Il Sole 24 Ore 25 ottobre 2015 Il senso del robot per il lavoro L’intelligenza artificiale delle macchine rimpiazza sempre più l’uomo: occupazione a rischio? Fabrizio Galimberti Il tasso di disoccupazione giovanile (da 15 a 24 anni) è molto alto in Italia, circa il 40%: non così alto come in Grecia e in Spagna, ma nettamente più elevato rispetto alla media dell’Eurozona (22%), per non parlare della Germania (7%). Prima di andare avanti vorrei però dissipare un equivoco su queste statistiche. Quando si legge che 4 giovani su 10 sono disoccupati, si pensa che, se troviamo per strada un gruppo di giovani, 4 su 10 sono disoccupati. Il che non è vero: il tasso di disoccupazione è calcolato su quella parte di giovani che sono attivi sul mercato del lavoro, cioè occupati o disoccupati. Ma la maggior parte dei giovani di quella età sono inattivi, cioè principalmente occupati a studiare. Se incontriamo per strada un gruppo di giovani in quella fascia di età, quelli disoccupati sono all’incirca 1 su 10: gli altri sono occupati (una minoranza) o inattivi (circa 7 su 10). Chiarito questo punto, riprendiamo il filo, che parte da un livello preoccupante di disoccupazione giovanile. A che cosa è dovuta questa forte disoccupazione fra i giovani? La crisi ha colpito l’Italia più degli altri Paesi, ma ci sono anche grossi fattori strutturali. Per esempio, il tasso così basso in Germania deve molto a un sistema di formazione professionale molto efficiente, che mette assieme studio e apprendistato e incammina i giovani verso il mondo del lavoro. In Italia c’è poco collegamento fra il mondo delle imprese e il mondo della scuola; e, soprattutto, c’è difficoltà a creare imprese e quindi posti di lavoro: anche a livello di adulti il tasso di occupazione in Italia (rapporto fra occupati e attivi) è basso nel confronto internazionale, specialmente per le donne. Ma quello di cui vorrei parlare oggi è un’altra preoccupazione per i giovani (e non solo): l’effetto che avrà sulla possibilità di trovare lavoro il crescente ricorso all’automazione. Sappiamo già molto dei robot presenti nelle fabbriche: quei bracci della meccatronica che trasportano, incastrano, saldano, imbullonano e verniciano pezzi di macchine. Lucidi e instancabili, non fanno scioperi, non hanno bisogno di pause-pranzo e sostituiscono il lavoro manuale con precisione ed efficienza. Sono secoli ormai che l’avvento delle macchine per sostituire le braccia fa periodicamente temere che quelle braccia sostituite andranno a ingrossare le file dei disoccupati. Timori, questi, che all’inizio della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra di fine Settecento, condussero ad azioni violente di protesta, con operai che distruggevano i primi telai meccanici, colpevoli di togliere lavoro ai filatori. Questi timori, tuttavia, sono sempre stati smentiti dalla realtà. Gli occupati sono andati crescendo, nuovi posti di lavoro sono stati creati in altri settori e l’automazione non ha distrutto occupazione. Sì, ma... Ci sono salti di qualità nella storia dei processi produttivi, quando nuove invenzioni e nuove tecnologie irrompono sulla scena e sopravanzano la capacità del sistema economico di adattarsi alle sfide. Oggi l’automazione si sposa ai progressi fatti nella intelligenza artificiale – vedi l'articolo a fianco – e fa pensare che non sono solo i lavori manuali (colletti blu) a poter essere sostituiti da robot, ma anche quelli impiegatizi (colletti bianchi). Uno studio di due professori dell’Università di Oxford ha concluso che il 35% dei posti di lavoro in Inghilterra sono a rischio di essere sostituiti da robot nei prossimi 10-20 anni. Gli stessi due autori hanno calcolato che in America addirittura il 47% dei posti di lavoro sono a rischio. Già oggi, nell’hotel Henn-na in Giappone, i clienti sono accolti da robot humanoidi che parlano giapponese, cinese, coreano e inglese. Sono davvero così minacciose queste prospettive? «La rivoluzione delle tecniche sta procedendo più rapidamente di quanto non si riesca a creare posti di lavoro». Queste parole furono scritte da John Maynard Keynes – un grande economista del Novecento – nel... 1930! Da allora la rivoluzione delle tecniche è andata procedendo imperterrita, ma nonostante questo centinaia di milioni di posti di lavoro sono stati creati nel mondo. Ma Keynes alternava pessimismo a ottimismo. In un libretto del 1931 (“Economic possibilities for our grandchildren”) si lanciò a profetizzare lo stato dell’umanità nel 2030. Il progresso tecnologico avrebbe permesso all'uomo di sgravarsi dalla maledizione biblica: non dovrà più guadagnare il pane col sudore della fronte. La settimana lavorativa sarà di sole 15 ore e il problema sarà quello di come impiegare il resto del tempo. Ahimé, non è così e non sarà così. Ma cosa dire dei robot intelligenti che ci ruberanno il lavoro? Qualche anno fa, a Sydney, entrai nella sala cambi di una grande banca:, piena di postazioni con schermi e operatori che compravano e vendevano valute e altre diavolerie finanziarie. Era l’ora di pranzo ma molti operatori continuavano a lavorare, mentre qua e là delle fanciulle in camice bianco massaggiavano le vertebre cervicali degli operatori ingobbiti da ore passate a scrutare i terminali. Pensavo: vent'anni fa il lavoro di quegli operatori/operatrici non esisteva. Ora sono migliaia, solo in Australia; e questi nuovi posti di lavoro ne creano altri, quelli delle gentili fanciulle/fanciulli che gli massaggiano il collo... Insomma, i bisogni umani sono infiniti, e non ci sono limiti alla creazione di posti di lavoro in settori che oggi non esistono ma domani potranno esistere