E’ il 1994. I direttori esecutivi
della Disney Don Fratz e
Bettina Buckley , spinti dalle
crescenti richieste di adattare
sui palcoscenici teatrali La
Bella e la Bestia (l’articolo di
Frank Rich sul New York
Times definì il classico animato
come il miglior musical del
1991), stipularono un accordo
con il direttore del Theatre
Under the Stars di Los Angeles Frank Young. La macchina di produzione era
stata avviata. Con musiche dello stesso compositore del cartoon Alan Menken
(La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Pocahontas, Il Gobbo di Notre
Dame, Hercules, Come d’incanto), testi di Howard Ashman (La piccola bottega
degli orrori, La Sirenetta, La Bella e la Bestia) e Tim Rice (Joseph and the
Amazing Technicolor Coat, Jesus Christ Superstar, Evita, Aida, Aladdin, Il Re
Leone), libretto di Linda Woolverton (La Bella e la Bestia, il Re Leone, Mulan,
Alice in Wonderland), il musical debuttò il 18 aprile del 1994. Tra il 1994 e il
2007 sono state contate in tutto il mondo 5.464 performance dello spettacolo,
adattato in 13 paesi diversi, in oltre 115 città.
Bisognava aspettare l’anno 2009, a 15 anni dalla prima performance, perché la
Stage Entertainment, la multinazionale olandese che ha rivoluzionato il
mercato europeo del live entertainment, portasse a Milano il successo del
musical mondiale. Dopo un anno di intensa programmazione al Teatro
Nazionale, che per la prima volta in Italia ha ricalcato il modello di Broadway e
del West End, il musical disneyano sbarca al Brancaccio di Roma.
Entrando nel vivo degli aspetti spettacolari di questa produzione, La Bella e la
Bestia si configura come il primo della fortunata serie di opere che la Disney
Theatrical ha ri-portato alla luce attraverso il linguaggio del musical (seguono Il
Re Leone nel 1997, Mary Poppins nel 2004, Tarzan nel 2006, La Sirenetta nel
2007). Linguaggio che contraddistingue sin dal principio i classici della Disney,
in particolare quelli del periodo del risorgimento degli anni 90, e che trasposti
sul palcoscenico non possono che assecondare, se non addirittura conferire
una maggiore coerenza, a ciò che era accaduto sul grande schermo in
versione animata. Se infatti i lungometraggi, pensati per un pubblico
fondamentalmente infantile, hanno la potenzialità di immergere lo spettatore in
un mondo incantato, costituito da personaggi fantastici, vivaci sequenze
d’azione e straordinarie coreografie dalla regia fantasmagorica, d’altro canto
non indagano a fondo il background interiore dei personaggi, e simbolizzano in
icone animate l’aspetto antropologico che è alla base delle storie che
raccontano.
Lo studio della strutturazione del genere del musical ci porta invece su un altro
versante: nel corso dei decenni del 900, si è fatta strada l’idea che all’interno
del bioritmo spettacolare di un musical, un momento fondamentale fosse quello
delle cosiddette “I am song” e “I want song”, ovvero quelle canzoni nelle quali,
interrompendo la narrazione e attivando un focus strettamente teatrale e
spettacolare, il personaggio racconta se stesso al pubblico, definendo la sua
condizione di partenza, il suo pensiero, la sua relazione con gli altri personaggi
(I am song sono I dreamed a dream da I Miserabili, Zingara da Notre Dame de
Paris, Sweet Transvestite da Rocky Horror Picture Show, Il rock di Capitan
Uncino da Peter Pan, Nature Boy da Moulin Rouge) oppure definendo i suoi
obiettivi, esplicitando al pubblico un mutamento di intenzione (I want song sono
Memory da Cats, Don’t Cry for me Argentina da Evita, The music of the night
dal Fantasma dell’Opera, Gethsemani da Jesus Christ Superstar, La mia notte
dei miracoli da Pinocchio, I have confidence da Tutti insieme
appassionatamente).
Una delle caratteristiche del successo dei musical Disney a Broadway consiste
proprio in questo: nel trasporre le dinamiche cinematografiche d’animazione
infantili in uno script e in un linguaggio, coerenti con il mondo del musical, tali
da attivare una nuova lettura, più adulta e antropologica, della stessa storia.
La Bella e la Bestia, in quanto primo musical della Disney Theatrical, assolve in
pieno a questa funzione. Da un lato l’immortale storia disneyana di redenzione
del principe imbruttito dall’egoismo riporta un pubblico di affezionati a vederne
la trasposizione dal vivo; dall’altro gli amanti del genere musical,
indipendentemente dal riferimento al cartoon, possono esserne soddisfatti
doppiamente per la ben riuscita integrazione all’interno della tradizione del
genere. A questa riuscita concorrono altresì tutti gli aspetti prettamente
spettacolari: coreografie, scenografie, arrangiamenti musicali, costumi, luci,
effetti speciali.
Il mix tra approfondimento psicologico ed estetizzazione del materiale visivo e
sonoro dona a questo spettacolo le carte in regola per diventare un successo.
1. Approfondimento psicologico
Partendo
proprio
dall’approfondimento
psicologico, la scelta di introdurre nuove
canzoni all’interno della storia è stata
un’operazione
fondamentale
per
comprendere a fondo i personaggi, svelarne
alcune dinamiche che nel cartoon restavano
tra le righe, trasporne i desideri e le paure in
momenti di spettacolo. Prima di analizzare
alcune di queste canzoni, va segnalata
un’importante nota stilistica, che aumenta il
pregio dello spettacolo all’interno dell’ottica
del cartoon: essendo state composte da Alan
Menken, lo stesso autore della colonna
sonora originale del lungometraggio, le
canzoni ripropongono in versione cantata
alcuni dei temi musicali del film, originariamente solo strumentali,
estendendone dunque l’importanza. In questo modo i temi cantati risultano
assolutamente riconoscibili da parte del pubblico, in quanto già ascoltati come
sottofondo extradiegetico nel cartoon. Basti pensare alla canzone di chiusura
del primo atto, “Se non so amarla”, cantata dalla Bestia, che rende canoro uno
dei temi principali più ascoltati nel lungometraggio: quello di apertura del
prologo, presente anche in numerose scene all’interno del castello, e
soprattutto nel finale corale. Si rivela dunque un’equazione tra il tema ascoltato
nel film, riferito dunque a scene in cui è presente la Bestia, e il suo essere tema
melodico della sua canzone più importante nel musical. In questo senso il
lavoro aggiuntivo di Menken conferisce al musical la potenzialità di essere
stato pensato ancor prima della lavorazione del cartoon. Quasi tutte le nuove
canzoni lavorano su questa dinamica di riproposizione ampliata di un tema
della colonna sonora (sono escluse solo “Me” e “Maison de Lunes”, due
canzoni di Gaston).
1.1. Belle
Le più importanti new entries si configurano come esplicite I want song.
Caratteristica della I want song, solitamente, è la capacità di astrarre
dall’evoluzione narrativa dei fatti, di distaccarsi dal contesto dei personaggi e
della storia, e di essere quindi ascoltata come una canzone poetica, che arriva
al cuore dello spettatore in quanto tratta tematiche universali. Un tipico segnale
della want song è l’occhio di bue sull’attore in scena, o comunque
un’illuminazione concentrata su di lui/lei. Le 4 nuove importanti want song della
Bella e la Bestia sono “Casa mia” di Belle, “Quanto durerà” della Bestia (a tratti
ha l’aspetto di una I am song), “Se non so amarla” della Bestia e “Tutto è
cambiato in me” di Belle.
“Casa mia” (“Home” in lingua originale) è cantata da Belle nella sua stanza,
subito dopo aver scelto di rimanere nel castello al posto del padre. E’
fondamentale comprendere, all’interno della dinamica del viaggio dell’eroe
nella narrativa classica e nella sceneggiatura hollywoodiana (Chris Vogler, Il
viaggio dell’eroe), che Belle si trova qui ad aver appena varcato una soglia di
non ritorno, quella che Vogler definisce “prima soglia”, in cui l’eroe ha appena
intrapreso il suo viaggio di maturazione. Il viaggio spesso è rifiutato dall’eroe
secondo la dinamica del conflitto. Attraverso una serie di prove e di aiuti da
parte di mentori e aiutanti (in questo caso gli oggetti incantati), l’eroe accetta la
sua missione, grazie alla quale troverà il suo posto all’interno del simbolico,
cioè dell’ordine sociale richiesto dal suo specifico viaggio.
In questo momento Belle rifiuta il suo ingresso nell’ordine simbolico, e tale
rifiuto si materializza nella canzone “Casa mia”, un desiderio di tornare a
condurre la sua vita precedente, circondata dall’affetto del padre; una casa
dell’infanzia, il punto di partenza del viaggio. “Dove ho lasciato il cuore, lì casa
mia sarà” canta Belle, che nella versione originale recita “home should be
where the heart is”, universalizzando in tal modo l’idea di casa, di rifugio, di
luogo dove il cuore ha dimora. Il desiderio, dopo il compianto, prende vita:
“lotterò per la mia libertà” e la forza di intraprendere il percorso si insinua nello
sconforto per il rifiuto: “as my life has been altered once it can change again”.
La canzone dunque si configura come il punto di partenza, come confine tra
rifiuto e rivendicazione. Non è casuale che pochi minuti dopo il gruppo di
aiutanti le riservi un dono per questa sua accettazione: “Be our guest”. Il
secondo atto (in termini narrativi) ha inizio.
E’ interessante come, nella versione italiana, un
sottile gioco di traduzione abbia creato un
collegamento tra questa scena e la scena della
cena. Dopo che Belle canta la sua “Casa mia”,
due degli oggetti femminili del castello, Mrs. Bric
e Madame de La Grande Bouche, curano e
consolano la ragazza, configurandosi come
figure materne sostitutive, e intonano un reprise
della canzone. Il reprise, nei musical, è una
ripetizione
di
una
canzone
eseguita
precedentemente. Riprendere un motivo già
utilizzato manifesta l’intenzione di riaffermare il
concetto espresso dal personaggio, o di
rafforzarne il significato estendendolo ad altre
circostanze; nel caso in cui venga ripreso da un
altro personaggio, come in questa scena, serve ad aggiungere un’altra
dimensione all’argomento, ad allargare la visuale sul tema per mezzo di altri
punti di vista. Per essere valido, il meccanismo di reprise deve dunque
aggiungere, non ripetere, e deve essere più breve della prima versione. Il
reprise di “Casa mia” è infatti una visione consolatoria della nuova vita che le si
prospetta nel castello. Le due aiutanti magiche invitano la ragazza a
considerare il castello una casa: “troverai, casa tua, qui da noi” (mentre nel suo
brano Belle canta “cercherò, casa mia, via di qua”). Attraverso questi versi, il
punto di vista di Belle è invertito: cercare si trasforma in trovare, casa mia si
trasforma in casa tua, e il “via di qua” trova il suo opposto nella formula “qui da
noi”. La scelta della traduzione “qui da noi” non è affatto casuale e il
collegamento con il titolo della canzone della cena è immediato. Utilizzando
queste parole, il traduttore ha messo in luce un ponte, un transito logico che
condurrà di lì a poco alla festa culinaria che gli aiutanti del castello hanno in
mente per Belle. La chiusura della scena consolatoria, in questo modo,
contiene in sé già il germe dell’accettazione di Belle, e dell’accoglienza che la
ragazza potrà trovare “qui da noi”.
Esattamente simmetrica nella narrazione, ma opposta nel significato, “Tutto è
cambiato in me” (“A change in me”) è cantata da Belle nel momento in cui,
liberata dalla Bestia dopo la scena del ballo, corre in aiuto del padre, e gli
racconta la sua nuova appagante vita nel castello. Ci troviamo nella fase del
viaggio dell’eroe che precede il terzo atto e lo scontro finale: la protagonista ha
subìto i cambiamenti che le hanno permesso di entrare nell’ordine sociale, ma
qualcosa adesso le sta impedendo di realizzare concretamente il suo destino.
In questo caso si tratta del soccorso prestato al padre, un tentativo inconscio
del soggetto femminile di rientrare nella sfera infantile dell’amore paterno, un
ostacolo all’obiettivo che ha l’eroina nella sua missione, fase fondamentale del
complesso di Elettra: quello di imparare ad amare un altro uomo.
La canzone tratta con cura una tematica realistica, all’interno del contesto
idealistico caro alla Disney: la protagonista, abbandonati i suoi panni da
principessa sognatrice, desidera vivere “la realtà com’è”, una realtà dove “il
mondo che sognai, per sempre in me svanì”, dove “nessun bel sogno mi darà
quest’aria di felicità”. La consapevolezza di aver fatto sbocciare dal male della
Bestia una bontà profonda, non la fa compiacere per aver raggiunto
un’accademica saggezza. Semplicemente la rende felice. Belle realizza che il
mondo che le si è aperto di fronte, vivendo nel castello, è la realtà, ed è così
buono e reale, che deve per forza provenire dal cuore. Un cuore che non
cambia, come recita la versione originale della canzone, in questo
sottolineando una nota poetica che purtroppo la versione italiana perde: “No
change of heart. A change in me”. Il cuore non cambia, cambio io.
1.2. La Bestia
La Bella e la Bestia è una storia doppia, gli eroi
sono
due
e
vivono
una
maturazione
complementare. Il percorso che la Bestia deve
compiere è una variazione del complesso edipico,
che consiste nel liberarsi della figura mostruosa
innestata su di lui dalla figura materna (la maga
del prologo); una mostruosità dalla quale il
protagonista non riesce a staccarsi, poiché
incapace di staccarsi dalla fusione con l’immagine
materna. Nella sua analisi della Bella e la Bestia,
Sharon Downey scrive: “the power of the Beast
and Belle are demonstrated in how they change one another” (S. Downey,
Feminine Empowerment in Disney's Beauty and the Beast). Il potere reciproco
del cambiamento rende i due personaggi eroi complementari per la
realizzazione dei propri destini. Questo implica che anche la Bestia viva una
dinamica di maturazione, ben approfondita dalle sue due canzoni, non presenti
nel cartoon, “Quanto durerà” e “Se non so amarla”.
Situate entrambe all’interno del primo atto, e in posizione molto ravvicinata, le
due canzoni si mostrano in realtà come una presentazione del personaggio la
prima, e una volontà di cambiamento la seconda.
La brevissima “Quanto durerà” (“How long must this go on”), musicata su un
tema utilizzato nella colonna sonora nelle scene di azione e di rabbia della
Bestia, racconta il suo punto di vista di fronte alla maledizione subita dalla
maga. Remissività, rabbia e tentativo di auto-redenzione nella prima parte, “I
simply made one careless wrong decision” sono tentativi della Bestia di non
affrontare il suo percorso di cambiamento. L’incredulità di fronte alla punizione
infertagli è specchio della colpa non accettata, della volontà edipica di uccidere
la figura paterna in lui nascosta. Nella seconda parte della canzone un barlume
di forza lo conduce, come era successo per Belle in “Casa mia”, ad accettare la
missione che gli era stata richiesta dal momento in cui la protagonista varcava
la soglia del castello: “cerco, disperato, una guida sulla strada del perdono”. La
sua missione, ricercare il perdono.
“Se non so amarla” (“If I can’t love her”) è collocata in un punto strategico del
musical: da un punto di vista narrativo la sua posizione è la soglia centrale del
viaggio della Bestia, la prova più complessa da superare. Belle ha infatti
compiuto un atto di violazione nei confronti del segreto custodito dalla rosa, ha
varcato la soglia più intima della Bestia. L’atto di violazione è punito dal
protagonista con la violenza, alla quale Belle reagisce fuggendo. In realtà, nella
dinamica narrativa, l’atto di Belle è l’unico che avrebbe potuto corrodere la
barriera vitrea dell’egoismo. La violazione dell’intimità, il travalico del confine
istituito dalla Bestia, innesta un coatto avvicinamento tra le due entità
caratteriali. Da un punto di vista dell’economia strutturale, invece, la canzone si
situa alla fine del primo atto del musical. Tale posizione è molto delicata nella
struttura di un musical, poiché ha bisogno di tutte quelle componenti
spettacolari che permettano il sorgere di una tensione emotiva in grado di
condurre fluidamente lo spettatore all’inizio del secondo atto, solitamente dopo
una pausa. La storia del musical testimonia come numerosissime canzoni di
chiusura del primo atto siano fantasmagoriche, d’ensemble, ricche di
coreografie, corali, scenicamente straordinarie(“One day more” nei Miserabili,
“Vita” in Pinocchio, “La vie Boheme” in Rent, “Where do I go” in Hair) . In
questo caso la preferenza va invece ad una canzone assolutamente intima,
una want song per eccellenza, che confida come unico elemento spettacolare
nella sua forza introspettiva dirompente. C’è da dire che, esclusa la breve
“Quanto durerà”, è l’unica canzone della Bestia, il che produce un’aspettativa
nei confronti del personaggio. Ma la cosa più interessante è il testo, che
rilancia con prepotenza lo spettatore a ciò che accadrà dopo.
Per la prima volta la Bestia è definitivamente consapevole del suo stato di
regressione. Il senso di colpa, in progressiva crescita durante l’arco del primo
atto, ha raggiunto un apice di non ritorno: “non c’è tenerezza, né grazia o
bellezza, che mi cambierà, se non so amarla[…]se non provo amore, chi potrà
amarmi mai”. La dichiarazione di sconfitta della Bestia è totale: attraverso una
lunga serie di aggettivi negativi rivela la sua debolezza più grande, urlandola al
cielo. E’ fondamentale, in questa scena, l’aspetto scenografico che amplifica
questo grido di liberazione, uno svuotamento dopo anni di repressione: la
Bestia sale sul terrazzo del castello nella parte finale, in una posizione che
prelude alla risalita morale del secondo atto, dedicando al cielo, e di
conseguenza agli spettatori, il suo riscatto verso l’amore e la pietà per la sua
condizione: “le virtù che rifiutai, nutrono il rimpianto ormai. Cieco e indifferente
persi tutto”. La funziona catartica è prorompente nella sua tragicità. L’eroe,
incarnando in un unico momento la storia della tragedia mondiale, da Oreste a
Saul, da Edipo ad Amleto, da un nome alla sua follia, in questo modo
limitandola, imparando a conoscerla. Asserendo che “no beauty could move
me”(il gioco di parole con la Beauty del titolo non è casuale), l’eroe tragico ha
fatto fuoriuscire il male da sé, liberandolo: il terreno è pronto per il
cambiamento.
1.3. Maurice
Nel panorama delle nuove canzoni,
vengono approfondite anche dinamiche
relazionali tra i personaggi, come il
rapporto tra Belle e suo padre Maurice,
tra Belle e Gaston, e tra Gaston e il
viscido direttore del manicomio. Durante
il lavoro di adattamento, è fondamentale
per un librettista di musical comprendere
quali siano i rapporti principali tra
personaggi, i nodi caldi dell’antropologia
della storia. A quel punto va collocato un
numero canoro o spettacolare, che dia il
tempo allo spettatore di assimilare, di
elaborare tale rapporto, di comprenderne
meglio la portata. In “Dà retta a me” (“No
matter what”) , Belle e Maurice si trovano nella loro casa, subito all’inizio del
musical, dopo l’establishing number rappresentato dalla canzone iniziale
“Belle”. La prima apparizione del padre della protagonista ha la funzione di
introdurre il personaggio e i rapporti che intercorrono tra i due, cosa che il
cartoon appunto accennava attraverso il dialogo parlato. La canzone si
configura come una “charm song”, che allenta la tensione proponendo e
rafforzando i tipici ideali della musical comedy, adattata sul tema musicale che
contraddistingue le prime scene del lungometraggio: il tema di Maurice e della
fiera. Analizzando il testo, l’incipit della canzone esplora la paura di Belle per il
giudizio della gente del villaggio. La funzione paterna, quella di unico
accuditore della ragazza, consiste nel ricordare alla figlia le sue somiglianze
con la figura materna, in questo rassicurandola: “tua madre aveva classe e tu
assomigli a lei”. Il rapporto tra i due in questa fase del viaggio dell’eroe definita
come “il mondo ordinario”, è simbiotico: lo scambio di battute musicali alternate
suggella un’uguaglianza caratteriale. “parlando di sua figlia un padre esagera,
la crede splendida, lo sei. Ed ogni figlia loda sempre il suo papà, lo esalta ma
non sbaglia.” Il rapporto simbiotico iniziale col padre, e l’assenza della madre
(cosa consueta nei personaggi femminili delle favole Disney di primi anni 90,
basti pensare ad Ariel, Jasmine e Pocahontas), costituiscono le basi
archetipiche del già citato complesso di Elettra, che inquadra le eroine in una
dimensione mascolina ed emancipata. Secondo numerose fonti di critica del
cinema femminista, la ricerca di libertà e la vitale femminilità iniziale di queste
protagoniste subisce tuttavia, nel corso della storia, un ridimensionamento
all’interno del mondo patriarcale e maschile: il viaggio delle eroine Disney è
propriamente quello di perdere l’identificazione paterna, che le rendeva
emancipate, e di strutturare un’identificazione con la madre, figura
fantasmatica, che le porta a creare una dipendenza con il personaggio
maritale, il principe. Anzi, l’archetipo ci dice di più: proprio il dono o il talento
che ciascuna di queste eroine porta con sé (assolutamente ereditato dalla
madre) è ciò che serve al personaggio maschile per liberarsi del suo peso, del
suo problema esistenziale (il canto di Ariel libera Eric dalla superficialità in
amore, la spontaneità di Belle libera la Bestia dall’egoismo, la ricchezza di
Jasmine libera Aladdin dalla povertà, la libertà di Pocahontas apre gli occhi a
John Smith, liberandolo dalla visione colonizzatrice).Attraverso una canzone
come “Dà retta a me”, il rapporto simbiotico è introiettato emotivamente dallo
spettatore.
1.4. Gaston
Al personaggio di Gaston il musical
concede una ampliata partitura
musicale, con l’aggiunta di due
canzoni, la prima cantata in coppia
con Belle , “Me”, e la seconda con
lo scagnozzo Le Tont, “Maison de
Lunes”. La prima è una “comedy
song” che introduce il personaggio
di Gaston, il suo rapporto iniziale
con Belle, il suo desiderio di
sposarla, sotto forma di intermezzo
fresco e divertente. Le comedy song possono innescare una situazione
narrativa o racchiudere la caratterizzazione di uno o più personaggi, e cercano
di volgere i problemi in risata, o quantomeno di vederne il lato farsesco. La
presentazione del personaggio antagonista si contraddistingue, dunque, per la
versione caricaturale che ne risulta: una caricatura del machismo e del
narcisismo di questo antagonista fuori dal comune, perfetto contraltare della
Bestia. I due personaggi racchiudono una polarità legata al complesso di
castrazione, quella fase dello sviluppo del bambino che articola il futuro
desiderio maschile, definendone due modalità distinte: da un lato lo sguardo
narcisistico e sadico, che interpreta la donna come un oggetto da punire o
redimere, in qualsiasi caso da possedere per appagare il desiderio scopofilo
(Gaston); dall’altro quello masochistico e feticistico, che idealizza la donna a un
feticcio, a un oggetto (la rosa), negando quindi la presenza soggettiva creatrice
dell’uomo (la Bestia). In quest’ottica la rosa che la Bestia possiede con cura
sotto vaso, si trasforma nell’unico oggetto d’amore rimastogli. La rosa incarna
la figura della donna nella fase post-traumatica del complesso di castrazione.
Un motivo in più per pensare che l’atto di violazione di Belle, che solleva la
cupola di vetro per toccare quell’oggetto idealizzato, insinui nella Bestia una
possibile sostituzione tra le due, la comprensione che oggetto d’amore possa
essere una donna vera, e non il suo feticcio.
Meno farsesca, invece, è la canzone a tre “Maison de Lunes”, un’invenzione
per introdurre il personaggio del direttore del manicomio, accompagnato da
Gaston e Le Tont nel momento in cui tramano la vendetta nei confronti di Belle.
Una scena che nel cartoon figurava con toni lugubri, a lume di candela, nel
musical mantiene l’atmosfera tetra, tinta anche di movimento grazie a un
incalzante ritmo da ballata. La canzone spezza i ritmi lenti e magici del
secondo atto, e approfondisce con maggiori spiegazioni quale sarà il destino
riservato a Maurice nel caso in cui Belle rifiuti l’offerta di matrimonio. Al
direttore del manicomio, la “Maison de Lunes”, la casa dei matti, è conferito un
ruolo maggiore e, attraverso il botta e risposta tra lui e Gaston, viene definito
“un uomo pieno di viltà”. Il finale della canzone, ballato e armonizzato
vocalmente, mostra per la prima volta il lato oscuro di Gaston, e proietta lo
spettatore nel terzo atto della narrazione, in cui la sua malvagità (pienamente
mostrata nella canzone di assalto al castello) lo configurerà come vero
antagonista, perdendo quindi i tratti di farsa e caricatura che lo avevano
contraddistinto nei primi due atti.
1.5. Gli oggetti incantati
Nel
viaggio
dell’eroe
cinematografico, e nella fiaba
in generale, i ruoli del
Mentore, colui che conduce
l’eroe ad accettare il suo
viaggio e che gli dispensa
consigli fondamentali, e degli
Aiutanti magici, coloro che
con i loro talenti lo salvano da
situazioni disastrose, sono
solitamente divisi. Nel caso
della Bella e la Bestia, invece, mentori ed aiutanti si configurano come un unico
gruppo di personaggi: gli oggetti incantati del castello (forse potremmo
eleggere Lumière a mentore più di altri personaggi, essendo il primo a fidarsi di
Belle, ma in realtà ciascuno contribuisce a modo suo alla realizzazione dei
percorsi dei protagonisti). Sono loro, i multiformi personaggi dalle mille doti, a
tenere le redini del gioco d’amore che condurrà alla liberazione della Bestia. Il
musical conferisce loro, come d’altronde il cartoon, un’importanza
fondamentale, rendendoli protagonisti di una nuova canzone, “Di nuovo umani”
(in realtà già presente nel lungometraggio e pubblicata alcuni anni dopo in
DVD nella versione integrale), oltre alla storica “Stia con noi” (nel musical
ritradotta “Qui da noi”). “Di nuovo umani”, collocata poco dopo l’inizio del
secondo atto, è una potente “chorus song” in cui ciascun oggetto immagina la
sua futura vita da umano, augurandosi che l’incantesimo si spezzi. I desideri di
ogni oggetto si trasformano in un coro polifonico finale che eguaglia, se non
addirittura supera, il sontuoso finale di “Qui da noi”. Non possiamo pienamente
parlare di una want song in quanto il focus è puntato su un gruppo di
personaggi, il coro appunto, ma l’approfondimento psicologico dei personaggi
secondari è un tratto di questa canzone, ne delinea i caratteri principali come
una galleria di quadri, attraverso brevi strofe alternate. All’interno della
dinamica del musical, “Di nuovo umani” si configura come l’apice di azione e
soddisfazione degli aiutanti magici: il loro successo nel condurre a buon fine la
storia d’amore tra i protagonisti si concretizza nell’invito a cena che Belle fa alla
Bestia, proprio prima del finale della canzone “Vorresti cenare con me stasera,
per favore?” “Cenare, io con te, ma sarebbe … oh si!”. Tornando alla
tripartizione del viaggio dell’eroe, il secondo atto, più lungo rispetto al primo e
al terzo, è segnato da prove che l’eroe deve superare per conquistare il suo
posto nel mondo, per capire il suo obiettivo. Nella Bella e la Bestia il secondo
atto è condotto quasi esclusivamente dalle azioni degli aiutanti magici, che
influenzano quindi i pensieri e le decisioni dei protagonisti. Le quattro canzoni
che segnano il progresso della strategia degli oggetti sono appunto “Qui da
noi”, “Qualcosa nell’aria”, “Di nuovo umani” e “La Bella e la Bestia”. La prima
segna l’inizio del viaggio, è un suon di tromba, uno scossone emotivo di
grande portata per la protagonista: il suo ingresso nella dimensione positiva del
castello; la seconda è una riflessione pacata e serena di come stiano
cambiando le cose fra l’uomo e la donna, e per gli oggetti è un primo segnale
di buon auspicio :“nell’aria c’è qualcosa che ci stupirà”; la terza è, come
abbiamo detto, l’apice di trionfo degli aiutanti, la conferma che il loro progetto si
sta realizzando, e che quindi è lecito sognare un futuro diverso; la quarta è una
concentrata riflessione sull’amore: su quanto sia delicato mantenerlo vivo, sulla
reciprocità del dono dell’amore “se ti perderai dentro gli occhi suoi, scoprirai chi
sei”, ma anche sull’eternità e immortalità di una storia che non conosce il
tempo “storia senza età (tale as old as time)”. Il secondo atto della Bella e la
Bestia è un’ascesa in climax dell’amore, reso possibile dall’azione congiunta
dei personaggi del castello.
Personaggi che, essendo umani ma al tempo stesso oggetti, il musical ha
ritenuto doveroso contestualizzare in maniera, se non realistica, perlomeno
verosimile. Rispetto alle strane creature antropomorfe del cartoon (che sarebbe
stato ingenuo e irreale ricreare nella loro essenza di oggetti parlanti), i
personaggi del musical sono umani ai quali la maledizione ha causato il
destino di trasformarsi, lentamente, in oggetti: le sembianze ibride tra uomo e
candelabro, uomo e orologio, donna e teiera, donna e armadio, sono motivate,
quindi, da una fase intermedia della metamorfosi che, in caso di insuccesso, li
costringerà a trasformarsi in oggetti veri e propri, muti e immobili. Numerosi
riferimenti durante le scene parlate del musical sono infatti risentimenti o paure
di questi personaggi, assolutamente umanizzati rispetto a quelli del cartoon,
per il proprio destino di oggetti. Parlando in termini psicologici, la simbologia
della trasformazione di una persona in un oggetto feticcio implica la fuga dalla
realtà, il rifugiarsi in un mondo che non esiste. Gli aiutanti del principe si
trovano, quindi, inconsapevolmente coinvolti nel viaggio psicologico del loro
padrone: la sua paura di affrontare la realtà e la sua fuga in un mondo oscuro e
irreale per paura di non guardare, sono materializzate nella loro punizione.
2. Estetizzazione visiva e sonora
Il secondo punto di questa analisi, l’estetizzazione del materiale visivo e
sonoro, investe in primo luogo la componente coreografica del musical e
l’orchestrazione delle canzoni, ma anche l’utilizzo di effetti scenici e
scenografici e la scelta dei costumi, che rendono questo musical uno dei più
apprezzati sotto il punto di vista estetico.
2.1. Coreografie
Nella struttura di un musical, la presenza di sequenze coreografiche è un
tassello fondamentale del bioritmo spettacolare. Di solito i musical integrano
scene di danza pura in canzoni corali che prendono il nome di “production
number”. Il production number, o company number, è uno dei momenti più
suggestivi dello spettacolo, spesso tutto il cast è in scena, e tutti i linguaggi
espressivi vengono usati contemporaneamente, per garantire un effetto
mozzafiato. Per questo motivo i production number devono essere
oculatamente distribuiti nella griglia dello spettacolo, per non sminuire o
sprecarne l’effetto. Solitamente è facile trovarli in apertura, alla fine del primo
atto, all’inizio del secondo, o ancora a poche scene dal finale o come gran
finale, cioè nei punti critici della struttura. Sono production number ad esempio
“America” in West Side Story, “The time warp” in Rocky Horror Picture Show,
“The ball” in Cats, “Masquerade” nel Fantasma dell’Opera, “Simon Zealotes” in
Jesus Christ Superstar.
E, nel nostro caso, “Gaston” e “Qui da noi”. C’è qualcosa di più, però. Nella
Bella e la Bestia, anche altre canzoni si configurano come potenziali production
number, come “Di nuovo umani”, “Belle” e “L’assalto al castello”, eppure non lo
sono. Cosa differenzia allora un production number da altri numeri, tanto da
identificarlo come tale? La risposta risiede nell’uso della danza e della
coreografia, che ad un certo momento della canzone interrompe il parlato, e si
manifesta in una forma di puro movimento, sotto una base strumentale spesso
incalzante e ritmata. La sospensione della canzone concede alla danza di
manifestarsi attraverso coreografie spettacolari, corali, sulle note riarrangiate
del tema musicale in questione.
Il lungometraggio animato della Disney non avrebbe potuto concedere a questi
numeri lo spazio coreografico adatto, poiché avrebbe interrotto l’unità delle
canzoni; il musical, invece, pienamente consapevole del suo linguaggio e dei
suoi schemi, lo fa, scegliendo proprio due canzoni tra le più amate dai fan del
cartoon, oltre che le due che sin dalla loro prima apparizione sul grande
schermo, si configuravano per durata, movimenti e intensità, come potenziali
production number di un musical ideale.
Così queste due canzoni si spettacolarizzano, introducono elementi,
personaggi, scene, movimenti prima inesistenti, che tingono di adrenalina ed
emozione due sequenze ormai storiche, stimolando nello spettatore un
sentimento di piacere. Il piacere deriva dal desiderio dell’immortalità del brano,
ovvero una sensazione di prolungamento senza limiti dello spettacolo emotivo
che si staglia di fronte a sè. Tale desiderio, però, è costantemente messo in
discussione da una strategia tipica dei production number nelle sequenze
coreografiche: quello di suddividere tutto il blocco danzato in innumerevoli
“numeri” e “sottonumeri”, come in un circo: diverse attrazioni visive che si
susseguono, spesso interrompendo un ritmo musicale per aggiungerne un
altro, spesso introducendo uno stile coreografico diverso. Il timore dello
spettatore è quello che, conclusa un’attrazione (e la chiusura è evidente ai suoi
occhi), il brano intero si concluda. Ma l’inizio di una nuova sequenza, di un
nuovo spezzone coreografico, riporta desto il piacere dello spettatore,
appagato dalla continuazione emotiva della sua fruizione. In questo modo, la
dialettica tra interruzione del piacere e riproposizione di un nuovo piacere,
conduce lo spettatore, sempre più appagato, verso l’idillico finale,
un’esplosione polifonica e multisensoriale che ne satura definitivamente il
desiderio. L’applauso, in questi casi, viene davvero dal cuore.
Le due nuove versioni di
“Qui da noi” e “Gaston”
ricalcano in pieno questo
modello
musicalecoreografico. Nella prima,
dopo le sequenze cantate
dai singoli personaggi,
esattamente prima del
gran finale, una lunga
scena di ballo prende vita
di fronte agli spettatori. La
musica
si
diversifica,
diverse influenze etniche e internazionali contaminano le note e la melodia del
brano: inizialmente un tango vede protagonisti Lumière e lo scopino Babette in
una sensuale coreografia, subito dopo il cagnolino/acrobata si esibisce in
portentosi salti mortali, una coppia di tovaglioli si cimenta in una polka, un
gruppo di posate, circondando Belle al centro, dà vita ad un can can con tanto
di gonne al vento. La spettacolarizzazione della scena, che mostra l’universo
coreografico attraverso serie di stili diversi, tematizza quello che sta accadendo
a Belle durante la sua prima cena nel castello: un invito come ospite ad una
grande festa. Non potendolo fare attraverso piatti e delizie, il musical trasforma
quella festa gastronomica in una festa coreografica, ovvero lo strumento
linguistico che il palcoscenico conosce.
Per quanto riguarda “Gaston”, il brano cantato nella locanda del villaggio
dall’ensemble di popolani, la durata della canzone originale è stata raddoppiata
nel musical a favore di coreografie inedite e di vivaci sequenze corali che ben
rispecchiano l’atmosfera di una festa popolare. A metà del brano, dopo tre
minuti cantati, lo scagnozzo Le Tont urla “Musica…Balliamo!” Da questo
momento in poi altri tre minuti di giubilo agitano la scena e il coro si scatena sui
tavoli della taverna in coreografie multiformi, compresa una lunga sequenza di
danza con i calici di vino, in cui il suono dei brindisi tra un popolano e l’altro
scandisce il ritmo della musica, sempre più frenetica e sincopata. I numeri si
susseguono catapultando lo spettatore nel clima ebbro e mondano della
Francia provinciale dell’’800. Il finale della canzone, anche in questo brano,
arriva all’improvviso come un catalizzatore di energia cinetica, raccoglie la
fruizione intorno a Gaston per un’ultima volta, e poi si dissipa nella polifonia
fastosa dell’ensemble nell’armonico finale.
2.2. Orchestrazione
Un elemento fondamentale
nell’elaborazione
di
un
musical è l’orchestrazione:
che sia eseguita dal vivo da
musicisti, o registrata su
supporto, la base musicale
necessita di essere chiara,
completa, significante. Nei
musical
della
Disney
Theatrical la componente
sonora è il risultato di un
lavoro di adattamento e di revisione delle originali colonne sonore, realizzato in
modo da ottenere un effetto che da un lato richiami fedelmente i temi e le
melodie originali, dall’altro che aggiunga un aspetto inedito all’orchestrazione.
Se dunque nel Re Leone l’adattamento suggerisce uno studio delle matrici
africane tribali, nella Sirenetta uno stile fiabesco infantile, con sonorità che
ricordano i musical burleschi, nella Bella e la Bestia la ricerca stilistica è
orientata alla classicità e alla tradizione spettacolare del genere. Questo
implica una certa regolarità nella struttura della partitura, che comprende alcuni
elementi tipici dei musical classici: overture, entr’acte, complesse e altisonanti
versioni delle I am song e I want song, divertenti e polifoniche quelle
d’ensemble, diversi underscoring. L’underscoring è una musica di commento,
utilizzata in scene particolarmente ricche di emotività, che segue esattamente
l’andamento del parlato, sottolinea e amplifica l’effetto delle parole, aggiunge
potenza alla recitazione. Nella Bella e la Bestia molte scene ad alto contenuto
emotivo si reggono sull’underscoring: a metà della canzone “Qualcosa
nell’aria” una lunga scena parlata introduce Belle nella biblioteca segreta del
castello, dove la Bestia le mostra i suoi libri, e dove i due iniziano a leggere la
favola di Re Artù. Nelle sequenze di lettura ad alta voce, la musica di
sottofondo quasi si trasforma, attraverso un andamento narrativo, in base
musicale delle parole che i due personaggi si pronunciano. La musica diventa
vera e propria colonna sonora cinematografica della scena.
L’inizio del secondo atto, nei musical a teatro, prevede un importante elemento
musicale, chiamato entr’acte (intermezzo). Collocato proprio prima dell’inizio
della narrazione del secondo atto, alla fine della pausa tra i due atti, l’entr’acte
nacque come segnale per il pubblico che non aveva ancora preso posto: lo
spettacolo stava iniziando. Il direttore d’orchestra fa partire dunque questo
medley musicale dei temi più importanti ascoltati durante il primo atto,
orchestrati come fossero un’overture sinfonica, spesso alternando temi veloci a
temi lenti. L’entr’acte, nel tempo, si viene così a configurare come una
caratteristica estetica del musical, un numero importante come il finale o
l’overture, poiché racchiude in sé una ripresa del primo atto appena concluso,
con i momenti narrativi ed emotivi più salienti, e al tempo stesso rilancia lo
spettatore all’inizio del secondo atto, anticipando un nuovo tema, o ponendosi
come introduzione, senza soluzione di continuità, della prima scena musicale
del secondo atto. Così’ avviene nell’entr’acte della Bella e la Bestia: dopo circa
tre minuti in cui sono orchestrati i temi di “Casa mia”, “Qui da noi” e “Se non so
amarla”, la musica improvvisamente si carica di energia e, con una
progressione in velocità, si allaccia alla scena in cui Belle, appena fuggita dal
castello, incappa nel branco di lupi della foresta. Il clima musicale, poco prima
armonicamente altisonante, regale, sinfonico, si trasforma in un cupo
underscoring per l’attacco dei lupi e il salvataggio di Belle.
Così come l’overture e l’entr’acte, il finale di un musical è un momento
fondamentale e delicato, dal quale dipende gran parte dell’effetto complessivo
sullo spettatore. Ciò che resta è propriamente la soddisfazione, l’appagamento
restituito dal finale. Se il finale è in grado di far convergere le energie di un
intero spettacolo, facendole confluire in un desiderio per lo spettatore, che poi
viene soddisfatto, allora il musical avrà conquistato una fetta importante di
opinioni positive, ma soprattutto avrà lasciato un’emozione memorabile e
duratura (a differenza del cinema, in cui il l’estetica del finale ha una serie
illimitata di indici e valori, per cui queste regole non sono sempre attuabili). Per
questi motivi un finale necessita di una delicata intersezione tra durata e
intensità, tra quantità e qualità. Un finale che arriva troppo presto delude le
aspettative degli spettatori, brucia un’attesa fatta di tensione. Un finale che
dura troppo poco sortisce lo stesso effetto di mancanza, di inconcludenza. Non
è riuscito a farsi portatore dell’anima spettacolare che il musical portava avanti.
Allo stesso modo un finale anticipato da numerose sequenze, o che si
prolunga senza avere un apice drammatico, potrebbe far fluire le aspettative
per la troppa tensione accumulata, e per questo annoiare. E’ dunque
fondamentale l’equilibrio: ritmico, estetico, musicale e narrativo.
I musical della Disney attuano, con maestria e gusto, un’operazione che
trasforma i finali degli originali lungometraggi in sequenze esteticamente
spettacolari (mantenendo così la
maestosità tipica del cartoon),
narrativamente identiche al lungometraggio, ritmicamente elaborate, ma
soprattutto musicalmente aggiornate: l’originalità di questi finali consiste
nell’estendere la versione del cartoon in quantità e qualità. I finali tipici della
Disney, con i cori in background che musicano il tema portante dell’intero film,
sono ripresi e amplificati, durano temporalmente di più, e aggiungono nuovi
cori in quei momenti che originariamente erano solo strumentali. Spesso sono i
protagonisti a intonare i nuovi cori, come capita nella Bella e la Bestia, (“noi,
due vite un cuore, noi sogno e passione, per l’eternità parte di te sarò..ti
amerò.”) altre volte è lo stesso coro polifonico del finale originario, altre volte
sono nuove voci, come nel caso del Re Leone, stilisticamente affini
all’orchestrazione condotta durante tutto il musical. L’estensione dona una
nuova forma al finale, riempie di armonie complesse i temi più amati,
alimentando così nello spettatore il desiderio di novità e di eternità del musical.
3. Note di produzione
In conclusione di questa analisi, è doveroso condurre alcune considerazioni
sulla versione italiana del musical, che ha dato vita fedelmente alla maggior
parte degli elementi originali, semplificando forse alcuni aspetti scenografici ed
estetici. La ricostruzione del castello su strutture circolari che si spostano in
base alle scene e le scenografie dipinte su fondali posteriori sono costanti nelle
due versioni. Le traduzioni di Franco Travaglio traducono alla lettera le originali
liriche inglesi, in questo abbandonando i testi che hanno segnato la storia
italiana della Bella e la Bestia, e a cui il pubblico era affezionato, ma creando
una corrispondenza più fedele con l’idea originale di Tim Rice e Alan Menken.
E’ stato proprio quest’ultimo che, nell’affidare i diritti delle rappresentazioni non
anglofone, ha stabilito la ritraduzione integrale dei testi, con una
corrispondenza semantica più marcata (forse meno poetica). La ragione
affonda nell’importanza che in un musical è data alla componente
squisitamente canora, ai testi delle canzoni, rispetto al lungometraggio
d’animazione, in cui i numeri musicali si configurano come “intermezzi” della
narrazione dialogica e cinematografica. Era dunque fondamentale restare
ancorati al significato letterale e narrativo dei testi. D’altronde, scrive anche
Andrew Lloyd Webber che le traduzioni per i film non possono essere
riutilizzate per una futura versione teatrale, e in tutto il mondo le liriche della
versione teatrale della Bella e la Bestia sono state ritradotte dall’inglese,
eludendo quindi le versioni dei lungometraggi di ciascuna nazione.
Ultima nota: la Bella e la Bestia, così come le produzioni Disney Theatrical
sotto il marchio della Stage Entertainment, si potrebbe definire un musical in
franchising? Secondo la definizione di franchising, l'azienda madre, che può
essere un produttore o un distributore di prodotti o servizi di una determinata
marca od insegna, concede all'affiliato, in genere rivenditore indipendente, il
diritto di commercializzare i propri prodotti e/o servizi utilizzando l'insegna
dell'affiliante. In cambio l'affiliato si impegna a rispettare standard e modelli di
gestione e produzione stabiliti dal franchisor. Senza entrare in questioni
economiche di difficile portata, ma ipotizzando tale metafora per quanto
riguarda aspetti estetici del musical, il franchising del musical broadwayano, nel
suo ingresso in Italia (come prima era avvenuto in altri paesi mondiali), si
dimostra nel rispetto di standard e modelli scenici, che agiscono come segni
distintivi dell’originalità della produzione. Basti pensare ad un semplice
dettaglio apparentemente fugace: l’introduzione parlata di “Qui da noi” vede
Lumière muoversi ondeggiando il bacino, con una lentezza verbale e una
sensualità nei confronti di Belle che nel cartoon, ad esempio, era assente. E’
interessante notare come tale gesto sia costantemente messo in scena dal
1994, a Broadway ma anche in Corea, in Messico, in Brasile, in Austria, in
Spagna, in Australia, e in tutte le altre produzioni mondiali. Ci sarebbe da
chiedersi: quel semplice gesto (e con esso ogni studio coreografico, ogni
scena d’ensemble, ogni posizione dei personaggi), fa parte di un modello
standard, un modello che non può essere violato o modificato, di cui la Disney
detiene i diritti e che, secondo una regola tipica del franchising, necessita di
essere riprodotta fedelmente (in cambio del rilascio del marchio del musical?).
O semplicemente è stata sempre adottata per ragioni di gusto, perché ogni
regista ha ritenuto interessante, coerente e fondamentale una determinata
scelta? Se così non fosse, allora, quali politiche verrebbero adottate a livello
globale e quali concessioni sarebbero frutto di scelte registiche locali?
Domande aperte, alle quali cercheremo, mentre godiamo della magia di una
storia senza età, di dare risposte.
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