capitolo v Differenze 152 davide daolmi capitolo v. Differenze 153 capitolo v Differenze N ella quasi totalità dei casi il libretto d’opera deriva da un testo precedente, sia esso di carattere narrativo o già destinato al teatro.1 Questa specificità pone l’opera in una condizione di sostanziale ‘ripensamento stilistico’ del già detto e, conseguentemente, mette in luce un’altra prerogativa apparentemente paradossale del genere: l’incapacità di raccontare. L’opera non sa raccontare perché, a partire dalla fondamentale anomalia di cantare un’azione o un discorso, non organizza la sua comunicazione secondo criteri razionali, ma per mimesi e identificazione. La cultura moderna, che si definisce orgogliosamente razionale, riconosce la narrazione (oratio) come esplicitazione del pensiero (ratio) – l’una e l’altro, è noto, sono i modi con cui i latini ripensavano al lógos greco – epperò concepisce l’opera come qualcosa di diverso da un ragionamento, da un discorso; ne apprezza invece la potenzialità, a tratti eversiva, scarsamente analizzabile, di poter entrare in sintonia con il suo interlocutore. L’imitazione e, in una fase successiva, l’identificazione (una forma più profonda di mimesi), è anch’essa un modo di comunicare e apprendere: nell’antichità gli insegnanti non spiegano, più spesso pretendono dagli allievi una pratica emulativa che è alla base di una pedagogia un tempo ampiamente diffusa, oggi messa da parte, addirittura condannata e considerata ‘vecchia’ (la vetustà è l’accusa più comune che si rivolge a ciò che si vuole mortificare solo perché non si è più in grado di comprendere). Non credo affatto che l’attuale sistema razionale sia più efficace di quello identificativo del passato; né credo che i due sistemi abbiano mai fatto veramente a meno l’uno dell’altro – per nulla mimetico era il sapere aristotelico e ampiamente non-razionalistica è la maggior parte delle odierne suggestioni pubblicitarie – ma non v’è dubbio che l’opera in musica, espressione caratteristica della cultura moderna, si agevoli innanzi tutto di una percezione sensibile, di autoriconoscimento e pertanto partecipi di un sapere identificativo. Perché un’emozione non la si può spiegare, si può solo viverla ed eventualmente riviverla. L’opera insomma comunica soprattutto sensazioni, non ragionamenti, e pertanto è disinteressata all’intreccio fin tanto che questo non le serva per organizzare quelle medesime sensazioni. È evidente che una novella di Boccaccio ha finalità molto simili, ma spesso l’idea è nella trama, addirittura è la trama stessa, la successione degli eventi. Non così per l’opera, che preferibilmente «coglie l’attimo».2 La poetica 1. La stessa tesi era di una colorita espressione di Lorenzo Bianconi di quindici anni fa: «Il teatro d’opera, quanto a soggetti drammatici, vive d’accatto» (Bianconi 1986, p. 21). 2. La citazione goethiana non è casuale: se volessi usare una terminologia forse fuorviante ma cara agli attuali ‘studi di genere’ potrei dire che la razionalità è maschile e la mimesi femminile. Goethe concepiva questa tensiono all’inafferrabile come l’aspirazione all’«eterno femminino» che in qualche modo sembra voler chiudere il cerchio. Purtuttavia eviterò il discorso perché non voglio che queste righe possano essere confuse, anche per un attimo, con un’originale ermeneutica alla moda, o peggio di ‘settore’. 154 davide daolmi La trasformazione che l’opera compie sul modello letterario mira quindi a enfatizzare le potenzialità non-razionali del racconto. Non si tratta di un impoverimento, semmai di un ‘ripensamento’, come dicevo all’inizio, dove la trama viene messa da parte in quanto data e l’indagine si concentra su quegli elementi che la narrazione verbale non valorizza (le emozioni certamente, ma anche altre suggestioni dai contorni inafferrabili). Rospigliosi, prima con Dal male il bene, poi con Armi e amori, sembra voler restituire all’opera la possibilità di potersi esprimere anche sul piano logico-verbale; in una disposizione al sincretismo tipica dell’intellettuale seicentesco, vorrebbe non essere obbligato a fare a meno della razionalità, pur giovandosi di una comunicazione fondamentalmente emozionale e sensibile. La contrapposizione che Rospigliosi cerca qui di equilibrare è già presagita nei quasi-ossimori dei titoli (male/bene, armi/amori) e, se da un lato appartiene al gusto barocco per l’avvicinamento dei contrasti, dall’altro esplicita una poetica. Dopo quasi nove anni di nunziatura a Madrid credo che per entrambi i Rospiglisi fosse impossibile non mettere a confronto il razionalismo del grande teatro spagnolo e la sua capacità di sottilmente argomentare, con la ricchezza emotiva di cui era capace l’opera in musica italiana. L’idea di poter arrivare a un ibrido che potesse trar giovamento dalle peculiarità di ciascuna delle due forme teatrali – l’opera italiana e la comedia nueva spagnola – entrambe in fondo ancora giovani e disponibili all’esperimento, deve averli solleticati non poco. 3. Dahlhaus 1988, p. 157, parlava non a caso di «razionalità dell’opera buffa». 4. È proprio questo cortocircuito che per molto tempo, soprattutto nella musicologia tedesca, ha fatto ritenere Dal male il bene e Armi e amori opere comiche. Non so dire se l’operazione in quel particolare frangente abbia avuto successo al di là dell’apprezzamento di singoli intellettuali e delle cronache coeve. Certo la storia gli ha dato torto. E anche se, in qualche modo, la tradizione buffa dell’opera (che, sia chiaro, non comprende Armi e amori) ha raccolto quest’insegnamento – ovvero il tributo non secondario al plot 3 – ha però poi pagato lo scotto di essere un’opera che non è considerata veramente un’opera e pertanto, perché buffa, rimane ahimè genere minore.4 Ma sulla fortuna dei tentativi rospigliosiani più o meno sperimentali non voglio dir nulla, perché credo pericoloso leggere la storia col senno di poi, o peggio in chiave evoluzionistica. (Eppure non posso fare a meno di osservare che la profonda anomalia di queste opere, tutte incentrate su un recitativo/recitato privo di appigli formali, abbia offerto la chiave per rendere opportunamente i momenti dell’actio operistica: il ‘recitativo secco’ che si andrà diffondendo a Venezia dall’ultimo terzo di secolo sembra modellarsi in gran parte sull’opera «borghese» di Rospigliosi, ed Armi e amori si rivela esempio, se non fra i più fortunati, fra i più maturi e rappresentativi del genere.) Da queste premesse ecco il doppio problema che vorrei porre in questo penultimo capitolo: da un lato l’anomalia di Armi e amori (e con lei di molte opere romane di questi anni), dall’altro la presenza abbastanza ingombrante del modello spagnolo. Se sia l’anomalia frutto del particolare modello o se invece si riveli un’intenzione poetica precisa (e del tutto originale) che si serve di un referente specifico (quello spagnolo) è questione marginale: siamo certamente di fronte a una compartecipazione di fattori. Rospigliosi vuole tentare nuove strade, ma la direzione che prenderà capitolo v. Differenze 155 molto la si deve alle prerogative drammaturgiche della comedia nueva. D’altra parte proprio il confronto con il modello permette di spiegare le scelte messe in atto. Il cosa rimane e il cosa si àltera rispetto al testo di riferimento offre una gerarchia di valori delle soluzioni adottate che molto dice della poetica. I modi soprattutto con cui avvengono queste trasformazioni possono essere proficuamente letti in chiave analitica. Dirò di più: proprio il porsi dell’opera come ‘adattamento’ di un testo precedente offre sempre la possibilità di un’indagine sulle differenze poste in atto, e la stessa messa in musica – come già brillantemente mostrato – si rivela anch’essa un ripensamento di un testo precedente, in questo caso del libretto.5 Se il librettista svolge un ruolo da ‘regista’ nel riadattare lo spunto letterario, ‘regista’ è anche il musicista quando mette in musica un libretto. Proprio le alterazioni che scaturiscono dal confronto di questi tre momenti fermi (testo originale, libretto, intonazione) tanto rivelano circa i meccanismi creativi dell’opera. L’attenzione critica di tali alterazioni – indagine che vorrei chiamare «drammaturgia delle differenze» – mette in luce una specificità analitica tutta operistica che dell’opera valorizza la stratificazione non come componenete ‘sporca’ e ineludibile del processo creativo, ma come vero punto di forza di un genere che dall’eterogeneità trae la sua ricchezza.6 Ritorno ad Armi e amori. Le possibilità di confronto con il testo spagnolo sono infinite: fra quelle che hanno offerto qualche risposta significativa seleziono innanzi tutto – per cominciare da uno sguardo complessivo d’insieme – la struttura drammaturgica dell’intera opera e il carattere dei personaggi. C ome noto la comedia nueva non divide in scene i suoi tre atti, dette jornadas; didascalie, in genere sintetiche, individuano entrate e uscite dei personaggi. Apparentemente la differenza con la prassi teatrale italiana potrebbe sembrare sostanziale: l’assenza di suddivisioni sembra permettere al commediografo spagnolo maggior libertà nel gestire i movimenti dei personaggi. In realtà l’organizzazione in scene è trattata molto liberamente nell’opera romana di questi anni e sembra quasi più un mezzo pratico per organizzare le prove di palcoscenico che non supportare valori formali. Il fatto poi che Rospigliosi e Bentivoglio scandiscano il tempo delle scene secondo criteri sostanzialmente simili rivela soltanto che entrambi sono uomini di teatro consapevoli degli usi della scrittura drammaturgica; ma proprio perché in un numero limitato di casi preferiscono strade più o meno differenti (in genere Bentivoglio tende a sezionare più frequentemente l’atto) rivelano anche che tale prassi non era univoca e codificata, ma lasciata la buon gusto del drammaturgo. Dove invece le differenze diventano strutturali è nei cambi di scena, comunemente detti «mutazioni».7 Il testo spagnolo evita precisazioni anche in questo caso. Si comprende dal contesto che si è in un nuovo ambiente: dalla strada si passa in casa di Tizio, ovvero in un cortile. Quando però l’identificazione del luogo non è così esplicita è possibile che la lettura lasci dei dubbi. Negli Empeños c’è almeno un caso simile: ovvero nel primo atto, quando Alvaro incontra Fabio (uso, come al solito, i nomi di 5. Si muovono in questa direzione i tre contributi di Osthoff, Petrobelli e Strohm nella Parte ii di Bianconi 1986; in particolare il lavoro investigativo di Petrobelli ha insistito molto su questi aspetti, soprattutto in ambito ottocentesco: una raccolta significativa è in Petrobelli 1994. 6. Non c’è bisogno di ricordare che l’opera offre il fianco a un’«indagine del confronto» non solo in sé ovvero in relazione a una condizione testuale, ma anche nel dispiegarsi delle riproposizioni di ogni nuovo allestimento (che spesso si rinnova anche nel testo); l’ormai classico studio in questo senso è l’articolo di Harold Powers sempre in Bianconi 1986. Scene, mutazioni e atti 7. Come ho già fatto nel cap. iii (Vicende), adotterò anch’io la terminologia antica per non confondere la scena intesa come semplice scansione interna dell’atto, con il gruppo di scene che occupano un preciso spazio teatrale, un giardino, una sala, una strada etc., la «mutazione» appunto. 156 8. Ecco la successione degli eventi con il riferimento ai versi dell’atto I (cfr. la mia edizione in Appendice): 563-586: Bruscolo accetta (malvolentieri) di recapitare la lettera; 587-591: Fabio e Alvaro si allontanano; 591-596: Bruscolo si lamenta; 597-602: giungono Enrico e Lisardo; 603 etc.: nuovo intervento di Bruscolo. 9. Prima di Fabio e Alvaro, Montalbán aveva fatto uscire il servo; il suo rientro a scena vuota sancisce la mutazione; è da dire che la genericità delle ambientazioni del teatro spagnolo rende questi problemi abbastanza marginali; cfr. Capra 2000, p. 707 e segg. 10. L’ampia trattatistica sul teatro d’opera di Giovan Battista Doni (1595-1647), che non si limita al pur importante Trattato della musica scenica (v. gli stralci pubblicati in Solerti 1903, pp. 186221) – fu soprattutto raccolta nei due voluminosi tomi pubblicati postumi della Lyra barberina (Gori 1763); qui sono anche i testi delle suggestive Lezioni che Doni tenne in casa Barberini, a cui certamente assistette anche il giovane Giulio Rospigliosi; su Doni teorico del melodramma v. Schaal 1993. davide daolmi Armi e amori) nel giardino dove questi ha appena parlato con la dama coperta; qui Alvaro chiede che Bruscolo recapiti per lui una lettera; per non più di sei versi Bruscolo rimane solo a lamentarsi di quell’incarico seccante; i successivi sette versi – un dialogo fra Enrico e il servo Lisardo (Bruscolo assente) – ci fanno capire che siamo altrove, e il proseguire dei lamenti di Bruscolo chiarisce che anch’egli li ha raggiunti. Però se prima Bruscolo (con Fabio e Alvaro) era in una campo fiorito, ora (con Enrico e Lisardo) è in una più o meno trafficata strada cittadina. In questa nuova situazione Bruscolo non si accorge di Enrico e Lisardo né loro vedono il servo, fintanto che questi non bussa alla porta di Laura.8 Bentivoglio non ha dubbi a porre la cesura della mutazione dopo la partenza di Fabio e Alvaro, legando i commenti di Bruscolo all’apparizione di Enrico e Lisardo; ma Rospigliosi si rende conto che deve risolvere un problema. Bruscolo è presente in entrambe le «mutazioni», senza soluzione di continuità, eppure la distanza dei luoghi in cui queste si svolgono obbliga a supporre la perdita di un tempo intermedio in cui Bruscolo si è portato da un ambiente (il giardino) all’altro (la strada di città), tempo che la presenza costante del servo in scena sembra voler negare. La cesura posta da Bentivoglio (peraltro coerente con quanto s’intuisce essere l’intenzione di Montalbán)9 oltre a esibire l’incongruenza di un salto temporale (qualunque moderno sceneggiatore di soap avrebbe staccato su una situazione diversa) incorre nell’inconveniente di aprire la mutazione con l’assolo di Bruscolo che in realtà dovrebbe svolgere un ‘aparte’, ovvero una controscena. La lusinga di compensare un salto temporale con un’arietta non poteva non sedurre Rospigliosi; ma far cantare Bruscolo giunto in città rende difficile relegarlo in un parziale della scena per contrapporlo a Enrico e Lisardo. L’assolo di Bruscolo non aprirà quindi la nuova azione, ma chiuderà la precedente dove il servo indugia, ormai partiti Fabio e Alvaro. L’ovvietà di una soluzione come questa non deve trarre in inganno; non siamo di fronte a un accorgimento tecnico necessario a giustificare le esigenze di un genere: non si è semplicemente trovato un momento opportuno per inserire un’aria (il cui spiccato edonismo tende a conferirle un’aura di sospetto e insieme una posizione ‘etica’ di secondo piano rispetto al recitativo); la sensazione è che l’aria restituisca coerenza al percorso narrativo e in questo senso non abbia statuto proprio ma si riveli funzionale a un’esigenza drammaturgica: l’aria esplicita la mutazione e insieme dà tempo all’orologio interno dello spettatore di assimilare lo stacco temporale. Come già avevo detto nel cap. iii, i numeri chiusi, con l’eccezione dei fine atto e del duetto aggiunto (I.vii), in nessun caso contrastano con l’arco narrativo, anzi lo assecondano e lo rendono meno legato ai formalismi della prassi teatrale. In un esempio come questo si coglie la tensione di Rospigliosi a non voler mai pagare il compromesso con la verosimiglianza che un genere così artificiale come l’opera sembra imporre; forse nell’utopica convinzione – tanto intrisa delle teorie di Doni10 – che il dramma per musica, pur nella finzione scenica, sia più ‘vero’ del teatro di parola, proprio per il tipo di comunicazione, come dicevo, che sa instaurare con lo spettatore. capitolo v. Differenze 157 Altre varianti formali rivelano invece esigenze diverse, non strettamente legate alla coerenza drammaturgica. Se conto le mutazioni di Armi e amori (sempre dedotte dal contesto, mai esplicitamente indicate) ne individuo ben dieci, contro le otto degli Empeños. Se affianco poi la successione degli ambienti dei due testi ottengo questo schema: Empeños Armi e amori i scene portal de la casa de don Alonso calle [proseguimento] sala en casa de don Diego — — — — strada presso la casa di Alonso «luogo ameno» strada presso la casa di Alonso interno della casa di Alvaro i ii-iv v-vi vii-ix calle sala en casa de don Félix [mancante] campo detrás del convento — — — — strada presso la casa di Enrico interno della casa di Enrico strada presso la casa di Enrico campo del duello i ii-xii xiii xiv-xvi 3i. Rapporto fra la successione dei cambi di scena degli Empeños e di Armi e amori. ii iii calle — strada presso la casa di Fabio sala en casa de don Juan — interno della casa di Fabio i-viii ix-xvi I due più significativi punti di divergenza sono a) nel primo atto la presenza negli Empeños di una semplice calle [strada] contro le due mutazioni di Armi e amori, ovvero due esterni, il primo campestre, il secondo cittadino; b) l’aggiunta, nel secondo atto di Armi e amori, di una nuova scena coincidente con un’intera mutazione. Nel primo caso l’esigenza di distinguere fra due spazi scenici, come visto sopra, è in realtà già nel testo spagnolo; ciò malgrado le moderne edizioni11 preferiscono non mettere in evidenza il cambio di ambientazione perché, trattandosi comunque di due esterni collegati dalla presenza costante del gracioso (s’è visto sopra), potrebbero usufruire di uno stesso spazio fisico diversamente connotato dal contesto. Già però Bentivoglio esplicita la presenza di scenografie diverse. Nell’edizione modenese postuma, in fondo al testo c’è l’elenco delle «mutazioni di scene» dove il «Parco, cioè campagna deliziosa ove andavano a diporto le dame» non può che riguardare la sola prima parte dell’azione, concedendo alla seconda parte un ritorno alla strada già apparsa ad inizio atto («Città con sottoportico…»).12 Rospigliosi si comporta allo stesso modo, suggerendo che anche per lo spettatore spagnolo dell’epoca (malgrado le moderne edizioni) la distinzione fosse reale. Più interessante è l’aggiunta della scena xiii, coincidente con il terzo cambio dell’atto. La scena, in sé abbastanza breve, prevede un duetto fra Ippolita e la serva Spinetta. Sembrerebbe aggiunta a bella posta per mettere un’arietta in più; eppure, come già osservato, il secondo atto è il più ricco di ariette: pochi versi prima Enrico aveva cantato una sua aria e subito dopo ne canterà un’altra Fabio; inoltre un duetto fra Ippolita e Spinetta aveva già chiuso il primo atto: non si vede tutta questa necessità di un altro numero chiuso.13 E certamente la comparsa improvvisa delle due donne è del tutto ininfluente anche dal punto di vista drammaturgi- 11. Los empeños in quanto attribuiti a Calderón compaiono in tutte le sue moderne Obras completas. 12. L’elenco delle scene non compare in Bentivoglio 1672 ma solo in Bentivoglio 1687, p. 90; cfr. l’edizione qui proposta in Appendice. 13. V. lo schema generale di Armi e amori qui proposto a tav. iv, p. 161. 158 davide daolmi co (tant’è che non era prevista negli Empeños). L’esigenza d’interpolare questa scena è evidentemente un’altra, ma quale? Il lettore si sarà accorto che nel raccontare la storia di Armi e amori ho accompagnato la descrizione di ogni mutazione con la silouette dei personaggi sovrapposta ad uno sfondo ideale che in qualche modo voleva ricordare la scena di quella mutazione. Se si eliminano mentalmente i personaggi ci si accorge che alcuni di questi sfondi ritornano: l’idea alla base è che un numero limitato di scenografie possa essere usato per più mutazioni. Il suggerimento viene dalla stessa edizione modenese di Bentivoglio che, pur prevedendo nove cambi di scena, elenca solo cinque ambienti necessari allo spettacolo: tre interni (le case di Alonso, Alvaro e Fabio), il giardino dove Fabio incontra Ippolita e una generica strada su cui si affacciano alcune case. È probabile che per il campo del duello sia stata utilizzata sempra la scena del giardino allo scopo riadattata e la strada sia servita per tutti gli altri esterni. Non è in verità una prassi dell’opera barocca seicentesca, soprattutto cortigiana, quella di far riapparire più volte una stessa scenografia all’interno di un singolo spettacolo; é vero che si riciclavano le scene ma per spettacoli diversi. Tuttavia se per un momento si suppongono valide anche per Armi e amori le indicazioni sceniche di Bentivoglio, cinque scenografie sono sufficienti: 3iia. ambientazione a Strada di città, con case che vi si affacciano. Utile per le mutazioni 1, 3, 5, 7 e 9 Bentivoglio lo descrive come: «Città con sotto portico et una porta di casa sotto il detto che si apra e chiuda» 3iib. ambientazione b Giardino, «luogo ameno» ma anche campo per il duello. Utile per le mutazioni 2 e 8 Bentivoglio lo descrive come: «Parco, cioè campagna deliziosa ove andavano a diporto le dame» 3iic. ambientazione c Interno della casa di don Alvaro e della sorella Ippolita. Utile per la sola mutazione 4 Bentivoglio lo descrive come: «Appartamento di don Diego» 3iid. ambientazione d Interno della casa di don Enrico e del servo Lisardo. Utile per la sola mutazione 6 Bentivoglio lo descrive come: «Appartamento di don Felice con una porta che mostra chiudersi con serratura todesca» 3iie. ambientazione e Interno della casa di don Felice e del servo Bruscolo. Utile per la sola mutazione 10 Bentivoglio lo descrive come: «Appartamento di don Giovanni con porta nel mezzo che introduca, e due porte con portiere» capitolo v. Differenze 159 Il dato più appariscente è che la prima ambientazione, la strada, ritorna ben cinque volte, ma soprattutto viene a coincidere con tutti i numeri dispari delle mutazioni. Si ha cioè una ininterrotta alternanza della scena di strada con una qualunque delle altre scene. E a questo punto l’inserimento forzoso della mutazione 7, quella aggiunta da Rospigliosi, sembra essere voluto proprio per non interrompere l’alternanza (4tav. iii alla pag. successiva). Osservo poi che questa particolare scena d’esterno è quella che più si avvicina al modello classico serliano, la scena di città appunto, tipico dei teatri cinquecenteschi; mentre giardini e interni sembrano più facilmente prerogativa delle scene piatte a quinte mobili. Ricollegandomi a quanto detto nel primo capitolo circa la particolare struttura impiegata nel Teatro Barberini – dove sembra ragionevole supporre un sistema misto in cui una scena tridimensionale è inframezzata da quinte mobili piatte atte a coprire e rivelare le porzioni fisse delle case – credo di poter ritrovare nell’esigenza di alternanza scenica forzata da Rospigliosi una significativa conferma di tale ipotesi. Ecco allora che un accorgimento drammaturgico apparentemente banale rivela preziose informazioni sulla mise en espace seicentesca in un momento in cui ancora le sole quinte mobili non risolvevano l’intero spettacolo ma si alternavano ad un impianto scenico rigido, tridimensionale (seppur a semirilievo), direttamente ereditato dalla scena tragica classica. Credo a questo punto probabile che la scena del giardino (2) e quella del duello (8), entrambe in posizione pari e quindi su quinte piatte, non fossero la stessa, come ipotizzavo per Bentivoglio. Trattandosi in sostanza di cartoni dipinti da agganciare alla struttura della quinta è probabile che le scene mobili fossero l’unico elemento in continua trasformazione che sfruttava i tempi di pausa offerti dal riapparire della scenografia cittadina – momento in cui, rientrate le quinte, i cartoni potevano esse sostituiti. In effetti il modello torelliano con le quinte a sostituzione (dove il rientro di una quinta farà uscire l’altra) è soluzione tecnica ardita e in fondo abbastanza priva di storia evolutiva. Una soluzione ibrida come quella del Teatro Barberini, che ancora – almeno apparentemente – si giova del modello serliano, non solo rende più comprensibile il passaggio all’impianto a sostituzione, ma soprattutto spiega le fasi con cui si è giunti a concepire una delle più straordinerie soluzioni scenotecniche del teatro barocco.14 Per tornare al modello spagnolo e da dire che se il testo di Montalbán usa le mutazioni senza troppa enfasi e trascura la suddivisione in scene, si giova tuttavia del cambio di metro per delimitare alcuni momenti della commedia. Ne parlerò più ampiamente alla fine del capitolo, per ora mi preme sottolineare come su un livello neutro di ottonari con assonanza in sede pari (romance), tipico del teatro spagnolo di questi anni, si possano isolare un paio di momenti per atto in cui la rima rivela d’improvviso il passaggio a un metro più rigoroso (redondillas, décimas etc.). Credo improprio voler creare un parallelo fra questi momenti metrici ‘forti’ e il numero chiuso dell’opera italiana.15 Anche perché all’idea di aria si legano semmai più da vicino i sonetti o altre forme poetiche chiuse talvolta recitati da personaggi della commedia, o anche vere e proprie canzoni espressamente accompagnate dalla musica.16 Benché nessuna di queste 14. Preziosa, per un approccio storico e tecnico all’uso delle quinte mobili, l’introduzione in Tamburini 1994. 15. Ammetto tuttavia che i piani diversi scaturiti dall’uso di metri dal peso poetico non omogeneo in qualche modo perseguano lo stesso fine di varietà che l’opera affida alla presenza contrapposta di aria e recitativo. 16. Cfr. Stein 1993, cap. i. 160 davide daolmi Los empeños atto i atto ii Armi e amori A strada presso la casa di alonso B campagna A strada presso la casa di alonso C casa di don alvaro A strada presso la casa di enrico D casa di don enrico 1 1. Duello fra Enrico e Alvaro (non riconosciuto) sedato da Alonso – Enrico accusa Laura d’infedeltà 2-3. Fabio corteggia una donna velata (Ippolita) – 4. Alvaro chiede a Fabio di prestargli il servo (Bruscolo) per recapitare un biblietto a Laura A 3 5. Enrico intercetta il biglietto e pretende di sfidare a duello il padrone di Bruscolo – 6. Di nuovo accusa Laura d’infedeltà 7. Ippolita spiega perché non vuol farsi riconoscere – 8. Fabio rivela ad Alvaro e Ippolita del suo amore – 9. Bruscolo riferisce la sfida, accolta sia da Fabio che Alvaro B C atto iii [scena aggiunta:] 13. Ippolita è in cerca di Fabio per disuaderlo dal duello B campo del duello A strada presso la casa di enrico E strada preso la casa di don fabio 14-16. Enrico e Fabio stanno per combattere ma sono fermati da Lisardo che li avverte del pericolo che corre Laura D scena fissa scena piatta su quinte mobili 8 9 1. Enrico, Fabio e Lisardo alla ricerca di Laura – 2-3. Fabio rimane indietro per dare spiegazioni ad Alvaro – 4. Fabio sa che Laura è in casa e ordina al servo (Bruscolo) di avvisare Enrico – 5-6. Ippolita viene a sapere da Bruscolo che Fabio è a casa – 7-8. [scena aggiunta:] Bruscolo riferisce agli altri servi che Laura è in salvo 9-11. Laura si lamenta, giunge Ippolita – 12-13. Giunti Alvaro ed Enrico, Laura, prima nascosta, si palesa – 14-15. In strada Enrico si scontra con Alfonso – 16. Enrico chiede la mano di Laura, Fabio quella di Ippolita 6 7 strada presso la casa di enrico mutazione aggiunta 4 5 1. Ippolita vuol raggiungere Enrico e Spinetta tenta di dissuaderla 2-3. Ippolita, in incognito, informa Enrico – 4-5. Giunge Laura e s’ingelosisce – 6-9. Fabio e Alvaro sfidano a duello Enrico – 10-12. Torna Laura e Alonso vuol ucciderla 2 E 10 capitolo v. Differenze due soluzioni compaia negli Empeños sembra che Armi e amori tenda a raccogliere preferibilmente proprio quest’ultima pratica (quella cioè d’inserti brevi, sporadici e sostanzialmente svincolati o comunque ininfluenti allo sviluppo della vicenda), pratica in fondo molto spagnola. In effetti l’ipotesi più immediata è che l’eccezionale parsimonia di arie (meglio di ariette) sia derivata nello specifico proprio dal modello spagnolo e più in generale da quella stessa tradizione teatrale. Anche provando a supporre una dizione del recitativo estramente rapida, intorno per intenderci ai 20 versi al minuto, lo spazio concesso alle arie, come mostra la tavola che segue, è circa il 10% dell’intera opera. La scrittura musicale – probabilmente pianificata dallo stesso Rospigliosi – appare decisamente controtendenza rispetto alla piega che aveva ormai cominciato a prendere l’opera a Venezia. Invece di arricchire al possibile la vicenda di ariette e forme chiuse, che nella produzione lagunare 161 6iv. Schema di Armi e amori (con tagli e aggiunte delle due versioni; v. l’introduzione all’Appendice). Il computo delle durate del recitativo (ca. 20 versi al minuto) si conforma all’ipotesi di un’esecuzione molto prossima al recitato. Un recitativo dilatato ed enfatico oltre ad uccidere la tensione drammatica produrrebbe poi una durata complessiva di 810 ore, insostenibili anche per lo spettatore seicentesco. 3iii. [nell’altra pagina] Schema di Armi e amori e successione delle mutazioni in relazione agli ipotetici cambi di scena degli Empeños. 162 davide daolmi diventeranno sempre più il momento cardine di quasi ogni singola scena, Marazzoli sfoltisce l’enfasi vocale di un recitativo che nulla ha più del declamato e forse lo si potrebbe già definire «secco», ma soprattutto limita straordinariamente la presenza dei numeri chiusi, concedendo solo l’inserzione d’un insieme nei fine atto. 17. Il riferimento ovviamente è a Gianturco 1982 che riprende Reiner 1968; cfr. anche Fabbri 1988, p. 181. Simile soluzione certamente contrasta con la pratica operistica delle compagnie di giro, quella cosiddetta «mercenaria», e si scontra clamorosamente anche con le conclusioni di chi ha creduto di leggere nella proliferazione delle ariette la soluzione a un problema esplicito, ovvero la noia che rischiava di procurare il recitativo di tradizione fiorentina.17 Il convincersi che le ariette aumentino di anno in anno per ovviare alla monotonia è soluzione un po’ schematica, e il problema del «tedio del recitativo» che avrebbe patito l’ascoltatore dell’epoca, in simili termini appare alquanto frainteso. Anzi viene il sospetto che la moderna sensibilità abbia molto condizionato la sopravvalutazione di poche fonti eterogenee per trovare conferme all’attuale imbarazzo che oppongono le odierne esecuzioni del recitativo seicentesco (più probabilmente ingessato da un approccio museale). Con questo non voglio fingere che non esista il problema: il libretto di Armi e amori ostenta un recitativo ingombrante e insieme una trama ad intreccio particolarmente complicata – un’alchimia in apparenza disastrosa per la resa drammatica di un’opera. Vorrei allora proseguire più a fondo nel confronto con l’originale spagnolo per verificare quanto l’ossequio al modello possa aver condizionato l’estetica drammaturgica, o quanto invece una nuova poetica del melodramma abbia sfruttato i mezzi a sua disposizione, compreso la conoscenza del teatro spagnolo, per sperimentare nuove vie. Un caso esemplare 4v. [nell’altra pagina] Raffronto fra l’esordio degli Empeños e di Armi e amori: situazioni coincidenti sono poste allo stesso livello. M eglio cominciare da una situazione circoscritta. Come si è visto la complessa scena d’apertura sfrutta il colpo di scena di un duello improvviso, chiarendosi, almeno in parte, nel corso dell’azione. Se si confronta la versione spagnola di Montalbán con quella di Rospigliosi (4tav. v a fianco) ben si coglie come il succedere degli eventi sia coerente, seppur l’interazione fra i piani drammaturgici tenda ad essere più elaborata nella versione italiana. La prima sezione a è nella sostanza aderente all’originale, semmai più dilatata in Rospigliosi per meglio completare gl’incastri della rima (di cui dirò poi); il libretto non ammorbidisce l’attacco ex abrupto con spade alla mano perché evidentemente ne coglie la teatralità e ne intuisce, per un dramma in musica, la forza innovativa. Rospigliosi elimina invece il ‘tempo del duello’ (b), esplicitato da Montalbán nel breve scambio di battute fra Félix e Diego: «Mai visto tanto valore! – Che tempra!» (vv. 10-11). Non posso però credere che si voglia omettere il combattimento, che è l’unico in tutta la commedia effettivamente rappresentato: verrebbe a mancare uno dei due termini, le «armi», esplicitato proprio dal titolo italiano. È chiaro che Rospigliosi intuisce il rischio di una perdita di compattezza drammatica: se si lascia il duello in primo piano (pur inframmezzato da qualche battuta) si rompe la tensione capitolo v. Differenze 163 Los empeños jornada primera Armi e amori atto primo [portal de la casa de don Alonso] [strada presso la casa di don Alonso] scena prima D. Enrico, d. Alvaro, d. Alonso, d. Laura, Tranquilla ⎧ ⎪ ⎪ A⎨ ⎪ ⎪ ⎩ B⎧ ⎨ ⎩ ⎧ ⎪ C⎨ ⎪ ⎩ ⎧ ⎪ D⎨ ⎪ ⎩ ⎧ ⎪ E⎨ ⎪ ⎩ Salen d. Félix y d. Diego, con espadas desnudas félix O he de matar o morir, o quién sois he de saber. diego Pues mirad cómo ha de ser: que yo no lo he de decir. félix Con vuestra muerte o mi muerte que es el último remedio de mis celos; que otro medio no permiten. diego Desta suerte he de intentar defendello. félix No ho visto valor igual. diego ¡Qué gran brio! 5 alvaro Perché senza risposta omai non vada o il tuo vano ardimento o la richiesta, sarà lingua la spada. enrico Si scorgerà ben presto se vano è l’ardir mio. [da dentro la casa] tranq. Questione in strada. alonso Accorrete con luci or ch’io m’appresto di quell’armi a frenar l’ira e il periglio. alon. […] Más cruel es ya el lance: que al ruido luz bajan, y en este estado, es fuerza ser yo el culpado, siendo yo el aborrecido. félix A todo lance dispuesto, a trueque de conocer mis celos, no siento ver que bajen luces. 15 [Esce Alonso con un lume; Laura lo trattiene, Tranquilla dietro] enrico Con il lume ch’appare scoprirò di costui forse il sembiante. alonso Cessin, cessin le gare e qual grave cagione presso alla mia magione a pugnar n’ha condotto? ¿Qué es esto? Rebózase don Diego y vase 20 20 Salen don Alonso medio desnudo y Leonor deteniéndole, e Inés con luz diego (Bien ocultarme será, aunque a mi valor le pese.) alon. ¡Pues cómo en mi casa…! diego Ese caballero os lo dirá. 15 laura Padre, signor, che fai? Ohimè, cangia consiglio. alonso Lasciami Laura. laura No, non sarà mai. [in strada] alvaro Fuor dell’albergo don Alonso or viene io ritrarrò le piante che per ora il celarmi a me conviene. diego alon. 10 10 Dentro don Alonso ¡Grave mal! ¡Cuchilladas! ¿Qué es aquello? Dadame una espada y broquel, y sacad luces. leon. Señor, advierte… alon. Suelta, Leonor. leon. No has de salir. [Enrico e Alvaro con le spade in pugno, gli altri in casa] enrico O ti torrò la vita o perderò la mia o saprò chi tu sia! alvaro Freni la lingua ardita i temerari accenti, 5 ché se tenti scoprirmi, indarno il tenti. enrico Come a scoprirti il tuo tacer m’invita, a gastigarti il tuo parlar m’appresta. 25 alvaro Da questo cavalier saprete il tutto. [Alvaro fugge via non facendosi riconoscere] 25 164 davide daolmi perché la musica sarebbe obbligata a interrompersi, o quantomeno a frammentarsi. Solo qualche decennio dopo l’interazione fattiva con il compositore avrebbe ovviato con una breve sinfonia su cui affilar le spade, ma simili soluzioni non appartengono all’opera romana di questi anni (sempre che tali interventi ‘caratteristici’ non s’intendessero estemporanei), e Rospigliosi si sente in dovere di proporre un’alternativa. La sezione c infatti isola un dialogo interno (dietro le quinte) che non ha nulla da offrire alla vista dello spettatore: ecco il momento per far combattere, in silenzio, Enrico e Alvaro, e lasciar la parola alle voci provenienti dalla casa nei pressi. 5vi. Marazzoli, L’armi e gli amori, atto I, scena i. 18. Sull’organizzazione delle rime v. quanto dico a fine capitolo. 19. V. oltre p. 20 e segg. Probabilmente tale soluzione ‘a sovrapposizione’ è praticata anche nel testo spagnolo, dove i commenti sul valore dell’avversario sottolineano la veemenza del duello che, a quanto pare, Rospigliosi vuol ammorbidire: ecco quindi necessario l’intervento della serva Tranquilla che laconica commenta «Quistione in strada» – senza punto esclamativo: la comicità utile a sdrammatizzare la scena sta proprio nel distacco surreale di questa battuta (che Marazzoli intona in un annoiato salto di terza discendente; 4tav. vi). A questo punto, con la sezione d, si ha la prima vera interruzione alla successione degli eventi, sottolineata dalla prima chiusa delle concatenazioni della rima.18 L’uscire di don Alonso, il padre, obbliga i due contendenti ad abbassare le armi: ora possono, nel classico a parte, far conoscere al pubblico i loro pensieri. Nel teatro spagnolo, ma non solo, è un topos codificato, e il ragionamento raffinato giustifica da solo l’incongruenza drammatica: Diego ammette che la situazione si complica essendo lui «el aborrecido» – l’aborrito, probabilmente da una dama o più in generale dalla famiglia di don Alonso – e sarà certo considerato colpevole. Félix gioca con le parole: il lume di don Alonso farà chiaro non solo sulla scena ma anche sui suoi sospetti – dal che intuiamo che Félix non sa chi sia il suo avversario. Per Rospigliosi tutto questo è forse troppo teorico e oltretutto ingombrante; ben due a parte che complicano un esordio già elaborato e soprattutto rischiano nuovamente di fermare l’azione. Alvaro ed Enrico, i corrispettivi di Diego e Félix, se le cavano con frasi di circostanza in verità non efficacissime che potevano essere ulteriormente ridotte se non soppresse del tutto. L’imbarazzo di Rospigliosi, dovuto al compromesso con il modello, trapela dall’intervento aggiunto di Laura («Deh perché, padre, entrar ne la tenzone?»), inutile anch’esso poiché ribadisce un timore già espresso, ma necessario a rompere l’improvvisa didascalicità dei duellanti insistendo con l’interscambio fra i due piani della scena. Finalmente, sezione e, l’apparizione di don Alonso con fuga di Alvaro ridà coerenza allo svolgimento. (Qui semmai già si nota che il don Alonso di Rospigliosi tende ad assumere una personalità più meditativa e autorevole rispetto a quella quasi goffa proposta da Montalbán, caratterizzazione in senso morale che sarà più volte ribadita nel corso del libretto.)19 Si colgono da queste prime righe alcuni elementi che trovano poi conferma in un’analisi più estesa. In particolare: capitolo v. Differenze 165 1. modernità Rospigliosi non si tira indietro di fronte alla spigliatezza richiesta dai tempi drammatici del testo spagnolo, anzi tenta al possibile di enfatizzarli, articolarli ed eventualmente correggerli se poco realistici. 2. tempi Dilata o restringe il testo in relazione al peso effettivo della scena: un dialogo che esprime un’azione è preferibilmente più ampio di uno che, come ama fare il teatro spagnolo, gioca sull’arguzia dei concetti: in questi casi in genere Rospigliosi si scopre più asciutto del modello. 3. caratteri Accoglie al possibile i tratti originali di scene e personaggi, ma non perde occasione di ammorbidire un momento drammatico con una battuta, ovvero di elevare moralmente meschinerie e sciocchezze. 4. strutture Rospigliosi si assume la responsabilità in toto dello svolgimento dell’azione; la musica non deve mai completare lo sviluppo di una scena o eventualmente un’incongruenza drammaturgica – semmai l’opera del compositore sottolinea o esplicita idee e sottotesti già in nuce nel libretto. Si comincia già a intuire come dietro un’apparente semplice rielaborazione ci sia un pensiero drammaturgico tutt’altro che improvvisato. Si coglie una gestione del libretto che diventa ‘armatura’ dello spettacolo, di uno spettacolo insolitamente vitale e ricco, tale per cui scelte apparentemente rinunciatarie (per esempio il recitativo spoglio di Marazzoli) difficilmente potrebbero essere ascritte a trascuratezza, dilettantismo o scarsa consapevolezza della resa drammatica. Tuttavia per meglio penetrare il significato di alcune soluzioni vale la pena approfondire l’indagine proprio a partire dai quattro punti sopra individuati (non necessariamente gli unici, ma per il momento i più significativi). H o già detto come il rivolgersi alla comedia nueva sia per Rospigliosi, prima che un ossequio alle fortune politiche, la volontà di svecchiare un genere. Dal male il bene e Le armi e gli amori sono in assoluto i primi due esempi di dramma per musica in cui l’ambientazione del soggetto sia contemporanea al suo pubblico. Novità non da poco se si pensa a quante precauzioni aveva fino a quel momento adottato l’opera (ad esempio con lo scegliere eroi canori o quantomeno non troppo ‘quotidiani’ come dèi e pastorelli).20 E soprattutto arditezza drammaturgica, giacché gli spagnoli si potevano permettere un teatro tanto vivace e spigliato proprio perché senza musica (qualche canzonetta qui e là a parte). Rospigliosi forse sa di poter far cantare una poesia modellata sull’esempio spagnolo perché deve aver in mente l’efficacia scenica di un tipo di recitativo che è diverso da quello di tradizione fiorentina; un recitativo forse simile a quello già usato in sue opere precedenti, ma solo in alcuni brevi momenti più spiccatamente dialogici. La scommessa sta proprio in questo, nell’estendere a tutta l’opera questa scrittura musicale poco caratterizzata che riesce a lasciar spazio alla speditezza della parola e all’enfasi retorica della prosa. Non posso infatti credere che l’improvvisa sobrietà delle musiche scritte per Armi e amori sia dovuta al caso. Se si confronta il recitativo minutamente cesellato del Palazzo incantato di Luigi Rossi con quello di Marco Marazzoli per Armi e amori, si avverte una distanza tanto netta che, a 1. Modernità 20. È noto il passo del Corago (ca. 1630) che spiegava: «La ragione di tutto questo si è perché … essendo il ragionare armonico più alto, più maestevole, più dolce e nobile dell’ordinario parlare, si attribuisce per un certo connaturale sentimento ai personaggi che hanno più del sublime e del divino» etc. (dall’ed. moderna di Fabbri– Pompilio 1983, p. 63). 166 davide daolmi parte le eventuali differenze stilistiche, non si giustifica senza un ripensamento dei principi teorici. Si veda Rossi: 4vii. Luigi Rossi, Il palazzo incantato, atto I, scena iii; da Murata 1981, pp. 613-614. La scelta dei valori musicali (dalla metà al sedicesimo) ha per Rossi un significato ‘rappresentativo’ ben preciso: la minima su hai (1.) ferma solennemente la sillabazione per preparare l’ideale compostezza di nobil vanto; l’uso dei sedicesimi (2. 3.) rimanda, quasi «prima prattica», alla velocità di si riserra e rapido il piè; la minima su inghirlandar (4.) suggerisce una diminuzione estemporanea che renda il significato decorativo della parola. Potrei continuare me è sufficiente. Diverso il caso di Marazzoli: 4viii. Marazzoli, L’armi e gli amori, atto I, scena i. Qui l’uso dei valori è puramente funzionale: serve a far coincidere l’accento del verso con quello della battuta, non certo per ottenere una scansione isoritmica; solo per praticità di scrittura, per adeguarsi a un segno, quello musicale, che è ormai svuotato di ogni significato ritmico. Il ritmo, meglio, l’andamento è quello offerto non tanto dal metro del verso quanto dall’enfasi retorica che impone all’attore la parola sulla scena, la parola rappresentata. Che a Marazzoli non importi nulla della durata delle note appare evidente da quest’altro esempio, dove i tempi delle pause fra le frasi contrastano la corrività del dialogo: chiaramente ogni singolo intervento è collocato nella battuta non perché lì debba stare ma perché lì è più comodo scriverlo (ed è evidente che gli eventuali tempi di attesa siano lasciati al buon gusto dell’interprete). capitolo v. Differenze 167 3ix. Marazzoli, L’armi e gli amori, atto II, scena iv. D’accordo, il recitativo non è mai misurato, non lo era nemmeno quello di Rossi, ma l’uso dei valori musicali aderenti al significato del testo e altre soluzioni come il ritmo puntato fanno supporre che una qualche indicazione ritmica doveva essere nelle intenzioni dell’autore. Con Marazzoli in nessun caso la durata della nota ha una qualche coerenza anche solo relativa. A questo punto si può azzardare altro. Se i valori delle note, generici e utili solo a far tornare i conti, non hanno alcun significato espressivo, forse nemmeno il movimento melodico è da prendere seriamente in considerazione. Forse è possibile, o magari auspicabile, entrare e uscire dall’intonazione del verso spezzandone a tratti la continuità melodica; magari assottigliare l’intonazione di qualche «a parte», addirittura ‘parlare’ alcune sillabe, o frasi, o interi dialoghi che meglio traggono giovamento dal realismo della recitazione. Un recitativo solo parlato, seppur accompagnato da strumenti, era già teorizzato nel citato Corago.21 Anche Giovanni Battista Doni ha scritto pagine e pagine, pubblicate postume, per dire quanto fosse contrario a un dramma tutto cantato, e quanto l’alternanza di parola e canto potesse ovviare alla stanchezza di una intonazione continua.22 Non dubito di poter riferire al solo Doni certe forzature su questa compartecipazione di parola e musica che dai suoi discorsi appare più schematica di quanto non sembri scaturire da Armi e amori, ma non è improbabile che le insistenze di un personaggio tanto apprezzato possano aver opportunamente sedimentato nella mente di Rospigliosi per condurlo a sperimentare un declamato in tal senso assuefatto al parlato, non in modo dissimile da come modernamente si realizzano i recitativi secchi di alcune opere buffe, in cui l’intonazione entra ed esce in una dizione liberamente parlata. E, d’altra parte, che a Roma negli anni Cinquanta e Sessanta si praticasse un recitativo tutt’affatto ‘romano’, sapientemente modellato sulla parola e l’abilità attoriale dei cantanti, è testimoniato dall’episodio significativo portato recentemente alla luce da Roberta Carpani che rivela l’attenzione del milanese Vitaliano Borromeo per la drammaturgia barberiniana. Vitaliano, che aveva fatto costruire quel gioiello che è ancor oggi l’Isola Bella, desiderò a metà degli anni Sessanta allestire nel suo teatro privato alcune commedie in musica che avevano avuto successo a Roma. Chiese perciò al fratello Gilberto, cardinale presso Alessandro vii, di inviargli testi e musiche allo scopo. Nel 1664 Gilberto spedisce «un’operetta in musica … composta di tre soli personaggi»; ritiene di non dover dare troppe indicazioni su come allestirla, ma dubita sinceramente che possa ottenere lo stesso effetto goduto a Roma: 21. «E questo sarebbe lo stil recitativo proprio e non alterato dalla musica, poiché sarebbe quello che comunemente se adopra (se bene alquanto adagio per lo più) senza canto, e sarebbe in ogni modo musico per ragione dell’istromenti che accompagnerebbono con armonia modulazione la voce dell’istrione» (Fabbri–Pompilio 1983, p. 57). 22. L’ed. postuma è quella già citata dei due volumi della Lyra Barberina (Gori 1763); v. anche Solerti 1903, p. 201 e la nota 1 alle pp. 199-200. 168 davide daolmi Lettera da Roma (22 settembre 1664) del cardinale Gilberto Borromeo al fratello Vitaliano; cit. in Carpani 1998, p. 72 nota 106. Credo bene che costì [a Milano, ovvero all’Isola Bella] per la mala pronunzia e perché non vi è la buona scuola di cantar li recitativi in scena con grazia et in modo che veramente si rappresentino gl’affetti e la famigliarità del discorso non riuscirà molto bene. Lettera da Roma (7 marzo 1665) di Gilberto Borromeo al fratello Vitaliano; cit. in Carpani 1998, p. 72. Se costì si sapesse il modo buono di cantar recitando senza difetto della pronunzia forse piacerebbe l’ultima bagatella che fu inviata a V.S.I. ma qui ancora vi sono musici esquisiti che non hanno modo [sc. difficoltà] d’accomodarsi a quella forma naturale et espressiva di cantare coll’imitazione del discorso. In effetti la tradizione operistica milanese era ritagliata sul modello veneziano che ormai in quegli anni già da un pezzo subiva il fascino della vocalità esuberante di virtuosi e castrati (che forse minor attenzione rivolgevano all’abilità retorico-attoriale); Vitaliano è però persona colta, il suo è un teatro privato e non ha nessun obbligo verso il pubblico. Gli invii da Roma continuano anche l’anno successivo e continuano pure le perplessità di Gilberto: Perplessità nuovamente ribadite proprio in occasione dell’invio di Dal male il bene, che il cardinale giudica lavoro di gran qualità («et io l’udii otto volte») ma che difficilmente potrà esser reso come merita: Lettera da Roma (29 agosto 1665) di Gilberto Borromeo al fratello Vitaliano; cit. in Carpani 1998, pp. 71-72. Vero è che costì manca la pronunzia buona e l’espressiva chiara delle parole, e certa grazia di parlare e di recitare, delle quali qui [a Roma] vi è ottima scuola e gran disposizione naturale. Insomma, Rospigliosi gode di una materia prima – attori-cantanti di consumata abilità – che forse più che altrove permette le sperimentazioni ‘spagnole’ messe in atto. Pertanto se da un lato la ricerca della modernità del soggetto ovvia all’improbabilità di soggetti mitologici e pastorali, dall’altro l’auspicio di una recitazione più intelligibile e diretta nega l’artificiosità del declamato e conduce a un’attualità di linguaggio di cui forse nemmeno Rospigliosi aveva colto l’esatta portata. In sostanza è sempre lo stesso principio a muovere Rospigliosi da un lato verso il recupero del modello spagnolo e dall’altro verso le soluzioni suggerite per la confezione musicale: ovvero un realismo drammaturgico ritrovato nella modernità dell’azione che si attua in una modernità espressiva scaturita proprio dal ritrovato realismo del linguaggio. Più difficile a scriverlo che a metterlo in pratica. 2. Tempi D icevo poi come Rospigliosi, seppur non senta la necessità di ripensare la griglia originale del testo, si conceda però tempi d’azione diversi rispetto al modello. L’alterazione è pur sempre contenuta ma incide sulla resa drammatica. Vorrei provare a mettere a confronto la gestione dei tempi dell’intero primo atto, apparentemente il meno modificato rispetto all’originale. Ho elaborato la tav. x sul numero dei versi e contemporaneamente su un’ideale tempo di recitazione che tenga conto dei principi sopra esposti in merito a un recitativo al possibile rapido e molto vicino al testo non intonato. È evidente che se i rapporti fra le parti della commedia spagnola si rivelano sostanzialmente uniformi, l’opera rospigliosiana deve fare i conti con almeno due modi di porgere la parola cantata: il recitativo e l’aria (ovvero i numeri chiusi) che impongono conteggi diversi. A questa variabile eterogenea si aggiunge l’estemporaneità attoriale che impone tempi non quantificabili preventivamente. Pace. Non è il computo dia di Montalbán divisa nelle quattro parti corrispondenti alle azioni-luogo del primo atto; la versione sottostante di Armi e amori, continua, è divisa in scene e numerata in basso. Le bande nere orizzontali corrispondono agli interventi dei personaggi, dove si distinguono tre spessori: sottile, quando il personaggio è presente ma non parla; medio, quando interagisce con altri; grosso, quando monologa. La bande grigie segnalano una controscena; i cerchiolini un numero chiuso (arie o insiemi). 5 x. Nella parte superiore della tavola è lo schema della comme- capitolo v. Differenze 169 170 davide daolmi preciso delle durate che m’interessa indagare, semmai una visione d’insieme complessiva dei tempi d’esecuzione che così raffigurati mi sembrano quanto meno ragionevoli. Limitandosi ad osservare le differenza che la tavola così impostata rivela si colgono alcune evidenze: a) la presenza delle arie; b) l’oscillazione dei tempi concessi allo svolgimento delle scene; c) la frammentazione dei monologhi. Appare evidente come in questo primo atto le arie, o ariette, si collochino a conclusione di un’azione (o mutazione). In effetti tre azioni, di quattro che compongono l’atto, terminano con un numero chiuso. Se si osserva la presenza di arie o insiemi in tutta l’opera ci si rende conto che questo è solo uno dei due criteri per interrompere il recitativo. L’altro è la presenza di una sosta intimistico-introspettivo, spesso un’occasione per pensare ai propri affanni o ai casi della vita. Entrambe le soluzioni rimandano ad un principio che rimane sostanzialmente indiscutibile fino a tutto l’Ottocento, ovvero che il numero chiuso è antitetico allo svolgimento agito del dramma, ovvero lo immobilizza in un fermo immagine che è uno delle affascinanti irrealtà del teatro d’opera. L’aria, così come viene usata da Rospigliosi ovvero quale momento meditativo o di fine azione, evita di interrompere il procedere interno delle scene, perché trova spazio in situazioni il cui elemento caratterizzante è proprio l’assenza di sviluppo. 23. Sintesi, anche bibliografia, di tutta la questione è in Collisani 1998, pp. 32-33. 24. Fabbri–Pompilio 1983, p. 59-60; d’altra parte lo stesso Giacomo Rospigliosi si esprimeva in questi termini nel 1660 (cfr. la lettera cit. nel ii cap., p. 55). Se però da un lato si comprende perché si contino così poche arie, dall’altro viene il sospetto che Rospigliosi persegua un ideale operistico elitario, che forse il pubblico apprezzava sempre meno. Ne dà riscontro l’episodio sintomatico della Catena d’Adone che lega per vie traverse Sigismondo d’India a Domenico Mazzocchi. Mazzocchi si vanta nella stampa della partitura (1626) delle numerose arie e «mezz’arie» con cui aveva infarcito l’opera, quando di contro D’India prende a motivo proprio la quantità di «canzonette» della Catena per screditarne l’efficacia drammatica.23 Probabilmente D’India tenta di rivalersi su Mazzocchi facendo leva sulla convinzione comune, annotata già nel Corago, che intonare arie, piuttosto che recitativi, «è di molto maggior facilità per il compositore di musica», e insieme ci conferma che il cantabile di forme chiuse rischia di essere «privo della perfetta imitazione delli affetti e del comun ragionare».24 Aspetti però questi – la qualità artigianale e l’aderenza drammatica – che forse al pubblico importavano sempre meno e che se anche fossero stati per Rospigliosi motivo di attenzione, certo non erano l’argomento principe per decretare lo sfoltimento di arie e ariette. Senza dubbio il modello spagnolo privo di arie ha condizionato in parte la stesura di un libretto altrettanto carente di arie; ma se Rospigliosi avesse voluto più occasioni liriche non avrebbe avuto difficoltà a trovare altre commedie, magari meno brillanti, che prevedessero momenti musicali interni di un certo rilievo. Ma la sua ricerca mira ad un soggetto ad intreccio; una sorta di teatro degli equivoci dove gli incastri e gli ingranaggi della trama siano di per sé motivo d’interesse. In Armi e amori l’aria appare quasi ridondante, semmai può avere la funzione di ‘stacco musicale’, ma soprattutto disturba. Rospigliosi insomma vi si rapporta non capitolo v. Differenze 171 come a un momento forte dell’opera ma, in buona sostanza, come a un’interferenza, quasi il diversivo concesso al racconto vero e proprio. Quando tutti ormai creano storie per dar agio d’inserire più canzonette possibili, Rospigliosi punta sul recitativo, quasi a volerci far capire che a lui affascina ancora la storia in quanto tale, non come terreno per innesti canori. È qui che si coglie la straordinaria indipendenza creativa del progetto di Rospigliosi. E se simile soluzione si scoprirà destinata a fallire, si deve ricercarne il motivo più in una specializzazione del genere in senso musicale che nella scarsa efficacia drammatica: i contemporanei tributarono gran plauso a quelle due ‘opere’ più che a qualunque altra commedia di cappa e spada apparsa sulle scene romane; e d’altra parte più si approfondiscono le sfaccettature di quest’opera più ci si accorge della solidità e della ricchezza di suggestioni che solo l’utopia di un’opera ‘recitata’ – almeno per l’idea di lirica a cui siamo abituati – è in grado di offrire.25 Che l’interesse poi sia nell’intreccio lo dimostrano proprio i momenti in cui più volentieri Rospigliosi indugia, ampliando i tempi del modello spagnolo. E non mi riferisco alle due scene visibilmente dilatate, ovvero la v e la ix, quelle in cui Bruscolo – il gracioso del testo spagnolo – ha un ruolo di primo piano: qui è evidente che la volontà di trasformare il basso buffo in catalizzatore dei momenti comici dell’opera obbliga Rospigliosi a dare un peso maggiore al personaggio. Parlo dei momenti appena un po’ più estesi (sc. iii, sezione centrale della iv, sc. vi e vii, inizio e fine della viii), in contrapposizione a quelli sostanzialmente identici (monologhi delle sc. iv e viii) o preferibilmente scorciati (seconda sezione della sc. i e sc. ii), che rivelano un intento preciso. Ovvero il piacere di raccontare, un piacere da narratore antico che si pasce dello stupore del suo pubblico e gode nel portare per mano l’ascoltatore fra le strade della sua storia.26 Rospigliosi taglia, anche drasticamente, un corteggiamento tutto concettoso, ricco di arguzie e sofismi letterari (sc. ii); riduce qualche menzogna bonaria di don Enrico che tenta d’imbonire il padre di donna Laura (sc. i); scorcia persino il monologhetto di Bruscolo (sc. ii) che fa il verso a quello soppresso di don Fabio; lascia però invariati, almeno nella durata, i monologhi, i veri momenti clou del teatro spagnolo (pur con alcuni accorgimenti); qui infatti i personaggi fanno rivivere vicende con l’uso della sola parola; qui, seppur in forma circoscritta, c’è una prima forma di racconto. Dove invece si sente libero di poter scrivere qualche verso in più è quando le parole, i dialoghi, i commenti, anche fuori scena, servono al dispiegarsi della trama, a descrivere l’accadere di circostanze, a giustificare le azioni; dove insomma la narrazione si compie nell’azione stessa; dove si vive il succedere degli eventi. Rospigliosi tollera male il parlarsi addosso, che tanto poco riesce quando intonato; vuole fatti, situazioni concrete, cose che succedano realmente. È innegabile che sia sedotto prima di tutto dal meccanismo della vicenda e potrebbe forse stupire quanto un poeta poco indugi ad assaporare il piacere della letterarietà del verso; ma è proprio qui che ci si accorge quanto Rospigliosi sia prima di tutto un drammaturgo e solo di conseguenza un poeta (e in quest’ambito meglio si comprende perché la versificazione sia stata, con buona probabilità, lasciata al nipote). Rospigliosi 25. Sarebbe qui il caso di aprire la questione sul parallelo dello spettatore moderno che in genere concepisce il recitativo come un momento di per sé noioso, da lasciar passare, dimenticando che proprio nel recitativo è l’azione dell’opera, è lì la vera tensione drammatica. A sua discolpa va la scarsa sensibilità teatrale degli operatori musicali (direttori, cantanti e registi in prima linea) che, partecipi di questo pregiudizio, eseguono il recitativo senza alcuna volontà di valorizzare la componente scenica propria della parola, quasi tollerandola quale disturbo a una vocalità in fondo priva d’interesse ma che ci si sforza di rendere inutilmente cantabile. 26. Sul piacere di raccontare si vedano anche le osservazioni sul ‘ripercorrere il già detto’ alla fine di questo capitolo. 172 davide daolmi Los empeños A⎧ ⎨ ⎩ Armi e amori Dentro cuchilladas alon. Dentro ¡Muere, traidor! los dos ¿Qué es aquello? [sale Hernando] Cuchilladas a la puerta de la calle. juan Fuerza es que a ver lo que es salga. Vamos a este empeño, que es el que con prisa me llama; que yo so os satisfare luego. diego Sí haré, por no dejar nada que hacer nunca mi valor. [aparte] ¡Vive Dios, que antes que salga de aquí, he de saber quién es! ⎧ ⎪ ⎪ ⎪ B⎨ ⎪ ⎪ ⎪ ⎩ ⎧ ⎪ C⎨ ⎪ ⎩ [rumore di spade in strada] alonso Fuor di scena Traditor morrai! fabio Che strepito fia questo? alvaro Alla porta di casa una quistione. hern. 865 870 juan [aparte] Elvira, ay dentro te aguarda; que yo guardaré tu vida. Vanse los dos elv. ¿Hay mujer más desdichada? ¡Quién se vió en mayor peligro que yo! Retirase Elvira donde estava Leonor 20 875 fabio Forz’è l’uscire. alvaro Andiamo, è ben ragione. fabio I vostri dub‹b›i appagherò ben presto. alvaro [fra sé] Benché costasse a me di sangue un rio, pria che di qua partire chi si nasconde a me saper vogl’io. fabio [a parte a Ippolita] In voi non manchi un generoso ardire. ippol. [a parte a Fabio] Il sospetto ch’ei mostra tutta m’affligge. fabio La difesa vostra già corre a conto mio. 25 30 [Alvaro e Fabio, spade alla mano, corrono in strada] ippol. Se mi conobbe il mio germano, ohimè, chi potrà darmi aita e che sarà di me? Misera ondeggiar sento con acerbo tormento, 35 con miseria infinita fra reflussi di morte omai la vita. Mori, misera amante, tra mille pene involta, mori, mori una volta 40 per non morir cotante. [Ippolita si nasconde in una stanza] segue: in conclusione – ma il rischio è di aprire un nuovo capitolo d’indagine – ama il teatro non come luogo della poesia ma in quanto organismo vitale atto a creare storie, fantasmi, suggestioni. 3. Caratteri L e alterazioni all’originale spagnolo non dipendono solo da esigenze stilistiche, si adeguano anche ai contenuti, che per Rospigliosi hanno un peso non indifferente quando comunicano la moralità di un sentimento. La potenzialità di un recitativo che può seguire le sfumature della parola (e semmai enfatizzarle) diventa, senza rimanere imbrigliato nei limiti della costruzione musicale, strumento perfetto di comunicazione. Se anche Rospigliosi accoglie le simmetrie delle due coppie di amanti che non riescono a ricongiungersi, non sembra aver interesse a insistere su possibili sviluppi. Si preoccupa invece di delineare personaggi contemporaneamente credibili e onesti, e in genere più dignitosi di quanto non faccia il testo spagnolo, in modo che i messaggi espressi acquistino un peso non solo perché realistici ma anche perché assennati. Al proposito vale la pena soffermarsi sul frammento isolato a tav. xi, il momento che precede la conclusione della commedia, dove gli equivoci si aggrovigliano. capitolo v. Differenze ⎧ D⎨ ⎩ ⎧ ⎪ ⎪ ⎪ ⎪ E⎨ ⎪ ⎪ ⎪ ⎪ ⎩ hern. 173 ¡Buena va la danza! Puesto que mi amo quedarme, cuando va a reñinr, me manda, quiero obedécer. Señores, ¿qué es esto? scena quindicesima Donna Ippolita, donna Laura [Sale Leonor] El Cielo me valga pues son mis desdichas tales, pues son tantas mis desgracias, que al salir Félix conmigo, mi padre (¡ay de mi!) pasaba por la calle, y para él sacó, en viéndole, la espada, y impidiéndome a mí el paso, riñendo allá todos andan. hern. Y aun acá; que todos se entran. leon. Este aposento en que estaba, me oculte. leon. [Tapada, entreabiendo la puerta] elv. Tarde venís; que esta posada tomada está ya. leon. ¡Ay de mi! ¡Qué presto tomasteis de mi venganza! Pero en esta parte intento esconderme retirada. 880 885 890 [giunge Laura] laura Ohimè valgami il Cielo per così aspre doglie scorrer mi sento in ogni vena un gelo. Appena da le soglie, ah strano caso, uscii di queste mura che mio padre, oh sventura, ignudo il ferro e d’ira il petto armato, acerba pena in minaccevol suono assalì don Enrico, ahi dispietato. Ma il rumor già s’appressa! Alla camera istessa per ritrovar difesa volgo la mia speranza. 5 10 [Laura tenta di nascondersi nella stanza dov’è Ippolita] ippol. [da dietro la porta] Occupata è la stanza. 895 Escóndese laura Oh come tosto resa a me fu la pariglia. Ad occultarmi altrove io son astretta. 15 [Leonora si nasconde in un’altra stanza] scena sedicesima Don Alonso, don Fabio, don Enrico, don Alvaro e sopradetti ⎧ F⎨ ⎩ [Salen don Alonso, don Félix, don Juan y don Diego] alon. ¡Vive Dios, que atropellando por todas vuestras espadas, de una ingrata y un traidor tengo de tomar venganza! 900 [giunge Alonso combattendo con Enrico, dietro Alvaro e Fabio] alonso Ch’io non faccia vendetta d’una perversa figlia, d’un traditore indegno, d’un oltraggio inumano: ritenere il mio sdegno 5 presumon qui le vostre spade invano. Siamo in casa di don Fabio (al solito uso per praticità i nomi italiani). Nella versione spagnola vi sono quattro interlocutori: don Fabio; il servo Bruscolo; una donna velata (che don Fabio sa essere l’amata Ippolita) e il fratello di lei, don Alvaro, convinto che la dama sia donna Laura. Ippolita non vuole rivelarsi perché sarebbe disonorevole per una donna non sposata farsi scoprire dal fratello nella casa di un uomo. Fabio l’asseconda, ma Alvaro insiste perché si mostri. Colpo di scena (a): un duello in strada distrae i due uomini che (b) decidono di uscire a vedere cosa succede. Ippolita rimasta sola (c), vuol fuggire, ma impossibilitata si rifugia nella stanza attigua. Qui il testo di Montalbán insiste a tenere in scena Hernando (ovvero Bruscolo) per alleggerire la drammaticità della situazione (d). Questi, apparentemente ignaro della fuga di Ippolita, rimane nella stanza ben contento di non doversi immischiare in nuovi duelli. Entra a quel punto trafelata donna Laura (e) che fugge dalle ire di suo padre; Alonso infatti, credendola svergognata, pretende ucciderla (il duello in strada era quello fra don Alonso e Enrico: quest’ultimo voleva difendere Laura). Laura nulla chiede al servitore e tenta di nascondersi nella 5 xi. Raffronto fra lo stesso frammento dell’atto III degli Empeños e di Armi e amori. 174 davide daolmi stessa stanza di Ipplita, la trova chiusa e ripara altrove. Entra allora don Alonso (f) che, liberatosi di Enrico (e di Alvaro e Fabio, giunti a sedare lo scontro), insegue la figlia. Non la trova e s’infuria. È evidente che l’andirivieni sotto gli occhi increduli di Hernando mostra una buona dose di comicità, non solo per i commenti stupiti del gracioso, ma anche perché nessuno si sogna di chiedergli dove sia andato chi: un ingranaggio al limite del surreale. Rospigliosi vuole invece il pathos. Eliminato Hernando, l’entrare e uscire dei personaggi diventa pura tensione perché non mostra la stupidità della paura o dell’ira (sia Laura che Alonso avrebbero potuto chiedere aiuto o informazioni a Hernando), né si giova dell’ignavia un po’ sciocca e interessata di Hernando per sdrammatizzare la scena o esasperare ‘alla spagnola’ i contrasti – secondo la celebre formula grottesca che sarà della «terzana» di Leoporello nel Don Giovanni mozartiano. 27. L’improbabilità della scena – sarebbe ingenuità credere che nel Seicento un padre possa ammazzare l’unica figlia per motivi d’onore – improbabilità che mette a disagio lo stesso Rospigliosi obbligato a sfruttare la follia quale espediente per rendere credibile l’episodio, trova minor resistenza nel teatro spagnolo che ormai gestisce le questioni d’onore soprattutto come metafora; la questione è ben sintetizzata ancora una volta in Profeti 2000, p. 109 (a nota 28 i rif. bibliografici) che analizza una simile situazione della commedia di Agustín Moreto (†1659) Primero es la honra. L’Ippolita di Rospigliosi, prima di rinchiudersi nella stanza attigua, ha un momento di disperazione («Misera ondeggiar sento…»), non sa cosa fare per ben otto versi carichi di rassegnato terrore (altri avrebbe sfruttato l’occasione con un’aria, magari con da capo, ma non Rospigliosi che intuisce che tutto qui si pretende dalla scena fuorché la stasi). Ippolita si nasconde proprio appena prima che Laura irrompa nella stanza altrettanto spaventata. Ma è l’ingresso di Alonso che ha tutto un altro peso. Montalbán ci tratteggia un don Alonso bonaccione e un po’ sciocco, con la spada sguainata alla don Chisciotte ormai privo di senno, e quasi finge uno sdegno di cui nemmeno lui sa forse più il motivo. Il don Alonso italiano è invece persona a modo, saggio, ragionevole, il padre di famiglia che sente sulle sue spalle il peso e la responsabilità dei suoi cari. Il credere che sua figlia, forse l’unica figlia, sia stata in realtà risucchiata nel gorgo della perdizione lo ha gettato in un delirio di follia. La sua minaccia d’ucciderla è assolutamente reale: è evidente – lo spettatore lo sa – che questa sua efferata volontà sia un eccesso (che Montalbán giustificava proprio attraverso i risvolti comici), ma il pubblico di Rospigliosi ora teme che Alonso possa realmente uccidere la figlia perché reso cieco e pazzo da un vaneggiamento improvviso di frenesia omicida, provocato da un dolore inestinguibile.27 L’opera di adattamento non è evidentemente solo un problema di tempi; è soprattutto l’esigenza di muovere al possibile le emozioni dello spettatore. L’elemento patetico, presente anche nella versione spagnola ma non in modo così enfatico, è quello su cui di più punta Rospigliosi. Da metà del terzo atto, dalla scena viii – il grande lamento di donna Laura straordinariamente intonato da Marazzoli – non c’è più modo di tornare indietro: i servi scompaiono totalmente di scena e tutto acquista una carica drammatica che monta fino alla risoluzione finale: una semiagnizione con chiarimento degli equivoci e riappacificazione di tutti. Operazione questa di coinvolgimento per il quale si sfruttano tutti i mezzi del teatro, il riso, il pianto, il terrore, i colpi di scena: una consapevole azione di propaganda da cui il buon cristiano – meglio, il buon cattolico (tanto più se di professione) – non ha mai saputo esimersi. Rospigliosi capitolo v. Differenze 175 aveva teorizzato fin dai suoi esordi di drammaturgo quanto il potere della poesia possa suggestionare anche chi non sa assaporarne il fascino e la bellezza del verso: Presupposero, nei loro poemi Omero e Virgilio e gli altri grandi, con lo insegnare al popolo, giovarlo – e senza alcun dub‹b›io se il popolo impara essi giovano – ma prendendo eglino [= i poeti], per farsi meglio intendere, le cose sensate e conosciute dal volgo, per dimostrar le insensibili e le intellettuali (alla foggia di Esopo che, col mezzo degli apologi suoi, esponeva gli utili documenti de’ costumi). Questa è veramente l’usata strada della poesia, la quale col mostrare ciò che a prima vista s’intende, insegna il nascosto sentimento che giova. Frammento tratto dal Discorso, pubblicato in conclusione Bracciolini 1628, pp. 485486, una sorta di giovanile manifesto poetico. Il messaggio, la morale – ovvero le cose «insensibili» e «intellettuali» – passano solo coinvolgendo il proprio interlocutore attraverso ciò che sa, «le cose sensate e conosciute». Gli si racconta una storia, lo si seduce con episodi di tutti i giorni e intanto s’introducono idee, quelle idee che fanno la cultura, che formano una società, nel bene e nel male. Molto gesuitico questo modo di pensare; e ovviamente condiviso assai da Rospigliosi che presso i Gesuiti si era formato. Ma quali insegnamenti dispensa Rospigliosi? Sono nozioni di rettitudine morale certo: nessuno dei protagonisti agisce per cattiva disposizione, tutti sono tratti in inganno da equivoci e fraintendimenti; e anche di fronte allo scontro fisico di un duello la correttezza non viene meno. Anche le donne, che solitamente intrigano e tramano vendette, qui sono sempre e solo vittime (Rospigliosi non ci lascia nemmeno dubitare, come invece fa Montalbán, che donna Laura possa essere realmente fedifraga). I comportamenti più rilassati sono lasciati ai servi che tutt’al più hanno la lingua lunga (Spinetta), mentono per danaro (Tranquilla) o sono amabili scansafatiche (Bruscolo). Ma i servi stessi hanno in Lisardo un modello di rettitudine e di saggezza, che rischia la sua vita per salvare l’incolumità di una donna in pericolo.28 Rettitudine morale ma anche responsabilità delle proprie scelte. Il dover prendere una decisione, il dubbio, l’incertezza, sono tutti momenti in cui Rospigliosi mette del suo; dove non solo il testo spagnolo è ampliato ma dove colui che fa una scelta si pone nella condizione di diventare modello etico di comportamento. Quando don Alonso viene a sapere del doppio duello in cui è coinvolto Enrico, il vecchio padre fanfarone – come lo descrive Montalbán – ha un primo guizzo d’improbabile eroismo; quando si rende conto del pericolo si convince che non è il caso immischiarsi. rodrigo Pero esto es llevar las cosas muy hasta el fin, y es indigno ya de mi edad tanto duelo: muden parecer los bríos si aconsejé como mozo, como viejo determino enmendarlo; que ya es tiempo de que haga la edad su oficio. 715 720 Ma questo significa portare la faccenda fino in fondo, e non è certo degno della mia età simile duello. Non si dia ascolto alla passione! Ci cascavo quand’ero giovane, oggi, da vecchio, so evitare le imprudenze: è tempo d’assecondar l’età. Montalbán ci fa addirittura credere per un attimo che Alonso abbia deciso di far finta di nulla: solo l’arrivo di Lisardo suggerirà al vecchio l’idea di sfruttare la devozione del servitore e mandarlo, lui solo, sul luogo dello scontro. Un’esibizione di meschinità e codardia che Rospigliosi non 28. Val la pena osservare che il carattere posato e responsabile di Lisardo è anche in Montalbán. Tuttavia se il Lisardo spagnolo ricalca il classico aio ormai in là con l’eta, per Rospigliosi la rettitudine del servo non è legata all’anzianità (è infatti detto «garzon» in III.iii. 19) ma a un’origine forse non plebea o più probabilmente a una buona educazione (si definisce «servitore | che sia ben nato e che professi onore» [II.xii.44-45]); il suo rigore morale gli permette di impietosirsi alle scompostezze dei suoi giovani padroni innamorati («come hai pronto a precipizi il core | gioventù male accorta» [III.viii.2829]), e per un attimo si ha l’impressione che Lisardo, proprio da coetano, partecipi di quel disagio e quasi parli a se stesso, come se riaffiorasse in lui la reminiscenza di un amore fallito. Montalbán, Los empeños que se ofrecen, tercera jornada (mia traduzione); cfr. Appendice. 176 davide daolmi può accettare. Il suo don Alonso si lacera nel dolore di non poter far nulla; sa, perché anziano e assennato, che non servirebbe correre sul luogo del duello; ma quando giunge Lisardo crede di poter mettere in atto un piano che li vedrà entrambi in azione per fermare lo scontro. Solo circostanze inattese tratterranno don Alonso, non la sua vigliaccheria. Soprattutto, nel momento di prendere una decisione, don Alonso ha modo, e lungamente, di dubitare di ogni sua azione e tutto mettere in discussione, persino le leggi dell’onore; si strugge nell’umanissima incertezza; e solo con uno sforzo di volontà riesce a far valere la sua ragione di uomo anziano e d’esperienza contro il primo vano impulso. Egli opra bene, io male, se da lungi non seguo i passi suoi. e la pietade e il Cielo, in duro agone solo nel sangue i vanti suoi ripone? Ma non potrebbe poi dal conflitto mortale nascer qualche sventura? Ah, pera il nome pera di chi primo inventore, con barbaro furore, fu dell’empio duello; ove d’ingiusta sorte trofeo riman talora anche il più forte. 30 Quanto meglio saria, che funestar di civil sangue il piano, rivolger questi e quello la generosa mano contra il superbo scita a Dio rubello? 35 Cura indegna è il cercar con tanta cura che decida ogni punto la punta della spada: da magnanimo cor lungi ne vada si mal fondato assunto. 5 10 Chi non sa che ben spesso legge d’errore è quella che d’onor legge il cieco mondo appella? Quindi là dove, impresso d’ira, precipitoso altri è condutto alla battaglia ardente, s’è veduto sovente che strage, morte, orror, tormento e lutto di quell’impeto reo son poscia il frutto. E qual famosa palma, qual mai trionfo spera chi disprezzando in un la vita e l’alma, Rospigliosi, L’armi e gli amori, II.x ; cfr. Appendice. 15 20 Ora, se troppo il segno passaron di tempranza i miei consigli, portar penso ritegno de’ cavalieri audaci al furore, a’ perigli; spirti tanto vivaci già rafrenar nell’età mia si denno, perché apparisca omai sotto a canuto crin, canuto il senno. 25 40 I 10 versi di Montalbán diventano 44 con Rospigliosi, che condanna le regole dell’onore; paventa la rabbia incontrollata che solo genera lutti e lo sdegno divino; aborre i duelli la cui vittoria è del caso; auspica che semmai si debbano alzare le armi lo si faccia contro i musulmani. Anche troppo per lo spettatore (e infatti i versi 20-35 sono cassati nella seconda versione della partitura) ma sintomatico di un’attenzione a quelli che possono essere i contrasti fra dovere, passione, ragione e morale in cui Rospigliosi s’immerge senza reticenze; dove il buon cristiano sa che il libero arbitrio gli concede sempre l’occasione di scegliere la via migliore. Eppure, nel farsi agio degli intrighi amorosi, «le cose sensate e conosciute dal volgo», Rospigliosi forse non s’accorge che insieme all’insegnamento morale offre lezioni di vita; spiega alle donne come sedurre, agli uomini come corteggiare, a entrambi cosa si deve e non si deve fare nelle faccende di cuore. In una società dove il comportamento si associava a una regola, dove il nutrimento del pensiero era un lusso e lo psicanalista era sostituito dal capitolo v. Differenze 177 confessore, in una società in cui l’apprendimento avveniva quasi esclusivamente per emulazione, questo mostrare i sentimenti – impudicamente, come sa fare il teatro – questo spiegare le passioni, i sotterfugi, i compromessi, ma anche le gioie e i dolori, i modi di resistere al desiderio e le conseguenze del cedervi, questi comportamenti diventano insegnamenti e modelli da imitare, in cui generazioni di spettatori crescono e si formano, in cui forse tutto un popolo trova il nutrimento per quelle curiosità che diventano passioni, emozioni, entusiasmi. L a musica che Marazzoli scrive per il recitativo rospigliosiano, s’è det to, non ha un interesse appariscente. A osservarla da vicino appare un terreno neutro pronto a lasciarsi usare dall’interprete. Ma proprio per le grandi dimensioni in cui si dispiega il recitativo-affresco di Armi e amori ci si accorge presto che è necessario allontanare lo sguardo e abbracciare con un colpo d’occhio l’insieme per apprezzarne l’intenzione compositiva. In effetti questa scrittura respira. Ha un respiro lento, malgrado la rapidità con cui insegue le sillabe, ma continuo, che rincorre il ritmo delle cadenze. Ogni frase musicale definisce un arco, scandito da un figura d’attacco, un momento di sviluppo e uno cadenzante. 4. Strutture 3xii. Marazzoli, L’armi e gli amori, atto I, scena viii. Tale arco, in genere ampio, prevede incidentalmente delle semicadenze interne che, oltre ad articolare la frase, in qualche modo lo avvicinano al recitativo liturgico; un ossequio alle formule tipiche della punteggiatura salmodica (intonatio, flexa, metrum, terminatio), ripensate da Marazzoli per il contesto profano secondo un campionario di cui qui di seguito sono le possibilità più ricorrenti. 3xiii. Relazione fra le formule salmodiche e (in basso) gli stilemi proprio del recitativo di Armi e amori. Non vorrei forzare un nesso fra liturgia e opera rospigliosiana, ma penso che l’ambiente ecclesiastico in cui si muovevano sia Rospigliosi che Marazzoli, anch’egli sacerdote, trasformasse ogni riferimento alla ritualità della parola intonata dal sacerdote in un’enfasi retorica capace di espri- 178 davide daolmi mere valori profondi. Non deve pertanto stupire se i momenti musicali più carichi di reminiscenze ecclesiali siano quelli mossi da un’estasi amorosa, quasi Rospigliosi volesse suggerire un’equazione fra amor sacro e amor profano. Forse l’episodio in questo senso più significativo è il monologo di don Fabio che racconta all’amico come si sia innamorato di una donna velata, che non vuole rivelarsi (4tav. xiv). Questo, che è probabilmente uno dei più alti momenti lirici del dramma (si osservi come il montare dell’emozione segua il graduale ascendere dei picchi melodici, da 1 a 5, mi –› la), più che altrove indugia su un ribattuto quasi liturgico. 5xiv. Marazzoli, L’armi e gli amori, atto I, scena viii, monologo di Fabio. La forma e la direzionalità delle frecce riprendono quelle in grigio tracciate a tav. xiii. Ma è a questo punto importante ascoltare il respiro delle arcate melodiche. È un respiro che ovviamente segue il significato del verso, e pertanto è d’intensità e durata differenti; perché differenti sono le scansioni imposte dalle cadenze che distinguono almeno due tipologie: cadenze vere e proprie di carattere conclusivo (sul modello della formula composta iv-v-i) e semicadenze, meno categoriche che seguono formule diverse. Questo doppio intercalare si interseca con il periodo del discorso che oltre alle interruzioni forti di Alvaro interlocutore di Fabio (in realtà, come suggerisce la musica, non intese a chiudere il discorso, ma a farlo ricominciare) prevede cambi di enfasi retorica. Ma per meglio penetrare il discorso è opportuno riferirsi alla tav. xv (pagine seguenti). capitolo v. Differenze I quasi novanta versi del monologo di don Fabio (scena viii del I atto) sono organizzati in una griglia che identifica sezioni diverse: le linee orizzontali che suddividono il testo individuano le cadenze musicali, distinte in ‘forti’ (sempre la formula iv-v-i) e ‘deboli’ (semicadenze). Tralasciando per il momento i pettinini incolonnati a destra del testo, di cui dirò poi, si scorge sulla sinistra una banda che, trascurando i primi cinque versi (che considero introduttivi), suddivide il monologo vero e proprio in tre ampie parti (a b c). Questi tre interventi di Fabio, separati grosso modo dal ‘pertichino’ d’Alvaro, prevedono due livelli di colore: il più chiaro identifica il momento in cui si narra l’accaduto; quello più scuro l’emozione provata alla visione della dama velata. L’ultimo intervento (c) ha natura anomala perché interrotto da cause esterne e, lasciato volutamente incompiuto, non ha una forma vera e propria. Le altre due sezioni, versi 53-83 e 86-117, hanno struttura simile: a due terzi circa della narrazione fanno succedere il momento emotivo. Hanno cioè entrambi una direzionalità palese verso il delirio amoroso di Fabio che obbliga Alvaro a partecipare all’emozione con un commento ammirato. Se conto i versi delle due prime sezioni (a b) osservo che sono di lunghezza identica (33 versi ciascuna), ma, caso anche più sorprendente, anche la fase narrativa prevede per entrambi lo stesso numero di versi, 23, lasciandone 10 al momento emozionale (8 più i 2 in a: sez. iv-v; 9 più 1 in b: sez. vii-viii). Non si tratta certamente di una premeditazione di carattere speculativo – e d’altra parte ho trascurato i due versi successivi al secondo intervento di Alvaro (119-120) che in qualche modo chiudono a posteriori il momento più partecipato – la corrispondenza numerica è certamente un caso; ma un caso aiutato da un’esigenza costruttiva, forse neanche razionalizzata, che vuole un momento preparatorio di attesa più ampio per godere dell’efficacia dell’elemento di più intensa emozione. Che il procedimento non sia pianificato a tavolino, ma appartenga a un modo di sentire che potrei definire fisiologico – proprio delle cose del mondo, ma anche appartenente a una pratica teatrale artigiana – lo si deduce chiaramente da come Marazzoli, spontaneamente, non solo assecondi questa scansione del testo con l’uso di cadenze ‘forti’, ma in più scelga di sezionare la lunga parte narrativa con un’altra cadenza ‘forte’, in entrambi i casi posizionata più o meno a due terzi del discorso di don Fabio (frecce in verde). Anche Marazzoli cioè opera una frammentazione interna del testo che privilegia scansioni asimmetriche (quasi una reminiscenza di sezioni auree) con il tempo lungo – l’attesa – che precede il più corto, vero momento importante. Ma questa interazione fra musica e testo si realizza anche ad un livello più profondo. Rospigliosi usa far rimare sempre il suo recitativo (con qualche eccezione che si giustifica dal contesto: vedi la rima aperta che conclude il monologo di Fabio a sottolineare un’interruzione imprevista). Il criterio è quello di organizzare una quartina di versi in rima alternata (abab), chiusa (abba) o baciata (aabb), alternando liberamente settenari ed endecasillabi. L’uso è poi quello di legare due a due queste quartine, in genere attraverso lo scambio di un verso (a b aa bbab), come avviene nei primi otto versi del monologo riportato nella tavola. 179 180 5 xv. Il monologo di Fabio [I.viii] di cui la sezione a (nell’altra pagina) corrisponde alla musica di tav. xiv. davide daolmi capitolo v. Differenze Nella tavola ho identificato le quartine rimate con una sorta di forcina a quattro rebbi dove il diverso spessore distingue le coppie di rime: credo sia abbastanza intuitivo riconoscere i modi con cui Rospigliosi le incastra (in qualche caso anche con una rima in comune fra le due quartine: v. i gruppi identificati con i numeri 5, 8 e 11) e, a volte, incastra anche le doppie quartine (nn. 10 e 11). Se questo raggruppamento a due a due è forse solo teorico (lo credo in effetti un espediente per gestire forme ampie, non un modo di significare altri valori formali, tant’è che spesso non si verifica), senza alcun dubbio il gioco di concatenazioni è ben più che una possibile soluzione – e tutt’altro che ovvia – per organizzare lunghe successioni di versi. In realtà tale meccanismo, oltre a dare varietà alla rima, serve a costruire micro strutture all’interno del testo. Dirò meglio più avanti ma intanto si osservi la capacità di queste microstrutture di interagire con altre microstrutture, quelle della musica. La tav. xv mette in evidenza come ogni cadenza ‘forte’ coincida pressoché sempre con la fine di una quartina; si osservi però come anche le cadenze ‘deboli’ vengano in molti casi a confermare le rime posizionandosi prima o dopo: quando non lo fanno è perché si privilegia il senso della frase. Si crea in questo modo un contrappunto fra le scansioni spontanee del testo, insaporite da rime che creano divisioni o legami, a cui si sovrappone il trattamento musicale che entra ed esce dal periodare, im- 181 182 davide daolmi ponendo scansioni ‘forti’ dove necessario e giocando con quelle ‘deboli’ sulla scia delle suggestioni create dalle rime. La rima È chiaro che l’attenzione amorevole che Rospigliosi dedica alla rima non è affatto legata al caso ma ad una poetica ben precisa; oltre alle osservazioni qui proposte lo testimonia un lungo e illuminante passo dedicato all’argomento da Arcangelo Spagna nell’introduzione al primo volume delle sue raccolte di libretti. Qui Spagna – che tuttavia pubblica le sue idee mezzo secolo dopo – identifica in Rospigliosi il modello ideale per un recitativo tutto in rima, pratica ormai abbandonata in quei tempi, e contemporaneamente qualcosa ci dice sul significato estetico di un artigianato poetico di antica tradizione e apparentemente poco disponibile a lasciarsi integrare nella prassi melodrammatica. Il passo è molto lungo ma vale la pena leggerlo per intero perché parla della rima in termini del tutto originali, perché molto dice sulla poetica di Rospigliosi e perché in qualche modo viene a confermare le ipotesi sopra suggerite e scaturite dall’osservazione diretta del recitativo di Armi e amori. Spagna 1706, pp. 9-14; qui è anche un prezioso riferimento alla copiatura di alcuni drammi rospigliosiani che testimonia almeno una delle circostanze che produssero un così alto numero di copie manoscritte. Considerai parimente quale stile fosse il più a proposito per la musica, né mi parve trovarsi il migliore di quello che usarono et il Testi nella sua Alcina29 et il signor Giulio Rospigliosi nelle bellissime opere teatrali rappresentate nel famoso Teatro Barberino, le || quali per non essere alle stampe privano il mondo litterato di una fedelissima scorta di quelle azioni per le quali, congiunte ad altre sue virtù singolari, meritò di giungere al sommo pontificato. E vaglia [sc. valuti] il vero, la chiarezza e nobiltà del dire chi ben lo considera, vedrà esser unico stile per la musica, né potersene imaginare il migliore. Nelle sopradette opere [di Testi e Rospigliosi] non troverai né recitativi in versi sciolti, né molto meno arie senza rima, vizio oggi barbaramente introdotto, il quale è stato cagione che molti, giunti appena a saper versificare, si sono persuasi di saper comporre oratorii, e forse sapendone i precetti e l’obbligo non sariano stati arditi di farlo, e sono poi riusciti di una tal qualità che hanno dato motivo all’autore della Nafissa di deriderli.30 Ad un tal disordine hanno cooperato non poco, a mio credere, molti eruditissimi ingegni nel comporre con versi sciolti e senza rime, con mendicata scusa di non potere con tal obligo esprimere i loro sentimenti; e pure, avendolo fatto con sì gran lode gl’accennati Testi e Rospigliosi, viene a conoscersi che labor omnia vincit e che la vera cagione in questi fu solo per isfuggire la fatica. Sono di più qualità i versi usati in so- || miglianti composizioni, cioè per gli recitativi di undeci sillabe e di sette, per le arie di metri diversi, e non se ne può dare determinazione senza lungo discorso. In queste [sc. nelle arie] sono affatto inescusabili coloro che tralsciano in minima parte le rime, non trovandosi né antico né moderno autore di stima che abbia altrimente composto. Qualche piccola difficoltà resterebbe ne’ recitativi, intorno a che posso con verità affermare esser stata ferma opinione del sopra accennato signor Rospigliosi, e dal medesimo uditela, che solo per licenza poteva mischiarvisi qualche verso sciolto, facendomi favore in tal congiuntura d’imprestarmi per trascrivere alcune delle sue opere, le quali bisognando manderò alle stampe acciò apparisca un tal rigore inviolabilmente osservato. Di più mi disse dover essi recitativi avere fra di loro una somigliante corrispondenza et incatenatura che serbano le strofe delle odi in stile lirico di più o meno versi composte secondo porta il bisogno. Anzi che in una virtuosa accademia che si adunava una volta il mese in casa del signor Antonio Maria Abbatini, famoso contrapuntista del secolo passato, dove mi ritrovai più volte, fra le altre materie ivi discusse e ventilate fu riconosciuto che i nostri recitativi || erano succeduti in luogo di quei madrigali che furono posti in musica dal prencipe di Venosa e dal Monteverde, de’ quali è propria la totale osservanza delle rime sopradette. Sono queste [sc. le rime] il più vago e forse unico ornamento della nostra poesia, ma specialmente ne’ versi destinati al canto; onde se venissero o trascurate o tralasciate 29. Testi 1636. 30. Ho qualche difficoltà a identificare questo «autore» e tanto più il luogo di tale derisione. Lo Union Catalogue segnala un ms. italiano in US-PHu (Cod. 645) intitolato Nafissa o vero Lo sforzo poetico «dell’abbate D. G. P. tra gli academici Indiavolati detto S. Invelenito, oratorio a tre»; la variante del titolo rende il ms. primo candidato al riferimento di Spagna ma non so individuare chi sia tal «D.G.P.». Per quello che capisco Nafissa, spesso detta «santa», tutto era fuorché una santa, e in omaggio al suo comportamento tutt’altro che casto è spesso ricordata quale protettrice delle prostitute. Trovo una descrizione, anche iconografica, nel Ragionamento della Nanna e dell’Antonia (1534) dell’Aretino e un riferimento nella Secchia rapita del Tassoni, il quale nelle Annotazioni al poema, pubblicate nel 1630 sotto il nome di Gaspare Salviani, dice: «Chi vuol sapere chi fosse santa Nafissa, o per capitolo v. Differenze sarebbe un privarla della sua parte migliore. Ché se il cantare improvviso al suono di un usuale istromento si fa da noi con ogni più esatto rigore nell’osservanza delle rime, non so vedere come possiamo diversamente contenerci in quelle composizioni che sono parimente destinate al canto, fatte con maggior studio al tavolino, ornate con miglior armonia, espresse da’ più celebri professori dell’arte e negl’oratorii recitate ove è maggiore il concorso di chi intende. Hanno le rime in sé stesse una special qualità di gusto quale, unito all’armonia della musica, fanno un composto così grato all’orecchio ed alla mente che a meraviglia conciliano l’attenzione ed il silenzio. Ciò bene si conosceva nel rappresentarsi le sopradette opere nel Teatro Barberino, delle quali molte ho vedute, mentre in quel tempo né meno un respiro si udiva fra gl’ascoltanti, || dove oggi con tutte le moltissime arie introdotte per mantenere l’applicazione si prova il contrario; onde si è stimato di stamparle distribuendole per il teatro, cosa già mai in que’ tempi pratticata. La verità di quanto dico non può bastevolmente spiegarsi con parole, ma bene esperimentasi da quelli che hanno qualche cognizione della musica e della poesia, e questo più o meno a proporzione dell’intelligenza che ne possiedono. Gli versi sciolti o, per meglio dire, senza rima hanno una tale asprezza che stancano insensibilmente l’uditorio, anzi non si conosce per lo più se sia la composizione in versi o in prosa, e dubito con mio gran rammarico che propagandandosi un tal abuso (mentre alcuni nel fine appena pongono la rima) abbiano un giorno a farsi gl’oratorii in versi affatto sciolti e può essere ancora in prosa. Le rime dunque conciliano l’attenzione et il gusto, ed in guisa tale che spesse volte l’intelletto dalle rime antecedenti va congetturando le susseguenti, et avanti che si pronunci il fine o la conclusione del periodo gode pronunciarlo, e ne concepisce un particolar diletto come se egli stesso vi concorresse a formarlo. Ma quando ancora non fossero bastanti le raggioni addotte a persuadere questa || verità, è certissimo che non vi sarà alcuno di così tenue intendimento che ardisca mantenere esser meglio il comporre in versi sciolti che in rime. Dunque per qual ragione abbiamo a seguire la parte men degna e tralasciar la più nobile? Molti però, benché riconoschino una tal verità, per mantenere l’impegno non vogliono confessarla, e si vede chiaramente questa interna cognizione, mentre nel principio di qualche lor componimento per musica usano maggior diligenza nelle rime, le quali nella continuazione dell’opera vanno sempre più trascurando. 183 dir meglio chi fosse la Nafissa riverita per santa dai maomettani, legga il Leoni nella descrizione dell’Africa, dove tratta delle curiosità e novità che sono nella gran città del Cairo» (canto vi, st. 70, v. 4), ma al momento non sono in grado di individuare questa descrizione. Una Leggenda di santa Nafissa di Annibal Caro (1507-1566) fu pubblicata a Parigi «a spese dell’editore» nel 1861 come complemento della Giulleria del Lasca (Anton Francesco Grazzini, 15031583); credo tuttavia che la Leggenda sia un altro titolo della licenziosissima Statua della foia (Bologna: Romagnoli, 1861; Milano: Daelli, 1863). Se è chiaro che Rospigliosi si rifà a una prassi antica, d’altra parte bisogna ammettere che, malgrado gli auspici di Spagna, anche in questo caso il dettato del futuro papa non ha avuto successo, né il suo segreto sembra aver lasciato traccia nelle opere teoriche coeve o successive (penso per esempio alla Ragione di Quadrio). Certamente la rima serrata era quella usata nella versificazione dei primi melodrammi, ma già le opere veneziane di quegli anni avevano un uso assai più disinvolto della rima e comunque non sistematico. In questo senso il rigore di Rospigliosi sembra il contraltare alla corrività, almeno apparente, dell’intonazione: quasi che la musica, liberata da rigori compositivi a vantaggio di un recitativo malleabile, fosse incapace di contribuire all’eleganza e alla nobiltà del verso. Lo stesso uso della quartina come nucleo generatore della successione di rime ha una sua originalità che, forse, solo casualmente si riconduce al modello spagnolo. La comedia nueva usava organizzare il testo secondo varie forme poetiche. Una delle più comuni era il romance, in origine verso in ottonari doppi, non in rima ma in semplice assonanza vocalica: juana ¡Gran resolución, señora, – es la que tomas! elvira La pena pocas veces deja, Juana, – discurrir, con más prudencia. juana Pues ¿qué es lo que remediar – con ese disfraz intentas? elvira Una desdicha a mi hermano, – o a don Juan; pues de cualquiera de los dos me toca tanta – parte en su riesgo o su ausencia. Montalbán, Los empeños que se ofrecen, inizio della jornada segunda, organizzato secondo la struttura originaria del romance. 184 31. Navarro 1956, pp. 43-44, 272-273; Quilis 1984, p. 145 e segg. Montalbán, Los empeños que se ofrecen, stesso brano sopra citato. davide daolmi Nulla a che vedere con quartine di versi; tuttavia da un lato la pratica tipografica di porre a capo il secondo ottonario (che ricalcava l’uso di recitare i romances come successione di ottonari semplici), dall’altro l’esigenza di almeno quattro versi per individuare il ricorrere dell’assonanza, indusse a organizzare questa forma in una successione di quartine come fa appunto Montalbán degli Empeños :31 juana ¡Gran resolución, señora, es la que tomas! elvira La pena pocas veces deja, Juana, discurrir, con más prudencia. juana Pues ¿qué es lo que remediar con ese disfraz intentas? elv. Una desdicha a mi hermano, o a don Juan; pues de cualquiera de los dos me toca tanta parte en su riesgo o su ausencia. 32. Atto I, vv. 237-866, atto II, vv. 1-450, atto III, vv. 539-992; cfr. la tav. xvi. 33. Per una lettura storica del metro spagnolo v. il già citato Navarro 1956; sulla silva in particolare segnalo le pagine dedicate (56-59) in Profeti 1999A, un’edizione del libretto della Silva sin amor (1629), la prima opera rappresentata in Spagna, testo di Lope de Vega, musica (perduta) di Filippo Piccinino (e tal Monanni), scene di Cosimo Lotti. Da Lope de Vega, Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo; la traduzione è quella proposta ‘a fronte’ in Profeti 1999B, p. 67. 4xvi. [nell’altra pagina] Distribuzione dei vari metri poetici utilizzati da Montalbán in Los empeños que se ofrecen. L’uso peraltro ormai comune del romance in molti casi non osserva la quartina quale unità di misura minima della strofa: anche negli Empeños il numero dei versi di tre delle sette sezioni in forma di romance non è divisibile per quattro.32 D’altra parte molti metri tipici della commedia, come la redondilla (ottonari in genere a rima chiusa: abba), sono inequivocabilmente legati alla quartina. E altre forme, pure usate negli Empeños, riconducono sempre a un gruppo di quattro versi, sebbeno ciò avvenga soprattutto per la spontanea proprietà binaria della rima; così la silva di Montalbán (successione libera di endecasillabi e settenari a rima baciata) può essere agevolmente raggruppata a coppie di due versi; ugualmente le più rigide décimas sono, come noto, un accostamento di due redondillas legate da due ottonari di collegamento secondo lo schema abba ac cddc.33 La scelta di questa o di quest’altra forma nella comedia nueva serve in genere a contestualizzare il tipo di verso. Lope, nel suo Arte nuevo (1609), un trattatello in versi su come scrivere per il teatro, è esplicito: Acomode los versos con prudencia 305 Conformi i versi con molta prudenza a los sujetos de que va tratando: ai vari fatti che viene trattando: las décimas son buenas para quejas, le décimas convengono ai lamenti, el soneto está bien en los que aguardan, il sonetto sta bene se si aspetta, las relaciones piden los romances, i racconti domandano i romances, aunque en octavas lucen por extremo, 310 e anche in ottave riescono benissimo, son los tercetos para cosas graves, le terzine sono per cose gravi, y para las de amor, las redondillas. le redondillas per quelle d’amore. Osservazioni che sostanzialmente si rivelano coerenti con le intenzioni di Montalbán. Nella distribuzione delle forme metriche degli Empeños (4tav. xvi) le scelte a volte si legano al passaggio fra uno spazio scenico e l’altro – tanto che l’uso delle redondillas, più che a situazioni amorose sembra legato a episodi dove l’azione predomina (confermando tuttavia il ritorno al romance per i momenti in cui si narrano vicende accadute). Le undici décimas del terzo atto sono tutte per il dolore di Laura, mentre le due sezioni di silva, se nel primo caso rendono la drammaticità del capitolo v. Differenze 185 186 davide daolmi momento attraverso la nobiltà del verso, nel secondo caso (III atto) testimoniano un uso più insolito, quasi parosistico, dove il racconto della sorte di Laura inscenato dal gracioso sembra trarre la sua comicità proprio dal contrasto con il metro alto adottato. Se anche Rospigliosi recupera la quartina dalla Spagna (ma in fondo espediente tutto formale e ben poca cosa al fine di un’organizzazione così complessa) gestisce il verso con un’altra filosofia. Soprattutto non usa il metro per differenziare i livelli poetici: incarico lasciato alla musica e alla recitazione (più nobile e solenne il testo, più il cadenzare e il ribattutto ricalcano gli stilemi liturgici; più prosaico e quotidiano, più la scrittura musicale recede e perde d’interesse, evidentemente per lasciare spazio alla libertà attoriale). L’attenzione alla rima invece è molto forte ma non con le finalità proprie delle forme spagnole (o di quelle del teatro francese), forme che all’estero sembrano surrogare in qualche modo gli scopi dell’opera italiana, se è vero che la rima in Spagna e in Francia mira in buona sostanza alla musicalità del verso. Rospigliosi usa la rima soprattutto per gestire i tempi dell’azione. Proprio sulla scorta di tale trattamento e delle parole di Spagna varrebbe la pena elaborare un’antropologia dell’uso della rima, ma qui mi limiterò a osservare gli aspetti più appariscenti. È da dire innanzitutto che è la sensibilità moderna che ha bisogno di estrapolare regole, ma per chi ha nelle orecchie il cadenzare poetico – magari perché lo ha sentito a teatro fin da bambino – deve apparir spontaneo tradurre una rima in un approdo in luoghi già noti, conosciuti, quasi come ritornare a casa. Cos’è una rima, in fondo, se non la conferma delle proprie aspettative. Similmente una cadenza musicale ritrova un territorio già acquisito e in qualche modo ‘rima’ con un modello ideale, certamente conosciuto e rassicurante che appartiene alla memoria. Due modi – quello poetico e quello musicale – per esprimere la sicurezza di un punto fermo con cui il comporre gioca, con cui si relaziona in modi più o meno riconosciuti che sarebbe riduttivo pretendere di codificare in modo rigoroso. Ma questa idea di ritorno della rima, si traduce in una più o meno significativa interruzione del tempo. Perché sulla rima, quale luogo conosciuto, si sosta e durante il verso si corre, si cerca la prossima rima (non diversamente con le cadenze). Come rivelava Spagna il procedimento è il medesimo che seguono le odi (peraltro dalla concatenazione rimica sostanzialmente libera), ma non so dire quanto fosse consapevole e regolamentato. Rospigliosi elabora la combinazione di quartine per delimitare tempi brevissimi; come le scene, le mutazioni, la divisione in atti, identificano di volta in volta sezioni sempre più ampie. La possibilità di combinare due o più quartine permette di creare micro archi temporali di durata variabile. La memoria dell’orecchio, che ormai ha capito che le rime vanno di due in due, non si sazia finché non ha chiuso ogni coppia di versi. Riannodate tutte le rime si può riprender fiato. Posso anche leggere solo tre versi di una quartina: Rospigliosi, Le armi e gli amori, I.viii.76-78; cfr. tav. xv. Vago insieme e modesto pareva aver la palma ogni passo, ogni gesto, capitolo v. Differenze 187 Ma il mio orecchio sa – lo ha imparato da quanto finora ascoltato – che non ci sono versi sciolti, ha bisogno, anche quando l’analisi del periodo non lo richiede, di completare quella «palma» con la rima che le compete. E infatti la quartina conclude: Vago insieme e modesto pareva aver la palma ogni passo, ogni gesto, di soggiogare un’alma, È solo dopo «alma» che posso ricominciare, che la mia memoria può sganciare le informazioni accumulate e dedicarsi ad altro; è qui che si crea una quasi impercettibile cesura che permette a Rospigliosi di creare una griglia temporale a intervalli variabili. Quartine solo giustapposte, come propongono le sez. iii e iv della tav. xv, offrono un procedere ordinato, quasi prevedibile: pensieri cioè semplici, elementari, conclusi in breve, propri di chi non ragiona perché trascinato dal delirio amoroso (sarà l’attore a innestare l’enfasi necessaria). Quando la narrazione è più elaborata allora Rospigliosi organizza strutture più ampie con quartine concatenate fra loro o addirittura concatenate con il primo o l’ultimo verso della frase appena precedente o successiva (come avvine in corrispondenza delle parti chiare delle tre ripartizioni del monologo: qui infatti si ha il momento descrittivo-narrativo). La concatenazione a verso singolo (insieme all’incastro delle quartine) è in effetti uno degli aspetti più interessanti per gestire tempi ampi. Si veda, per esempio, come il verso «appariva del sole il primo raggio» 4 ( tav. xv, v. 56) che conclude il senso della frase, appartenga in realtà, per le suggestioni della rima, al tempo successivo. L’esigenza è ovviamente quella di sfuggire la chiusa del periodo che altrimenti rischierebbe di non procedere o di procedere faticosamente. L’uso della rima baciata poi permette a Rospigliosi di innestare ulteriori elementi di varietà in questo sistema pur rigoroso ma insieme molto libero. La quartina aabb, quando intesa come due versi doppi, offre microscansioni inferiori ai quattro versi; per l’ostentazione con cui mostra la rima può servire a forzare una conclusione estranea o anticipata (per esempio come avviene ai vv. 128-129); per la rapidità poi con cui offre il ritorno della rima (e quindi chiude il verso) rende bene suggestioni d’immediatezza – sempre dalla tav. xv: «sollecitare un rivo | il passo figgitivo» (vv. 87-88), «Allora, e non so come, in un istante | ella mosse le piante» (vv. 93-94) etc. La rima è in fondo l’elemento minimo dei tessuti connettivi della drammaturgia di Rospigliosi. Non è poca cosa perché da questo punto di vista il suo gusto di riannodare meticolosamente ogni filo, trasforma la sua poesia, se confrontata con i recitativi a versi sciolti di tutto il melodramma successivo, nell’azione consapevole di creare soprattutto un ingranaggio finito, non certo di esibire lo slancio creativo, espressivo, comunque estetico (ed è soprattutto in questo la moralità di Rospigliosi).34 Di più: la rima, proprio perché elemento di ritorno, riproposizione del conosciuto, affermazione di stabilità, rientra nell’ansia della conferma di uno staus quo propria della cultura nobiliare e cattolica. La rima è il Bene. 34. Ovvero in una versificazione non estetizzante. È uno dei pochi elementi pienamente riconosciuti a Rospigliosi (anche da Spagna) quello di usare un verso che non si compiaccia di artifici retorici. Tuttavia i commentatori antichi (penso per esempio a Fabroni), rischiarono di confondere questa sua ‘moralità’ della scrittura nel rifiuto dello stile concettoso ed inutilmente elaborato – alla Marino per intenderci – sintomo, ai loro occhi, di un decadentismo della retorica barocca. Fa sorridere che Carducci – che in realtà conosceva ben poco della poesia di Rospigliosi – la riducesse alle «scempiaggini sguaiate» del buio Seicento (cfr. Carducci 1868, pp. 7-8, e 1895, p. 434). 188 davide daolmi Come apprezzabile, addirittura cristianamente consolante, è il ripassare per la stessa strada. Perché, almeno, quella strada c’è. In questo senso l’atteggiamento apparentemente reazionario di Rospigliosi (e di Marazzoli), almeno rispetto all’ansia di nuovo che propagandava la cultura veneziana, mostra soprattutto un’adesione convinta alla sua cultura teocratico-monarchica (che diffida del rinnovamento); ma insieme riscopre il fascino del ripetere gli stessi gesti che l’imitazione e il rito (anche come credo religioso) avevano insegnato fin dall’antichità. Ritorni D a questo punto di vista la cultura antica, a cominciare dalla rima, esibisce tutta una serie di ‘insistenze’ e ‘disposizioni’ che noi, figli in fondo dei rivoluzionari giacobini e di una tradizione romantico-popolare del tutto secolarizzata, non siamo più disposti ad accettare. Vorrei concludere proprio mettendo in luce, con due esempi, quanto questa esigenza a ritornare sul già percorso, a ripetere, a rifare le stesse cose, sia il nucleo vitale dell’ancien régime e insieme il vero ostacolo alla moderna assimilizione di quella cultura, elemento di fastidio anche per l’appassionato seicentista che deve necessariamente mediare i suoi interessi con una formazione culturale per molti aspetti in antitesi. Mi si perdoni il dato personale: quando lessi per la prima volta Armi e amori ebbi una certa difficoltà a farmi coinvolgere dal libretto. Apprezzavo la versificazione ma trovavo verboso il dialogo e soprattutto intollerabile che bene o male tutti i personaggi si premurassero una scena sì e una no di ri-raccontarmi di nuovo ciò che era appena accaduto e avevo appena letto. Mi dava in fondo fastidio questo ripetersi addosso, questo ritonare sul già acquisito (aspetto niente affato marginale del libretto), mi dava soprattutto fastidio questo spreco di tempo drammatico. Si veda al proposito la tav. xvii dove ho indicato solo i momenti più significativi (ovvero più ampi) in cui si racconta di nuovo quanto già visto in scena. 35. Ripenso a quand’ero più giovane e mi accorgo che prima di appassionarmi al teatro d’opera detestavo i versi in rima. Era l’ansia un po’ adolescenziale di cose nuove che rendeva il già noto, il prevedibile, un guardarsi indietro. Oggi apprezzo il ritornare su quanto mi è proprio, per conoscerlo meglio, rielaborarlo, per riviverlo così com’è. È un sentimento che forse richiede maturazione e tempo, che si apprezza tardi. Cos’è in fondo l’ancien régime se non la fine, elitaria e disincantata, di un lungo arco culturale che inizia col Rinascimento? La Rivoluzione ci ha obbligati a ricominciare tutto daccapo: e le esigenze degli ultimi due secoli sono diventate quelle di un giovanotto esuberante, che teme di perdere tempo, forse un po’ arrogante, certo più superficiale. La tavola mette in evidenza la sistematicità con cui ripetutamente si raccolgono le fila del già successo, ma forse non rende l’invadenza di queste ripetizioni – cosa sono in fondo una ventina di versi (ma in alcuni casi quaranta) su più di tremila? – ma ogni volta in quei punti il lettore vorrebbe passare oltre. Eppure il principio è lo stesso della rima. Nella microforma la rima ritorna su un consolante ‘già udito’, così il racconto di quanto è avvenuto nell’atto precedente è un modo per riconoscersi, per accorgersi, tu spettatore ed io spettacolo, che stiamo parlando la stessa lingua, che siamo entrati in sintonia; è insomma un’affermare la possibilità di comunicare.35 Sempre in questa direzione c’è infine un terzo elemento tutto votato alla ripetizione, addirittura alla ritualità, che esprime il suo modo di essere proprio nella reiterazione. È la musica. Ovviamente. È noto quanto la musica non possa esistere senza ripetersi, eppure anche in questo caso non abbiamo pudore a mostrare diffidenza. Quante volte ammirati musicisti omettono i da capo delle arie? quante volte si cassano i ritornelli nella musica da camera? C’è in tutto ciò un’incomprensione di fondo. Eppure non possiamo credere di capire un epoca e alterarne i valori sostanziali; peggio: di comprenderla solo dopo averne alterato i valori. capitolo v. Differenze Un caso esemplare è il momento – senza alcun dubbio il più alto di Armi e amori – in cui dirompe il dolore di Laura rifugiatasi in casa di Fabio (in apertura della seconda metà del terzo atto). Qui Marazzoli scrive un recitativo e aria di straordinaria intensità che non esiterei a chiamare «lamento». E tale lo si può considerare seppur non è immediato ricondurlo al modello tipico moteverdiano. In effetti qui, per esempio, mancano i cambi repentini d’umore, e non si è di fronte a una scena-lamento nei termini codificati.36 Ma non è del lamento che voglio dire (da questo punto di vista non credo che il caso di Armi e amori aggiunga poi molto a quanto già noto). Voglio dire di quest’aria, che è la pià straordinariamente elaborata – e decisamente la più lunga – di tutta l’opera. Non v’è dubbio che fin da Montalbán questo è il vero momento tragico dello spettaccolo. Lo sottolinea l’uso stesso delle décimas aderenti al dettato di Lope («las décimas son buenas para quejas»). Ma Montalbán evita il momento introspettivo. Laura (Leonor) riparata in casa di uno sconosciuto esprime i suoi timori e le sue angosce in relazione ai rumori di qualcuno che si avvicina. Teme suo padre che vuole ucciderla e non ha chi la potrà proteggere, convinta di essere stata abbandonata dal suo 189 5xvii. Schema dei ritorni nar- rativi in Armi e amori: i versi evidenziati in viola ripetono, secondo le indicazioni delle frecce le porzioni individuate in arancio; i vv. III.iv.30-88 identificano un ulteriore momento ‘raccontato’ (da Bruscolo) a cui tuttavia non si era precedentemente assistito. 36. Il lamento di Armi e amori è in effetti a metà strada fra la scena-lamento e l’aria-lamento descritti secondo la distinzione proposta in Bianconi 1982, p. 215. 190 davide daolmi amato. In verità nell’originale spagnolo non si lamenta affatto: è il luogo che la spaventa e solo dal suo disagio scopriamo che sta soffrendo. 37. Questo tipo di armatura (si mi re bemolle) appartiene a una prassi abbastanza insolita (ma è ancora tutto da fare lo studio sulla teoria armonica del Seicento). Quella che con una definizione moderna si chiamerebbe tonalità d’impianto, non è però un fa minore senza la b (che sarebbe una contraddizione) ma un si b minore (con 5 bemolli in chiave quindi) nella varietà che i manuali di armonia chiamano «armonica», ovvero con sol e la naturali. Il fa (maggiore), quello su cui s’apre e chiude il recitativo, si deve intendere semplice dominante, non tonica. Come però realmente concepisse quest’armatura Marazzoli mi è ignoto; v. la trascrizione del lamento in fine capitolo. Rospigliosi, L’armi e gli amori, III.ix, aria di Laura (lamento); cfr. Appendice. Rospigliosi fa preludere invece un dieci minuti buoni di assolo, la scena appunto del lamento. Qui Laura compiange se stessa, il suo stato di donna, di donna abbandonata, di figlia disonorata. L’innesto di questa nuova imponente scena di dolore, àltera nettamente il senso drammaturgico concepito da Montalbán, che semplicemente insaporiva l’atto con le angosce di Laura. Qui Rospigliosi scrive un trattato sulla disperazione e Marazzoli ci mette del suo come non aveva finora osato. Già il recitativo richiede, come accennato, tre bemolli in chiave (con un quarto sottinteso),37 come a dire: qui si entra in un altro mondo, quello del dolore. E quattro ne prescrive l’aria. Ma soprattutto è la reiterazione a impressionare, o almeno a impressionare l’ascoltatore moderno. Da Händel in poi non stupisce più la pratica estensiva di ripetere i versi e quasi snaturarli per rincorrere le linee tortuose dei compiacimenti belcantistici. Con in testa questa pratica si rischia però di fraintendere l’operazione tutt’altro che scontata di Marazzoli. Ma prima di altre considerazioni è bene dare un’occhio all’impianto strutturale imposto all’aria, sulla base di un testo rigorosamente bipartito secondo lo schema strofico a b a1 b1: Occhi miei, che tardate a distillarvi in fiumi, se nel mondo e nei lumi spenta è per voi pietate. Occhi miei, che tardate? A voi luci dolenti ch’il pianto ricoprì, s’apra in mezzo a tormenti omai l’ultimo dì; ché se mai non s’udì altra pena sì ria di questo colpo, ohimè, la colpa è mia. 45 50 55 Occhi miei che farete? In sì funesto orrore mal rispondete al cuore s’al suo duol non piangete. Occhi miei che farete? Un implacabil pianto è dovuta mercé a chi stimò suo vanto d’un cieco Amor la fè. S’incatenato il piè traggo in pena si ria di questo colpo, ohimé, la colpa è mia. 60 65 Molte parole solo per commiserarsi e per assumere su di sé tutte le colpe del mondo, anche, e soprattuto, di quelle non commesse. E con un testo così lungo non dovrebbe stupire l’ampiezza dell’aria. Ma Marazzoli, che suddivide la strofe b in β e γ per isolarne la parte conclusiva (4tav. xviii), se dapprincipio sfrutta la ripetizione con finalità puramente formali, ovvero proprie a concludere compiutamente la strofe, successivamente usa gli ultimi due versi («di questo colpo, ohimè, | la colpa è mia») quale sentenza morale inevitabile, la cui insistita reiterazione appare esaperata, quasi ipnotica, all’unico scopo di immobilizzarla e, al di là di ogni ragionevolezza, trasformarla in professione di fede – nulla a che vedere con le ripetizioni delle arie settecentesche, ma in fondo anomala anche per gran parte della prassi seicentesca che raramente insiste in tal modo su una singola frase musicale. Lo stesso quasi da capo che caratterizza la seconda parte dell’aria, pur sullo stesso basso, preferisce adottare varianti vocali per le sezioni α e β (in particolare per quest’ultima) ma lascia identica la ripresa di γ quasi a non voler intaccare il senso consolatorio e tutto rituale di quella ripeti- mi e gli amori, III.ix). I rettangoli sono di colori e dimensioni diverse secondo il numero di tactus che li compongono: nocciola di 6, rosso di 5, arancio di 4, giallo di 3. La presenza di modi ritmici che in qualche modo enucleano la frase musicale non deve intendersi rigidamente (v. tav. xxi): l’impossibilità di individuarli sempre e con sicurezza testimonia dell’uso spontaneo e non formalizzato praticato da Marazzoli. Per rapportare le scansioni qui evidenziate con l’aria trascritta alla fine di questo capitolo ho usato barre verticali più spesse a separazione dei modi. 5xviii. Schema dell’aria di Laura «Occhi miei che tardate» (L’ar- capitolo v. Differenze 191 192 38. All’inizio degli anni Settanta Edwin Loehrer (†1991), direttore del Coro della Radio Svizzera Italiana, incise alcuni brani di Marazzoli poi riversati nel 1997 su un Cd Nuova Era (tutt’ora l’unico disco esistente di musiche di Marazzoli); sotto la sua direzione, Romana Righetti e la Società Cameristica di Lugano interpretarono proprio questa scena di Armi e amori. A parte il giudizio qualitativo sullo stile, il dato più appariscente è che oltre ad esser stato scorciato il lungo recitativo, Loehrer omette anche tutta la seconda parte dell’aria (il quasi da capo: strofe a1 b1) preferendo ripetere di nuovo la parte a identica a se stessa. Da un lato si nota l’imbarazzo di una lunga ripetizione (a1 b1) che non sembra aggiungere nulla a quanto già ascoltato, dall’altro però l’antichità della forma tripartita (in verità assai poco seicentesca) deve avere avuto la meglio sull’ipotesi di fermarsi a metà aria. Una dimostrazione in più di quanto la distanza fra le culture renda difficilissimo il recupero del passato. davide daolmi zione: un «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa» che perde il significato denotativo e vale in quanto gesto. Anche l’espediente di dilatare di volta in volta le frasi musicali (identificate nella tav. xviii dalle parentesi graffe orizzontali) secondo un criterio di aumentazione molto vicino alla serie di Fibonacci (struttura evidentemente non pianificata ma spontaneamente derivate dalle buone regole di composizione), vuole in qualche modo rispondere a questa esigenza di annullamento del tempo, dove la dilatazione è raffigurazione dell’immobilità.38 Ma proprio analizzando questo processo di dilatazione si colgono ulteriori soluzioni compositive che vanno nella medesima direzione. La parte strumentale che introduce ogni strofa è sempre la medesima (4xx) ed è detta «passacaglia» (non so dire quanto voglia essere ‘spagnolo’ questo basso e se la denominazione richieda un’armonizzazione particolare tipica della danza da cui dovrebbe derivare). È peraltro un basso anomalo, una formula cadenzante che attacca senza preparazione e che si ricollega al genere solo per la successione discendente di grado (evidententemente adattissima per un lamento). Non si tratta di un basso ciclico eppure lo si può senz’altro considerare generatore di tutta l’aria. L’aspetto più interessante è nella sua struttura ritmica: chiaramente derivato dall’intonazione dell’incipit dell’aria, interpreta retoricamente la parola «tardate» con un’improvvisa emiolia che, subito scandita dopo un solo tactus perfetto, suona come dilatazione del tempo precedente e non come semplice spostamente di accento (sul modello di un passaggio da Î/Ú a Ë/Ö), ovvero come fosse la dilatazione del secondo tactus di un modus perfetto su tempus perfetto: 4xix. Derivazione del ritornello del lamento di Laura da un’ideale nucleo ritmico dove modo e tempo sono perfetti. 5 xx. Basso dell’introduzione strumentale alle strofe dell’aria di Laura (Armi e amori, III.ix). L’elemento interessante è che questa idea, quasi si riproducesse per superfetazione, genera frasi sempre più ampie. La tav. xxi mostra come ciò si realizzi nelle quattro frasi musicali della prima strofe; la prima sfrutta l’impianto ritmico del ritornello (che è, come dicevo, di per sé il risultato di un processo di dilatazione); la seconda trasforma il nucleo centrale di 3 brevi imperfette in 4 brevi perfette. La terza invece duplica il tempo centrale (innesto di primo livello) e inoltre inserisce, fra la seconda e la terza breve un uleriore modulo ritmico (innesto di secondo livello) con la sensazione di ritardo provocata dal cadere dell’accento un tempo dopo il battere del tactus. Questo stesso processo di sfasamento è riproposto nell’ultima quarta frase, la più estesa, dove prima si ha un’esposizione dell’intero modulo ritmico del ritornello, quindi una riproposizione con il tempo centrale triplicato e, contemporaneamente, il ritardo della voce (questa volta evidenziato dal controtempo col basso) che fa il paio con la ripetizione del verso «occhi miei che tardate?». Dilatazioni, ritardi e ripetizioni non sono solo modi di interpretare il «tardate» ma soprattutto elementi che mirano a fermare il tempo, a di- capitolo v. Differenze chiarare la fissità di un sentimento che è quello del dolore inestinguibile di Laura, che in questo modo diventa altro, rispetto alla quotidianità di uno sconforto terreno. Ma non si comprenderebbe a fondo la metafora che sottende la disperazione di Laura se non la si leggesse in chiave sessuata. Il dolore nelle culture antiche è femminile non perché manifestazione di debolezza, come spesso dichiarato, ma perché sentimento privato, nel senso di inutile al bene pubblico. Anche l’innamoramento è femminile (gli Ercoli «effeminati» di tanti libretti seicenteschi sono quelli che corrono dietro alle sottane), sostanzialmente perché il suo innamoramento non serve alla società, non serve a gestirla, non a dominarla. Non è ‘maschile’ innamorarsi o piangere e l’uomo che patisce questi sentimenti perde un po’ della sua mascolinità. Ma d’altra parte l’uomo può partecipare delle affezioni private proprio attraverso quelle che in buona sostanza sono sue proprietà, le sue donne, le donne di cui ha possesso, madri sorelle amanti. La 193 5 xxi. Esemplificazione del processo di dilatazione delle quattro frasi che compongono la prima strofe dell’aria di Laura (lamento). 194 39. Do alla parola «onore» il significato antico di conservazione del proprio status. Il fenomeno è complesso e non è questo il luogo per approfondirlo; si veda al riguardo Maravall 1979. davide daolmi donna seicentesca – almeno la donna onorata39 – non esiste di per sé, e soprattutto non nella metafora teatrale (a meno che non voglia esprimere l’anomalia o il ribaltamento sociale di virago, amazzone o donna perduta); la femmina è sempre proprietà di un maschio: padre fratello marito o amante che sia. In una società dove l’uomo gestisce il potere – ovvero il sistema – la donna non è un’alternativa, non è il contraltare, è solo una proprietà. Alonso e Alvaro esistono soprattutto per questo, per restituire dignità alle figlie e sorelle che appartengono loro. E Laura e Ippolita ben sanno che ‘essere’ nel mondo dipende dalla dignità dei loro uomini. Il dolore di Laura è totalmente disperante perché lei sa di essere causa, almeno apparente, del disonore di suo padre (questi vuole ucciderla, come se eliminasse un tumore, per non precipitare con lei); sa di meritare la morte (il motivo scatenante è una questione di cuore e pertanto, in quanto donna, può riguardare solo lei, non il suo amato); sa di aver perso anche l’unica altra fonte di dignità, ovvero le attenzioni dell’amato Enrico, che lei crede ami un’altra. Non si pone nemmeno l’idea di ribellione a un’ingiustizia: lei è colpevole in quanto donna («la colpa è mia») anche se agenti di quel male sono soprattuto i maschi da cui lei dipende. Ecco che allora questa scena del lamento smette di essere pervasa dal dolore romantico tutto struggimenti che l’orecchio moderno sembra percepire nell’affascinante fa minore di Marazzoli. Ora non ha più senso indignarci per le ingiustizie che patisce donna Laura; non importa dove stia la ragione: come insegna Giobbe non si chiede a Dio il perché del male che procura. Come il dolore di Laura è patito per conto di altri, così proprio quel dolore diventa metafora cristologica del dolore universale che è proprio delle vicende umane. Non quindi le lacrime di un’innamorata (pianto senza dignità), ma l’espressione della fragilità del mondo. Ancora una volta Rospigliosi trasforma l’evenienza sentimentale in un dettato morale ed eleva la sua scrittura e quella di Marazzoli al di sopra dell’intrattenimento che supponiamo doversi ritrovare in un dramma per musica. capitolo v. Differenze 195 appendice da Marco Marazzoli, L’armi e gli amori, recitativo e aria di Laura (III.ix)* * La trascrizione qui proposta, già in Murata 1981, pp. 374-385, oltre a corregge marginali errori, suggerisce ipotesi di lettura diverse: non sarà inutile un confronto fra le due edizioni. Per i criteri di edizione v. l’introduzione a questo studio. 196 davide daolmi capitolo v. Differenze 197 198 davide daolmi