LADOMENICA
DOMENICA 8 APRILE 2012
NUMERO 371
DIREPUBBLICA
CULT
All’interno
La copertina
Da YouTube
alle piazze
la letteratura
in viva voce
BARTEZZAGHI E MURGIA
Uomini soli
1982: Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa
1992: i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
2012: nell’anniversario degli omicidi dei grandi avversari della mafia
non sappiamo ancora chi li ha voluti morti. Ma sappiamo il perché
Il racconto e il documentario del cronista di “Repubblica” dal fronte
La recensione
Il comunista
che scoprì
il crollo
del Muro
FRANCO MARCOALDI
L’intervista
Irving Yalom
“Capire
la psicoanalisi
con Spinoza”
SUSANNA NIRENSTEIN
Teatro
La storia
ATTILIO BOLZONI
Quando i ragazzi
andarono a cercare
Federico Caffè
uella mattina sono anch’io là, con il taccuino in mano
e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo
un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo:
«Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde, l’amico poliziotto:
«Siamo cadaveri che camminano». Un fotografo aspetta che loro
— Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino — siano per un attimo
vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent’anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l’altro sono
morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell’uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola
dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla
città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso par-
DANIELE ARCHIBUGI
Le idee
Siamo oltre Orwell
La provocazione
di Enzensberger
HANS MAGNUS ENZENSBERGER
Q
lamento dell’isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.
Chi è l’ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell’occupazione delle
terre. È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927
e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982.
L’agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso.
Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una
matrice internazionale. Magari — come qualcuno mormora — si
dovrebbe esplorare la «pista interna». Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e
cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent’anni fa.
(segue nelle pagine successive)
Il principe di Kleist
per Cesare Lievi
è un giovanotto
sognatore e irreale
ANNA BANDETTINI
Il libro
Una certa
idea di mondo:
“La luce nelle storie
di Rebecca West”
ALESSANDRO BARICCO
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA
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La copertina
Uomini soli
Il comunista, il carabiniere, i due magistrati
Uniti dallo stesso senso del dovere e contro lo stesso nemico
Uccisi venti e trent’anni fa esatti. Un libro e un documentario
del cronista di “Repubblica” che li ha conosciuti spiegano perché il potere
li ha voluti morti e perché i mandanti restano oscuri
PIO
LA TORRE
CARLO ALBERTO
DALLA CHIESA
“Prima o poi
ce la faranno pagare
per quello che stiamo
facendo in Sicilia
Palermo è una città
dove si fa politica
con la pistola”
“Ho capito
la regola
del gioco
Si uccide
quando
avviene questa
combinazione fatale:
è diventato troppo
pericoloso,
ma si può uccidere
perché è isolato”
Quattro destini incrociati
U
ATTILIO BOLZONI
(segue dalla copertina)
ccidono l’uomo che prima di tutti
gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine
pubblico ma «questione nazionale», il parlamentare che vuole una
legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato.
Chiede di strappare i patrimoni ai
boss, tutti lo prendono per un visionario. Dicono che è ossessionato da
mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di “rompicoglioni”. Al
presidente del Consiglio Giovanni
Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale
Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo.
Non fa in tempo a vederlo sbarcare,
l’ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto
dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui
segretario della Camera del lavoro
dopo la scomparsa del sindacalista
Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo
incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all’altro in commissione parlamentare antimafia,
uno deputato e l’altro comandante
dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà
mai.
Destini che s’incrociano in un’isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell’uccisione di Pio La
Torre in Sicilia arriva il generale.
«Perché hanno ucciso La Torre?», gli
chiedono i giornalisti. «Per tutta
una vita», risponde lui. È il cinquan-
tottesimo prefetto di Palermo dall’Unità d’Italia. L’hanno mandato
giù «per combattere la mafia».
Informa il capo del governo che non
avrà riguardi per la «famiglia politica più inquinata del luogo». È la Dc
di Salvo Lima e di Giulio Andreotti.
Non gli concedono i poteri promessi, solo contro tutti Carlo Alberto
dalla Chiesa resisterà per centoventi giorni. Il 3 settembre 1982 tocca
anche a lui. E alla sua giovane moglie Emmanuela.
Omicidio premeditato, annunciato, dichiarato. Omicidio fortemente voluto per chiudere un conto con un generale diventato troppo
ingombrante. Una leggenda per i
suoi carabinieri, una minaccia permanente per un’Italia che sopravvive fra patti e ricatti. Dicono che a farlo fuori è stata la Cupola. Come per
Pio La Torre. Un alibi perfetto per
RBA2
U
T
A
PIAZZprile 198
30 a
seppellire e dimenticare un generale fatto a pezzi dallo Stato. Nei giorni precedenti al 3 settembre le sabbie mobili siciliane se lo sono divorato Carlo Alberto dalla Chiesa. Le
prime pagine del giornale L’Ora, sono fotocopie con numeri al posto
dei titoli: 81…84…87…Gli omicidi
a Palermo dall’inizio dell’anno. L’11
agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l’inchiostro rosso si spande
sulla foto dell’ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100.
«L’operazione da noi chiamata
Carlo Alberto l’abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa», è la telefonata che arriva dopo una “sparatina” a Villabate. Una rivendicazione così a Palermo non l’hanno
fatta mai. Sembra un proclama terroristico. Una dichiarazione di
guerra, in stile militare. Sono a Casteldaccia quando arriva quella te-
lefonata. Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei
carabinieri. Lì c’è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante
del nucleo operativo di Palermo. È
davanti a un’utilitaria impolverata,
la parte posteriore dell’auto è “abbassata”, schiacciata verso l’asfalto.
Ormai si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì
dentro c’è un uomo. Il capitano
apre. È un “incaprettato”, mani e
piedi legati con una corda che gli
passa intorno al collo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima
finisce per strangolarsi. «È un altro
regalo per il nostro generale», dice
l’ufficiale mentre via radio gli arriva
la notizia che è stato ritrovato un cadavere sulla piazza di Trabia. Ed è
già morto anche lui — l’agguato a
colpi di kalashnikov in via Isidoro
INI 1982
R
A
C
VIA ttembre
3 se
MITRAGLIATORI E REVOLVER
KALASHNIKOV
Ore 9.20: una pioggia di proiettili uccide
Pio La Torre insieme all’autista e amico
Rosario Di Salvo mentre sta andando
in auto alla sede del Pci
Ore 21: Carlo Alberto dalla Chiesa
viene ucciso a colpi di kalashnikov
in via Isidoro Carini insieme alla moglie
Emmanuela. Stavano andando a cena
Repubblica Nazionale
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L’INIZIATIVA
Dal 13 aprile è in libreria Uomini Soli (Melampo editore, 232 pagine,
16 euro), le biografie di quattro italiani che facevano paura al potere
scritte da Attilio Bolzoni. Tutti uccisi a Palermo. Il segretario del Pci
siciliano Pio La Torre e il generale dei carabinieri Carlo Alberto
dalla Chiesa assassinati nel 1982, i giudici Giovanni Falcone
e Paolo Borsellino fatti saltare in aria nell’estate del 1992
È il racconto - nel ventennale e nel trentennale della loro morte –
dei misteri e dei drammi di una Sicilia insanguinata
Il libro sarà distribuito il 16 maggio prossimo anche in edicola
con Repubblica insieme al film-documentario Ritorno a Palermo
di Paolo Santolini: un viaggio nella memoria dove parlano
i sopravvissuti delle stragi, i familiari delle vittime, i protagonisti
di una spaventosa stagione iniziata nel 1979 con l’uccisione
del giornalista Mario Francese e conclusa quasi un quarto di secolo
dopo con l’esplosivo di Capaci e di via Mariano D’Amelio
Il documentario, girato in Sicilia nel marzo scorso, è prodotto
dalla Faber Film e da Libera e sostenuto da Arcoiris Tv,
Coop, Cgil, Arci e Coldiretti Sicilia
GIOVANNI
FALCONE
PAOLO
BORSELLINO
“Ma io sono
un siciliano,
un siciliano vero
Per me la vita vale
quanto il bottone
di questa giacca”
“Non sarà la mafia
a uccidermi
ma saranno altri
E questo accadrà
perché qualcuno
lo permetterà
E fra quel qualcuno,
ci sono anche
i miei colleghi”
«un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle
Femmine e Capaci». Non è un terremoto. È una carica di cinquecento
chili di tritolo che fa saltare in aria
Giovanni Falcone. È il magistrato
più amato e più odiato del Paese. Da
vivo è solo. Da morto è esaltato e
osannato, il più delle volte dagli
stessi nemici che ne hanno voluto le
sconfitte.
Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata, in mezzo ai
codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo italiano
che mette veramente paura alla
mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l’uomo che cambia Palermo.
Porta i boss alla sbarra con il maxi
processo. Vengono condannati in
massa. Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla
politica, resiste fra i tormenti schivando attentati e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle
sue idee, poi si impossessano della
sua eredità. È celebrato come eroe
nazionale solo quando è nella tomba. Mario Pirani lo descrive come
l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di
solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte.
Giuseppe D’Avanzo ricorda «l’umiliante sottrazione di cadavere»
compiuta dopo la strage di Capaci.
Chi l’ha violentemente intralciato
in vita, lo invoca in morte. Ha cinquantatré anni e cinque giorni
quando vede per l’ultima volta la
sua Sicilia.
Al suo funerale c’è una folla straripante nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo. Una
pioggia violenta lava la città. Sono
quasi le due del pomeriggio, la piaz-
za adesso è deserta. C’è solo un uomo, inzuppato, che avanza guardando nel vuoto. È Paolo Borsellino, l’amico e l’erede di Giovanni
Falcone. Altri due uomini con lo
stesso destino. Nascono alla Kalsa a
distanza di pochi mesi uno dall’altro, da ragazzini si rincorrono fra i
vicoli, si ritrovano trentacinque anni dopo in un bunker di tribunale. Se
ne vanno insieme, nella stessa estate. Cinquantasette giorni di dolore.
Per il fratello perso e per uno Stato
che tratta. Paolo Borsellino si sente
abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta negoziando la resa. Sono in
molti a tremare per i suoi segreti. Sa
che è già arrivato l’esplosivo anche
per lui. Si getta nel vuoto il procuratore di Palermo, assassinato da
un’autobomba e dal cinismo di
un’Italia canaglia che l’ha visto mo-
rire senza fare nulla. Tradito e venduto. Il 19 luglio del 1992 salta in
aria. Come Falcone. L’agenda rossa
che ha sempre con sé non si troverà
mai. Dicono che è stata ancora la
Cupola. È sempre e solo la Cupola
che ha deciso la sorte di tutti loro.
Così ci hanno raccontato. Così ci
hanno portato sempre lontano dalla verità. Depistando. Inventandosi
falsi pentiti. Scaricando tutto addosso a Totò Riina e ai suoi corleonesi. Prima usati e poi sacrificati, sepolti per sempre nei bracci speciali.
Trent’anni dopo, non sappiamo
ancora chi ha voluto morti Pio La
Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa.
Vent’anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino. Sappiamo solo che erano quattro italiani
che facevano paura al potere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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VIA Duglio 1992
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©TOMMASO BONAVENTURA/CONTRASTO
Carini, una settimana dopo — Carlo Alberto dalla Chiesa, carabiniere
figlio di carabiniere, nato a Saluzzo,
provincia di Cuneo, Piemonte. Dall’altro capo dell’Italia.
Palermo è laboratorio criminale
e terra di sperimentazione politica,
è porto franco, capitale mondiale
del narcotraffico, regno di latitanti
in combutta con questori e prefetti,
onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Il giudice Falcone indaga sui
“delitti politici” siciliani, indaga sulla morte di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Scopre tutto e
niente. Sospetti. Trame. Mandanti
sempre invisibili. Palermo è dentro
una guerra permanente. Poi, l’atto
finale. Nel 1992.
Il 23 maggio, vent’anni fa. Alle 17,
56 minuti e 48 secondi gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di monte Erice registrano
CINQUECENTO CHILI
AUTOBOMBA
Ore 17.56 e 48 secondi: 500 chili di tritolo
fanno saltare in aria le auto blindate
di Giovanni Falcone e della scorta
Muoiono anche la moglie e tre poliziotti
Ore 16.58: una Fiat 126 con cento chili
di tritolo esplode e uccide Paolo
Borsellino mentre sta andando
dalla madre. Muoiono cinque agenti
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LA DOMENICA
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La storia
Nella notte del 15 aprile 1987 il grande economista scomparve nel nulla
Si pensò al suicidio, a un incidente oppure a una fuga perfetta per lasciarsi ogni
cosa alle spalle. In quei giorni quasi tutti i suoi allievi intrapresero una grande
ricerca, perlustrarono tutta Roma e non scartarono nessuna ipotesi
Cold case
Dopo venticinque anni, il racconto di uno di loro
DANIELE ARCHIBUGI
n mercoledì mattina
Federico Caffè scomparve di casa con la discrezione che lo aveva
accompagnato per tutta la vita. Saranno state
le sette quando mi arrivò la telefonata
di suo fratello minore Alfonso, anche
lui celibe e professore, con cui conviveva. Mi disse «Vinicio (così lo chiamavano in famiglia) è scappato di casa».
Ci misi pochi minuti a raggiungere
la loro casa di via Cadlolo, dove
trovai i suoi nipoti e Nicola Acocella, uno dei suoi allievi che
più si era preso cura di lui nelle
ultime settimane. Non sapevamo che cosa attenderci: la
sua fuga sarebbe stata di breve
durata come quella di un adolescente o avrebbe preso una piega
ben più tragica?
La domenica prima ero andato a
trovarlo a casa. Da tre mesi, Caffè era
stato preso da una profonda crisi depressiva e non andava più, come aveva sempre fatto, tutti i giorni in facoltà.
Negli anni in cui frequentai l’Università, dal 1976 al 1982, è stato l’amico
più vicino, nonostante fossi quasi
mezzo secolo più giovane. Come altri
affezionati allievi che avevano saputo
della sua depressione, cercavo di aiutarlo passando qualche ora nel suo
studiolo. La mia amicizia con Caffè è
iniziata ben prima che nascessi: mio
padre era il suo migliore e forse unico
amico, e lui fu il testimone di nozze dei
miei genitori. Era un uomo assai riservato e sin da bambino ho pensato che
fosse la sua statura — era alto un metro e mezzo — a renderlo così schivo.
Celibe, era generosissimo con i figli dei
suoi amici: solo pochi mesi fa sono venuto a sapere che gli stessi giocattoli
che ci faceva pervenire negli anni Sessanta giungevano anche ai figlioli del
suo amico Paolo Sylos Labini e chissà
a quanti altri.
Unico tra i miei fratelli, mi iscrissi a
economia e commercio, la facoltà nella quale lui passava dodici ore al giorno. Scoprii in quel frangente che l’uomo riservatissimo che avevo conosciuto si trasformava dietro la cattedra
e tramite l’eloquio, sempre sostenuto
da un sano pragmatismo di mai ripudiata marca abbruzzese, riusciva a persuadere e, soprattutto, ad accendere la
curiosità. Mi accorsi presto che ero stato arruolato nella confraternita dei
suoi allievi che, senza bisogno di riti
iniziatici, si ispirava ai valori coltivati
dal Maestro: rigore e sobrietà. Per sopraggiunti limiti di età, Caffè aveva da
pochi mesi smesso di insegnare, riportandone un tracollo emotivo. Il circolo
di persone che gli era più vicino ne era
rimasto sorpreso: come era possibile
che lui, l’uomo che aveva sempre sostenuto tutto e tutti, avesse ora bisogno
di sostegno? Aveva retto in piedi un’intera facoltà, reclutato i più promettenti insegnanti e contribuito al dibattito
politico. Con discrezione, ma anche
con passione civica, aveva sempre usato gli strumenti dell’economia per difendere i più deboli. Aveva tempo per
tutti e per tutto, e a nessuno aveva negato il suo sostegno e conforto. Eppure, ora, si dimostrava incapace di abbandonarsi alle persone che gli volevano bene.
Da quel mercoledì iniziarono giorni
terribili: non volevamo dare la notizia
in pasto alla stampa nel timore che, se
fosse stato travolto dal clamore dei media, avrebbe potuto compiere atti inconsulti che speravamo fosse ancora
possibile scongiurare. Telefonammo
ai molti suoi amici sparsi per Roma e
per il mondo, nella speranza che si fosse rifugiato a casa di uno loro. Cercammo di immaginare quali potevano es-
U
VIA CADLOLO 42
È la notte tra il 14 e il 15 aprile 1987
Sul tavolino accanto al letto Federico
Caffè ha lasciato orologio, occhiali,
chiavi, passaporto e libretto degli assegni
In tasca non ha più di 30mila lire
Alle 5.30 un vicino di casa sente aprire
la porta dell’appartamento
dove vive il professore
MONTE MARIO
Nessun tassista
o autista di bus dice
di aver preso a bordo Caffè
Si perlustra tutta la zona
dove il professore
era solito passeggiare
PONTE DUCA D’AOSTA
Si teme il peggio
e si battono le sponde
del Tevere sotto il Ponte
Duca d’Aosta,
il più vicino alla casa
di Caffè
PONTE MARCONI
Un fotografo per caso
scatta l’immagine
di un uomo che il 15
aprile si getta
nel Tevere. Non è Caffè
TARQUINIA
Si ricorre anche ai sensitivi:
alcuni indicano che Caffè
è in campagna, forse
nel paese poco fuori
Roma. Alcuni studenti
si precipitano là
PIAZZA FONTANELLA
BORGHESE
Uno dei primi posti
della ricerca è la zona
della libreria dove
l’economista si forniva
regolarmente
I ragazzi che cercarono
il professor Caffè
sere state le sue mosse e trovammo un
interlocutore di rara sensibilità umana
nel capo della squadra mobile di Roma, Nicola Cavaliere. Se stava vagando
per la città in stato confusionale, aveva
bisogno di essere aiutato.
Iniziammo a cercarlo sulle pendici
della collina di Monte Mario, dove abitava, e nelle zone limitrofe. Ci fu chi
perlustrò gli argini del Tevere, chi cercò
nei dintorni della nuova facoltà di via
Castro Laurenziano e della vecchia sede di Piazza Fontanella Borghese. Inseguimmo falsi indizi, come quello di
un gioielliere che riteneva di averlo visto seduto sui gradini di una stazione
della metropolitana. Negli stessi giorni, un altro anziano si buttò nel Tevere
da Ponte Marconi ma ben presto, visti
gli ingrandimenti delle foto scattate da
un passante, escludemmo che si potesse trattare di lui. Bussammo alle
porte dei conventi e chiedemmo aiuto
al Vaticano. Armati di penna e taccuino, parlavamo con le persone che conosceva ricercando qualche indizio e
raccomandando mille volte di mante-
nere la riservatezza.
Per cinque lunghissimi giorni non
abbiamo dato la notizia all’opinione
pubblica, per paura che la vita di un uomo sensibile e straordinario come
Caffè potesse essere insudiciata. Tramite Marco Ruffolo, uno dei suoi amati allievi, chiedemmo a Eugenio Scalfari di pubblicare su Repubblica un an-
Repubblica Nazionale
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Le ipotesi
ARICCIA
Un esposto indica che il corpo di Caffè
sarebbe in un pozzo nella cittadina laziale
È il 14 agosto del 1999. Non è vero
PIAZZA FIUME
Tre anni dopo la scomparsa,
alcuni familiari di Ezio Tarantelli,
ex allievo e amico di Caffè ucciso
dalle Br, sono sicuri di aver visto
l’economista scendere dal bus 58
e correre verso via Salaria
SUICIDIO
Federico Caffè confessò in una lettere la sua depressione. In pochi anni
aveva perso le persone più care, la madre, la vecchia tata, tre amici come
Tarantelli, Franciosi e Vicarelli e doveva accudire il fratello Alfonso
AMNESIA
Nell’ultima lettera scritta all’amico Carlo Ruini, Caffè si lamenta
che le “abituali amnesie senili sono diventate totali”
Il professore potrebbe essersi smarrito
FUGA
ILLUSTRAZIO NE DI CARLO STANGA
È la teoria dello scrittore Ermanno Rea: Caffè, con l’aiuto di qualcuno
si sarebbe fatto portare in un convento. Un suo santino ritrovato
diceva: “La vera carità non nasce dalla pienezza ma dalla povertà”
L’ultima lezione
a sera si fa lunga senza coloro che amiamo». Incomincia con queste parole prese in prestito da Montale Federico Caffè, le riflessioni della stanza rossa. Sono
scritte a mano dallo stesso Caffè nella prima pagina del libro di
Bruno Amoroso che esce in occasione dell’anniversario della scomparsa del grande economista abruzzese. Amoroso, che di Caffè è stato
prima allievo e poi amico di una vita e che a lui
deve il consiglio di lasciare l’Italia per cercare
una carriera accademica in Danimarca, ha
messo insieme anni di ricordi, carteggi, colloqui, riflessioni e li ha rielaborati e trasformati in
un dialogo ininterrotto e durato anni. Il libro,
ricco di fotografie e documenti rari o inediti, ripercorre non soltanto la vicenda umana del
professore e gli eventi sociali di quegli anni ma
anche l’evoluzione del suo pensiero keynesiano, le sue preoccupazioni di fronte all’avanzare
delle teorie neoliberiste e le vere e proprie profezie amare su come il capitalismo di natura finanziaria avrebbe finito per riversarsi contro le classi lavoratrici, i risparmiatori e il ceto medio. Una raccolta di lettere di Caffè fa da appendice al volume. Edito da Castelvecchi (186 pagine, 17,50 euro) il libro uscirà il 13 aprile.
«L
PIAZZA DELLA PIGNA
Il 29 aprile dell’88, un anno dopo
la scomparsa, un falso allarme: viene
individuato un sosia perfetto
del professore e per di più senza
documenti. In realtà l’uomo
si chiama Egidio Colella
STAZIONE TERMINI
VIA DEL CASTRO
LAURENZIANO
La sede della facoltà
di economia dove Caffè
insegnava: altra zona
battuta palmo a palmo
nuncio criptico dettato dal fratello:
«Vinicio, torna a casa, sto male. A. «. In
queste poche parole c’è forse il dramma estremo con cui Federico aveva costruito la sua esistenza: anche nel momento tragico in cui stava probabilmente pensando di porre fine alla propria vita, chi gli era più vicino sperava
di convincerlo a cambiare idea richia-
vamo la passione per il giallo
scandalistico dei mass media.
Così nessuno di noi parlò della sua crisi depressiva e per
anni e anni siamo stati reticenti nel descrivere lo stato
in cui si trovava negli ultimi
mesi. La scomparsa del piccolo grande economista non doveva inficiare l’aura che si era meritato con un’esistenza esemplare.
Dopo un quarto di secolo, possiamo
solo constatare che, qualsiasi sia stato
il destino del nostro maestro, è stato
quello che lui si è scelto. La sua vicenda
non sarebbe ancora un mistero se nelle ore successive alla sua scomparsa
non avesse dimostrato di avere le doti
professionali di un agente segreto assai
più che quelle di un austero docente.
Anche la sua ultima pagina l’ha scritta
senza farsi aiutare da nessuno.
Quando la notizia divenne di pubblico dominio, giunsero numerosissimi allievi per aiutarci nelle ricerche.
Il 22 aprile un gioielliere, Eugenio
Marcuzzi, dice di aver visto Caffè
alla Stazione Termini. “Sembrava
un barbone, gli ho dato qualche moneta
Mi ha detto, signore non si preoccupi,
non ho bisogno di nulla”
Anche i familiari
del gioielliere confermano
la somiglianza
L’APPELLO
Gli studenti pubblicano
su Repubblica il 20 aprile
un annuncio utilizzando
il suo soprannome Vinicio
Nessuna risposta
mandolo ai suoi doveri verso gli altri
piuttosto che a quelli verso se stesso.
Del resto, era lui che da sempre aveva
avuto tanta facilità a dare quanto difficoltà a ricevere.
Portai la notizia all’Ansa una domenica pomeriggio. Fui bombardato di
domande e ognuna di esse mi parve
una violenza esercitata nei confronti
del mio professore. Ci trovavamo in
una situazione contraddittoria: da una
parte, il clamore suscitato dalla sua
scomparsa aumentava la possibilità
che fosse rintracciato, dall’altra teme-
Spesso non ci conoscevamo, ma bastava uno sguardo per capire che appartenevamo alla medesima confraternita. Agli studenti degli ultimi anni
si accompagnavano quelli dei decenni
anteriori, e ognuno di loro chiedeva
che cosa potesse fare di utile. Non era
facile trovare una risposta perché neppure la polizia aveva fornito una casistica. Nell’organizzare le squadre che
battevano la città palmo a palmo, chiedevo spesso qualche informazione sugli anni in cui lo avevano frequentato
all’università. Mi sentivo ripetere sempre la stessa frase: «È stato il periodo
più bello della mia vita». Ma lui, Federico Caffè, lo avrà mai saputo?
(Daniele Archibugi
oggi è dirigente del Cnr,
docente all’Univeristà di Londra
Birkbeck College
e professore onorario
all’Università del Sussex)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
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Le idee
Poteri forti
“Il Grande Fratello” non ha più bisogno
di una dittatura come quella immaginata
dall’autore di “1984”. Secondo l’intellettuale tedesco
a far sì che le persone perdano la propria libertà
oggi ci pensano Google e Facebook
A cui ogni giorno con un clic diciamo “Mi piace!”
SORVEGLIATI
HANS MAGNUS ENZENSBERGER
Orwell non lo aveva previsto
HANS MAGNUS ENZENSBERGER
U
n uomolungimirante, questo Eric Blair, meglio noto con
lo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi totalitari se ne intendeva, assai prima che il termine entrasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel
1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontravano a Teheran, già vedeva profilarsi l’antagonismo tra
le superpotenze e la guerra fredda.
Qualche anno dopo la Seconda guerra mondiale
Orwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il futuro che vedeva all’orizzonte non gli piaceva. Dipinse il
panorama infernale di un regno del terrore nel bel mezzo dell’Europa, che in un futuro non lontano avrebbe
perfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito unico ai comandi di un
“Grande Fratello”; una
“neolingua” ideata per
capovolgere il significato
delle parole; l’abolizione
della sfera privata; un regime di sorveglianza a
360 gradi, rieducazione e
lavaggio del cervello dell’intera popolazione, e
infine un’onnipotente
polizia segreta per soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione, con la tortura, i
campi di concentramento e l’assassinio.
Fortunatamente quella profezia non si è avverata, almeno per quanto attiene alla nostra parte del globo: con
essa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso.
Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che per
ottenere almeno in parte quel risultato — e in particolare un sistema di sorveglianza a tutto campo — non c’era
bisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo anche
all’interno di un sistema democratico, senza l’uso della
violenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti.
Viviamo in celle spaziose
e dalle pareti di gomma
I nostri sorveglianti
arrivano a passi felpati
Si fanno chiamare manager
e hanno modi cordiali
Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etienne
de la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su questo tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, non
pago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suo
tempo, l’autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze di
chi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli —
scriveva — a subire questa piaga, o anzi a farsi male da
sé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sarebbero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende alla
sua miseria, o addirittura la insegue… Non crediate che
un uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchi
all’amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allettare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po’ di miele in bocca».
Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fare con la figura del monarca unico, personalmente identificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne de
la Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell,
la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il dominio di un sistema simile a quello descritto da Max Weber
negli anni Venti del secolo scorso.
«L’organizzazione burocratica, con le sue professionalità e specializzazioni, la separazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti d’obbedienza in base a
una scala gerarchica, sta portando avanti, di concerto
con la morta macchina, l’edificazione della struttura, di
quel futuro assoggettamento, nel quale forse un giorno
gli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totale
impotenza, come i fellah dell’antico Stato egizio, se per
essi l’unico e ultimo valore in base al quale si decida la
natura e l’amministrazione dei loro affari sarà un buon
sistema — buono e razionale in senso puramente burocratico — di tutela, rifornimento e gestione. Perché in
questo la burocrazia è incomparabilmente più efficiente di qualsiasi altra struttura di dominio».
Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggettamento sarebbe stata «dura come l’acciaio»: ma per
quanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber si
era sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è trasformata in un abitacolo relativamente confortevole,
qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pareti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi felpati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i loro principali obiettivi strategici — sorveglianza a tutto
campo e abolizione della sfera privata — senza far rumore. Ricorrono al manganello solo quando proprio
non c’è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi;
non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamare
manager o commissari, e non operano più in caserme,
bensì in uffici con l’aria condizionata. Nell’espletamento dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai residenti garantiscono la sicurezza, l’assistenza, il comfort
e i consumi. Perciò possono contare sulla tacita approvazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protetti premeranno con zelo un pulsante invisibile con la
scritta «mi piace».
Anche su un altro punto l’analisi di Weber appare oggi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza e
capacità d’azione dello Stato. Se a noi questa fiducia
viene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati,
braccati dai mercati finanziari globali, ma anche perché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washington sarebbero in grado di garantire da soli il controllo
totale della popolazione; e ciò semplicemente perché i
loro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri.
Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con i
progressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendono dal “mondo economico”, cioè dalle corporation
dell’informatica. Solo se le due parti procedono fianco
a fianco — i governi da un lato, e dall’altro imprese come Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook — la
presa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge il
massimo dell’efficacia. È comunque chiaro che in questa fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche è
quello del partner più debole, dato che solo le corporation dispongono delle competenze indispensabili, del
capitale e della necessaria manovalanza: informatici,
ingegneri, programmatori di software, hacker, matematici e crittografi.
Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Sta-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 APRILE 2012
■ 35
E CONTENTI
IL DISEGNO
Sopra, un’illustrazione degli Stenberg Brothers
si avrebbero neppure lontanamente immaginato i mezzi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti telecamere di sorveglianza, il controllo automatizzato dei
telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari
ad alta definizione, i profili di movimento superdettagliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto;
programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, memorizzati in banche dati di sconfinata capienza.
L’ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenticato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle megaimprese risale al lontano 1983 — un anno prima della
data che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell. Un censimento relativamente innocuo suscitò allora un certo
allarme, e le denunce di molti cittadini furono accolte
dalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karlsruhe condannarono l’iniziativa del governo, ma istituirono una nuova legge costituzionale sull’“autodeterminazione informatica”, a tutela della personalità. Una
sentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno ne
ha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popolazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono impotenti, e da tempo hanno gettato la spugna.
Su un punto invece — quello dell’evoluzione linguistica — George Orwell ha colto nel segno: la “neolingua”
da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficiale della sociologia. La Costituzione non piace ai cosiddetti servizi. Distinguerli dai criminali informatici è
tutt’altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto altro non sono che una card elettronica di censimento delle malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasi
hacker. E quanto ai social network, fanno leva sull’esibizionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà.
Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il contante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con le
corporation, metta in campo un impegno coerente per
abolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito,
client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefonia e chip) di prossima introduzione. L’obiettivo non
potrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianza
capillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono inte-
ressati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio online, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un altro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo della materialità del denaro, ridotto a una serie di dati manipolabili a piacimento.
Al solo scopo di completare il quadro daremo infine
uno sguardo a un settore collaterale, segnalando i tentativi in atto di abolire i diritti d’autore.
Il copyright è una conquista recente, che risale al Diciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura di
libri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.
All’improvviso, il romanzo divenne un prodotto di massa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle tirature e sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fonte di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avuto
molto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi denominato print, è diventato un modello di fine serie per
le maggiori case editrici. Le quali considerano ormai il
copyright come un ostacolo, con grande giubilo delle
avanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l’obbligo di
pagare un prezzo per ciò che l’industria informatica definisce content è comunque assurdo. D’ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a
lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare e bloggare a piacimento.
Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai il
tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni — lo stesso ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre un
testo su pergamena o carta deacidificata rimane perfettamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche di
un millennio, i media elettronici devono essere riversati con una certa frequenza per non diventare inservibili
dopo soli dieci o vent’anni: un dato che ovviamente collima con lo spirito dei loro inventori.
L’abolizione del libro stampato non è peraltro un’idea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da Ray
Bradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che ne
descrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. In
quel racconto utopistico, il possesso di un libro è consi-
derato un crimine e punito con la pena di morte. Nelle
loro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esagerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro favore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Bradbury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente,
per saperne di più col senno di poi non c’è bisogno di essere un genio.
A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda,
inevitabile come l’amen in chiesa: possibile che non ci
sia qualche elemento positivo? La risposta è facile, visto
e di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenuto
grazie alla nostra volontaria servitù non ha richiesto
spargimenti di sangue. I «residui del passato» non sono
stati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, ma
continuano a esistere. E ciò per un motivo evidente: la
tolleranza dei nostri sorveglianti si basa su un
semplice calcolo costibenefici. Sarebbe troppo
dispendioso tentare di
stanare gli ultimi refrattari, di sopprimere una piccola minoranza caparbia, che per puro e semplice puntiglio si oppone
al fato digitale. Ecco perché ci si accontenta di
una sorveglianza al 95 per
cento. Dunque, non è il
caso di farci prendere dal
panico: anche perché il restante 5 per cento equivale pur
sempre a quattro milioni di persone. E così anche in futuro, chi proprio non potrà farne a meno, potrà continuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, e
restare relativamente inosservato.
Il controllo non è totale,
un cinque per cento
della popolazione resta
refrattario. Ma viene tollerato
in base a un semplice calcolo
costi-benefici
Traduzione di Elisabetta Horvat
© Hans Magnus Enzensberger 2012
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
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Spettacoli
Revival
Dopo il dominio del pop e le mega-produzioni stile “Spiderman”,
Broadway riscopre il genio dell’autore di “Porgy & Bess”
e fa il pieno al botteghino con due spettacoli in cartellone
Un omaggio al primo compositore a portare il jazz nei musical e i musical
all’opera. E a dare scandalo suonando le melodie dei “negroes”
ANGELO AQUARO
C’
NEW YORK
è sempre qualcuno
che la sa più lunga
degli altri. «Ascoltando questa immondizia di facile presa, come il duetto
tra Porgy e Bess You Is My Woman Now,
c’è domandarsi come il compositore
potrà più rinunciare a piegarsi a queste
facili e inutili conquiste». Parola di Lawrence Gilman, l’allora celebratissimo
— e oggi, Dio l’abbia in gloria, sconosciutissimo — critico musicale del New
York Herald, giorno del Signore 11 ottobre 1935. Oppure prendete quell’altro
genio di Oscar Thompson, esegeta di
Claude Debussy, autore lui stesso di
dotti trattati di estetica e critica, esimio
professore alla Columbia University:
«Come pensare — scriveva sull’Evening Post, 21 dicembre 1928 — che tra
una ventina d’anni ci possa essere ancora un pubblico disposto ad ascoltare
con pazienza e piacere le pagliacciate
musicali del signor Gershwin?» E già:
come pensare? E soprattutto: cosa pensare di fronte alle migliaia di persone
che, più di ottant’anni dopo, si mettono
ogni sera in fila a New York per l’ennesimo spettacolo di George Gershwin?
Al diavolo i vecchi tromboni: portarono pure sfiga. Appena due anni dopo
la profezia dell’Herald, 1937, invece di
«piegarsi» ai facili successi, il più grande
musicista d’America fu piegato da un
tumore. E pure lontano della sua amata Broadway: addirittura nel campo nemico, Hollywood, dov’era volato per gli
ultimi film con Fred Astaire. Al diavolo i
vecchi tromboni. E invece fiato alle
trombe, ai clarinetti — ah, l’inizio della
Rhapsody in Blue che Woody Allen immortalò nell’inizio di Manhattan — e
soprattutto alle voci e alle gambe, e che
gambe e che voci, che stanno riportando Gershwin sulle scene.
Per carità: vero è che il vecchio George non se n’era mai andato. E da Lady,
Be Good! a Show Girl i suoi musical —
ne scrisse una trentina — sono stati
sempre saccheggiati per rilanciare qui
e là quell’«immondizia di facile presa».
Ma dice Laurence Maslon - il più grande storico dell’argomento, professore
della New York University e autore del-
Quando debuttò negli anni Trenta
i critici parlarono di “immondizia
di facile presa” e “pagliacciate”
Pochi capirono
che aveva trasformato
il folk in musica classica
le 470 pagine di Broadway: The American Musical trasformate col regista
Michael Kantor in un documentario
ormai cult - che era appunto dagli anni Venti e Trenta che mai s’erano visti,
come ora, addirittura due suoi show
nella stessa stagione.
Proprio così. New York riscopre lo
swing al ritmo indemoniato di Nice
Work If You Can Get It, il musical appena aperto che costringe Matthew Broderick, l’ex ragazzino di War Gamesoggi sposo e padre felice accanto alla Sarah Jessica Parker di Sex & The City, a cimentarsi nelle evoluzioni che la regista
e coreografa Kathleen Marshall confessa di aver rubato ai film di Ginger Rogers
Un americano
a New York
super
GERSHWIN
Repubblica Nazionale
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LA CARRIERA
L’ESORDIO
A BROADWAY
RHAPSODY IN BLUE
PARIGI
SUMMERTIME
CUBA
Nato a Brooklyn
nel 1898, inizia
a scrivere canzoni
a quindici anni
Nel 1916
compone il primo
capolavoro: When
You Want’em,
You Can’t Get’em
Con Swanee,
cantata da Al
Jolson, nel 1919
diventa famoso
e inizia la sua
lunga carriera
a Broadway
che lo porterà
poi a Hollywood
Nel 1924 in meno
di tre settimane
scrive Rhapsody
in Blue: sintesi
di stili diversi,
è ancora oggi
uno dei pezzi
più eseguiti
in tutto il mondo
Mentre si trova
in Europa
per rappresentare
il suo Concerto
in fa, nel 1928
a Parigi compone
An American
in Paris: l’opera
strega il pubblico
Ma il capolavoro
assoluto resta
Porgy & Bess,
melodramma
moderno
che contiene alcune
delle sue arie
più famose
come Summertime
Nel 1932
un soggiorno
all’Avana gli ispira
l’Overture Cubana
dove attinge
a piene mani
alla musica
popolare
delle Antille
LE IMMAGINI
FOTO © THE AL HIRSCHFELD FOUNDATION. WWW.ALHIRSCHFELDFOUNDATION.ORG. AL HIRSCHFELD ISREPRESENTED BY THE MARGO FEIDEN GALLERIES LTD., NEW YORK
A sinistra, George Gershwin e Michael
Tilson Thomas in un’illustrazione di Al Hirschfeld
del 1976. A destra, la locandina di Nice Work
If You Can Get It e, sotto, Porgy & Bess
a New York nel 2011
e Fred Astaire. Una vera operazione
vintage. Perché la storia del playboy di
buona famiglia che si innamora di un
trafficante di liquori non arriva dall’America del Proibizionismo e di Gershwin, ma è stata scritta nei giorni nostri per poter squadernare in scena il
meglio del meglio di George: da Let’s
Call the All Things Off a But Not For Me.
Non solo. Malgrado la profezia malefica dei critici spocchiosi, Gershwin è
in scena, per esempio, proprio con
Porgy & Bess, l’opera che fece scandalo
perché aveva per protagonisti quei negroes, come si diceva allora, che il compositore aveva scelto come «espressione della musica americana» e che —
scriveva — «sono perfetti per il mio scopo: perché si esprimono non soltanto
attraverso la parola parlata ma anche,
e con naturalezza, attraverso la canzone e la danza». Canzone e danza sullo
stesso piano della parola, e per di più
sulla bocca, e sulle gambe, dei “negri”:
più scandalo di così.
Nei panni di Bess una star del calibro
di Audra McDonald — quattro Tony
Awards, cioè gli Oscar del teatro, e il
successo tv con Private Practice — e in
quelli di Porgy un baritono dalla solida
reputazione come Norman Lewis (Les
miserables, Chicago), la storia del
mendicante disabile che cerca di salvare la bella nera dalle grinfie di un
amante violento è già un fenomeno.
Anche se proprio Maslon, forse per tenere anche lui fede alla tradizione dei
prof criticoni, storce il naso. «No» dice
«a Gershwin non sarebbe piaciuta.
Questa è una di quelle produzioni che
definirei uccisa dai troppi tagli: ci sono
così tanti piccoli tagli alla musica, ma
specialmente alla storia, che il suo valore viene sminuito di molto».
Non che la regista Diane Paulus, anche lei vincitrice di un Oscar teatrale per
la riedizione di Hair, sia impazzita: i tagli di cui parla il professore sono dovuti
alla “traduzione” di Porgy & Bess, che è
un’opera lirica, nel linguaggio più pro-
fano di Broadway. Ma l’iniziativa è davvero più che ardita. Perché proprio con
Porgy & Bess lo stesso Gershwin aveva
già operato ai tempi una di quelle coraggiosissime sintesi per cui è diventato famoso: inventando l’“opera folk”.
«Mi sono sentito chiedere spesso perché parlo di opera folk», scriveva il compositore, che era anche una bella penna, sul New York Times. «La risposta è
semplice; Porgy & Bess è un racconto
folk. E i suoi protagonisti avrebbero naturalmente cantato canzoni folk. Ma
quando ho cominciato a lavorare sulla
musica decisi di non utilizzare canzoni
folk perché volevo che si sentisse una
certa unità. Così ho scritto io stesso i
miei spiritual e le mie canzoni. Ma resta
comunque musica folk — e per questo,
visto che è messa in forma operistica,
Porgy & Bess è diventata un’opera folk».
L’argomentazione è rivoluzionaria
nel suo rinnovo della tradizione. Nell’America del 1935 questo figlio di immigrati ebrei di Odessa, venuto su tra
Brooklyn e il Lower East Side, iscriveva
se stesso nel solco dei grandi. Dai romantici come Robert Schumann, che
tra i primi pescò nel folk scrivendo i suoi
Lieder ispirati alle musiche campestri.
Fino a quell’Antonin Dvorak con cui in
America tutto cominciò, che per la sua
Sinfonia dal Nuovo Mondo saccheggiò
le melodie dei nativi e dei neri: «Sono
convinto che il futuro della musica di
questo paese», scriveva il musicista ceco, in visita alla fine del Diciannovesimo secolo negli States, «vada cercato
nelle cosiddette negro melodies. Sono
queste le canzoni folk d’America».
Resta da chiedersi perché l’America
abbia deciso di riscoprire la sua tradizione proprio ora. Resta da chiedersi
perché senta il bisogno di riabbracciarsi a Gershwin proprio ora: a ritmo
di jazz e di swing. «La verità è che negli
ultimi dieci anni i musical avevano tutti strizzato l’occhio al pop: da Hairpsray a Jersey Boys. Era la musica dei
baby boomer», spiega sempre Maslon,
«e il risultato sono state commedie
musicali che non sempre avevano anche buone canzoni. Ecco perché l’idea
di riportare Porgy & Bess, ha funzionato subito. Stiamo parlando della più
bella musica americana mai scritta per
il palcoscenico: c’era bisogno di tornare a quel livello».
Eccolo il tema dolente: l’eredità. Dopo Gershwin nessuno mai? In fondo in
questi giorni anche un altro signore, e
vivente, può vantare il record di due
spettacoli a Broadway in contemporanea, Evita e Jesus Christ Superstar: e
quel signore si chiama Andrew Lloyd
Webber. «La prego», si inalbera il professore, «non ci sarà mai più nessuno
come George Gershwin. L’uomo che
portò il jazz a Broadway, che portò
Broadway all’opera...». D’accordo: ma
non è quello che in altri termini sta facendo oggi un altro grande? Dal rock a
Broadway: ecco a voi Spiderman di Bono e gli U2. «Non lo nomini nemmeno!
L’era di Gershwin fu un periodo di così
grandi trasformazioni che no, nessuno
potrebbe più ritrovarsi in quelle circostanze. E nessuno potrebbe quindi dare il contributo che diede lui». Mai contrastare i critici: la sanno sempre più
lunga degli altri.
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LA DOMENICA
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Next
Super Mario 2.0
Finali multipli decisi su Facebook, ambienti digitali sovrapposti alla realtà
creati dai gps degli smartphone, nuovi personaggi inventati dalle app
dei tablet, suggerimenti e varianti in tempo reale grazie a Twitter
Ecco a cosa stanno lavorando i più grandi programmatori
del mondo: la piattaforma del divertimento globale
CONSOLE
Oggi le console da casa
e portatili sono la punta
di diamante del mercato
dei videogiochi. Il giro d’affari
che producono è valutato
tra i 50 e i 60 miliardi di dollari
iamo nel caos e nessuno sa cosa sta
per succedere. Ma sappiamo che
sarà una rivoluzione». Warren
Spector sembra a un tempo spaventato e divertito. Affastella parole rapide passando dal futuro al presente senza riuscire a trovare un punto fermo al quale
ancorarsi. Classe 1955, aspetto da intellettuale newyorchese, è il game designer di punta della Walt Disney.
Quello che è riuscito con Epic Mickey, a ottobre la seconda avventura, a rianimare un personaggio come
Topolino ormai privo di qualsiasi profondità. E ora, dopo aver realizzato ben ventidue giochi elettronici dal
1990 a oggi, vede davanti a sé una prospettiva completamente nuova: «Un videogame per console che venga
influenzato da Facebook, che interagisca contemporaneamente con un’applicazione per tablet e per
smartphone, a sua volta legata alla versione per console portatile. Un gioco che permetta di costruire e condividere universi digitali, storie e personaggi, sfruttando
tutte le potenzialità delle piattaforme ora disponibili».
Basta un po’ di fantasia per immaginare il risultato. Videogame con finali multipli decisi sui social network.
Ambienti digitali ad alta definizione sovrapposti al reale che, grazie al gps degli smartphone, riproducono in
diretta quel che avviene per le strade di una città. Applicazioni che permettono di inserire nuovi protagonisti sfruttando la macchina fotografica del tablet e
software per la manipolazione delle immagini.
L’idea di Spector appena due anni fa sarebbe sembrata una follia. Improbabile oltre che impossibile. Og-
«S
GLOSSARIO
Console
Dal francese antico “sole”, tavola,
associato al prefisso “con” è passato
all’inglese e in ambito tecnologico
è sinonimo di pannello di controllo
e di macchina per videogame
La console
è game over
con uno per Xbox 360», spiega David Reeves, a capo della filiale europea della Capcom, l’editore giapponese
che ha pubblicato titoli come Resident Evil e Street Fighter. «Quel che già si potrebbe fare è collegare i videogame, ovunque escano, con musica e video. Domani?
La visione di Spector potrebbe avverarsi, oppure potrebbe succedere che si arrivi a un’unica console. Di sicuro i giochi elettronici cominciano a essere un servizio, qualcosa che in futuro si sottoscriverà con un abbonamento per essere fruito ovunque e comunque».
I pesi, in termini di giro d’affari, sono noti. Quello dei
videogame tradizionali vale fra i cinquanta e i sessanta
miliardi di dollari, ma è in calo quasi ovunque. Gli app
store al contrario sono un business da 11 miliardi, mentre web e social network toccano quasi i cinque miliardi. Eppure sono proprio questi ultimi due i campi che
avranno la crescita maggiore nei prossimi anni. Per gli
app store si parla di 25 miliardi nel 2015, nove quelli per
i browser. E la differenza fra i tablet e le varie Sony Playstation o Nintendo Wii, dal punto di vista della qualità
della grafica, si sta assottigliando. Nel frattempo le persone che usano Flash, il software per le animazioni per
browser e dunque anche per Facebook, hanno raggiunto quota un miliardo e 300 milioni. Adesso la Adobe sta per lanciare un motore grafico, Unity 3D, con il
quale sviluppare videogame ad alta definizione. Che si
aggiunge al progetto della Epic, colosso delle console e
del pc, che vuol trasferire il suo Unreal Engine 3 usato
nei blockbuster per Xbox 360 proprio su browser. «Flash diventerà la console per il web», ha sintetizzato Diana Helander di Adobe. Che suona come una dichiara-
JAIME D’ALESSANDRO
gi invece le cose stanno cambiando così rapidamente
da renderlo un passaggio quasi inevitabile. Esistono già
titoli che vivono su diversi dispositivi. Anzi, nel caso del
gioco di calcio Fifadella Electronic Arts, su tutti i dispositivi e le piattaforme disponibili, incluso Facebook.
Campi separati fra loro che hanno come vertice l’edizione per PlayStation 3 e Xbox 360, tecnicamente la più
raffinata, poi convertita e resa compatibile con tutto il
resto. Malgrado l’incomunicabilità fra i vari giochi, Fifa ha comunque smesso di essere un semplice videogame. È un brand che evolve 365 giorni l’anno nei tre
ecosistemi digitali: console, tablet e smartphone, web
e social network. Operazione da circa seicento milioni
di dollari, che coinvolge sei o sette team sparsi per il
mondo e sta accrescendo esponenzialmente la popolarità del marchio. «Tecnicamente è ancora difficile
mettere in comunicazione un videogame per iPhone
Social games
Cross-platform
Flash
Per esteso tutti i giochi sociali
da quelli da tavolo a quelli elettronici
Ultimamente è la definizione
più usata per indicare i videogame
per social network
Un software pensato per diverse
piattaforme, che siano console
(portatili o da casa), smartphone
o tablet. Da noi viene tradotto a volte
con “portabilità” fra i diversi device
Il programma che dal 1996
è il più usato per creare animazioni
su web. Sta diventando il mezzo
principale per portare videogame
in alta definizione sui social network
Repubblica Nazionale
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WEB E SOCIAL NETWORK
I giochi in Flash, compresi quelli
per Facebook come Farmville,
hanno un giro di affari di cinque
miliardi di dollari che dovrebbe
arrivare a nove entro due anni
‘‘
Siamo nel caos
e nessuno sa cosa
sta per succedere
Ma sappiamo
che sarà una
rivoluzione
WARREN SPECTOR
Game designer Walt Disney
SMARTPHONE E TABLET
Il mondo delle app su dispositivi
mobili come iPhone e iPad
è fatto per il 70 per cento
da videogame. Vale 11 miliardi
di dollari e dovrebbe crescere
a 25 miliardi entro il 2015
zione di guerra, ma anche come una possibilità per costruire un ponte fra mondi diversi. In più si assiste a un
travaso continuo di competenze da un settore all’altro.
Dai videogame tradizionali alle applicazioni, ai social
game. E viceversa. Nascono network dedicati a singoli
videogame, le app si moltiplicano e la grafica è sempre
più raffinata, nascono esperimenti di ogni genere e si
chiede che le console del futuro abbiano un legame forte con Twitter, come ha auspicato Tim Sweeney, gran
capo della Epic.
«Cambia l’approccio allo sviluppo di videogame»,
conferma Tameem Antoniades con il suo accento britannico da salotto letterario. Vestito tutto di nero, stile
rockstar new wave anni Ottanta, Antoniades è il direttore creativo della Ninja Theory di Cambridge, una
software house che in passato ha lavorato con scrittori
come Alex Garland e musicisti del calibro di Nitin Sawhney. Sta finendo il nuovo Devil May Cryper Capcom, ma
già pensa al futuro. «La distinzione fra le diverse tipologie di giocatori si sta facendo labile, al pari di quella fra
le piattaforme». Il mantra che molti colleghi di Antoniades ripetono sempre, da Peter Molyneux di Fable a
David Cage di Heavy Rain, è che il settore dei giochi lo si
può paragonare al cinema degli anni Venti, all’epoca
del muto. Guardando il livello di raffinatezza di certe
produzioni ad alto budget, sembra un’affermazione
impietosa. Ma se invece consideriamo la prospettiva
tracciata da Spector allora il paragone comincia a calzare. «Abbiamo ancora tante cose da sperimentare»,
conclude lui. «Siamo davvero solo all’inizio».
FIFA
Uno dei primi ad andare
dalle console da casa
a quelle portatili,
dai tablet agli smartphone
fino al pc e a Facebook
SKYLANDERS CLOUD
PATROL
Appena uscito su iPad
e Android, è l’ennesimo
gioco per console
che passa agli app store
© RIPRODUZIONE RISERVATA
App store
Negozio virtuale di applicazioni
per tablet, smartphone, computer
e smart tv. Inventato dalla Apple
nel 2008, oggi è diventato paradigma
di una nuova concezione di internet
BALDUR’S GATE
Uscito nel 1998, ora
è in versione per browser
e cross-platform: pc,
mac e iPad. E i giocatori
potranno sfidarsi tra loro
Repubblica Nazionale
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La paranza francese, il maialino castigliano, l’immancabile Guinness
irlandese e i piatti a base di latte cagliato dalla Finlandia alla Russia
Mai come adesso il cibo diventa simbolo della natura
che risorge dopo il gelo dell’inverno
Pescado
calzado
EL SALVADOR
Lamb cake
STATI UNITI
Dayenu
ISRAELE
Kutya
RUSSIA
Pasha
FINLANDIA
A base
di tvorog,
cioè latte
acidificato
filtrato, il dolce
della Pasqua
finnica va lavorato
con burro, uova,
panna e servito
con pane dolce
al cardamomo (pulla)
Il dolce di grano
e miele, simbolo
di fertilità,
apre il pranzo
della Pasqua
ortodossa
A seguire, pesci,
polpette e la pasta
con ricotta e prugne
(vareniki)
Tra le ricetta rituali
della Pasqua
ebraica,
il brodo di carne
con pane azzimo
spezzettato
e uova sbattute,
profumato
di cannella. Variante
con gli spinaci
Farina, latte, uova,
zucchero e semi
di papavero
nella ricetta
della torta
americana a forma
di agnello
Panna arricchita
con cioccolato
bianco per la glassa
Per la Pasqua
in Salvador,
filetti di boca
colorada (cernia)
fritti, rifiniti
in pentola insieme
a ceci, patate
e brodo di pesce
addensato
con farina di mais
Hot Cross
Buns
REGNO UNITO
Sulle tavole inglesi
fin dal venerdì
santo, le brioschine
speziate
(cannella, chiodi
di garofano,
noce moscata)
decorate
con una croce
di glassa di zucchero
A tavola
La danza della torta verde
per il “merendino” del lunedì
ENZO BIANCHI
n Monferrato e nelle Langhe al lunedì dell’Angelo, “Pasquetta”, tutti si affrettano a cercare
un lembo di prato dove batta il sole, per fare il
“merendino”: si arriva verso mezzogiorno con cestini carichi di cibi preparati la sera prima o il mattino stesso, si stende una tavola sull’erba ancora
bassa, mentre “gli uomini” stappano le bottiglie
di vino. È il canto di vittoria sull’inverno e sul freddo che costringevano tutti in casa: finalmente si
sta all’aria aperta, quasi a celebrare il sole che ricomincia a scaldare.
Tra i piatti preparati, fa da regina la “torta verde” o “pasqualina monferrina”, una torta fatta
con le prime erbe raccolte nei campi o negli orti:
spinaci, radicchio verde, cicoria, punte di asparagi selvatici. Passate in padella con olio e aglio, tritate e mescolate con uova e parmigiano, esaltate
dal profumo-sapore della maggiorana, le
erbe creano un impasto che accoglie an-
I
cora del riso cotto al dente prima di finire in forno,
impreziosito da qualche ricciolo di burro. Le fette
compatte, di un verde splendente, esaltano i grani di riso che luccicano ormai trasparenti. Così la
torta verde fa da regina e pietanze più consistenti
— dai salumi ai formaggi, alle cotolette di coniglio
impanate — le danzano attorno come damigelle
d’onore. E lei, spodestato per un giorno il pane, si
accompagna gioiosa a tutti i piatti. L’allegria è resa piena da un bicchiere di grignolino o di freisa
secca, ormai preziosa rarità: i cuori si accendono,
i canti si rincorrono da una collina all’altra, preludio di altra musica di festa che accompagnerà la
vendemmia, quando la stagione apertasi sul verde dei prati si spegnerà nei colori di fiamma dell’autunno. Ricordi di un tempo che fu? Non credo: io, come tanti altri, Pasquetta la vivo ancora
così, con questi sapori sul palato e nel cuore.
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 8 APRILE 2012
LA DOMENICA
■ 42
L’incontro
Maestri
Da bambino leggeva un libro
al giorno. La passione per il cinema
è venuta dopo, quando era postino
e correva da una sala all’altra dalle tre
del pomeriggio a mezzanotte. E ora
che ha cinquantacinque
anni, di cui trenta passati
a fare il regista, rivela:
“Da tempo dico
che il prossimo
film sarà l’ultimo
Così potrò finalmente
andare per funghi
e riparare cianfrusaglie”
Aki Kaurismäki
on s’è ancora seduto
che ha già acceso una
sigaretta: «Non si spaventi: è elettronica,
nessuno qui morirà. La nebbiolina che
vede uscire è vapore acqueo. Surrogato necessario ma non sufficiente: nemmeno l’ombra del primo tiro mattutino dopo il caffè. “Nessuno è perfetto”...». Ecco il primo dei virgolettati da
film celebri che continueranno a srotolarsi, alternandosi a battute di spirito e annotazioni lunari, nella conversazione fuori del mondo con Aki Kaurismäki, cinquantacinque anni appena compiuti (il 4 aprile) e tanta voglia di
scherzare, dietro gli abituali impacci.
La faccia rossa di timidezza e di birra, di
cui affiora sul tavolino la bottiglia agli
sgoccioli, il regista distillerà i suoi pensieri quasi sempre a occhi bassi e a denti stretti, come se parlasse a se stesso.
Ricorre l’amata-odiata Finlandia, il
Paese dove si sente un esule, anzi, un
alieno sin da quando ci viveva e lavorava a tempo pieno, prima di trovare altre patrie, magari provvisorie, come
adesso la Francia o il Portogallo, in cui
trascorre la maggior parte dell’anno vicino a Porto, circondato e rassicurato
dalle vigne generose: «La Finlandia è
una patria fantasma, priva d’una sua
‘‘
finlandese. Noi non abbiamo nemmeno il petrolio! E avevo aggiunto un post scriptum per Donald Rumsfeld, invitandolo piuttosto al viaggio inverso, a
raggiungermi nelle foreste per andare
insieme a raccogliere funghi.: “Questo
forse la calmerà”». L’incetta di funghi è
tra i suoi precetti distensivi più frequenti: «Vale anche per me. Da anni
prometto che il prossimo film sarà l’ultimo: dopo di che potrò finalmente seguire con tranquillità l’epifania dei
funghi e riparare vecchie cianfrusaglie. Prima però ho da terminare la trilogia portuale iniziata da Le Havre con
un film da girare in Spagna e uno in
Germania. E poi: sipario!»
Oltre ai funghi, la musica ha per lui
un effetto calmante: «Mi piace tutta,
dalla classica alle canzonette. Ho una
quantità sconsiderata di cassette e dischi, che mi porto dietro in una cesta di
legno, anche se poi ascolto sempre gli
stessi, quelli che metto insieme, a ca-
Non metto piede
negli Usa: hanno
rifiutato Kiarostami,
perché dovrebbero
volere un finlandese
Noi non abbiamo
nemmeno
il petrolio
FOTO CORBIS
N
PARIGI
identità. Helsinki? Irriconoscibile.
Possedeva la bellezza delle grandi città
dell’Est: oggi sembra un albero di Natale, tutto luci al neon e pizzerie. Il panorama cosiddetto finnico è oggi una
selva d’insegne pubblicitarie: Nestlé,
Nokia, Shell. È un Paese che si è venduto agli stranieri, come aveva profetizzato venticinque anni fa il mio Amleto,
vano oppositore della chiusura di segherie e stabilimenti poco produttivi a
profitto di multinazionali specializzate nella produzione di anatroccoli di
plastica». E il cinema finlandese, che
lei continua a alimentare, coprendone, insieme a suo fratello Mika, quasi
un quarto dell’intera produzione? «Tra
cinema finlandese e cinema italiano,
io farei il cambio subito: soprattutto al
mattino, la sera non so più».
La fiera marginalità che fin dall’inizio ha contraddistinto Kaurismäki regista lo guida anche nella spigolosa
quotidianità, dove ha l’aria d’essere
solo un ospite di passaggio della vita
ordinaria, inafferrabile e astratto, erede dal vero del diletto Buster Keaton: «Il
mio modello nella superiore dignità
con cui affronta il mondo avverso».
L’acqua, per esempio, la grande nemica: non a causa, come si sospetterebbe,
della gradazione alcolica zero. «Vede la
scritta in piccolo sull’etichetta?», addita il cineasta, respingendo la minerale
italiana da tempo inghiottita da una
multinazionale. «La colonizzazione
commerciale è indicata a caratteri microscopici, ovviamente, ma in questo
io sono un campione di pointillisme:
nulla mi sfugge, a costo di trascorrere
ore nel fare la spesa, il che rende mia
moglie furiosa. Ma con me ogni etichetta passa sotto la lente d’ingrandimento».
Anche il continente nordamericano
è diventato per lui una piccola etichetta, ogni volta da svergognare: «L’autunno scorso, a promuovere nei festival statunitensi Miracolo a Le Havreho
mandato il mio attore André Wilms,
perché mi rifiuto di mettere piede negli Usa: non intendo piegarmi all’imposizione di controlli antropometrici
dell’identità, lasciando le impronte digitali in balìa della loro polizia». Già
dieci anni fa, aveva declinato l’invito
del Festival di New York dopo che era
stato rifiutato il visto ad Abbas Kiarostami: «Avevo risposto però con un biglietto: se il governo Bush non vuole saperne d’un iraniano, a maggior ragione non avrà nulla da spartire con un
saccio, nei film, occupandomi io stesso di mixarli nella sala di montaggio
che ho ricavato dalla mia casa a Karkkila». La sua oasi musicale, celebrata per
la pista di danza all’aperto dell’hotel
Oiva da lui diretto: «Adesso non più:
troppo stress. Ma per anni, d’estate, è
servito a diffondere, anche con dischi
da me prodotti, una rarità assoluta, di
cui mi vanto d’essere promotore e teorico: il tango finlandese. Si meraviglia?
Ho in Carlos Gardel un padre spirituale. Secondo studi recenti, era una marinaio finlandese, che la famiglia della
madre non ha mai voluto riconoscere.
Per anni ha trascorso le notti in un giardino pubblico a cantare sommessamente sotto le finestre i refrain del suo
Paese, prima che lo obbligassero a
prendere il largo. La leggenda vuole
che le sue lacrime abbiano fatto crescere un’enorme quercia».
Rimasta senza tanghi la pista estiva
dell’hotel Oiva, l’altra “discoteca” di
Kaurismäki continua a essere la berlina nordica fuori tempo massimo, arruffato bazar a quattro ruote di cartacce, riviste, casse di birra, libri e montagnole delle melodie finlandesi preferite, quelle di esasperante sentimentalismo di un amico crooner da poco
scomparso: «Le metto a tutto volume
quando, con moglie e cane, attraverso
l’Europa. Per rassicurare entrambi,
prima di salire e mettermi al volante,
faccio loro una dimostrazione con il
mio alcoltest portatile, di ferro nero.
Questo. Fa un po’ Kgb degli anni d’oro,
no?».
Mai nessuna lamentela dai suoi
compagni di viaggio? «Il miracolo della mia vita è stato incontrare mia moglie. È lei che dirige i cani nei miei film.
Dopo tre giorni che scrivo una sceneggiatura, lei bussa alla porta: “Aki, hai
preso in considerazione una parte per
il cane?”. Nel mio cinema si sono avvicendate cinque generazioni di quadrupedi. Li adoro, perché non fanno
mai critiche e non si perdono in inutili
analisi». Come nascono i timidi, impacciati, quasi afasici personaggi di
Kaurismäki, che in trent’anni, da La
fiammiferaia a Ho affittato un killer, a
Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato, hanno conquistato le platee? «Da
una passione confessabile: la letteratura. Ho sempre letto moltissimo, fin
da bambino: quasi un libro al giorno,
come una macchinetta. A Karkkila ho
più di cinquemila volumi, molti riletti
più volte. La mia vera mania, anche più
dei film, resta la lettura, da Kafka a Gogol, al vostro Tomasi di Lampedusa: Il
Gattopardo è forse il miglior libro di
tutti i tempi. La passione per il cinema
è cominciata più tardi, nel quartiere
operaio di Kurvi dove ho trascorso la
giovinezza: ero postino, mestiere che
mi permetteva di assistere alle proiezioni dalle tre del pomeriggio a mezzanotte. I quartieri periferici erano allora
ricchi di sale: andavo dall’una all’altra
spostandomi in tram. La mia preferita
era il Savoy, sede della cineteca: avevo
il mio posto fisso, al centro della prima
fila, mi si riconosceva dai capelli lunghi
e lisci alla Jean-Pierre Léaud di cui fin
da ragazzo ero un fan assoluto».
Da spettatore è poi divenuto esercente: «Quando ho cominciato con
mio fratello a rastrellare le sale di quartiere, per prima cosa le ho svuotate dei
distributori di pop-corn, riempiendo
gli schermi di film di rara distribuzione, come quelli dell’ancora sconosciuto Almodóvar, aprendo poi sotto i bar
del centro un altro cinema: quando
Helsinki ha esaurito le capacità di assorbimento cinematografico, ho calamitato le pellicole in Lapponia, al mio
Festival del sole di mezzanotte». «Let’s
Go» («Andiamo») è l’improvviso commiato di Kaurismäki. È il virgolettato
d’un altro film di leggenda: «Indovinato? Mucchio selvaggio, l’inizio della
carneficina».
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MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA
DOMENICA 8 APRILE 2012
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I sapori
C’è il capretto al forno e il pesce impanato, la zuppa
d’agnello o il dolce di grano. E poi naturalmente le uova
Di rito
In questi giorni di celebrazioni cattoliche, ebraiche e ortodosse,
che arrivano fino a sabato prossimo, ecco cosa si mangia nel mondo
Il giorno che la Terra diventa ovale
LICIA GRANELLO
C’
è chi serve il capretto al forno e chi il pesce impanato, chi non prescinde dalle erbe amare
e chi abbonda con l’uvetta nel pan dolce. La Pasqua degli altri assomma i sapori e i colori
del mondo, in nome di una celebrazione tutta da godere a tavola, laica o religiosa che sia.
Questione di ingredienti. Che dall’Europa al Nuovo Mondo coincidono con i diversi piani
di lettura della Pasqua: testimonianze di resurrezione e miti di fertilità, bandiere della primavera appena sbocciata e simboli del sacrificio più grande, il legame con la terra e la forza generatrice del mare. A partire dalle uova: non c’è Pasqua che possa prescindere dall’emblema della vita in fieri all’interno del guscio, con il suo carico di valenze simboliche,
come testimonia la novella secondo la quale Maria Maddalena, ammonita da Pietro al quale si era rivolta dopo la scoperta del sepolcro vuoto («Crederò a quanto dici solo se le uova
di quel cestello diverranno rosse»), le vide davvero arrossarsi e le portò all’imperatore Tiberio, per testimoniare l’avvenuta resurrezione di Cristo.
Molto più delicata la questione dell’agnello, “sacrificale” per antonomasia. La Pasqua
ebraica si chiama Pesach (dal verbo ebraico pasoah, passare oltre, da cui anche il nome italiano) in memoria della notte in cui l’angelo della morte uccise tutti i primogeniti egiziani,
“passando oltre” le case degli ebrei, marchiate preventivamente con sangue d’agnello. Da
allora, tra i cibi rituali della Pesach figura la zampa d’agnello arrostita. Una tradizione religioso-culinaria, estesa ai cristiani, che ha spopolato per molti anni, trasformando le varie ricette a base di agnelli e capretti in altrettanti “must” del pranzo pasquale. Per soddi-
sfare le richieste del mercato si è creata una catena alimentare collegata agli allevamenti
dell’Est europeo concentrata a inizio primavera, con migliaia di ovini lattanti stipati e trasportati fin qui per diventare i nostri arrosti della festa. Proteste, sensibilizzazione al problema e le proposte di ottimi piatti alternativi hanno fatto lentamente scendere i numeri
delle macellazioni, che l’anno scorso si sono fermate a quota 711mila. Ancora tante, ma
cinquantamila in meno. Per fortuna i dolci non richiedono altro sacrificio che la remise en
forme alla fine dei festeggiamenti. Ricotta e latte cagliato firmano le ricette più golose,
omaggio alla primavera e alla leggiadria dei suoi aromi. Questo infatti è il periodo in cui il
latte — quello serio, munto da mucche, pecore e capre ben alimentate e libere dal giogo
degli allevamenti intensivi — profuma della prima erba fresca, con la sua carica di micronutrienti. Un tesoro olfattivo e gustativo che si trasferisce pari pari nel
siero — dal cui riscaldamento si ottiene la ricotta — e nelle cagliate, primo passo della lavorazione dei formaggi, dove il gusto lievemente acidulo rinfresca i sentori grassosi del latte.
Visto che i giorni della Pasqua cattolica, ebraica e ortodossa
sono racchiusi nella settimana che corre fino a sabato prossimo,
saltabeccate allegri tra una ricetta e l’altra, deliziandovi con i piatti rituali, che in questi giorni mettono allo stesso tavolo qualche miliardo di persone. Alla fine, una fetta di colomba, pastiera o cassata
chiuderanno il cerchio. O meglio, l’ovale. Di cioccolato, of course.
Pasqua
con
chi
vuoi
Maghiritsa
GRECIA
Stufato
alla Guinness
IRLANDA
Cochinillo
asado
SPAGNA
Friture
de pays
FRANCIA
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La zuppa
che chiude
il sabato santo
è una minestra
di riso e cipolla
con brodo
d’agnello,
le sue frattaglie, uova
battute con succo
di limone e aneto
La bevanda
nazionale irlandese
firma il piatto
principe
della Pasqua:
controfiletto
a tocchetti,cipolla,
pancetta e un fiume
birra. Si serve
con salsa di lamponi
Tipico della Pasqua
castigliana,
il maialino cotto
al forno dopo averlo
cosparso di lardo
(lavorato con sale,
aglio e pepe nero)
e adagiato
su foglie
di alloro
La versione
francese
del nostro fritto
di paranza rallegra
la tavola pasquale
in alternativa
alle carni tradizionali,
soprattutto
nelle regioni
marittime
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