria morale («con elegante, & dotto stile esplicando le passioni d’amore, & i travagli, che provano quelli, che si ritrovano in simil panie involti [...] mostrando nel recitar questa Pazzia il suo sano, e dotto intelletto») per cui appunto Chiabrera, forse proprio nella stessa circostanza fiorentina, la riconosce «saggia tra ’l suon, saggia tra i canti»21; non si sottovaluti il valore tutt’altro che posticcio 20 Sul topos dei “diversi lenguazi” e sulla sua provenienza medievale, v. ROBERTO CUPPONE, Arlecchino, langue e paroles, in MARIANGELA GISIANO, La lingua di Arlecchino, Aprilia, Novalogos, 2013. 21 GABRIELLO CHIABRERA, Nel giorno, che sublime in bassi manti, in ISABELLA ANDREINI, Rime d’Isabella Andreini Padovana: comica gelosa, Milano, Girolamo Bordone e Pietromartire Locarni compagni, 1601, p. 200 (sonetto CLXXI); per il rapporto di Isabella con il poeta, 108 ISABELLA DELLE FAVOLE di questa ricomposizione, fondamentale per aiutare lo spettatore a leggere ciò che ha visto nel senso metateatrale che si diceva, non come una mera sequenza di numeri teatrali, al fine di intrattenere, ma come consapevole e istruttivo attraversamento degli antipodi di cui è stata capace l’attrice grazie al teatro – e il teatro grazie a lei. Se ora analizziamo lo stesso numero ricostruito da Scala nel suo canovaccio, cioè visto dall’interno, dall’attore e regista, possiamo isolare la sequenza che segue, che innanzitutto si distingue nel suo spendersi in un tempo narrativo più lungo e articolato, lanciato strategicamente a cavallo fra secondo e terzo atto (azione, quindi peripezia e infine riconoscimento): alla fine dicendo che l’anima sua vuol quella di quel traditore, diventa pazza affatto, si straccia tutte le vestimenta d’attorno, e come forsennata se ne corre per strada. Ricciolina, tutta spaventata, se ne fugge in casa, e finisce l’atto secondo. TERZO ATTO [...] ISABELLA vestita da pazza, si pone in mezzo di Burattino e di Franceschina, dicendo voler loro dire cose di grandissima importanza. Essi si fermano ad ascoltare, et ella comincia a dire: “Io mi ricordo l’anno non me lo ricordo, che un Arpicordo pose d’accordo una Pavaniglia spagnola con una Gagliarda di Santin da Parma, per la qual cosa poi le lasagne, i maccheroni e la polenta si vestirono a bruno, non potendo comportare che la gatta fura fusse amica delle belle fanciulle d’Algieri; pure, come piacque al califfo d’Egitto, fu concluso che domattina sarete tutti duo messi in berlina”, seguitando poi di dire cose simili da pazza. Essi la vogliono pigliare, et ella se ne fugge per strada, et essi la seguono. [...] ISABELLA da pazza, dice al Capitano di conoscerlo, lo saluta, e dice d’averlo veduto fra le quarantotto imagini celesti che ballava il Canario con la Luna vestita di verde, et altre cose tutte allo sproposito, poi col suo bastone bastona il Capitano et Arlecchino, quali fuggono, et ella dietro seguitandoli. [...] ISABELLA arriva pian piano, e si pone in mezzo a Pantalone et a Graziano, dicendo che stieno cheti, e che non facciano romore, perché Giove vuol stranutare e Saturno vuol tirar una coreggia; poi, seguitando altri spropositi, domanda loro se avrebbono veduto Orazio solo contra Toscana tutta; in quello ORAZIO arriva, dicendo: “Son qua, anima mia”, et ella rispondendo dice: “Anima secondo Aristotele è spirito, che si diffonde per le botte del moscatello di Monte Fiascone, e che per ciò fu veduto l’arco baleno far un serviziale all’Isola d’Inghilterv. FRANCO VAZZOLER, Il poeta, l’attrice, la cantante. A proposito di Chiabrera nella vita teatrale e musicale del XVII secolo, «Teatro e storia», VI, ottobre 1991, 2, pp. 305-334. 109 ROBERTO CUPPONE ra, che non poteva pisciare”, soggiungendo altre cose allo sproposito; in quello PEDROLINO BURATTINO FRANCESCHINA CAPITANO [ISABELLA] tutti gridando: “Piglia la pazza, piglia la pazza”, e qui tutti li sono addosso, la pigliano e la legano. Graziano subito piglia il suo segreto, col quale gli unge tutti i sentimenti, e dopo li fa bere un liquore qual egli tiene in un’ampollina; il che fatto, ella, a poco a poco, si risente e torna in sé. Ritornata saggia, vede Orazio, al quale ricorda quanto ha fatto per lui, con breve giro di parole, lamentandosi che l’abbia tradita e per altra donna abbandonata. Orazio confessa l’error suo et il suo mancamento, li chiede perdono, dicendoli volerla sposare allora allora. Isabella, tutta allegra, pone in oblìo ogni passata cosa e l’accetta per suo. Pantalone si rallegra; in quello FLAVIO [FLAMINIA] [RICCIOLINA] col braccio al collo; vede Isabella, la quale umilmente li chiede perdono, facendoli sapere come Orazio l’ha sposata di fede. Flavio si rallegra e li perdona; e così Orazio sposa Isabella, Flavio Flaminia, Pedrolino Franceschina, e Burattino Ricciolina, e finisce la comedia della pazzia d’Isabella.22 Va subito detto che l’evidente mancata corrispondenza strutturale fra il primo e il secondo récit non suscita stupore; semmai dimostra la prevedibile distanza fra una performance situata all’altezza del 1589 e basata su un confronto anche ufficialmente presentato come una gara di bravura fra attrici (nello stesso contesto Vittoria Piissimi si esibiva nel suo cavallo di battaglia, la Cingana)23 e una razionalizzazione posteriore, e forse di non poco (compresa appunto fra il 1589 e il 1611), in cui Scala opera quella “normalizzazione” che si diceva dei numeri d’attore in ragione dell’autonomia del canovaccio. Dunque si spiega come fin da principio nella seconda versione l’identità stessa del personaggio sia più complessa, intrinsecamente tragica: laddove nel 1589 Isabella non era che un’innamorata delusa (al punto che lo scatenamento della pazzia, a livello di plot, rischiava di rientrare in quella tipologia di comportamenti amorosi convenzionali, “febbri”, “svenimenti” e quant’altro, quali ritroviamo elencati più volte nella La pazzia di Isabella, in SCALA, giornata XXXVIII, pp. 385-396. «Ritrovandosi in Fiorenza li Comici Gelosi con quelle due famosissime Donne la Vittoria, & l’Isabella, parve al Gran Duca, che per trattenimento fosse buono far, che recitassero una Comedia à gusto loro. Così vennero quasi, che à contesa le dette Donne fra di loro, perche la Vittoria voleva si recitasse la Cingana, & l’altra voleva si facesse la sua Pazzia, titolata la Pazzia d’Isabella, sendo, che la favorita della Vittoria è la Cingana, &: la Pazzia, la favorita d’Isabella. Però s’accordarono in questo, che la prima à recitarsi fusse la Cingana, & che un’altra volta si recitasse la Pazzia» (Diario descritto da Giuseppe Pavoni..., cit., p. LXXIII); fra l’altro proprio questo passo, in cui si parla di numeri abituali (“favoriti”) delle attrici, ci fa escludere che questa di Firenze sia in qualche modo un debutto della Pazzia. 22 23 110 ISABELLA DELLE FAVOLE Commedia dell’Arte, dai Fragmenti già visti via via fino al Perrucci24), ora è una turca fatta cristiana, sorta di Otello al femminile, come lui «guerriera», e insieme Medea, capace appunto di gesti estremi come uccidere, per amore d’Orazio, il marito e il figlioletto di due anni25. Nella messa a punto di Scala, la Geografia si fa costituente della Storia, come in altri storici cavalli di battaglia della Commedia dell’Arte (si pensi al valore epico della dislocazione delle peripezie di Don Giovanni, da L’ateista fulminato a tutte le sue varianti) e la Erkunft “barbara” del personaggio (Algieri) è senz’altro costituente del suo spaesamento; sempre non a caso, seppure meno significativamente, l’azione si sposta da una Padova autobiografica – dove Isabella era figlia del Pantalone Giulio Pasquati, suo concittadino anche nella vita26 – a una Genova 24 ANDREA PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata et all’improvviso. Parti due. Giovevole non solo a chi si diletta di rappresentare, ma a’ predicatori, oratori, accademici e curiosi, Napoli, Mutio, 1699 (ed. moderna: Firenze, Sansoni Antiquariato, 1961); secondo cui «non poca lode merita Isabella Andreini, degna degli encomii de’ più eccellenti Poeti di quei tempi» (p. 6) e che meriterebbe un più attento e sistematico confronto fra le pagine che dedica in particolare alle parti degli Innamorati (Delle Parti degl’Innamorati, seconda parte, p. 193) con quelle analoghe dei Fragmenti di Isabella Andreini. 25 In questo sfogo FRANCA ANGELINI (Isabella Andreini, «Primafila», 93, marzo 2003, pp. 54-59) vede «una sovrapposizione della figura del padre morto e la figura del suo amore»; ipotesi meno eccentrica di quello che sembra se, ad esempio, anche in una recente reinvenzione del canovaccio de La pazzia di Isabella (Venezia, 22 gennaio 1989, TAG Teatro, regia di Carlo Boso, scene di Emanuele Luzzati; ricerca storica di Cesare Molinari) Isabella viene fatta oggetto dell’equivalente cinquecentesco di una terapia analitica, con tanto di transfert nei confronti del Dottore curante. 26 «Ah, de’ miei cari Euganei il suolo amato / mi chiama» (cit. in F. VAZZOLER, La saggezza di Isabella, «Culture Teatrali», L’arte dei comici. Omaggio a Isabella Andreini nel quarto centenario della morte (1604-2004), numero monografico, 10, primavera 2004, pp. 107-131); anche trascurando il fatto che l’autobiografia è costituente ordinaria delle creazioni di questa prima grande generazione di comici, si consideri che Isabella, pur in epoche diverse, ha in compagnia almeno tre colleghi veneti: i più vicini sono i concittadini Orazio Nobili (in arte Orazio), che per F. BARTOLI (Notizie, cit.) sarebbe appunto colui che instrada Isabella all’arte comica (nella Ferza Francesco Andreini lo elenca fra i pochi attori contemporanei, con Vittoria Piissimi, raffigurati dall’arte in veste di dei) e Giulio Pasquati (in arte Pantalone), nella compagnia dei Gelosi certamente dal 1599 al 1604, ma forse anche già in Francia nel 1577; comunque significativa è anche la presenza di quel Giovan Battista Amorevoli da Treviso, anche lui in Francia coi Gelosi davanti a Enrico III nel 1577, specializzato nella parte en travesti di Franceschina, con cui Isabella fa sovente una piccante coppia comica, anche in doppio travestimento (Il marito) – per cui non sembra un caso che al passaggio di Amorevoli alla Compagnia degli Uniti-Confidenti (1584) ritroviamo una Vittoria degli Amorevoli (sua figlia?) nella parte, appunto, di Isabella. 111 ROBERTO CUPPONE porto di mare. Non più così gratuiti appaiono allora i suoi «spropositi», fra i quali, come ancora in Otello27, affiorano ricordi infantili: «io mi ricordo l’anno non me lo ricordo [...] una Pavaniglia spagnola» che si immagina da lei danzata a Maiorca, così forse come «le quarantotto imagini celesti che ballava il Canario»; e andando a ritroso «le belle fanciulle d’Algieri» o il «califfo d’Egitto». Così che a fronte di tale, coerente rimosso, già accuratamente ordito fin dall’Antefatto, il trauma scatenante della follia sembra arrivare, letteralmente, in sordina, quando Isabella di nascosto ascolta l’amato Orazio dichiarare di volersi liberare di lei «con qualche inganno, e finalmente col veleno» (si noti comunque che significativamente, già nella versione del 1589, pur in altra forma, scatenante era sempre l’inganno – dunque non la gelosia, né la delusione d’amore: Isabella usciva di sé proprio «trovandosi ingannata dall’insidie di Flavio» che l’aveva rapita a Fileno). Analoga, invece, in entrambe le versioni, ma forse un po’ più consapevole ed esplicita in Scala, è la consonanza del personaggio con le eroine ariostesche – fra tutto, in quel «furore» associato alla pazzia: [Pavoni:] ne sapendo pigliar rimedio al suo male, si diede del tutto in preda al dolore, & così vinta dalla passione e lasciandosi superare alla rabbia, & al furore uscì fuori di se stessa; [Scala:] Isabella rimane come insensata, poi, prorompendo in parole, essagera contra Orazio, contra Amore, contra Fortuna, contra se stessa, e per ultimo diventa pazza e furiosa. Sempre in ordine a questa consonanza ariostesca, nella progressione epica dell’invasamento secondo Scala, si noti il valore compositivo dell’«essagerazione» di Isabella, che si rivolge classicamente ma ordinatamente «contra Amore, contra Fortuna, contra se stessa». 27 «I ran it through, even from my boyish days, / To the very moment that he bade me tell it. / Wherein I spake of most disastrous chances, / Of moving accidents by flood and field; / Of hair-breadth scapes i’th’ imminent deadly breach; / Of being taken by the insolent foe; / And sold to slavery, and my redemption thence, / And with it all my traveller’s history» («E correvo indietro, giù giù ai giorni dell’infanzia, giusto fino all’istante in cui egli mi invitava a raccontare: e così parlavo delle sventure più disastrose, di casi emozionanti per mare e per terra, di pericoli scampati per un capello nell’imminenza d’una breccia mortale; o dell’esser preso dal nemico insolente, e venduto in schiavitù, e da lì del mio riscatto, e insomma di tutta la mia storia di nomade»), W. SHAKESPEARE, Othello, I, 3 (trad. nostra). 112 ISABELLA DELLE FAVOLE Del resto, sempre quanto a questo «furore» in sé, va notato poi che per l’Isabella di Scala è qualcosa di più che una convenzione epica legata alla demenza: quando Isabella, ormai pazza, «col suo bastone bastona il Capitano et Arlecchino», in fondo non si comporta diversamente da quando poco prima, sana, aveva aggredito Flavio in modo efferato: «avendo un cortello allato, se li accosta, dicendoli che mente, e li dà due o tre ferite. Flavio cade in terra versando il sangue» – vistosamente, si presume, dato che fra le «robbe per la commedia» è previsto l’effetto «vesiche con sangue». Gli è che questo «furore», rappresentato così letteralmente, nel suo dettaglio più “pornografico”, non è lontano dal costituirsi come una contestuale giustificazione anche della nudità; e questa forse, al di là delle molte cose che si sono dette sullo spogliarello della Pazzia, è la chiave drammaturgica con cui Scala “normalizza” a posteriori e rende moralmente accettabile un numero d’attrice che è chiaramente ricordato come l’antesignano dello strip tease. A questo proposito vale tornare al celebre passo di Pierre de l’Estoile che attribuisce proprio alla compagnia dei Gelosi la prima esplicita utilizzazione in questo senso delle attrici, le quali faisoient monstre de leurs seins et poitrines ouvertes et autre partes pectorales qui ont un perpetuel mouvement, que ces honnêtes Dames faisoient aller par compas ou mesure, comme un horloge, ou, pour mieux dire, comme les soufflets des mareschaux.28 Nelle parole del cortigiano di Enrico IV pare di riconoscere la posa statuaria e insieme sfrontata dell’Innamorata nel quadro Personnages de la Commedia dell’arte di François Bunel le jeune29, datato fra il Passo ripreso anche in F. MAROTTI, Introduzione, cit., p. XXXVI. Béziers, Musée Des Beaux Arts; Pantalone vi è trattenuto dai compagni, con dileggio (lo incoronano col gesto del cornuto) mentre l’Innamorata passa un biglietto all’amante; se effettivamente il quadro ritraesse Isabella, ancora più suggestiva sarebbe l’analogia della figura femminile con quella di un altro quadro dello stesso Bunel, Dame à sa toilette, dove compare sempre a seno nudo e con la mano destra in un atteggiamento affettato sorprendentemente identico, e dove la nostra curiosità è ancor più acuita da un altro tratto di sapore fortemente teatrale e si vorrebbe dire andreiniano, l’immagine riflessa nello specchio. François Bunel le jeune, nato a Blois intorno al 1552, ivi attivo e morto ante 1599, figlio dell’omonimo pittore detto le Vieux, dal 1583 è ufficialmente al servizio del re di Navarra, futuro Enrico IV, in qualità di pittore e “valet de chambre”; ma inizia a ritrarre il re e il suo entourage ben da prima, visto che gli si attribuisce anche un Henri IV enfant conservato al museo di Versailles. 28 29 113 ROBERTO CUPPONE 1578 e il 1590 – normalmente trascurato nelle iconografie dell’attrice, eppure con discreta probabilità ritraente la compagnia dei Gelosi e dunque forsanche Isabella. Quanto alle modalità teatrali dello spogliarello, è facile comprendere come fossero, come del resto avviene ancora oggi, abilmente giustificate nel contesto30, perfino esplicitate apertis verbis: «dicendo che l’anima sua vuol quella di quel traditore [...] si straccia tutte le vestimenta d’attorno, e come forsennata se ne corre per strada»; l’appello all’anima rende accettabile il corpo, un nudo probabilmente integrale («tutte le vestimenta») quantunque, letteralmente, fuggente («se ne corre per strada»); del resto subito attenuato alla prima rentrée di Isabella pudicamente «vestita da pazza», come conferma l’apposito «abito per la pazza» previsto dalle «robbe per la commedia» – sui cui spacchi e trasparenze naturalmente si possono lambiccare tutti i nostri voyeurismi postumi. A spiegazione dell’evidente sfasatura fra le immagini che ci arrivano da Pierre de l’Estoile e François Bunel e d’altro canto le parole agiografiche che ci arrivano da Francesco e Flaminio31, possiamo sempre immaginare che, nella logica di qualsiasi altra attrazione, anche lo “spogliarello” fosse modulato a seconda dei pubblici e della loro composizione: soprattutto tra il francese laico e l’italiano controriformista. E se anche questa ipotesi sembrasse incompatibile con l’immagine virtuosa promossa dai sodali dell’attrice, con quell’understatement vantato e praticato dalla seconda generazione di comici dell’arte, si consideri che 30 Al punto che c’è chi sostiene che Isabella «apre il corso dell’emancipazione dell’arte dalla prostituzione; della emancipazione del teatro dal puro mercenarismo. È colei che comincia un percorso che, simbolicamente parlando, finisce con Eleonora Duse» perché, come quest’ultima si riscatta dallo sguardo e dall’aspettativa tutta maschile di D’Annunzio, così Isabella si riscatterebbe da quella del cardinale Borromeo (F. ANGELINI, Isabella Andreini, cit., p. 59); la punta di ideologismo è spiegata dal fatto che l’articolo fa parte di uno speciale (contente anche articoli di Dacia Maraini e Maricla Boggio) intitolato “Le Isabelle”, come l’omonima associazione (1991) nata dal Teatro femminista La Maddalena e dedicata alle donne autrici di teatro. 31 Nel merito, Renzo Guardenti, a proposito della «forte discrepanza tra la documentazione letteraria e quella figurativa in relazione alla licenziosità delle attrici dell’Arte» arriva a parlare addirittura di una sorta di “rimozione”; RENZO GUARDENTI, Attrici in effigie, «Culture Teatrali», L’arte dei comici. Omaggio a Isabella Andreini nel quarto centenario della morte (1604-2004), cit., pp. 55-71. 114 ISABELLA DELLE FAVOLE Isabella Andreini proviene in fondo ancora dalla prima generazione della Commedia dell’Arte, quella dei buffoni, come Martinelli, e delle cosiddette “parti scannate”, quando erano gli attori a farsi portatori di attrazioni all’interno delle storie rappresentate; e che inizia a calcare le scene, si sposa e partorisce giovanissima, forse addirittura tredicenne, con scelte di vita che alla fin fine potrebbero essere viste, dai contemporanei ancor più che da noi, come ben più scabrose che qualche ammiccamento cortigiano en deshabillé. Concludendo, dunque, l’intervento (postumo?) di Scala sembra spianare l’irriducibilità e gli individualismi del primitivo apporto d’attrice (l’omissione più clamorosa di tutti: il numero dei «diversi lenguazi», sostituito da una più “moderna” e letterariamente ambiziosa ricerca del nonsense, non a caso trascritta nel canovaccio in forma di discorso diretto), per recuperare la trama a un nuovo uso autonomo: infatti egli stesso, a distanza di pochi anni, annuncerà con orgoglio che la nuova Isabella nei Confidenti, «la signora Lavinia ha fatto la Pazzia con contento e soddisfazione de tutto il popolo»32. Pur in questa visione evolutiva (e come potrebbe essere altrimenti?) o anzi forse proprio per questa, il numero della pazzia di Isabella si offre effettivamente a noi per una riflessione più ampia, a partire dallo scambio rivelatore di versi fra Gabriello Chiabrera e Isabella. Il poeta savonese non si perde dietro a tutte le spettacolari risorse del topos e rileva con sicurezza e acutezza soprattutto la natura ossimorica di questa rappresentazione: Nel giorno che, sublime in bassi manti Isabella imitava alto furore e, stolta con angelici sembianti hebbe del senno altrui gloria maggiore; alhor, saggia tra’l suon saggia tra i canti, non mosse piè che non scorgesse Amore.33 «Sublime» pur in «bassi manti» (così bassi, verrebbe da dire, da essere invisibili), «stolta» al punto da avere «angelici sembianti» 32 Lettera di Flaminio Scala a Don Giovanni dei Medici, Firenze, 2 dicembre 1616, riprodotta in S. FERRONE, Dalle parti ‘scannate’ al testo scritto, cit., p. 54. 33 Il sonetto compare per la prima volta in I. ANDREINI, Rime, cit., p. 200; cfr. supra, nota 21. 115 ROBERTO CUPPONE (quelli di un corpo nature), la sua rappresentazione del più «alto furore» le guadagna «del senno altrui gloria maggiore»: se questo è l’esito della sua arte imitativa, l’attrice non può che meritarsi l’appellativo di «saggia». Proprio il più gradito e atteso da Isabella, che immediatamente mette all’incasso: la tua gran Musa hor che non può? Quand’ella me stolta fa dell’altrui senno altera vittrice: ond’è, ch’ogni più dotta schiera furor insano alto saver appella.34 Siamo al punto: il teatro induce, e la letteratura («ogni più dotta schiera») riconosce quell’effetto catartico per cui «furor insano» riesce a produrre il più «alto saver». Tertium datur: una pazzia tragica Quantunque valga per Chiabrera lo stesso ragionamento fatto per Tasso: in mancanza di cronache dirette, non è escluso che la pazzia da lui vista in teatro e celebrata sulla pagina, possa essere (anche) quella meno conosciuta ma più esplicitamente drammatica de La forsennata prencipessa, “tragedia” della XLI giornata delle Favole che non caso apre la sezione delle opere serie. Qui Isabella (il tipo, se non l’attrice) è Alvira, «Prencipessa del Portogallo», la quale, tradita da Tarfé, in un’opportuna progressione, dapprima, ça va sans dire, «in camicia, tutta spaventata [...] se ne sta piangendo»; quindi, di fronte al Re, «vinta dal dolore, li cade nelle braccia tramortita»; infine, in una strana scena che evoca clamorosamente il mito di Salomè, cade ginocchioni, chiede perdono al fratello, raccontandoli come è stata tradita. Belardo li perdona [...] poi li presenta la testa del suo nemico. Ella la riceve, pregando il fratello che per un’ora la lasci sola, per poter essagerar contra il traditore morto. Ed è in questa ricercata solitudine, nel conflitto interiore fra vendetta e amore, che precipita la sua schizofrenia: 34 Ibid. 116 ISABELLA DELLE FAVOLE Alvira ragiona sopra il dolore che sente per lo ucciso amante e sopra l’allegrezza per vedersi innanzi la testa del suo nimico e, facendo varii pensieri, contrastando, diventa furiosa, pazza e delira, stracciandosi le chiome e squarciandosi i panni d’attorno, corre fuora della città verso il mare. Anche qui l’attesa per l’exitus è montata dai messaggeri di turno: dalle guardie che subito «entrano per dirlo a Belardo» fino a Pedrolino che entra «piangendo, per avere veduta la Prencipessa Alvira, pazza, correre lungo la riva del mare»; fino al finale del secondo atto in cui lei «pazza, viene facendo e dicendo molte cose da pazza e, sempre motteggiando sopra la testa di Tarfè», passa al discorso diretto: «Io non mi maraviglio che l’acqua del fiume sia dolce, e quella del mare salata, perché l’insalata va sempre col suo olio filosofo-rum, e con lo stretto di Gibiltarra, o vuoi di Zibilterra, che l’uno e l’altro nome li vien detto; pure, come piacque al suo fatal destino, quella poveretta dell’Orsa Maggiore si calzò gli stivali d’Artofilace et andò a pigliar ostreghe e cappe longhe nel golfo di Laiazzo, in ver Soria: che la cosa sia o non sia, sia voga, voga sia, e sia col malanno che Dio vi dia, e nella vostra tasca vi sia la mala pasca, e con usate tempre vi sia anche il mal sempre, e tutto ’l dì su l’asen». Pedrolino e Burattino se ne ridono, et ella soggiunge altre cose allo sproposito, ad imitazione di quanto ha detto, poi si mette a bastonarli. Essi fuggono, et ella dietro lungo il mare. L’ambivalenza grottesca del finale d’atto con le maschere, con la ripetizione («ad imitazione di quanto ha detto») e l’inseguimento un po’ marionettistico, si risolve decisamente in tragedia nel terzo atto, quando gli stessi inseguitori ritrovano Alvira ormai irraggiungibile, «sopra un altissimo scoglio la quale, dopo aver detto molti spropositi da pazza», finalmente si congeda dal mondo: «Oh che gran specchio mi si rappresenta innanzi a gli occhi, io in questo specchio vedo il sole tutto infocato arrostir nello spiedo, ad un fuoco di ghiaccio, quel traditore del Prencipe di Marocco, per aver rubbata una gallina ad un gallo all’osteria del moro. Ah, ahan, tu ci arrivasti pure! Pigliate del lardo vecchio e pergottatelo ben bene, ponetevi sopra del sale, e datelo a mangiare ad una brigata d’astomi, su, su, cavalieri d’onore, di qua si salta il periglioso varco, questa è la strada di Montefiasconi, questa è la vera via de Mestri e de Marghera, questo è ’l famoso carro di Fusina, e questa è la vera caldara de i maccheroni, dove entro v’erano le brache del Gonnella, sapientissimo filosofo. Addio, addio brigata, addio!». Ciò detto salta nel mare, s’affoga, e non si vede più. A testimonianza di come il topos della pazzia fosse così fondante per l’arte di Isabella (e per la compagnia ideale di Scala), come già nella 117 ROBERTO CUPPONE Pazzia di Isabella, troviamo qui i brani più lunghi di discorso diretto fra tutti quelli presenti nelle Favole. A differenza della commedia, però, il particolare macabro della testa di Tarfé mette subito sotto gli occhi di tutti la tragicità della situazione, che consiste appunto nella sua dichiarata irreversibilità. Inoltre, meno convenzionale che nella Pazzia appare il casus belli, scatenato non più solo dall’inganno in sé (anche qui effettivamente subito), ma dall’inconciliabile divaricazione dei sentimenti, fra amore (ormai non più perseguibile) e vendetta (fin troppo perseguita); analizzata con precisione quasi clinica. Infine, lasciando ad altri il commento sul valore “letterario” di questi monologhi, fra rime, assonanze e jeux de mots; non si può non notare come in particolare quello finale, del suicidio, sia denso di immagini metateatrali barocche («che gran specchio mi si rappresenta innanzi agli occhi»), di allusioni colte («di qua si salta il periglioso varco», di dantesca memoria) e insieme buffonesche (dall’osteria del Moro, ai “maccheroni”, a quel Gonella ricordato come «sapientissimo filosofo», quasi maestro, non diversamente dallo Yorick di Amleto), fino ad alcuni familiari toponimi veneti (Mestri, Marghera, Fusina), come se ancora una volta la strada ultima fosse quella del ritorno a casa. Isabella forsennata, Ofelia dissennata E dunque forse in fondo è piuttosto in base a quest’ultima traccia, piuttosto che per quella della più celebre commedia, che appare seducente e non del tutto destituita di fondamento l’idea di Franca Angelini di paragonare le pazzie di Isabella e di Ofelia, di confrontare i due massimi esempi barocchi di questo topos35: la «forsennata» con la «dissennata» (indeed distract36). Così descritta la prima volta dal Gentiluomo in Amleto, IV, 5: parla molto di suo padre, dice di sentire che ci sono inganni nel mondo: e sospira, e si batte il cuore; si indispone per una pagliuzza; dice cose dubbie, che han senso se non a metà; i suoi discorsi son niente, eppure l’uso informe che ne fa muove chi ascolta a raccoglierli; a fissarcisi e a far su le parole fin F. ANGELINI, Isabella Andreini, cit. «Fuori di sé», per Montale e Nemi D’Agostino; «con l’indiscrezione di chi non è in sé» per Squarzina; «fuori di senno» per Raffaello Piccoli. 35 36 118 ISABELLA DELLE FAVOLE che si adattino ai loro stessi pensieri; i quali, così come le sue occhiate e cenni e gesti li esprimono, davvero farebbero sì che uno pensi che ci sia pensiero, o che possa; benché non certo sicuro, pure chiaramente infelice.37 Anche l’arte di Shakespeare tripartisce il topos in una sapiente progressione drammatica: annunciato come abbiamo visto dall’araldo di turno, confermato poi da una prima sconcertante entrata di Ofelia, e infine concluso nel climax della seconda entrata, testamentaria, dove Ofelia somministra simbolicamente quei fiori di saggezza che poi la incoroneranno per secoli in pittura. A parte questo, è quasi inutile (e forse alla fine un po’ banale) dare peso a superficiali riscontri con la pazzia di Isabella – come in effetti il ruolo scatenante degli “inganni” (tricks), quella figura non troppo latente dell’irresponsabilità maschile (il “gallo”, cock) e in genere il manifestarsi della pazzia come ambiguità (“contrastando”, fra parole capaci “but half sense”), muovendo così, proprio per questo, «the hearers to collection»: OFELIA REGINA OFELIA REGINA OFELIA RE OFELIA (canta) Come posso del tuo vero amore da ogn’altro far distinzione? Dalle conchiglie sul cappello, dai sandali o dal bastone. Ah, dolce signora, che c’entra questa canzone? Dite? No no, vi prego, attenta. (canta) Lui è morto e andato, morto e andato; una pietra ai piedi e in testa una zolla di prato. Via, Ofelia... Vi prego, attenta. (canta) Bianco il suo lenzuolo come neve di montagna... [...] ...farcito d’ogni dolci fiore; che alla tomba se ne va, ma non lo bagna nessuna lacrima di veramore. Come state, graziosa signora? Bene, Dio vi rimeriti! Dicono che la civetta era figlia d’un fornaio. Signore, noi sappiamo cosa siamo, ma non sappiamo cosa possiamo essere... Dio sia alla vostra tavola! 37 «She speaks much of her father; says she hears / There’s tricks i’ the world; and hems, and beats her heart; / Spurns enviously at straws; speaks things in doubt, / That carry but half sense: her speech is nothing, / Yet the unshaped use of it doth move / The hearers to collection; they aim at it, / And botch the words up fit to their own thoughts; / Which, as her winks, and nods, and gestures / yield them, / Indeed would make one think there might be thought, / Though nothing sure, yet much unhappily» (trad. nostra). 119 ROBERTO CUPPONE RE OFELIA RE OFELIA RE OFELIA Farnetica su suo padre. Vi prego, neanche una parola su questo. Ma vi chiedessero mai che vuol dire, dite loro così: (canta) San Valentino doman s’appresta, di buonora la mattina, e anch’io, fanciulla, alla tua finestra, per esser la tua Valentina. Allora lui si alzò, i panni volse indossare e l’uscio della camera aprì; quella fanciulla fece entrare che mai più fanciulla se ne uscì. Graziosa Ofelia! Ma sì, davvero senza bestemmiare, ci voglio mettere la parola fine. (canta) Per Gesù e la Carità dei Santi, vergogna di vergogna! Lo fai da giovane se ci inciampi; ma a fare il gallo, abbine rampogna! Fa lei: «Prima di rotolarmi giù, mi promettesti matrimonio certo». «E così avrei fatto, per la luce del sole lassù, se tu non mi fossi cascata nel letto». Da quanto tempo sta così? Spero che tutto andrà bene. Dobbiamo aver pazienza, ma io non ho scelta, se non piangere al pensiero che han dovuto deporlo nella terra fredda. Mio fratello dovrà saperlo; e così io vi ringrazio per il vostro buon consiglio. Avanti, cocchio! Buona notte, signore; buona notte, dolci signore; buona notte, buona notte!38 38 «How should I your true love know / From another one? / By his cockle hat and staff, / And his sandal shoon. / QUEEN GERTRUDE Alas, sweet lady, what imports this song? / OPHELIA Say you? nay, pray you, mark. / Sings / He is dead and gone, lady, / He is dead and gone; / At his head a grass-green turf, / At his heels a stone. / QUEEN GERTRUDE Nay, but, Ophelia... / OPHELIA Pray you, mark. / Sings / White his shroud as the mountain snow... / Enter KING CLAUDIUS / QUEEN GERTRUDE Alas, look here, my lord. / OPHELIA / [Sings] / Larded with sweet flowers / Which bewept to the grave did go / With true-love showers. / KING CLAUDIUS How do you, pretty lady? / OPHELIA Well, God ‘ild you! They say the owl was a baker’s / daughter. Lord, we know what we are, but know not / what we may be. God be at your table! / KING CLAUDIUS Conceit upon her father. / OPHELIA Pray you, let’s have no words of this; but when they / ask you what it means, say you this: / Sings / To-morrow is Saint Valentine’s day, / All in the morning betime, / And I a maid at your window, / To be your Valentine. / Then up he rose, and donn’d his clothes, / And dupp’d the chamber-door; / Let in the maid, that out a maid / Never departed more. / OPHELIA Pretty Ophelia! / OPHELIA Indeed, la, without an oath, I’ll make an end on’t: / Sings / By Gis and by Saint Charity, / Alack, and fie for shame! / Young men will do’t, if they come to’t; / By cock, they are to blame. / Quoth she, before you tumbled me, / You 120 ISABELLA DELLE FAVOLE Congedatasi dai sovrani, Ofelia rientra, presente questa volta anche Laerte, e dispensa parole fattesi ormai letteralmente infiorescenze: rosmarino (ricordo) e viole del pensiero (riflessione) per il fratello; finocchio (lusinghe) e colombine (adulterio) al Re; ruta, l’amara pianta dell’aborto, per la Regina e per sé – forse per dirci che di Amleto ha in grembo ben più che il ricordo? –; sempre alla Regina sta per dare una margherita (innocenza) e violette (pudore), ma le restano giustamente in mano. Laddove Alvira, dall’alto dello scoglio, chiamava a testimoni i lontani toponimi della sua dissestata geografia, dal Marocco a Marghera, qui Ofelia più sommessamente chiama in appello il familiare microcosmo del bosco; ma entrambe, nell’urlo o nel sussurro, non possono non esprimere la naïveté della loro condizione in infantili rime baciate, che nelle loro fragili e illusorie rispondenze sembrano lenire la disperazione della mancanza di senso. OFELIA LAERTE OFELIA LAERTE OFELIA LAERTE OFELIA (canta) L’han portato nella bara a viso nudo; ehi nonnò nonnò, ehi no; e nella tomba gran pianto è piovuto... Statti bene, piccioncino! Se tu avessi il tuo spirito e mi incitassi alla vendetta, non potresti commuovermi così. Voi dovete cantare eggiù eggiù, e chiamatelo, sempre più giù. Oh, come la ruota gira così! È il maggiordomo infedele che rapì la figlia del suo padrone. Questo nulla è più che il punto. Ecco, rosmarino: questo è per il ricordo; ti prego amore, ricorda; ed ecco le viole, queste per i pensieri. È un fatto, nella pazzia: i pensieri e il ricordo, questo torna. Ecco del finocchio per voi, e le colombine; ecco, per voi ruta, e qui un po’ anche per me; possiamo chiamarla l’erba grazia delle domeniche; oh, ma voi la vostra ruta dovete portarla in un modo diverso. Ecco promised me to wed. / So would I ha’ done, by yonder sun, / An thou hadst not come to my bed. / KING CLAUDIUS How long hath she been thus? / OPHELIA I hope all will be well. We must be patient: but I / cannot choose but weep, to think they should lay him / i’ the cold ground. My brother shall know of it: / and so I thank you for your good counsel. Come, my / coach! Good night, ladies; good night, sweet ladies; / good night, good night» (trad. nostra). 121 ROBERTO CUPPONE LAERTE OFELIA una margherita: vorrei darvi qualche violetta, ma sono appassite tutte quando mio padre è morto; dicono che abbia fatto una buona fine... (canta) Perché il bello dolce Robin è tutta la mia gioia. Pensiero e afflizione, passione, l’inferno stesso, lei li gira in cortesia e grazia. (canta) E non tornerà più? E non tornerà più? No, no, finita è la sorte: va’ al tuo letto di morte, lui non tornerà più. La barba bianca, come nevicato, il suo capo come il lino; è andato, è andato, e il nostro gemito non ha destino: Dio abbia pietà della sua anima. E per tutte le anime cristiane, io prego Dio. Dio sia con voi!39 Per concludere con un paradosso, a parte la diversa “misura” (Ofelia impazzisce in versi, Isabella in prosa; seppure entrambe cantando), Isabella, nella sua follia «full of sound and fury, signifying nothing», sembrerebbe incredibilmente più “scespiriana” di Ofelia40, 39 «OPHELIA They bore him barefaced on the bier; / Hey non nonny, nonny, hey nonny; / And in his grave rain’d many a tear... / Fare you well, my dove! / LAERTES Hadst thou thy wits, and didst persuade revenge, / It could not move thus. / OPHELIA You must sing a-down a-down, / An you call him a-down-a. / O, how the wheel becomes it! It is the false / steward, that stole his master’s daughter. / LAERTES This nothing’s more than matter. / OPHELIA There’s rosemary, that’s for remembrance; pray, / love, remember: and there is pansies. that’s for thoughts. / LAERTES A document in madness, thoughts and remembrance fitted. / OPHELIA There’s fennel for you, and columbines: there’s rue for you; and here’s some for me: we may call it / herb-grace o’ Sundays: O you must wear your rue with / a difference. There’s a daisy: I would give you / some violets, but they withered all when my father / died: they say he made a good end... Sings For bonny sweet Robin is all my joy. / LAERTES Thought and affliction, passion, hell itself, / She turns to favour and to prettiness. / OPHELIA [Sings] / And will he not come again? / And will he not come again? / No, no, he is dead: / Go to thy death-bed: / He never will come again. / His beard was as white as snow, / All flaxen was his poll: / He is gone, he is gone, / And we cast away moan: / God ha’ mercy on his soul! / And of all Christian souls, I pray God. / God be wi’ ye». 40 Tanto che c’è chi rimpiange che Isabella non abbia avuto per sé grandi autori contemporanei, come Shakespeare appunto, o Calderon; cfr. ROSAMONDE GILDER, Enter the Actress. The First Woman in the Theatre, Boston, Houghton Mifflin Company, 1931, pp. 75 ss. 122 ISABELLA DELLE FAVOLE proprio in virtù della sua convinzione, altrove espressa, che «l’esser e il non esser, secondo alcuni, star insieme non possono»41. Non c’è dubbio comunque che, al di là di alcune affinità compositive e linguistiche, legate al topos, la follia di Alvira/Isabella risulti radicalmente diversa, tanto epica e spettacolare quanto quella di Ofelia intima e pudica, tutta interna al personaggio e alle sue ragioni affettive. In effetti Scala sta a Shakespeare come il metateatro sta alla poesia. D’altro canto, in fondo proprio questa sua metateatralità preserva Alvira/Isabella – si vorrebbe dire anche nella vita e nella memoria – dalla discussione se meriti sepoltura cristiana oppure no; che, come si sa, rischia di ridursi a grottesco dilemma da becchini. Un bel caratterino Ma tornando alla simulazione di partenza, a questo non inutile identikit di una “Isabella delle favole”, oltre al topos della follia può essere interessante valutare alcune altre ricorrenze statistiche nella raccolta di Flaminio Scala. Poco significativa in fondo appare nei canovacci la “condizione” di Isabella, la sua anagrafe, legata in fondo alla prospettiva evolutiva di questa raccolta che dunque può ritrarne l’arte in momenti molto diversi della carriera, in età e situazioni anche lontane fra loro: così se non ci stupisce trovarla prevalentemente nel ruolo di figlia (del Dottore, otto volte; di Cassandro quattro; di Tofano viniziano; di un mercante leonese) o di familiare del concittadino Pantalone Pasquati (figlia sei volte, moglie tre); oppure sorella del Capitano Spavento (nella vita suo marito Francesco) e sorella di Flavio (lo stesso Flaminio Scala); non ci stupisce neppure ritrovarla più âgée in altera vedova (ben cinque volte); in gentildonna; finanche in adultera boccaccesca nel noto caso del Vecchio geloso, significativamente ambientato nella prude provincia padovana, come del resto la sua prima Pazzia. 41 I. ANDREINI, Lettere d’Isabella Andreini padovana, comica gelosa, et academica intenta, nominata l’Accesa, Stampate in Venetia, & ristampate in Torino appresso i fratelli De Caualleris, 1607 (cfr. F. VAZZOLER, La saggezza di Isabella, cit., p. 124). 123 ROBERTO CUPPONE Più interessante forse è constatare come il topos della pazzia non sia relegato all’omonimo canovaccio, ma sia un numero associato frequentemente al tipo di Isabella: ne La finta pazza si fa inseguitrice dell’amato («li corre dietro fingendo pazzie», «con tutti fa diverse pazzie»); ne Il cavadente è lei stessa causa di insania (fa impazzire Orazio e poi lo risana con le pillole); in Li duo capitani simili spacca tutto; in Li duo fidi notari si aggira come una specie di Donna Anna dongiovannesca («fingendo la muta e la spiritata insieme, salta addosso a Pedrolino»); ne Il finto negromante si lascia solo credere tale («Graziano, vedendo Isabella ballare e cantare, crede ch’ella sia diventata pazza»); come pure ne Li quattro finti spiritati, dove appunto è una dei quattro buontemponi del titolo – si aggiunga che, come si è visto, in tali circostanze spesso balla, anche se non sembra uno degli skills principali del suo tipo. Non sembra così ricorrente invece il virtuosismo dei «diversi lenguazi»: la ritroviamo a parlare soltanto francese (La fortunata Isabella) e due volte turchesco (La fortuna di Flavio, Isabella astrologa), oltre che presumibilmente i dialetti delle maschere di cui fa le caricature nella Pazzia, come abbiamo visto (ammesso che, quando la ritroviamo esplicitamente «fiorentina», «romana», «vinitiana», «da Pavia», finanche «zingana» o quant’altro, non caratterizzi in qualche modo la sua provenienza); a dimostrazione del fatto che Scala sembra considerare questa risorsa un bagaglio buffonesco, demodé, troppo eccentrico nell’universo moderno e coerente delle sue nuove favole. Resta invece per lei una risorsa primaria il travestimento, restando forse l’agnizione una componente più classica e insieme dinamica per la commedia; al punto che il suo travestimento in sé è più volte nel titolo stesso della commedia: Il finto Tofano, Li due zingari, Li quattro finti spiritati, La creduta morta, La finta pazza. In particolare, troviamo Isabella travestita variamente quattro volte: in maga per burla (Li duo vecchi gemelli), «in abito di serva» (La fortunata Isabella), da Ortensia (Il portalettere) e appunto da Zingana (Li duo finti zingani). Ma soprattutto da uomo, come ben tramandano la leggenda e opportunamente lei stessa («e come ne’ teatri or donna ed ora / uom fei rappresentando in vario stile / quanto volle insegnar Natura ed Arte»42): 42 I. ANDREINI, S’alcun fia mai, che i versi miei negletti, in Rime, cit., p. 1 (sonetto introduttivo). 124 ISABELLA DELLE FAVOLE ben dodici volte. La troviamo una volta ancora «da turco [...] per uccidere Flaminia» (La sposa); vestita da soldato per «rubar Flaminia» (Il capitano); da Fabrizio paggio due volte (dove Fabrizio sembra quasi un nom de plume, per “travestito”), la prima dove «caccia mano alla spada» contro Arlecchino (Il pellegrino fido amante) e la seconda dove addirittura, già in uomo, si traveste da donna, nella vertigine barocca de Lo specchio43; talmente credibile nel suo travestimento che come «Fabrizio servo» ne Li finti servi «viene accusato di aver ingravidata Flaminia»; o più spesso genericamente «vestita da uomo» (Li tragici successi, Il giusto castigo, La mancata fede, Li tappeti alessandrini); talvolta fin dall’inizio, dando corpo a un autentico teaser narrativo in attesa dell’agnizione; altre volte travestendosi in corso d’opera per inseguimenti notturni e duelli non sempre interrotti; come ne La gelosa Isabella, dove l’idea pruriginosa le nasce «avendo trovata la comodità di quell’abito adoperato in una rappresentazione fatta fra loro donzelle». E se ancora la troviamo un po’ convenzionalmente in Arlecchino (Il finto cieco, col pretesto di accompagnare un Flavio cieco) o in Pedrolino (Le disgrazie di Flavio), non è così banale in fondo scoprire che Il finto Tofano è lei, cioè «Isabella nell’abito di Tofano suo padre» – con buona pace postuma di Freud. Perché la straordinaria varietà della casistica dei suoi travestimenti maschili (o, dobbiamo sempre ricordarlo, a lei attribuiti da Scala) va ben oltre, come è evidente, il mero virtuosismo o l’abile sfruttamento del voyeurismo degli spettatori: c’è indagine psicologica, paradossalità narrativa, infine una mise en abîme senza ritorno del rispecchiamento dei sessi. Dove Isabella allo specchio rivive quello che oggi si definirebbe la sua scena primaria: «Pantalone dice a Fabrizio se vede altro nello specchio. Fabrizio dice veder un giovane simile a Pantalone dentro una cittade, figura Napoli, far l’amore con una donna, goderla e detta donna rimane gravida di lui; poi dice Pantalone partirsi per Roma, vede la donna partorire una fanciulla, la quale fatta grande, la conduce vestita da ragazzo a Roma, ponendola a star per servo con suo padre; vede quella figliola scoprirsi a Flavio per sua sorella; vede ch’ella si veste da donna e come il padre la fa guardare in uno specchio, dicendo: “Padre mio, io son quella, et Olimpia è mia madre!” Pantalone, piangendo per tenerezza, l’abbraccia e riceve per figlia». È quasi superfluo ricordare l’analogia di questo canovaccio con L’amore allo specchio di Giovan Battista Andreini, dove il figlio (!) di Isabella in fondo esprime al più alto grado di consapevolezza l’appeal che doveva esercitare in teatro la tecnica del travestimento sessuale, la segreta corrispondenza fra ruolo sessuale e ruolo teatrale (cfr. NEVIA BUOMMINO, Lo specchio nel teatro di Giovan Battista Andreini, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1999); lasciandoci riflettere su questo ossimoro di Isabella, fra bisessualità ostentata e monogamia praticata (sette figli). 43 125 ROBERTO CUPPONE Che apparentemente male si concilia con alcune clamorose sopravvivenze zannesche, come ne Il vecchio geloso dove troviamo un’Isabella tutt’altro che di «angelici sembianti»: mentre si balla, Isabella accenna a suo marito di voler orinare. Pasquella subito, con licenza di Pantalone, la conduce in casa. Pantalone subito, per gelosia, si pone alla guardia della porta, e, mentre che di nuovo si balla, Flaminia vorrebbe entrare in casa Pasquella; subito Pedrolino, perché non disturbi Orazio, la invita a ballare; e così ognuno vorrebbe entrare in casa Pasquella per far qualche servizio, e Pantalone tien detto: «Di grazia, non andate a disturbar mia moglie, la quale fa un servizio». Alla fine vien fuora Isabella tutta sudata. Pantalone subito la rasciuga col suo fazzoletto, dicendoli che quando gli vengono quelle volontà, che se le cavi e non patisca. Tutti si levano dal ballo, per andare a diporto, e così s’incamminano, e Pantalone gli seguita, asciugando il viso a sua moglie, la quale fa della vergognosa, accarezzando suo marito, via, e finisce l’atto secondo.44 Seguendo poi ancora una volta Taviani, alla ricerca di quel «vigore scenico che la distingue dalle attrici specializzate nel ruolo di innamorate liriche, e la spinge a cercare parti maschili, scene di eccesso e di forza»45, la ritroviamo «tutta ira e veleno per quello che ha veduto» (Il finto Tofano); che bastona «ben bene» i servi per averli sorpresi in cantina a rubare il vino (Il pedante); che «salta addosso a Flavio, li dà dei pugni» (Le disgrazie di Flavio), di nuovo schiaffeggia Flavio e bastona Pedrolino (La caccia); e ancora in erinni «risoluta di voler ammazzare Orazio», che lo «assalta [...] cacciando mano alla spada» e infine «si dispera che il suo colpo non abbia avuto effetto». A inseguire poi le situazioni potenzialmente metateatrali ci sarebbe da perdersi: se già abbiamo visto, ad esempio, i topoi della pazzia, dello specchio o la «rappresentazione fatta fra loro donzelle» ne La gelosa Isabella, la commedia più rappresentativa in questo senso è Il ritratto, dove Isabella inscena (sfrutta teatralmente) la sua rivalità artistica con Vittoria Piissimi, già abilmente pubblicizzata, come abbiamo visto, all’epoca della Pazzia medicea: rivolta poi a Vittoria, li dice che, se li fusse onore mettersi con una comediante simil a lei, che le insegnerebbe a procedere, et entra. Vittoria se ne ride, dicendo 44 45 SCALA, Il vecchio geloso, II. F. TAVIANI, Bella d’Asia..., cit., p. 8. 126 ISABELLA DELLE FAVOLE che, dove arrivano compagnie di comedianti, le donne maritate il più delle volte stanno a bocca secca. E si noti comunque che, fra le due, la parte della commediante di professione tocca alla collega più anziana in servizio, mentre Isabella tiene per sé quella più political correct di «donna maritata». Per finire poi elencando le ricorrenze e i numeri più vari, non stupiscono le sue frequenti entrées dal balcone, così come nei celebri affreschi di Paduano a Trausnitz e in tanta tipica iconografia; né di ritrovarla più volte incinta (stato che avrà avuto occasione di rappresentare con realismo per almeno sette volte, per nove mesi) o in frequente coppia comica con Franceschina: nel celebre Il marito, Franceschina è la sua serva travestita da Cornelio, suo marito appunto (e considerato che per un breve tratto di tournée dei Gelosi avrebbe potuto essere quel Giovanbattista Amorevoli da Treviso en travesti, il doppio inganno sembra ancora più madornale); nella Creduta morta se ne «escono spogliate» entrambe, con evidente effetto boccaccesco; talvolta si scambiano, nella più classica tradizione dongiovannesca, come ne La gelosa Isabella dove Franceschina fa la voce di Isabella dalla finestra. Quanto a questo, Isabella imita spesso anche altri compagni (e talvolta essi rifanno il verso a lei), indossandone addirittura il costume: da Tofano per un intero terzo atto, da Pedrolino e perfino da Arlecchino – se l’Arlecchino de Il finto cieco fu mai realmente in scena Tristano Martinelli, potrebbe essersi prodotta una bella gara di bravura (e sennò, che suggestione immaginarlo). Per concludere, non ci sorprende constatare che la nostra (pseudo)Isabella sapeva scherzare anche con la morte. Per questo non le crediamo, per la prima e ultima volta, quando ne Li tragici successi per amore «con l’aiuto del medico, si finge morta»; o quando ne Li duo finti zingani «si pone a seder sopra la sedia, vestita delle sue prime vesti, tiene gli occhi serrati fingendo la morta». Ed è per questo che lo storico che qui scrive, ormai anch’egli nei panni di Pedrolino, finge un circolo attorno a Isabella con una bacchetta, poi finge segnarlo con caratteri diabolici, e fa movere una mano a Isabella, poi l’altra, poi aprire un occhio, poi l’altro, la fa caminare, la fa cantare, ballare, ridere et altre cose da persona viva. 127 ROBERTO CUPPONE Sinossi dei principali numeri di Isabella ne Il Teatro delle Favole Rappresentative di Flaminio Scala I giornata Li duo vecchi gemelli comedia II giornata La fortuna di Flavio comedia III giornata La fortunata Isabella comedia IV giornata Le burle d’Isabella comedia V giornata Flavio tradito comedia VI giornata Il vecchio geloso comedia VII giornata La creduta morta comedia VIII giornata La finta pazza comedia IX giornata Il marito comedia X giornata La sposa comedia XI giornata Il capitano comedia XII giornata Il cavadente comedia Fiorenza Vedova nobile; si finge maga per burla; combina il matrimonio di Flaminia Roma Prob. Aliffa turca, sorella d’Orazio, fattasi cristiana; si traveste da Turchetto, ciarlatano, «suona e canta» Roma Nobile genovese, «in abito di serva, partitasi di Genova», in cerca del Capitano traditore; poi «vestita nobilmente delle sue veste»; parla francese Perugia Vedova, sorella di Orazio; cerca di avere il Capitano con l’inganno Fiorenza Figlia del Dottore, è «gravida» di Flavio, ma si credono padri anche Capitano e Orazio Villa sul padovano Moglie di Pantalone; si è promessa a Orazio in villeggiatura; balla più volte; scena boccaccesca di adulterio all’insaputa del vecchio Bologna città Figlia del Dottore; vien rapita dal Capitano; Isabella e Franceschina escono «spogliate» in una scena notturna Pesaro città Figlia di Pantalone; promessa al Dottore «li corre dietro fingendo pazzie, li dà»; «con tutti fa diverse pazzie»; anche Orazio «fa diverse pazzie» Napoli città Figlia del Dottore, sposata con Cornelio (Franceschina en travesti) in attesa del ritorno di Orazio Venezia Sorella del Capitano; «in abito da uomo» per uccidere Flaminia; «seguendola con la spada ignuda, per ucciderla»; «caccia mano alla spada e bravando Pantalone» Milano città «Sviata da Orazio, poi figlia di Cassandro»; subisce più volte «villania»; «vestita da soldato» col Capitano, «per disturbar le nozze» e poi per «rubar Flaminia»; «disfida Orazio per mancatore di fede e traditore» Roma città Vedova, sorella di Flavio; con «confetti» fa impazzire Pedrolino e poi Orazio, che poi risana (segue) 128 ISABELLA DELLE FAVOLE XIII giornata Il dottor disperato comedia XIV giornata Il pellegrino fido amante comedia XV giornata La travagliata Isabella comedia XVI giornata Lo specchio comedia XVII giornata Li duo capitani simili comedia XVIII giornata Li tragici successi comedia XIX giornata Li tre fidi amici comedia XX giornata Li duo fidi notari comedia XXI giornata Il finto negromante comedia Bologna città Figlia di Cassandro; giunge da Pavia; scena d’amore alla finestra dopo cui Orazio «cade tramortito» Genova città «Fabrizio paggio» fin dall’inizio; «racconta le miserie degli amanti, dicendo in uno male d’Amore»; «caccia mano alla spada» per inseguire Arlecchino; «si scopre per donna a Orazio» Roma città Prob. Flavia, «nobile da sé»; non si capisce il titolo Roma città Fabrizio paggio fin dall’inizio, poi figlia di Pantalone; «va con un bastone dietro ad Arlecchino»; «vestito da donna [!], finge di piangere»; lo specchio scatena l’agnizione Roma città Figlia del Dottore; fa coppia con Franceschina; «piena di rabbia, s’avventa a Flaminia battendola, e seco battendo come pazza tutti gli altri che sono in scena [...] Isabella entra quasi come pazza, e Franceschina, come spiritata, entra anch’ella»; «ha rotto tutti piatti, i vetri e quanto era in casa da rompere» Fiorenza città Figlia del Dottore, «camicia e pugnale per Isabella»; si finge morta, scena cimiteriale; «vestita da uomo, per trovar cavalli», «in camicia con zimarra attorno» Roma città Figlia di Pantalone; «si dispone monacarsi»; «essagera contra Amore [...] quasi fuora di sé» Bologna città Figlia del Dottore; «Isabella, Franceschina: essendo di notte, portano fuora di casa Pedrolino, al quale hanno dato la dormia»; accusa falsamente il Capitano d’averla sforzata (donna Anna); «fingendo la muta e la spiritata insieme, salta addosso a Pedrolino»; il Capitano finge di sanarla magicamente Roma città Figlia del Dottore; dice «sua gravidanza va crescendo» (simmetrica con Flaminia); «Graziano, vedendo Isabella ballare e cantare, crede ch’ella sia diventata pazza» (segue) 129 ROBERTO CUPPONE XXII giornata Il creduto morto comedia XXIII giornata Il portalettere comedia XXIV giornata Il finto Tofano comedia XXV giornata La gelosa Isabella comedia XXVI giornata Li tappeti alessandrini comedia XXVII giornata La mancata fede comedia Fiorenza città Vedova; «più volte lo prega e lo minaccia, et egli sempre si mostra ritroso a le sue voglie», così vuol far uccidere Orazio dal Capitano; quando crede sia morto, vuol far uccidere il Capitano Roma città Isabella (poi Ortensia), figlia di Pantalone (poi Stefanello) Roma città Figlia di Tofano viniziano; «accarezza Pantalone, simulando»; «tutta ira e veleno per quello che ha veduto»; «Isabella nell’abito di Tofano suo padre [...] avend’ella zazzera e barba posticcia, simile a quella di suo padre» Roma città Figlia di Pantalone; «vestita da uomo, avendo trovata la comodità di quell’abito adoperato in una rappresentazione fatta fra loro donzelle» (ma tutti scambiano Fabrizio, suo fratello, per lei vestita da uomo); «caccia mano alla spada, contra Orazio», di cui è gelosa; Franceschina fa la voce di Isabella alla finestra Roma città «Fabrizio, cioè Isabella da uomo»; viene da Bologna come Flaminia, travestita da zingara, con cui fanno coppia Mantova città «Isabella da uomo, figlia di Cassandro Aretusi»; «Orazio [...] li domanda se conosceva Isabella, e come era bella. Ella subito li dice ch’ella lo somigliava, e per l’etade, e per molt’altre parti che sono in lui, e qui comincia a dire: “Signor mio, vedete voi queste mie mani? Fate conto che queste sieno come le sue istesse”; Orazio le bacia; poi, seguitando, dice i suoi capegli simili a quelli d’Isabella. Orazio li loda, et ella sogiunge de gli occhi, del volto e della bocca. Allora Orazio l’abbraccia e, baciandola, dice: “Deh, perché non poss’io baciare così la mia cara moglie?”»; «Burattino riprende Orazio perché bacia un giovanetto sbarbato» (segue) 130 ISABELLA DELLE FAVOLE XXVIII giornata Flavio finto negromante comedia XXIX giornata Il fido amico comedia XXX giornata Li finti servi comedia XXXI giornata Il pedante comedia XXXII giornata Li duo finti zingani comedia XXXIII giornata Li quattro finti spiritati comedia Pesaro città Figlia del Dottore; Cintio e Orazio rivali nell’amore per Isabella: «intende gli amori loro, dapoi domanda quali son quelle parti in lei, che gli hanno fatti innamorare. Orazio fonda l’amor suo sulla bellezza del corpo, lodando a parte a parte la bellezza di quello. Cintio, appigliandosi alla bellezza dell’animo, racconta le bellissime doti di quello, dicendo quelle farlo arder di lei. Isabella, udite le parti che hanno in loro cagionato amore, dice che Cintio goda della bellezza dell’animo suo e lasci che Orazio, suo marito, goda di quelle del corpo, et entra» Napoli città Figlia di Pantalone; rivale di Flaminia, che compare «col cappotto d’Isabella e col suo cappello» Fiorenza città «Fabrizio servo, cioè Isabella»; subito accusato da Pantalone «di aver ingravidata Flaminia»; «Cinzio fratello di Fabrizio, arriva, al quale ella discopre la gravidanza di Flaminia, da lui ingravidata di notte, credendosi ella godersi con Fabrizio, per la commodità datale da lui»; «Orazio dice a Pedrolino che se Fabrizio fosse donna, crederebbe ch’ella fusse innamorata di lui»; «Cintio con gli abiti di Isabella sua sorella» Venezia «Moglie di Pantalone veniziano»; «bastonando Pedrolino et il fachino, per averli trovati in cantina»; «alla fenestra, vede il Capitano, si lascia cadere il fazzoletto»; «bastona Pedrolino ben bene»; lascia credere al Pedante Cataldo di lasciarsi sedurre, «li ordina che vada nella sua camera, e che si ponga nel suo letto e si spogli»; «pensano che castigo li debbono dare e, fra molti supplizi raccontati, concludono castrarlo» Roma città «Isabella da Zingana, poi figlia di Pantalone»; «si pone a seder sopra la sedia, vestita delle sue prime vesti, tiene gli occhi serrati fingendo la morta»; Pedrolino «finge un circolo attorno a Isabella con una bacchetta, poi finge segnarlo con caratteri diabolici, e fa movere una mano a Isabella, poi l’altra, poi aprire un occhio, poi l’altro, la fa caminare, la fa cantare, ballare, ridere et altre cose da persona viva» Perugia città «lasciata da Cassandro suo padre»; Orazio «parla di diversi linguaggi»; Isabella «comincia a finger la spiritata [...] dice esser uno spirito amoroso che non lascierà mai quel corpo sin tanto che quel corpo non si congiunge col corpo d’Orazio» (segue) 131 ROBERTO CUPPONE XXXIV giornata Il finto cieco comedia XXXV giornata Le disgrazie di Flavio comedia XXXVI giornata Isabella astrologa comedia XXXVII giornata La caccia comedia XXXVIII giornata La pazzia d’Isabella comedia XXXIX giornata Il ritratto comedia XL giornata Il giusto castigo comedia Roma Figlia del mercante leonese; si veste da Arlecchino, per far da guida a Flavio finto cieco; Arlecchino le rende il favore «ne gli habiti di Isabella» Roma città Nobile e vedova; Orazio e Capitano si sfidano: «Isabella, perché non facciano quistione, impone loro amorosamente che, se essi l’amano, che si partino amichevolmente l’uno dall’altro; per la qual cosa si salutano l’un l’altro, si baciano le mani, fanno riverenza a Isabella la quale, rendendo loro i saluti, se n’entra ridendo»; «salta addosso a Flavio, li dà dei pugni»; «vestita de li abiti de Pedrolino» Napoli «Isabella astrologa, poi figlia del reggente, sotto nome Haussà, turca»; entra «vestita alla soriana, facendo l’astrologo, con Rabbya turca, sua compagna, et un suo figlio in fasce»; fa l’oroscopo a se stessa, «rende conto di tutta l’arte astronomica, divisa in molte specie» Perugia Figlia di Pantalone; schiaffeggia Flavio; «dice a Pedrolino che mente, e li dà delle bastonate [...] vuol dare a Franceschina, et ella fugge. Flavio vuol scusare Orazio, et Isabella se li volge col bastone» Genova «tenuta per moglie» di Orazio; «si fece cristiana in Maiorca»; accoltella Flavio; per la scena della pazzia, v. testo Parma città Moglie di Pantalone; «sopra il romore occorso tra suo marito et essa, per aver egli veduto il suo ritratto di lei in mano della commediante»; Capitano «s’è della signora Vittoria comica innamorato»; Orazio si innamora di Vittoria commediante, Isabella ne è rivale «rivolta poi a Vittoria, li dice che, se li fusse onore mettersi con una comediante simil a lei, che le insegnerebbe a procedere, et entra. Vittoria se ne ride, dicendo che, dove arrivano compagnie di comedianti, le donne maritate il più delle volte stanno a bocca secca»; metateatro Roma «Gentildonna vedova»; «Notte. Isabella vestita da uomo, risoluta di voler ammazzare Orazio»; «assalta Orazio, cacciando mano alla spada [...] si dispera che il suo colpo non abbia avuto effetto» (segue) 132 ISABELLA DELLE FAVOLE XLI giornata Fessa La forsennata prencipessa Alvira prencipessa di Portogallo; entrée in nave; si trova tragedia «in camicia, tutta spaventata [...] se ne sta piangendo»; «Alvira ragiona sopra il dolore che sente per lo ucciso amante e sopra l’allegrezza per vedersi innanzi la testa del suo nimico e, facendo varii pensieri, contrastando, diventa furiosa, pazza e delira, stracciandosi le chiome e squarciandosi i panni d’attorno, corre fuora della città verso il mare» (Salomè); «pazza, viene facendo e dicendo molte cose da pazza e, sempre motteggiando sopra la testa di Tarfè, e del tradimento fatto, dice loro: “Io non mi maraviglio che l’acqua del fiume sia dolce, e quella del mare salata, perché l’insalata va sempre col suo olio filosoforum, e con lo stretto di Gibiltarra, o vuoi di Zibilterra, che l’uno e l’altro nome li vien detto; pure, come piacque al suo fatal destino, quella poveretta dell’Orsa Maggiore si calzò gli stivali d’Artofilace et andò a pigliar ostreghe e cappe longhe nel golfo di Laiazzo, in ver Soria: che la cosa sia o non sia, sia voga, voga sia, e sia col malanno che Dio vi dia, e nella vostra tasca vi sia la mala pasca, e con usate tempre vi sia anche il mal sempre, e tutto ’l di su l’asen”. Pedrolino e Burattino se ne ridono, et ella soggiunge altre cose allo sproposito, ad imitazione di quanto ha detto, poi si mette a bastonarli. Essi fuggono, et ella dietro lungo il mare» (finale secondo atto); «sopra un altissimo scoglio la quale, dopo aver detto molti spropositi da pazza, finalmente dice: “Oh che gran specchio mi si rappresenta innanzi a gli occhi, io in questo specchio vedo il sole tutto infocato arrostir nello spiedo, ad un fuoco di ghiaccio, quel traditore del Prencipe di Marocco, per aver rubbata una gallina ad un gallo all’osteria del moro. Ah, ahan, tu ci arrivasti pure! Pigliate del lardo vecchio e pergottatelo ben bene, ponetevi sopra del sale, e datelo a mangiare ad una brigata d’astomi, su, su, cavalieri d’onore, di qua si salta il periglioso varco, questa è la strada di Montefiasconi, questa è la vera via de Mestri e de Marghera, questo è ’l famoso carro di Fusina, e questa è la vera caldara de i maccheroni, dove entro v’erano le brache del Gonnella, sapientissimo filosofo. Addio, addio brigata, addio!”. Ciò detto salta nel mare, s’affoga, e non si vede più». (segue) 133 ROBERTO CUPPONE XLII giornata Gli avvenimenti comici, pastorali e tragici opera mista XLIII giornata L’Alvida opera regia XLIV giornata Rosalba incantatrice opera eroica XLV giornata L’innocente persiana opera reale Sparta, Arcadia spartana, Sparta Nella prima parte (“comedia”) è Isabella spartana, vedova; «infuriata» per il tradimento di Orazio Nella seconda parte (“pastorale”) è Coridone, «cioè Fillide vestita da pastore»; parla a Tirsi dalla tomba, in cui si è rinchiusa («fuora del sepolcro col crine disciolto; tutti si spaventano») Nella terza parte (“tragedia”) è Altea; un messo «narra la morte d’Oreste, re di Sparta, ucciso per le mani d’Alidoro suo fratello, il quale, dopo l’averlo ucciso, presentò la testa di Oreste ad Altea, et ella, irata, uccise Alidoro col ferro istesso che uccise Bramante, et averli spiccata la testa dal busto»; «Altea con le due teste in mano, l’una d’Oreste, l’altra d’Alidoro, le presenta ad Oronte suo zio il quale, irato, la condanna a morte»; «passa il carro della giustizia, sopravi il corpo di Altea con la testa tagliata» Egitto Alvida, figlia del re d’Egitto; «esce dalla sua grotta» dove è stata rinchiusa «vicina al partorire»; «grida per le doglie del parto»; partorisce due gemelli nella grotta; l’orsa e la leonessa pietose allattano i bambini, poi li rapiscono, li riportano, li difendono Isola felice Rosalba maga; è amante di Arlecchino, «li dona un libretto incantato» con cui mette a sua disposizione gli spiriti infernali; «scongiura i demoni» per sapere chi sia Almonio; «rimane incantata ridendo e cantando», «quasi fuora di senno» Nelle selve di Persia Teodora figlia del re Artabano; «armata come cavaliero», altrove «con buffa al volto»; «Virbio [vestito da donna] li chiede soccorso et ella col brando e colo scudo gli sbaraglia tutti»; «Burattino vedendo Virbio, lo crede una damigella e Teodora un cavaliero suo amante»; poi Teodora lo veste con i suoi abiti [di Teodora] (segue) 134 ISABELLA DELLE FAVOLE XLVI giornata Parte I dell’Orseida opera reale XLVII giornata II Parte dell’Orseida opera reale XLVIII giornata III Parte dell’Orseida opera reale Arcadia del Peloponneso Dorinda, figlia del Ministro del Tempio di Pan; entra con le altre ninfe «sonando diversi instrumenti, cantando e danzando»; incontra Eurilla e «credendola omo, se ne innamora»; «scopre al pastorello esser di lui innamorata, pregandolo a voler esser l’amante suo. Eurilla promette di non amar mai altra ninfa, che lei»; «l’Orso si slancia addosso a Dorinda, la piglia in braccio e la porta via», nella sua grotta; ripassa trascinando la carcassa di una animale, che viene scambiata per il corpo di Dorinda; «discorre la sua felicità, essendo divenuta moglie d’uno da lei molto amato», l’Orso e «abbracciati vanno via insieme»; appare Pan secondo cui è volere degli dei che Dorinda si congiunga con l’orso, «dal cui congiungimento nasceranno infiniti eroi e semidei» Attenzione: alcuni tratti delle creazioni della Andreini si possono vede anche nella parte di Eurilla: «dice esser cipriotta, tacendo l’esser donna, essend’ella in abito più tosto maschile che da femina»; «armata di clava noderosa», «affronta l’orso, e combattendo seco riman ferita» Arcadia del Peloponneso Dorinda «con una clava nodosa, si pone in difesa dell’Orso» dal leone, «l’Orso accarezza Dorinda»; Trineo uccide l’Orso, lei «vede l’Orso suo marito morto; lo piange e, dopo un lungo lamento, li tramortisce addosso»; in seguito, come nell’Alvida, scena di parto, «grida per le doglie» e partorisce insieme a Levina; i figli vengono rapiti da Almonio gran sacerdote, che poi li renderà loro Attenzione: l’attrice giovane fa qui Levina, «gravida del prencipe suo marito», che partecipa della scena del parto Amatunta Alvida «prencipessa d’Algieri, da Cavaliero»; «guerriera amazone», si presenta come «cavaliero di ventura»; combatte sulle mura; viene gettata nella Torre; «legata alla presenza d’Ulfone» «si discopre per Alvida» e lo sposa per volontà divina Attenzione: l’attrice giovane è qui Lucella, «prencipessa d’Amatunta», rivale di Alvida (segue) 135 ROBERTO CUPPONE XLIX giornata L’arbore incantato pastorale L giornata La fortuna di Foresta prencipessa di Moscovia opera regia Arcadia «Lisio pastorello, cioè Fillide»; danze di spiriti, effetti odorosi e di magia; «dolente per lo senno smarrito dal suo Sireno»; «vedendo i pomi [dell’arbore incantato] ne distacca uno per rinfrescarsi, lo mangia e subito diventa smemorata»; «Arlecchino che quel pastorello è pazzo spacciato»; «ragiona con Sireno allo sproposito»; rientra «dicendo spropositi»; Cracovia Giovanna Prencipessa di Polonia; ritrova la figlia perduta, Foresta Attenzione: l’attrice giovane fa Lucella «Prencipessa di Moscovia»; travestita da uomo 136