UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI
“FEDERICO II”
FACOLTA’ DI SOCIOLOGIA
Corso di laurea in Sociologia
TESI DI LAUREA
IN
SOCIOLOGIA DELL’ARTE E DELLA LETTERATURA
L’EVIRATA CANZONE
“Farinelli” e l’uso della “quarta voce” nell’opera occidentale
Relatore
Candidato
Ch.mo Prof.
Matr. 551/6428
Luigi Caramiello
Raffaella Di Bonito
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
1
INDICE
Introduzione
Capitolo I
Pag. 1
STORIA DELLA CASTRAZIONE
1.1
Dalle Origini al declino
Pag.
6
1.2
I castrati nella tradizione musicale occidentale
Pag.
12
1.3
Lo scenario musicale barocco
Pag.
18
Farinelli: vita di un evirato cantore
Pag.
27
2.1.1
Perché il nome “Farinelli”
Pag.
36
2.1.2
La città dei castrati: Napoli
Pag.
40
2.1.3
La scuola di Porpora
Pag.
44
2.1.4
Il rapporto col fratello Riccardo
Pag.
47
2.2
Il canto di Farinelli e il suo “gemello caro”
Pag.
51
2.3
Una leggenda per i musici successivi
Pag.
57
2.4
Il famosissimo incontro con Mozart
Pag.
61
Il film di Gerard Corbiau
Pag.
64
La critica al film
Pag.
69
3.2
I sopranisti moderni
Pag.
74
3.3
Il fascino di una voce d’altri tempi
Pag.
79
Capitolo II
2.1
Capitolo III
3.1
3.1.1
IL SIGNORE DEL PALCOSCENICO
LA “VOCE REGINA”: I MODERNI
Conclusioni
Pag. 84
Bibliografia
Pag. 90
Siti consultati
Pag. 94
Introduzione
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Il mio lavoro opera una riflessione di carattere sociologico su una pratica che
occupa un posto importante nella storia della musica e che ha una lunga tradizione
che risale agli antichi Sumeri: la castrazione.
Sviluppo questo tema in tre capitoli: nel primo racconto la storia della pratica, le
sue origini, iniziate nel periodo Neolitico come metodo per l’allevamento e la
domesticazione degli animali, sino ad arrivare al periodo dell’impero Ottomano,
quando tale pratica viene applicata anche agli esseri umani.
Racconto quindi degli Eunuchi, i guardiani dell’harem, impiegati anche in
importantissimi incarichi politici, civili o militari, in quanto la scelta di occuparli
in tali ruoli evitava cosi forme di nepotismo.
Concludo il primo capitolo con il primo declino della pratica castrativa, avvenuta
probabilmente nell’anno 1204 con la presa di Costantinopoli, per poi ricomparire
più di tre secoli dopo.
Nel secondo capitolo, quindi racconto la ripresa della pratica verso la fine ‘500
che si protrarrà fino alla fine dell’800, quando la pratica viene applicata agli
essere umani, ma non a persone adulte, bensì ai bambini di circa otto-dieci anni,
per arrestare il loro sviluppo sessuale e conseguentemente la muta della voce,
divenendo cosi Evirati Cantori.
Sviluppo questo secondo capitolo, raccontando la storia di questi bambinetti
indifesi, delle loro famiglie, del perché del loro infame destino. Ma soprattutto del
comportamento della chiesa nei confronti dell’impiego della pratica, dei gusti
musicali del secolo seicentesco e settecentesco, e di tutto lo scenario operistico ed
artistico barocco, che permettendo questo orribile scempio sono andati contro
quelli che sono i diritti dell’uomo. I diritti universali di inviolabilità del proprio
corpo, di inalienabilità, di piena consapevolezza delle proprie scelte e soprattutto
di libertà. Diritti che non possono essere subordinati a nessuna cosa. In questo
caso tali diritti sono stati subordinati dagli stessi uomini ad una pratica barbara
che ha condannato migliaia e migliaia di bambini. Una pratica assurda impiegata
per fini economici, nascondendosi sotto quel falso velo di servire l’arte e la
musica, e celandosi dietro quelle bellezze (le voci dei castrati) che riuscì a creare,
e che non sono assolutamente da rimpiangere. Voci dal timbro angelicato e
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sublime, voci mistiche e straordinarie, ma nate dal marcio. Il marcio che ha
soffocato il diritto. Quel marcio che ha negato l’essere bambini, l’essere uomini.
Racconto tutto questo, sulla scia della vita del più grande castrato della storia:
Carlo Broschi in arte Farinelli. Parlo della sua voce angelica e di quanta
sofferenza e “gloria” gli abbia provocato allo stesso tempo.
Parlo della scuola che frequentò, la scuola del grande maestro napoletano Antonio
Porpora, quindi racconto di Napoli come in assoluto la “città dei castrati”, dei suoi
quattro conservatori, dei sui personaggi come il principe di Sansevero Rimondo
Di Sangro o di Casanova, delle frivolezze di questa città e delle sue contraddizioni
viventi ancora oggi tra bellezza ed orrore.
Tutto questo alternando in un gioco continuo con la vita di Farinelli, delle sue
vicissitudini: alternanze tra momenti di tristezza e spruzzi di serenità ma mai di
felicità. Delle sue esibizioni nei più grandi teatri d’Europa e del mondo, dei suoi
continui spostamenti, del suo lungo soggiorno protrattosi per ventidue anni alla
corte madrilena nel 1737. Dei suoi rapporti più importanti, come quello col
fratello Riccardo, col maestro Porpora, con i compositori più importanti tra cui
Haendel, col grande poeta Metastasio che chiamava il suo gemello caro.
Chiudo questo secondo capitolo con la fine definitiva della pratica della
castrazione, accompagnandomi (anche se i periodi non coincidono) con gli ultimi
incontri di Farinelli tra cui uno dei più importanti fu quello con Mozart, che in
quel periodo era ancora un bambinetto prodigio pieno di speranze e di voglia di
ascoltare i consigli del grande maestro che con tanto amore e altrettanta durezza
gli regala nel salotto della sua villa di Bologna, luogo del suo definitivo ritiro e
della sua morte avvenuta nel 1782.
Il terzo ed ultimo capitolo invece è ambientato nell’epoca moderna, l’era dei
grandi metodi comunicativi e dei mass media. Questo terzo capitolo infatti è
diviso in due parti: una prima parte in cui mi accingo a parlare del film del 1995
prodotto dal regista belga Gerard Corbiau sulla vita del Farinelli, ed una seconda
parte dove discuto dei sopranisti e soprano moderni.
Per quanto riguarda la prima parte, essa è caratterizzata da una critica che faccio al
film in quanto non corrispondente e fedele alla realtà storica, ma allo stesso tempo
cerco di carpire le vere intenzioni del regista nel non essere veritiero, e di mettere
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comunque in risalto la sua bravura estetica ed esteta per quanto concerne i costumi
e le scenografie del film che invece riproducono a mio parere, in maniera
eccellente l’epoca barocca.
Nella seconda parte invece chiarisco le differenze tra i castrati e i falsettisti
controtenori del nostro periodo. E’ risaputa infatti la presenza ancora oggi di
moltissimi soprano uomo, o meglio sopranisti controtenori, che cantano con voce
opposta al loro sesso, e quindi con voce femminile, ma ciò non è dovuto alla
castrazione, bensì a delle loro patologie e malformazioni alla laringe o
all’apparato riproduttivo.
Racconto della loro inclinazione, assieme a molto soprano donna come l’italiana
Cecilia Bartoli, di rilanciare e nello stesso tempo riprendere e ricordare il
repertorio del barocco, repertorio scritto nella maggior parte dei suoi spartiti per i
castrati dai più grandi compositori seicenteschi e settecenteschi.
Espongo le mie opinioni e pensieri personali sulle somiglianze, ma soprattutto
sulle differenze tra le voci delle soprano e dei sopranisti soprattutto, e quelle dei
castrati.
Cerco di immaginare come queste siano state a loro tempo, avendo studiato la
struttura dalla quale fuoriuscivano: una cassa toracica da maschio adulto che
spingeva all’infuori questo suono infantile che diveniva acutissimo in modo quasi
sovrumano, cosa irriproducibile oggi. E pertanto molto differente rispetto a quelle
dei sopranisti moderni che non sono stati vittime dell’evirazione.
Cerco comunque di cogliere delle somiglianze tra essi e i castrati dell’epoca. In un
certo senso loro antenati. Somiglianze che ritrovo nella poca conoscenza su questo
tema da parte delle persone e del pubblico che ritrovandosi ad ascoltare il canto di
un sopranista moderno, pensa erroneamente di star ascoltando un castrato
barocco.
Tutto ciò si svolge appunto in un immaginario collettivo che si consuma da secoli,
in quelle che furono a loro tempo le curiosità, le fantasie, le idiozie, le credenze
assurde sulle figure dei castrati vittime di tale ignoranza, e ancora oggi in quelle
che sono le immaginazioni e le false convinzioni di parte del pubblico sulle figure
dei sopranisti contemporanei.
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Il fulcro centrale di tutto il mio lavoro comunque sta nel secondo capitolo, dove
dall’indice si evince che il periodo del barocco è stato il momento in cui tale
pratica è stata più impiegata, assumendo una piega artistica.
A differenza del primo capitolo, in cui mi limito a raccontare e descrivere eventi
storici realmente accaduti; e del terzo capitolo in cui espongo le mie opinioni
personali sul film e sull’impiego dei sopranisti moderni e di alcuni soprano donna
nel rilanciare il repertorio dei castrati, cogliendo cosi somiglianze e differenze con
questi ultimi, nel secondo capitolo tento di ricostruire la storia del grande castrato,
e di ipotizzare (studiando i vari eventi della sua vita), il perché di alcune sue scelte
(come “il perché” del suo lungo soggiorno a Madrid), e di come fosse il suo
rapporto col fratello Riccardo soprattutto, suo creatore in quanto suo carnefice.
Provo quindi a sperimentare, a cercare di capire con l’ausilio dello studio fatto e
dei libri letti, sulla sua persona e sul profondo del suo animo tormentato ed
afflitto.
La mia scelta infatti, di aver voluto intraprendere questo argomento, non è stata
una scelta casuale. Non si può essere casuali sulla scelta di un tema cosi specifico.
Mi trovavo infatti nei pressi del conservatorio di Napoli, reduce da una lunga
chiacchierata svoltasi all’università su quale sarebbe potuto essere l’argomento
della mia tesi.
Passando appunto per la strada del conservatorio, avendo frequentato varie volte
quel luogo nella mia vita, decisi che sarebbe stato meraviglioso da parte mia
scegliere un tema sulla storia della musica, cosi da fondere insieme le mie due
passioni: la sociologia ed il canto.
“E quale argomento in particolare” mi chiedevo “sulla storia della musica?”.
Stavo per abbandonare l’idea, quando pensai che un argomento c’era in me,
avendolo casualmente affrontato giorni prima durante un colloquio all’università:
gli evirati cantori. E cosi iniziai a raccogliere informazioni su di essi, sulla loro
storia e su quella della castrazione, notando che sulla castrazione di informazioni
ce ne erano, ma ben poco su quella dei castrati e delle loro storie più in
particolare.
Tutto su questi, era trattato in modo molto generale, risaputo, nei vari racconti e
descrizioni, mi sembravano tutti uguali. Ma non è cosi.
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Non ricordo precisamente come arrivai poi alla figura di Farinelli e alla scelta di
porlo come fulcro centrale del mio lavoro, dato che su di lui le informazioni
scarseggiano.
Avevo in mio possesso un intero libro che raccontava della storia di Porporino,
altro grande castrato, successore di Farinelli (si potrebbe dire), ma optai per
Farinelli, e non so come. Ma so per certo che mi ha affascinato molto la sua
misteriosità e l’oblio dal quale è offuscato. Un oblio che lui stesso si è creato non
avendo mai lasciato informazioni su se stesso. Quindi nonostante morto, ho
l’impressione come se fosse ancora vivo (almeno in me lo è), essendo stato capace
di aver smosso nella mia mente l’intenzione di ricordarlo e cercare di dare una
spiegazione a molti eventi e rapporti della sua vita, forse quasi a tutti. E di chiarire
e sfatare i miti costruitisi intorno a lui e a tutti gli altri castrati. Ma soprattutto il
mio intento è quello di lasciare un messaggio significativo su quelli che sono i
diritti, i nostri diritti che non ci possono essere tolti o negati, e che non esiste
nessun’altra forza superiore che possa soffocarli, che non c’è niente che sia cosi
importante o talmente bello, che possa giustificare la loro condanna. Non potendo
rimanere passiva alla sofferenza e alle ingiustizie che ha inflitto la castrazione ho
deciso quindi di farlo argomento della mia tesi e di affiancarlo al nome di
Farinelli, un personaggio, pensai, romanzesco quasi inventato, diventato oggi
leggenda, ma non per la sua voce, ma per il suo diritto negato al quale dovette per
forza rassegnarsi.
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Capitolo 1
STORIA DELLA CASTRAZIONE
1.1 Dalle origini al declino
La castrazione (dal latino castrare, “castrare”, parola imparentata anche col
sanscrito castram, “coltello”) è una pratica eseguita fin da tempi remoti per motivi
non sempre chiari, ma di norma a sfondo magico-rituale o anche come mezzo di
soggiogazione, schiavitù o genere di punizione. Il suo impiego risale agli antichi
Sumeri.
Ancor prima dei Sumeri, le prime evidenze di questa usanza si hanno nel
Neolitico, quando la castrazione era uno dei metodi per l’allevamento e la
domesticazione degli animali, un sistema che pratichiamo ancora oggi.
Ben presto, per i motivi sopra citati, venne applicata agli esseri umani. L’istituto
dell’evirazione per gli esseri umani ha caratterizzato un gran numero di società e
di culture umane in età antica: in Europa, Asia e Africa. infatti a partire dal primo
periodo dell’impero bizantino si sa dell’esistenza degli eunuchi. Il termine
“eunuchi” indica quegli uomini che furono sottoposti ad interventi di mutilazioni
parziali o totali in età prepuberale o puberale cosi da condurli ad un’impotenza,
come l’impossibilità di fecondare o di avere un erezione. In casi di evirazione
puberale, nella cultura islamica ad esempio, questi furono impiegati per compiti di
sorveglianza dei ginecei o degli harem (luoghi inviolabili), dai califfi o dai sultani
divenendo normale corredo di questi. Lampante è infatti
il significato di
“eunuco”, dal greco: eunouchos, “guardiano del letto”, composto di eune, “letto”,
e da echos “conservo”. Originariamente erano camerieri segreti dei principi
orientali e furono presenti anche in Grecia e a Roma con funzioni analoghe.
Nell’impero bizantino ricoprirono non di rado, funzioni delicate come quelle
politiche, civili, militari e religiose, cosi da evitare forme di nepotismo.
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Anche durante l’impero cinese furono impiegati alla cura dell’imperatore e della
sua famiglia, ma ottennero spesso anche cariche importanti nella burocrazia
imperiale. Se non bastasse, in quel tempo gli eunuchi ebbero la funzione di killer,
come accadde ad Artaserse III, re di Persia che nel 338 a.C. morì avvelenato da
un potente eunuco egiziano.
In casi di evirazioni prepuberali invece, furono impiegati per esaltare il registro
alto canoro. Nell’400 infatti l’imperatrice Elia Eudossia aveva un maestro di coro
eunuco, Brisone, che si presume, istituì l’uso dei castrati nei cori bizantini, anche
se non è noto se egli stesso sia stato un cantante.
Per quanto riguarda invece gli scopi religiosi, possiamo elencare un gran numero
di culti tra cui il più famoso è quello di Cibele che aveva il centro principale in
Pessinunte, in Asia minore. In seguito il suo culto passo in Grecia e specialmente
a Creta, sotto il nome di Rea. Il culto è collegato al mito appunto della Dea Cibele
(la parola vuol dire “caverna”) versione greca della Dea Madre anatolica, divenuta
poi la Magna Mater dei romani (dove fu venerata a partire dal 205 a. C. come
simbolo di fecondità). Era la Dea che aveva generato il cosmo, benché vergine.
Ma ciò non gli impediva di essere l’amante di Attis, suo uomo e figlio nello stesso
tempo, il quale in un primo momento aveva ricambiato il suo amore. Ma
successivamente si evirò, preso dal dolore e dal senso di colpa per aver giaciuto
con un’altra donna per giunta mortale. Nonostante il tradimento, la grande madre
lo perdonò tenendolo accanto a se come servo. Non è però da ignorare il fatto che
vi sono molte varianti del mito, ma la versione più conosciuta è comunque quella
che vuole che Cibele abbia ottenuto solamente l’asessualità del corpo di Attis. La
castrazione rituale, di origine antichissima quindi era collegata al culto della Dea
Madre e riguardava gli uomini che nelle società matriarcali si sottomettevano al
potere castrativo della Grande Madre in emulazione estatica di Attis: “scagliando i
loro attributi sanguinanti sulla statua della divinità” (Caramiello, 2009, p. 4).
Presso i sacerdoti di Cibele
l’automutilazione era praticata in entrambi i sessi,
nella convinzione che disponesse a un godimento superiore. Altri culti molto
simili a questo sono ad esempio quello di Artemide nell’mar Egeo, di Ecate in
Grecia, di Astarte e di Atargatis in Siria, di Milytta in Babilonia, di Osyride in
Egitto, che vede i custodi del suo tempio sottomettersi a tale sacrificio. Tutto il
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senso della pratica stava comunque in una trasposizione su un piano mistico del
soggetto, che rinunciava alla normalità umana in favore di un’anormalità che lo
metteva in contatto col divino.
Abbiamo detto tra l’altro che la pratica veniva praticata anche come punizione
degli adulteri e dei sacrilegi, ciò soprattutto in Egitto e in India, ed anche come
mezzo di soggiogamento. A questo proposito mi viene alla mente la castrazione,
accompagnata dall’asportazione del pene che dovette subire Pietro Abelardo.
Affascinante e famoso maestro alla scuola di teologia di Notre-Dame a Parigi, che
intrecciò con Eloisa (fanciulla di eccezionali qualità) una memorabile relazione
amorosa che ebbe tragica conclusione per opera di Fulberto, zio di Eloisa e
canonico della cattedrale di Notre-Dame. “Costui infatti lo fece evirare notte
tempo inviando dei sicari che entrarono nella camera da letto di Abelardo grazie
alla connivenza di un servo” (Mancinelli, 2004, p. 97). Con la morte di Abelardo
ci troviamo nell’anno 1142, e la castrazione si mantenne fino alla presa di
Costantinopoli nell’anno 1204. Dopo quest’anno la pratica cadde in disuso, per
poi ricomparire (senza precise ragioni) più di tre secoli dopo, nella seconda metà
del ‘500, e si manterrà per oltre 350 anni. Una castrazione del tutto “sacrosanta”
che fu praticata in Europa, e soprattutto in Italia, appunto fra il XVI e il XVIII
secolo e oltre: i ragazzi dotati di una bella voce venivano talvolta castrati perchè
potessero cantare in chiesa a causa probabilmente di una bolla pontificia nel 1588
con il Papa Sisto V che vietava di utilizzare cantanti donne, per l’esito non del
tutto soddisfacente che si otteneva sostituendole con bambini o con falsettisti,
inducendo cosi molti maschi alla castrazione per la sostituzione di queste.
Nascono cosi le voci bianche da una mutilazione sessuale tipica delle peggiori
ragioni.
Noto a parte che ai castrati (come agli uomini sterili) era vietato il matrimonio. A
tal proposito, famosissimo fu il caso del castrato Gaetano Guadagni che
presentando una richiesta per avere il permesso di sposarsi a sua Santità,
spiegando che l’operazione non fu eseguita bene, il Papa rispose: “che si castri
meglio!” (Fernandez, 2008, p. 109). Tale aberrante disposizione è stata abrogata
solo nel 1977 da Paolo VI. Infatti dal 27 settembre 1589, nell’avviare la
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riorganizzazione della Cappella Giulia, la bolla “Cum pro nostro pastorali
munere” ammette la presenza dei castrati nel coro liturgico in servizio a San
Pietro e, con ciò fa iniziare una prassi che determinò: “la vita normale delle
cappelle musicali a servizio della liturgia per i successivi secoli sino quasi ai
giorni nostri” (Cappelletto, 1995, p.164). Va da sé che la pratica della castrazione
venne cosi tacitamente ammessa, anche se mai legalizzata, dalla Chiesa al fine di
piegare la natura umana al servizio di Dio.
Il divieto vigente negli Stati Pontifici di far cantare le donne non fu applicato solo
in chiesa, ma anche in scena, e ciò favorì l’impiego dei castrati anche in teatro, e
fu proprio in campo operistico che essi ebbero grande diffusione e fortuna,
sebbene questa pratica restasse limitata all’Italia.
Per un certo periodo i castrati costituirono la maggiore attrazione di uno
spettacolo operistico per il timbro artificiale, astratto, che pur conservando la
penetrante chiarezza di quello infantile aveva però una diversa potenza ed
estensione. La tessitura e l’uso dei registri di testa e di petto erano diversi da quelli
femminili. “Inoltre il castrato spesso si dedicava con tutte le energie a
perfezionare la tecnica vocale, fino a conseguire risultati sbalorditivi, che
identificarono in questo tipo di cantante la massima incarnazione del bel canto”
(Cfr., Fernandez, 2008, pp. 75-77).
La chiesa ha avuto il ruolo principale nella storia dei castrati, ed è di estrema
importanza prendere atto e capire quali sono state le impalcature mentali che
hanno portato a fare scelte cosi orribili. Questo è infatti il momento in cui i
canonici sborsavano denaro alle famiglie dei ragazzi come guadagno per la futura
evirazione di essi, con piena soddisfazione di tutti tranne che dei diretti interessati.
Troppo piccoli per capire e per difendersi, condannati all’infelicità e spesse volte
anche all’umiliazione, non a caso vi sono stati casi in cui tali ragazzi cadevano nei
giri di prostituzione.
La castrazione veniva praticata con una profonda incisione all’inguine, dalla quale
erano estratti il cordone e i testicoli. I cordoni venivano strettamente legati prima
del taglio e, talvolta, bruciati, per evitare mortali emorragie dalle arterie
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spermatiche. Ad operare venivano chiamati, soprattutto, i norcini (macellai
specializzati nella lavorazione del maiale) e i barbieri. All’epoca non esisteva
anestesia; al più si stordiva il ragazzo con del laudano (tintura di oppio). La
mancanza di “bisturi” (se cosi possono essere chiamati) sterilizzati, provocava
infezioni e anche il tetano, che si credeva derivassero dalle sofferenze.
L’importanza e la diffusione dell’opera nella vita sociale settecentesca resero vani
per molti anni i divieti e le polemiche contro la castrazione. Uno dei tentativi di
abolirla vi fu, per volere di Benedetto XIV, che tentò di vietare la presenza di
castrati nelle chiese, ma la loro popolarità all’epoca era tale che un provvedimento
simile avrebbe avuto come risultato un drastico calo nella frequentazione delle
chiese. Il culmine di quest’assurda pratica e soprattutto dell’assurda posizione
ecclesiastica si ha verso la fine del secolo XVIII, con Benedetto XVI il quale
affermò che l’esclusione dei castrati dai cori liturgici fosse una grande perdita per
la chiesa e motivo possibile di irrequietudine popolare. Nonostante le varie
critiche che vennero fatte da numerosissime persone illuminate come il Muratori,
che si scagliarono con veemenza nei confronti di una prassi musicale cosi
sconveniente, non fu mai redatta una vera norma che la vietasse. Fra gli uomini
della chiesa vi era ormai il timore di perdere il favore delle masse popolari e
prendere posizioni chiare su molti punti delicati della questione. Vi era tra l’altro
una devozione male intesa nei confronti dei superiori che degenerava nel
servilismo e sfociava nella paura di non raggiungere i propri scopi di carriera, e
sfociando cosi nell’ipocrisia. Quell’ipocrisia che uccide e che annullava il vero
senso dell’evangelicità. Se qualcuno di essi tentava di uscire da quei peccati
mortali o di ribellarsi, veniva subito richiamato a prendere le posizioni originarie
sulla base di un’incondizionata fede, disciplina e sottomissione. La storia quindi
dei cantori evirati e della castrazione, è il segno di un’orrenda e squallida
conferma, di quanto il malgoverno ecclesiastico, ed anche di tutte le persone che
trovavano assenso in esso, possano aver compiuto. “Un’irresponsabilità tale nel
disprezzo dell’ uomo e di Dio che aboliva ogni critica fastidiosa” (Cappelletto,
1995, p. 164).
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Verso la fine del XVIII secolo, cambiamenti nel gusto musicale e operistico e
l’evoluzione dei costumi segnarono la fine per i castrati. Perdurarono però anche
dopo la fine dell’ancien règime. Con l’unità d’Italia nel 1861, la castrazione venne
dichiarata ufficialmente illegale (il neonato Stato italiano aveva adottato un codice
di leggi francesi che vietava espressamente una tale mutilazione). Nel 1878, papa
Leone XIII proibì l’ingaggio di castrati da parte della Chiesa; solo nella Cappella
Sistina e in altre basiliche papali il loro impiego sopravvisse ancora per qualche
anno. Nel 1902 Leone XIII ribadì il suo divieto, portando poi alla fine ufficiale
per i castrati che avvenne il 22 novembre 1903, quando il nuovo papa, Pio X,
promulgò un motu proprio sulla musica sacra. Tra le sollecitudini, in cui si legge:
“Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste
dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”
(Celletti, 1986, p. 112).
La castrazione quindi è stata una forma di violenza su bambini innocenti,
colpevoli di essere poveri e indifesi, mutilati nell’inconsapevolezza più assoluta di
cosa ciò comportasse per un ipotetico ed incerto guadagno, diritto ingiustamente
praticato su di loro proprio da chi invece avrebbe dovuto difenderli, ossia la
famiglia.
Di certo quello che sto per dire potrebbe (come suol dire) farmi uscire fuori
traccia, ma la barbarie storica che ho voluto trattare in questo velocissimo
excursus, non ci risulta poi cosi “estranea”. In forme diverse, è una pratica ancora
presente nella cultura di molte società. Mi riferisco per esempio all’infibulazione
per le donne, alla circoncisione dei maschi presso alcune culture africane, o in
posti come la Cambogia, Vietnam, Tailandia dove le ragazzine vengono messe al
bando: “nude, sventrate offerte nelle immagini. Collocate in un business
milionario di sporchi faccendieri” (Ackermann, 2011, p. 3), prostituite, per poi
dopo essere “ricucite” e rivendute “vergini” in quanto secondo “l’inumana
cultura”: le vergini fungono da elisir di lunga vita e giovinezza. Quindi mi
permetto di dire che è un’ ipocrisia scandalizzarsi o provare tenerezza soltanto per
quei bambini negati, i “castrati”. Ed è ancor più un’ipocrisia sentirsi appagati dal
“fatto” che tale pratica non la si usi più oramai. Esiste ancora. Ed è forse più
barbara di prima e non ha quella “piega artistica” come nel ‘700. Con questo mi
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permetto di fare una critica al musicista e compositore (ormai defunto) Igor
Stravinsky, il quale durante un dialogo con il papa Paolo VI, che chiedeva cosa la
Chiesa potesse fare a favore della musica, il compositore russo rispose: “Santità
restituisca alla musica i castrati!” (Cappelletto, 1995, p. 168). Vorrei dire che in
realtà è proprio questo che a me personalmente scandalizza: un’affermazione del
genere, fatta per di più da un musicista che (e non vorrei dirlo!), nel momento in
cui pronunciò tali parole, ha forse dimenticato per un momento il senso della
musica. La musica che ci eleva attraverso le naturali bellezze, e non ci fa
sprofondare ancor più nella barbarie dove già siam fin troppo sommersi, con la
creazione di bellezze invece artificiali, contro natura, orribili, orrende che hanno
inflitto molte, troppe sofferenze, per mano anche di molti compositori mediocri. E
quando uso il termine “mediocri” non mi riferisco solo ai vari compositori e al
loro modo di aver fatto musica a quel tempo, ma al loro modo sbagliato di averla
intesa, e soprattutto a quell’etica mancata di tutti coloro che ne assecondarono
l’uso.
1.2
I castrati nella tradizione musicale occidentale
I castrati raramente venivano chiamati con questo appellativo, più frequentemente
venivano usati i sinonimi di “evirati cantori”, “musici” o ancor più raffinatamente
di “quarta voce”, dopo le voci bianche, le voci femminili e le voci maschili.
I primi castrati, iniziarono a comparire in Italia alla metà del XVI secolo. Infatti
nel 1589, con la bolla Cum pro nostri temporali munere, papa Sisto V riorganizzò
il coro di S. Pietro allo scopo di ammettere castrati nella sua composizione. Nel
1599 entrarono ufficialmente nel coro della Cappella Sistina, i primi due cantori,
Girolamo Rossini e Pietro Paolo Folignato, tanto voluti dal Papa Clemente VII per
le “voci angeliche”. Il cantore evirato si distingueva in due tipi di registri:
sopranista e contraltista. Due tipi vocali dallo stesso registro vocale della donna
che segnarono un’epoca: l’Epoca d’Oro dei castrati. Le loro divennero le voci più
ricercate, impostate “su una potenza sonora della cassa toracica del maschio,
tirando fuori una possibilità acustica molto più al di sopra delle ottave di un
soprano donna” (Cfr., Caramiello, 2009, p. 3). Tali caratteristiche si dovevano al
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fatto che le corde vocali non avevano il normale ingrossamento portato dalla
sviluppo fisico, mantenendo allo stesso tempo ferma la caratteristica “stritola” ed
elastica di quelle dei bambini. La loro corporatura, a causa dello squilibrio
ormonale causato dall’eliminazione dei testicoli, si sviluppava enormemente senza
perdere anche qui, le caratteristiche del corpo infantile che permettevano di
sviluppare un fisico, affascinante, possente e dotato appunto di una capacità
polmonare davvero incredibile.
La caratteristica distintiva di tutta l’epoca barocca fu proprio la loro presenza, nei
teatri di tutta Europa, di quelle figure enigmatiche e misteriose che davano origine
al bel canto italiano: gli evirati cantori. Questi ultimi, inizialmente, come già ho
avuto
modo
di
sottolineare,
cantavano
esclusivamente
nelle
Cappelle
ecclesiastiche, dopo che Papa Sisto V proibì l’esibizione pubblica alla donna in
tutto lo Stato Pontificio (1588), suscitando tanto sbalordimento nei fedeli che
assistevano alla messa, rapiti dallo stupore che il loro canto provocava, a tal punto
che ogni volta che un castrato cantava in occasioni particolari in chiesa, la folla, in
estasi, si faceva sempre più numerosa alle funzioni liturgiche dando vita, molto
spesso, a vere e proprie crisi di massa.
Da qui alla loro presenza sulle scene teatrali il passo fu breve, mutando così la
facciata musicale d’Europa. Tra il 1600 e il 1640 le corti vollero i castrati in tutti
gli spettacoli lirici, e musicisti famosi come Georg Frederich Haendel, Claudio
Monteverdi e Giacomo Rossini scrissero ruoli per loro. Fin dalle prime opere vi
furono ruoli per essi, ma si trattava ancora di ruoli di sfondo, come quello di
Euridice nell’Orfeo di Monteverdi nel 1607. Al più tardi, agli anni Ottanta del
XVII secolo, però, essi avevano completamente accaparrato le “normali” voci
maschili nei ruoli principali, e mantennero il loro (ormai) “potere” per circa un
secolo.
A causa della popolarità e del successo dell’opera italiana nell’Europa del XVIII
secolo e degli inizi del successivo, cantanti come Baldassarre Ferri, Matteo
Sassano, Nicolò Grimaldi, Senesino, Farinelli, Gaspare Pacchierotti, Giovanni
Battista Velluti divennero i primi “divi” dell’opera, guadagnando somme
considerevoli e generando veri e propri fenomeni di adorazione isterica. La
concezione drammaturgica dell’epoca era basata sull’irrealtà , pertanto sempre più
15
spesso nei protagonisti (personaggi della mitologia o della storia romana) non vi
era alcun rapporto fra sesso e ruolo; i castrati dunque potevano interpretare sia
parti maschili che femminili, perché ciò che contava era la voce: l’organizzazione
rigida dell'opera seria favoriva le voci acute per la rappresentazione delle virtù
degli eroi (sebbene i castrati venissero anche spesso presi in giro per il loro
aspetto strano o la cattiva recitazione), mentre le voci maschili tradizionali del
basso e del tenore baritonale erano considerate troppo “realistiche” e perciò
volgari, poco portate al virtuosismo, e adatte solo a ruoli secondari o comici.
Quindi erano pochi i ruoli che corrispondevano alla figura dei castrati, infatti solo
quando furono impiegati nel ruolo dell’Orfeo nelle sue varie versioni, la scelta di
un musico per sostenere un ruolo maschile, non soltanto non nuoceva alla vera
somiglianza, ma si rivelava congruente alla particolare natura del personaggio,
alla sua più intima e profonda verità. In questo caso la voce di soprano non
comprometteva Orfeo, perché esso era al di sopra della natura: “Musico,
musicista: in quel ruolo il gioco di parole corrispondeva ad una verità profonda”
(Fernandez, 2008, pp. 259-260).
Questo è il periodo “d’oro” per i castrati, l’epoca barocca: con il passaggio dalla
polifonia alla monodia, nuovo genere in cui l’aria solista era in testa come mezzo
d’espressione, che si sarebbe ancora più accentuata con il successivo avvento del
melodramma. I castrati divennero quindi i protagonisti di uno dei momenti di
massimo splendore di quel genere e della storia della musica cantata in genere. Fu
proprio il melodramma che lanciò i castrati definitivamente fuori dal repertorio
solenne, ed anche lo sviluppo dell’opera seria, soprattutto nel periodo del grande
Metastasio, il quale era inzuppato di personaggi idealizzati, presi direttamente
dalla mitologia classica, e senza realismo, quel genere di “musical storico” (come
diremmo oggi!) sembrava fatto apposta per ospitare quei “mostri” di bravura dalla
voce potente, esseri in grado di arrivare con una sola presa di fiato dalle note gravi
del tenore a quelle acute del soprano, spesso con agilità in grado di risolvere gli
spartiti più difficili. Insomma, degli Dei scesi in terra per interpretare gli Dei del
cielo.
Come ho già detto, la loro presenza sul palcoscenico era dovuta alle esigenze
teatrali di un teatro e di una scrittura musicale che cercava (e trovava) nelle loro
16
abilissime capacità vocali e nel loro fascino neutro la via di mezzo per rendere
quella superiorità e quella astrazione adatti a far rivivere i numerosi eroi dell’età
classica. I castrati, ancora una volta col melodramma, divennero i padroni
indiscutibili del teatro musicale: per loro i compositori erano chiamati a comporre
le pagine più difficili e la loro presenza era richiesta in tutti i teatri più importanti
d’Europa con contratti da favola. “Basti pensare che nel 1737 il grande Farinelli si
vide offrire dal re di Spagna uno stipendio annuo di 50.000 franchi: rimase al suo
servizio per venticinque anni col compito di cantare tutte le sere le stesse quattro
arie” (Cappelletto, 1995, P. 62).
Diventati divinità del palcoscenico, i castrati cominciarono a vivere un lento
declino con l’avvento della riforma operata da Christoph Willibald Gluck.
Togliendo dal teatro musicale trame prive di fili logici e riportando i singoli
personaggi verso una posizione sempre più umana, conservando maggior
importanza per il senso del testo e escludendo ornamenti in più, la riforma operata
dal maestro pose i castrati ai lati del palcoscenico a favore di una “pulizia” vocale
che non poteva declinarsi in quelle voci incredibili e soprattutto in quei caratteri
capricciosi.
Inoltre, con il crescente successo del repertorio buffo e farsesco, che preferiva le
avventure quotidiane di servette svelte e furbi parrucchieri a quelle greche e
romane, il castrato venne pian piano lasciato al suo destino, diventando poco più
che un gioco da salotto, da esibire in belle occasioni di puro divertimento. Basti
ricordare che per interpretare giovani paggi o ragazzotti prestanti, i compositori di
nuova generazione (Wolfgang Amadeus Mozart in testa) preferirono ricorrere a
mezzosoprani “in travesti” piuttosto che ai castrati. Il “travesti” indica
l’interpretazione di un personaggio da un attore di sesso opposto. L’uso del
travesti ebbe grande voga all’inizio dell’Ottocento, quando, per “il morire” dei
castrati sulle scene dell'opera lirica, il loro ruolo di “primo musico” nelle
compagnie operistiche venne assunto in primo luogo da mezzosoprani o contralti,
alle quale ci si riferì con la denominazione di “contralto musico”, e le quali erano
in grado, sia di eseguire le parti scritte appositamente per loro, sia di riprendere
naturalmente i ruoli scritti in precedenza per castrati. Tale fenomeno riguardò
principalmente Rossini ed i compositori suoi contemporanei. Tuttavia, ancora agli
17
inizi del XIX secolo, i castrati trovarono ancora qualche penna disponibile: nel
1813 lo stesso Rossini scrisse il ruolo di Arsace nell’”Aureliano in Palmira” per
Giovanni Battista Velluti, l’ultimo grande castrato della storia.
I castrati avevano una preparazione perfetta e conoscevano ottimamente la
musica. Alcuni di loro però non arrivavano al successo e finivano nel giro dei
teatri d’opera di provincia, oppure diventando maestri di canto. Celebre fu il caso
di Girolamo Crescentini, grande evirato che calcò le scene più importati per poi
ritirarsi all’insegnamento diventando maestro di musica di Vincenzo Bellini ed
altre cantanti donne.
Inutile dire che i mariti preferivano per le loro mogli e figlie, insegnanti eunuchi,
che invece attraenti giovanotti freschi di conservatorio. A tal proposito va inoltre
precisato che raramente il castrato restava del tutto illibato all’atto sessuale. Si
hanno infatti notizie di evirati cantori sposati e dal noto appetito sessuale (fu il
caso di Caffarelli). Pare inoltre che facessero non poche vittime acchiappando
senza distinzione tra uomini e donne. Ma queste informazioni rimangono pur
sempre nel vago e nell’insicurezza storica.
A dispetto della loro condizione di star, i castrati dovevano affrontare risentimenti,
gelosie e perfino odio. I colleghi invidiosi e il grande pubblico disprezzavano la
loro neutralità sessuale, li accusavano di ammaliare gli uomini e non sopportavano
la loro arroganza e la loro vanità. Molti castrati erano famosi “farinielli,” con file
e file di spasimanti donne desiderose di giacere con un uomo che non le avrebbe
messe incinte e curiose di vedere come erano quei famosi genitali. Ma in realtà
essi avevano una modestissima capacità sessuale. Tutta questa attenzione
femminile, ovviamente, non migliorava l’immagine dei castrati presso gli uomini
sessualmente intatti. Tra i quindici e i vent’anni, dopo aver superato una serie di
prove, il castrato ben riuscito faceva il suo debutto nell’opera lirica. La sua
giovinezza, il fisico un po’ effeminato e la voce valente, gli conquistavano subito
la stima e il successo del pubblico. I fan lo perseguitavano, nobildonne e
nobiluomini si innamoravano di lui. Casanova descrisse così la sua impressione:
“Con un busto ben fatto, aveva la vita di una ninfa e, sembra quasi incredibile, il
suo petto non era per nulla inferiore, né per forma né per bellezza, a quello di una
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qualsiasi donna. Ed era proprio con questi mezzi che l’infame compiva tante
stragi” (Fernandez., 2008, pp. 143).
Nonostante i vari pettegolezzi sui quali ho voluto accennare una breve parentesi,
gli evirati cantori non erano e non sono famosi per questo, ma proprio per la loro
voce innaturale, angelica ma potente, che sembrava pensata apposta per lasciare i
fedeli “a bocca aperta” durante le esecuzioni delle liturgie, diventando un
magnifico strumento intermediario tra l’Uomo e Dio, in un primo momento e poi
calcando i palcoscenici di tutta l’Europa. Famosi in realtà per la loro sofferenza,
sia emergendo diventando appunto dei “grandi” della musica lirica, sia non
emergendo. Per me le ragioni per le quali i castrati erano e sono famosi ancora
oggi, si riferiscono a quella sofferenza che furono condannati ad avere, quella
sofferenza che aveva un’apparenza bella, meravigliosa, insuperabile che erano le
loro voci. Quelle voci che tutti ascoltavano con ammirazione, con stima ma che
nessuno invidiava e nessuno avrebbe mai voluto possedere. Forse perché in fondo
si sapeva che quello che fu fatto sul corpo di quei bambini era un delitto, una
violazione di quelle che sono le liberta, i diritti dell’uomo e dell’inviolabilità del
proprio corpo. Come era scritto nel Habeas Corpus Act già emanato nel XII secolo
e poi nel XVII, precisamente il 27 maggio 1678 proprio nel periodo in cui la
castrazione aveva già fatto numerose vittime. Poiché questa “meraviglia
musicale” aveva i suoi costi, in quanto vi furono casi di molti ragazzi uccisi da
operazioni non riuscite che venivano spacciate per incidenti, e una quantità
maggiore di ragazzi che non erano più in grado di fare una vita normale e
risultavano inadatti al teatro musicale. Non uomini e non donne, pochi di essi
arrivavano al successo: il sacrificio fatto non garantiva infatti una carriera. Ciò
dipendeva dalla qualità della voce, dall’esito dei pesanti studi e dalle capacità di
attore del ragazzo.
L’ Habeas Corpus (che tu abbia il corpo) non aveva insegnato niente, non era
bastato, perché barbaramente si era convinti che la castrazione non era un delitto,
non andava contro quelli che erano i diritti universali dell’uomo, perché questa
serviva l’arte, la musica e superava l’impossibile e non vi era niente di più bello.
Bugia. La verità è che quella bellezza aveva una solo compagno e non era la
musica, bensì l’orrore. La bellezza può convivere con l’orrore ma in questo caso si
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aveva il diritto di rifiutarla. I castrati non ebbero questa possibilità, e credo
fermamente che la chiesa che fu la prima carnefice di questi, e tutti i suoi “umili
servitori”, sapevano nel loro profondo che tale pratica era peggio di un delitto e
tacevano perché conveniva.
Chi se ne importava di quei bambini che una volta cresciuti si sarebbero trovati di
fronte una realtà che li avrebbe relegati per sempre ad una prigione, quella voce
che per quanto potente e bella sarebbe sempre stato meglio non averla. Quella
voce da Dio, da Angelo, cosi come venivano denominati per nascondere
probabilmente che i castrati erano in realtà Uomini ai quali fu negato il diritto più
importante, quello di aver vissuto nella piena consapevolezza delle proprie scelte,
nella più totale libertà. Niente può essere più giusto o più bello se annienta il
diritto umano della libertà, dell’inviolabilità.
La storia di questi interpreti è tra le più misteriose d’Occidente (soprattutto a
Napoli come ci descrive Dominique Fernandez): sotto gli occhi di tutti, eppure
nascosta, o avvolta nei meandri di un sentimento di imbarazzo, e malinconia,
oppure di una presa in giro, oppure, in altri casi, di un’ alienazione sino ad odiare
se stessi.
1.1
Lo scenario musicale barocco
Il termine “barocco” in campo musicale è utilizzato per classificare la musica
composta durante il periodo di diffusione del barocco nell’arte. Il barocco con
particolare riferimento alla musica si sviluppa a partire dagli inizi del seicento fino
(possiamo dire) alla metà dell’ottocento.
I principali compositori che oggi vengono considerati barocchi sono Bach,
Haendel e Antonio Vivaldi. Quindi il Barocco è un’esperienza europea che nasce e
si afferma contemporaneamente nelle principali culture: dalla Spagna alla
Germania, dall’Italia all’Inghilterra, all’Est. Vive di un’esperienza totale, nel
significato che interessa non soltanto la letteratura, ma le arti, la musica, il
costume e la mentalità. E contemporaneamente rappresenta l’anticonformismo,
ed anche la trasgressione, ed è proprio in quest’esagerazione che sta il motivo del
suo fascino.
20
Il limite maggiore del Barocco fu quello di volere a tutti i costi stupire e
impressionare, ricorrendo alla esasperazione nelle arti, e ad immagini irreali,
oppure affrontando le storie più improbabili, e bizzarre con un risultato che spesse
volte, l’arte barocca diventava solo esibizione di bravura (ciò lo dimostra appunto
l’impiego dei castrati in ruoli che non corrispondevano alla loro figura). La
musica, che non aveva alle spalle nessuna grande tradizione dalla quale
sciogliersi, trova nell’età barocca la sua nascita.
Senza però allargare troppo i nostri confini, vorrei attirare l’attenzione soprattutto
sulla prima metà del Seicento musicale sacro in Italia, con riferimento ai centri
più importanti della cultura musicale sacra di quel periodo: Roma e Venezia. La
scuola romana e veneziana, continuarono a fare la tradizionale musica liturgica,
con riferimento a quella del cinquecento. Musiche interpretate, secondo
quell’epoca, da quegli “angeli del canto senza sesso” (Cappelletto, 1995 p. 148)
che erano i castrati ( con o senza il coro di voci bianche dei fanciulli). Tale
impiego è anche soprattutto legato alle novità nel campo musicale che diedero
origine all’uso della monodia.
La chiesa non fece tardi a capire cosa avrebbe potuto essere la monodia per le
funzioni liturgiche, cosi che il cantore fu uno strumento di comunicazione di
massa, cosi da trasmettere (secondo la cultura del tempo) i valori evangelici in un
modo più vicino a Dio. La donna, che tranne nello Stato Pontificio si esibiva in
tutti i teatri di prosa e lirici europei, si trovò presto di fronte un forte rivale sulla
scena teatrale, l’evirato. La musica nel periodo barocco diventa un fatto di
costume, entrando a far parte della vita quotidiana a qualsiasi livello: aumentano
cosi i teatri che danno spazio ai sempre numerosi musicisti professionisti, ma
aumentano anche i musicisti dilettanti; non dimentichiamo che non esistendo
all’epoca nessun mezzo di riproduzione del suono si suonava spesso a casa o in
gruppo. Esisteva una vera e propria produzione musicale che si svolgeva anche a
casa, solo per divertimento. Ed è proprio da questo che nasce “la musica da
camera” in cui il ruolo dello strumento è sempre individuale, destinato quindi “a
consentire un’educazione vocale fra le pareti domestiche” (Battaglia, 1999, p. 5).
Ed è proprio questa prima forma di canto barocca che contiene la via per
apprendere il “recitar cantando” e non solo il cosiddetto “bel canto” degli evirati
21
nelle chiese. Da qui nasce cosi il melodramma (dal greco melos: “canto” e
dramma: “azione scenica”) detto anche opera lirica o, più semplicemente, opera, è
lo spettacolo in cui la recitazione teatrale si svolge attraverso il canto e la musica:
è una conseguenza della monodia accompagnata. Quindi esso nasce appunto a
Firenze verso la fine del XVI secolo ed è grazie al genio di Claudio Monteverdi,
che ha enorme diffusione in età barocca, affermandosi soprattutto a Roma, a
Venezia e successivamente (a partire dagli ultimi decenni del Seicento), a Napoli.
Spettacolo inizialmente riservato alle corti, e dunque destinato ad una cerchia di
intellettuali e aristocratici, acquista poi carattere di intrattenimento a partire
dall’apertura dei primi teatri. Nasce allora un gusto per la varietà delle musiche,
delle situazioni, dei personaggi, degli intrecci, mentre la forma dell’aria, dalla
melodia superba e occasionale di esibizione canora, dà sempre più spazio ai
dialoghi recitati, mentre il canto si fa sempre più fiorito. Si incomincia ad
utilizzare il termine “Belcanto” che generalmente designa “un tipo di vocalità a
sfondo virtuosistico o comunque rilevante per levigatezza e flessibilità di suono,
per l’impeccabile uso di mezze voci e smorzatore, per la proprietà dei legati, dei
portamenti e simili” (Battaglia, 1999, p. 6).
Per analogia si designano belcantisti i cantanti che si distinguono in un simile tipo
di vocalità. Questa astrattezza timbrica, elemento fondamentale del belcanto,
coincide con un altro aspetto del gusto musicale barocco e cioè una certa tendenza
all’ambivalenza sessuale. Il suo potere stava proprio nell’incarnare personaggi
femminili e maschili e di renderli credibili non attraverso il corpo dell’interprete,
ma grazie alla vocalità che li evoca. In definitiva, il belcanto, con la sua estrema
suscettibilità nei confronti dei suoni pesanti, metallici, caratterizza i ruoli in base
alla caratteristica del timbro e alle capacità virtuosistiche e non in base al sesso,
come avverrà quando il Romanticismo si farà promotore di istanze realistiche. Il
Belcanto richiede sia il virtuosismo sia l’espressione patetica a tutti i tipi di voce,
ma ritiene, perciò che solo le voci bianche degli evirati e delle donne abbiano la
malleabilità e la flessibilità necessaria ad una suggestionabile esecuzione sia degli
ardenti virtuosismi che delle melodie delicate che caratterizzavano le parti di
amoroso e di amorosa. Perciò mentre agli illuministi e, più ancora, ai romantici
sembreranno assurdi i personaggi di eroi e di amorosi incarnati da evirati o da
22
donne, il belcanto troverà altrettanto assurdo che cantino da amoroso le due voci
maschili del tenore baritonale e del basso, perché esse suonano pesanti, e non si
conformano con le melodie e con i sentimenti dell’amoroso.
Grazie alla diffusione del melodramma, i cantanti erano diventati una categoria di
persone ricche e famose; spesso la loro notorietà bastava a fare riempire un teatro
e trasformare la prima di un nuovo spettacolo in un sicuro successo. Anche i
compositori, del resto, esageravano spesso nell’uso di abbellimenti e di effetti
musicali, intenti a stupire e meravigliare il pubblico. Tutto questo andava a
sfavore della stessa comprensione dell’opera: spesso, infatti, il pubblico, distratto
dalla lunghezza di un’aria o di un duetto, che facevano vedere la bravura di un
cantante, “perdeva il filo” della vicenda. È appunto il caso dell’Orfeo di
Monteverdi “musico incantatore, raccontato con ricchezza di particolari”
(Delfrati, 1979, p. 106).
Contemporaneamente alla diffusione del melodramma nacque la figura dell'
“impresario”, che scritturava poeti, musicisti, cantanti, strumentisti, scenografi,
ballerini e organizzava la rappresentazione dell’opera. Tra l’altro, sempre verso la
fine del Seicento gli autori, per intrattenere e divertire il pubblico, cominciarono
ad inserire tra un atto e l’altro di uno spettacolo, gli intermezzi musicali, brevi
scenette che narravano in modo comico episodi presi dalla vita quotidiana. Questo
tipo di intrattenimento era molto voluto dal pubblico e, nell’arco di poco tempo,
diventò un nuovo genere teatrale: l’opera buffa. Rispetto all’opera seria, l’opera
buffa era molto più libera da schemi precostituiti: i compositori si rifacevano a
vicende legate alla vita di tutti i giorni che il pubblico capiva con maggior facilità,
riuscendo ad identificarsi nei personaggi. La nascita dell’opera buffa si deve
soprattutto al poeta Pietro Metastasio, che stabilisce una serie di canoni formali,
relativi all’impianto drammaturgico come alla struttura metrica delle arie,
applicando le cosiddette unità aristoteliche e dedicandosi solo al genere serio. La
scelta di Metastasio di escludere ogni elemento comico dal teatro musicale serio
determina la nascita dell’opera comica, dapprima in forma di intermezzo, poi
come opera buffa e dramma giocoso. L’opera lirica quindi è un dramma serio o
divertente, è un’azione scenica che ha uno svolgimento unitario; la musica
contribuisce molto a mettere in risalto i personaggi e a far capire i loro sentimenti.
23
Importante quindi è il ruolo del librettista. L’autore del libretto, il librettista, è un
letterato con una profonda esperienza teatrale e musicale: egli infatti deve saper
tenere conto non soltanto delle esigenze sceniche, ma anche di quelle musicali e
alternare in modo giusto i recitativi, ovvero le recitazioni cantate a verso libero, le
arie, cioè i brani melodici e a strofe, i duetti, i terzetti, i quartetti e i concertati,
ossia i brani per più voci e orchestra. I due elementi che stanno alla base
dell'intera opera sono il recitativo e l’aria. Nel recitativo, detto anche parlato
melodico, la musica è strettamente legata alle parole del discorso; è quasi una
recitazione cadenzata, che permette al pubblico di capire le varie situazioni della
vicenda. Nel recitativo, dunque, la parola è più importante del canto.
L’aria, invece, è un brano completamente cantato, molto varia e agile e che perciò
permette al cantante di manifestare la sua bravura. Nell’aria, la musica accaparra
le parole, in quanto è l’espressione musicale dei sentimenti dei vari personaggi.
Nasceranno successivamente sempre nel periodo barocco altre forme musicali;
stavolta però strumentali che hanno in comune col melodramma un solista
virtuoso come: il concerto grosso, il concerto solista, la suite, l’oratorio. Li
analizzo brevemente. La genesi del concerto grosso va cercata in una sorta di
espansione sonora della sonata a tre, e risale all’incirca alla metà del Seicento, e
venne messo a punto a Roma, verso gli anni ottanta del Seicento. Questa forma
musicale è formata da, un gruppo di solisti chiamato “concertino” o “soli” che si
contrappone all’intera composizione dell’orchestra, chiamato “grosso” o “tutti”.
Non una contrapposizione casuale, basata sul semplice contrasto di sonorità, ma
una calcolata divisione del lavoro: al “grosso” spetta il ritornello, al concertino i
momenti solistici, secondo l’ordine delle parti che verrà poi ripresa dal concerto
solistico. Il concerto solistico appunto (di solito si individua in Antonio Vivaldi
l’inventore del concetto di concerto solista) ossia lo stadio avanzato del concerto
grosso verso una forma musicale che prevede uno o più strumenti solisti ai quali è
data una partitura obbligata o una sezione (chiamata sequenza), dedicata
all’improvvisazione dell’esecutore. E da questo non dimentichiamo che una delle
principali caratteristiche del barocco era proprio quella di divertire, e ciò avveniva
tramite l’usanza dell’improvvisazione soprattutto il modo in cui lo facevano i
castrati.
24
La suite che si confonde con la pratica antichissima di accompagnare e sostenere
la danza con un numero più o meno elevato di voci o di strumenti. Ed infine
l’oratorio che era una forma musicale “drammatica”, che prevede la narrazione di
un evento sacro, con personaggi e dialoghi; tale genere non è destinato, però, alla
rappresentazione: viene cantato da solisti e coro immobili, senza scene e costumi,
ma con accompagnamento orchestrale. Veniva rappresentato in locali detti
“oratori”.
Nel Seicento si affermarono definitivamente strumenti già noti da tempo, come
l'organo, il clavicembalo e il violino. Organo e clavicembalo erano considerati
molto vicini: alcune pagine musicali erano scritte appositamente per essi, e spesso
gli esecutori erano in grado di passare dall’uno all’altro senza difficoltà.
Bisogna inoltre ricordare che la più caratteristica forma di accompagnamento
strumentale del periodo barocco prese il nome di “basso continuo”: era formata da
una successione di accordi suonati in modo continuo; inoltre il suono più grave di
tali accordi veniva poi anche intonato da uno strumento grave, in modo da
sostenere meglio gli accordi stessi, “anche perché con l’avvento delle varie forme
musicali e della musica per danza si senti la necessità di misurare la durata dei
suoni” (CFR., Carella, 1977, p. 11). Conseguenza di questa affermazione della
musica strumentale fu lo sviluppo nella costruzione degli strumenti stessi. Primo
fra tutti fu il violino, che si impose nei confronti degli altri strumenti ad arco
grazie anche ad abilissime scuole di liuteria soprattutto a Cremona.
Sono queste le forme musicali (e non solo) che porteranno al momento più
significativo della musica barocca, e non dimentichiamo al periodo in cui i castrati
furono più in voga assieme ai più grandi musicisti e compositori che vollero
scrivere per loro. Tra i numerosi autori di melodrammi ricordiamo: Claudio
Monteverdi e Giovanni Battista Pergolesi; per le composizioni strumentali:
Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Haendel, Antonio Vivaldi e Arcangelo
Corelli e Giacomo Carissimi. Nel Seicento, dominano la scena Arcangelo Corelli,
ritenuto il grande fondatore della moderna tecnica violinistica e Giacomo
Carissimi (1605-1674), organista, compositore di numerosi oratori. Tra Seicento e
Settecento Antonio Vivaldi, oltre a perfezionare la tecnica violinistica, compose
più di cinquecento opere strumentali: le più significative sono i concerti, che
25
hanno il merito di aver costruito le basi per la struttura del concerto moderno,
dando eccentricità alla parte solistica e stabilendo la classica divisione in tre tempi
(Allegro-Adagio-Allegro). Del primo Settecento è invece Giovan Battista
Pergolesi, autore di numerose opere tra cui spiccano lo Stabat Mater e
l’intermezzo comico “La serva padrona”. La vita musicale europea tra Seicento e
prima metà del Settecento però gira attorno alle grandi figure di Bach e di
Haendel, che incarnano splendidamente, sia nel carattere sia nella produzione,
l’ideale barocco a cui tutti i compositori del tempo fanno riferimento. Johann
Sebastian Bach, organista e clavicembalista di raro valore, è uno dei più grandi
compositori di tutti i tempi. Nell’arte perfetta di Bach si fondono tutte le
esperienze precedenti: la tradizione polifonica, la monodia, l’armonia, la moderna
tonalità. Georg Friedrich Haendel , autore di musica da camera e per organo e di
melodrammi, è noto soprattutto per uno dei suoi 23 oratori.
Verso la fine della prima metà del Settecento, Christoph Willibald Gluck
intraprese la riforma del melodramma, spogliandolo di tutto ciò che serviva da
pretesto per una pura esibizione di virtuosismo e facendo sì che musica e canto
esprimessero invece i sentimenti e la vicenda che si svolgeva sulla scena. In
sintesi la riforma e rivoluzione del teatro musicale di Gluck, si ripropone i
seguenti obbiettivi: 1 Il soggetto dell’opera deve essere patetico, tragico, terribile,
sublime, riferito a grandi eventi, a forti passioni a personaggi straordinari, secondo
la maniera greca, nei limiti della semplicità, della verosimiglianza e della
naturalezza applicabili ovviamente a una forma d'arte
ruotante attorno a
un’azione sola e coerente, non disturbata da interruzioni o divagazioni. 2 Delicato
il rapporto fra la poesia e la musica, che è un legame di necessità, la seconda è al
servizio della prima. 3 la musica è incaricata della resa sonora di questi elementi
letterario-teatrali: il canto deve astrarsi dalle esigenze puramente esibizionistiche
dei cantori e concentrarsi sull’espressione, gli interpreti devono essere appositi e
adeguati, con fedeltà al testo (quindi calma negli abbellimenti, nessun
cambiamento, nessuna aggiunta). 4 Il libretto non è richiesto di perfezione
letteraria o nei versi, bensì, di una generica musicalità, di una teatralità spoglia
efficace e varia nelle situazioni, e di una moralità esatta. Per quanto riguarda il
canto, la riforma di Gluck abroga tutti quelli che furono i capricci dei cantori, mi
26
viene alla mente il caso del Velluti. La leggenda racconta che Rossini, sconcertato
dai capricci di quel divo isterico sempre più ingordo di abbellimenti e virtuosismi
improvvisati, decise di scrivere per intero le parti da cantare per non lasciare più
liberi i cantanti di piazzare abbellimenti qua e là a loro capriccio.
Alla fin fine, la rivoluzionaria riforma di Gluck non è poi altro che la
“altolocazione” estrema del melodramma anche se in quel periodo, la
subordinazione di musica a poesia, ormai voleva dire subordinazione del
sentimento alla ragione; ossia una concezione che dà la priorità assoluta al
pensiero sulla fantasia, al simbolo sul fenomeno, con l’esclusione di tutti quegli
elementi che per loro natura sfuggono al controllo della ragione e si collocano
nella sfera dell’individuale. Insomma, nelle opere di Gluck si assiste quasi sempre
ad un’avventura intellettuale prima che musicale. Proprio a questo proposito
Gluck dice: “l’imitazione della natura, è il fine comune che si debbono proporre il
poeta ed il musico. Volli ridurre la musica alla sua vera funzione liberandola dai
superflui ornamenti; cosi pure tanto più d’efficacia accresce la musica alla poesia
quante volte all’una all’altra bene associata” (Parisotti, 2004, p. 6).
A partire della seconda metà del Settecento si assiste a un rinnovamento totale dei
valori artistici barocchi che culmina in quello che verrà definito periodo classico.
Massimi esponenti di questa nuova corrente musicale, caratterizzata dal trionfo
della forma sonata e della moderna sinfonia, sono Haydn e Mozart che più di altri
comprendono il bisogno di equilibrio artistico, inteso come supremo ideale
compositivo, e la necessità di riconquistare quelle regole fisse buttate via dagli
sconvolgimenti barocchi. Ma nonostante questa nuova ricerca, a mio parere mi
permetto di affermare il fatto che la musica abbia avuto la sua vera nascita e preso
una vera forma proprio in questo lunghissimo periodo barocco, il quale nonostante
gli sfarzi, gli eccessi, le trasgressioni ha lasciato davvero un segno nella storia
della musica. Proprio come il famosissimo squarcio sulla tela. Di certo come tutte
le cose, tutti i periodi prima o poi passano per lasciare il posto a momenti nuovi,
forse più moderni o più semplici o viceversa, certo è anche vero il fatto che
l’essenza barocca abbia continuato anche negli anni successivi a sopravvivere,
tramite anche quei cantori come il Farinelli oramai ritirati a vita privata. Con i
loro consigli i loro punti di vista e la loro eterna preparazione messa a
27
disposizione degli incontri che hanno continuato a fare poi con i compositori
successivi. Famosissimo è per esempio l’incontro tra Mozart e Farinelli (che
racconterò a breve nel secondo capitolo), il quale oramai vecchio, stanco e
malinconico, darà a Mozart, all’epoca dell’incontro ragazzetto prodigio, dei
preziosissimi consigli sulla stesura di una delle sue prime opere. Descriverò come
il piccolo Mozart ascolterà con ammirazione e massima considerazione il grande
maestro, sottomettendosi anche alle parole dure e alle piccole critiche, ma
grandemente costruttive che gli vennero fatte. Con questo ribadisco quanto
rimanga eterno il ricordo di quei cantori, punte di diamante della musica,
incastonati in quella “perla imperfetta” che tanto li rappresentava: il barocco.
28
Capitolo 2
IL SIGNORE DEL PALCOSCENICO
2.1 Farinelli: vita di un evirato cantore
Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, detto Farinelli, nasce ad Andria il 24
Gennaio del 1705 da Salvatore, compositore e maestro di cappella nel Duomo
della cittadina pugliese, e da Caterina Barrese. Salvatore Broschi era un grande
appassionato ed esperto di musica, tant’è vero che il duca d’Andria, appartenente
ad una delle più prestigiose famiglie napoletane, volendolo onorare, fece da
padrino al più piccolo dei suoi tre figli, Carlo appunto.
La famiglia Broschi, trasferitasi a Napoli fin dal 1711, manda Riccardo il
primogenito al Conservatorio di S. Maria di Loreto, dove si formerà come
compositore, mentre Carlo, protetto dalla famiglia Farina, famiglia di avvocati ed
amanti della scuola musicale a Napoli, viene introdotto presso il più famoso
maestro di canto napoletano, Niccolò Porpora, insegnante al Conservatorio di S.
Onofrio, già operista affermato in Europa, dal lui infatti si formeranno i castrati
Giuseppe Appiani, Felice Salimbeni, Gaetano Majorano, oltre a Regina Mingotti e
Vittoria Tesi, e appunto Carlo Broschi. La famiglia Farina pagherà le lezioni di
canto al piccolo Carlo subito dopo aver subito la castrazione.
L’episodio della castrazione del Farinelli è molto vaga. Non si hanno certezze sul
quando, e per mano di chi è stata fatta. L’improvvisa morte di Salvatore Broschi a
36 anni, il 4 Novembre del 1717, e la conseguente perdita della sicurezza
economica della famiglia, potrebbe essere stata la causa della decisione
29
dell’evirazione di Carlo, allora dodicenne e quindi prossimo a cambiare voce.
Quella voce dalle doti promettenti, che sarebbe potuta essere la soluzione ai
problemi familiari, con l’ingresso dell’adolescente nel mondo dei castrati, le cui
carriera per tutto il XVIII secolo saranno garantite dal loro impiego come cantori
nelle funzioni liturgiche e dalla produzione musicale-oratoriale della Chiesa, e
soprattutto dall’egemonia italiana del melodramma in tutto il mondo. Ma
considerando i vari racconti, la decisione di sottoporre il piccolo Carlo
all’operazione, fu presa dal fratello maggiore Riccardo, ormai passato a
capofamiglia. Quest’altra versione è quella secondo cui Riccardo, fanatico della
composizione, volle che Carlo mantenesse per sempre pura la sua voce, e che in
futuro cantasse le sue arie. Si racconta infatti che un giorno Riccardo avendo
somministrato dell’oppio a Carlo, già gravemente ammalato, approfittò dello stato
di incoscienza di quest’ultimo e lo castrò, sommergendolo poi in un secondo
momento in una grossa tinozza di latte. Questa è la versione più sicura che non
vede i problemi economici familiari la causa di tale decisione, ma la follia del
fratello, che per i suoi slanci artistici e mediocri, vedeva nella voce di Carlo la sua
e la loro fortuna, quale la fama ed il successo.
Da quel momento in poi, Carlo Broschi è ammesso alla scuola di Niccolò
Porpora, conquistando tra 1717 e 1720 (l’anno dell’esordio come cantante nella
serenata Angelica e Medoro di Metastasio a Napoli), un ruolo di primo piano tra
gli evirati allievi del maestro napoletano, e a 15 anni, si avvia ad una delle più
straordinarie carriere nella storia dell’opera italiana che lo porterà prima in tutti i
più importanti teatri italiani, poi successivamente anche a Vienna, Londra, Parigi,
ed infine a Madrid. Da questo suo primo ed indimenticabile debutto parte una
fortissima relazione amichevole, quasi fraterna con il poeta Metastasio che durerà
fino alla morte. Dopo l’esordio, nella parte secondaria di Tirsi nell’Angelica di
Metastasio, Farinelli prosegue i suoi studi con il Porpora, e due anni dopo, nel
1722, a Roma al Teatro Aliberti è protagonista in “travesti” (secondo la
disposizione della chiesa che vietava alle donne la presenza sulle scene), nella
Sofonisba di Luca Antonio Predieri. Le doti eccezionali della vocalità musicale
impareggiabile di Carlo Broschi Farinelli quindi emergono proprio in questo
periodo, da vero e proprio professionista del canto. Particolarmente significativa è
30
la testimonianza del flautista, compositore e teorico della musica Johann Joachim
Quantz: “Farinelli possiede una voce di soprano penetrante, piena, brillante e ben
modulata, che si estende dal la2 fino al do5. “L’intonazione era chiara, il trillo
bello, straordinario il controllo del fiato, agilissima la sua gola, così che poteva
coprire anche gli intervalli più ampi con la massima facilità e sicurezza”
(Cappelletto, 1995, pp. 15-16). Famosissimo infatti è l’episodio di una celebre
contesa tra lui ed una tromba. Si racconta infatti che durante una serata prima
dell’inizio dello spettacolo, Farinelli si mise a gareggiare con un bravissimo
trombettista. Ambedue emettevano una nota, per dar prova della forza dei loro
polmoni tentando di superare il rivale in vivacità e potenza. Allo strenuo della
gara, il trombettista esausto e convinto che anche il suo rivale lo fosse altrettanto,
perse, con il risultato che quella sfida divenne un’attrattiva irrinunciabile per il
pubblico.
Questo appunto per dire che Farinelli possedeva una voce forte il cui appoggio
stava proprio nella forza dei suoi polmoni, della sua capacità tecnica che gli
permetteva di estendersi dal suono più grave al suono più acuto con massima
facilità. Sono quindi gli anni romani a dare a Farinelli la fama ed il successo,
soprattutto per la sua partecipazione anche in molte opere del maestro Porpora
come ad esempio: Berenice regina d’Egitto, Eumene, Flavio Onicio Olibrio,
Semiramide regina dell’Assiria e l’Adelaide.
A Farinelli verranno da questo momento in poi assegnati ruoli di primo piano.
Tuttavia la collaborazione di Farinelli con Niccolò Porpora, intensa tra il 1722 e il
1724, tra Roma e Napoli, va rarefacendosi, probabilmente per l’impiego da parte
del compositore, degli altri sopranisti della sua scuola: il Caffarelli soprattutto, il
Salimbeni e l’Appiani, ma anche di Giovanni Carestini. Peraltro, gli anni
compresi tra il 1726 e il 1729 sono assai densi di impegni per il sopranista, che,
calca le scene dei teatri italiani, da Parma a Milano, da Roma a Bologna. Qui
Carlo Broschi entra in contatto canoro con il famoso e più anziano castrato
Antonio Maria Bernacchi, non riuscendo nell’occasione a dimostrare ai bolognesi
la sua superiorità canora e virtuosistica, ma conquistandosi l’amicizia del rivale:
“si accorse Bernacchi di esser provocato...e feceli sentire che egli non era ancora a
tempo di eguagliarlo, non che di superarlo” (Cappelletto, 1995, p. 17 ). Come
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affermarono i suoi biografi tra cui Giovenale Sacchi, Johann Joachim Quantz,
Charles Burney e Giovan Battista Marini, che a quel tempo nonostante la
grandezza canora di Farinelli, egli era ancora un musico giovinetto che studiava,
e questo può aiutarci a comprendere le fasi del progressivo cambiamento del
sopranista non solo nello stile del suo canto ma anche nell’intera impostazione
artistica e culturale: “Egli studiava, come tutti i musici fanno, di eccitar
meraviglia, e di porger diletto al senso materiale dell’udito più che all’animo;
cercava il difficile più che il bello, e amava di far ostentazione della voce, e
dell’arte (Sacchi, 1784, p. 225).
Tra il 1729 e il 1732 Farinelli arriva a Vienna dove ha un importantissimo
incontro con il Re Carlo V che chiude la lunga fase dei successi. Oramai il
sopranista è sulla scena da più di dieci anni, e nonostante la giovane età, 27
primavere, si può considerare per successo, affermazioni e fama conseguite, un
veterano del riconoscimento del pubblico ruolo come cantante tra i più richiesti
nel teatro dell’opera italiana.
A Vienna il cantante si esibisce a corte, testimonianza di questo evento fu una
lettera inviata al conte Sicinio Pepoli proprio dal Farinelli, tra le cui righe scrive:
“Sabbato se ietta lo biso”: sabato dovrò togliermi la maschera (Vitali, 2000, P.
171). Tale affermazione sta proprio a significare che stavolta l’artista non si
esibirà su un palcoscenico teatrale con uno dei suoi costumi sfarzosi, bensì “in
borghese” alla corte del Re Carlo. Ma di certo anche qui non mancò l’occasione
teatrale che ben presto arrivò: alla Cappella imperiale con l’opera “Sedecia” nel
ruolo appunto di Sedecia, e nella “Morte di Abel” nel ruolo di Abel, ambedue di
Antonio Caldara. Ritorna per un breve periodo in Italia dove il suo successo
oramai è di casa, per poi iniziare una lunga esperienza londinese (anche questa
molto importante) dal 1734 al 1737. Arriva proprio durante la stagione operistica
della compagnia rivale di Haendel.
Anche sul rapporto tra il compositore Haendel e il sopranista Farinelli, sono state
costruite un sacco di leggende se non pettegolezzi. Si racconta infatti di una
rivalità tra i due artisti. In realtà dalle varie documentazioni pervenuteci, è stato
chiarito che tale rivalità non è quasi mai esistita, e la causa che ha fatto pensare
invece che tale inimicizia esistesse, è stata l’espulsione (per varie vicissitudini), di
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Haendel come direttore artistico dal Teatro della Nobiltà, che vedrà
successivamente Porpora al suo posto.
La compagnia di Porpora però non ebbe molto successo al teatro inglese, fin
quando non fu scritturato Farinelli, che si esibì per quella compagnia anche
nell’Ottone haendeliano, ma non cantò mai sotto la direzione di questo. Sono state
quindi, pure e semplici casualità dovute all’appartenenza dei due artisti a due
teatri diversi: Farinelli al teatro della Nobiltà ed Haendel spostatosi al Convent
Garden.
Si può dire quindi che la rivalità stava nella direzione dei due teatri, quindi tra
Porpora ed Haendel. La lotta continuò fino a quando dopo il fallimento di Haendel
avvenuto per la scelta di Porpora di scritturare il Farinelli, decise di sterzare per
l’Oratorio.
Su Farinelli si può dire che avrebbe avuto la possibilità di lavorare con Haendel,
ma la sua scelta di optare per il Teatro della Nobiltà non fu obbligata, nè dovuta a
ragioni di astio nei confronti del compositore tedesco, semplicemente se la
precluse negandosi la possibilità di entrare in contatto con un autore che proprio
in quegli anni conosceva una fase di rinnovamento. Nel 1737, stanco dalle
incessanti rivalità che opponevano i due gruppi teatrali, Farinelli, accettò l'invito
che aveva appena ricevuto da Isabella Farnese, moglie di Filippo V di Spagna, ma
prima di ritirarsi alla corte spagnola sotto la protezione del monarca, il cantante
soggiornò qualche tempo anche a Versailles, presso la corte di luigi XV dove si
esibì in vari concerti.
A Madrid risiedette per molti anni, divenendo l'idolo incontrastato del re Filippo V
a servizio del quale svolse molteplici ruoli da quello di cantante a quelli di
impresario, direttore teatrale e persino segretario particolare. Aveva 32 anni il
Farinelli quando decise di trasferirsi a Madrid. Quei ventidue anni che scelse di
trascorrere alla corte spagnola, si occupò di curare l’ipocondria del Re Filippo V,
il quale soffriva di una forma di schizofrenia maniaco-depressiva non priva di
attacchi e crisi deliranti. La regina Elisabetta Farnese, ebbe una grande intuizione
nel pensare che solo la voce di Farinelli potesse curare la patologia che a
quell’epoca veniva identificata come una forma di malinconia. Tant’è vero che il
re non poté più fare a meno della voce angelica del cantante, il quale fu costretto a
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cantare sempre le stesse quattro arie ogni sera per farlo addormentare: “Mi bevo
tutte le sante sere otto, nove arie in corpo” (Cappelletto, 1995, p. 59).
Elisabetta Farnese aveva molta attenzione per la salute del marito, per il quale
dato il suo stato psichico non molto stabile, rinunciare al trono era diventato
un’azione abituale. La prima volta che abdicò infatti, il titolo di monarca passo a
Luigi, nato dall’unione con la sua prima moglie, la Principessa sabauda Maria
Luisa Gabriella. Ma luigi non fu Re per molto tempo a causa del vaiolo. Stando la
possibilità di poter ancora abdicare, il trono sarebbe poi passato a Ferdinando VI,
fratello di Luigi. Nato dall’unione con Elisabetta Farnese era invece Carlo III, che
grazie al progetto della madre riuscì a diventare Re.
Farinelli ebbe la possibilità di vivere i primi due troni, quello di Filippo V e del
figlio Ferdinando VI, ipocondriaco anche quest’ultimo. La musica era una delle
sue passioni e proprio Ferdinando VI fu il più grande e generoso tra i protettori del
celebre cantante evirato napoletano Farinelli la cui voce era in sintonia con il
carattere malinconico del monarca. Il Farinelli divenne a tal punto influente e
ricco che chiunque avesse avuto bisogno di un favore dal sovrano doveva
rivolgersi a lui se voleva ottenerlo, pur mantenendo ad ogni modo un equilibrio di
onestà raro per quei tempi. Fin quando non giunse Carlo III presso il quale non era
gradito, ed allora decise di lasciare Madrid: raggiunse subito Napoli ma presto si
trasferì a Bologna (1761) e nella villa splendida che si fece costruire intrattenne
amichevoli contatti coi più prestigiosi personaggi della sua epoca.
Si spense il 16 settembre 1782, qualche mese dopo il suo amico Metastasio,
lasciando una collezione d'arte e di strumenti musicali che fu sfortunatamente
dispersa dai suoi eredi, tra cui un violino di Antonio Stradivari che è citato nel suo
testamento.
Rimane tuttavia difficile capire il perché Farinelli decise di abbandonare le scene
nel pieno del suo successo, e di privarsi della possibilità di cimentare la sua voce
in nuove opere o nuove invenzioni musicali cosi da accrescere la sua carriera.
Forse in realtà quella vita gli stava stretta, essendo la conseguenza della sua
negazione più grande. Questa è l’unica ragione più logica in quanto non sembra
nemmeno che fosse interessato alla ricerca di soddisfazioni diverse come la
politica. In realtà presso la piccola cerchia della famiglia reale di Spagna, egli fu
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solo una pedina nelle mani di Elisabetta, che grazie alla sua voce, riuscì a
persuadere il marito a non abdicare cosi da compiere il suo “scacco matto”.
Non riesco a credere però che Farinelli non abbia capito la falsa amicizia della
scaltra regina. Forse nella scelta di rinchiudersi nella monotonia della corte di
Spagna, vi era anche un bisogno più alto da parte del sopranista, qualcosa di
moralmente più nobile rispetto alle rappresentazioni teatrali, che desse un senso
alla sua vita e non a quelle dei compositori, quale poteva esser per lui una
missione salvifica.
E se posso aggiungere, a mio parere penso che la sua scelta sia stata la prima
forma di musicoterapia, un modo di curare le diverse forme di insicurezza,
ipocondria, depressione, che sta acquisendo molta considerazione nel campo delle
scienze mediche-curative oggi.
Il suo quindi è stato un modo di sopravvivere a se stesso, ponendo l’arte della
musica e del canto su un piano diverso, più “etico”. Ecco si, il suo obiettivo forse
fu quello di mandare un messaggio implicito, ossia quello di riportare la musica
ed il canto al suo posto originale, come forma di arte che ci eleva, ci migliora, ci
appassiona, ci emoziona, ma soprattutto ci fa vivere guarendo, e non “vivere
morendo” allo stesso tempo. Cosi visse Farinelli, morendo allo stesso tempo. Non
essendosi mai sentito un uomo a tutti gli effetti, non potendo avere la possibilità di
“piacevoli notti oscure” (Cappelletto, 1995, p. 146). Privato quindi della
possibilità di crearsi una discendenza che portasse avanti il suo nome e che
conservasse tutti i suoi tesori, come le tante tabacchiere, simbolo di souvenir dei
tanti luoghi presso i quali ha fatto ascoltare la sua ugola d’oro.
Di lui resta solo qualche bel ritratto e le lettere che aveva inviato ai suoi amici che
lo pregavano di redigere le sue memorie ed ai quali aveva risposto: ”A che pro?
Mi basta che si sappia che non ho avuto pregiudizi su nessuno, che si aggiunga
anche il mio dispiacere di non aver potuto fare tutto il bene che mi sarei
augurato...” (Celletti, 1986, p. 80).
Malgrado la leggenda che alleggia intorno a lui, Farinelli resta un personaggio
relativamente misterioso. Forse è anche per questo che è stato dimenticato, come
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sono stati dimenticati tanti altri evirati cantori che con le loro voci hanno superato
dei “confini” naturali che molti di loro non avrebbero mai voluto varcare, come
appunto il Farinelli che soffrì fino alla sua morte di solitudine e malinconia.
Dimenticati anche perché quando parliamo di musica , siamo soliti pensare alle
arie dei più grandi compositori come Mozart, Beethoven, Bach, Hendel e molti
altri, dimenticando i registri e le voci per le quali le loro musiche sono state
scritte. Cosi facendo si commette un errore imperdonabile, in quanto ad ogni
singolo spartito corrisponde un tipo di timbro, un colore, una sfumatura, ma
soprattutto una personalità ed un’anima Ciò che trasmette e ciò che da essa
traspare. La voce cantata è lo strumento-mezzo più diretto attraverso il quale
vengono proiettate verso l’esterno tutte le emozioni e gli stati d’animo di una
persona. E’ attraverso le sensazioni che ci vengono trasmesse che impariamo a
conoscere il cantante o anche il compositore e tutte le sue pulsioni nascoste o
manifeste, o represse o imprigionate. Forse Farinelli non ha voluto scrivere le sue
memorie proprio per questo: far morire le sue emozioni con lui, essere
dimenticato di proposito cosi da trovare quella pace tanto sognata, tanto desiderata
attraverso l’oblio.
Non avremmo mai la possibilità di riascoltare la sua “voce angelica” cosi come
veniva definita, ed a pieno non potremo capire ciò che provava, come non lo
capiva la maggior parte del pubblico che lo ascoltava, in quel periodo di grandi
sfarzi e lussi, quando il “castrato” era solo un essere particolare, un diverso. Forse
un Dio o forse un Demonio, un perverso, attorno al quale sono stati costruiti
tantissimi miti. In realtà la “perversione” stava solo nell’uso di quella pratica per
fini economici, per arricchire le famiglie, oppure per portare alla fama quei
compositori mediocri come lo stesso fratello del Farinelli: Riccardo Broschi, suo
“creatore” in quanto suo carnefice.
Tutti coloro che hanno voluto portare la propria “mano” a tanto, hanno cercato di
imitare il creatore, con la differenza di infliggere sofferenza e non di certo gioia.
Come ho già detto precedentemente, poco si può dire dello stato d’animo degli
evirati, ma tanto si può dire invece di quello dei loro maledetti boia: egocentrici,
egoisti, egotisti. Sempre e solo il loro ego, mai quello degli altri. Mai quello di
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quei poveri bambinetti negati, impiegati come vere e proprie macchine per
cantare, negati della loro felicità, per la felicità degli altri. E non pochi furono i
casi di molti senza talento, destinati a cadere nell’area del rimosso collettivo.
Il mio paradosso ora, e forse anche la mia incoerenza sta nel dire che Farinelli fu
fortunato. Stando a quanto scrive Burney citato nel libro di Bouvier: “la voce di
Farinelli non era soltanto di prodigiosa agilità, tanto da poter competere con un
clarino, forte e di grande estensione, ma si piegava all'espressione degli effetti con
toccante tenerezza” (Bouvier, 1943, p. 132). Egli possedeva una fenomenale
estensione vocale, una grande versatilità nei vari stili del canto, un’eccezionale
tenuta di fiati, un trascendentale virtuosismo e grandi doti di attore.
La sua figura quindi è la dimostrazione di un connubio tra bellezza e sublimità.
Per di più, non aveva mai ceduto alla moda dei capricci che tutti gli evirati cantori
seguivano. Si distinse quindi da tutti gli altri non solo per la sua grandissima
capacità artistica, ma anche per la sua umiltà e la sua serietà: “una bravissima
persona”, “un grande professionista”, diremmo oggi. Un vero e proprio esempio
di vita, non solo per chi auspica ad emergere nel campo musicale, ma per tutti
quelli che dovranno debuttare nella vita. Essere pronti ad ammettere i propri
limiti, restare con i piedi per terra, non avere slanci di superiorità, capire che il
mondo ti può schiacciare da un momento all’altro. Il mondo di Farinelli era il
pubblico, il più passionale degli amanti, ed in quanto amante aveva la possibilità
di amarlo o di odiarlo a suo piacimento. Il mostro terribile che si impossessa di te,
dal momento in cui ti entra da sotto le unghie e ti avvelena pian piano, portandoti
ad annullare te stesso, a causa della paura di fallire, per la paura che possa esserci
un altro migliore di te, per il terrore di credersi più grandi di quanto effettivamente
si è. Quanti artisti abbiamo visti fare “questa fine”, e quanti ne vediamo ancora
oggi. Farinelli fu un genio, aveva intuito cosa fosse il successo, la fama, la stima
degli altri: tutte cose che prima o poi passano, e bisogna esser pronti a lasciarli, o
ancora meglio a mandarli via prima che questi prendano il sopravvento su di te.
Farinelli aveva già subìto fin troppe sofferenze, per poter subire anche la sua
decadenza artistica, cosi che lascio prima, molto prima. Ed involontariamente,
senza neanche saperlo, lasciò qualcosa in sospeso, di non finito, che lo rende
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ancora eterno oggi.
Infatti nel 1998 si è costituito a Bologna il Centro Studi Farinelli con il proposito
di ricordare la figura del grande artista promuovendo varie manifestazioni e
organizzando spettacoli in cui vengono riproposte le più famose arie che furono
da lui cantate. Di certo è impossibile poter raggiungere lo stesso risultato
raggiunto dal grande evirato a suo tempo. Ma tali manifestazioni sono degne di
grande stima e di considerazione, poiché sono modi per poter far rivivere la
musica di quel tempo, cosi minuziosa e meticolosa nella composizione e
nell’armonia. Potrebbero essere dei modi per rieducare la musica alla
strumentazione e all’orchestra, visto che oggi questo sta incominciando a morire.
Oltre ad organizzare spettacoli in onore del sopranista, il centro studi di Bologna
si propone anche di: promuovere pubblicazioni inerenti alla figura del Farinelli e
di altri celebri cantanti castrati, nonché di approfondire le problematiche connesse,
e di promuovere convegni, incontri di studio, seminari e mostre, nonché ricerche
d’archivio e ogni altra iniziativa specifica sull'argomento.
Bologna resta la città dove Farinelli ha trascorso gli ultimi anni della sua faticosa
vita fino alla morte, ma non dimentichiamo che nonostante i viaggi, i tour, egli è
vissuto nella nostra città, la città di Napoli.
Ed è proprio presso il conservatorio di san Pietro a Majella che ogni venerdì sera
si consumano concerti dalle più straordinarie tematiche, in onore dei più grandi
artisti di ogni tempo, tra cui anche il Farinelli. Napoli cosi bella ed immensa,
Napoli dalle mille storie, dalle mille canzoni, dalle mille contraddizioni, dove ogni
parola della sua lingua ha un significato che rimanda a tempi addietro, come
anche il significato del termine “farinielli” dal quale deriva l’equivoco collegato
appunto al nome d’arte “Farinelli” e che analizzerò più avanti.
Voglio giustificare il mio umile tentativo di riportare qui la vita di Farinelli, in
quanto molte cose sono state tralasciate da me, ad esempio l’intero repertorio del
cantante. Il mio obiettivo infatti era quello di raccontare i momenti più salienti
della vita dell’artista, quelli che in un certo qual modo hanno dato una ragione ed
un senso ai suoi modi di essere, e a me l’illusione di interpretarli.
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2.1.1 Perché il nome “Farinelli”
Nella delicatissima età preadolescenziale (cruciale per la costruzione dell’identità
di ognuno di noi), il suo processo di crescita si era declinato, non per acquisizioni,
ma per perdite. In quel periodo aveva perduto la virilità, la figura paterna ed anche
il proprio nome. Dopo “l’intervento” infatti si completava l’opera con
l’imposizione del nome d’arte. Questo era simbolo di distinzione della propria
diversità, o meglio, simbolo per evocare il virtuosismo del cantante. La scelta del
nome d’arte era libera, e prevedeva una serie di vezzeggiativi e diminutivi, in
onore dei propri maestri, oppure legati ad un episodio di grande interpretazione
del evirato, che lo richiama alla memoria di tutti. Ad esempio l’evirato Antonio
Uberti che scelse il nome “Porporino” in onore del grande maestro di Farinelli,
che in quello stesso anno della scelta, morì. Oppure posso citare Giovanni
Francesco grossi col nome “Siface”, o ancora Nicolò Grimaldi, “Nicolino”.
Sulla scelta del nome “Farinelli” sono state fatte tre ipotesi, tra queste due sono
sicuramente da scartare: la prima ipotesi è quella che vede la scelta di tale nome
legato ai “Farinel”, famiglia di illustrissimi violinisti, ai quali si pensava il
cantante voleva rendere omaggio. La seconda si pensava fosse legata invece al
lavoro del padre Salvatore Broschi, ma in realtà il suo lavoro non lo portava in
alcun modo a lavorare con della farina. La terza e la più ovvia e sicura, è quella
che vede la riconoscenza del cantante nei confronti della famiglia “Farina”, ceppo
di avvocati e giuristi, che prese sotto la sua protezione Carlo fin da piccoletto,
pagandogli le costosissime lezioni di canto presso il maestro Porpora.
Sul nome d’arte si è insicuri se egli si facesse chiamare “Farinelli” o con il finale
in “o”. ”Farinello”. Sta di fatto che nel suo testamento il cantante si firma col
finale in “i”, ma stando alle cronache del tempo, i vari personaggi che lo
incontrarono nel corso della loro vita lo chiamavano anche come “Farinello”.
Dalla quale probabilmente nasce l’equivoco del “Fareniello” a Napoli, con il
quale si identifica un uomo di bell’aspetto, cascamorto ed intrigante oltre ogni
limite di decenza, un bellimbusto che crede, con il suo comportamento, di apparire
spiritoso, ma risultando poi estremamente antipatico.
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E’ interessante conoscere l'origine di questo vocabolo. Deriva dal fatto che nel
corso delle varie rappresentazioni teatrali, c’era il personaggio dell’amatore che
doveva essere, per esigenze di copione, sempre di aspetto giovanile. Il carattere ed
il comportamento da Don Giovanni, lo facevano grande conquistatore di cuori
femminili. Per l’attore che interpretava la parte, andava bene finché era giovane.
Quando queste qualità incominciavano a mancare, il povero ex-giovane attore
doveva in qualche modo evitare che il pubblico vedesse sul suo volto i segni del
tempo. Non esistendo ancora tutto l’apparato delle luci che schiacciavano i difetti
del volto, si spargeva sul viso di questo quantità enormi di farina (non esistendo
nemmeno ancora i trucchi teatrali come il pan kake o il pan stick). Cosi
“infarinato” l’attore poteva mascherare l’età e continuare ad interpretare
l’amatore. Da qui l’origine di fareniello o farinello, cioè di persona che vuole
apparire ciò che non è affatto. L’uso della farina che fungeva da cipria sul volto
infatti nacque nel periodo settecentesco il periodo appunto degli evirati, che nelle
loro numerose rappresentazioni teatrali (sia nel ruolo di donna, sia nel ruolo di
amoroso o amatore) si “infarinavano”. In realtà il vero senso del “Fariniello” lo si
può dare utilizzando il termine di “Casanova”, derivante dal cognome di Giacomo
Casanova, che fece del suo cognome sinonimo di seduttore, di “sciupafemmine”
come si dice a Napoli, non a caso anche il nome “Giacomo” in dialetto napoletano
“jacuvell” indica appunto l’intrigo, la moina.
Dopo questa parentesi, che ho reputato necessario fare, in quanto spesso siamo
soliti utilizzare termini di cui non ne conosciamo nemmeno il significato,
ritorniamo appunto al nome “Farinelli” e di come tale scelta non sia stata solo di
omaggio ai suoi protettori, ma anche un modo per il cantante di liberarsi di se
stesso completamente, di abbandonare per sempre ciò che era prima
dell’intervento e ciò che sarebbe stato senza la sottomissione ad esso: “Carlo
Broschi, difatti “muore” definitivamente a quindici anni, quando il già
meraviglioso cantore nasce in arte come Farinello” (Cappelletto, 1995, p. 145146).
Il cambiamento del nome fa riferimento infatti anche agli antichi rituali magici,
religiosi, artistici…come rigenerazione simbolica. Cosi infatti il modo per aver
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successo dei castrati, coincideva proprio in questo cambiamento, in questo nuovo
battesimo dove il padrino era il pubblico, che li relegava ad un eterna infanzia.
Mi è capitato spesso infatti, durante la lettura di alcuni libri su di essi, di pensarli
sempre come dei bambini anche nelle pagine che raccontano della loro vecchiaia,
un processo psicologico alquanto “normale” suppongo e alquanto giustificabile,
dato che il concetto che ricorre sempre nella descrizione dei loro stati psichici, è
quello di essersi fermati ad un’ora prima di aver subito l’operazione.
La cerimonia per la scelta del nome, come racconta Porporino (altro celebre
castrato postero del Farinelli) nel libro di Dominique Fernandez, di solito
avveniva all’aperto con tutti i ragazzi che tenendosi per mano a formare un
cerchio intorno ad una palma, venivano chiamati dal rettore ad uno ad uno a dire il
proprio pseudonimo, dopo il quale, lasciandosi le mani uscivano fuori dal cerchio.
“L’uscita dal cerchio quindi poteva essere simbolo di transizione, di passaggio da
un’identità ad un’altra” (Fernandez, 2008, p. 83).
Farinelli come quasi tutti gli altri, non avrebbe voluto riconoscersi in questa sua
nuova identità. La prova di ciò sta nell’abbandono delle scene avvenuto nel 1732
con il ritiro a Madrid, oppure per quanto riguarda tutti gli altri castrati, del loro
modo di fare i capricci, cosi forse da darsi un senso, dato che questa era di
caratteristica comune a tutti loro: “una possibile, quanto fondamentale,
“traduzione” di un ancor più complesso fenomeno, l’autorappresentazione, che
possiede una sua specifica caratterizzazione cognitiva; una dimensione
“immaginaria” ancor più profonda dell’immagine stessa, quella del proprio corpo
e quella di ogni altra cosa” (Caramiello, 2009, p. 1). Un illusione forse, oppure
una debolezza…?
Oggi non possiamo dire di essere deboli, vulnerabili o condannati ai limiti che il
destino ci impone: le nostre storie, la nostra biologia o il sesso anatomico che ci
viene dato dalla natura. Tutto questo lo possiamo cambiare per davvero. In modo
concreto, lo possiamo constatare pensando all’esercito dei travestiti o ancor
meglio dei trans che affollano le nostre strade. La chirurgia plastica e quella
estetica oggi fa miracoli! Capace di passare da un sesso all’altro, da uomo a
donna, e viceversa.
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L’epoca quindi è cambiata non si piega più la propria mente al proprio destino
infame, non ci si rinnega più cercando di rimuovere il vero “essere se stessi”,
oppure illudendosi di essere qualcosa. Come invece cercarono di fare gli evirati
settecenteschi con i loro capricci, che non indicavano un’immagine da divi, bensì
tutte le loro frustrazioni, e le sofferenze, che cercavano di acquietare mettendo in
pratica questo orribile gioco dell’illusione. Un gioco che li imprigionava in una
continua domanda: “chi sono?, sono maschile, sono femminile, sono neutro o
bisessuale?”. Non lo sapevano. Quale altra frustrazione più grande può esistere, se
non quella di non sapere chi siamo? Nemmeno gli altri lo sapevano: compositori,
protettori, mecenati, pubblico, nessuno. Per questo venivano denominati “angeli”.
Gli angeli non hanno sesso, la divinità è pura, è un mistero. In effetti ad un livello
esteriore, essi apparivano come degli ermafroditi, cerature angelicate e totipotenti,
ma in realtà non erano altro che “vittime di una devastante mutilazione dell’anima
prima che del corpo” (Cappelletto, 1995, p. 145).
Ma se già possedevano un aspetto femminile dovuto allo squilibrio ormonale,
perché venivano dati loro ruoli virili, dalla grande mascolinità? E perché venivano
truccati da donna se ciò poteva anche essere evitato? E perché loro stessi
sottostavano a queste esigenze di scena? Era solo per darsi un carattere tramite il
personaggio che veniva loro assegnato? Era solo per cercare di essere più vicino
all’irrealtà? Era per riempire il teatro? O un modo forse appunto per annullare
completamente il pensiero di quella specificità che gli era stata tolta per sempre,
cercare di non soffrire più, sottomettendosi a dei ruoli che non somigliavano mai a
loro stessi, e nello stesso tempo trovare forza e consolazione nell’arte che
amavano di più, quale il canto?
Di sicuro era una mescolanza continua di bene e di male. Questo fu il risultato
attraverso la scelta di un altro nome per tutti loro: l’aver indossato una maschera
che li avrebbe protetti anche dai sentimenti di vergogna e di umiliazione, aver
scaturito da parte di chi li osservava il dubbio di chi fossero per davvero, l’essere
stati (richiamandomi un po’ a Pirandello), uno, nessuno e centomila.
Ciò spiega Il rifiuto totale della persona che comporta la frantumazione dell’io.
Pieno di significati è il loro non ribellarsi al cambiamento del proprio nome, anzi
quasi si può dire che il nome di battesimo lo rifiutavano. Il rifiuto del nome, che
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falsifica ed imprigiona la realtà in forme illusorie dei divi, degli angeli, degli Dei,
dei grandi. Forse solo ed esclusivamente per identificarsi in ogni personaggio o
ruolo, in una completa alienazione da se stessi, dal maschile e dal femminile, e in
una totale estraniazione dal loro passato e dalle forme coatte che esso ha imposto
loro.
2.1.2 La città dei castrati: Napoli
Napoli è la città della canzone, ed infatti Napoli fu la città dei castrati.
Il fenomeno degli evirati a Napoli divenne di grande portata nel ‘700, tant’è vero
che esistevano botteghe con l’insegna: “qui si castrano fanciulli”. Questo però non
è provato storicamente, come infatti ci testimonia il musicologo Burney che
durante il suo viaggio a Napoli: “cercava spasmodicamente tali botteghe, ma
l’esito fu negativo” (Fubini, 1979, p. 267).
Anche se è comunque facile pensare che in una città piena di difficoltà, con
orfani, e famiglie disastrate economicamente, la castrazione dei giovani fosse
considerata un’ancora di salvezza, un’occasione di carriera per loro e di ricchezza
per le famiglie finalmente.
Infatti i napoletani nei primi decenni del secolo, dovettero abituarsi a convivere
con un potere precario con continui passaggi di mano. Nel 1707 infatti come
conseguenza della guerra di successione spagnola, la corona di Spagna cede
all’impero asburgico il dominio del regno. Tutto ciò tra l’altro, portò al risultato di
una perenne migrazione in varie parti di Italia e alcune volte anche all’estero di
musicisti napoletani, che nella sfortuna contribuirono a far conoscere la canzone
napoletana anche al di fuori. La maggior parte dei castrati quindi furono di
fabbrica napoletana poiché la miseria ed il fascino del profitto, resero il popolo
abbastanza crudele da mutilare in questo modo i propri figli, tanto più se i maschi
sono i più numerosi. Questo lo dimostrano le varie storie dei castrati, ed il perché
essi siano arrivati a sottoporsi a tale sacrificio, o meglio chi li avrebbe costretti,
giocando sulla loro psicologia infantile. Ad esempio, Senesino che fu venduto dai
propri genitori ad un maestro di cappella. Fu proprio il nascente melodramma e, in
particolare, il teatro napoletano del Settecento a svilupparne la presenza in modo
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esponenziale, in nome di un gusto artistico incline al senso della festa e al piacere
sensuale che mira alla conquista della bellezza pura.
Non è un caso infatti che vi fu la presenza di personaggi famosi come Haendel e
Senesino, che non reputarono completa la loro carriera se prima non avessero
avuto la possibilità di esibirsi anche in un teatro di Napoli. Cosi Napoli veniva
denominata “castrapolis”, e non chiamata “partenopea” (come sarebbe dovuto
essere). La città che aveva dato i natali ai più grandi compositori e ai più
straordinari cantanti, tra cui: Porpora, Sacchini, Pergolesi, Cimarosa , Farinelli,
Caffarelli, il quale si era fatto incidere sul frontone della sua casa, in un vicolo di
Toledo, tale scritta: “Amphion Thebas. Ego domus” , paragonandosi ad Anfione
che con il suono della sua lira aveva smosso le pietre per la costruzione di Tebe,
cosi lui con la sua voce aveva comprato una casa grandissima. Ma subito al di
sotto di quella scritta seguiva: “ ille cum. Tu sine”, ossia: “lui con (Anfione), tu
senza (Caffarelli). Ciò spiega come la loro madre (Napoli) li aveva sfruttati e
derisi ed amati per convenienza.
Lo sviluppo geografico del fenomeno è ben più ampio di quanto si potrebbe
credere, abbracciando gli Stati Pontifici, il Regno di Napoli, la Toscana e la
Lombardia. Ma il centro più importante per la loro formazione fu appunto di
sicuro Napoli, la capitale indiscussa della musica con i suoi quattro Conservatori i
quali originariamente erano degli orfanotrofi: Santa Maria di Loreto,
Sant’Onofrio, I poveri di Gesù Cristo, La pietà dei Turchini. Il Sant’Onofrio
infatti, era costituito da castrati, bambini “scogliati”, come venivano chiamati in
gergo dialettale, che presentavano spesso turbe psichiche, stati depressivi ed erano
oggetto dello scherno o delle invidie dei coetanei. Venivano per di più sorvegliati
dagli altri allievi del conservatorio, in quanto spesso assumevano comportamenti
di fuga e di follia con gesti ancora più estremi. Ad essi erano riservate le stanze
più comode e più calde, dove potevano studiare e consumare i pasti al caldo, ed
evitare il freddo del refettorio per la loro voce e salute. Questi usignoli in gabbia
erano infatti preziosissimi per il sostentamento dei conservatori e per i
compositori, loro maestri, tra cui il più famoso, insegnante del Sant’Onofrio
appunto, era Niccolò Porpora.
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Coloro che castravano i ragazzi a Napoli, erano i “norcini”, a questa categoria
appartenevano i macellai o ancor di più i barbieri. Un barbiere molto noto si
chiamava Alessandro Liguoro il barbaro-barbiere, che aveva l'attività in un
negozio, in via Toledo a Napoli. Egli fu “creatore” del castrato Matteuccio, del
quale si affezionò e ne divenne suo tutor, facendolo studiare al conservatorio dei
Poveri di Gesù Cristo, presso il quale il barbiere era solito portare i ragazzini.
Testimonianza di quanto la città di Napoli fosse stata senza scrupoli nel compiere
tali “delitti”, ce la offre Porporino altro grande castrato destinato a succedere
Farinelli. Sullo sfondo di una città raffinata e sudicia, capitale dell’architettura e
delle arti, punto d’incontro dell’Europa illuminata al pari di Parigi e Londra, si
incontrano vari personaggi, tra cui l’alchimista Raimondo di Sangro, Principe di
San Severo che fu il suo protettore. Porporino racconta di quanto fosse dura la vita
a Napoli e di quanto fosse altrettanto comoda. Lui e i suoi compagni alternati tra il
durissimo studio, e i vari incontri che si trovavano a fare tramite i loro protettori.
Questi incontri si basavano su una grande stima verso i ragazzetti, ma allo stesso
tempo anche sulla curiosità di capire molte cose su essi. Forte esempio di ciò fu
l’incontro con Casanova, attratto da Porporino, diviso tra le donne e i castrati, fino
al punto di vivere una crisi personale sulla propria sessualità, stroncata poi sul
nascere.
Fu Napoli che ha dato vita a questo fenomeno sociale, morale e politico, prima
ancora che musicale e culturale, di fondamentale importanza nella storia europea
del XVII e del XVIII secolo e non i castrati, perché furono pochi, da quello che ho
potuto ricostruire dalle varie documentazioni, i ragazzi che di loro spontanea
volontà chiesero di essere sottoposti all’operazione, ad esempio Caffarelli, figlio
di un povero agricoltore, destinato alla stessa sorte. Fu un appassionato di musica
fin da bambino, una passione che lo portava sempre ad ascoltare i canti nelle
chiese, scappando dalle punizioni familiari. Fu scoperto da Caffaro (un musicista,
dal quale poi prese il nome d’arte in suo omaggio), che lo prese con se facendolo
studiare e poi inviandolo a Napoli dal Porpora. Uno dei pochi che non odio il suo
destino, anzi se lo scelse con assoluta libertà e consapevolezza, a differenza di
molti altri, e che amava Napoli, “sua maestra”. Alquanto notevole ed insolita la
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storia del Caffarelli rispetto a tutte le altre vicende dei castrati che volevano
fuggire da Napoli.
Che grande somiglianza riesco a cogliere nello scrivere queste righe, tra il passato
ed il presente. Anche oggi si vuole fuggire da Napoli, si è voluto sempre fuggire.
Chi rimane ci rimette sempre qualcosa. Mi rendo conto di quanto ancora oggi
l’aria che si respira in questa città soffochi, con quel tanfo di miseria e di
disperazione che porta alle cose più impensate. Napoli ha sempre messo al bando i
propri corpi. Dominique Fernandez nel suo libro racconta di quanto fosse
abitudinale a San Donato la visita di alcune donne, “le visitatrici” appunto, che
vendevano i loro corpi per mezz’ora agli uomini del posto. Si mettevano al bando
per inclinazione o per disperazione? Forse quest’ultima. Anche nel film “la pelle”
di Liliana Cavani del 1981 tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, vi è
rappresentata una Napoli del 1944, tra disastri e macerie di una città appena
liberata, che doveva avviarsi verso una sua ricostruzione. Da dove cominciò la
ricostruzione? Mi rimase impressa la scena di una bambina “la vergine di Napoli”,
messa in vendita dal proprio padre ad un lungo serpentone di soldati. Lei cosi
piccola ed inconsapevole, cosi triste e rassegnata da pensare di essere apprezzata
dal padre per quello che era stata messa a fare. Cosi i castrati, e cosi ancora oggi
molte ragazze e donne adulte nei bassi di Napoli praticano “la vita”.
Da non dimenticare anche i “femminielli, i ricchioni, che nella Napoli
tradizionalista furono delle vere e proprie scuole per i ragazzi che si accingevano
ad affacciarsi per la prima volta ai piaceri sessuali” (Cfr., Caramiello, 2009, p. 7 ).
Napoli ha sempre pensato ed agito cosi, dietro il suo falso moralismo, la sua falsa
tradizione della verginità che le ragazze mantenevano perché sottostavano al fatto
che i loro fidanzati andassero con altre donne oppure addirittura con i femminielli.
Tutto questo ci fa capire di quanto questa città è stata fin dalle epoche antiche.,
piena di contraddizioni, “Ma Napoli è anche la musica, il canto, come ci ricorda
questa deliziosa statua in marmo”(Fernandez, 2008, p. 220). La statua della Dea
Partenope, emblema della città all’epoca, la più antica cantante, la prima, che si
riconosce nei suoi figli più adorati: i castrati.
Stendhal afferma che Napoli sia assieme a Parigi, l’unica capitale. Per la sua
grandezza storica, per la sua nascita, per le sue ricchezze, per la sua cultura
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architettonica, artistica, musicale, ma soprattutto per i suoi misteri. “I misteri di
Napoli” come ci suggerisce il titolo del libro di Dominique Fernandez, dal quale
riusciamo a capire molte cose. Città con i suoi “scheletri nell’armadio” possiamo
dire, “Regina decaduta” per i suoi delitti, per le sue infamie, dove la dignità si
perde assieme all’intelletto, gioiosa perché ad essa conviene esserlo, cosi da
nascondere i suoi peccati.
2.1.3 La scuola di Porpora
Nicola Antonio Porpora nacque a Napoli nel 1686. Il padre era un libraio, titolare
di una bottega sita in San Biagio dei librai. Date le condizioni benestanti della
famiglia, poté studiare al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo. Qui vi rimase
dieci lunghi anni ricevendo anche una forte istruzione letteraria. Finiti gli studi il
successo di Porpora si diffuse in tutta Italia con la sua scuola per castrati,
guadagnandosi ben presto la nomea di educatore delle migliori voci del settecento,
grazie al suo quintetto di allievi: Farinelli, Caffarelli, Salimbeni, Appianini e
Porporino. Infatti fu questo uno dei motivi che spinse le famiglie dei ragazzini a
lasciare la propria citta natale per raggiungere Napoli. Come appunto questi che
ho appena citato, i quali si sottoposero al severo metodo di Porpora, diventando i
più osannati cantanti napoletani assieme.
La loro entrata nella scuola avveniva subito dopo il tempo necessario affinché la
ferita provocata dalla operazione si rimarginasse. La maggior parte dei ragazzi
sperava di entrare in conservatorio dopo l’intervento, ma poiché la domanda
superava l’offerta, questo passaggio veniva spesso monetizzato, con reciproci
vantaggi: sia per la famiglia che si alleggeriva del mantenimento di un figlio, sia
per il tutor che voleva questa sorte per il ragazzo cosi per poi venderlo ai maestri
di canto con cospicuo guadagno.
“La scuola belcantista di Porpora durava in media dai sei agli otto anni, e si
basava su alcuni punti basilari, tra cui il raggiungimento della massima purezza e
limpidezza del suono, la massima estensione e l'attenzione agli abbellimenti e
ornamenti virtuosistici, elemento imprescindibile nell'opera melodrammatica che
a Napoli cominciò ad espandersi” (Cfr., Florimo, 1882, p. 261). Per raggiungere
tali risultati, il maestro aveva un suo metodo, usato ancora oggi da vari maestri di
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canto. Spesse volte infatti Porpora faceva studiare per anni l’allievo su di un unico
spartito, composto da tutte le difficoltà musicali, quali ad esempio: scale, trilli,
mordenti, appoggiature, picchiettati etc. Una sorte che tocco ad uno dei suoi
allievi preferiti, Caffarelli che difatti divenne uno dei più preparati cantanti evirati
tra la vasta schiera. Napoli o meglio la scuola di Porpora divenne il banco di
prova, la sfida decisiva per chi decidesse di frequentarla. Solo chi riusciva a
sopportare quel pesantissimo studio, con orari assurdi ed estasianti sarebbe potuto
diventare un grande della musica.
Le giornate erano insopportabili: sveglia alle sei e mezzo, subito un’ora di studio
o di ripasso degli esercizi e delle lezioni fatte il giorno prima. Sette e mezzo:
funzione in cappella, alle otto una prima colazione con pane e latte. Otto e mezzo:
c’era il contrappunto. Nove e mezzo: letteratura. Dieci e mezzo: vocalizzi col
maestro davanti ad uno specchio per essere bene attenti agli errori di respirazione
e non commetterli cosi da sviluppare quegli organi a dimensioni eccezionali
cosicché “si esalavano fiati che muovevano corde vocali e laringi più esili, più
vibratili. Lì si generava il controllatissimo fascino della messa di voce”
(Cappelletto, 1995, p. 9). Undici e mezzo: esercizi strumentali e corali. Mezzo
giorno e mezzo: pausa. Ore tredici: pranzo. Dopo il pranzo si proseguiva fino alla
cena alle nove con un ora per ogni materia, ossia: letteratura, storia, ginnastica
vocale, solfeggio, composizione, fisica acustica, calligrafia, contegno e buone
maniere. A letto alle dieci e mezzo. Tutte queste altre materie che venivano trattate
per l’intero pomeriggio sfatavano il mito che i castrati fossero degli ignoranti
analfabeti. In realtà anche se partivano con un analfabetismo totale (poiché
provenienti dalle fasce meno abbienti e più disastrate), questi venivano sottoposti
ad una formazione, ossia ad una rieducazione non culturale ma colta. Una rigida
educazione “militare” si potrebbe dire. Non vi era il tempo per passeggiate,
giochi, o scherzi tra compagni di scuola. Per di più durante la settimana, una volta
ogni due giorni il capoclasse chiamato “maestrino”, fungeva da maestro, e alla
lavagna spiegava le pesantissime lezioni. Al metodo scolastico era collegato anche
il tipo di pasto che gli allievi dovevano consumare. Infatti insalata, tonno e sardine
era il normale menù degli allievi non evirati, mentre a questi ultimi toccavano il
pollo, le uova e del vino.
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Come racconta Porporino: “Cimarosa mi supplicava di tenergli in serbo un pezzo
di pollo o un goccio di vino” (Fernandez, 2008, p. 76). Per fare questo però,
venivano pagati, e i soldi che guadagnavano, contribuivano in buona parte al loro
mantenimento all’interno della scuola Alcune volte capitava che l’organizzazione
didattica cambiava, cosi venivano organizzate delle ore in cui i giovani castrati
dovevano esercitarsi al clavicembalo per comporre musica vocale, sacra o profana
a seconda della loro inclinazione. Questo programma così esigente faceva sì che,
se sufficientemente dotati di talento, i ragazzi fossero in grado di fare il proprio
debutto negli anni centrali dell'adolescenza con una tecnica perfetta e una voce
dalla flessibilità e dalla potenza che nessuna donna o normale cantante maschio
poteva eguagliare. Come capito a molti di loro basta pensare a Farinelli che
debutto per la prima volta nell’Angelica e Medoro a soli diciassette anni. Tra i
quindici e i vent’anni quindi, dopo aver superato una serie di prove, il castrato ben
riuscito faceva il suo debutto nell’opera lirica.
Oltre alle varie lezioni, i ragazzi dovevano servire messa, e partecipare a feste
parrocchiali e processioni. Spesso vestiti da angioletti con tunica bianca e fascia di
lustrini nei capelli, con ali di vere penne alle spalle. Tutto questo per vegliare sui
cadaveri dei bambini morti e per restare intere notti inginocchiati a pregare
dandosi il cambio di mezz’ora alla volta. Come dei veri angeli, degli angeli
controvoglia.
2.1.4 Il rapporto col fratello Riccardo
Ho già accennato al fratello Riccardo Broschi precedentemente, limitandomi a
dire che fu il creatore di Farinelli proprio perché suo carnefice. Non ci pervengono
informazioni esaustive sulla sua persona, ne sul suo rapporto col fratello minore.
Possiamo però cercare di capire qualcosa, tenendo conto della loro situazione
familiare nei tempi antecedenti l’operazione, e soprattutto tenendo conto della loro
scarsa collaborazione artistica. Un altro indicatore importante che può aiutarci a
capire il rapporto tra i due fratelli, è il modo in cui veniva valutato dall’opinione
pubblica di quel tempo il fratello Riccardo come compositore.
Analizziamo il primo punto: la situazione familiare nei tempi precedenti
all’evirazione del fratello Carlo.
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Ho spiegato nel corso di questo lavoro quali furono le ragioni che spinsero le
famiglie ad accettare di sottoporre i propri figli ad un tale intervento invasivo. Tra
le ragioni più esaustive abbiamo: la situazione difficile nella Napoli tra seicento e
settecento e quindi una precarietà, una miseria che affliggeva gli abitanti, e che
conseguentemente portava alla necessità di vendere il proprio figlio ad un maestro
di cappella o a qualche norcino, ottenendone cosi un guadagno e liberandosi del
peso del mantenimento di almeno un figlio che conseguentemente entrava in
conservatorio.
Al contrario della maggioranza dei fanciulli destinati all’evirazione per decisione
paterna, o per richiesta di qualche impresario interessato anche lui al loro
successivo sfruttamento, i fratelli Broschi non erano poveri, ma alquanto
benestanti avendo un padre compositore e maestro di cappella. Non ci risulta
nemmeno che fosse stato per volere del padre sottoporre Carlo ad un cosi crudele
destino, anzi la coincidenza vuole che, il piccolo fu sicuramente castrato poco
dopo la morte del padre. Fu sicuramente il fratello maggiore quindi a volere
l’evirazione del fratellino più piccolo, anzi si dice che sia stato proprio lui un
giorno a castrarlo somministrandogli dell’oppio, approfittando di una malattia di
Carlo, che si trovava già in uno stato di incoscienza e delirio.
Chissà se al suo risveglio, non gli raccontò la storiella della caduta da cavallo
come giustificazione dello stato di convalescenza. Infatti una cosa molto curiosa è
che al momento successivo all’intervento, quando questi bambini chiedevano il
perché dello loro stato, gli veniva detto che l’operazione era stata necessaria per
salvare loro la vita dopo una caduta da cavallo che non riuscivano a ricordare in
quanto tale caduta aveva avuto conseguenza anche sulla loro memoria: “da
medesimi documenti apparisce che egli non fu sottoposto al taglio nella puerizia
per conservare la mollezza della voce, e cosi venderla a maggior prezzo; ma bensì
per conservare la vita in un grave pericolo corso per la sua fanciullezza vivacità,
saltando sopra un cavallo, onde cadde, e fu anche offeso nella fronte”
(Cappelletto, 1995, p. 3). A tale storiella fingeva di credere anche la società
ipocrita di quel periodo, ma è chiaro che quando questi bambini diventavano
adulti venivano a scoprire tutto. Tale storiella non è l’unica, a questa si
aggiungono: il morso di un animale (preferibilmente un cinghiale o un maiale),
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oppure ad una menomazione che predisponeva naturalmente il soggetto a quella
professione.
In realtà quindi fu proprio per l’ingordigia di Riccardo che Farinelli divenne un
castrato, ma soprattutto anche per la non considerazione (da quello che ci appare)
della madre che fu sempre in disparte, infatti di lei non si ha nessuna
informazione, né storica né personale, mai nominata da ambedue i fratelli,
soprattutto tra le numerose lettere di Farinelli non ci perviene nessuna lettera che
fosse destinata alla madre. Riccardo approfittò subito della posizione in cui si
trovava: sia di essere diventato il capofamiglia, sia della malattia del fratellino,
cosicché la sua voce rimanesse pura per sempre, in modo forse da cantare le sue
opere in un prossimo futuro, che per Riccardo in realtà non fu molto prospero.
Infatti i due fratelli non lavorarono molto tempo assieme, durante il grande
periodo del Farinelli il quale era destinato da sempre a brillare più del fratello alle
cui opere non sembrava cosi interessato.
Riccardo
apprese
i
fondamenti
della
musica
dal
padre,
compiendo
successivamente i suoi studi nel conservatorio di S. Maria di Loreto a Napoli,
probabilmente nel decennio 1712-1722, con i maestri Gaetano e Giovanni
Veneziano, Perugini e Mancini . Il 3 febbraio 1725 esordì come compositore di
musica sacra per la festività di San Biagio nella chiesa di S. Maria del Popolo
negl’Incurabili e la sua “scelta musica a più cori” venne accolta “con applauso
universale”. “Tuttavia egli fu considerato, da allora in poi, come il fratello del
celebre sopranista Carlo Broschi” (Zapperi, 1972, p. 30) sebbene avesse un suo
personale valore.
Possiamo dare breve accenno della loro collaborazione operistica: tra 1731 e il
1732 furono a Torino con “l’Ezio”, e la sua opera più importante “Merope”, nel
1734 fu a Londra sempre con il fratello Carlo, dove costui fece il suo debutto nel
palcoscenico inglese con “l’Artaserse”, pasticcio prodotto dal Riccardo in
collaborazione con Johann Adolf Hasse. Di questo lavoro si ricorda l’aria di
bravura “Son qual nave ch'agitata” composta dal compositore napoletano. Nel
1737 fu attivo per un breve periodo come compositore di musica alla corte del
duca Carlo Alessandro di Wurttemberg. Tornato a Napoli, mise in scena il suo
ultimo dramma, “Demetrio”, composto in collaborazione con Leonardo Leo; non
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riuscendo nella città partenopea ad ottenere importanti commissioni, nel 1739
decise di raggiungere il fratello Carlo a Madrid, dove nel 1737 quest’ultimo era
diventato cantante di corte al servizio del sovrano Filippo V. Qui abbandonò la
propria carriera musicale per intraprendere quella diplomatica come commissario
della guerra e della marina. Tuttavia alcune lettere rinvenute presso l'archivio di
stato di Napoli rivelano che Riccardo Broschi nel 1744 tentò di acquisire la carica
di maestro di cappella della corte reale napoletana.
Come possiamo notare quindi non ebbe vita lunga, ebbe tra l’altro sempre un
continuo bisogno dell’appoggio del fratello Carlo più amato ed ammirato. La
ragione sta sia nella valutazione mediocre che veniva data a Riccardo come
compositore, sia per la volontà inconscia del Farinelli forse di non voler lavorare
con lui. E chissà se forse non fosse per una qualche sorta di rancore da parte del
sopranista nei confronti del fratello, tuttavia non ci perviene nessuna notizia di
risentimento o di odio del cantante. Sappiamo per certo che Riccardo non era
stimato da parte del pubblico, infatti ancora oggi viene ricordato non perché abbia
lasciato un segno nell’opera europea, ma semplicemente perché affiancato al
nome di Carlo, e per la sua breve collaborazione con esso, che fu probabilmente
fin troppo misericordioso nel cantare le sue opere. Infatti Farinelli era
preparatissimo nell’arte del canto e della composizione, e mi viene da essere quasi
certa che anche lui non stimasse i lavori di Riccardo. Anzi possiamo dire che se
Riccardo viene ancora un tantino ricordato è solamente per il delitto che consumò
sul fratello.
Non abbiamo nessun evento eclatante che riguarda l’unione dei due fratelli, anzi è
ancor più significativo di come ci appare per niente fraterna la loro situazione
rispetto poi invece all’amore che tiene legato Farinelli al poeta Metastasio,
chiamato dal sopranista non fratello, ma addirittura gemello. Un rapporto che va
ancora più oltre di qualsiasi legame di sangue, quel sangue che tradì Farinelli.
Di certo Farinelli amava la musica, e non penso che odiasse la sua voce, forse e
per questo che riuscì a mantenere una sorta di rapporto col fratello. Ma è anche
vero che non spese mai ne parole di rabbia o di odio, ne di sentimenti affettuosi ed
amorevoli nei confronti del fratello maggiore. Anche la figura di Riccardo, a parte
il suo delitto e la sua mediocrità nello stile musicale resta un personaggio
52
relativamente misterioso. Ma il suo mistero non è pieno di leggende, di miti, di
storie o di fascino, come lo è invece, il mistero che aleggia attorno alla figura del
fratello. Infatti il mistero di Farinelli, è un mistero voluto, un mistero volontario
da parte del sopranista, che non volle mai redigere le sue memorie nonostante le
varie richieste che lo pregavano di farlo, mentre invece il mistero di Riccardo
sembra essere voluto dagli altri che non hanno mai voluto approfondire le poche
notizie che si avevano e si hanno di lui. Non si è mai voluto capire se la sua
ossessione sia stata la musica a se, oppure la voce del fratello (anche perché non
bisogna dimenticare che se Riccardo non avesse perpetrato l’orrore sul fratellino,
quest’ultimo non sarebbe diventato Farinelli). A mio parere opterei più per
l’ossessione per la voce del Farinelli, in quanto ad un certo punto della sua vita,
Riccardo abbandonò il meraviglioso mondo della musica. Ma l’abbandono fu
dovuto perché si rese conto anche lui che la sua musica non funzionava, o perché
non vi fu nessuna volontà del Farinelli di lavorare con lui? Una domanda a cui
non si può dare risposta, si può solo cercare di capire, di immaginare, di
ricostruire, di ipotizzare, ma mai di sapere per davvero le vicissitudini dei due
fratelli e del loro rapporto. Come non si è mai capito bene, se l’abuso di Riccardo
sul fratellino l’abbia compiuto perché sperava in un futuro brillante assieme, o
perché secondo la moda di quel tempo, gli sembrava un grande peccato che quella
voce cosi sublime venisse invece sostituita dalla voce della maturità. Forse
ambedue le cose, forse una o forse nessuna, ma di sicuro da quel delitto non ne
voleva trarre beneficio economico da parte di un impresario o maestro di cappella.
Non sappiamo quindi per certo cosa abbia persuaso Riccardo ad agire, sappiamo
per certo che fu lui ad agire, da solo senza nessun altro, di sua spontanea volontà e
di nessun altro: ne della madre completamente assente, ne della sorella Dorotea
della quale si sa solo che ebbe molti figli, ne soprattutto del padre. Scrive Sacchi
(contemporaneo di Farinelli), citato da Sandro Cappelletto infatti: “del padre che
egli perdette in tenerissima età, conservò lunga memoria e ne parlava con pietà
somma, benedicendo la severità colla quale era stato da lui educato ed istruito”
(Cappelletto, 1995, p. 7). È da notare in queste poche righe, nelle quali si
intravede tutto il pensiero del sopranista che la “pietà somma” di cui parlava non
risultava riferita invece al fratello Riccardo.
53
2.2 Farinelli e il suo “gemello caro”
“Io non so esprimermi meglio che dicendovi che v’amo quanto merita d’essere
amato Farinello” (Cappelletto, 1995, p. 80). Sono le parole che con tanto affetto
scrive Metastasio in una delle tante lettere inviate a Farinelli. Quante volte il
cantante, come rimedio alla malinconia profondissima e agli ulceranti bruciori di
stomaco “suo eterno persecutore” (Vitali, 1992, p. 62), avrà riletto queste righe
inviategli dal suo “gemello caro” Metastasio?
Il loro incontro avvenne in una sera d’agosto, durante una festa privata in
occasione del compleanno dell’imperatrice Elisabetta Cristina moglie di Carlo VI
d’Austria, da quel momento nacque un legame professionale e un affetto che i due
artisti non vorranno mai più dimenticare. Tant’è vero che, sessanta anni dopo,
l’ultima lettera del poeta sarà indirizzata all’amico a Bologna.
Il connubio professionale tra i due iniziò concretamente, proprio con il debutto di
Farinelli nella serenata “Angelica e Medoro” di Metastasio, quando il cantante
aveva appena 15 anni e il poeta 22. L’intensa continua interazione reciproca tra i
due gemelli, nati insieme alla carriera del teatro musicale e destinati a lasciare
un’impronta duratura nella storia del melodramma, prenderà forma ed espressione
completa però molti anni dopo nel 1747. Prima di quel periodo, il cantante si
trovava a Madrid presso il Re Filippo V, mentre il poeta a Vienna dove era a
servizio come Poeta Cesareo, alla corte di Carlo VI. Stringeranno quindi una forte
relazione fraterna tra il 1747 e il 1759, una tra le più straordinarie intese artistiche
che la storia sia riuscita a conservare e a tramandarci.
Tale collaborazione è un capitolo decisivo per la comprensione dell’opera italiana
del XVIII secolo, ovvero della poesia destinata all’intonazione e al teatro
musicale. Nel 1746 infatti muore il Re Filippo V, ed è senz’altro per Farinelli
l’occasione di riscatto, di rinascere a vita nuova e di liberarsi dal ricatto morale
della Regina madre Elisabetta Farnese, che costretta a ritirarsi in convento per
ordine di Ferdinando VI, successore di Filippo V e figlio della prima moglie di
quest’ultimo, avrebbe voluto portare con se in esilio anche il cantante. Ma
Farinelli opta per la libertà diventando direttore dell’opera italiana ad Aranjuez,
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cercando di ridare senso alla sua vita d’artista se non più come voce sublime e
inarrivabile. Cogliendo così l’opportunità di divenire finalmente arbitro assoluto
della vita artistica e musicale di Madrid e della sua corte, riprendendo i contatti
con il Metastasio (non dimentichiamo infatti che Farinelli era già stato a Vienna,
in collaborazione con Metastasio nella “Morte di Abel nel 1732), ponendosi come
interprete diretto e assiduo dei drammi del Poeta Cesareo, contribuendo
indirettamente anche alla vita musicale a Vienna, dove Metastasio in quegli anni si
trovava.
La collaborazione Farinelli-Metastasio a Vienna, perseguita dai gemelli anche a
distanza, costituisce non solo il riannodo dei fili della memoria artistica ed
esistenziale, ma anche la nascita di una nuova stagione per la produzione teatralemusicale di entrambi. La collaborazione con Farinelli si rivela quindi decisiva
soprattutto per il poeta Pietro Metastasio, al quale la morte di Carlo VI nel 1740,
la guerra di Successione austriaca, la momentanea occupazione di Vienna da parte
dei prussiani, la diffusione di epidemie di peste, colera e vaiolo nella città, hanno
limitato e bruscamente interrotto la regolare scritturazione dei drammi per musica,
feste teatrali, e oratori.
L’obiettivo di entrambi infatti era quello di ridare all’opera italiana una versione
integrale, ma la difficoltà per entrambi non fu tanto la distanza geografica, ma la
distanza del troppo tempo intercorso dal 1732 (loro ultimo incontro) al 1747, una
ripresa di contatti solo epistolare. Non dimentichiamo infatti che negli anni
precedenti, Farinelli cantò solo per curare l’ipocondria del re spagnolo
rinunciando ed abbandonando le scene, mentre Metastasio a Vienna era molto in
voga. Tuttavia fu un occasione per entrambi tale collaborazione.
Nella posizione di Farinelli, avere la disponibilità del poeta che gli scritturava
nuovi libretti anche revisionati per le esigenze teatrali che il sopranista richiedeva,
fu la sua grande occasione di rilanciarsi, avere di nuovo successo, ed organizzare
grandi stagioni teatrali a Madrid, facendone un vero centro d’arte e spettacolo ed
accrescendo il ruolo della corte spagnola. Metastasio e Broschi, si accingono cosi
a creare una vera e propria alleanza artistica e spettacolare, attingendo anche agli
aiuti provenienti dall’esterno, come ad esempio alle amicizie di un’intera vita,
sparse in tutta Europa (ma in particolare a Napoli), anche a delle astuzie, dai
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servizi e favori a membri delle rispettive casate reali di Vienna e Madrid, ai loro
protettori, al sostegno di cantanti e artisti reciprocamente preferiti. Prende vita
cosi un gioco complesso, un triangolo artistico formato dalle corti di Vienna,
Madrid e Napoli allo scopo sempre di rilanciare l’opera italiana e a fare spazio
alla riforma ventura di Pietro Metastasio.
La prima collaborazione tra i due si ha con il “Demofoonte” a Madrid, intonato da
Baldassare Galuppi, sul quale Metastasio aveva dei dubbi. Tant’è vero che l’opera
fu portata anche a Napoli l’anno successivo con le musiche dell’amato Hasse e
Gaetano Latilla. Sempre nello stesso anno abbiamo “Asilo d’Amore”, testo di
Metastasio e musiche di Corselli. Uno dei più importanti successivamente fu
“l’Attilio Regolo” messo in scena per la prima volta alla corte borbonica di Napoli
e poi a Madrid. Nel 1749 posso citare altre tre opere, ossia: “Armida placata”, “La
danza”, “Il nido degli amori”. Vi e poi il “Demetrio” portato in scena a Madrid nel
1751 con il supporto compositivo dello Jomelli.
Metastasio ebbe un grande successo alla corte spagnola, e soprattutto
l’ammirazione della regina Barbara di Braganza, stimata allo stesso tempo dal
poeta per la sua forte capacità critica. Ancora in onore dell’onomastico di Filippo
VI, va in scena “Festa cinese” nel 1752. Per il compleanno invece, rivista da
Metastasio, “Didone abbandonata”, con la musica di Baldassarre Galuppi, veniva
messa in scena al teatro del Buen Retiro, il 23 Settembre 1752. Seguono ancora
“Semiramide riconosciuta”, “l’Isola disabilitata” e “Siroe” tra il 1753 e il 1754, e
il “Nitteti”, “l’Eroe cinese” e il “Temistocle” tra il 1755 e il 1757.
Il 1757 è, infatti, l’anno dell’inizio della guerra dei sette anni in Europa, del
riavvicinamento degli Asburgo ai Borbone di Francia e in Europa in funzione antiprussiana. Attraverso Madrid, con l’aiuto e la regia artistico-musicale di Carlo
Broschi, Metastasio fa dei suoi drammi, una rappresentazione delle vicissitudini
politiche e diplomatiche del proprio tempo. Anche per Farinelli questo modo di
fare, conferirà senso e significato politico generale alla propria vita.
Entrambi sono, in quel finire degli anni Cinquanta, non solo indipendenti ed
autonomi arbitri del proprio destino, ma in grado di dettare le condizioni di un
gioco in cui l’espressione artistica, la cura di essa cara al Poeta Cesareo e al suo
caro “Carlucciello” divenga forma e sostanza di un progetto politico collettivo e
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generale. La collaborazione tra i due si avvia verso la fine sempre in questo stesso
anno (1757) con “Il Re Pastore” e “Adriano in Siria”.
Con l’avvento poi del nuovo sovrano spagnolo Carlo III si determina
definitivamente l’allontanamento di Farinelli dalla corte di Madrid. Un
allontanamento condizionato dall’accettazione imposta al figlio di Elisabetta
Farnese di non unire mai sotto un unico potere le corone di Napoli e della penisola
iberica. Cosi l’esperienza madrilena in stretta collaborazione fraterna con il
Metastasio si conclude. Fu proprio quindi la separazione delle prospettive
politiche di Spagna e di Napoli, a determinare la fine della prospera
collaborazione tra il cantante ed il poeta.
Forse Il periodo più bello nella vita di Farinelli, il periodo in cui poté respirare un
aria più familiare, più fraterna. Lo dimostrano le 166 lettere di Metastasio inviate
al sopranista, le cui lettere sono quasi tutte perdute: “io soglio condannare al fuoco
tutte quelle lettere alle quali ho risposto, quando non richiudono affari pendenti”
(Cappelletto, 1995, p. 80).
Oltre Metastasio, non ci fu nessun’altra persona, che fosse un maestro, un
compositore, un mecenate, un cantante, un musicista, che strinse un cosi stretto
rapporto con il sopranista. Mi ha molto affascinata questo rapporto cosi simbiotico
nonostante la distanza che li separava. Ho riflettuto molto sul perché Farinelli
chiamasse Metastasio il suo “gemello caro” e non lo chiamasse invece “fratello”.
Credo che non sia solo per l’esigenza di rendere meglio l’idea di una cosi grande
somiglianza nell’arte, nel gusto o nello stile con il poeta. Credo che usasse questo
modo di chiamarlo per distinguerlo proprio forse dal vero suo fratello: Riccardo.
O meglio credo che usasse il termine “gemello” perché è diverso da “fratello”, un
termine che forse gli ricordava la sua triste infanzia, un termine di cui non ne
conosceva il significato emozionale, ed emotivo. Metastasio da parte sua lo
ricambiava: “quello che farò per voi non lo farò per nessuno de’ viventi…”
(Cappelletto, 1995, p. 107).
Dotato di uno straordinario talento per la composizione e di un senso per la
poetica, non trovò nessuna difficoltà nello scrivere le sue opere. I suoi libretti non
sempre erano capolavori letterari, ma appena messi in musica diventavano vere e
proprie opere eccellenti, tant'è che i migliori cantanti facevano a gara per poterli
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interpretare. Ma il poeta sottostò solo al suo arci amabilissimo gemello, solo lui
poteva ben rendere le sue opere. Ciò lo dimostra l’esperienza artistica che ebbe
Metastasio col sopranista Caffarelli, i cui capricci non avevano nulla a che fare
con l’umiltà e la serietà di Farinelli, al quale forse influenzato dalla profonda
amicizia, Metastasio confermava il suo primato (Cappelletto, 1993, pp. 204-205).
Per Metastasio infatti era il canto di Farinelli a svelare la vera indole delle parole.
Le arie di Metastasio infatti non nacquero per essere dette in un teatro di prosa, o
in un intermezzo comico, ma per l’opera in musica, alle quali dovevano rivelarsi
funzionali, senza mai dimenticare l’indispensabile veicolo e vincolo rappresentato
dall’interprete, dai suoi limiti, qualità e pretese. Tutto questo non poteva esser
applicato meglio del Farinelli per le opere del poeta.
Nel cercare di ricostruire il periodo brillante della collaborazione tra i due artisti,
ho voluto citare le opere più conosciute portate in scena sia a Madrid sia a Napoli,
tutte le altre non sono state citate da me semplicemente per l’impossibilità di farlo
visto l’enorme numero di esse.
Mi è sembrato giusto e doveroso ritagliare un piccolo spazio esclusivo per questo
periodo particolare di Farinelli, in quanto la messa in pratica dell’idea
riformatrice di Metastasio che mirava a ridare dignità al testo, attribuendo ai versi
un’autonomia poetica ed espressiva funzionale alla partitura musicale e non
secondaria a questa, e la sua volontà arcadica di creare opere di maggior respiro,
che trattassero argomenti seri e fossero dotate di un intreccio complesso.
“Metastasio fu di un temperamento idillico. Pertanto, il mondo tranquillo e
decoroso e galante dell’Arcadia e le facili e superficiali commozioni sentimentali
della vita mondana del Settecento trovarono in lui l'espressione più felice e
genuina” (Cfr., Reinhard, 1991, p. 197). Fu perciò il poeta più rappresentativo e
più fortunato del Settecento italiano. Le sue canzonette “A Nice” e “La partenza”,
sono tra le cose migliori della lirica arcadica. Ma la gloria piuttosto che dalla lirica
gli venne dal melodramma, che egli portò a vera opera d'arte, indipendentemente
dalla musica; alcuni suoi melodrammi, infatti, furono spesso recitati come
tragedie. Metastasio aspirò alla semplicità e alla potenza drammatica della
tragedia greca, di cui considerava il melodramma come legittimo erede, ma si
accostò di più, per la qualità del suo temperamento, alla tragedia francese, nella
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fusione dell’eroico col galante e nella grazia e nel decoro del dialogo. E sebbene
altamente drammatiche nella sua opera siano le situazioni, costruite con grande
abilità, tuttavia il dramma non scaturisce dall’anima dei personaggi, nei quali i
sentimenti si ammorbidiscono nel patetico, quando non assumono toni oratori e si
risolvono in musica; questo suo modo di fare musica raggiunse l’apice nel periodo
di collaborazione col sopranista, visto che tali volontà del poeta erano già state
messe in pratica un tempo prima, ma non con la stessa intensità che non
dimenticherà mai. Ciò è dimostrato dalla volontà del poeta di scrivere le sue
ultime righe prima di morire nell’aprile 1782 all’amico a Bologna, che, chissà se
sia solo un caso, lo raggiunse lo stesso anno cinque mesi dopo.
2.3 Una leggenda per i musici successivi
Farinelli fu una figura molto importante nella vita degli artisti di quel periodo.
Soprattutto per i compositori. Fu soprattutto un rivale per i musici suoi
contemporanei, e un esempio per quelli che lo hanno succeduto.
Tra i musici suoi contemporanei spiccano ad esempio le personalità del Bernacchi,
di Senesino, Caffarelli (Gaetano Majorano), il Manfredini, Guadagni e
Pacchierotti. Nonostante la sorte comune, le loro voci e soprattutto i loro caratteri,
erano totalmente diversi. Nel caso di Caffarelli ad esempio si sa che fu molto
capriccioso nei confronti dei suoi compositori, famoso per i suoi scatti di ira
dentro e fuori del palcoscenico, e per le sue storie amorose con molte nobil’donne
del tempo. Lo scrive anche il Metastasio in una delle sue lettere destinate al
Farinelli, lamentandosi delle sue assurdità e della sua “fragilitas”.
A quel tempo Metastasio scriveva al Farinelli: “…trovano la sua voce molta ma
falsa, stridula e disubbidiente, a segno che non sforzandola non attacca, e
sforzandola riesce per lo più aspra…ha cattivo gusto ed antico…ne recitativi pare
una monaca vecchia, in tutto quello ch’egli canta regna sempre un tono
lagrimevole di lamentazioni da far venire l’accidia all’allegria” (Cappelletto,
1995, p. 109). E’ chiaro che non tutti la pensavano allo stesso modo del poeta, ma
è anche vero che mai nessuno si azzardò mai a criticare Farinelli se non sul suo
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aspetto buffo. La voce di Farinelli era inimitabile, amatissima e richiestissima da
numerosi compositori e direttori artistici. Per non parlare poi del Bernacchi,
celebre cantante castrato contralto, nato a Bologna verso il 1700, godette di
grande reputazione come interprete e professore di canto. Ebbe la fortuna di
incontrarsi con Farinelli, al quale diede lezioni di canto, in quanto per la grande
umiltà di quest’ultimo, il Bernacchi risultò più bravo e più capace nel canto.
Espertissimo nei gorgheggi, fu l’unico che accaparrò Farinelli. C’è da dire però
che all’epoca del loro incontro il Bernacchi aveva già in buona parte fatto
esperienza teatrale, mentre Farinelli ancora acerbo sarebbe stato destinato dopo
qualche anno alla sua bravura incommensurabile.
Altro castrato famoso fu Senesino, che durante la sua carriera lavorò molto con
Haendel, con il quale aveva un rapporto abbastanza burrascoso. Cantò diciassette
arie di Haendel, ma ben presto ritorno in Italia dove era visto alquanto antiquato
nel modo di cantare. Dalla personalità molto bizzarra anche lui, al momento del
suo ritiro volle prendere con se un servitore nero, una scimmietta, ed un
pappagallo, e i suoi ultimi anni della sua vita furono tormentati dalle numerose
dispute con i parenti, in particolar modo con un nipote.
Infine il Manfredini che, come il Farinelli, ebbe l’onore di incontrare Mozart (ma
a differenza di Farinelli, si recò il cantante dal giovane compositore austriaco), ed
il Pacchierotti, valutato positivamente dall’opinione pubblica settecentesca, e
celebre per la sua rivalità con il Caffarelli.
Le storie di questi castrati che ho voluto citare sono molto differenti da quella del
Carlo Broschi, anche per quanto riguarda la situazione familiare, e il perché della
scelta dell’evirazione. Ora non voglio dilungarmi sul dire che lavoro facessero i
loro padri, ma mi basta dire che la maggior parte di loro cantava in chiesa e che
provenivano da famiglie povere, quindi per la maggior parte di essi (come vuole
la “tradizione”), la decisione di sottoporsi all’intervento non fu voluto da loro
bensì da terzi. Solo nel caso del Caffarelli, tale decisione fu voluta espressamente
da lui, in quanto appassionato di musica. Ma chissà se possiamo denominarlo
“pazzo” o “fanatico” per questa sua volontà. Nonostante infatti l’attività di
agricoltore del padre e quindi la miseria della sua casa, non gli fu mai chiesta una
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cosa del genere, o meglio non gli fu mai imposta da nessuna. Anzi fu il Caffarelli
a dover convincere il padre.
Storie diverse quindi, ma a tutte rimane comune un velo di mistero. Non si sa se
questi erano felici o infelici, se amavano il proprio canto oppure no, se avrebbero
mai voluto ritornare indietro e ribellarsi, oppure nel caso di Caffarelli se si fosse
mai pentito. Di certo i loro capricci non erano solo il sintomo del “divismo” che
sentivano sulla propria persona, ma anche una valvola di sfogo, per poter in
qualche modo sopperire alla loro sofferenza, ed infliggerne un po’ anche agli altri,
ossia ai compositori, continuamente costretti a dover cambiare gli spartiti ed
assecondare le loro necessità ed esigenze se non ordini e ricatti.
Su Farinelli sappiamo di per certo che capricci non ne faceva, anzi al contrario
dava ascolto ai suoi maestri e ai compositori che lo scritturavano. Ed anche la sua
decisione di lasciare le scene nel pieno del suo successo per recarsi dal
ipocondriaco Filippo V in Spagna, fa capire che non gli importava di porsi sul
piedistallo come un divo. Le sue frustrazioni rimanevano dentro di lui
probabilmente, e chissà se queste non avrebbero mai voluto uscire fuori e
scoppiare. Se lui non avesse voluto urlarle e sbatterle in faccia al mondo, come
appunto urlava il suo stomaco suo persecutore da sempre, nel quale forse le
reprimeva con la conseguenza che tutto quel male gli si riversava sull’intero
corpo.
Tra gli evirati che non poterono esser rivali di Farinelli, ma solamente porlo come
esempio da seguire (a mio parere non solo per il canto ma anche per personalità),
abbiamo Giovan Battista Velluti, Alessandro Moreschi. Questi due, “nacquero”
quando il Farinelli aveva lasciato definitivamente le scene. Non ci risultano molto
chiare le loro vicissitudini familiari e personali, ma sta il fatto, che nonostante
siano trascorsi parecchi anni dai primi grandi castrati, l’atteggiamento divistico e
capriccioso di questi rimane ancora molto alla moda.
Per quanto riguarda il Velluti, rimangono poco chiare le circostanze della sua
evirazione, forse conseguenza di un errore medico, anche perché pare che i
genitori lo avessero destinato, in un primo tempo, alla carriera militare. Divenne
noto, oltre che per le sue eccezionali doti artistiche, per i suoi atteggiamenti
difficili e “divistici”, anche di fronte a personaggi di rango venuti per ascoltarlo,
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come l'imperatore Napoleone, o a compositori come Gioachino Rossini.
Nonostante la sua condizione, Velluti ebbe numerose avventure erotiche, e la sua
relazione con una giovane nobildonna milanese, nel 1809, suscitò un certo
scandalo. Di lui si racconta che decise di ritirarsi definitivamente dalle scene,
perché durante le sue esibizioni capitavano episodi frequenti di insulti e offese
sulla sua persona.
Infine Alessandro Moreschi diventato poi in seguito Domenico Mustafà. Fu
l’ultimo grande castrato della storia, che ebbe i suoi natali artistici quando l’era
dei castrati era ormai in declino. Di lui infatti si conservano delle registrazioni,
unica testimonianza di quelle voci. Domenico Mustafà “L'angelo di Roma”,
alludendo con questo appellativo sia alla sua voce soave che al suo verosimile
status di purezza sessuale. Tra l’altro adottò un figlio che divenne poi
successivamente tenore e attore cinematografico. Alcuni critici moderni non
hanno molto apprezzato lo stile del cantante. E’ chiaro che tali opinioni sono state
date dopo aver ascoltato le registrazioni, ma si deve anche pur dire che al tempo
delle incisioni il cantante fosse ormai in una fase di declino causata dall’età non
più giovane.
Una cosa molto importante da tenere in conto e che le differenze tra i vari castrati
della storia, non erano differenze solo riferite ai loro comportamenti o al loro stile,
ma sappiamo che i castrati si distinguevano in sopranisti e contralti, e ciò
dipendeva dall’età in cui fu praticata loro la castrazione. Prima avveniva infatti e
prima aumentava la possibilità di ottenere un buon sopranista. Se si aspettava un
po’ di più, maggiori erano le probabilità che la voce si avvicinasse più alla sfera
contraltista. Poi si deve anche dire che una volta determinata la voce, essa non
rimaneva costante (come appunto dimostrò Farinelli alcuni anni dopo l’incontro
col Bernacchi): ci fu infatti chi iniziò con tonalità gravi contraltistiche, per
giungere man mano ai livelli sopranili e viceversa; chi non poteva più affrontare le
difficoltà teatrali, e si dedicava dunque all’insegnamento oppure alle più semplici
partiture di sfera ecclesiastiche. Furono molti i casi di evirati che non fecero
carriera, relegandosi all’insegnamento ed anche alla prostituzione in alcuni casi.
La voce dei castrati tra l’altro era molto diverse da quella della donna, ed è ovvio
come ancora oggi quando si cerca di mettere in scena opere scritte appositamente
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per i castrati, le donne non arrivino a quei livelli cosi assurdi, sia per acutezza
della voce, sia per sublimità, non si è mai più parlato oggi in epoca moderna dei
deliri di massa, o degli orgasmi artistici.
Voglio accennare il fatto che oggi esistono sopranisti, come pure esistevano anche
allora ma si preferirono i sopranisti castrati e non quelli naturali. Proprio perché
anche la voce dei sopranisti naturali è anch’essa molto diversa da quella che fu la
voce degli evirati settecenteschi.
Ancora oggi se si decidesse di utilizzare un sopranista naturale per cantare un
“Orfeo” non si raggiungerebbe lo stesso risultato. Sono voci che appartengono al
passato oramai e che non ritorneranno mai più per nostra fortuna, nonostante
sicuramente ancora oggi sia presente da qualche parte un qualche “folle” che
vorrebbe che tali voci resuscitassero. E c’è da dire che oggi sono presenti molti
musicologi, o esperti di canto e di musica, che stentano a credere che tali timbri
siano state figlie della naturalezza, provenienti esclusivamente dalla bravura del
ragazzetto che aveva avuto il dono di possederla. Ed io non posso non dare loro
ragione. In realtà tale dono non lo si può chiamare tale. Il dono e un qualcosa che
ci è stato regalato dalla natura, dalla fortuna, da qualcuno che ce lo ha trasmesso o
anche da Dio se vogliamo. Tali timbri invece non sono stati altro che una forzatura
da parte dell’uomo, la cui tendenza è sempre stata quella di imitare il creatore, o di
superarlo addirittura, senza pietà e senza limiti. Ma non ci riuscirà mai, in quanto
soltanto la natura o Dio (se esso esiste), possono riuscirci senza infliggere
sofferenza.
La mia intenzione infatti sino ad ora è stata quella di raccontare la vita di Farinelli
e descrivere la sua voce meravigliosa, perché obiettivamente essa lo era ma
sempre ribadendo che quella era una bellezza che conviveva con l’orrido, figlia di
un delitto che alienava il castrato non più uomo ma macchina per cantare.
2.4 Il famosissimo incontro con Mozart
Ritiratosi a Bologna dopo l’esperienza madrilena vissuta assieme all’amico
Metastasio, Farinelli trascorse gli ultimi anni della sua vita, nella sontuosa villa
che si era fatto costruire, circondato dai suoi meravigliosi quadri, e da oggetti di
valore tra cui le numerose tabacchiere finemente decorate, regalategli dalle tante
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personalità importanti che incontro nel corso della sua vita e che lo ascoltarono
cantare. Il periodo bolognese parte dal 1761 fino all’anno della sua morte nel
1782. Durante questo periodo il cantante ricevette numerose visite, tra cui quella
del compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart, allora ragazzetto prodigio.
Un incontro molto significativo, in quanto dal colloquio che ebbero quel giorno, si
riescono a capire molte cose sull’ammirazione del piccolo compositore che
ascoltava con attenzione i consigli del grande maestro, ma soprattutto traspare
quanto Farinelli abbia lasciato un segno nel cuore delle importanti personalità che
sarebbero successivamente appartenute al suo stesso mondo, quello della musica,
e che avrebbero anche esse lasciato un contributo fondamentale.
L’incontro inizia con la figura di Farinelli seduto sulla poltrona con di fronte le
numerose tabacchiere le cui pietre brillavano ad intermittenza, ed un solo
candelabro acceso. Mozart rimase colpito da questa primo approccio, soprattutto
quando il cantante si alzò per accoglierli, ormai stanco, incurvato ed un po’
pallido, ma sempre molto grande e bello. Farinelli nella prima parte di
quell’incontro accompagna il piccolo Mozart nelle varie stanze del palazzo,
volendogli mostrare tutti i doni che gli vennero fatti durante i suoi innumerevoli
tour. Farinelli aveva già sentito parlare del ragazzetto prodigio, cosi iniziò con lui
subito una lunga conversazione sulla musica e sull’opera che il compositore aveva
intenzione di intraprendere. Mozart spiegò subito al celebre sopranista quali
fossero le sue intenzioni, e soprattutto come sarebbe iniziata la sua opera: “ho il
soggetto, i personaggi, la scena. Siamo in Creta. Il re di quel paese ritornando
dalla guerra di Troia, è naufragato davanti all’isola. Suo figlio Idamante, convinto
che suo padre sia morto sfoga il proprio dolore.” Farinelli: “mi sembra di capire
che Idamante sarà il nome dell’eroe, il dessus quindi. La vostra opera ragazzo sarà
un fiasco completo! Fate alzare il sipario sul primo attore, lo fate cantare mentre la
gente arriva, si siede, fa baccano. Nessuno di noi sarà il vostro uomo.”
(Fernandez, 2008, p. 137). Ho voluto riportare qui, un pezzo del dialogo avvenuto
tra i due artisti, a mio parere la parte più significativa, in cui si può cogliere la
durezza di Farinelli nell’essere molto franco nei confronti del ragazzino dilettante.
In quel momento infatti Farinelli si rese subito conto di quanto il piccolo
compositore (nonostante bravo), avesse ancora molto da imparare e da
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sperimentare, non solo a livello di studio, ma di esperienza, e soprattutto di come
fosse ancora completamente inconsapevole ed ignaro di quel mondo con il quale
aveva deciso di lavorare: il mondo dei castrati. Mozart a quel tempo, non sapeva
ancora del “divismo” di cui i sopranisti soffrivano, dei loro capricci e della
subordinazione a cui erano costretti i compositori per poterli accontentare e non
rischiare di non mettere in scena le loro opere. Tra l’altro Mozart non poté avere
la fortuna di cantare con un Farinelli al quale i capricci erano estranei. Cosi subito
il cantante gli consiglio di cambiare la scena iniziale, e di ritardarla di qualche
tempo, il tempo necessario affinché tutto il teatro sarebbe stato in silenzio,
cosicché nessun castrato avrebbe rifiutato quel ruolo.
Il sopranista continuo a dare consigli al futuro celebre compositore, consigli
riguardanti la scelta dei personaggi, il numero dei protagonisti, fino al punto di
aprire un discorso sull’opera italiana, la cui decadenza fu causata in primis dai
capricci e dalle vanità degli evirati che si ostinavano a cambiare le scene, e dal
pubblico che non avrebbe mai apprezzato un’opera che non fosse già stata portata
in scena trenta-quaranta volte.
Farinelli capi subito che Mozart aveva buoni sentimenti nei confronti della
musica, dei sentimenti che per Farinelli rendevano più infelici che felici e che
sarebbe stato meglio non averli. Le aspirazioni musicali di Mozart per Farinelli,
erano sante quanto disgraziate. Egli ne aveva l’esperienza, aveva passato anni a
contatto con il pubblico, con gli scenografi e con gli altri cantanti. La sua
schiettezza nei confronti del compositore non era cattiveria o un modo per deviare
i desideri del futuro artista, ma un comportamento di stima quasi paterna che
metteva in guardia il pianista, che di parte sua capi immediatamente queste sincere
intenzioni, ascoltandolo a lungo ed in silenzio, facendo tesoro di tutti i consigli.
Mozart ebbe la certezza di ciò quando, dimostrando tutta la sua ammirazione per
il cantante, quest’ ultimo rispose che era sprecata e mal riposta.
Farinelli non era come tutti gli altri suoi contemporanei ed emuli, a lui era stata
rubata l’arte, spesa per interi anni (quasi un quarto di secoli), cantando le stesse
quattro arie tutte le sere per curare la malattia psico-fisica di due Re. Forse fu una
scelta voluta, consapevole, per lui era la stessa cosa cantare facendo da terapia, e
cantare per un pubblico mediocre, se non meglio. Quel pubblico che li derideva,
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quel pubblico sovrano di ogni cosa: dei loro scarpini, dei loro trucchi, delle loro
parrucche, dei loro comportamenti capricciosi e divertenti. “Ecco perché abbiamo
avuto la meglio sui giovani musicisti che, entusiasti e animati da una fede come la
vostra, hanno tentato di scrivere per noi una musica che scaturisse dal cuore”
(Fernandez, 2008, p. 140).
Mozart tentò invano di trascinare il cantante a parlare di qualche episodio della
sua vita. Dimostrandogli che forse aveva denigrato troppo la categoria dei castrati,
ma il compositore era troppo piccolo per capire, troppo puro. L’incontro si
conclude con le lacrime di Mozart che seppe trattenersi, dal dolore che provò
guardando quella celebre figura alla quale restavano solo le sue tabacchiere,
simbolo di gloria e derisione di una vita sacrificata alla musa più bella, afflitto dai
ricordi e da un pensiero pessimista. Ormai vecchio e senza nessun interesse nel
parlare in modo cosi severo e cosi veritiero.
Capitolo 3
LA “VOCE REGINA”: I MODERNI
3.1 Il film di Gerard Corbiau
“Farinelli voce Regina” è il titolo di un film del 1995 del regista belga Gèrard
Corbiau, di produzione italo-francese, sulla vita del celebre cantante castrato del
XVIII secolo Carlo Broschi, in arte Farinelli. Il film è stato premiato come miglior
film straniero ai Golden Globe e ha ricevuto una nomination all’Oscar.
L’attore Stefano Dionisi, che interpreta il protagonista, recita le battute di dialogo,
mentre nelle parti cantate, per riprodurre la particolarissima voce di un castrato,
sono state registrate separatamente le voci di un soprano donna, Ewa MałasGodlewska, e di un controtenore uomo, Derek Lee Ragin, e poi mixate insieme
con mezzi digitali.
Pur presentandosi come una biografia del celebre castrato, all’interno del film
sono presenti parecchie inesattezze. Il film si apre con la presenza del cantante in
Spagna, per poi proseguire con un lunghissimo flashback che si protrarrà fino a
quasi la fine del film. A Napoli, nei primi anni del ‘700, con il padre vivono
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Riccardo e Carlo Broschi: il primo ha dieci anni più del fratello e scrive canzoni
sacre e pezzi d’occasione, ma non certo con il talento di molti musicisti operanti
in quella coltissima città, mentre il fratellino, che fa parte di una cantoria in
Chiesa, possiede per natura una voce d’angelo. Un giorno non riesce a farsi uscire
dalla gola un solo suono davanti al grande Nicola Antonio Porpora (che ha
accettato di sentirlo, perché colpito dal suicidio di un amico cantore, terrorizzato
dalla castrazione, di cui si abusava quando le donne non potevano in Chiesa
ricoprire ruoli vocali femminili). Riccardo Broschi, però ambizioso com’è (ha
cominciato a comporre "l'Orfeo"), profittando di una malattia di Carlo, ridotto in
stato di incoscienza, gli somministra dell’oppio, lo immerge in una tinozza di latte
e lo castra. La sua voce gli preme troppo: essa deve restare per sempre purissima e
con Carlo, ribattezzato Farinelli, i due condividono onori e gloria per anni e anni.
Cominciano così i concerti gremiti ed i fastosi spettacoli teatrali a Napoli, a
Vienna, a Londra e, con la protezione del Re, in Spagna.
A Londra pontifica Georg Friedrich Haendel, che detesta Farinelli, diventato
ormai il più splendente degli astri. Le donne cadono in delirio per il cantante
napoletano, ma il castrato trionfante sulla scena, ai vertici della celebrità non è
felice: egli sa di non essere un uomo completo e la malinconia lo incupisce. Una
bella vedova inglese, Margareth Hunter, non accetta la richiesta di sposarlo e
Carlo ripiega sulla nipote Alexandra Keene, innamorata di lui.
Intanto ferve a Londra la lotta tra il pubblico del Covent Garden, regno di
Haendel, e quello del Teatro della Nobiltà, dove Porpora ha moltissimi
ammiratori.
Tre anni dopo Riccardo ha ultimato il suo faticosissimo “Orfeo”; lo offre al
fratello, che lo rifiuta. Ormai a Madrid egli canta solo per Re Filippo V che,
malato, crede di trovare in Farinelli la sola medicina efficace a calmarlo. Riccardo
si taglia le vene durante un’eclissi solare ed ecco che il cantante gli è
fraternamente vicino: i due non possono separarsi. Poi come è accaduto in passato
con tante altre donne, Carlo, innamoratosi di Alexandra lascia al fratello di
completare e rendere fertile la propria vana passione. Un bambino deve nascere,
mentre Riccardo fugge a cavallo da Madrid dopo aver distrutto lo spartito de
“l’Orfeo”.
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Già da questo breve riassunto si capisce di quanto sia poco coerente il film con la
vera storia del grande cantante, e di quanto sia impossibile rimanerne passivi e
non criticare. Ma ho riservato a dopo lo spazio per la critica, piuttosto ora voglio
cercare di capire quali fossero le vere intenzioni del regista belga e coglierne i lati
positivi.
Guardando il film mi sono accorta che le inesattezze riguardano la vita di Farinelli
e non altro. Nel senso che, conoscendo la storia del cantante e paragonandola con
quella del film, possiamo appieno affermare che non si tratta di esso. Ma se
guardiamo oltre la vera vita del cantante, possiamo dire che quelle inesattezze
cinematografiche non siano poi cosi inesatte, se dall’altra parte consideriamo
anche tutte le fantasie del pubblico settecentesco che circondavano i castrati e che
il regista belga ha rappresentato nel suo film. Ha commesso però l’errore di
andare troppo oltre, fino alla trasgressione di spacciarle per vere.
Credo fermamente infatti, che il regista abbia voluto non raccontare la vita di
Farinelli, bensì raccontare appunto le fantasie sui castrati, e abbia voluto prendere
come figura protagonista il Farinelli semplicemente perchè è stato il più
straordinario, ma la sua straordinarietà non è affatto rappresentata, ma solo
nominata.
Forse il regista a mio parere ha cercato di fondere ambedue le cose: ricordare la
figura di Farinelli (nominandolo soltanto, dato che c’è ben poco di lui nel film), e
ricordare anche tutti gli altri castrati, non nominandoli come Corbiau ha fatto con
Farinelli, ma rappresentando e mettendo in scena tutte quelle perversioni, fantasie
e anche il successo che circondava i musici in quel periodo.
Continuando ad analizzare il film ho notato comunque una certa bravura del
regista belga nell’essere molto attento nella costruzione delle scenografie, dei
costumi, dei trucchi. Non solo attento ma anche preparato e competente nel
riprodurre quel periodo. Per quanto riguarda quindi l’estetica del film, non ho
notato nessuna stonatura, il tutto e stato ben curato nei minimi dettagli. Una
particolare attenzione e stima anche nei confronti delle parti scritte, o meglio al
modo in cui sono state scritte. Mi hanno molto colpito infatti quei dialoghi in
particolar modo quelli tra Haendel e Farinelli, nei quali si notava quella punta di
volgarità corretta (se cosi la si può definire per rendere meglio il concetto), o
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meglio una volgarità non volgare. Riporto qui due battute di Haendel nel film
interpretato da Jeroen Krabbe: “Senza musica, voi non esistete più. Non siete che
un animale senza coglioni, né uomo né donna. La vostra voce è la sola
giustificazione della vostra esistenza. Quello che avete qui (indica la sua gola) è
un organo del quale la natura vi permette di godere... per farvi dimenticare il
ridicolo dell'altro. La voce di un castrato è la manifestazione di una natura derisa,
distolta dal suo scopo per truffa!”. Non soffermandomi troppo sulla scelta del
termine “coglioni” in quanto a mio parere per come era il contesto della scena non
si poteva usare altra parola più adatta, non ho trovato niente di volgare nei vari
dialoghi e monologhi degli attori.
Ciò che ho trovato completamente inadatto e volgare è stata la scelta di dare tale
battuta ad Haendel, il quale ho già raccontato di quanto stimasse i castrati per i
quali scrisse molte delle sue opere, piuttosto che darla ad un qualsiasi nobile o
personaggio del popolo.
Il concetto al quale voglio arrivare quindi è la mia ipotesi iniziale sulle intenzioni
del regista: cioè che abbia voluto rappresentare le fantasie e anche le offese e i
pensieri del pubblico di quel periodo nei confronti dei castrati, immaginari
collettivi che furono costruiti a loro tempo anche sul rapporto tra Farinelli ed
Haendel, pensati come due rivali, ma in realtà come ho già spiegato i due illustri
appartenevano solo a due teatri diversi, e per questo si preclusero la possibilità di
lavorare insieme, ma ciò non fu per inimicizia. Ciò infatti poi è confermato in
un’altra battuta di Farinelli rivolgendosi ad un nobile che rideva dell’insuccesso
del teatro di Haendel: “Voi siete un asino, signore! Non meritate di possedere
delle orecchie! Quando i posteri avranno perduto da anni il ricordo della vostra
misera esistenza, pronunceranno il nome di Haendel con un infinito rispetto!”.
Altra battuta del Farinelli (Stefano Dionisi) che voglio qui riportare è quella
durante una discussione col fratello Riccardo (Enrico Lo Verso): “Tu rimpiazzi
l'ispirazione con il virtuosismo! Tutti questi ornamenti, queste fioriture che
moltiplichi, queste complessità che gravano sulle partiture! Dimentica la mia
voce! È tempo di pensare alla musica! Devi toccare cuori, trovare l’emozione
giusta, essenziale. Vorrei che la tua musica facesse fremere quella parte di infinito
che dorme dentro la gente. È questo che ti chiedo, Riccardo”. Anche qui è
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completamente infondata la confidenza tra i due fratelli nell’avere dialoghi cosi
accesi nella storia. Non abbiamo nessuna notizia di come fosse veramente il loro
rapporto. Però appunto l’inesattezza anche qui sta solo riferendosi alla vita di
Farinelli e al suo rapporto in questo caso col fratello, ma per quanto riguarda la
musica barocca e soprattutto le musiche create per i castrati, le fioriture, le
complessità degli spartiti e il virtuosismo che si andava a sostituire all’ispirazione
come accennato nella battuta, erano elementi che effettivamente caratterizzavano i
melodrammi del barocco.
In ultima analisi sui dialoghi voglio riprendere altre due battute. La prima
dell’amico suicida del piccolo Carlo quando non era ancora castrato che cantava
nella cantoria della chiesa: “Non cantare più, Carlo! Non cantare più! Non
lasciarti fare questo! C’è la morte nella tua gola!”. La seconda del Carlo oramai
castrato anche esso: “A forza di incarnare gli dei, sono arrivato a credere di poter
essere un uomo.” Appieno queste due battute rappresentano la disperazione, la
tristezza, la desolazione e la delusione della vita, causati dalla pratica della
castrazione. Voglio ricordare in effetti di quanti casi di ragazzini suicidi sono
pervenuti sino ai nostri giorni, e soprattutto di come Farinelli e tutti gli altri (quasi
tutti) non si siano mai sentiti uomini a tutti gli effetti, e sfociavano appunto in quel
divismo frivolo, capriccioso e permaloso che apparteneva solo ad essi, “visti come
appunto degli Dei, cosi da darsi una specificità non essendo ne uomini e ne
donne” (Celletti, 1986, p. 356) . Non a caso il genere che Gerard Corbiau dà al
suo film è: drammatico-biografico. Poiché appunto probabilmente ha voluto
rappresentare sulla scia di questo velo biografico sottilissimo sulla vita di
Farinelli, la drammaticità della vita di tutti i castrati, vittime del loro lusso (unica e
sola cosa che forse li amava davvero) e delle fantasie pregiudiziose della gente e
del pubblico che non rendeva omaggio a loro ma a se stessi, alle loro curiosità, e
divertimenti.
Per quanto riguarda ancora il film, è stato davvero un piacere per le mie orecchie
ascoltare le arie d’opera scelte per le scene di debutto dal regista. Possiamo infatti
notare: Qual guerriero in campo armato (da Idaspe di Riccardo Broschi), “Ombra
fedele anch’io” (da Idaspe di Riccardo Broschi), “Son qual nave” (da Artaserse di
Hasse), “Se al labbro mio non credi” di Riccardo Broschi, “De torrente” (da Dixit
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Dominus di Georg Friedrich Händel), “Cara sposa” (da Rinaldo di Georg
Friedrich Händel), “Venti turbini” (da Rinaldo di Georg Friedrich Händel),
“Lascia ch'io pianga” (da Rinaldo di Georg Friedrich Händel), “Overture” da
Artaserse (di Johann-Adolf Hesse), “Generoso risvegliati oh core” (da Cleofide di
Johann-Adolf Hasse), “Salve regina” di Giovanni Battista Pergolesi, “Alto Giove”
(da Polifemo di Nicola Porpora). Credo che non si poteva fare scelta migliore, in
quanto sono le opere più famose di quel periodo che ancora oggi sono portate in
scena dalle cantanti soprano e sopranisti moderni per rilanciare il repertorio
barocco dei castrati.
Non ho gradito però la scelta di mixare le voci di un soprano e di un controtenore,
semplicemente per il fatto che non ne vedo il motivo, ma approfondirò meglio tale
questione più avanti.
La mia scelta infatti, è stata quella di cogliere tra tante inesattezze la ragione di
queste ultime. Ma non voglio screditare completamente il regista, che rimane pur
sempre bravo e piacevole, ed anche preparato, nonostante le “falsità” che ha
rappresentato, quelle falsità che comunque lasciano intravedere un’intenzione ed
anche una passionalità per il tema e soprattutto una sensibilità. Ho voluto infatti,
in questa prima parte del capitolo cogliere il lato positivo nel negativo.
3.1.1 La critica al film
Fino ad ora ho voluto affermare il fatto che le inesattezze presenti nel film si
riferissero esclusivamente alla biografia del grande castrato, e che nonostante tali
tratti, al regista rimane comunque il merito di aver fornito una descrizione inedita
dell’epoca barocca. Ad ogni modo, mettendo da parte questa mia abituale
predisposizione nel cogliere i lati positivi, non posso rimanere muta di fronte alle
scelte del regista di rappresentare comunque parecchie falsità biografiche. Posso
dire quindi che nonostante una sufficiente coerenza estetica (a parte la scelta degli
attori principali), come ad esempio le scenografie che sono senza dubbio suntuose,
“non si possono nascondere i limiti di una produzione che non ha trovato il
“manico” più indicato per poter essere rappresentata a dovere” (Ferzetti, 1995).
Vi è maggiormente un eccesso di fasto, di costumi, che seppur giusti contrastano
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con quelli che sono i codici storici completamente miseri. Infatti nel film per
esempio non si accenna neppure al lungo periodo di ritiro di Farinelli alla corte di
spagna, e i suoi rapporti con le varie personalità della sua vita sono talmente
enfatizzati da sfociare in errori grossolani, che sembra quasi che il regista fosse
completamente impreparato.
Di certo non abbiamo molte informazioni sulla vita dell’evirato, ma non per
questo bisogna “approfittarne a tal punto da risultare completamente fantasiosi e
romanzeschi” (Rondi, 1995).
Magari il regista belga sarebbe stato più coerente se non avesse proprio accennato
alla figura del Farinelli, limitandosi a raccontare tutte le credenze che
circondavano i sopranisti settecenteschi. Come ad esempio le fantasia delle donne
sulle loro altissime prestazioni sessuali, ma sempre ponendo tali fantasie come
tali, e non costruirmi una scena dove un Farinelli fa sesso in modo cosi prestante
con varie donne che arrivano ad avere orgasmi lunghissimi. Ciò è assurdo sia
biograficamente sia scientificamente. Vi sono infatti all’interno del film varie
scene in cui Farinelli possiede donne una dopo l’altra come un qualsiasi maschio
non castrato, e ciò fa cadere il vero significato per cui i castrati sono diventati
celebri, ossia la loro insoddisfazione ed infelicità per la vita, dovute alla negazione
del loro elemento virile, in cambio del quale hanno conservato le loro voci
infantili.
Riguardo alla voce tra l’altro non vedo la necessità di fondere insieme
computerizzandole, la voce di un soprano donna e di un controtenore moderno,
visto che è del tutto assente la possibilità di ascoltare ancora una volta quelle voci,
e di capire quale fosse effettivamente il loro vero timbro, soprattutto data la
scarsezza di registrazioni antiche. Forse è l’immaginazione del regista, pensare
che la voce di un avo castrato fosse stata uguale o almeno somigliante alla voce
computerizzata all’interno del suo film? Beh, chi può dirlo? Forse ha ragione
forse si sbaglia! Ma sarebbe stato meglio per me utilizzare la voce di una Cecilia
Bartoli o di una Vivica Geneaux, impegnate da anni nell’era moderna a
rispolverare il repertorio dei castrati, o utilizzare voci dei moderni sopranisti. Di
certo non sarebbe stata la stessa cosa, ma almeno non cosi artificiale e virtuale.
Per riprodurre quella tonalità impossibile da tre ottave e mezzo, Corbiau ha
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sintetizzato al computer e rielaborato con processo inedito due canti, quello di Eva
Godlewska e di Derek Lee Ragin. Stefano Dionisi ha dovuto anche allenarsi ad
alterare il suono della voce parlata che sarebbe altrimenti risultato incongruo
rispetto al tono acuto del cantato. La voce, ancora la voce. E’ il motivo dominante
del film di Corbiau. “La voce umana e lo strumento più coinvolgente ed
emozionante che esista. E la voce del castrato è pura magia, la dimostrazione
ideale dell'armonia, della complementarietà e della divergenza dei sessi” (Celletti,
1986, p. 401).
Forse è stato questo l’intento del regista: fondere il femminile e l’androgino
insieme. Ma forse Corbiau nel 1995 non sapeva che la voce del sopranista
moderno (frutto di allenamento, e per questo “artificiale”) è diversa da quella di
un castrato (frutto di una deviazione fisiologica e per tanto “naturale”).
Corbiau forse credeva che la sua creazione virtuale sarebbe stata la “chicca”, “la
ciliegina sulla torta” del suo film che lo avrebbe portato al successo, come poi
effettivamente è avvenuto. Ma a mio parere immeritato. Un successo vittima
ancora oggi dopo secoli, delle credenze, delle fantasie e della poca informazione e
documentazione sui castrati, strumentalizzati anche nel film, “attraverso la
virtualizzazione moderna che coincide con quella che un tempo veniva chiamata
divinizzazione”(Ferzetti, 1995, p. 44). Anche nel film, posti come trascendentali,
quando in realtà non sono stati altro che bambinetti vittime dell’inumana cultura e
del business che si venne a creare su di essi per la troppa speculazione di norcini,
dei maestri, dei preti e delle famiglie. È sempre quello il bandolo della matassa!
Per non parlare delle rappresentazioni dei rapporti di Farinelli con le donne,
completamente inesistenti nella vita sentimentale di Farinelli, se non per
collaborazione artistica. Addirittura nel film Farinelli desidera un figlio dalla
donna che poi sarà la sua compagna per la vita Alexandra (Elsa Zylberstein), che
viene fecondata dal fratello Riccardo nel film durante una sottospecie di orgia,
dove Carlo ha il ruolo di far godere la donna e Riccardo dà il seme, scena
totalmente ridicola e imbarazzante peggio di un film alla Tinto Brass.
Anche il rapporto con Porpora (Omero Antonutti), al quale non viene data
enfatizzazione e importanza in quanto fu fino alla fine presente nella vita del
cantante, ma che nel film sembra sia solo un’ombra di passaggio. Del suo
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rapporto con Haendel (Jeroen Krabbe), posto come nemico di Farinelli, e che in
realtà lavoravano semplicemente per due teatri diversi. Haendel che dirigeva la
Royal Opera House, il teatro rivale della Opera of Nobility di Porpora, in cui si
esibiva Farinelli. Hendel fu nemico di Porpora e non di Farinelli. “Le diatribe
musicali di Haendel e Porpora sono date spesso in modo approssimativo, le
continue esibizioni in teatro di Farinelli si riducono a uno sfoggio ridondante di
costumi settecenteschi e di gorgheggi da cantante sopranista, insistiti, ripetitivi,
non sempre ben collegati all’evolversi della vicenda” (Rondi, 1995).
Ed infine il rapporto col fratello, dove l’unica verità all’interno del film sta nella
costruzione della scena della castrazione del Farinelli per mano di esso.
Nel film infatti si ha l’impressione che Farinelli abbia lavorato esclusivamente
con e per il fratello, quando in realtà fu un periodo molto breve, e sembra
addirittura che Riccardo sia un compositore grandioso, quando invece risultava
piuttosto mediocre. Vi è una continua rappresentazione di un bisogno spasmodico
del fratello minore Carlo nei confronti del maggiore e viceversa, e soprattutto di
una complicità vincente sia in scena che nella vita con il loro gioco continuo e
diventato insopportabile e disgustoso di dividersi le donne. Lo scontro fra i due
fratelli al momento della rivelazione del misfatto serve quasi soltanto ad
aggiungere alcune scene madri alle tante che, costellano il racconto; con qualche
momento intenso quando ci si raccoglie attorno alla disperazione di Farinelli di
non essere un uomo completo.
Per farne una critica completa, voglio soffermarmi anche sulla scelta degli attori,
con un riferimento particolare ai due principali: Stefano Dionisi nella parte di
Farinelli, ed Enrico Lo Verso in quella del fratello Riccardo. Il primo più bravo
del secondo, ma non esageratamente, entrambi bambocci inespressivi in molte
scene. Bravo il Dionisi nel labiale cantato che per doppiare ha dovuto prendere
lezioni di canto per due mesi, molto mediocre Lo Verso nell’interpretazione di
battute madri e nell’uso della pronuncia straniera. “Per quanto possano riuscire
comunque ad uscirne, e possano essere potuti anche piacere, le loro bellezze e
fisicità non si avvicinano minimamente a quelle originali” (Levantesi, 1995). Due
scelte molto azzardate, ancora una volta per mantenere coerente la linea estetica
ed esteta adottata dal regista.
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Candidato all’Oscar per il miglior film straniero, con il David di Donatello per
migliore costumista ad Olga Berlutti, due Premi César 1995 come miglior
scenografia e miglior sonoro, ed anche premiato come miglior film straniero
Golden Globes, “Farinelli” è un prodotto spettacolare che nelle scenografie di
Gianni Quaranta, molto ben fotografate, da Walter Van den Ende, divulga in
maniera sontuosa un capitolo della musica europea, merito di questo lo si deve
dare anche al sonoro utilizzato, e alle musiche suonate dall’orchestra Les Talents
Lyriques diretta da Christophe Rousset.
Infine bisogna dire che anche la cronologia temporale non risulta cosi lineare. Con
continui salti nel tempo non ordinati. Nel guardare il film avevo continuamente la
sensazione che mancasse sempre la chiave che chiarisse il perché di un successivo
evento; mancante sempre di molti pezzi di storia importantissimi per chiarire le
scelte di vita prese dal castrato a suo tempo. Il problema è che nel mettere in scena
il suo teorema sul rapporto fra arte e vita, la sceneggiatura è più pretenziosa che
convincente: poco ci interessano dei furori di Haendel, impersonato da Jeroen
Krabbe, e poco i rimorsi di Riccardo, che fu causa dell’evirazione del fratello. In
tutto il resto quindi prevale solo l’impegno di far spettacolo con le musiche, i
costumi, le scenografie e ripeto che sono completamente coerenti con l‘estetica di
quel periodo, ma trascurando troppo spesso l'analisi delle psicologie, pur affidate,
almeno quelle dei due fratelli, a delle problematiche precise.
Un impasto anche di cose giuste quindi, ma che probabilmente per la troppa ansia
della prestazione del regista Corbiau, non vengono trattate e collegate con
coerenza, dove i vari codici non combaciano ad incastro. Un film dove forse il
regista avrebbe potuto fare un pochino meglio, ma non più di tanto, in quanto la
mia impressione nel guardarlo è stata quella di una furbizia da parte sua di dare
importanza totale a quei codici immediatamente comunicativi, come appunto i
trucchi, i costumi, le scenografie, la voce mixata che avrebbero nascosto le
inesattezze. Un approfittazione quindi di codici forti, immediati che avrebbero
sicuramente impressionato a tal punto da offuscare le bugie. Soprattutto anche per
la scelta di due attori italiani troppo belli per incarnare tali figure. Un duro lavoro
solo ed esclusivamente sull’estetica appunto, che diventando il perno centrale nel
film, avrebbe sicuramente subordinato ad essa le verità storiche e soprattutto la
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sensibilità nell’affrontare certi temi, una sensibilità mancata, che sarebbe dovuta
essere ancora più strutturata e profonda, data la difficoltà di rappresentare una
tematica cosi delicata e allo stesso tempo cosi misteriosa e pertanto bisognosa di
una profondità elevata attraverso la cinematografia.
3.2 I sopranisti moderni
Secoli fa con il termine sopranista si intendeva indicare la categoria dei castrati in
ragione della tessitura vocale che questi uomini possedevano e che era
paragonabile a quella dei soprani. Il XIX secolo ha visto la fine della barbara
pratica della castrazione ed ha portato alla luce questa triste verità storica. Il
termine però è ancora in uso benché oggi per sopranista si intende: il controtenore,
ovvero un uomo “tenore” che canta arrivando alla tessitura vocale tipica del
soprano.
I moderni sopranisti si cimentano per lo più nei ruoli seicenteschi e settecenteschi
scritti in origine per la voce dei cantori evirati soprani o contralti. A differenza dei
cantori eunuchi, i sopranisti attuali non sono castrati; questi ultimi sono
praticamente scomparsi nel Novecento con Alessandro Moreschi. Oggi uno dei
nomi più illustri è quello di Philippe Jaroussky. Philippe Jaroussky (MaisonsLaffitte, 13 febbraio 1978) è un sopranista e controtenore francese. Studia violino,
pianoforte e composizione al Conservatorio di Versailles e dal 1996 inizia la
formazione vocale con il soprano Nicole Fallien, entrando al Dipartimento di
Musica Antica del Conservatorio di Parigi l’anno successivo, e continuando gli
studi con Michel Laplenie, Kenneth Weiss e Sophie Boulin. Si diploma in canto
nel 2001. Dal 2003 il suo registro vocale cambia in quello di controtenore
(estensione: sol2-si4) riversando il suo interesse nel repertorio operistico e
oratoriale barocco. Esordisce nel 1999 al festival musicale di Royaumont e
Ambronay come sopranista nell’oratorio inedito di Alessandro Scarlatti “Sedecia,
re di Gerusalemme”. Nel 2007 vince il premio Artista Lirico Francese dell’anno,
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cantando l’aria di Antonio Vivaldi “Vedrò con mio diletto” dall’opera Giustino.
Importantissima nel suo repertorio la musica barocca, in particolar modo Vivaldi e
Haendel.
Al nome di Philippe Jaroussky, possiamo affiancarne molti altri. Ad esempio Max
Emanuel Cencic, Aris Christofellis, Tomotaka Okamoto.
Max Emanuel Cencic è un giovane promettente controtenore croato, istruito
vocalmente al canto fin da piccolo. Esibitosi per la prima volta all’età di 6 anni.
Dal 1987 al 1992 Cencic è stato uno dei Piccoli Cantori di Vienna e in seguito ha
intrapreso la carriera da solista e, grazie ad una tecnica particolare, è riuscito a
cantare anche come soprano. Fino al 1997 Cencic si è esibito con successo come
sopranista in Giappone, America ed Europa. Nel 2001 cambia definitivamente
categoria entrando a far parte così della categoria dei controtenori. In questo
nuovo registro vocale si esibisce in sede teatrale e concertistica, nonché in campo
discografico, dove può vantare un ricco repertorio. E’ stato impegnato nel ruolo di
Ottone “nell’Incoronazione di Poppea” di Monteverdi con la direzione di William
Christie. Cencic si è esibito anche in sede concertistica con importanti recital con
musiche di Handel, Mozart e Rossini.
Aris Christofellis (Atene, 5 febbraio 1960) è un sopranista greco. Dopo aver
compiuto gli studi pianistici ad Atene e a Parigi, si concentra sulla sua voce e sullo
studio dei castrati settecenteschi. Ha debuttato a Bordeaux nel 1984. Nel 1985 ha
cantato “l’Exultate jubilate” di Mozart al concerto inaugurale del Cannes Midem
Classique, dove la sua interpretazione è stata ritenuta entusiasmante sia dalla
critica che dal pubblico. Ha cantato, inoltre, in molti festival di musica e opera
barocca: “Il trionfo dell’onore” di Alessandro Scarlatti a Parigi (Théâtre du
Chatelet); “L’Olimpiade” di Antonio Vivaldi a Parigi (Teatro Champs élisee); a
Barcellona (Palao de la Musica) nelle olimpiadi del ‘92 e nell’”Arminio” di Georg
Friedrich Haendel (Festival de Montpellier). Ha cantato in Francia, Italia, Spagna,
Inghilterra, Germania, Austria, Ungheria, Israele e Marocco. Il suo repertorio
varia dal barocco alla musica contemporanea, ma, in particolar modo, è
specializzato nell’opera italiana barocca.
Tomotaka Okamoto (Sukumo, 3 dicembre 1976) è un controtenore giapponese. Si
iscrive al Conservatorio Francis Poulenc di Parigi e lo porta a termine col
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massimo dei voti. È celebre per gli abiti buffi e vistosi che indossa durante le sue
esecuzioni.
Ho voluto riportare qui dei piccoli accenni biografici per far notare che gli studi
compiuti da questi quattro sopranisti (che reputo i più importanti dell’epoca
moderna) siano avvenuti in Francia dove all’epoca barocca fu vietato l’utilizzo dei
castrati. Tra l’altro possiamo notare anche delle somiglianze con i castrati
barocchi. Ad esempio il fatto che anche i moderni hanno portato le arie
settecentesche cantate da loro in tutto il mondo, e di come alcuni di essi (io ho
accenato solo a Tomotaka Okamoto) “riprendano l’uso degli abiti sfarzosi, seppur
in modo diverso dai veri abiti barocchi, ma conservano un tipo di stile (forzato a
mio parere) per differenziarsi dagli “altri” come se lo facessero di proposito”
(Cfr., Benedetto, 1994, p 342).
In epoca contemporanea ci troviamo spesso di fronte ad artisti molto particolari
con stili appariscenti e sfarzosi per citarne alcuni un po’ più trascorsi come il
grande Renato Zero con i suoi costumi fusi tra somiglianze animalesche e abiti
settecenteschi, o ancora negli anni 80 con il gruppo spagnolo “Locoomia” formato
da quattro cantanti gay i cui costumi univano lo stile di un torero e quello di un
nobile barocco.
Non posso fare a meno di pensare che tali stili provengano (o almeno riprendano e
ricordano) da quello dei castrati. E cosi ancora oggi i sopranisti moderni cercano
di mimare quello stile se non con gli abiti, ma con la loro voce. Anche questi
spesso vittime dell’ignoranza della gente, derisi e identificati come omossessuali,
o come addirittura castrati da chi pensa di saperne un po’ di più. Di certo non
derisi come venivano derisi i castrati settecenteschi, ma rimangono comunque
vittima dello sbigottimento del pubblico che non ha mai sentito parlare di quei
cantanti inimitabili, e milioni e milioni di volte ancora più particolari in epoca
barocca. E di certo non vagheggiati e ammirati come veniva fatto con Farinelli o
con Caffarelli.
I sopranisti quindi sono diversi dai castrati, se non l’opposto, anzi sono l’opposto,
ma allo stesso tempo comunque molto vicini. Essi sono comunque ragazzi
competenti, professionisti, che conoscono la musica alla pari o forse ancor meglio
di qualsiasi altro cantante leggero o tenorile, visto che comunque attraverso lo
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studio quotidiano hanno sviluppato quel senso canorile che rimane in ogni caso
opposto al loro sesso. Ad essi va il merito di sensibilizzare con le loro voci e di
istruire il pubblico musicale ad una storia dimenticata, “anche se spesse volte
dimenticano o vogliono dimenticare di essere completamente diversi dai divi del
melodramma barocco” (Cfr., Benedetto, 1994, p. 267). Anche essi quindi affetti da
una sorta di divismo che li porta ad immaginarsi alla pari o anche migliori ai loro
avi.
Come dimostra il titolo di un album di Philippe Jaroussky intitolato ”Opium”,
titolo molto glamour (così come la patinatissima copertina che raffigura il divo
con lo sguardo vago e distratto, la pelle levigata e diafana, e le labbra più lucide e
carnose del solito semiaperte, sullo sfondo di un broccato da tappezzeria di
albergo di lusso. Il titolo fa riferimento forse all’oppio utilizzato da Riccardo
Broschi per la castrazione del fratello Farinelli, oppure implicitamente vuole
affermare che il repertorio dei castrati che loro (tentano) di riportare in scena è
come l’oppio, un canto che ti riporta indietro che ti fa entrare in un modo diverso
fatto di passaggi veloci, fioriture, imbellimenti;
Anche se tutte queste caratteristiche non vengono e non possono essere ripetute o
resuscitate, e questo è un tema che chiarirò per bene più avanti. Oggi oltre ai
cantanti maschi sopranisti ci sono anche molte soprano donne che si sono
appassionate a questo repertorio bellissimo, il più bello forse nella storia di tutte le
arie e periodi artistici-musicali.
Voglio ricordare Cecilia Bartoli una delle più famose mezzosoprano italiane. Le
sue grandi doti le consentono di spaziare su vasti repertori, ma soprattutto nel
repertorio protoromantico, in particolare nei ruoli mozartiani e rossiniani ed in
quelli di coloratura. Cecilia Bartoli è anche un’interprete di musica barocca.
Apprezzata in tutto il mondo non solo per i suoi virtuosismi di cantante, ma anche
per le sue doti di attrice, la Bartoli ha collezionato numerosi premi e
riconoscimenti, tra cui il disco di platino in Francia per Opera proibita.
In virtù del suo impegno per la diffusione dell’opera barocca tra un pubblico
sempre più vasto, recentemente ha portato in scena anche il suo repertorio di trilli
e contrappunti seicenteschi. Ha lavorato con importanti direttori d’orchestra, e
presso le più importanti sale da concerto e teatri del mondo, quali il Metropolitan
79
di New York, il Covent Garden di Londra, il Teatro alla Scala di Milano, la
Bavarian State Opera di Monaco, e l’Opera di Zurigo.
Da notare il fatto che si è esibita nei teatri dove si esibirono al loro tempo molti
castrati famosi, quegli stessi teatri diretti dai più importanti compositori. Da
notare il il Covent Garden di Londra diretto da Haendel nel periodo di Farinelli,
dove la Bartoli si è esibita rilanciando il repertorio seicentesco e settecentesco
cantando ed interpretando le arie scritte per i castrati. Proseguendo l’impegno
nella diffusione dell’opera barocca, la cantante arriva a toccare sempre nuove città
in tutto il mondo. Da oltre due decenni Cecilia Bartoli è indiscutibilmente una
delle artiste più importanti nel campo della musica classica. I suoi ruoli operistici,
i suoi programmi concertistici e i suoi progetti discografici sono sempre attesi
con grande entusiasmo e curiosità nel mondo intero. Questi successi le hanno
consentito di avvicinare la musica ai cuori di milioni di persone in tutto il mondo.
Inoltre, grazie alla loro immensa popolarità, i suoi progetti musicali hanno dato
luogo ad un’ampia rivalutazione e riscoperta di compositori trascurati e di un
repertorio caduto nell'oblio e che Cecilia Bartoli ha riproposto al mondo musicale
per una discussione: “Riscopro tante arie perdute. Molti castrati venivano evirati
su consiglio di impresari senza scrupoli. E poi a teatro il pubblico gridava:
“Evviva il coltellino!” Il marketing vorrebbe far passare divi pop come la Jenkins
e Potts per artisti lirici: ma senza microfono non potrebbero esibirsi.” (Persivale,
2008).
Da ricordare il suo album “Sacrificium”, che la Bartoli dedica alle migliaia di
ragazzi, spesso provenienti da famiglie povere, che andarono sotto i ferri del
“chirurgo” per raggiungere la celebrità, ma che invece spesso finirono indigenti ed
isolati dalla società. In questo album, la Bartoli canta delle arie rare, talune mai
registrate in precedenza. Arie scritte specificatamente per essere cantate da
castrati. Fra gli autori troviamo Handel ed il napoletano Nicola Porpora che
diresse, a Napoli, la più importante scuola per questo tipo di cantanti. L’album
musicale, costituito da due CD con quindici arie straordinarie delle quali undici
inedite, è accompagnato da un libro intitolato “Evviva il coltellino!”, grido che i
fans dei castrati usavano urlare all’indirizzo dei loro beniamini al termine
dell’esibizione. Poco più di un’ora e mezzo di musica da ascoltare, magari in più
80
spezzoni, mentre si scorrono le pagine del libro che ci narra di quei poveri ragazzi
che furono “sacrificati” per la gloria dell’opera sinfonica.
La cantante però non è molto conosciuta in Italia…come appunto affermò in
un’intervista: “Il mondo mi ama l’Italia mi ignora!” e prosegue l’intervista
affermando ancora: “forse in patria sono troppo impegnati a seguire le canzonette,
ed artisti che hanno davvero poco a che fare con la musica, ma fanno audience”
(Mattioli, 2008). A mio, parere non posso darle torto! La Bartoli è un’artista come
gli altri che ho citato in questo spazio, a trecentosessanta gradi. Un’artista e allo
stesso tempo una “diva” che non è profeta in patria” (Mattioli, 2008). Continua a
dare davvero un grande contributo affermato da essa stessa: “ rendo onore ai
castrati del Belcanto vere vittime dell’arte” (Persivale, 2009).
Ma non bisogna ignorare il fatto che comunque non si raggiungerà mai quel tipo
di arte. Non si arriverà mai più a quei risultati canori e musicali. Si può solo
cercare di sensibilizzare di più le persone e ad educarle ad avvicinarsi con più
conoscenza a questo tema e a queste musiche, ma non di più, a meno che non si
“voglia restituire la musica ai castrati” come affermato dal compositore Igor
Stravinsky ai giorni nostri quando fortunatamente l’impiego della pratica
castrativa era stata già abolita da quasi un secolo, e al cui compositore ho già fatto
una critica abbastanza dura e severa come oggettivamente è stato giusto fare da
parte mia. A tale critica mi sento di aggiungere che non sarebbero restituiti i
castrati alla musica come affermò il musicista, bensì la musica ritornerebbe ad
essere restituita ai castrati, diventando un abbominio o meglio un miscuglio di
sublime ed orrore, ed il sublime non è sempre bellezza. O meglio ancora è un fatto
che la bellezza può convivere con l’orrore. Ma in questo caso di ha il diritto anche
di rifiutarla.
3.2 Il fascino di una voce d’altri tempi
Sino ad ora mi sono limitata ad utilizzare esclusivamente il termine “sopranista”
per motivi di semplicità, in quanto la mia intenzione è stata quella di elencare le
personalità contemporanee che hanno dato un contributo culturale nel rilanciare le
musiche e le arie scritte per castrati nel barocco e ricordare la loro storia spesso
dimenticata. Ho spiegato tra l’altro quanto sia impossibile riprovare le stesse
81
emozioni ascoltando un sopranista contemporaneo, non approfondendo però le
ragioni specifiche di tale limite. Mi sembra opportuno quindi spiegarle e fare delle
chiarificazioni non più limitandomi ad utilizzare solo il termine “sopranista”.
Oggi un sopranista è fondamentalmente un controtenore il cui falsetto è molto più
esteso e meglio sviluppato rispetto a quello di un normale controtenore, ma
esistono rari casi nei quali anche uomini adulti possono essere in grado di cantare
in questa gamma con la voce piena a causa di disfunzioni endocrine, o in presenza
di una laringe non completamente sviluppata.
Precisiamo che al giorno d’oggi i sopranisti veri e propri sono rari, perché la
maggior parte dei controtenori canta nelle gamme di contraltista e mezzosoprano.
Con il termine contraltista si definiscono i cantanti di sesso maschile che cantino
nel registro di contralto. L'etimologia deriva dalla musica polifonica, in cui si
denominava contratenor altus o contra altus la parte medio-acuta delle
composizioni, originata dal contratenor. Per estensione, colui che cantava tale
parte, o voce, fu chiamato infine contralto. Chi cantava la parte del tenor,
chiamato a volte tenorista, non era assimilabile al tenore moderno, quanto
piuttosto a una voce maschile che canti su un registro centrale, normale. Chi
cantava una parte di altus (o di contratenor altus, detto a volte contratenorista)
sfruttava le note acute della voce maschile molto più del tenorista, ricorrendo al
falsetto. Nel linguaggio musicale quindi, il contraltista era una voce maschile
corrispondente al registro di contralto che è un registro con forte timbro
femminile, usata soprattutto in alcuni ruoli che un tempo erano propri dei cantanti
castrati.
Ma bisogna proprio a questo punto chiarificare che il contraltista o mezzo
sopranista non erano sempre dei castrati, ma per loro natura avevano la tendenza
verso un timbro falsettista, che permetteva loro di sfruttare le note acute (tipiche
delle donne) anziché quelle gravi (tipiche invece degli uomini).
Possiamo finalmente dire che sopranista era un cantore adulto di sesso maschile
che, naturalmente (in passato tramite evirazione) o artificialmente (sviluppando il
registro di falsetto), era dotato di voce acuta adatta a sostenere parti di soprano.
I castrati quindi non erano dei falsettisti. Essi non avevano bisogno del falsetto, ne
di svilupparlo, dato che per questo ci aveva pensato il norcino con l’operazione
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castrativa, ed è per questo che vengono definiti come voci naturali. I falsettisti
invece hanno dovuto svilupparlo con lo studio e l’esercitazione, diventando cosi o
contraltisti o mezzosopranisti, spesse volte riuscendo a passare da un registro
all’altro.
A questo punto sorge spontanea la domanda: oltre a questa differenza di
artificialità o naturalità, quale altra differenza vi è tra i castrati e i falsettisti? E
perché venivano preferiti i primi a questi ultimi? Analizziamone meglio le
differenze per capire: i cosiddetti “controtenori” o “falsettisti artificiali” utilizzano
un falsetto “rinforzato” ottenuto aggiungendo a tale meccanismo un abbassamento
della scatola laringea che consente, tramite un incremento dei fenomeni armonici
(per guadagno di spazio di risonanza), l’emissione di un suono più ricco e rotondo
nel quale sono tuttavia facilmente riconoscibili le caratteristiche del falsetto.
A questo proposito è utile chiarire che la distinzione compiuta da Rodolfo Celletti
per distinguere tra falsettisti e castrati, attribuendo ai primi il termine di falsettisti
artificiali e ai secondi quello di falsettisti naturali, non è del tutto appropriata. Il
“naturale” conseguente risultato della castrazione è infatti la mancata crescita
laringea e delle corde vocali che pertanto mantengono pressoché l’estensione
dell’età infantile, estensione che per una voce maschile dopo la pubertà è possibile
“imitare” solo attraverso il ricorso al registro di falsetto. Ma così come il
“registro” delle voci bianche infantili è un registro pieno su un’estensione acuta,
anche il registro del castrato è un registro pieno, vero, in tal senso “naturale”, e
non una imitazione in falsetto.
Il castrato non era un falsettista, semplicemente perché non usava un registro di
falsetto. D’altro lato non comprendo perché l’uso del falsetto, nella voce maschile
adulta, debba essere etichettato come artificiale: è un registro legittimo, un modo
per emettere suoni in acuto, è falsetto e basta.
Ecco perché la definizione di falsettisti, eventualmente distinti in sopranisti e
contraltisti in base all’estensione, ci sembra la più adeguata a individuare le voci
maschili che si muovono su tessiture di ambito tonale femminile.
La resa vocale del falsettista, su tutta la gamma tonale, è comunque diversa, e per
alcuni musicologi insufficiente, rispetto a quella che doveva essere un tempo la
vocalità del castrato: sia per volume, che per estensione, che per pienezza di suono
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(cioè ricchezza armonica), spessore nel registro grave, qualità d’emissione (suoni
penetranti ma aspri nel falsettista), lontana comunque dalla particolarità e
ricchezza di colori dei castrati.
In effetti l’uso del falsetto professionale su tutta la gamma impone al falsettista
una certa uniformità di emissione (e perciò maggiore “rigidità” di gestione delle
cavità di risonanza). Questa differenza faceva si appunto che i castrati fossero
preferiti ai falsettisti, “in quanto bisogna tener conto che questi erano dotati di una
voce bianca, acuta, infantile che fuoriusciva da una cassa toracica di adulto del
tutto sviluppata, e ciò rendeva le arie di una qualità armonica più ricca, un suono
in un certo senso più pieno” (Cfr., Cappelletto, 1995, p. 99). Questo non poteva
avvenire con i falsettisti data la loro integrità fisica, ma ciò non giustifica il fatto
che essi debbano essere etichettati come artificiali, anzi penso che siano più
naturali dei castrati, in quanto sicuramente questi ultimi (non volendo screditare la
scuola di Porpora), non abbiano dovuto lavorare tantissimo sulla voce in quanto
già la possedevano senza sforzi, senza dover cambiare niente o migliorare ancora
di più. Gli studi durissimi che essi erano costretti a svolgere probabilmente era un
eccesso inutile, quasi di formalità di prassi, ma non del tutto necessario ed
inevitabile. Vittime dei loro creatori, dei loro maestri e delle loro famiglie. Infatti
ricordiamo che al di sotto dello studio vi era un business in quanto si studiava e si
partecipava alle cerimonie ecclesiastiche per essere pagati e mandare parte di quei
soldi alle famiglie e ai conservatori che li ospitava. Quindi forse potevano anche
non studiare cosi tante ore al giorno. Opposta invece la situazione dei falsettisti i
cui studi erano e sono necessari per sviluppare quel falsetto.
D’altra parte oggi non si può fare l’errore di spacciare un falsettista per castrato o
dire che siano la stessa cosa. Ricordiamo che i falsettisti vennero impiegati prima
dei castrati, per poi lavorare insieme ad essi fino a quando però alla fine del ‘500,
i castrati si sostituirono ai falsettisti artificiali, da cui si distinsero per le particolari
capacità di resistenza polmonare, dolcezza, pienezza e duttilità di suono.
I castrati, per cui il mondo civile impazziva, che da San Pietroburgo a Madrid, da
Londra a Roma, diventavano gli idoli di teatri, corti, regge e palazzi nobiliari,
contesi da re e imperatori, principi e cardinali. Semidei che suscitavano ovunque
furori e svenimenti, per cui si formavano fazioni e partiti, ma anche oggetto di
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intrighi, invidie, rivalità, ricchezza, onori, drammi e tragedie. Questo era il mondo
dei castrati: un intreccio di musica meravigliosa, politica, eccessi, miserie,
passione, scandalo, un romanzo storico. Come pensare di ritrovare anche qualche
frammento di tutto questo variopinto e mutevole mondo nelle voci degli odierni
falsettisti? Nessuno di noi, ovviamente, ha mai ascoltato un castrato cantare: ci
resta però la musica scritta per loro dai grandi compositori (musica di enorme
difficoltà che richiede dei veri fuoriclasse) e le testimonianze e i giudizi dei loro
contemporanei. Su ciò che ci resta si deve ragionare e valutare. E da tutto questo
non si può che evincere come l’impiego di tali falsificazioni vocali ( nel caso
dell’impiego dei falsettisti odierni in arie scritte a loro tempo per castrati) sia assai
scorretto, e per fattori fisici e per ragioni musicali. I primi sono dovuti
chiaramente al fatto che gli effetti che l’evirazione comportava sulla crescita e lo
sviluppo della persona non sono riproducibili oggi. E mi sento di aggiungere un
“menomale”. La voce dei castrati non era semplicemente una creazione
insuperabile alla “frankenstein”, ma un canto evirato, evirato non solo della sua
integrità naturale, ma evirato della sua verità, di ciò che è realmente possibile in
natura.
Non si conosce il senso vero dell’arte, ma possiamo cercare di darle un senso.
Possiamo provare a selezionare gli elementi che le appartengono, i pezzi necessari
a darle un’identificazione e che la rendono funzionale per una sensibilizzazione e
per una acculturazione generale e collettiva, ma soprattutto una morale ed
un’eticità. E credo fermamente che la castrazione non sia un elemento o una parte
di essa.
Le “voci angeliche” che la castrazione ha creato non erano altro che fiamme
demoniache, che hanno devastato chi le possedeva. Portatrici di bellezza e
sublimità, detentrici di impossibilità inaccessibili all’uomo comune. E pertanto un
peso che è stato troppo grande da portare e sopportare.
Qui timbri luciferi di tutto il firmamento musicale barocco, che avevano
un’apparenza o un aspetto straordinario, incantatore, ma che in realtà
nascondevano l’orrido, la sofferenza, il brutto. Tutto quello che non poteva essere
musica, essere arte. I canti più belli che si siano mai sentiti, si diceva allora, che si
siano cosi vagheggiate. Le voci figlie non della natura, non della musica, non
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dell’arte, ma di una pratica barbara, che non distingueva gli uomini dagli animali.
Quella pratica che negava i diritti universali degli uomini, della piena libertà e
dell’inalienabilità umana.
Il marcio che ha condannato e imprigionato i corpi. Quelle “bestie dentro”. Quelle
voci, padrone terribili che domavano i loro stessi padroni, vittime deboli,
assuefatti dal loro irresistibile potere, a cui non vi era nessun rimedio, se non
quello di rassegnarsi ad esse, odiarle sempre, ma allo stesso tempo amarle come
delle “beltà maliarde”.
Conclusioni
Ai nostri giorni è diventata ormai prassi comune suonare la cosiddetta musica
antica con gli strumenti dell’epoca. Sono stati copiati gli strumenti dei musei,
quando non si sono potuti usare direttamente gli originali; sono stati ricostruiti
fedelmente i modi di suonare sulla base dei trattati e di tutte le testimonianze
disponibili. Possiamo quindi avere molto più di un
tempo la
pretesa di
avvicinarci alla fedeltà storica nell’esecuzione della musica barocca.
A completare il mosaico manca tuttavia un tassello fondamentale, la cui
importanza viene tuttora inspiegabilmente sottovalutata. Questo elemento, che è
per noi impossibile da ricostruire, sono le voci dei cantanti castrati. Per tutta
l’epoca barocca lo spettacolo musicale per eccellenza
fu l’opera lirica, e la
musica scritta per il melodramma è la parte di gran lunga predominante di tutta la
musica dell’epoca. Se quindi
l’opera, almeno quantitativamente, domina la
scena, i protagonisti assoluti di essa dai primi del ‘600 alla fine del ‘700 sono
appunto i castrati, all’epoca detti semplicemente “musici”, capaci di commuovere
le folle, di suscitare entusiasmi pari a quelli delle star del cinema e del rock di
oggi, considerati dal popolo e dai sovrani quasi dei semidei o per lo meno degli
“angeli”. Come giustamente le ha definite Sandro Cappelletto nel suo libro sulla
vita di Farinelli si tratta di “voci perdute”, di cui ci rimangono solo testimonianze
scritte. Testimonianze su bambinetti innocenti, che molto spesso erano coristi
delle cantorie parrocchiali.
La storia della chiesa cattolica infatti, non è solo piena di colpe, riguardo alle
punizioni e alla morte a cui portava i cosiddetti peccatori, ma è piena di atti di
86
umiliazione verso i corpi del “loro gregge”, che spessissimo sfruttava per tessere
le lodi di se stessa.
Moltissimi bambini infatti, venivano accolti nei cori di voci bianche, e quelli
ritenuti più promettenti subivano un’operazione, che li portava a divenire cantori
del papa. Angeli controvoglia, creati dalla Chiesa: i Castrati.
Le voci dei castrati erano assolutamente le principali, le più ricercate e anche le
più pagate dell’epoca Barocca, a cui seguivano a ruota quelle dei soprani.
Tuttavia questa crudele pratica nacque molto prima. Nell’era del Neolitico infatti,
possiamo ritrovare le prime forme di metodi castrativi sugli animali per la loro
domesticazione. E successivamente durante l’impero Ottomano, con gli eunuchi, i
guardiani del letto, o meglio degli harem. La pratica si arrestò intorno l’anno
1204, per poi ricomparire più di tre secoli dopo, intorno alla fine del 1500. Ma fu
il seicento a produrre una quantità enorme di evirati cantori, poiché molte
famiglie che versavano in tristi condizioni economiche, erano disposte a
sacrificare le possibilità generative del figlio per un eventuale guadagno
economico elevato che avrebbe sistemato per sempre la famiglia dell’evirato se il
giovane cantore avesse avuto successo; tutt’al più se la voce del piccolo dopo la
castrazione non risultava idonea al teatro (che ripeto dava ottimi guadagni),
rimaneva per il piccolo cantore nel suo futuro, un impiego meno redditizio ma
sicuro all’interno del coro di qualche cappella.
Tuttavia dobbiamo tener presente che solo una piccola percentuale dei cantori
evirati giungeva al successo, ossia si faceva conoscere a livello europeo, ma
quando questo accadeva, neppure i soprani potevano contrastare la loro fama:
erano le star assolute. Spesso si andava a teatro solo per sentire cantare il castrato,
gli altri cantanti passavano così in secondo piano.
Tuttavia la castrazione non assicurava assolutamente una carriera, anche perché
solo dopo l’operazione e lo studio si poteva decretare se una voce aveva le tonalità
angeliche del castrato, oppure se era qualcosa di mediocre e quindi destinato ad un
futuro modesto.
La maggioranza dei bambini castrati, non possedevano una voce adatta a calcare i
palcoscenici, ed erano perciò destinati a vivere una vita repressa nei cupi meandri
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della Chiesa, per dedicarsi a canti ecclesiastici, molto meno remunerativi e
appaganti.
I cantanti castrati impersonavano, spesso, eroi maturi, molto virili, capi di stato o
condottieri, benché la tonalità vocale che li riguardava era una miscela tra quella
maschile e quella femminile.
Il cantore evirato si distingueva in due categorie: sopranista e contraltista. Due
tipologie vocali dallo stesso registro vocale della donna che segnarono un’epoca:
l’Epoca d'Oro dei castrati.
Infatti, una nota distintiva di tutta l’epoca barocca fu proprio la presenza, nei
teatri di tutta Europa, di quelle figure enigmatiche che diedero origine al
belcantismo italiano: gli evirati cantori.
Questi ultimi, inizialmente, come già ho avuto modo di sottolineare, cantavano
esclusivamente nelle Cappelle ecclesiastiche, dopo che il veto di Papa Sisto V
(1588) proibì l’esibizione pubblica alla donna in tutto lo Stato Pontificio,
suscitando tanta meraviglia nei fedeli che assistevano alla messa, rapiti dallo
stupore che il loro canto destava, a tal punto che ogni volta che un castrato si
esibiva in occasioni particolari in chiesa (la notte di Natale, per es.) la folla,
estasiata, si faceva sempre più numerosa alle funzioni liturgiche dando vita, molto
spesso, a veri e propri deliri di massa.
Successivamente sulle scene teatrali mutarono il volto musicale d’Europa. Ma è
soprattutto il nascente melodramma e, in particolare, il teatro napoletano del
Settecento a svilupparne la presenza in modo esponenziale, in nome di un gusto
artistico incline al senso della festa e al piacere sensuale che mira alla conquista
della bellezza pura; una bellezza che si basa su suoni morbidi, rotondi, omogenei
nel passaggio dalle zone gravi a quelle acute, sull’uso di grande agilità sia di
fraseggio che di ornamentazione, ma anche di potenza vocale costante, ben oltre
la possibilità delle voci femminili.
E non è un caso che a cancellarne la presenza con un brusco colpo di spugna sarà
invece l’avvento del romanticismo, quando dal mondo dell’arte scompariranno lo
spazio dell’illusione e la dimensione dell’artificio, il gioco del travestimento la
sottile sfera dell’ambiguità vocale.
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Nel mio lavoro ho voluto dare grande spazio al più celebre degli “angeli”, al più
grande: Carlo Broschi in arte Farinelli. Egli divenne il più celebre sopranista dei
suoi tempi. Acclamato sulle scene di tutta Europa per le sue eccezionali facoltà
naturali, la sua raffinata tecnica, la sua intelligenza e cultura. Fu per ventidue anni
alla corte di Spagna, e si ritirò poi (1761) a Bologna.
Fu legato da grande amicizia al Metastasio al quale diede la sua collaborazione
artistica in numerose occasioni.
Castrato dal suo stesso fratello: il compositore Riccardo Broschi, e da lì iniziò la
sua scalata verso il successo e allo stesso tempo la sua “via cruscis”.
La sua personalità e la sua stessa vita è un connubio tra bellezza e sublimità, tra
meraviglia ed orrore, tra gloria ed infelicità. Una vita, una personalità sdoppiata,
che rimane ancora oggi misteriosa.
L’arte del Broschi fu giudicata da chi lo ascoltò. Assolutamente inarrivabile, la sua
fama può paragonarsi solo a quella del suo illustre “gemello” Metastasio,
ambedue tipici rappresentanti del sec XVIII, ricco di grandi figure.
Come cantante ebbe voce di sopranista naturale, dall’estensione di tre ottave, di
timbro chiarissimo, dolce e penetrante, che all’inizio della sua carriera adoperò
per suscitare più meraviglia che per far musica. Amava, infatti, variare, secondo la
moda del resto, tutte le arie, ma lo faceva con gusto e abilità, essendo egli stesso
un buon musicista.
Colto e raffinato (conosceva benissimo le lingue francese, inglese, tedesca e
spagnola), fu anche di bell’aspetto ed elegante. Divulgatore della cultura italiana,
aiutò generosamente gli artisti italiani ad affermarsi ovunque i suoi impegni
all’estero lo conducessero. Il complesso stesso delle sue eccezionali qualità di
uomo e di artista ne fecero un fenomeno unico e irrepetibile.
Dal 1723 al 1734 apparve nei principali teatri europei, acclamatissimo dal
pubblico e ricercato dai maggiori operisti del tempo. Decise di ritirarsi ad un certo
punto della sua vita nel 1735, quando stava nel culmine del suo successo, a
Madrid presso il re Filippo V ipocondriaco e depressivo. Farinelli rimase alla
corte madrilena per quasi ventidue anni fino al 1759, cantando ogni sera le stesse
identiche arie, nella stanza del re, tentando di farlo guarire dalla sua malattia
psichica.
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Fu il più eccezionale, non solo per le sue doti di cantante, ma anche per la sua
personalità modesta ed umile, non affetta dal divismo che divorava la maggior
parte dei suoi colleghi a quel tempo. E’ questa la ragione che lo fa grande. Nel
1759 si ritirò in una splendida villa presso Bologna; il suo salotto fu frequentato
da uomini illustri come Gluk, Padre Martini, Mozart, Casanova. Lì vi rimase fino
alla sua morte avvenuta nel 1782 in completa solitudine e malinconia, sue due
uniche compagne fin dall’inizio della sua gloria.
Oggi è impossibile poter riprodurre quelle stesse voci se non riproponendo l’uso
della castrazione. È impossibile anche avvicinarsi ad esse, al limite si può credere
di imitare quelle voci angeliche, ma in questo senso imitare significa illudersi.
Sono numerosi nella nostra epoca cantanti sopranisti che riportano e rilanciano il
repertorio seicentesco e settecentesco dei castrati. Ma tale repertorio spesso o
quasi sempre è “vittima” (come è giusto che sia), delle continue modificazioni o
di abbassamenti di tono dei spartiti, in quanto per i sopranisti moderni, per quanto
la loro voce sia femminile ed acuta (dovuta a malformazioni congenite alla laringe
o all’apparato riproduttivo), sarebbe impossibile arrivare a quegli acuti.
Come già ho spiegato su questi non è stata applicata la castrazione e non verrà mai
applicata fortunatamente. L’unica cosa che essi possono fare, assieme anche a
molti soprano donna che si accingono continuamente a studiare le arie barocche, è
quella di riproporre il repertorio dei castrati, che è il più bello, il più minuzioso ed
il più ricco che sia mai stato composto nella storia della musica. Quella musica
che sarebbe bastata a se stessa e all’arte, non aveva bisogno di voci evirate.
Tra l’altro queste opere sono le creazioni dei più grandi compositori e musicisti
mai esistiti, che a mio parere non si vedranno ne ascolteranno più. Posso provare
una certa tristezza nei confronti dei compositori e musicisti del passato la cui
bravura e il cui stile non ritorneranno mai più. Oggi si contano davvero sule dita
di una mano i musicisti ed i compositori irripetibili, i veri professionisti che
hanno capito il vero senso della musica e dello studio costante.
Ma non posso provare tristezza per il “non ritorno” dei castrati. I castrati non
furono dei cantanti, o dei sopranisti o degli attori, o di artisti eccellenti. E se lo
sono stati, fu solo perché privati della loro libertà e negati dei loro diritti. Non
furono degli “angeli” cosi come venivano chiamati, perché possedevano una voce
90
celestiale. Ma furono degli angeli perché bambini innocenti, vittime delle loro
stesse famiglie e di chi avrebbe dovuto volerli più bene e proteggerli. Bambini
negati della loro crescita per un futuro incerto che non assicurava il “successo”, il
successo che non è sopravvivenza. Si può essere famosi e tristi allo sesso tempo,
cosi come si può essere vivi e morti allo stesso tempo. Questo erano i castrati,
uomini ai quali fu negato il diritto, quel diritto che una volta tolto non lo si può
più avere. E allora cosa rimase loro? Solamente quella voce, amata e odiata allo
stesso tempo, soltanto la rassegnazione a quel destino, nemmeno lo sfogo di
scagliarsi contro qualcuno o qualcosa. A quei pochissimi che sono riusciti, al
Farinelli, al Senesino, al Pacchierotti, al Ferri, al Caffarelli, al Crescentino, al
Porporino, al Manzoletto è riservata la menzione storica, per loro si è costruita
una vera e propria epopea artistica.
Ma forse l’omaggio più giusto e più grande che l’uomo deve a questi castrati e
alle tante creature innocenti, vittime della Storia, non è il ricordo delle loro voci,
ma di aver lasciato l’insegnamento più grande che potevamo mai avere dal
passato, e che abbiamo raggiunto e dobbiamo continuare a
preservare nel
presente, i diritti umani, la libertà, l’autonomia, l’inviolabilità della persona.
Poiché non esiste niente e nessuno per qualsiasi motivo che sia esso politico,
religioso, economico, sociale, o artistico che possa mai violarli.
91
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