E’ il 1994. I direttori esecutivi della Disney Don Fratz e Bettina Buckley , spinti dalle crescenti richieste di adattare sui palcoscenici teatrali La Bella e la Bestia (l’articolo di Frank Rich sul New York Times definì il classico animato come il miglior musical del 1991), stipularono un accordo con il direttore del Theatre Under the Stars di Los Angeles Frank Young. La macchina di produzione era stata avviata. Con musiche dello stesso compositore del cartoon Alan Menken (La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Pocahontas, Il Gobbo di Notre Dame, Hercules, Come d’incanto), testi di Howard Ashman (La piccola bottega degli orrori, La Sirenetta, La Bella e la Bestia) e Tim Rice (Joseph and the Amazing Technicolor Coat, Jesus Christ Superstar, Evita, Aida, Aladdin, Il Re Leone), libretto di Linda Woolverton (La Bella e la Bestia, il Re Leone, Mulan, Alice in Wonderland), il musical debuttò il 18 aprile del 1994. Tra il 1994 e il 2007 sono state contate in tutto il mondo 5.464 performance dello spettacolo, adattato in 13 paesi diversi, in oltre 115 città. Bisognava aspettare l’anno 2009, a 15 anni dalla prima performance, perché la Stage Entertainment, la multinazionale olandese che ha rivoluzionato il mercato europeo del live entertainment, portasse a Milano il successo del musical mondiale. Dopo un anno di intensa programmazione al Teatro Nazionale, che per la prima volta in Italia ha ricalcato il modello di Broadway e del West End, il musical disneyano sbarca al Brancaccio di Roma. Entrando nel vivo degli aspetti spettacolari di questa produzione, La Bella e la Bestia si configura come il primo della fortunata serie di opere che la Disney Theatrical ha ri-portato alla luce attraverso il linguaggio del musical (seguono Il Re Leone nel 1997, Mary Poppins nel 2004, Tarzan nel 2006, La Sirenetta nel 2007). Linguaggio che contraddistingue sin dal principio i classici della Disney, in particolare quelli del periodo del risorgimento degli anni 90, e che trasposti sul palcoscenico non possono che assecondare, se non addirittura conferire una maggiore coerenza, a ciò che era accaduto sul grande schermo in versione animata. Se infatti i lungometraggi, pensati per un pubblico fondamentalmente infantile, hanno la potenzialità di immergere lo spettatore in un mondo incantato, costituito da personaggi fantastici, vivaci sequenze d’azione e straordinarie coreografie dalla regia fantasmagorica, d’altro canto non indagano a fondo il background interiore dei personaggi, e simbolizzano in icone animate l’aspetto antropologico che è alla base delle storie che raccontano. Lo studio della strutturazione del genere del musical ci porta invece su un altro versante: nel corso dei decenni del 900, si è fatta strada l’idea che all’interno del bioritmo spettacolare di un musical, un momento fondamentale fosse quello delle cosiddette “I am song” e “I want song”, ovvero quelle canzoni nelle quali, interrompendo la narrazione e attivando un focus strettamente teatrale e spettacolare, il personaggio racconta se stesso al pubblico, definendo la sua condizione di partenza, il suo pensiero, la sua relazione con gli altri personaggi (I am song sono I dreamed a dream da I Miserabili, Zingara da Notre Dame de Paris, Sweet Transvestite da Rocky Horror Picture Show, Il rock di Capitan Uncino da Peter Pan, Nature Boy da Moulin Rouge) oppure definendo i suoi obiettivi, esplicitando al pubblico un mutamento di intenzione (I want song sono Memory da Cats, Don’t Cry for me Argentina da Evita, The music of the night dal Fantasma dell’Opera, Gethsemani da Jesus Christ Superstar, La mia notte dei miracoli da Pinocchio, I have confidence da Tutti insieme appassionatamente). Una delle caratteristiche del successo dei musical Disney a Broadway consiste proprio in questo: nel trasporre le dinamiche cinematografiche d’animazione infantili in uno script e in un linguaggio, coerenti con il mondo del musical, tali da attivare una nuova lettura, più adulta e antropologica, della stessa storia. La Bella e la Bestia, in quanto primo musical della Disney Theatrical, assolve in pieno a questa funzione. Da un lato l’immortale storia disneyana di redenzione del principe imbruttito dall’egoismo riporta un pubblico di affezionati a vederne la trasposizione dal vivo; dall’altro gli amanti del genere musical, indipendentemente dal riferimento al cartoon, possono esserne soddisfatti doppiamente per la ben riuscita integrazione all’interno della tradizione del genere. A questa riuscita concorrono altresì tutti gli aspetti prettamente spettacolari: coreografie, scenografie, arrangiamenti musicali, costumi, luci, effetti speciali. Il mix tra approfondimento psicologico ed estetizzazione del materiale visivo e sonoro dona a questo spettacolo le carte in regola per diventare un successo. 1. Approfondimento psicologico Partendo proprio dall’approfondimento psicologico, la scelta di introdurre nuove canzoni all’interno della storia è stata un’operazione fondamentale per comprendere a fondo i personaggi, svelarne alcune dinamiche che nel cartoon restavano tra le righe, trasporne i desideri e le paure in momenti di spettacolo. Prima di analizzare alcune di queste canzoni, va segnalata un’importante nota stilistica, che aumenta il pregio dello spettacolo all’interno dell’ottica del cartoon: essendo state composte da Alan Menken, lo stesso autore della colonna sonora originale del lungometraggio, le canzoni ripropongono in versione cantata alcuni dei temi musicali del film, originariamente solo strumentali, estendendone dunque l’importanza. In questo modo i temi cantati risultano assolutamente riconoscibili da parte del pubblico, in quanto già ascoltati come sottofondo extradiegetico nel cartoon. Basti pensare alla canzone di chiusura del primo atto, “Se non so amarla”, cantata dalla Bestia, che rende canoro uno dei temi principali più ascoltati nel lungometraggio: quello di apertura del prologo, presente anche in numerose scene all’interno del castello, e soprattutto nel finale corale. Si rivela dunque un’equazione tra il tema ascoltato nel film, riferito dunque a scene in cui è presente la Bestia, e il suo essere tema melodico della sua canzone più importante nel musical. In questo senso il lavoro aggiuntivo di Menken conferisce al musical la potenzialità di essere stato pensato ancor prima della lavorazione del cartoon. Quasi tutte le nuove canzoni lavorano su questa dinamica di riproposizione ampliata di un tema della colonna sonora (sono escluse solo “Me” e “Maison de Lunes”, due canzoni di Gaston). 1.1. Belle Le più importanti new entries si configurano come esplicite I want song. Caratteristica della I want song, solitamente, è la capacità di astrarre dall’evoluzione narrativa dei fatti, di distaccarsi dal contesto dei personaggi e della storia, e di essere quindi ascoltata come una canzone poetica, che arriva al cuore dello spettatore in quanto tratta tematiche universali. Un tipico segnale della want song è l’occhio di bue sull’attore in scena, o comunque un’illuminazione concentrata su di lui/lei. Le 4 nuove importanti want song della Bella e la Bestia sono “Casa mia” di Belle, “Quanto durerà” della Bestia (a tratti ha l’aspetto di una I am song), “Se non so amarla” della Bestia e “Tutto è cambiato in me” di Belle. “Casa mia” (“Home” in lingua originale) è cantata da Belle nella sua stanza, subito dopo aver scelto di rimanere nel castello al posto del padre. E’ fondamentale comprendere, all’interno della dinamica del viaggio dell’eroe nella narrativa classica e nella sceneggiatura hollywoodiana (Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe), che Belle si trova qui ad aver appena varcato una soglia di non ritorno, quella che Vogler definisce “prima soglia”, in cui l’eroe ha appena intrapreso il suo viaggio di maturazione. Il viaggio spesso è rifiutato dall’eroe secondo la dinamica del conflitto. Attraverso una serie di prove e di aiuti da parte di mentori e aiutanti (in questo caso gli oggetti incantati), l’eroe accetta la sua missione, grazie alla quale troverà il suo posto all’interno del simbolico, cioè dell’ordine sociale richiesto dal suo specifico viaggio. In questo momento Belle rifiuta il suo ingresso nell’ordine simbolico, e tale rifiuto si materializza nella canzone “Casa mia”, un desiderio di tornare a condurre la sua vita precedente, circondata dall’affetto del padre; una casa dell’infanzia, il punto di partenza del viaggio. “Dove ho lasciato il cuore, lì casa mia sarà” canta Belle, che nella versione originale recita “home should be where the heart is”, universalizzando in tal modo l’idea di casa, di rifugio, di luogo dove il cuore ha dimora. Il desiderio, dopo il compianto, prende vita: “lotterò per la mia libertà” e la forza di intraprendere il percorso si insinua nello sconforto per il rifiuto: “as my life has been altered once it can change again”. La canzone dunque si configura come il punto di partenza, come confine tra rifiuto e rivendicazione. Non è casuale che pochi minuti dopo il gruppo di aiutanti le riservi un dono per questa sua accettazione: “Be our guest”. Il secondo atto (in termini narrativi) ha inizio. E’ interessante come, nella versione italiana, un sottile gioco di traduzione abbia creato un collegamento tra questa scena e la scena della cena. Dopo che Belle canta la sua “Casa mia”, due degli oggetti femminili del castello, Mrs. Bric e Madame de La Grande Bouche, curano e consolano la ragazza, configurandosi come figure materne sostitutive, e intonano un reprise della canzone. Il reprise, nei musical, è una ripetizione di una canzone eseguita precedentemente. Riprendere un motivo già utilizzato manifesta l’intenzione di riaffermare il concetto espresso dal personaggio, o di rafforzarne il significato estendendolo ad altre circostanze; nel caso in cui venga ripreso da un altro personaggio, come in questa scena, serve ad aggiungere un’altra dimensione all’argomento, ad allargare la visuale sul tema per mezzo di altri punti di vista. Per essere valido, il meccanismo di reprise deve dunque aggiungere, non ripetere, e deve essere più breve della prima versione. Il reprise di “Casa mia” è infatti una visione consolatoria della nuova vita che le si prospetta nel castello. Le due aiutanti magiche invitano la ragazza a considerare il castello una casa: “troverai, casa tua, qui da noi” (mentre nel suo brano Belle canta “cercherò, casa mia, via di qua”). Attraverso questi versi, il punto di vista di Belle è invertito: cercare si trasforma in trovare, casa mia si trasforma in casa tua, e il “via di qua” trova il suo opposto nella formula “qui da noi”. La scelta della traduzione “qui da noi” non è affatto casuale e il collegamento con il titolo della canzone della cena è immediato. Utilizzando queste parole, il traduttore ha messo in luce un ponte, un transito logico che condurrà di lì a poco alla festa culinaria che gli aiutanti del castello hanno in mente per Belle. La chiusura della scena consolatoria, in questo modo, contiene in sé già il germe dell’accettazione di Belle, e dell’accoglienza che la ragazza potrà trovare “qui da noi”. Esattamente simmetrica nella narrazione, ma opposta nel significato, “Tutto è cambiato in me” (“A change in me”) è cantata da Belle nel momento in cui, liberata dalla Bestia dopo la scena del ballo, corre in aiuto del padre, e gli racconta la sua nuova appagante vita nel castello. Ci troviamo nella fase del viaggio dell’eroe che precede il terzo atto e lo scontro finale: la protagonista ha subìto i cambiamenti che le hanno permesso di entrare nell’ordine sociale, ma qualcosa adesso le sta impedendo di realizzare concretamente il suo destino. In questo caso si tratta del soccorso prestato al padre, un tentativo inconscio del soggetto femminile di rientrare nella sfera infantile dell’amore paterno, un ostacolo all’obiettivo che ha l’eroina nella sua missione, fase fondamentale del complesso di Elettra: quello di imparare ad amare un altro uomo. La canzone tratta con cura una tematica realistica, all’interno del contesto idealistico caro alla Disney: la protagonista, abbandonati i suoi panni da principessa sognatrice, desidera vivere “la realtà com’è”, una realtà dove “il mondo che sognai, per sempre in me svanì”, dove “nessun bel sogno mi darà quest’aria di felicità”. La consapevolezza di aver fatto sbocciare dal male della Bestia una bontà profonda, non la fa compiacere per aver raggiunto un’accademica saggezza. Semplicemente la rende felice. Belle realizza che il mondo che le si è aperto di fronte, vivendo nel castello, è la realtà, ed è così buono e reale, che deve per forza provenire dal cuore. Un cuore che non cambia, come recita la versione originale della canzone, in questo sottolineando una nota poetica che purtroppo la versione italiana perde: “No change of heart. A change in me”. Il cuore non cambia, cambio io. 1.2. La Bestia La Bella e la Bestia è una storia doppia, gli eroi sono due e vivono una maturazione complementare. Il percorso che la Bestia deve compiere è una variazione del complesso edipico, che consiste nel liberarsi della figura mostruosa innestata su di lui dalla figura materna (la maga del prologo); una mostruosità dalla quale il protagonista non riesce a staccarsi, poiché incapace di staccarsi dalla fusione con l’immagine materna. Nella sua analisi della Bella e la Bestia, Sharon Downey scrive: “the power of the Beast and Belle are demonstrated in how they change one another” (S. Downey, Feminine Empowerment in Disney's Beauty and the Beast). Il potere reciproco del cambiamento rende i due personaggi eroi complementari per la realizzazione dei propri destini. Questo implica che anche la Bestia viva una dinamica di maturazione, ben approfondita dalle sue due canzoni, non presenti nel cartoon, “Quanto durerà” e “Se non so amarla”. Situate entrambe all’interno del primo atto, e in posizione molto ravvicinata, le due canzoni si mostrano in realtà come una presentazione del personaggio la prima, e una volontà di cambiamento la seconda. La brevissima “Quanto durerà” (“How long must this go on”), musicata su un tema utilizzato nella colonna sonora nelle scene di azione e di rabbia della Bestia, racconta il suo punto di vista di fronte alla maledizione subita dalla maga. Remissività, rabbia e tentativo di auto-redenzione nella prima parte, “I simply made one careless wrong decision” sono tentativi della Bestia di non affrontare il suo percorso di cambiamento. L’incredulità di fronte alla punizione infertagli è specchio della colpa non accettata, della volontà edipica di uccidere la figura paterna in lui nascosta. Nella seconda parte della canzone un barlume di forza lo conduce, come era successo per Belle in “Casa mia”, ad accettare la missione che gli era stata richiesta dal momento in cui la protagonista varcava la soglia del castello: “cerco, disperato, una guida sulla strada del perdono”. La sua missione, ricercare il perdono. “Se non so amarla” (“If I can’t love her”) è collocata in un punto strategico del musical: da un punto di vista narrativo la sua posizione è la soglia centrale del viaggio della Bestia, la prova più complessa da superare. Belle ha infatti compiuto un atto di violazione nei confronti del segreto custodito dalla rosa, ha varcato la soglia più intima della Bestia. L’atto di violazione è punito dal protagonista con la violenza, alla quale Belle reagisce fuggendo. In realtà, nella dinamica narrativa, l’atto di Belle è l’unico che avrebbe potuto corrodere la barriera vitrea dell’egoismo. La violazione dell’intimità, il travalico del confine istituito dalla Bestia, innesta un coatto avvicinamento tra le due entità caratteriali. Da un punto di vista dell’economia strutturale, invece, la canzone si situa alla fine del primo atto del musical. Tale posizione è molto delicata nella struttura di un musical, poiché ha bisogno di tutte quelle componenti spettacolari che permettano il sorgere di una tensione emotiva in grado di condurre fluidamente lo spettatore all’inizio del secondo atto, solitamente dopo una pausa. La storia del musical testimonia come numerosissime canzoni di chiusura del primo atto siano fantasmagoriche, d’ensemble, ricche di coreografie, corali, scenicamente straordinarie(“One day more” nei Miserabili, “Vita” in Pinocchio, “La vie Boheme” in Rent, “Where do I go” in Hair) . In questo caso la preferenza va invece ad una canzone assolutamente intima, una want song per eccellenza, che confida come unico elemento spettacolare nella sua forza introspettiva dirompente. C’è da dire che, esclusa la breve “Quanto durerà”, è l’unica canzone della Bestia, il che produce un’aspettativa nei confronti del personaggio. Ma la cosa più interessante è il testo, che rilancia con prepotenza lo spettatore a ciò che accadrà dopo. Per la prima volta la Bestia è definitivamente consapevole del suo stato di regressione. Il senso di colpa, in progressiva crescita durante l’arco del primo atto, ha raggiunto un apice di non ritorno: “non c’è tenerezza, né grazia o bellezza, che mi cambierà, se non so amarla[…]se non provo amore, chi potrà amarmi mai”. La dichiarazione di sconfitta della Bestia è totale: attraverso una lunga serie di aggettivi negativi rivela la sua debolezza più grande, urlandola al cielo. E’ fondamentale, in questa scena, l’aspetto scenografico che amplifica questo grido di liberazione, uno svuotamento dopo anni di repressione: la Bestia sale sul terrazzo del castello nella parte finale, in una posizione che prelude alla risalita morale del secondo atto, dedicando al cielo, e di conseguenza agli spettatori, il suo riscatto verso l’amore e la pietà per la sua condizione: “le virtù che rifiutai, nutrono il rimpianto ormai. Cieco e indifferente persi tutto”. La funziona catartica è prorompente nella sua tragicità. L’eroe, incarnando in un unico momento la storia della tragedia mondiale, da Oreste a Saul, da Edipo ad Amleto, da un nome alla sua follia, in questo modo limitandola, imparando a conoscerla. Asserendo che “no beauty could move me”(il gioco di parole con la Beauty del titolo non è casuale), l’eroe tragico ha fatto fuoriuscire il male da sé, liberandolo: il terreno è pronto per il cambiamento. 1.3. Maurice Nel panorama delle nuove canzoni, vengono approfondite anche dinamiche relazionali tra i personaggi, come il rapporto tra Belle e suo padre Maurice, tra Belle e Gaston, e tra Gaston e il viscido direttore del manicomio. Durante il lavoro di adattamento, è fondamentale per un librettista di musical comprendere quali siano i rapporti principali tra personaggi, i nodi caldi dell’antropologia della storia. A quel punto va collocato un numero canoro o spettacolare, che dia il tempo allo spettatore di assimilare, di elaborare tale rapporto, di comprenderne meglio la portata. In “Dà retta a me” (“No matter what”) , Belle e Maurice si trovano nella loro casa, subito all’inizio del musical, dopo l’establishing number rappresentato dalla canzone iniziale “Belle”. La prima apparizione del padre della protagonista ha la funzione di introdurre il personaggio e i rapporti che intercorrono tra i due, cosa che il cartoon appunto accennava attraverso il dialogo parlato. La canzone si configura come una “charm song”, che allenta la tensione proponendo e rafforzando i tipici ideali della musical comedy, adattata sul tema musicale che contraddistingue le prime scene del lungometraggio: il tema di Maurice e della fiera. Analizzando il testo, l’incipit della canzone esplora la paura di Belle per il giudizio della gente del villaggio. La funzione paterna, quella di unico accuditore della ragazza, consiste nel ricordare alla figlia le sue somiglianze con la figura materna, in questo rassicurandola: “tua madre aveva classe e tu assomigli a lei”. Il rapporto tra i due in questa fase del viaggio dell’eroe definita come “il mondo ordinario”, è simbiotico: lo scambio di battute musicali alternate suggella un’uguaglianza caratteriale. “parlando di sua figlia un padre esagera, la crede splendida, lo sei. Ed ogni figlia loda sempre il suo papà, lo esalta ma non sbaglia.” Il rapporto simbiotico iniziale col padre, e l’assenza della madre (cosa consueta nei personaggi femminili delle favole Disney di primi anni 90, basti pensare ad Ariel, Jasmine e Pocahontas), costituiscono le basi archetipiche del già citato complesso di Elettra, che inquadra le eroine in una dimensione mascolina ed emancipata. Secondo numerose fonti di critica del cinema femminista, la ricerca di libertà e la vitale femminilità iniziale di queste protagoniste subisce tuttavia, nel corso della storia, un ridimensionamento all’interno del mondo patriarcale e maschile: il viaggio delle eroine Disney è propriamente quello di perdere l’identificazione paterna, che le rendeva emancipate, e di strutturare un’identificazione con la madre, figura fantasmatica, che le porta a creare una dipendenza con il personaggio maritale, il principe. Anzi, l’archetipo ci dice di più: proprio il dono o il talento che ciascuna di queste eroine porta con sé (assolutamente ereditato dalla madre) è ciò che serve al personaggio maschile per liberarsi del suo peso, del suo problema esistenziale (il canto di Ariel libera Eric dalla superficialità in amore, la spontaneità di Belle libera la Bestia dall’egoismo, la ricchezza di Jasmine libera Aladdin dalla povertà, la libertà di Pocahontas apre gli occhi a John Smith, liberandolo dalla visione colonizzatrice).Attraverso una canzone come “Dà retta a me”, il rapporto simbiotico è introiettato emotivamente dallo spettatore. 1.4. Gaston Al personaggio di Gaston il musical concede una ampliata partitura musicale, con l’aggiunta di due canzoni, la prima cantata in coppia con Belle , “Me”, e la seconda con lo scagnozzo Le Tont, “Maison de Lunes”. La prima è una “comedy song” che introduce il personaggio di Gaston, il suo rapporto iniziale con Belle, il suo desiderio di sposarla, sotto forma di intermezzo fresco e divertente. Le comedy song possono innescare una situazione narrativa o racchiudere la caratterizzazione di uno o più personaggi, e cercano di volgere i problemi in risata, o quantomeno di vederne il lato farsesco. La presentazione del personaggio antagonista si contraddistingue, dunque, per la versione caricaturale che ne risulta: una caricatura del machismo e del narcisismo di questo antagonista fuori dal comune, perfetto contraltare della Bestia. I due personaggi racchiudono una polarità legata al complesso di castrazione, quella fase dello sviluppo del bambino che articola il futuro desiderio maschile, definendone due modalità distinte: da un lato lo sguardo narcisistico e sadico, che interpreta la donna come un oggetto da punire o redimere, in qualsiasi caso da possedere per appagare il desiderio scopofilo (Gaston); dall’altro quello masochistico e feticistico, che idealizza la donna a un feticcio, a un oggetto (la rosa), negando quindi la presenza soggettiva creatrice dell’uomo (la Bestia). In quest’ottica la rosa che la Bestia possiede con cura sotto vaso, si trasforma nell’unico oggetto d’amore rimastogli. La rosa incarna la figura della donna nella fase post-traumatica del complesso di castrazione. Un motivo in più per pensare che l’atto di violazione di Belle, che solleva la cupola di vetro per toccare quell’oggetto idealizzato, insinui nella Bestia una possibile sostituzione tra le due, la comprensione che oggetto d’amore possa essere una donna vera, e non il suo feticcio. Meno farsesca, invece, è la canzone a tre “Maison de Lunes”, un’invenzione per introdurre il personaggio del direttore del manicomio, accompagnato da Gaston e Le Tont nel momento in cui tramano la vendetta nei confronti di Belle. Una scena che nel cartoon figurava con toni lugubri, a lume di candela, nel musical mantiene l’atmosfera tetra, tinta anche di movimento grazie a un incalzante ritmo da ballata. La canzone spezza i ritmi lenti e magici del secondo atto, e approfondisce con maggiori spiegazioni quale sarà il destino riservato a Maurice nel caso in cui Belle rifiuti l’offerta di matrimonio. Al direttore del manicomio, la “Maison de Lunes”, la casa dei matti, è conferito un ruolo maggiore e, attraverso il botta e risposta tra lui e Gaston, viene definito “un uomo pieno di viltà”. Il finale della canzone, ballato e armonizzato vocalmente, mostra per la prima volta il lato oscuro di Gaston, e proietta lo spettatore nel terzo atto della narrazione, in cui la sua malvagità (pienamente mostrata nella canzone di assalto al castello) lo configurerà come vero antagonista, perdendo quindi i tratti di farsa e caricatura che lo avevano contraddistinto nei primi due atti. 1.5. Gli oggetti incantati Nel viaggio dell’eroe cinematografico, e nella fiaba in generale, i ruoli del Mentore, colui che conduce l’eroe ad accettare il suo viaggio e che gli dispensa consigli fondamentali, e degli Aiutanti magici, coloro che con i loro talenti lo salvano da situazioni disastrose, sono solitamente divisi. Nel caso della Bella e la Bestia, invece, mentori ed aiutanti si configurano come un unico gruppo di personaggi: gli oggetti incantati del castello (forse potremmo eleggere Lumière a mentore più di altri personaggi, essendo il primo a fidarsi di Belle, ma in realtà ciascuno contribuisce a modo suo alla realizzazione dei percorsi dei protagonisti). Sono loro, i multiformi personaggi dalle mille doti, a tenere le redini del gioco d’amore che condurrà alla liberazione della Bestia. Il musical conferisce loro, come d’altronde il cartoon, un’importanza fondamentale, rendendoli protagonisti di una nuova canzone, “Di nuovo umani” (in realtà già presente nel lungometraggio e pubblicata alcuni anni dopo in DVD nella versione integrale), oltre alla storica “Stia con noi” (nel musical ritradotta “Qui da noi”). “Di nuovo umani”, collocata poco dopo l’inizio del secondo atto, è una potente “chorus song” in cui ciascun oggetto immagina la sua futura vita da umano, augurandosi che l’incantesimo si spezzi. I desideri di ogni oggetto si trasformano in un coro polifonico finale che eguaglia, se non addirittura supera, il sontuoso finale di “Qui da noi”. Non possiamo pienamente parlare di una want song in quanto il focus è puntato su un gruppo di personaggi, il coro appunto, ma l’approfondimento psicologico dei personaggi secondari è un tratto di questa canzone, ne delinea i caratteri principali come una galleria di quadri, attraverso brevi strofe alternate. All’interno della dinamica del musical, “Di nuovo umani” si configura come l’apice di azione e soddisfazione degli aiutanti magici: il loro successo nel condurre a buon fine la storia d’amore tra i protagonisti si concretizza nell’invito a cena che Belle fa alla Bestia, proprio prima del finale della canzone “Vorresti cenare con me stasera, per favore?” “Cenare, io con te, ma sarebbe … oh si!”. Tornando alla tripartizione del viaggio dell’eroe, il secondo atto, più lungo rispetto al primo e al terzo, è segnato da prove che l’eroe deve superare per conquistare il suo posto nel mondo, per capire il suo obiettivo. Nella Bella e la Bestia il secondo atto è condotto quasi esclusivamente dalle azioni degli aiutanti magici, che influenzano quindi i pensieri e le decisioni dei protagonisti. Le quattro canzoni che segnano il progresso della strategia degli oggetti sono appunto “Qui da noi”, “Qualcosa nell’aria”, “Di nuovo umani” e “La Bella e la Bestia”. La prima segna l’inizio del viaggio, è un suon di tromba, uno scossone emotivo di grande portata per la protagonista: il suo ingresso nella dimensione positiva del castello; la seconda è una riflessione pacata e serena di come stiano cambiando le cose fra l’uomo e la donna, e per gli oggetti è un primo segnale di buon auspicio :“nell’aria c’è qualcosa che ci stupirà”; la terza è, come abbiamo detto, l’apice di trionfo degli aiutanti, la conferma che il loro progetto si sta realizzando, e che quindi è lecito sognare un futuro diverso; la quarta è una concentrata riflessione sull’amore: su quanto sia delicato mantenerlo vivo, sulla reciprocità del dono dell’amore “se ti perderai dentro gli occhi suoi, scoprirai chi sei”, ma anche sull’eternità e immortalità di una storia che non conosce il tempo “storia senza età (tale as old as time)”. Il secondo atto della Bella e la Bestia è un’ascesa in climax dell’amore, reso possibile dall’azione congiunta dei personaggi del castello. Personaggi che, essendo umani ma al tempo stesso oggetti, il musical ha ritenuto doveroso contestualizzare in maniera, se non realistica, perlomeno verosimile. Rispetto alle strane creature antropomorfe del cartoon (che sarebbe stato ingenuo e irreale ricreare nella loro essenza di oggetti parlanti), i personaggi del musical sono umani ai quali la maledizione ha causato il destino di trasformarsi, lentamente, in oggetti: le sembianze ibride tra uomo e candelabro, uomo e orologio, donna e teiera, donna e armadio, sono motivate, quindi, da una fase intermedia della metamorfosi che, in caso di insuccesso, li costringerà a trasformarsi in oggetti veri e propri, muti e immobili. Numerosi riferimenti durante le scene parlate del musical sono infatti risentimenti o paure di questi personaggi, assolutamente umanizzati rispetto a quelli del cartoon, per il proprio destino di oggetti. Parlando in termini psicologici, la simbologia della trasformazione di una persona in un oggetto feticcio implica la fuga dalla realtà, il rifugiarsi in un mondo che non esiste. Gli aiutanti del principe si trovano, quindi, inconsapevolmente coinvolti nel viaggio psicologico del loro padrone: la sua paura di affrontare la realtà e la sua fuga in un mondo oscuro e irreale per paura di non guardare, sono materializzate nella loro punizione. 2. Estetizzazione visiva e sonora Il secondo punto di questa analisi, l’estetizzazione del materiale visivo e sonoro, investe in primo luogo la componente coreografica del musical e l’orchestrazione delle canzoni, ma anche l’utilizzo di effetti scenici e scenografici e la scelta dei costumi, che rendono questo musical uno dei più apprezzati sotto il punto di vista estetico. 2.1. Coreografie Nella struttura di un musical, la presenza di sequenze coreografiche è un tassello fondamentale del bioritmo spettacolare. Di solito i musical integrano scene di danza pura in canzoni corali che prendono il nome di “production number”. Il production number, o company number, è uno dei momenti più suggestivi dello spettacolo, spesso tutto il cast è in scena, e tutti i linguaggi espressivi vengono usati contemporaneamente, per garantire un effetto mozzafiato. Per questo motivo i production number devono essere oculatamente distribuiti nella griglia dello spettacolo, per non sminuire o sprecarne l’effetto. Solitamente è facile trovarli in apertura, alla fine del primo atto, all’inizio del secondo, o ancora a poche scene dal finale o come gran finale, cioè nei punti critici della struttura. Sono production number ad esempio “America” in West Side Story, “The time warp” in Rocky Horror Picture Show, “The ball” in Cats, “Masquerade” nel Fantasma dell’Opera, “Simon Zealotes” in Jesus Christ Superstar. E, nel nostro caso, “Gaston” e “Qui da noi”. C’è qualcosa di più, però. Nella Bella e la Bestia, anche altre canzoni si configurano come potenziali production number, come “Di nuovo umani”, “Belle” e “L’assalto al castello”, eppure non lo sono. Cosa differenzia allora un production number da altri numeri, tanto da identificarlo come tale? La risposta risiede nell’uso della danza e della coreografia, che ad un certo momento della canzone interrompe il parlato, e si manifesta in una forma di puro movimento, sotto una base strumentale spesso incalzante e ritmata. La sospensione della canzone concede alla danza di manifestarsi attraverso coreografie spettacolari, corali, sulle note riarrangiate del tema musicale in questione. Il lungometraggio animato della Disney non avrebbe potuto concedere a questi numeri lo spazio coreografico adatto, poiché avrebbe interrotto l’unità delle canzoni; il musical, invece, pienamente consapevole del suo linguaggio e dei suoi schemi, lo fa, scegliendo proprio due canzoni tra le più amate dai fan del cartoon, oltre che le due che sin dalla loro prima apparizione sul grande schermo, si configuravano per durata, movimenti e intensità, come potenziali production number di un musical ideale. Così queste due canzoni si spettacolarizzano, introducono elementi, personaggi, scene, movimenti prima inesistenti, che tingono di adrenalina ed emozione due sequenze ormai storiche, stimolando nello spettatore un sentimento di piacere. Il piacere deriva dal desiderio dell’immortalità del brano, ovvero una sensazione di prolungamento senza limiti dello spettacolo emotivo che si staglia di fronte a sè. Tale desiderio, però, è costantemente messo in discussione da una strategia tipica dei production number nelle sequenze coreografiche: quello di suddividere tutto il blocco danzato in innumerevoli “numeri” e “sottonumeri”, come in un circo: diverse attrazioni visive che si susseguono, spesso interrompendo un ritmo musicale per aggiungerne un altro, spesso introducendo uno stile coreografico diverso. Il timore dello spettatore è quello che, conclusa un’attrazione (e la chiusura è evidente ai suoi occhi), il brano intero si concluda. Ma l’inizio di una nuova sequenza, di un nuovo spezzone coreografico, riporta desto il piacere dello spettatore, appagato dalla continuazione emotiva della sua fruizione. In questo modo, la dialettica tra interruzione del piacere e riproposizione di un nuovo piacere, conduce lo spettatore, sempre più appagato, verso l’idillico finale, un’esplosione polifonica e multisensoriale che ne satura definitivamente il desiderio. L’applauso, in questi casi, viene davvero dal cuore. Le due nuove versioni di “Qui da noi” e “Gaston” ricalcano in pieno questo modello musicalecoreografico. Nella prima, dopo le sequenze cantate dai singoli personaggi, esattamente prima del gran finale, una lunga scena di ballo prende vita di fronte agli spettatori. La musica si diversifica, diverse influenze etniche e internazionali contaminano le note e la melodia del brano: inizialmente un tango vede protagonisti Lumière e lo scopino Babette in una sensuale coreografia, subito dopo il cagnolino/acrobata si esibisce in portentosi salti mortali, una coppia di tovaglioli si cimenta in una polka, un gruppo di posate, circondando Belle al centro, dà vita ad un can can con tanto di gonne al vento. La spettacolarizzazione della scena, che mostra l’universo coreografico attraverso serie di stili diversi, tematizza quello che sta accadendo a Belle durante la sua prima cena nel castello: un invito come ospite ad una grande festa. Non potendolo fare attraverso piatti e delizie, il musical trasforma quella festa gastronomica in una festa coreografica, ovvero lo strumento linguistico che il palcoscenico conosce. Per quanto riguarda “Gaston”, il brano cantato nella locanda del villaggio dall’ensemble di popolani, la durata della canzone originale è stata raddoppiata nel musical a favore di coreografie inedite e di vivaci sequenze corali che ben rispecchiano l’atmosfera di una festa popolare. A metà del brano, dopo tre minuti cantati, lo scagnozzo Le Tont urla “Musica…Balliamo!” Da questo momento in poi altri tre minuti di giubilo agitano la scena e il coro si scatena sui tavoli della taverna in coreografie multiformi, compresa una lunga sequenza di danza con i calici di vino, in cui il suono dei brindisi tra un popolano e l’altro scandisce il ritmo della musica, sempre più frenetica e sincopata. I numeri si susseguono catapultando lo spettatore nel clima ebbro e mondano della Francia provinciale dell’’800. Il finale della canzone, anche in questo brano, arriva all’improvviso come un catalizzatore di energia cinetica, raccoglie la fruizione intorno a Gaston per un’ultima volta, e poi si dissipa nella polifonia fastosa dell’ensemble nell’armonico finale. 2.2. Orchestrazione Un elemento fondamentale nell’elaborazione di un musical è l’orchestrazione: che sia eseguita dal vivo da musicisti, o registrata su supporto, la base musicale necessita di essere chiara, completa, significante. Nei musical della Disney Theatrical la componente sonora è il risultato di un lavoro di adattamento e di revisione delle originali colonne sonore, realizzato in modo da ottenere un effetto che da un lato richiami fedelmente i temi e le melodie originali, dall’altro che aggiunga un aspetto inedito all’orchestrazione. Se dunque nel Re Leone l’adattamento suggerisce uno studio delle matrici africane tribali, nella Sirenetta uno stile fiabesco infantile, con sonorità che ricordano i musical burleschi, nella Bella e la Bestia la ricerca stilistica è orientata alla classicità e alla tradizione spettacolare del genere. Questo implica una certa regolarità nella struttura della partitura, che comprende alcuni elementi tipici dei musical classici: overture, entr’acte, complesse e altisonanti versioni delle I am song e I want song, divertenti e polifoniche quelle d’ensemble, diversi underscoring. L’underscoring è una musica di commento, utilizzata in scene particolarmente ricche di emotività, che segue esattamente l’andamento del parlato, sottolinea e amplifica l’effetto delle parole, aggiunge potenza alla recitazione. Nella Bella e la Bestia molte scene ad alto contenuto emotivo si reggono sull’underscoring: a metà della canzone “Qualcosa nell’aria” una lunga scena parlata introduce Belle nella biblioteca segreta del castello, dove la Bestia le mostra i suoi libri, e dove i due iniziano a leggere la favola di Re Artù. Nelle sequenze di lettura ad alta voce, la musica di sottofondo quasi si trasforma, attraverso un andamento narrativo, in base musicale delle parole che i due personaggi si pronunciano. La musica diventa vera e propria colonna sonora cinematografica della scena. L’inizio del secondo atto, nei musical a teatro, prevede un importante elemento musicale, chiamato entr’acte (intermezzo). Collocato proprio prima dell’inizio della narrazione del secondo atto, alla fine della pausa tra i due atti, l’entr’acte nacque come segnale per il pubblico che non aveva ancora preso posto: lo spettacolo stava iniziando. Il direttore d’orchestra fa partire dunque questo medley musicale dei temi più importanti ascoltati durante il primo atto, orchestrati come fossero un’overture sinfonica, spesso alternando temi veloci a temi lenti. L’entr’acte, nel tempo, si viene così a configurare come una caratteristica estetica del musical, un numero importante come il finale o l’overture, poiché racchiude in sé una ripresa del primo atto appena concluso, con i momenti narrativi ed emotivi più salienti, e al tempo stesso rilancia lo spettatore all’inizio del secondo atto, anticipando un nuovo tema, o ponendosi come introduzione, senza soluzione di continuità, della prima scena musicale del secondo atto. Così’ avviene nell’entr’acte della Bella e la Bestia: dopo circa tre minuti in cui sono orchestrati i temi di “Casa mia”, “Qui da noi” e “Se non so amarla”, la musica improvvisamente si carica di energia e, con una progressione in velocità, si allaccia alla scena in cui Belle, appena fuggita dal castello, incappa nel branco di lupi della foresta. Il clima musicale, poco prima armonicamente altisonante, regale, sinfonico, si trasforma in un cupo underscoring per l’attacco dei lupi e il salvataggio di Belle. Così come l’overture e l’entr’acte, il finale di un musical è un momento fondamentale e delicato, dal quale dipende gran parte dell’effetto complessivo sullo spettatore. Ciò che resta è propriamente la soddisfazione, l’appagamento restituito dal finale. Se il finale è in grado di far convergere le energie di un intero spettacolo, facendole confluire in un desiderio per lo spettatore, che poi viene soddisfatto, allora il musical avrà conquistato una fetta importante di opinioni positive, ma soprattutto avrà lasciato un’emozione memorabile e duratura (a differenza del cinema, in cui il l’estetica del finale ha una serie illimitata di indici e valori, per cui queste regole non sono sempre attuabili). Per questi motivi un finale necessita di una delicata intersezione tra durata e intensità, tra quantità e qualità. Un finale che arriva troppo presto delude le aspettative degli spettatori, brucia un’attesa fatta di tensione. Un finale che dura troppo poco sortisce lo stesso effetto di mancanza, di inconcludenza. Non è riuscito a farsi portatore dell’anima spettacolare che il musical portava avanti. Allo stesso modo un finale anticipato da numerose sequenze, o che si prolunga senza avere un apice drammatico, potrebbe far fluire le aspettative per la troppa tensione accumulata, e per questo annoiare. E’ dunque fondamentale l’equilibrio: ritmico, estetico, musicale e narrativo. I musical della Disney attuano, con maestria e gusto, un’operazione che trasforma i finali degli originali lungometraggi in sequenze esteticamente spettacolari (mantenendo così la maestosità tipica del cartoon), narrativamente identiche al lungometraggio, ritmicamente elaborate, ma soprattutto musicalmente aggiornate: l’originalità di questi finali consiste nell’estendere la versione del cartoon in quantità e qualità. I finali tipici della Disney, con i cori in background che musicano il tema portante dell’intero film, sono ripresi e amplificati, durano temporalmente di più, e aggiungono nuovi cori in quei momenti che originariamente erano solo strumentali. Spesso sono i protagonisti a intonare i nuovi cori, come capita nella Bella e la Bestia, (“noi, due vite un cuore, noi sogno e passione, per l’eternità parte di te sarò..ti amerò.”) altre volte è lo stesso coro polifonico del finale originario, altre volte sono nuove voci, come nel caso del Re Leone, stilisticamente affini all’orchestrazione condotta durante tutto il musical. L’estensione dona una nuova forma al finale, riempie di armonie complesse i temi più amati, alimentando così nello spettatore il desiderio di novità e di eternità del musical. 3. Note di produzione In conclusione di questa analisi, è doveroso condurre alcune considerazioni sulla versione italiana del musical, che ha dato vita fedelmente alla maggior parte degli elementi originali, semplificando forse alcuni aspetti scenografici ed estetici. La ricostruzione del castello su strutture circolari che si spostano in base alle scene e le scenografie dipinte su fondali posteriori sono costanti nelle due versioni. Le traduzioni di Franco Travaglio traducono alla lettera le originali liriche inglesi, in questo abbandonando i testi che hanno segnato la storia italiana della Bella e la Bestia, e a cui il pubblico era affezionato, ma creando una corrispondenza più fedele con l’idea originale di Tim Rice e Alan Menken. E’ stato proprio quest’ultimo che, nell’affidare i diritti delle rappresentazioni non anglofone, ha stabilito la ritraduzione integrale dei testi, con una corrispondenza semantica più marcata (forse meno poetica). La ragione affonda nell’importanza che in un musical è data alla componente squisitamente canora, ai testi delle canzoni, rispetto al lungometraggio d’animazione, in cui i numeri musicali si configurano come “intermezzi” della narrazione dialogica e cinematografica. Era dunque fondamentale restare ancorati al significato letterale e narrativo dei testi. D’altronde, scrive anche Andrew Lloyd Webber che le traduzioni per i film non possono essere riutilizzate per una futura versione teatrale, e in tutto il mondo le liriche della versione teatrale della Bella e la Bestia sono state ritradotte dall’inglese, eludendo quindi le versioni dei lungometraggi di ciascuna nazione. Ultima nota: la Bella e la Bestia, così come le produzioni Disney Theatrical sotto il marchio della Stage Entertainment, si potrebbe definire un musical in franchising? Secondo la definizione di franchising, l'azienda madre, che può essere un produttore o un distributore di prodotti o servizi di una determinata marca od insegna, concede all'affiliato, in genere rivenditore indipendente, il diritto di commercializzare i propri prodotti e/o servizi utilizzando l'insegna dell'affiliante. In cambio l'affiliato si impegna a rispettare standard e modelli di gestione e produzione stabiliti dal franchisor. Senza entrare in questioni economiche di difficile portata, ma ipotizzando tale metafora per quanto riguarda aspetti estetici del musical, il franchising del musical broadwayano, nel suo ingresso in Italia (come prima era avvenuto in altri paesi mondiali), si dimostra nel rispetto di standard e modelli scenici, che agiscono come segni distintivi dell’originalità della produzione. Basti pensare ad un semplice dettaglio apparentemente fugace: l’introduzione parlata di “Qui da noi” vede Lumière muoversi ondeggiando il bacino, con una lentezza verbale e una sensualità nei confronti di Belle che nel cartoon, ad esempio, era assente. E’ interessante notare come tale gesto sia costantemente messo in scena dal 1994, a Broadway ma anche in Corea, in Messico, in Brasile, in Austria, in Spagna, in Australia, e in tutte le altre produzioni mondiali. Ci sarebbe da chiedersi: quel semplice gesto (e con esso ogni studio coreografico, ogni scena d’ensemble, ogni posizione dei personaggi), fa parte di un modello standard, un modello che non può essere violato o modificato, di cui la Disney detiene i diritti e che, secondo una regola tipica del franchising, necessita di essere riprodotta fedelmente (in cambio del rilascio del marchio del musical?). O semplicemente è stata sempre adottata per ragioni di gusto, perché ogni regista ha ritenuto interessante, coerente e fondamentale una determinata scelta? Se così non fosse, allora, quali politiche verrebbero adottate a livello globale e quali concessioni sarebbero frutto di scelte registiche locali? Domande aperte, alle quali cercheremo, mentre godiamo della magia di una storia senza età, di dare risposte.