UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” FACOLTA’ DI SOCIOLOGIA Corso di laurea in Sociologia TESI DI LAUREA IN SOCIOLOGIA DELL’ARTE E DELLA LETTERATURA L’EVIRATA CANZONE “Farinelli” e l’uso della “quarta voce” nell’opera occidentale Relatore Candidato Ch.mo Prof. Matr. 551/6428 Luigi Caramiello Raffaella Di Bonito ANNO ACCADEMICO 2010/2011 1 INDICE Introduzione Capitolo I Pag. 1 STORIA DELLA CASTRAZIONE 1.1 Dalle Origini al declino Pag. 6 1.2 I castrati nella tradizione musicale occidentale Pag. 12 1.3 Lo scenario musicale barocco Pag. 18 Farinelli: vita di un evirato cantore Pag. 27 2.1.1 Perché il nome “Farinelli” Pag. 36 2.1.2 La città dei castrati: Napoli Pag. 40 2.1.3 La scuola di Porpora Pag. 44 2.1.4 Il rapporto col fratello Riccardo Pag. 47 2.2 Il canto di Farinelli e il suo “gemello caro” Pag. 51 2.3 Una leggenda per i musici successivi Pag. 57 2.4 Il famosissimo incontro con Mozart Pag. 61 Il film di Gerard Corbiau Pag. 64 La critica al film Pag. 69 3.2 I sopranisti moderni Pag. 74 3.3 Il fascino di una voce d’altri tempi Pag. 79 Capitolo II 2.1 Capitolo III 3.1 3.1.1 IL SIGNORE DEL PALCOSCENICO LA “VOCE REGINA”: I MODERNI Conclusioni Pag. 84 Bibliografia Pag. 90 Siti consultati Pag. 94 Introduzione 2 Il mio lavoro opera una riflessione di carattere sociologico su una pratica che occupa un posto importante nella storia della musica e che ha una lunga tradizione che risale agli antichi Sumeri: la castrazione. Sviluppo questo tema in tre capitoli: nel primo racconto la storia della pratica, le sue origini, iniziate nel periodo Neolitico come metodo per l’allevamento e la domesticazione degli animali, sino ad arrivare al periodo dell’impero Ottomano, quando tale pratica viene applicata anche agli esseri umani. Racconto quindi degli Eunuchi, i guardiani dell’harem, impiegati anche in importantissimi incarichi politici, civili o militari, in quanto la scelta di occuparli in tali ruoli evitava cosi forme di nepotismo. Concludo il primo capitolo con il primo declino della pratica castrativa, avvenuta probabilmente nell’anno 1204 con la presa di Costantinopoli, per poi ricomparire più di tre secoli dopo. Nel secondo capitolo, quindi racconto la ripresa della pratica verso la fine ‘500 che si protrarrà fino alla fine dell’800, quando la pratica viene applicata agli essere umani, ma non a persone adulte, bensì ai bambini di circa otto-dieci anni, per arrestare il loro sviluppo sessuale e conseguentemente la muta della voce, divenendo cosi Evirati Cantori. Sviluppo questo secondo capitolo, raccontando la storia di questi bambinetti indifesi, delle loro famiglie, del perché del loro infame destino. Ma soprattutto del comportamento della chiesa nei confronti dell’impiego della pratica, dei gusti musicali del secolo seicentesco e settecentesco, e di tutto lo scenario operistico ed artistico barocco, che permettendo questo orribile scempio sono andati contro quelli che sono i diritti dell’uomo. I diritti universali di inviolabilità del proprio corpo, di inalienabilità, di piena consapevolezza delle proprie scelte e soprattutto di libertà. Diritti che non possono essere subordinati a nessuna cosa. In questo caso tali diritti sono stati subordinati dagli stessi uomini ad una pratica barbara che ha condannato migliaia e migliaia di bambini. Una pratica assurda impiegata per fini economici, nascondendosi sotto quel falso velo di servire l’arte e la musica, e celandosi dietro quelle bellezze (le voci dei castrati) che riuscì a creare, e che non sono assolutamente da rimpiangere. Voci dal timbro angelicato e 3 sublime, voci mistiche e straordinarie, ma nate dal marcio. Il marcio che ha soffocato il diritto. Quel marcio che ha negato l’essere bambini, l’essere uomini. Racconto tutto questo, sulla scia della vita del più grande castrato della storia: Carlo Broschi in arte Farinelli. Parlo della sua voce angelica e di quanta sofferenza e “gloria” gli abbia provocato allo stesso tempo. Parlo della scuola che frequentò, la scuola del grande maestro napoletano Antonio Porpora, quindi racconto di Napoli come in assoluto la “città dei castrati”, dei suoi quattro conservatori, dei sui personaggi come il principe di Sansevero Rimondo Di Sangro o di Casanova, delle frivolezze di questa città e delle sue contraddizioni viventi ancora oggi tra bellezza ed orrore. Tutto questo alternando in un gioco continuo con la vita di Farinelli, delle sue vicissitudini: alternanze tra momenti di tristezza e spruzzi di serenità ma mai di felicità. Delle sue esibizioni nei più grandi teatri d’Europa e del mondo, dei suoi continui spostamenti, del suo lungo soggiorno protrattosi per ventidue anni alla corte madrilena nel 1737. Dei suoi rapporti più importanti, come quello col fratello Riccardo, col maestro Porpora, con i compositori più importanti tra cui Haendel, col grande poeta Metastasio che chiamava il suo gemello caro. Chiudo questo secondo capitolo con la fine definitiva della pratica della castrazione, accompagnandomi (anche se i periodi non coincidono) con gli ultimi incontri di Farinelli tra cui uno dei più importanti fu quello con Mozart, che in quel periodo era ancora un bambinetto prodigio pieno di speranze e di voglia di ascoltare i consigli del grande maestro che con tanto amore e altrettanta durezza gli regala nel salotto della sua villa di Bologna, luogo del suo definitivo ritiro e della sua morte avvenuta nel 1782. Il terzo ed ultimo capitolo invece è ambientato nell’epoca moderna, l’era dei grandi metodi comunicativi e dei mass media. Questo terzo capitolo infatti è diviso in due parti: una prima parte in cui mi accingo a parlare del film del 1995 prodotto dal regista belga Gerard Corbiau sulla vita del Farinelli, ed una seconda parte dove discuto dei sopranisti e soprano moderni. Per quanto riguarda la prima parte, essa è caratterizzata da una critica che faccio al film in quanto non corrispondente e fedele alla realtà storica, ma allo stesso tempo cerco di carpire le vere intenzioni del regista nel non essere veritiero, e di mettere 4 comunque in risalto la sua bravura estetica ed esteta per quanto concerne i costumi e le scenografie del film che invece riproducono a mio parere, in maniera eccellente l’epoca barocca. Nella seconda parte invece chiarisco le differenze tra i castrati e i falsettisti controtenori del nostro periodo. E’ risaputa infatti la presenza ancora oggi di moltissimi soprano uomo, o meglio sopranisti controtenori, che cantano con voce opposta al loro sesso, e quindi con voce femminile, ma ciò non è dovuto alla castrazione, bensì a delle loro patologie e malformazioni alla laringe o all’apparato riproduttivo. Racconto della loro inclinazione, assieme a molto soprano donna come l’italiana Cecilia Bartoli, di rilanciare e nello stesso tempo riprendere e ricordare il repertorio del barocco, repertorio scritto nella maggior parte dei suoi spartiti per i castrati dai più grandi compositori seicenteschi e settecenteschi. Espongo le mie opinioni e pensieri personali sulle somiglianze, ma soprattutto sulle differenze tra le voci delle soprano e dei sopranisti soprattutto, e quelle dei castrati. Cerco di immaginare come queste siano state a loro tempo, avendo studiato la struttura dalla quale fuoriuscivano: una cassa toracica da maschio adulto che spingeva all’infuori questo suono infantile che diveniva acutissimo in modo quasi sovrumano, cosa irriproducibile oggi. E pertanto molto differente rispetto a quelle dei sopranisti moderni che non sono stati vittime dell’evirazione. Cerco comunque di cogliere delle somiglianze tra essi e i castrati dell’epoca. In un certo senso loro antenati. Somiglianze che ritrovo nella poca conoscenza su questo tema da parte delle persone e del pubblico che ritrovandosi ad ascoltare il canto di un sopranista moderno, pensa erroneamente di star ascoltando un castrato barocco. Tutto ciò si svolge appunto in un immaginario collettivo che si consuma da secoli, in quelle che furono a loro tempo le curiosità, le fantasie, le idiozie, le credenze assurde sulle figure dei castrati vittime di tale ignoranza, e ancora oggi in quelle che sono le immaginazioni e le false convinzioni di parte del pubblico sulle figure dei sopranisti contemporanei. 5 Il fulcro centrale di tutto il mio lavoro comunque sta nel secondo capitolo, dove dall’indice si evince che il periodo del barocco è stato il momento in cui tale pratica è stata più impiegata, assumendo una piega artistica. A differenza del primo capitolo, in cui mi limito a raccontare e descrivere eventi storici realmente accaduti; e del terzo capitolo in cui espongo le mie opinioni personali sul film e sull’impiego dei sopranisti moderni e di alcuni soprano donna nel rilanciare il repertorio dei castrati, cogliendo cosi somiglianze e differenze con questi ultimi, nel secondo capitolo tento di ricostruire la storia del grande castrato, e di ipotizzare (studiando i vari eventi della sua vita), il perché di alcune sue scelte (come “il perché” del suo lungo soggiorno a Madrid), e di come fosse il suo rapporto col fratello Riccardo soprattutto, suo creatore in quanto suo carnefice. Provo quindi a sperimentare, a cercare di capire con l’ausilio dello studio fatto e dei libri letti, sulla sua persona e sul profondo del suo animo tormentato ed afflitto. La mia scelta infatti, di aver voluto intraprendere questo argomento, non è stata una scelta casuale. Non si può essere casuali sulla scelta di un tema cosi specifico. Mi trovavo infatti nei pressi del conservatorio di Napoli, reduce da una lunga chiacchierata svoltasi all’università su quale sarebbe potuto essere l’argomento della mia tesi. Passando appunto per la strada del conservatorio, avendo frequentato varie volte quel luogo nella mia vita, decisi che sarebbe stato meraviglioso da parte mia scegliere un tema sulla storia della musica, cosi da fondere insieme le mie due passioni: la sociologia ed il canto. “E quale argomento in particolare” mi chiedevo “sulla storia della musica?”. Stavo per abbandonare l’idea, quando pensai che un argomento c’era in me, avendolo casualmente affrontato giorni prima durante un colloquio all’università: gli evirati cantori. E cosi iniziai a raccogliere informazioni su di essi, sulla loro storia e su quella della castrazione, notando che sulla castrazione di informazioni ce ne erano, ma ben poco su quella dei castrati e delle loro storie più in particolare. Tutto su questi, era trattato in modo molto generale, risaputo, nei vari racconti e descrizioni, mi sembravano tutti uguali. Ma non è cosi. 6 Non ricordo precisamente come arrivai poi alla figura di Farinelli e alla scelta di porlo come fulcro centrale del mio lavoro, dato che su di lui le informazioni scarseggiano. Avevo in mio possesso un intero libro che raccontava della storia di Porporino, altro grande castrato, successore di Farinelli (si potrebbe dire), ma optai per Farinelli, e non so come. Ma so per certo che mi ha affascinato molto la sua misteriosità e l’oblio dal quale è offuscato. Un oblio che lui stesso si è creato non avendo mai lasciato informazioni su se stesso. Quindi nonostante morto, ho l’impressione come se fosse ancora vivo (almeno in me lo è), essendo stato capace di aver smosso nella mia mente l’intenzione di ricordarlo e cercare di dare una spiegazione a molti eventi e rapporti della sua vita, forse quasi a tutti. E di chiarire e sfatare i miti costruitisi intorno a lui e a tutti gli altri castrati. Ma soprattutto il mio intento è quello di lasciare un messaggio significativo su quelli che sono i diritti, i nostri diritti che non ci possono essere tolti o negati, e che non esiste nessun’altra forza superiore che possa soffocarli, che non c’è niente che sia cosi importante o talmente bello, che possa giustificare la loro condanna. Non potendo rimanere passiva alla sofferenza e alle ingiustizie che ha inflitto la castrazione ho deciso quindi di farlo argomento della mia tesi e di affiancarlo al nome di Farinelli, un personaggio, pensai, romanzesco quasi inventato, diventato oggi leggenda, ma non per la sua voce, ma per il suo diritto negato al quale dovette per forza rassegnarsi. 7 Capitolo 1 STORIA DELLA CASTRAZIONE 1.1 Dalle origini al declino La castrazione (dal latino castrare, “castrare”, parola imparentata anche col sanscrito castram, “coltello”) è una pratica eseguita fin da tempi remoti per motivi non sempre chiari, ma di norma a sfondo magico-rituale o anche come mezzo di soggiogazione, schiavitù o genere di punizione. Il suo impiego risale agli antichi Sumeri. Ancor prima dei Sumeri, le prime evidenze di questa usanza si hanno nel Neolitico, quando la castrazione era uno dei metodi per l’allevamento e la domesticazione degli animali, un sistema che pratichiamo ancora oggi. Ben presto, per i motivi sopra citati, venne applicata agli esseri umani. L’istituto dell’evirazione per gli esseri umani ha caratterizzato un gran numero di società e di culture umane in età antica: in Europa, Asia e Africa. infatti a partire dal primo periodo dell’impero bizantino si sa dell’esistenza degli eunuchi. Il termine “eunuchi” indica quegli uomini che furono sottoposti ad interventi di mutilazioni parziali o totali in età prepuberale o puberale cosi da condurli ad un’impotenza, come l’impossibilità di fecondare o di avere un erezione. In casi di evirazione puberale, nella cultura islamica ad esempio, questi furono impiegati per compiti di sorveglianza dei ginecei o degli harem (luoghi inviolabili), dai califfi o dai sultani divenendo normale corredo di questi. Lampante è infatti il significato di “eunuco”, dal greco: eunouchos, “guardiano del letto”, composto di eune, “letto”, e da echos “conservo”. Originariamente erano camerieri segreti dei principi orientali e furono presenti anche in Grecia e a Roma con funzioni analoghe. Nell’impero bizantino ricoprirono non di rado, funzioni delicate come quelle politiche, civili, militari e religiose, cosi da evitare forme di nepotismo. 8 Anche durante l’impero cinese furono impiegati alla cura dell’imperatore e della sua famiglia, ma ottennero spesso anche cariche importanti nella burocrazia imperiale. Se non bastasse, in quel tempo gli eunuchi ebbero la funzione di killer, come accadde ad Artaserse III, re di Persia che nel 338 a.C. morì avvelenato da un potente eunuco egiziano. In casi di evirazioni prepuberali invece, furono impiegati per esaltare il registro alto canoro. Nell’400 infatti l’imperatrice Elia Eudossia aveva un maestro di coro eunuco, Brisone, che si presume, istituì l’uso dei castrati nei cori bizantini, anche se non è noto se egli stesso sia stato un cantante. Per quanto riguarda invece gli scopi religiosi, possiamo elencare un gran numero di culti tra cui il più famoso è quello di Cibele che aveva il centro principale in Pessinunte, in Asia minore. In seguito il suo culto passo in Grecia e specialmente a Creta, sotto il nome di Rea. Il culto è collegato al mito appunto della Dea Cibele (la parola vuol dire “caverna”) versione greca della Dea Madre anatolica, divenuta poi la Magna Mater dei romani (dove fu venerata a partire dal 205 a. C. come simbolo di fecondità). Era la Dea che aveva generato il cosmo, benché vergine. Ma ciò non gli impediva di essere l’amante di Attis, suo uomo e figlio nello stesso tempo, il quale in un primo momento aveva ricambiato il suo amore. Ma successivamente si evirò, preso dal dolore e dal senso di colpa per aver giaciuto con un’altra donna per giunta mortale. Nonostante il tradimento, la grande madre lo perdonò tenendolo accanto a se come servo. Non è però da ignorare il fatto che vi sono molte varianti del mito, ma la versione più conosciuta è comunque quella che vuole che Cibele abbia ottenuto solamente l’asessualità del corpo di Attis. La castrazione rituale, di origine antichissima quindi era collegata al culto della Dea Madre e riguardava gli uomini che nelle società matriarcali si sottomettevano al potere castrativo della Grande Madre in emulazione estatica di Attis: “scagliando i loro attributi sanguinanti sulla statua della divinità” (Caramiello, 2009, p. 4). Presso i sacerdoti di Cibele l’automutilazione era praticata in entrambi i sessi, nella convinzione che disponesse a un godimento superiore. Altri culti molto simili a questo sono ad esempio quello di Artemide nell’mar Egeo, di Ecate in Grecia, di Astarte e di Atargatis in Siria, di Milytta in Babilonia, di Osyride in Egitto, che vede i custodi del suo tempio sottomettersi a tale sacrificio. Tutto il 9 senso della pratica stava comunque in una trasposizione su un piano mistico del soggetto, che rinunciava alla normalità umana in favore di un’anormalità che lo metteva in contatto col divino. Abbiamo detto tra l’altro che la pratica veniva praticata anche come punizione degli adulteri e dei sacrilegi, ciò soprattutto in Egitto e in India, ed anche come mezzo di soggiogamento. A questo proposito mi viene alla mente la castrazione, accompagnata dall’asportazione del pene che dovette subire Pietro Abelardo. Affascinante e famoso maestro alla scuola di teologia di Notre-Dame a Parigi, che intrecciò con Eloisa (fanciulla di eccezionali qualità) una memorabile relazione amorosa che ebbe tragica conclusione per opera di Fulberto, zio di Eloisa e canonico della cattedrale di Notre-Dame. “Costui infatti lo fece evirare notte tempo inviando dei sicari che entrarono nella camera da letto di Abelardo grazie alla connivenza di un servo” (Mancinelli, 2004, p. 97). Con la morte di Abelardo ci troviamo nell’anno 1142, e la castrazione si mantenne fino alla presa di Costantinopoli nell’anno 1204. Dopo quest’anno la pratica cadde in disuso, per poi ricomparire (senza precise ragioni) più di tre secoli dopo, nella seconda metà del ‘500, e si manterrà per oltre 350 anni. Una castrazione del tutto “sacrosanta” che fu praticata in Europa, e soprattutto in Italia, appunto fra il XVI e il XVIII secolo e oltre: i ragazzi dotati di una bella voce venivano talvolta castrati perchè potessero cantare in chiesa a causa probabilmente di una bolla pontificia nel 1588 con il Papa Sisto V che vietava di utilizzare cantanti donne, per l’esito non del tutto soddisfacente che si otteneva sostituendole con bambini o con falsettisti, inducendo cosi molti maschi alla castrazione per la sostituzione di queste. Nascono cosi le voci bianche da una mutilazione sessuale tipica delle peggiori ragioni. Noto a parte che ai castrati (come agli uomini sterili) era vietato il matrimonio. A tal proposito, famosissimo fu il caso del castrato Gaetano Guadagni che presentando una richiesta per avere il permesso di sposarsi a sua Santità, spiegando che l’operazione non fu eseguita bene, il Papa rispose: “che si castri meglio!” (Fernandez, 2008, p. 109). Tale aberrante disposizione è stata abrogata solo nel 1977 da Paolo VI. Infatti dal 27 settembre 1589, nell’avviare la 10 riorganizzazione della Cappella Giulia, la bolla “Cum pro nostro pastorali munere” ammette la presenza dei castrati nel coro liturgico in servizio a San Pietro e, con ciò fa iniziare una prassi che determinò: “la vita normale delle cappelle musicali a servizio della liturgia per i successivi secoli sino quasi ai giorni nostri” (Cappelletto, 1995, p.164). Va da sé che la pratica della castrazione venne cosi tacitamente ammessa, anche se mai legalizzata, dalla Chiesa al fine di piegare la natura umana al servizio di Dio. Il divieto vigente negli Stati Pontifici di far cantare le donne non fu applicato solo in chiesa, ma anche in scena, e ciò favorì l’impiego dei castrati anche in teatro, e fu proprio in campo operistico che essi ebbero grande diffusione e fortuna, sebbene questa pratica restasse limitata all’Italia. Per un certo periodo i castrati costituirono la maggiore attrazione di uno spettacolo operistico per il timbro artificiale, astratto, che pur conservando la penetrante chiarezza di quello infantile aveva però una diversa potenza ed estensione. La tessitura e l’uso dei registri di testa e di petto erano diversi da quelli femminili. “Inoltre il castrato spesso si dedicava con tutte le energie a perfezionare la tecnica vocale, fino a conseguire risultati sbalorditivi, che identificarono in questo tipo di cantante la massima incarnazione del bel canto” (Cfr., Fernandez, 2008, pp. 75-77). La chiesa ha avuto il ruolo principale nella storia dei castrati, ed è di estrema importanza prendere atto e capire quali sono state le impalcature mentali che hanno portato a fare scelte cosi orribili. Questo è infatti il momento in cui i canonici sborsavano denaro alle famiglie dei ragazzi come guadagno per la futura evirazione di essi, con piena soddisfazione di tutti tranne che dei diretti interessati. Troppo piccoli per capire e per difendersi, condannati all’infelicità e spesse volte anche all’umiliazione, non a caso vi sono stati casi in cui tali ragazzi cadevano nei giri di prostituzione. La castrazione veniva praticata con una profonda incisione all’inguine, dalla quale erano estratti il cordone e i testicoli. I cordoni venivano strettamente legati prima del taglio e, talvolta, bruciati, per evitare mortali emorragie dalle arterie 11 spermatiche. Ad operare venivano chiamati, soprattutto, i norcini (macellai specializzati nella lavorazione del maiale) e i barbieri. All’epoca non esisteva anestesia; al più si stordiva il ragazzo con del laudano (tintura di oppio). La mancanza di “bisturi” (se cosi possono essere chiamati) sterilizzati, provocava infezioni e anche il tetano, che si credeva derivassero dalle sofferenze. L’importanza e la diffusione dell’opera nella vita sociale settecentesca resero vani per molti anni i divieti e le polemiche contro la castrazione. Uno dei tentativi di abolirla vi fu, per volere di Benedetto XIV, che tentò di vietare la presenza di castrati nelle chiese, ma la loro popolarità all’epoca era tale che un provvedimento simile avrebbe avuto come risultato un drastico calo nella frequentazione delle chiese. Il culmine di quest’assurda pratica e soprattutto dell’assurda posizione ecclesiastica si ha verso la fine del secolo XVIII, con Benedetto XVI il quale affermò che l’esclusione dei castrati dai cori liturgici fosse una grande perdita per la chiesa e motivo possibile di irrequietudine popolare. Nonostante le varie critiche che vennero fatte da numerosissime persone illuminate come il Muratori, che si scagliarono con veemenza nei confronti di una prassi musicale cosi sconveniente, non fu mai redatta una vera norma che la vietasse. Fra gli uomini della chiesa vi era ormai il timore di perdere il favore delle masse popolari e prendere posizioni chiare su molti punti delicati della questione. Vi era tra l’altro una devozione male intesa nei confronti dei superiori che degenerava nel servilismo e sfociava nella paura di non raggiungere i propri scopi di carriera, e sfociando cosi nell’ipocrisia. Quell’ipocrisia che uccide e che annullava il vero senso dell’evangelicità. Se qualcuno di essi tentava di uscire da quei peccati mortali o di ribellarsi, veniva subito richiamato a prendere le posizioni originarie sulla base di un’incondizionata fede, disciplina e sottomissione. La storia quindi dei cantori evirati e della castrazione, è il segno di un’orrenda e squallida conferma, di quanto il malgoverno ecclesiastico, ed anche di tutte le persone che trovavano assenso in esso, possano aver compiuto. “Un’irresponsabilità tale nel disprezzo dell’ uomo e di Dio che aboliva ogni critica fastidiosa” (Cappelletto, 1995, p. 164). 12 Verso la fine del XVIII secolo, cambiamenti nel gusto musicale e operistico e l’evoluzione dei costumi segnarono la fine per i castrati. Perdurarono però anche dopo la fine dell’ancien règime. Con l’unità d’Italia nel 1861, la castrazione venne dichiarata ufficialmente illegale (il neonato Stato italiano aveva adottato un codice di leggi francesi che vietava espressamente una tale mutilazione). Nel 1878, papa Leone XIII proibì l’ingaggio di castrati da parte della Chiesa; solo nella Cappella Sistina e in altre basiliche papali il loro impiego sopravvisse ancora per qualche anno. Nel 1902 Leone XIII ribadì il suo divieto, portando poi alla fine ufficiale per i castrati che avvenne il 22 novembre 1903, quando il nuovo papa, Pio X, promulgò un motu proprio sulla musica sacra. Tra le sollecitudini, in cui si legge: “Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa” (Celletti, 1986, p. 112). La castrazione quindi è stata una forma di violenza su bambini innocenti, colpevoli di essere poveri e indifesi, mutilati nell’inconsapevolezza più assoluta di cosa ciò comportasse per un ipotetico ed incerto guadagno, diritto ingiustamente praticato su di loro proprio da chi invece avrebbe dovuto difenderli, ossia la famiglia. Di certo quello che sto per dire potrebbe (come suol dire) farmi uscire fuori traccia, ma la barbarie storica che ho voluto trattare in questo velocissimo excursus, non ci risulta poi cosi “estranea”. In forme diverse, è una pratica ancora presente nella cultura di molte società. Mi riferisco per esempio all’infibulazione per le donne, alla circoncisione dei maschi presso alcune culture africane, o in posti come la Cambogia, Vietnam, Tailandia dove le ragazzine vengono messe al bando: “nude, sventrate offerte nelle immagini. Collocate in un business milionario di sporchi faccendieri” (Ackermann, 2011, p. 3), prostituite, per poi dopo essere “ricucite” e rivendute “vergini” in quanto secondo “l’inumana cultura”: le vergini fungono da elisir di lunga vita e giovinezza. Quindi mi permetto di dire che è un’ ipocrisia scandalizzarsi o provare tenerezza soltanto per quei bambini negati, i “castrati”. Ed è ancor più un’ipocrisia sentirsi appagati dal “fatto” che tale pratica non la si usi più oramai. Esiste ancora. Ed è forse più barbara di prima e non ha quella “piega artistica” come nel ‘700. Con questo mi 13 permetto di fare una critica al musicista e compositore (ormai defunto) Igor Stravinsky, il quale durante un dialogo con il papa Paolo VI, che chiedeva cosa la Chiesa potesse fare a favore della musica, il compositore russo rispose: “Santità restituisca alla musica i castrati!” (Cappelletto, 1995, p. 168). Vorrei dire che in realtà è proprio questo che a me personalmente scandalizza: un’affermazione del genere, fatta per di più da un musicista che (e non vorrei dirlo!), nel momento in cui pronunciò tali parole, ha forse dimenticato per un momento il senso della musica. La musica che ci eleva attraverso le naturali bellezze, e non ci fa sprofondare ancor più nella barbarie dove già siam fin troppo sommersi, con la creazione di bellezze invece artificiali, contro natura, orribili, orrende che hanno inflitto molte, troppe sofferenze, per mano anche di molti compositori mediocri. E quando uso il termine “mediocri” non mi riferisco solo ai vari compositori e al loro modo di aver fatto musica a quel tempo, ma al loro modo sbagliato di averla intesa, e soprattutto a quell’etica mancata di tutti coloro che ne assecondarono l’uso. 1.2 I castrati nella tradizione musicale occidentale I castrati raramente venivano chiamati con questo appellativo, più frequentemente venivano usati i sinonimi di “evirati cantori”, “musici” o ancor più raffinatamente di “quarta voce”, dopo le voci bianche, le voci femminili e le voci maschili. I primi castrati, iniziarono a comparire in Italia alla metà del XVI secolo. Infatti nel 1589, con la bolla Cum pro nostri temporali munere, papa Sisto V riorganizzò il coro di S. Pietro allo scopo di ammettere castrati nella sua composizione. Nel 1599 entrarono ufficialmente nel coro della Cappella Sistina, i primi due cantori, Girolamo Rossini e Pietro Paolo Folignato, tanto voluti dal Papa Clemente VII per le “voci angeliche”. Il cantore evirato si distingueva in due tipi di registri: sopranista e contraltista. Due tipi vocali dallo stesso registro vocale della donna che segnarono un’epoca: l’Epoca d’Oro dei castrati. Le loro divennero le voci più ricercate, impostate “su una potenza sonora della cassa toracica del maschio, tirando fuori una possibilità acustica molto più al di sopra delle ottave di un soprano donna” (Cfr., Caramiello, 2009, p. 3). Tali caratteristiche si dovevano al 14 fatto che le corde vocali non avevano il normale ingrossamento portato dalla sviluppo fisico, mantenendo allo stesso tempo ferma la caratteristica “stritola” ed elastica di quelle dei bambini. La loro corporatura, a causa dello squilibrio ormonale causato dall’eliminazione dei testicoli, si sviluppava enormemente senza perdere anche qui, le caratteristiche del corpo infantile che permettevano di sviluppare un fisico, affascinante, possente e dotato appunto di una capacità polmonare davvero incredibile. La caratteristica distintiva di tutta l’epoca barocca fu proprio la loro presenza, nei teatri di tutta Europa, di quelle figure enigmatiche e misteriose che davano origine al bel canto italiano: gli evirati cantori. Questi ultimi, inizialmente, come già ho avuto modo di sottolineare, cantavano esclusivamente nelle Cappelle ecclesiastiche, dopo che Papa Sisto V proibì l’esibizione pubblica alla donna in tutto lo Stato Pontificio (1588), suscitando tanto sbalordimento nei fedeli che assistevano alla messa, rapiti dallo stupore che il loro canto provocava, a tal punto che ogni volta che un castrato cantava in occasioni particolari in chiesa, la folla, in estasi, si faceva sempre più numerosa alle funzioni liturgiche dando vita, molto spesso, a vere e proprie crisi di massa. Da qui alla loro presenza sulle scene teatrali il passo fu breve, mutando così la facciata musicale d’Europa. Tra il 1600 e il 1640 le corti vollero i castrati in tutti gli spettacoli lirici, e musicisti famosi come Georg Frederich Haendel, Claudio Monteverdi e Giacomo Rossini scrissero ruoli per loro. Fin dalle prime opere vi furono ruoli per essi, ma si trattava ancora di ruoli di sfondo, come quello di Euridice nell’Orfeo di Monteverdi nel 1607. Al più tardi, agli anni Ottanta del XVII secolo, però, essi avevano completamente accaparrato le “normali” voci maschili nei ruoli principali, e mantennero il loro (ormai) “potere” per circa un secolo. A causa della popolarità e del successo dell’opera italiana nell’Europa del XVIII secolo e degli inizi del successivo, cantanti come Baldassarre Ferri, Matteo Sassano, Nicolò Grimaldi, Senesino, Farinelli, Gaspare Pacchierotti, Giovanni Battista Velluti divennero i primi “divi” dell’opera, guadagnando somme considerevoli e generando veri e propri fenomeni di adorazione isterica. La concezione drammaturgica dell’epoca era basata sull’irrealtà , pertanto sempre più 15 spesso nei protagonisti (personaggi della mitologia o della storia romana) non vi era alcun rapporto fra sesso e ruolo; i castrati dunque potevano interpretare sia parti maschili che femminili, perché ciò che contava era la voce: l’organizzazione rigida dell'opera seria favoriva le voci acute per la rappresentazione delle virtù degli eroi (sebbene i castrati venissero anche spesso presi in giro per il loro aspetto strano o la cattiva recitazione), mentre le voci maschili tradizionali del basso e del tenore baritonale erano considerate troppo “realistiche” e perciò volgari, poco portate al virtuosismo, e adatte solo a ruoli secondari o comici. Quindi erano pochi i ruoli che corrispondevano alla figura dei castrati, infatti solo quando furono impiegati nel ruolo dell’Orfeo nelle sue varie versioni, la scelta di un musico per sostenere un ruolo maschile, non soltanto non nuoceva alla vera somiglianza, ma si rivelava congruente alla particolare natura del personaggio, alla sua più intima e profonda verità. In questo caso la voce di soprano non comprometteva Orfeo, perché esso era al di sopra della natura: “Musico, musicista: in quel ruolo il gioco di parole corrispondeva ad una verità profonda” (Fernandez, 2008, pp. 259-260). Questo è il periodo “d’oro” per i castrati, l’epoca barocca: con il passaggio dalla polifonia alla monodia, nuovo genere in cui l’aria solista era in testa come mezzo d’espressione, che si sarebbe ancora più accentuata con il successivo avvento del melodramma. I castrati divennero quindi i protagonisti di uno dei momenti di massimo splendore di quel genere e della storia della musica cantata in genere. Fu proprio il melodramma che lanciò i castrati definitivamente fuori dal repertorio solenne, ed anche lo sviluppo dell’opera seria, soprattutto nel periodo del grande Metastasio, il quale era inzuppato di personaggi idealizzati, presi direttamente dalla mitologia classica, e senza realismo, quel genere di “musical storico” (come diremmo oggi!) sembrava fatto apposta per ospitare quei “mostri” di bravura dalla voce potente, esseri in grado di arrivare con una sola presa di fiato dalle note gravi del tenore a quelle acute del soprano, spesso con agilità in grado di risolvere gli spartiti più difficili. Insomma, degli Dei scesi in terra per interpretare gli Dei del cielo. Come ho già detto, la loro presenza sul palcoscenico era dovuta alle esigenze teatrali di un teatro e di una scrittura musicale che cercava (e trovava) nelle loro 16 abilissime capacità vocali e nel loro fascino neutro la via di mezzo per rendere quella superiorità e quella astrazione adatti a far rivivere i numerosi eroi dell’età classica. I castrati, ancora una volta col melodramma, divennero i padroni indiscutibili del teatro musicale: per loro i compositori erano chiamati a comporre le pagine più difficili e la loro presenza era richiesta in tutti i teatri più importanti d’Europa con contratti da favola. “Basti pensare che nel 1737 il grande Farinelli si vide offrire dal re di Spagna uno stipendio annuo di 50.000 franchi: rimase al suo servizio per venticinque anni col compito di cantare tutte le sere le stesse quattro arie” (Cappelletto, 1995, P. 62). Diventati divinità del palcoscenico, i castrati cominciarono a vivere un lento declino con l’avvento della riforma operata da Christoph Willibald Gluck. Togliendo dal teatro musicale trame prive di fili logici e riportando i singoli personaggi verso una posizione sempre più umana, conservando maggior importanza per il senso del testo e escludendo ornamenti in più, la riforma operata dal maestro pose i castrati ai lati del palcoscenico a favore di una “pulizia” vocale che non poteva declinarsi in quelle voci incredibili e soprattutto in quei caratteri capricciosi. Inoltre, con il crescente successo del repertorio buffo e farsesco, che preferiva le avventure quotidiane di servette svelte e furbi parrucchieri a quelle greche e romane, il castrato venne pian piano lasciato al suo destino, diventando poco più che un gioco da salotto, da esibire in belle occasioni di puro divertimento. Basti ricordare che per interpretare giovani paggi o ragazzotti prestanti, i compositori di nuova generazione (Wolfgang Amadeus Mozart in testa) preferirono ricorrere a mezzosoprani “in travesti” piuttosto che ai castrati. Il “travesti” indica l’interpretazione di un personaggio da un attore di sesso opposto. L’uso del travesti ebbe grande voga all’inizio dell’Ottocento, quando, per “il morire” dei castrati sulle scene dell'opera lirica, il loro ruolo di “primo musico” nelle compagnie operistiche venne assunto in primo luogo da mezzosoprani o contralti, alle quale ci si riferì con la denominazione di “contralto musico”, e le quali erano in grado, sia di eseguire le parti scritte appositamente per loro, sia di riprendere naturalmente i ruoli scritti in precedenza per castrati. Tale fenomeno riguardò principalmente Rossini ed i compositori suoi contemporanei. Tuttavia, ancora agli 17 inizi del XIX secolo, i castrati trovarono ancora qualche penna disponibile: nel 1813 lo stesso Rossini scrisse il ruolo di Arsace nell’”Aureliano in Palmira” per Giovanni Battista Velluti, l’ultimo grande castrato della storia. I castrati avevano una preparazione perfetta e conoscevano ottimamente la musica. Alcuni di loro però non arrivavano al successo e finivano nel giro dei teatri d’opera di provincia, oppure diventando maestri di canto. Celebre fu il caso di Girolamo Crescentini, grande evirato che calcò le scene più importati per poi ritirarsi all’insegnamento diventando maestro di musica di Vincenzo Bellini ed altre cantanti donne. Inutile dire che i mariti preferivano per le loro mogli e figlie, insegnanti eunuchi, che invece attraenti giovanotti freschi di conservatorio. A tal proposito va inoltre precisato che raramente il castrato restava del tutto illibato all’atto sessuale. Si hanno infatti notizie di evirati cantori sposati e dal noto appetito sessuale (fu il caso di Caffarelli). Pare inoltre che facessero non poche vittime acchiappando senza distinzione tra uomini e donne. Ma queste informazioni rimangono pur sempre nel vago e nell’insicurezza storica. A dispetto della loro condizione di star, i castrati dovevano affrontare risentimenti, gelosie e perfino odio. I colleghi invidiosi e il grande pubblico disprezzavano la loro neutralità sessuale, li accusavano di ammaliare gli uomini e non sopportavano la loro arroganza e la loro vanità. Molti castrati erano famosi “farinielli,” con file e file di spasimanti donne desiderose di giacere con un uomo che non le avrebbe messe incinte e curiose di vedere come erano quei famosi genitali. Ma in realtà essi avevano una modestissima capacità sessuale. Tutta questa attenzione femminile, ovviamente, non migliorava l’immagine dei castrati presso gli uomini sessualmente intatti. Tra i quindici e i vent’anni, dopo aver superato una serie di prove, il castrato ben riuscito faceva il suo debutto nell’opera lirica. La sua giovinezza, il fisico un po’ effeminato e la voce valente, gli conquistavano subito la stima e il successo del pubblico. I fan lo perseguitavano, nobildonne e nobiluomini si innamoravano di lui. Casanova descrisse così la sua impressione: “Con un busto ben fatto, aveva la vita di una ninfa e, sembra quasi incredibile, il suo petto non era per nulla inferiore, né per forma né per bellezza, a quello di una 18 qualsiasi donna. Ed era proprio con questi mezzi che l’infame compiva tante stragi” (Fernandez., 2008, pp. 143). Nonostante i vari pettegolezzi sui quali ho voluto accennare una breve parentesi, gli evirati cantori non erano e non sono famosi per questo, ma proprio per la loro voce innaturale, angelica ma potente, che sembrava pensata apposta per lasciare i fedeli “a bocca aperta” durante le esecuzioni delle liturgie, diventando un magnifico strumento intermediario tra l’Uomo e Dio, in un primo momento e poi calcando i palcoscenici di tutta l’Europa. Famosi in realtà per la loro sofferenza, sia emergendo diventando appunto dei “grandi” della musica lirica, sia non emergendo. Per me le ragioni per le quali i castrati erano e sono famosi ancora oggi, si riferiscono a quella sofferenza che furono condannati ad avere, quella sofferenza che aveva un’apparenza bella, meravigliosa, insuperabile che erano le loro voci. Quelle voci che tutti ascoltavano con ammirazione, con stima ma che nessuno invidiava e nessuno avrebbe mai voluto possedere. Forse perché in fondo si sapeva che quello che fu fatto sul corpo di quei bambini era un delitto, una violazione di quelle che sono le liberta, i diritti dell’uomo e dell’inviolabilità del proprio corpo. Come era scritto nel Habeas Corpus Act già emanato nel XII secolo e poi nel XVII, precisamente il 27 maggio 1678 proprio nel periodo in cui la castrazione aveva già fatto numerose vittime. Poiché questa “meraviglia musicale” aveva i suoi costi, in quanto vi furono casi di molti ragazzi uccisi da operazioni non riuscite che venivano spacciate per incidenti, e una quantità maggiore di ragazzi che non erano più in grado di fare una vita normale e risultavano inadatti al teatro musicale. Non uomini e non donne, pochi di essi arrivavano al successo: il sacrificio fatto non garantiva infatti una carriera. Ciò dipendeva dalla qualità della voce, dall’esito dei pesanti studi e dalle capacità di attore del ragazzo. L’ Habeas Corpus (che tu abbia il corpo) non aveva insegnato niente, non era bastato, perché barbaramente si era convinti che la castrazione non era un delitto, non andava contro quelli che erano i diritti universali dell’uomo, perché questa serviva l’arte, la musica e superava l’impossibile e non vi era niente di più bello. Bugia. La verità è che quella bellezza aveva una solo compagno e non era la musica, bensì l’orrore. La bellezza può convivere con l’orrore ma in questo caso si 19 aveva il diritto di rifiutarla. I castrati non ebbero questa possibilità, e credo fermamente che la chiesa che fu la prima carnefice di questi, e tutti i suoi “umili servitori”, sapevano nel loro profondo che tale pratica era peggio di un delitto e tacevano perché conveniva. Chi se ne importava di quei bambini che una volta cresciuti si sarebbero trovati di fronte una realtà che li avrebbe relegati per sempre ad una prigione, quella voce che per quanto potente e bella sarebbe sempre stato meglio non averla. Quella voce da Dio, da Angelo, cosi come venivano denominati per nascondere probabilmente che i castrati erano in realtà Uomini ai quali fu negato il diritto più importante, quello di aver vissuto nella piena consapevolezza delle proprie scelte, nella più totale libertà. Niente può essere più giusto o più bello se annienta il diritto umano della libertà, dell’inviolabilità. La storia di questi interpreti è tra le più misteriose d’Occidente (soprattutto a Napoli come ci descrive Dominique Fernandez): sotto gli occhi di tutti, eppure nascosta, o avvolta nei meandri di un sentimento di imbarazzo, e malinconia, oppure di una presa in giro, oppure, in altri casi, di un’ alienazione sino ad odiare se stessi. 1.1 Lo scenario musicale barocco Il termine “barocco” in campo musicale è utilizzato per classificare la musica composta durante il periodo di diffusione del barocco nell’arte. Il barocco con particolare riferimento alla musica si sviluppa a partire dagli inizi del seicento fino (possiamo dire) alla metà dell’ottocento. I principali compositori che oggi vengono considerati barocchi sono Bach, Haendel e Antonio Vivaldi. Quindi il Barocco è un’esperienza europea che nasce e si afferma contemporaneamente nelle principali culture: dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Inghilterra, all’Est. Vive di un’esperienza totale, nel significato che interessa non soltanto la letteratura, ma le arti, la musica, il costume e la mentalità. E contemporaneamente rappresenta l’anticonformismo, ed anche la trasgressione, ed è proprio in quest’esagerazione che sta il motivo del suo fascino. 20 Il limite maggiore del Barocco fu quello di volere a tutti i costi stupire e impressionare, ricorrendo alla esasperazione nelle arti, e ad immagini irreali, oppure affrontando le storie più improbabili, e bizzarre con un risultato che spesse volte, l’arte barocca diventava solo esibizione di bravura (ciò lo dimostra appunto l’impiego dei castrati in ruoli che non corrispondevano alla loro figura). La musica, che non aveva alle spalle nessuna grande tradizione dalla quale sciogliersi, trova nell’età barocca la sua nascita. Senza però allargare troppo i nostri confini, vorrei attirare l’attenzione soprattutto sulla prima metà del Seicento musicale sacro in Italia, con riferimento ai centri più importanti della cultura musicale sacra di quel periodo: Roma e Venezia. La scuola romana e veneziana, continuarono a fare la tradizionale musica liturgica, con riferimento a quella del cinquecento. Musiche interpretate, secondo quell’epoca, da quegli “angeli del canto senza sesso” (Cappelletto, 1995 p. 148) che erano i castrati ( con o senza il coro di voci bianche dei fanciulli). Tale impiego è anche soprattutto legato alle novità nel campo musicale che diedero origine all’uso della monodia. La chiesa non fece tardi a capire cosa avrebbe potuto essere la monodia per le funzioni liturgiche, cosi che il cantore fu uno strumento di comunicazione di massa, cosi da trasmettere (secondo la cultura del tempo) i valori evangelici in un modo più vicino a Dio. La donna, che tranne nello Stato Pontificio si esibiva in tutti i teatri di prosa e lirici europei, si trovò presto di fronte un forte rivale sulla scena teatrale, l’evirato. La musica nel periodo barocco diventa un fatto di costume, entrando a far parte della vita quotidiana a qualsiasi livello: aumentano cosi i teatri che danno spazio ai sempre numerosi musicisti professionisti, ma aumentano anche i musicisti dilettanti; non dimentichiamo che non esistendo all’epoca nessun mezzo di riproduzione del suono si suonava spesso a casa o in gruppo. Esisteva una vera e propria produzione musicale che si svolgeva anche a casa, solo per divertimento. Ed è proprio da questo che nasce “la musica da camera” in cui il ruolo dello strumento è sempre individuale, destinato quindi “a consentire un’educazione vocale fra le pareti domestiche” (Battaglia, 1999, p. 5). Ed è proprio questa prima forma di canto barocca che contiene la via per apprendere il “recitar cantando” e non solo il cosiddetto “bel canto” degli evirati 21 nelle chiese. Da qui nasce cosi il melodramma (dal greco melos: “canto” e dramma: “azione scenica”) detto anche opera lirica o, più semplicemente, opera, è lo spettacolo in cui la recitazione teatrale si svolge attraverso il canto e la musica: è una conseguenza della monodia accompagnata. Quindi esso nasce appunto a Firenze verso la fine del XVI secolo ed è grazie al genio di Claudio Monteverdi, che ha enorme diffusione in età barocca, affermandosi soprattutto a Roma, a Venezia e successivamente (a partire dagli ultimi decenni del Seicento), a Napoli. Spettacolo inizialmente riservato alle corti, e dunque destinato ad una cerchia di intellettuali e aristocratici, acquista poi carattere di intrattenimento a partire dall’apertura dei primi teatri. Nasce allora un gusto per la varietà delle musiche, delle situazioni, dei personaggi, degli intrecci, mentre la forma dell’aria, dalla melodia superba e occasionale di esibizione canora, dà sempre più spazio ai dialoghi recitati, mentre il canto si fa sempre più fiorito. Si incomincia ad utilizzare il termine “Belcanto” che generalmente designa “un tipo di vocalità a sfondo virtuosistico o comunque rilevante per levigatezza e flessibilità di suono, per l’impeccabile uso di mezze voci e smorzatore, per la proprietà dei legati, dei portamenti e simili” (Battaglia, 1999, p. 6). Per analogia si designano belcantisti i cantanti che si distinguono in un simile tipo di vocalità. Questa astrattezza timbrica, elemento fondamentale del belcanto, coincide con un altro aspetto del gusto musicale barocco e cioè una certa tendenza all’ambivalenza sessuale. Il suo potere stava proprio nell’incarnare personaggi femminili e maschili e di renderli credibili non attraverso il corpo dell’interprete, ma grazie alla vocalità che li evoca. In definitiva, il belcanto, con la sua estrema suscettibilità nei confronti dei suoni pesanti, metallici, caratterizza i ruoli in base alla caratteristica del timbro e alle capacità virtuosistiche e non in base al sesso, come avverrà quando il Romanticismo si farà promotore di istanze realistiche. Il Belcanto richiede sia il virtuosismo sia l’espressione patetica a tutti i tipi di voce, ma ritiene, perciò che solo le voci bianche degli evirati e delle donne abbiano la malleabilità e la flessibilità necessaria ad una suggestionabile esecuzione sia degli ardenti virtuosismi che delle melodie delicate che caratterizzavano le parti di amoroso e di amorosa. Perciò mentre agli illuministi e, più ancora, ai romantici sembreranno assurdi i personaggi di eroi e di amorosi incarnati da evirati o da 22 donne, il belcanto troverà altrettanto assurdo che cantino da amoroso le due voci maschili del tenore baritonale e del basso, perché esse suonano pesanti, e non si conformano con le melodie e con i sentimenti dell’amoroso. Grazie alla diffusione del melodramma, i cantanti erano diventati una categoria di persone ricche e famose; spesso la loro notorietà bastava a fare riempire un teatro e trasformare la prima di un nuovo spettacolo in un sicuro successo. Anche i compositori, del resto, esageravano spesso nell’uso di abbellimenti e di effetti musicali, intenti a stupire e meravigliare il pubblico. Tutto questo andava a sfavore della stessa comprensione dell’opera: spesso, infatti, il pubblico, distratto dalla lunghezza di un’aria o di un duetto, che facevano vedere la bravura di un cantante, “perdeva il filo” della vicenda. È appunto il caso dell’Orfeo di Monteverdi “musico incantatore, raccontato con ricchezza di particolari” (Delfrati, 1979, p. 106). Contemporaneamente alla diffusione del melodramma nacque la figura dell' “impresario”, che scritturava poeti, musicisti, cantanti, strumentisti, scenografi, ballerini e organizzava la rappresentazione dell’opera. Tra l’altro, sempre verso la fine del Seicento gli autori, per intrattenere e divertire il pubblico, cominciarono ad inserire tra un atto e l’altro di uno spettacolo, gli intermezzi musicali, brevi scenette che narravano in modo comico episodi presi dalla vita quotidiana. Questo tipo di intrattenimento era molto voluto dal pubblico e, nell’arco di poco tempo, diventò un nuovo genere teatrale: l’opera buffa. Rispetto all’opera seria, l’opera buffa era molto più libera da schemi precostituiti: i compositori si rifacevano a vicende legate alla vita di tutti i giorni che il pubblico capiva con maggior facilità, riuscendo ad identificarsi nei personaggi. La nascita dell’opera buffa si deve soprattutto al poeta Pietro Metastasio, che stabilisce una serie di canoni formali, relativi all’impianto drammaturgico come alla struttura metrica delle arie, applicando le cosiddette unità aristoteliche e dedicandosi solo al genere serio. La scelta di Metastasio di escludere ogni elemento comico dal teatro musicale serio determina la nascita dell’opera comica, dapprima in forma di intermezzo, poi come opera buffa e dramma giocoso. L’opera lirica quindi è un dramma serio o divertente, è un’azione scenica che ha uno svolgimento unitario; la musica contribuisce molto a mettere in risalto i personaggi e a far capire i loro sentimenti. 23 Importante quindi è il ruolo del librettista. L’autore del libretto, il librettista, è un letterato con una profonda esperienza teatrale e musicale: egli infatti deve saper tenere conto non soltanto delle esigenze sceniche, ma anche di quelle musicali e alternare in modo giusto i recitativi, ovvero le recitazioni cantate a verso libero, le arie, cioè i brani melodici e a strofe, i duetti, i terzetti, i quartetti e i concertati, ossia i brani per più voci e orchestra. I due elementi che stanno alla base dell'intera opera sono il recitativo e l’aria. Nel recitativo, detto anche parlato melodico, la musica è strettamente legata alle parole del discorso; è quasi una recitazione cadenzata, che permette al pubblico di capire le varie situazioni della vicenda. Nel recitativo, dunque, la parola è più importante del canto. L’aria, invece, è un brano completamente cantato, molto varia e agile e che perciò permette al cantante di manifestare la sua bravura. Nell’aria, la musica accaparra le parole, in quanto è l’espressione musicale dei sentimenti dei vari personaggi. Nasceranno successivamente sempre nel periodo barocco altre forme musicali; stavolta però strumentali che hanno in comune col melodramma un solista virtuoso come: il concerto grosso, il concerto solista, la suite, l’oratorio. Li analizzo brevemente. La genesi del concerto grosso va cercata in una sorta di espansione sonora della sonata a tre, e risale all’incirca alla metà del Seicento, e venne messo a punto a Roma, verso gli anni ottanta del Seicento. Questa forma musicale è formata da, un gruppo di solisti chiamato “concertino” o “soli” che si contrappone all’intera composizione dell’orchestra, chiamato “grosso” o “tutti”. Non una contrapposizione casuale, basata sul semplice contrasto di sonorità, ma una calcolata divisione del lavoro: al “grosso” spetta il ritornello, al concertino i momenti solistici, secondo l’ordine delle parti che verrà poi ripresa dal concerto solistico. Il concerto solistico appunto (di solito si individua in Antonio Vivaldi l’inventore del concetto di concerto solista) ossia lo stadio avanzato del concerto grosso verso una forma musicale che prevede uno o più strumenti solisti ai quali è data una partitura obbligata o una sezione (chiamata sequenza), dedicata all’improvvisazione dell’esecutore. E da questo non dimentichiamo che una delle principali caratteristiche del barocco era proprio quella di divertire, e ciò avveniva tramite l’usanza dell’improvvisazione soprattutto il modo in cui lo facevano i castrati. 24 La suite che si confonde con la pratica antichissima di accompagnare e sostenere la danza con un numero più o meno elevato di voci o di strumenti. Ed infine l’oratorio che era una forma musicale “drammatica”, che prevede la narrazione di un evento sacro, con personaggi e dialoghi; tale genere non è destinato, però, alla rappresentazione: viene cantato da solisti e coro immobili, senza scene e costumi, ma con accompagnamento orchestrale. Veniva rappresentato in locali detti “oratori”. Nel Seicento si affermarono definitivamente strumenti già noti da tempo, come l'organo, il clavicembalo e il violino. Organo e clavicembalo erano considerati molto vicini: alcune pagine musicali erano scritte appositamente per essi, e spesso gli esecutori erano in grado di passare dall’uno all’altro senza difficoltà. Bisogna inoltre ricordare che la più caratteristica forma di accompagnamento strumentale del periodo barocco prese il nome di “basso continuo”: era formata da una successione di accordi suonati in modo continuo; inoltre il suono più grave di tali accordi veniva poi anche intonato da uno strumento grave, in modo da sostenere meglio gli accordi stessi, “anche perché con l’avvento delle varie forme musicali e della musica per danza si senti la necessità di misurare la durata dei suoni” (CFR., Carella, 1977, p. 11). Conseguenza di questa affermazione della musica strumentale fu lo sviluppo nella costruzione degli strumenti stessi. Primo fra tutti fu il violino, che si impose nei confronti degli altri strumenti ad arco grazie anche ad abilissime scuole di liuteria soprattutto a Cremona. Sono queste le forme musicali (e non solo) che porteranno al momento più significativo della musica barocca, e non dimentichiamo al periodo in cui i castrati furono più in voga assieme ai più grandi musicisti e compositori che vollero scrivere per loro. Tra i numerosi autori di melodrammi ricordiamo: Claudio Monteverdi e Giovanni Battista Pergolesi; per le composizioni strumentali: Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Haendel, Antonio Vivaldi e Arcangelo Corelli e Giacomo Carissimi. Nel Seicento, dominano la scena Arcangelo Corelli, ritenuto il grande fondatore della moderna tecnica violinistica e Giacomo Carissimi (1605-1674), organista, compositore di numerosi oratori. Tra Seicento e Settecento Antonio Vivaldi, oltre a perfezionare la tecnica violinistica, compose più di cinquecento opere strumentali: le più significative sono i concerti, che 25 hanno il merito di aver costruito le basi per la struttura del concerto moderno, dando eccentricità alla parte solistica e stabilendo la classica divisione in tre tempi (Allegro-Adagio-Allegro). Del primo Settecento è invece Giovan Battista Pergolesi, autore di numerose opere tra cui spiccano lo Stabat Mater e l’intermezzo comico “La serva padrona”. La vita musicale europea tra Seicento e prima metà del Settecento però gira attorno alle grandi figure di Bach e di Haendel, che incarnano splendidamente, sia nel carattere sia nella produzione, l’ideale barocco a cui tutti i compositori del tempo fanno riferimento. Johann Sebastian Bach, organista e clavicembalista di raro valore, è uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. Nell’arte perfetta di Bach si fondono tutte le esperienze precedenti: la tradizione polifonica, la monodia, l’armonia, la moderna tonalità. Georg Friedrich Haendel , autore di musica da camera e per organo e di melodrammi, è noto soprattutto per uno dei suoi 23 oratori. Verso la fine della prima metà del Settecento, Christoph Willibald Gluck intraprese la riforma del melodramma, spogliandolo di tutto ciò che serviva da pretesto per una pura esibizione di virtuosismo e facendo sì che musica e canto esprimessero invece i sentimenti e la vicenda che si svolgeva sulla scena. In sintesi la riforma e rivoluzione del teatro musicale di Gluck, si ripropone i seguenti obbiettivi: 1 Il soggetto dell’opera deve essere patetico, tragico, terribile, sublime, riferito a grandi eventi, a forti passioni a personaggi straordinari, secondo la maniera greca, nei limiti della semplicità, della verosimiglianza e della naturalezza applicabili ovviamente a una forma d'arte ruotante attorno a un’azione sola e coerente, non disturbata da interruzioni o divagazioni. 2 Delicato il rapporto fra la poesia e la musica, che è un legame di necessità, la seconda è al servizio della prima. 3 la musica è incaricata della resa sonora di questi elementi letterario-teatrali: il canto deve astrarsi dalle esigenze puramente esibizionistiche dei cantori e concentrarsi sull’espressione, gli interpreti devono essere appositi e adeguati, con fedeltà al testo (quindi calma negli abbellimenti, nessun cambiamento, nessuna aggiunta). 4 Il libretto non è richiesto di perfezione letteraria o nei versi, bensì, di una generica musicalità, di una teatralità spoglia efficace e varia nelle situazioni, e di una moralità esatta. Per quanto riguarda il canto, la riforma di Gluck abroga tutti quelli che furono i capricci dei cantori, mi 26 viene alla mente il caso del Velluti. La leggenda racconta che Rossini, sconcertato dai capricci di quel divo isterico sempre più ingordo di abbellimenti e virtuosismi improvvisati, decise di scrivere per intero le parti da cantare per non lasciare più liberi i cantanti di piazzare abbellimenti qua e là a loro capriccio. Alla fin fine, la rivoluzionaria riforma di Gluck non è poi altro che la “altolocazione” estrema del melodramma anche se in quel periodo, la subordinazione di musica a poesia, ormai voleva dire subordinazione del sentimento alla ragione; ossia una concezione che dà la priorità assoluta al pensiero sulla fantasia, al simbolo sul fenomeno, con l’esclusione di tutti quegli elementi che per loro natura sfuggono al controllo della ragione e si collocano nella sfera dell’individuale. Insomma, nelle opere di Gluck si assiste quasi sempre ad un’avventura intellettuale prima che musicale. Proprio a questo proposito Gluck dice: “l’imitazione della natura, è il fine comune che si debbono proporre il poeta ed il musico. Volli ridurre la musica alla sua vera funzione liberandola dai superflui ornamenti; cosi pure tanto più d’efficacia accresce la musica alla poesia quante volte all’una all’altra bene associata” (Parisotti, 2004, p. 6). A partire della seconda metà del Settecento si assiste a un rinnovamento totale dei valori artistici barocchi che culmina in quello che verrà definito periodo classico. Massimi esponenti di questa nuova corrente musicale, caratterizzata dal trionfo della forma sonata e della moderna sinfonia, sono Haydn e Mozart che più di altri comprendono il bisogno di equilibrio artistico, inteso come supremo ideale compositivo, e la necessità di riconquistare quelle regole fisse buttate via dagli sconvolgimenti barocchi. Ma nonostante questa nuova ricerca, a mio parere mi permetto di affermare il fatto che la musica abbia avuto la sua vera nascita e preso una vera forma proprio in questo lunghissimo periodo barocco, il quale nonostante gli sfarzi, gli eccessi, le trasgressioni ha lasciato davvero un segno nella storia della musica. Proprio come il famosissimo squarcio sulla tela. Di certo come tutte le cose, tutti i periodi prima o poi passano per lasciare il posto a momenti nuovi, forse più moderni o più semplici o viceversa, certo è anche vero il fatto che l’essenza barocca abbia continuato anche negli anni successivi a sopravvivere, tramite anche quei cantori come il Farinelli oramai ritirati a vita privata. Con i loro consigli i loro punti di vista e la loro eterna preparazione messa a 27 disposizione degli incontri che hanno continuato a fare poi con i compositori successivi. Famosissimo è per esempio l’incontro tra Mozart e Farinelli (che racconterò a breve nel secondo capitolo), il quale oramai vecchio, stanco e malinconico, darà a Mozart, all’epoca dell’incontro ragazzetto prodigio, dei preziosissimi consigli sulla stesura di una delle sue prime opere. Descriverò come il piccolo Mozart ascolterà con ammirazione e massima considerazione il grande maestro, sottomettendosi anche alle parole dure e alle piccole critiche, ma grandemente costruttive che gli vennero fatte. Con questo ribadisco quanto rimanga eterno il ricordo di quei cantori, punte di diamante della musica, incastonati in quella “perla imperfetta” che tanto li rappresentava: il barocco. 28 Capitolo 2 IL SIGNORE DEL PALCOSCENICO 2.1 Farinelli: vita di un evirato cantore Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, detto Farinelli, nasce ad Andria il 24 Gennaio del 1705 da Salvatore, compositore e maestro di cappella nel Duomo della cittadina pugliese, e da Caterina Barrese. Salvatore Broschi era un grande appassionato ed esperto di musica, tant’è vero che il duca d’Andria, appartenente ad una delle più prestigiose famiglie napoletane, volendolo onorare, fece da padrino al più piccolo dei suoi tre figli, Carlo appunto. La famiglia Broschi, trasferitasi a Napoli fin dal 1711, manda Riccardo il primogenito al Conservatorio di S. Maria di Loreto, dove si formerà come compositore, mentre Carlo, protetto dalla famiglia Farina, famiglia di avvocati ed amanti della scuola musicale a Napoli, viene introdotto presso il più famoso maestro di canto napoletano, Niccolò Porpora, insegnante al Conservatorio di S. Onofrio, già operista affermato in Europa, dal lui infatti si formeranno i castrati Giuseppe Appiani, Felice Salimbeni, Gaetano Majorano, oltre a Regina Mingotti e Vittoria Tesi, e appunto Carlo Broschi. La famiglia Farina pagherà le lezioni di canto al piccolo Carlo subito dopo aver subito la castrazione. L’episodio della castrazione del Farinelli è molto vaga. Non si hanno certezze sul quando, e per mano di chi è stata fatta. L’improvvisa morte di Salvatore Broschi a 36 anni, il 4 Novembre del 1717, e la conseguente perdita della sicurezza economica della famiglia, potrebbe essere stata la causa della decisione 29 dell’evirazione di Carlo, allora dodicenne e quindi prossimo a cambiare voce. Quella voce dalle doti promettenti, che sarebbe potuta essere la soluzione ai problemi familiari, con l’ingresso dell’adolescente nel mondo dei castrati, le cui carriera per tutto il XVIII secolo saranno garantite dal loro impiego come cantori nelle funzioni liturgiche e dalla produzione musicale-oratoriale della Chiesa, e soprattutto dall’egemonia italiana del melodramma in tutto il mondo. Ma considerando i vari racconti, la decisione di sottoporre il piccolo Carlo all’operazione, fu presa dal fratello maggiore Riccardo, ormai passato a capofamiglia. Quest’altra versione è quella secondo cui Riccardo, fanatico della composizione, volle che Carlo mantenesse per sempre pura la sua voce, e che in futuro cantasse le sue arie. Si racconta infatti che un giorno Riccardo avendo somministrato dell’oppio a Carlo, già gravemente ammalato, approfittò dello stato di incoscienza di quest’ultimo e lo castrò, sommergendolo poi in un secondo momento in una grossa tinozza di latte. Questa è la versione più sicura che non vede i problemi economici familiari la causa di tale decisione, ma la follia del fratello, che per i suoi slanci artistici e mediocri, vedeva nella voce di Carlo la sua e la loro fortuna, quale la fama ed il successo. Da quel momento in poi, Carlo Broschi è ammesso alla scuola di Niccolò Porpora, conquistando tra 1717 e 1720 (l’anno dell’esordio come cantante nella serenata Angelica e Medoro di Metastasio a Napoli), un ruolo di primo piano tra gli evirati allievi del maestro napoletano, e a 15 anni, si avvia ad una delle più straordinarie carriere nella storia dell’opera italiana che lo porterà prima in tutti i più importanti teatri italiani, poi successivamente anche a Vienna, Londra, Parigi, ed infine a Madrid. Da questo suo primo ed indimenticabile debutto parte una fortissima relazione amichevole, quasi fraterna con il poeta Metastasio che durerà fino alla morte. Dopo l’esordio, nella parte secondaria di Tirsi nell’Angelica di Metastasio, Farinelli prosegue i suoi studi con il Porpora, e due anni dopo, nel 1722, a Roma al Teatro Aliberti è protagonista in “travesti” (secondo la disposizione della chiesa che vietava alle donne la presenza sulle scene), nella Sofonisba di Luca Antonio Predieri. Le doti eccezionali della vocalità musicale impareggiabile di Carlo Broschi Farinelli quindi emergono proprio in questo periodo, da vero e proprio professionista del canto. Particolarmente significativa è 30 la testimonianza del flautista, compositore e teorico della musica Johann Joachim Quantz: “Farinelli possiede una voce di soprano penetrante, piena, brillante e ben modulata, che si estende dal la2 fino al do5. “L’intonazione era chiara, il trillo bello, straordinario il controllo del fiato, agilissima la sua gola, così che poteva coprire anche gli intervalli più ampi con la massima facilità e sicurezza” (Cappelletto, 1995, pp. 15-16). Famosissimo infatti è l’episodio di una celebre contesa tra lui ed una tromba. Si racconta infatti che durante una serata prima dell’inizio dello spettacolo, Farinelli si mise a gareggiare con un bravissimo trombettista. Ambedue emettevano una nota, per dar prova della forza dei loro polmoni tentando di superare il rivale in vivacità e potenza. Allo strenuo della gara, il trombettista esausto e convinto che anche il suo rivale lo fosse altrettanto, perse, con il risultato che quella sfida divenne un’attrattiva irrinunciabile per il pubblico. Questo appunto per dire che Farinelli possedeva una voce forte il cui appoggio stava proprio nella forza dei suoi polmoni, della sua capacità tecnica che gli permetteva di estendersi dal suono più grave al suono più acuto con massima facilità. Sono quindi gli anni romani a dare a Farinelli la fama ed il successo, soprattutto per la sua partecipazione anche in molte opere del maestro Porpora come ad esempio: Berenice regina d’Egitto, Eumene, Flavio Onicio Olibrio, Semiramide regina dell’Assiria e l’Adelaide. A Farinelli verranno da questo momento in poi assegnati ruoli di primo piano. Tuttavia la collaborazione di Farinelli con Niccolò Porpora, intensa tra il 1722 e il 1724, tra Roma e Napoli, va rarefacendosi, probabilmente per l’impiego da parte del compositore, degli altri sopranisti della sua scuola: il Caffarelli soprattutto, il Salimbeni e l’Appiani, ma anche di Giovanni Carestini. Peraltro, gli anni compresi tra il 1726 e il 1729 sono assai densi di impegni per il sopranista, che, calca le scene dei teatri italiani, da Parma a Milano, da Roma a Bologna. Qui Carlo Broschi entra in contatto canoro con il famoso e più anziano castrato Antonio Maria Bernacchi, non riuscendo nell’occasione a dimostrare ai bolognesi la sua superiorità canora e virtuosistica, ma conquistandosi l’amicizia del rivale: “si accorse Bernacchi di esser provocato...e feceli sentire che egli non era ancora a tempo di eguagliarlo, non che di superarlo” (Cappelletto, 1995, p. 17 ). Come 31 affermarono i suoi biografi tra cui Giovenale Sacchi, Johann Joachim Quantz, Charles Burney e Giovan Battista Marini, che a quel tempo nonostante la grandezza canora di Farinelli, egli era ancora un musico giovinetto che studiava, e questo può aiutarci a comprendere le fasi del progressivo cambiamento del sopranista non solo nello stile del suo canto ma anche nell’intera impostazione artistica e culturale: “Egli studiava, come tutti i musici fanno, di eccitar meraviglia, e di porger diletto al senso materiale dell’udito più che all’animo; cercava il difficile più che il bello, e amava di far ostentazione della voce, e dell’arte (Sacchi, 1784, p. 225). Tra il 1729 e il 1732 Farinelli arriva a Vienna dove ha un importantissimo incontro con il Re Carlo V che chiude la lunga fase dei successi. Oramai il sopranista è sulla scena da più di dieci anni, e nonostante la giovane età, 27 primavere, si può considerare per successo, affermazioni e fama conseguite, un veterano del riconoscimento del pubblico ruolo come cantante tra i più richiesti nel teatro dell’opera italiana. A Vienna il cantante si esibisce a corte, testimonianza di questo evento fu una lettera inviata al conte Sicinio Pepoli proprio dal Farinelli, tra le cui righe scrive: “Sabbato se ietta lo biso”: sabato dovrò togliermi la maschera (Vitali, 2000, P. 171). Tale affermazione sta proprio a significare che stavolta l’artista non si esibirà su un palcoscenico teatrale con uno dei suoi costumi sfarzosi, bensì “in borghese” alla corte del Re Carlo. Ma di certo anche qui non mancò l’occasione teatrale che ben presto arrivò: alla Cappella imperiale con l’opera “Sedecia” nel ruolo appunto di Sedecia, e nella “Morte di Abel” nel ruolo di Abel, ambedue di Antonio Caldara. Ritorna per un breve periodo in Italia dove il suo successo oramai è di casa, per poi iniziare una lunga esperienza londinese (anche questa molto importante) dal 1734 al 1737. Arriva proprio durante la stagione operistica della compagnia rivale di Haendel. Anche sul rapporto tra il compositore Haendel e il sopranista Farinelli, sono state costruite un sacco di leggende se non pettegolezzi. Si racconta infatti di una rivalità tra i due artisti. In realtà dalle varie documentazioni pervenuteci, è stato chiarito che tale rivalità non è quasi mai esistita, e la causa che ha fatto pensare invece che tale inimicizia esistesse, è stata l’espulsione (per varie vicissitudini), di 32 Haendel come direttore artistico dal Teatro della Nobiltà, che vedrà successivamente Porpora al suo posto. La compagnia di Porpora però non ebbe molto successo al teatro inglese, fin quando non fu scritturato Farinelli, che si esibì per quella compagnia anche nell’Ottone haendeliano, ma non cantò mai sotto la direzione di questo. Sono state quindi, pure e semplici casualità dovute all’appartenenza dei due artisti a due teatri diversi: Farinelli al teatro della Nobiltà ed Haendel spostatosi al Convent Garden. Si può dire quindi che la rivalità stava nella direzione dei due teatri, quindi tra Porpora ed Haendel. La lotta continuò fino a quando dopo il fallimento di Haendel avvenuto per la scelta di Porpora di scritturare il Farinelli, decise di sterzare per l’Oratorio. Su Farinelli si può dire che avrebbe avuto la possibilità di lavorare con Haendel, ma la sua scelta di optare per il Teatro della Nobiltà non fu obbligata, nè dovuta a ragioni di astio nei confronti del compositore tedesco, semplicemente se la precluse negandosi la possibilità di entrare in contatto con un autore che proprio in quegli anni conosceva una fase di rinnovamento. Nel 1737, stanco dalle incessanti rivalità che opponevano i due gruppi teatrali, Farinelli, accettò l'invito che aveva appena ricevuto da Isabella Farnese, moglie di Filippo V di Spagna, ma prima di ritirarsi alla corte spagnola sotto la protezione del monarca, il cantante soggiornò qualche tempo anche a Versailles, presso la corte di luigi XV dove si esibì in vari concerti. A Madrid risiedette per molti anni, divenendo l'idolo incontrastato del re Filippo V a servizio del quale svolse molteplici ruoli da quello di cantante a quelli di impresario, direttore teatrale e persino segretario particolare. Aveva 32 anni il Farinelli quando decise di trasferirsi a Madrid. Quei ventidue anni che scelse di trascorrere alla corte spagnola, si occupò di curare l’ipocondria del Re Filippo V, il quale soffriva di una forma di schizofrenia maniaco-depressiva non priva di attacchi e crisi deliranti. La regina Elisabetta Farnese, ebbe una grande intuizione nel pensare che solo la voce di Farinelli potesse curare la patologia che a quell’epoca veniva identificata come una forma di malinconia. Tant’è vero che il re non poté più fare a meno della voce angelica del cantante, il quale fu costretto a 33 cantare sempre le stesse quattro arie ogni sera per farlo addormentare: “Mi bevo tutte le sante sere otto, nove arie in corpo” (Cappelletto, 1995, p. 59). Elisabetta Farnese aveva molta attenzione per la salute del marito, per il quale dato il suo stato psichico non molto stabile, rinunciare al trono era diventato un’azione abituale. La prima volta che abdicò infatti, il titolo di monarca passo a Luigi, nato dall’unione con la sua prima moglie, la Principessa sabauda Maria Luisa Gabriella. Ma luigi non fu Re per molto tempo a causa del vaiolo. Stando la possibilità di poter ancora abdicare, il trono sarebbe poi passato a Ferdinando VI, fratello di Luigi. Nato dall’unione con Elisabetta Farnese era invece Carlo III, che grazie al progetto della madre riuscì a diventare Re. Farinelli ebbe la possibilità di vivere i primi due troni, quello di Filippo V e del figlio Ferdinando VI, ipocondriaco anche quest’ultimo. La musica era una delle sue passioni e proprio Ferdinando VI fu il più grande e generoso tra i protettori del celebre cantante evirato napoletano Farinelli la cui voce era in sintonia con il carattere malinconico del monarca. Il Farinelli divenne a tal punto influente e ricco che chiunque avesse avuto bisogno di un favore dal sovrano doveva rivolgersi a lui se voleva ottenerlo, pur mantenendo ad ogni modo un equilibrio di onestà raro per quei tempi. Fin quando non giunse Carlo III presso il quale non era gradito, ed allora decise di lasciare Madrid: raggiunse subito Napoli ma presto si trasferì a Bologna (1761) e nella villa splendida che si fece costruire intrattenne amichevoli contatti coi più prestigiosi personaggi della sua epoca. Si spense il 16 settembre 1782, qualche mese dopo il suo amico Metastasio, lasciando una collezione d'arte e di strumenti musicali che fu sfortunatamente dispersa dai suoi eredi, tra cui un violino di Antonio Stradivari che è citato nel suo testamento. Rimane tuttavia difficile capire il perché Farinelli decise di abbandonare le scene nel pieno del suo successo, e di privarsi della possibilità di cimentare la sua voce in nuove opere o nuove invenzioni musicali cosi da accrescere la sua carriera. Forse in realtà quella vita gli stava stretta, essendo la conseguenza della sua negazione più grande. Questa è l’unica ragione più logica in quanto non sembra nemmeno che fosse interessato alla ricerca di soddisfazioni diverse come la politica. In realtà presso la piccola cerchia della famiglia reale di Spagna, egli fu 34 solo una pedina nelle mani di Elisabetta, che grazie alla sua voce, riuscì a persuadere il marito a non abdicare cosi da compiere il suo “scacco matto”. Non riesco a credere però che Farinelli non abbia capito la falsa amicizia della scaltra regina. Forse nella scelta di rinchiudersi nella monotonia della corte di Spagna, vi era anche un bisogno più alto da parte del sopranista, qualcosa di moralmente più nobile rispetto alle rappresentazioni teatrali, che desse un senso alla sua vita e non a quelle dei compositori, quale poteva esser per lui una missione salvifica. E se posso aggiungere, a mio parere penso che la sua scelta sia stata la prima forma di musicoterapia, un modo di curare le diverse forme di insicurezza, ipocondria, depressione, che sta acquisendo molta considerazione nel campo delle scienze mediche-curative oggi. Il suo quindi è stato un modo di sopravvivere a se stesso, ponendo l’arte della musica e del canto su un piano diverso, più “etico”. Ecco si, il suo obiettivo forse fu quello di mandare un messaggio implicito, ossia quello di riportare la musica ed il canto al suo posto originale, come forma di arte che ci eleva, ci migliora, ci appassiona, ci emoziona, ma soprattutto ci fa vivere guarendo, e non “vivere morendo” allo stesso tempo. Cosi visse Farinelli, morendo allo stesso tempo. Non essendosi mai sentito un uomo a tutti gli effetti, non potendo avere la possibilità di “piacevoli notti oscure” (Cappelletto, 1995, p. 146). Privato quindi della possibilità di crearsi una discendenza che portasse avanti il suo nome e che conservasse tutti i suoi tesori, come le tante tabacchiere, simbolo di souvenir dei tanti luoghi presso i quali ha fatto ascoltare la sua ugola d’oro. Di lui resta solo qualche bel ritratto e le lettere che aveva inviato ai suoi amici che lo pregavano di redigere le sue memorie ed ai quali aveva risposto: ”A che pro? Mi basta che si sappia che non ho avuto pregiudizi su nessuno, che si aggiunga anche il mio dispiacere di non aver potuto fare tutto il bene che mi sarei augurato...” (Celletti, 1986, p. 80). Malgrado la leggenda che alleggia intorno a lui, Farinelli resta un personaggio relativamente misterioso. Forse è anche per questo che è stato dimenticato, come 35 sono stati dimenticati tanti altri evirati cantori che con le loro voci hanno superato dei “confini” naturali che molti di loro non avrebbero mai voluto varcare, come appunto il Farinelli che soffrì fino alla sua morte di solitudine e malinconia. Dimenticati anche perché quando parliamo di musica , siamo soliti pensare alle arie dei più grandi compositori come Mozart, Beethoven, Bach, Hendel e molti altri, dimenticando i registri e le voci per le quali le loro musiche sono state scritte. Cosi facendo si commette un errore imperdonabile, in quanto ad ogni singolo spartito corrisponde un tipo di timbro, un colore, una sfumatura, ma soprattutto una personalità ed un’anima Ciò che trasmette e ciò che da essa traspare. La voce cantata è lo strumento-mezzo più diretto attraverso il quale vengono proiettate verso l’esterno tutte le emozioni e gli stati d’animo di una persona. E’ attraverso le sensazioni che ci vengono trasmesse che impariamo a conoscere il cantante o anche il compositore e tutte le sue pulsioni nascoste o manifeste, o represse o imprigionate. Forse Farinelli non ha voluto scrivere le sue memorie proprio per questo: far morire le sue emozioni con lui, essere dimenticato di proposito cosi da trovare quella pace tanto sognata, tanto desiderata attraverso l’oblio. Non avremmo mai la possibilità di riascoltare la sua “voce angelica” cosi come veniva definita, ed a pieno non potremo capire ciò che provava, come non lo capiva la maggior parte del pubblico che lo ascoltava, in quel periodo di grandi sfarzi e lussi, quando il “castrato” era solo un essere particolare, un diverso. Forse un Dio o forse un Demonio, un perverso, attorno al quale sono stati costruiti tantissimi miti. In realtà la “perversione” stava solo nell’uso di quella pratica per fini economici, per arricchire le famiglie, oppure per portare alla fama quei compositori mediocri come lo stesso fratello del Farinelli: Riccardo Broschi, suo “creatore” in quanto suo carnefice. Tutti coloro che hanno voluto portare la propria “mano” a tanto, hanno cercato di imitare il creatore, con la differenza di infliggere sofferenza e non di certo gioia. Come ho già detto precedentemente, poco si può dire dello stato d’animo degli evirati, ma tanto si può dire invece di quello dei loro maledetti boia: egocentrici, egoisti, egotisti. Sempre e solo il loro ego, mai quello degli altri. Mai quello di 36 quei poveri bambinetti negati, impiegati come vere e proprie macchine per cantare, negati della loro felicità, per la felicità degli altri. E non pochi furono i casi di molti senza talento, destinati a cadere nell’area del rimosso collettivo. Il mio paradosso ora, e forse anche la mia incoerenza sta nel dire che Farinelli fu fortunato. Stando a quanto scrive Burney citato nel libro di Bouvier: “la voce di Farinelli non era soltanto di prodigiosa agilità, tanto da poter competere con un clarino, forte e di grande estensione, ma si piegava all'espressione degli effetti con toccante tenerezza” (Bouvier, 1943, p. 132). Egli possedeva una fenomenale estensione vocale, una grande versatilità nei vari stili del canto, un’eccezionale tenuta di fiati, un trascendentale virtuosismo e grandi doti di attore. La sua figura quindi è la dimostrazione di un connubio tra bellezza e sublimità. Per di più, non aveva mai ceduto alla moda dei capricci che tutti gli evirati cantori seguivano. Si distinse quindi da tutti gli altri non solo per la sua grandissima capacità artistica, ma anche per la sua umiltà e la sua serietà: “una bravissima persona”, “un grande professionista”, diremmo oggi. Un vero e proprio esempio di vita, non solo per chi auspica ad emergere nel campo musicale, ma per tutti quelli che dovranno debuttare nella vita. Essere pronti ad ammettere i propri limiti, restare con i piedi per terra, non avere slanci di superiorità, capire che il mondo ti può schiacciare da un momento all’altro. Il mondo di Farinelli era il pubblico, il più passionale degli amanti, ed in quanto amante aveva la possibilità di amarlo o di odiarlo a suo piacimento. Il mostro terribile che si impossessa di te, dal momento in cui ti entra da sotto le unghie e ti avvelena pian piano, portandoti ad annullare te stesso, a causa della paura di fallire, per la paura che possa esserci un altro migliore di te, per il terrore di credersi più grandi di quanto effettivamente si è. Quanti artisti abbiamo visti fare “questa fine”, e quanti ne vediamo ancora oggi. Farinelli fu un genio, aveva intuito cosa fosse il successo, la fama, la stima degli altri: tutte cose che prima o poi passano, e bisogna esser pronti a lasciarli, o ancora meglio a mandarli via prima che questi prendano il sopravvento su di te. Farinelli aveva già subìto fin troppe sofferenze, per poter subire anche la sua decadenza artistica, cosi che lascio prima, molto prima. Ed involontariamente, senza neanche saperlo, lasciò qualcosa in sospeso, di non finito, che lo rende 37 ancora eterno oggi. Infatti nel 1998 si è costituito a Bologna il Centro Studi Farinelli con il proposito di ricordare la figura del grande artista promuovendo varie manifestazioni e organizzando spettacoli in cui vengono riproposte le più famose arie che furono da lui cantate. Di certo è impossibile poter raggiungere lo stesso risultato raggiunto dal grande evirato a suo tempo. Ma tali manifestazioni sono degne di grande stima e di considerazione, poiché sono modi per poter far rivivere la musica di quel tempo, cosi minuziosa e meticolosa nella composizione e nell’armonia. Potrebbero essere dei modi per rieducare la musica alla strumentazione e all’orchestra, visto che oggi questo sta incominciando a morire. Oltre ad organizzare spettacoli in onore del sopranista, il centro studi di Bologna si propone anche di: promuovere pubblicazioni inerenti alla figura del Farinelli e di altri celebri cantanti castrati, nonché di approfondire le problematiche connesse, e di promuovere convegni, incontri di studio, seminari e mostre, nonché ricerche d’archivio e ogni altra iniziativa specifica sull'argomento. Bologna resta la città dove Farinelli ha trascorso gli ultimi anni della sua faticosa vita fino alla morte, ma non dimentichiamo che nonostante i viaggi, i tour, egli è vissuto nella nostra città, la città di Napoli. Ed è proprio presso il conservatorio di san Pietro a Majella che ogni venerdì sera si consumano concerti dalle più straordinarie tematiche, in onore dei più grandi artisti di ogni tempo, tra cui anche il Farinelli. Napoli cosi bella ed immensa, Napoli dalle mille storie, dalle mille canzoni, dalle mille contraddizioni, dove ogni parola della sua lingua ha un significato che rimanda a tempi addietro, come anche il significato del termine “farinielli” dal quale deriva l’equivoco collegato appunto al nome d’arte “Farinelli” e che analizzerò più avanti. Voglio giustificare il mio umile tentativo di riportare qui la vita di Farinelli, in quanto molte cose sono state tralasciate da me, ad esempio l’intero repertorio del cantante. Il mio obiettivo infatti era quello di raccontare i momenti più salienti della vita dell’artista, quelli che in un certo qual modo hanno dato una ragione ed un senso ai suoi modi di essere, e a me l’illusione di interpretarli. 38 2.1.1 Perché il nome “Farinelli” Nella delicatissima età preadolescenziale (cruciale per la costruzione dell’identità di ognuno di noi), il suo processo di crescita si era declinato, non per acquisizioni, ma per perdite. In quel periodo aveva perduto la virilità, la figura paterna ed anche il proprio nome. Dopo “l’intervento” infatti si completava l’opera con l’imposizione del nome d’arte. Questo era simbolo di distinzione della propria diversità, o meglio, simbolo per evocare il virtuosismo del cantante. La scelta del nome d’arte era libera, e prevedeva una serie di vezzeggiativi e diminutivi, in onore dei propri maestri, oppure legati ad un episodio di grande interpretazione del evirato, che lo richiama alla memoria di tutti. Ad esempio l’evirato Antonio Uberti che scelse il nome “Porporino” in onore del grande maestro di Farinelli, che in quello stesso anno della scelta, morì. Oppure posso citare Giovanni Francesco grossi col nome “Siface”, o ancora Nicolò Grimaldi, “Nicolino”. Sulla scelta del nome “Farinelli” sono state fatte tre ipotesi, tra queste due sono sicuramente da scartare: la prima ipotesi è quella che vede la scelta di tale nome legato ai “Farinel”, famiglia di illustrissimi violinisti, ai quali si pensava il cantante voleva rendere omaggio. La seconda si pensava fosse legata invece al lavoro del padre Salvatore Broschi, ma in realtà il suo lavoro non lo portava in alcun modo a lavorare con della farina. La terza e la più ovvia e sicura, è quella che vede la riconoscenza del cantante nei confronti della famiglia “Farina”, ceppo di avvocati e giuristi, che prese sotto la sua protezione Carlo fin da piccoletto, pagandogli le costosissime lezioni di canto presso il maestro Porpora. Sul nome d’arte si è insicuri se egli si facesse chiamare “Farinelli” o con il finale in “o”. ”Farinello”. Sta di fatto che nel suo testamento il cantante si firma col finale in “i”, ma stando alle cronache del tempo, i vari personaggi che lo incontrarono nel corso della loro vita lo chiamavano anche come “Farinello”. Dalla quale probabilmente nasce l’equivoco del “Fareniello” a Napoli, con il quale si identifica un uomo di bell’aspetto, cascamorto ed intrigante oltre ogni limite di decenza, un bellimbusto che crede, con il suo comportamento, di apparire spiritoso, ma risultando poi estremamente antipatico. 39 E’ interessante conoscere l'origine di questo vocabolo. Deriva dal fatto che nel corso delle varie rappresentazioni teatrali, c’era il personaggio dell’amatore che doveva essere, per esigenze di copione, sempre di aspetto giovanile. Il carattere ed il comportamento da Don Giovanni, lo facevano grande conquistatore di cuori femminili. Per l’attore che interpretava la parte, andava bene finché era giovane. Quando queste qualità incominciavano a mancare, il povero ex-giovane attore doveva in qualche modo evitare che il pubblico vedesse sul suo volto i segni del tempo. Non esistendo ancora tutto l’apparato delle luci che schiacciavano i difetti del volto, si spargeva sul viso di questo quantità enormi di farina (non esistendo nemmeno ancora i trucchi teatrali come il pan kake o il pan stick). Cosi “infarinato” l’attore poteva mascherare l’età e continuare ad interpretare l’amatore. Da qui l’origine di fareniello o farinello, cioè di persona che vuole apparire ciò che non è affatto. L’uso della farina che fungeva da cipria sul volto infatti nacque nel periodo settecentesco il periodo appunto degli evirati, che nelle loro numerose rappresentazioni teatrali (sia nel ruolo di donna, sia nel ruolo di amoroso o amatore) si “infarinavano”. In realtà il vero senso del “Fariniello” lo si può dare utilizzando il termine di “Casanova”, derivante dal cognome di Giacomo Casanova, che fece del suo cognome sinonimo di seduttore, di “sciupafemmine” come si dice a Napoli, non a caso anche il nome “Giacomo” in dialetto napoletano “jacuvell” indica appunto l’intrigo, la moina. Dopo questa parentesi, che ho reputato necessario fare, in quanto spesso siamo soliti utilizzare termini di cui non ne conosciamo nemmeno il significato, ritorniamo appunto al nome “Farinelli” e di come tale scelta non sia stata solo di omaggio ai suoi protettori, ma anche un modo per il cantante di liberarsi di se stesso completamente, di abbandonare per sempre ciò che era prima dell’intervento e ciò che sarebbe stato senza la sottomissione ad esso: “Carlo Broschi, difatti “muore” definitivamente a quindici anni, quando il già meraviglioso cantore nasce in arte come Farinello” (Cappelletto, 1995, p. 145146). Il cambiamento del nome fa riferimento infatti anche agli antichi rituali magici, religiosi, artistici…come rigenerazione simbolica. Cosi infatti il modo per aver 40 successo dei castrati, coincideva proprio in questo cambiamento, in questo nuovo battesimo dove il padrino era il pubblico, che li relegava ad un eterna infanzia. Mi è capitato spesso infatti, durante la lettura di alcuni libri su di essi, di pensarli sempre come dei bambini anche nelle pagine che raccontano della loro vecchiaia, un processo psicologico alquanto “normale” suppongo e alquanto giustificabile, dato che il concetto che ricorre sempre nella descrizione dei loro stati psichici, è quello di essersi fermati ad un’ora prima di aver subito l’operazione. La cerimonia per la scelta del nome, come racconta Porporino (altro celebre castrato postero del Farinelli) nel libro di Dominique Fernandez, di solito avveniva all’aperto con tutti i ragazzi che tenendosi per mano a formare un cerchio intorno ad una palma, venivano chiamati dal rettore ad uno ad uno a dire il proprio pseudonimo, dopo il quale, lasciandosi le mani uscivano fuori dal cerchio. “L’uscita dal cerchio quindi poteva essere simbolo di transizione, di passaggio da un’identità ad un’altra” (Fernandez, 2008, p. 83). Farinelli come quasi tutti gli altri, non avrebbe voluto riconoscersi in questa sua nuova identità. La prova di ciò sta nell’abbandono delle scene avvenuto nel 1732 con il ritiro a Madrid, oppure per quanto riguarda tutti gli altri castrati, del loro modo di fare i capricci, cosi forse da darsi un senso, dato che questa era di caratteristica comune a tutti loro: “una possibile, quanto fondamentale, “traduzione” di un ancor più complesso fenomeno, l’autorappresentazione, che possiede una sua specifica caratterizzazione cognitiva; una dimensione “immaginaria” ancor più profonda dell’immagine stessa, quella del proprio corpo e quella di ogni altra cosa” (Caramiello, 2009, p. 1). Un illusione forse, oppure una debolezza…? Oggi non possiamo dire di essere deboli, vulnerabili o condannati ai limiti che il destino ci impone: le nostre storie, la nostra biologia o il sesso anatomico che ci viene dato dalla natura. Tutto questo lo possiamo cambiare per davvero. In modo concreto, lo possiamo constatare pensando all’esercito dei travestiti o ancor meglio dei trans che affollano le nostre strade. La chirurgia plastica e quella estetica oggi fa miracoli! Capace di passare da un sesso all’altro, da uomo a donna, e viceversa. 41 L’epoca quindi è cambiata non si piega più la propria mente al proprio destino infame, non ci si rinnega più cercando di rimuovere il vero “essere se stessi”, oppure illudendosi di essere qualcosa. Come invece cercarono di fare gli evirati settecenteschi con i loro capricci, che non indicavano un’immagine da divi, bensì tutte le loro frustrazioni, e le sofferenze, che cercavano di acquietare mettendo in pratica questo orribile gioco dell’illusione. Un gioco che li imprigionava in una continua domanda: “chi sono?, sono maschile, sono femminile, sono neutro o bisessuale?”. Non lo sapevano. Quale altra frustrazione più grande può esistere, se non quella di non sapere chi siamo? Nemmeno gli altri lo sapevano: compositori, protettori, mecenati, pubblico, nessuno. Per questo venivano denominati “angeli”. Gli angeli non hanno sesso, la divinità è pura, è un mistero. In effetti ad un livello esteriore, essi apparivano come degli ermafroditi, cerature angelicate e totipotenti, ma in realtà non erano altro che “vittime di una devastante mutilazione dell’anima prima che del corpo” (Cappelletto, 1995, p. 145). Ma se già possedevano un aspetto femminile dovuto allo squilibrio ormonale, perché venivano dati loro ruoli virili, dalla grande mascolinità? E perché venivano truccati da donna se ciò poteva anche essere evitato? E perché loro stessi sottostavano a queste esigenze di scena? Era solo per darsi un carattere tramite il personaggio che veniva loro assegnato? Era solo per cercare di essere più vicino all’irrealtà? Era per riempire il teatro? O un modo forse appunto per annullare completamente il pensiero di quella specificità che gli era stata tolta per sempre, cercare di non soffrire più, sottomettendosi a dei ruoli che non somigliavano mai a loro stessi, e nello stesso tempo trovare forza e consolazione nell’arte che amavano di più, quale il canto? Di sicuro era una mescolanza continua di bene e di male. Questo fu il risultato attraverso la scelta di un altro nome per tutti loro: l’aver indossato una maschera che li avrebbe protetti anche dai sentimenti di vergogna e di umiliazione, aver scaturito da parte di chi li osservava il dubbio di chi fossero per davvero, l’essere stati (richiamandomi un po’ a Pirandello), uno, nessuno e centomila. Ciò spiega Il rifiuto totale della persona che comporta la frantumazione dell’io. Pieno di significati è il loro non ribellarsi al cambiamento del proprio nome, anzi quasi si può dire che il nome di battesimo lo rifiutavano. Il rifiuto del nome, che 42 falsifica ed imprigiona la realtà in forme illusorie dei divi, degli angeli, degli Dei, dei grandi. Forse solo ed esclusivamente per identificarsi in ogni personaggio o ruolo, in una completa alienazione da se stessi, dal maschile e dal femminile, e in una totale estraniazione dal loro passato e dalle forme coatte che esso ha imposto loro. 2.1.2 La città dei castrati: Napoli Napoli è la città della canzone, ed infatti Napoli fu la città dei castrati. Il fenomeno degli evirati a Napoli divenne di grande portata nel ‘700, tant’è vero che esistevano botteghe con l’insegna: “qui si castrano fanciulli”. Questo però non è provato storicamente, come infatti ci testimonia il musicologo Burney che durante il suo viaggio a Napoli: “cercava spasmodicamente tali botteghe, ma l’esito fu negativo” (Fubini, 1979, p. 267). Anche se è comunque facile pensare che in una città piena di difficoltà, con orfani, e famiglie disastrate economicamente, la castrazione dei giovani fosse considerata un’ancora di salvezza, un’occasione di carriera per loro e di ricchezza per le famiglie finalmente. Infatti i napoletani nei primi decenni del secolo, dovettero abituarsi a convivere con un potere precario con continui passaggi di mano. Nel 1707 infatti come conseguenza della guerra di successione spagnola, la corona di Spagna cede all’impero asburgico il dominio del regno. Tutto ciò tra l’altro, portò al risultato di una perenne migrazione in varie parti di Italia e alcune volte anche all’estero di musicisti napoletani, che nella sfortuna contribuirono a far conoscere la canzone napoletana anche al di fuori. La maggior parte dei castrati quindi furono di fabbrica napoletana poiché la miseria ed il fascino del profitto, resero il popolo abbastanza crudele da mutilare in questo modo i propri figli, tanto più se i maschi sono i più numerosi. Questo lo dimostrano le varie storie dei castrati, ed il perché essi siano arrivati a sottoporsi a tale sacrificio, o meglio chi li avrebbe costretti, giocando sulla loro psicologia infantile. Ad esempio, Senesino che fu venduto dai propri genitori ad un maestro di cappella. Fu proprio il nascente melodramma e, in particolare, il teatro napoletano del Settecento a svilupparne la presenza in modo 43 esponenziale, in nome di un gusto artistico incline al senso della festa e al piacere sensuale che mira alla conquista della bellezza pura. Non è un caso infatti che vi fu la presenza di personaggi famosi come Haendel e Senesino, che non reputarono completa la loro carriera se prima non avessero avuto la possibilità di esibirsi anche in un teatro di Napoli. Cosi Napoli veniva denominata “castrapolis”, e non chiamata “partenopea” (come sarebbe dovuto essere). La città che aveva dato i natali ai più grandi compositori e ai più straordinari cantanti, tra cui: Porpora, Sacchini, Pergolesi, Cimarosa , Farinelli, Caffarelli, il quale si era fatto incidere sul frontone della sua casa, in un vicolo di Toledo, tale scritta: “Amphion Thebas. Ego domus” , paragonandosi ad Anfione che con il suono della sua lira aveva smosso le pietre per la costruzione di Tebe, cosi lui con la sua voce aveva comprato una casa grandissima. Ma subito al di sotto di quella scritta seguiva: “ ille cum. Tu sine”, ossia: “lui con (Anfione), tu senza (Caffarelli). Ciò spiega come la loro madre (Napoli) li aveva sfruttati e derisi ed amati per convenienza. Lo sviluppo geografico del fenomeno è ben più ampio di quanto si potrebbe credere, abbracciando gli Stati Pontifici, il Regno di Napoli, la Toscana e la Lombardia. Ma il centro più importante per la loro formazione fu appunto di sicuro Napoli, la capitale indiscussa della musica con i suoi quattro Conservatori i quali originariamente erano degli orfanotrofi: Santa Maria di Loreto, Sant’Onofrio, I poveri di Gesù Cristo, La pietà dei Turchini. Il Sant’Onofrio infatti, era costituito da castrati, bambini “scogliati”, come venivano chiamati in gergo dialettale, che presentavano spesso turbe psichiche, stati depressivi ed erano oggetto dello scherno o delle invidie dei coetanei. Venivano per di più sorvegliati dagli altri allievi del conservatorio, in quanto spesso assumevano comportamenti di fuga e di follia con gesti ancora più estremi. Ad essi erano riservate le stanze più comode e più calde, dove potevano studiare e consumare i pasti al caldo, ed evitare il freddo del refettorio per la loro voce e salute. Questi usignoli in gabbia erano infatti preziosissimi per il sostentamento dei conservatori e per i compositori, loro maestri, tra cui il più famoso, insegnante del Sant’Onofrio appunto, era Niccolò Porpora. 44 Coloro che castravano i ragazzi a Napoli, erano i “norcini”, a questa categoria appartenevano i macellai o ancor di più i barbieri. Un barbiere molto noto si chiamava Alessandro Liguoro il barbaro-barbiere, che aveva l'attività in un negozio, in via Toledo a Napoli. Egli fu “creatore” del castrato Matteuccio, del quale si affezionò e ne divenne suo tutor, facendolo studiare al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, presso il quale il barbiere era solito portare i ragazzini. Testimonianza di quanto la città di Napoli fosse stata senza scrupoli nel compiere tali “delitti”, ce la offre Porporino altro grande castrato destinato a succedere Farinelli. Sullo sfondo di una città raffinata e sudicia, capitale dell’architettura e delle arti, punto d’incontro dell’Europa illuminata al pari di Parigi e Londra, si incontrano vari personaggi, tra cui l’alchimista Raimondo di Sangro, Principe di San Severo che fu il suo protettore. Porporino racconta di quanto fosse dura la vita a Napoli e di quanto fosse altrettanto comoda. Lui e i suoi compagni alternati tra il durissimo studio, e i vari incontri che si trovavano a fare tramite i loro protettori. Questi incontri si basavano su una grande stima verso i ragazzetti, ma allo stesso tempo anche sulla curiosità di capire molte cose su essi. Forte esempio di ciò fu l’incontro con Casanova, attratto da Porporino, diviso tra le donne e i castrati, fino al punto di vivere una crisi personale sulla propria sessualità, stroncata poi sul nascere. Fu Napoli che ha dato vita a questo fenomeno sociale, morale e politico, prima ancora che musicale e culturale, di fondamentale importanza nella storia europea del XVII e del XVIII secolo e non i castrati, perché furono pochi, da quello che ho potuto ricostruire dalle varie documentazioni, i ragazzi che di loro spontanea volontà chiesero di essere sottoposti all’operazione, ad esempio Caffarelli, figlio di un povero agricoltore, destinato alla stessa sorte. Fu un appassionato di musica fin da bambino, una passione che lo portava sempre ad ascoltare i canti nelle chiese, scappando dalle punizioni familiari. Fu scoperto da Caffaro (un musicista, dal quale poi prese il nome d’arte in suo omaggio), che lo prese con se facendolo studiare e poi inviandolo a Napoli dal Porpora. Uno dei pochi che non odio il suo destino, anzi se lo scelse con assoluta libertà e consapevolezza, a differenza di molti altri, e che amava Napoli, “sua maestra”. Alquanto notevole ed insolita la 45 storia del Caffarelli rispetto a tutte le altre vicende dei castrati che volevano fuggire da Napoli. Che grande somiglianza riesco a cogliere nello scrivere queste righe, tra il passato ed il presente. Anche oggi si vuole fuggire da Napoli, si è voluto sempre fuggire. Chi rimane ci rimette sempre qualcosa. Mi rendo conto di quanto ancora oggi l’aria che si respira in questa città soffochi, con quel tanfo di miseria e di disperazione che porta alle cose più impensate. Napoli ha sempre messo al bando i propri corpi. Dominique Fernandez nel suo libro racconta di quanto fosse abitudinale a San Donato la visita di alcune donne, “le visitatrici” appunto, che vendevano i loro corpi per mezz’ora agli uomini del posto. Si mettevano al bando per inclinazione o per disperazione? Forse quest’ultima. Anche nel film “la pelle” di Liliana Cavani del 1981 tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, vi è rappresentata una Napoli del 1944, tra disastri e macerie di una città appena liberata, che doveva avviarsi verso una sua ricostruzione. Da dove cominciò la ricostruzione? Mi rimase impressa la scena di una bambina “la vergine di Napoli”, messa in vendita dal proprio padre ad un lungo serpentone di soldati. Lei cosi piccola ed inconsapevole, cosi triste e rassegnata da pensare di essere apprezzata dal padre per quello che era stata messa a fare. Cosi i castrati, e cosi ancora oggi molte ragazze e donne adulte nei bassi di Napoli praticano “la vita”. Da non dimenticare anche i “femminielli, i ricchioni, che nella Napoli tradizionalista furono delle vere e proprie scuole per i ragazzi che si accingevano ad affacciarsi per la prima volta ai piaceri sessuali” (Cfr., Caramiello, 2009, p. 7 ). Napoli ha sempre pensato ed agito cosi, dietro il suo falso moralismo, la sua falsa tradizione della verginità che le ragazze mantenevano perché sottostavano al fatto che i loro fidanzati andassero con altre donne oppure addirittura con i femminielli. Tutto questo ci fa capire di quanto questa città è stata fin dalle epoche antiche., piena di contraddizioni, “Ma Napoli è anche la musica, il canto, come ci ricorda questa deliziosa statua in marmo”(Fernandez, 2008, p. 220). La statua della Dea Partenope, emblema della città all’epoca, la più antica cantante, la prima, che si riconosce nei suoi figli più adorati: i castrati. Stendhal afferma che Napoli sia assieme a Parigi, l’unica capitale. Per la sua grandezza storica, per la sua nascita, per le sue ricchezze, per la sua cultura 46 architettonica, artistica, musicale, ma soprattutto per i suoi misteri. “I misteri di Napoli” come ci suggerisce il titolo del libro di Dominique Fernandez, dal quale riusciamo a capire molte cose. Città con i suoi “scheletri nell’armadio” possiamo dire, “Regina decaduta” per i suoi delitti, per le sue infamie, dove la dignità si perde assieme all’intelletto, gioiosa perché ad essa conviene esserlo, cosi da nascondere i suoi peccati. 2.1.3 La scuola di Porpora Nicola Antonio Porpora nacque a Napoli nel 1686. Il padre era un libraio, titolare di una bottega sita in San Biagio dei librai. Date le condizioni benestanti della famiglia, poté studiare al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo. Qui vi rimase dieci lunghi anni ricevendo anche una forte istruzione letteraria. Finiti gli studi il successo di Porpora si diffuse in tutta Italia con la sua scuola per castrati, guadagnandosi ben presto la nomea di educatore delle migliori voci del settecento, grazie al suo quintetto di allievi: Farinelli, Caffarelli, Salimbeni, Appianini e Porporino. Infatti fu questo uno dei motivi che spinse le famiglie dei ragazzini a lasciare la propria citta natale per raggiungere Napoli. Come appunto questi che ho appena citato, i quali si sottoposero al severo metodo di Porpora, diventando i più osannati cantanti napoletani assieme. La loro entrata nella scuola avveniva subito dopo il tempo necessario affinché la ferita provocata dalla operazione si rimarginasse. La maggior parte dei ragazzi sperava di entrare in conservatorio dopo l’intervento, ma poiché la domanda superava l’offerta, questo passaggio veniva spesso monetizzato, con reciproci vantaggi: sia per la famiglia che si alleggeriva del mantenimento di un figlio, sia per il tutor che voleva questa sorte per il ragazzo cosi per poi venderlo ai maestri di canto con cospicuo guadagno. “La scuola belcantista di Porpora durava in media dai sei agli otto anni, e si basava su alcuni punti basilari, tra cui il raggiungimento della massima purezza e limpidezza del suono, la massima estensione e l'attenzione agli abbellimenti e ornamenti virtuosistici, elemento imprescindibile nell'opera melodrammatica che a Napoli cominciò ad espandersi” (Cfr., Florimo, 1882, p. 261). Per raggiungere tali risultati, il maestro aveva un suo metodo, usato ancora oggi da vari maestri di 47 canto. Spesse volte infatti Porpora faceva studiare per anni l’allievo su di un unico spartito, composto da tutte le difficoltà musicali, quali ad esempio: scale, trilli, mordenti, appoggiature, picchiettati etc. Una sorte che tocco ad uno dei suoi allievi preferiti, Caffarelli che difatti divenne uno dei più preparati cantanti evirati tra la vasta schiera. Napoli o meglio la scuola di Porpora divenne il banco di prova, la sfida decisiva per chi decidesse di frequentarla. Solo chi riusciva a sopportare quel pesantissimo studio, con orari assurdi ed estasianti sarebbe potuto diventare un grande della musica. Le giornate erano insopportabili: sveglia alle sei e mezzo, subito un’ora di studio o di ripasso degli esercizi e delle lezioni fatte il giorno prima. Sette e mezzo: funzione in cappella, alle otto una prima colazione con pane e latte. Otto e mezzo: c’era il contrappunto. Nove e mezzo: letteratura. Dieci e mezzo: vocalizzi col maestro davanti ad uno specchio per essere bene attenti agli errori di respirazione e non commetterli cosi da sviluppare quegli organi a dimensioni eccezionali cosicché “si esalavano fiati che muovevano corde vocali e laringi più esili, più vibratili. Lì si generava il controllatissimo fascino della messa di voce” (Cappelletto, 1995, p. 9). Undici e mezzo: esercizi strumentali e corali. Mezzo giorno e mezzo: pausa. Ore tredici: pranzo. Dopo il pranzo si proseguiva fino alla cena alle nove con un ora per ogni materia, ossia: letteratura, storia, ginnastica vocale, solfeggio, composizione, fisica acustica, calligrafia, contegno e buone maniere. A letto alle dieci e mezzo. Tutte queste altre materie che venivano trattate per l’intero pomeriggio sfatavano il mito che i castrati fossero degli ignoranti analfabeti. In realtà anche se partivano con un analfabetismo totale (poiché provenienti dalle fasce meno abbienti e più disastrate), questi venivano sottoposti ad una formazione, ossia ad una rieducazione non culturale ma colta. Una rigida educazione “militare” si potrebbe dire. Non vi era il tempo per passeggiate, giochi, o scherzi tra compagni di scuola. Per di più durante la settimana, una volta ogni due giorni il capoclasse chiamato “maestrino”, fungeva da maestro, e alla lavagna spiegava le pesantissime lezioni. Al metodo scolastico era collegato anche il tipo di pasto che gli allievi dovevano consumare. Infatti insalata, tonno e sardine era il normale menù degli allievi non evirati, mentre a questi ultimi toccavano il pollo, le uova e del vino. 48 Come racconta Porporino: “Cimarosa mi supplicava di tenergli in serbo un pezzo di pollo o un goccio di vino” (Fernandez, 2008, p. 76). Per fare questo però, venivano pagati, e i soldi che guadagnavano, contribuivano in buona parte al loro mantenimento all’interno della scuola Alcune volte capitava che l’organizzazione didattica cambiava, cosi venivano organizzate delle ore in cui i giovani castrati dovevano esercitarsi al clavicembalo per comporre musica vocale, sacra o profana a seconda della loro inclinazione. Questo programma così esigente faceva sì che, se sufficientemente dotati di talento, i ragazzi fossero in grado di fare il proprio debutto negli anni centrali dell'adolescenza con una tecnica perfetta e una voce dalla flessibilità e dalla potenza che nessuna donna o normale cantante maschio poteva eguagliare. Come capito a molti di loro basta pensare a Farinelli che debutto per la prima volta nell’Angelica e Medoro a soli diciassette anni. Tra i quindici e i vent’anni quindi, dopo aver superato una serie di prove, il castrato ben riuscito faceva il suo debutto nell’opera lirica. Oltre alle varie lezioni, i ragazzi dovevano servire messa, e partecipare a feste parrocchiali e processioni. Spesso vestiti da angioletti con tunica bianca e fascia di lustrini nei capelli, con ali di vere penne alle spalle. Tutto questo per vegliare sui cadaveri dei bambini morti e per restare intere notti inginocchiati a pregare dandosi il cambio di mezz’ora alla volta. Come dei veri angeli, degli angeli controvoglia. 2.1.4 Il rapporto col fratello Riccardo Ho già accennato al fratello Riccardo Broschi precedentemente, limitandomi a dire che fu il creatore di Farinelli proprio perché suo carnefice. Non ci pervengono informazioni esaustive sulla sua persona, ne sul suo rapporto col fratello minore. Possiamo però cercare di capire qualcosa, tenendo conto della loro situazione familiare nei tempi antecedenti l’operazione, e soprattutto tenendo conto della loro scarsa collaborazione artistica. Un altro indicatore importante che può aiutarci a capire il rapporto tra i due fratelli, è il modo in cui veniva valutato dall’opinione pubblica di quel tempo il fratello Riccardo come compositore. Analizziamo il primo punto: la situazione familiare nei tempi precedenti all’evirazione del fratello Carlo. 49 Ho spiegato nel corso di questo lavoro quali furono le ragioni che spinsero le famiglie ad accettare di sottoporre i propri figli ad un tale intervento invasivo. Tra le ragioni più esaustive abbiamo: la situazione difficile nella Napoli tra seicento e settecento e quindi una precarietà, una miseria che affliggeva gli abitanti, e che conseguentemente portava alla necessità di vendere il proprio figlio ad un maestro di cappella o a qualche norcino, ottenendone cosi un guadagno e liberandosi del peso del mantenimento di almeno un figlio che conseguentemente entrava in conservatorio. Al contrario della maggioranza dei fanciulli destinati all’evirazione per decisione paterna, o per richiesta di qualche impresario interessato anche lui al loro successivo sfruttamento, i fratelli Broschi non erano poveri, ma alquanto benestanti avendo un padre compositore e maestro di cappella. Non ci risulta nemmeno che fosse stato per volere del padre sottoporre Carlo ad un cosi crudele destino, anzi la coincidenza vuole che, il piccolo fu sicuramente castrato poco dopo la morte del padre. Fu sicuramente il fratello maggiore quindi a volere l’evirazione del fratellino più piccolo, anzi si dice che sia stato proprio lui un giorno a castrarlo somministrandogli dell’oppio, approfittando di una malattia di Carlo, che si trovava già in uno stato di incoscienza e delirio. Chissà se al suo risveglio, non gli raccontò la storiella della caduta da cavallo come giustificazione dello stato di convalescenza. Infatti una cosa molto curiosa è che al momento successivo all’intervento, quando questi bambini chiedevano il perché dello loro stato, gli veniva detto che l’operazione era stata necessaria per salvare loro la vita dopo una caduta da cavallo che non riuscivano a ricordare in quanto tale caduta aveva avuto conseguenza anche sulla loro memoria: “da medesimi documenti apparisce che egli non fu sottoposto al taglio nella puerizia per conservare la mollezza della voce, e cosi venderla a maggior prezzo; ma bensì per conservare la vita in un grave pericolo corso per la sua fanciullezza vivacità, saltando sopra un cavallo, onde cadde, e fu anche offeso nella fronte” (Cappelletto, 1995, p. 3). A tale storiella fingeva di credere anche la società ipocrita di quel periodo, ma è chiaro che quando questi bambini diventavano adulti venivano a scoprire tutto. Tale storiella non è l’unica, a questa si aggiungono: il morso di un animale (preferibilmente un cinghiale o un maiale), 50 oppure ad una menomazione che predisponeva naturalmente il soggetto a quella professione. In realtà quindi fu proprio per l’ingordigia di Riccardo che Farinelli divenne un castrato, ma soprattutto anche per la non considerazione (da quello che ci appare) della madre che fu sempre in disparte, infatti di lei non si ha nessuna informazione, né storica né personale, mai nominata da ambedue i fratelli, soprattutto tra le numerose lettere di Farinelli non ci perviene nessuna lettera che fosse destinata alla madre. Riccardo approfittò subito della posizione in cui si trovava: sia di essere diventato il capofamiglia, sia della malattia del fratellino, cosicché la sua voce rimanesse pura per sempre, in modo forse da cantare le sue opere in un prossimo futuro, che per Riccardo in realtà non fu molto prospero. Infatti i due fratelli non lavorarono molto tempo assieme, durante il grande periodo del Farinelli il quale era destinato da sempre a brillare più del fratello alle cui opere non sembrava cosi interessato. Riccardo apprese i fondamenti della musica dal padre, compiendo successivamente i suoi studi nel conservatorio di S. Maria di Loreto a Napoli, probabilmente nel decennio 1712-1722, con i maestri Gaetano e Giovanni Veneziano, Perugini e Mancini . Il 3 febbraio 1725 esordì come compositore di musica sacra per la festività di San Biagio nella chiesa di S. Maria del Popolo negl’Incurabili e la sua “scelta musica a più cori” venne accolta “con applauso universale”. “Tuttavia egli fu considerato, da allora in poi, come il fratello del celebre sopranista Carlo Broschi” (Zapperi, 1972, p. 30) sebbene avesse un suo personale valore. Possiamo dare breve accenno della loro collaborazione operistica: tra 1731 e il 1732 furono a Torino con “l’Ezio”, e la sua opera più importante “Merope”, nel 1734 fu a Londra sempre con il fratello Carlo, dove costui fece il suo debutto nel palcoscenico inglese con “l’Artaserse”, pasticcio prodotto dal Riccardo in collaborazione con Johann Adolf Hasse. Di questo lavoro si ricorda l’aria di bravura “Son qual nave ch'agitata” composta dal compositore napoletano. Nel 1737 fu attivo per un breve periodo come compositore di musica alla corte del duca Carlo Alessandro di Wurttemberg. Tornato a Napoli, mise in scena il suo ultimo dramma, “Demetrio”, composto in collaborazione con Leonardo Leo; non 51 riuscendo nella città partenopea ad ottenere importanti commissioni, nel 1739 decise di raggiungere il fratello Carlo a Madrid, dove nel 1737 quest’ultimo era diventato cantante di corte al servizio del sovrano Filippo V. Qui abbandonò la propria carriera musicale per intraprendere quella diplomatica come commissario della guerra e della marina. Tuttavia alcune lettere rinvenute presso l'archivio di stato di Napoli rivelano che Riccardo Broschi nel 1744 tentò di acquisire la carica di maestro di cappella della corte reale napoletana. Come possiamo notare quindi non ebbe vita lunga, ebbe tra l’altro sempre un continuo bisogno dell’appoggio del fratello Carlo più amato ed ammirato. La ragione sta sia nella valutazione mediocre che veniva data a Riccardo come compositore, sia per la volontà inconscia del Farinelli forse di non voler lavorare con lui. E chissà se forse non fosse per una qualche sorta di rancore da parte del sopranista nei confronti del fratello, tuttavia non ci perviene nessuna notizia di risentimento o di odio del cantante. Sappiamo per certo che Riccardo non era stimato da parte del pubblico, infatti ancora oggi viene ricordato non perché abbia lasciato un segno nell’opera europea, ma semplicemente perché affiancato al nome di Carlo, e per la sua breve collaborazione con esso, che fu probabilmente fin troppo misericordioso nel cantare le sue opere. Infatti Farinelli era preparatissimo nell’arte del canto e della composizione, e mi viene da essere quasi certa che anche lui non stimasse i lavori di Riccardo. Anzi possiamo dire che se Riccardo viene ancora un tantino ricordato è solamente per il delitto che consumò sul fratello. Non abbiamo nessun evento eclatante che riguarda l’unione dei due fratelli, anzi è ancor più significativo di come ci appare per niente fraterna la loro situazione rispetto poi invece all’amore che tiene legato Farinelli al poeta Metastasio, chiamato dal sopranista non fratello, ma addirittura gemello. Un rapporto che va ancora più oltre di qualsiasi legame di sangue, quel sangue che tradì Farinelli. Di certo Farinelli amava la musica, e non penso che odiasse la sua voce, forse e per questo che riuscì a mantenere una sorta di rapporto col fratello. Ma è anche vero che non spese mai ne parole di rabbia o di odio, ne di sentimenti affettuosi ed amorevoli nei confronti del fratello maggiore. Anche la figura di Riccardo, a parte il suo delitto e la sua mediocrità nello stile musicale resta un personaggio 52 relativamente misterioso. Ma il suo mistero non è pieno di leggende, di miti, di storie o di fascino, come lo è invece, il mistero che aleggia attorno alla figura del fratello. Infatti il mistero di Farinelli, è un mistero voluto, un mistero volontario da parte del sopranista, che non volle mai redigere le sue memorie nonostante le varie richieste che lo pregavano di farlo, mentre invece il mistero di Riccardo sembra essere voluto dagli altri che non hanno mai voluto approfondire le poche notizie che si avevano e si hanno di lui. Non si è mai voluto capire se la sua ossessione sia stata la musica a se, oppure la voce del fratello (anche perché non bisogna dimenticare che se Riccardo non avesse perpetrato l’orrore sul fratellino, quest’ultimo non sarebbe diventato Farinelli). A mio parere opterei più per l’ossessione per la voce del Farinelli, in quanto ad un certo punto della sua vita, Riccardo abbandonò il meraviglioso mondo della musica. Ma l’abbandono fu dovuto perché si rese conto anche lui che la sua musica non funzionava, o perché non vi fu nessuna volontà del Farinelli di lavorare con lui? Una domanda a cui non si può dare risposta, si può solo cercare di capire, di immaginare, di ricostruire, di ipotizzare, ma mai di sapere per davvero le vicissitudini dei due fratelli e del loro rapporto. Come non si è mai capito bene, se l’abuso di Riccardo sul fratellino l’abbia compiuto perché sperava in un futuro brillante assieme, o perché secondo la moda di quel tempo, gli sembrava un grande peccato che quella voce cosi sublime venisse invece sostituita dalla voce della maturità. Forse ambedue le cose, forse una o forse nessuna, ma di sicuro da quel delitto non ne voleva trarre beneficio economico da parte di un impresario o maestro di cappella. Non sappiamo quindi per certo cosa abbia persuaso Riccardo ad agire, sappiamo per certo che fu lui ad agire, da solo senza nessun altro, di sua spontanea volontà e di nessun altro: ne della madre completamente assente, ne della sorella Dorotea della quale si sa solo che ebbe molti figli, ne soprattutto del padre. Scrive Sacchi (contemporaneo di Farinelli), citato da Sandro Cappelletto infatti: “del padre che egli perdette in tenerissima età, conservò lunga memoria e ne parlava con pietà somma, benedicendo la severità colla quale era stato da lui educato ed istruito” (Cappelletto, 1995, p. 7). È da notare in queste poche righe, nelle quali si intravede tutto il pensiero del sopranista che la “pietà somma” di cui parlava non risultava riferita invece al fratello Riccardo. 53 2.2 Farinelli e il suo “gemello caro” “Io non so esprimermi meglio che dicendovi che v’amo quanto merita d’essere amato Farinello” (Cappelletto, 1995, p. 80). Sono le parole che con tanto affetto scrive Metastasio in una delle tante lettere inviate a Farinelli. Quante volte il cantante, come rimedio alla malinconia profondissima e agli ulceranti bruciori di stomaco “suo eterno persecutore” (Vitali, 1992, p. 62), avrà riletto queste righe inviategli dal suo “gemello caro” Metastasio? Il loro incontro avvenne in una sera d’agosto, durante una festa privata in occasione del compleanno dell’imperatrice Elisabetta Cristina moglie di Carlo VI d’Austria, da quel momento nacque un legame professionale e un affetto che i due artisti non vorranno mai più dimenticare. Tant’è vero che, sessanta anni dopo, l’ultima lettera del poeta sarà indirizzata all’amico a Bologna. Il connubio professionale tra i due iniziò concretamente, proprio con il debutto di Farinelli nella serenata “Angelica e Medoro” di Metastasio, quando il cantante aveva appena 15 anni e il poeta 22. L’intensa continua interazione reciproca tra i due gemelli, nati insieme alla carriera del teatro musicale e destinati a lasciare un’impronta duratura nella storia del melodramma, prenderà forma ed espressione completa però molti anni dopo nel 1747. Prima di quel periodo, il cantante si trovava a Madrid presso il Re Filippo V, mentre il poeta a Vienna dove era a servizio come Poeta Cesareo, alla corte di Carlo VI. Stringeranno quindi una forte relazione fraterna tra il 1747 e il 1759, una tra le più straordinarie intese artistiche che la storia sia riuscita a conservare e a tramandarci. Tale collaborazione è un capitolo decisivo per la comprensione dell’opera italiana del XVIII secolo, ovvero della poesia destinata all’intonazione e al teatro musicale. Nel 1746 infatti muore il Re Filippo V, ed è senz’altro per Farinelli l’occasione di riscatto, di rinascere a vita nuova e di liberarsi dal ricatto morale della Regina madre Elisabetta Farnese, che costretta a ritirarsi in convento per ordine di Ferdinando VI, successore di Filippo V e figlio della prima moglie di quest’ultimo, avrebbe voluto portare con se in esilio anche il cantante. Ma Farinelli opta per la libertà diventando direttore dell’opera italiana ad Aranjuez, 54 cercando di ridare senso alla sua vita d’artista se non più come voce sublime e inarrivabile. Cogliendo così l’opportunità di divenire finalmente arbitro assoluto della vita artistica e musicale di Madrid e della sua corte, riprendendo i contatti con il Metastasio (non dimentichiamo infatti che Farinelli era già stato a Vienna, in collaborazione con Metastasio nella “Morte di Abel nel 1732), ponendosi come interprete diretto e assiduo dei drammi del Poeta Cesareo, contribuendo indirettamente anche alla vita musicale a Vienna, dove Metastasio in quegli anni si trovava. La collaborazione Farinelli-Metastasio a Vienna, perseguita dai gemelli anche a distanza, costituisce non solo il riannodo dei fili della memoria artistica ed esistenziale, ma anche la nascita di una nuova stagione per la produzione teatralemusicale di entrambi. La collaborazione con Farinelli si rivela quindi decisiva soprattutto per il poeta Pietro Metastasio, al quale la morte di Carlo VI nel 1740, la guerra di Successione austriaca, la momentanea occupazione di Vienna da parte dei prussiani, la diffusione di epidemie di peste, colera e vaiolo nella città, hanno limitato e bruscamente interrotto la regolare scritturazione dei drammi per musica, feste teatrali, e oratori. L’obiettivo di entrambi infatti era quello di ridare all’opera italiana una versione integrale, ma la difficoltà per entrambi non fu tanto la distanza geografica, ma la distanza del troppo tempo intercorso dal 1732 (loro ultimo incontro) al 1747, una ripresa di contatti solo epistolare. Non dimentichiamo infatti che negli anni precedenti, Farinelli cantò solo per curare l’ipocondria del re spagnolo rinunciando ed abbandonando le scene, mentre Metastasio a Vienna era molto in voga. Tuttavia fu un occasione per entrambi tale collaborazione. Nella posizione di Farinelli, avere la disponibilità del poeta che gli scritturava nuovi libretti anche revisionati per le esigenze teatrali che il sopranista richiedeva, fu la sua grande occasione di rilanciarsi, avere di nuovo successo, ed organizzare grandi stagioni teatrali a Madrid, facendone un vero centro d’arte e spettacolo ed accrescendo il ruolo della corte spagnola. Metastasio e Broschi, si accingono cosi a creare una vera e propria alleanza artistica e spettacolare, attingendo anche agli aiuti provenienti dall’esterno, come ad esempio alle amicizie di un’intera vita, sparse in tutta Europa (ma in particolare a Napoli), anche a delle astuzie, dai 55 servizi e favori a membri delle rispettive casate reali di Vienna e Madrid, ai loro protettori, al sostegno di cantanti e artisti reciprocamente preferiti. Prende vita cosi un gioco complesso, un triangolo artistico formato dalle corti di Vienna, Madrid e Napoli allo scopo sempre di rilanciare l’opera italiana e a fare spazio alla riforma ventura di Pietro Metastasio. La prima collaborazione tra i due si ha con il “Demofoonte” a Madrid, intonato da Baldassare Galuppi, sul quale Metastasio aveva dei dubbi. Tant’è vero che l’opera fu portata anche a Napoli l’anno successivo con le musiche dell’amato Hasse e Gaetano Latilla. Sempre nello stesso anno abbiamo “Asilo d’Amore”, testo di Metastasio e musiche di Corselli. Uno dei più importanti successivamente fu “l’Attilio Regolo” messo in scena per la prima volta alla corte borbonica di Napoli e poi a Madrid. Nel 1749 posso citare altre tre opere, ossia: “Armida placata”, “La danza”, “Il nido degli amori”. Vi e poi il “Demetrio” portato in scena a Madrid nel 1751 con il supporto compositivo dello Jomelli. Metastasio ebbe un grande successo alla corte spagnola, e soprattutto l’ammirazione della regina Barbara di Braganza, stimata allo stesso tempo dal poeta per la sua forte capacità critica. Ancora in onore dell’onomastico di Filippo VI, va in scena “Festa cinese” nel 1752. Per il compleanno invece, rivista da Metastasio, “Didone abbandonata”, con la musica di Baldassarre Galuppi, veniva messa in scena al teatro del Buen Retiro, il 23 Settembre 1752. Seguono ancora “Semiramide riconosciuta”, “l’Isola disabilitata” e “Siroe” tra il 1753 e il 1754, e il “Nitteti”, “l’Eroe cinese” e il “Temistocle” tra il 1755 e il 1757. Il 1757 è, infatti, l’anno dell’inizio della guerra dei sette anni in Europa, del riavvicinamento degli Asburgo ai Borbone di Francia e in Europa in funzione antiprussiana. Attraverso Madrid, con l’aiuto e la regia artistico-musicale di Carlo Broschi, Metastasio fa dei suoi drammi, una rappresentazione delle vicissitudini politiche e diplomatiche del proprio tempo. Anche per Farinelli questo modo di fare, conferirà senso e significato politico generale alla propria vita. Entrambi sono, in quel finire degli anni Cinquanta, non solo indipendenti ed autonomi arbitri del proprio destino, ma in grado di dettare le condizioni di un gioco in cui l’espressione artistica, la cura di essa cara al Poeta Cesareo e al suo caro “Carlucciello” divenga forma e sostanza di un progetto politico collettivo e 56 generale. La collaborazione tra i due si avvia verso la fine sempre in questo stesso anno (1757) con “Il Re Pastore” e “Adriano in Siria”. Con l’avvento poi del nuovo sovrano spagnolo Carlo III si determina definitivamente l’allontanamento di Farinelli dalla corte di Madrid. Un allontanamento condizionato dall’accettazione imposta al figlio di Elisabetta Farnese di non unire mai sotto un unico potere le corone di Napoli e della penisola iberica. Cosi l’esperienza madrilena in stretta collaborazione fraterna con il Metastasio si conclude. Fu proprio quindi la separazione delle prospettive politiche di Spagna e di Napoli, a determinare la fine della prospera collaborazione tra il cantante ed il poeta. Forse Il periodo più bello nella vita di Farinelli, il periodo in cui poté respirare un aria più familiare, più fraterna. Lo dimostrano le 166 lettere di Metastasio inviate al sopranista, le cui lettere sono quasi tutte perdute: “io soglio condannare al fuoco tutte quelle lettere alle quali ho risposto, quando non richiudono affari pendenti” (Cappelletto, 1995, p. 80). Oltre Metastasio, non ci fu nessun’altra persona, che fosse un maestro, un compositore, un mecenate, un cantante, un musicista, che strinse un cosi stretto rapporto con il sopranista. Mi ha molto affascinata questo rapporto cosi simbiotico nonostante la distanza che li separava. Ho riflettuto molto sul perché Farinelli chiamasse Metastasio il suo “gemello caro” e non lo chiamasse invece “fratello”. Credo che non sia solo per l’esigenza di rendere meglio l’idea di una cosi grande somiglianza nell’arte, nel gusto o nello stile con il poeta. Credo che usasse questo modo di chiamarlo per distinguerlo proprio forse dal vero suo fratello: Riccardo. O meglio credo che usasse il termine “gemello” perché è diverso da “fratello”, un termine che forse gli ricordava la sua triste infanzia, un termine di cui non ne conosceva il significato emozionale, ed emotivo. Metastasio da parte sua lo ricambiava: “quello che farò per voi non lo farò per nessuno de’ viventi…” (Cappelletto, 1995, p. 107). Dotato di uno straordinario talento per la composizione e di un senso per la poetica, non trovò nessuna difficoltà nello scrivere le sue opere. I suoi libretti non sempre erano capolavori letterari, ma appena messi in musica diventavano vere e proprie opere eccellenti, tant'è che i migliori cantanti facevano a gara per poterli 57 interpretare. Ma il poeta sottostò solo al suo arci amabilissimo gemello, solo lui poteva ben rendere le sue opere. Ciò lo dimostra l’esperienza artistica che ebbe Metastasio col sopranista Caffarelli, i cui capricci non avevano nulla a che fare con l’umiltà e la serietà di Farinelli, al quale forse influenzato dalla profonda amicizia, Metastasio confermava il suo primato (Cappelletto, 1993, pp. 204-205). Per Metastasio infatti era il canto di Farinelli a svelare la vera indole delle parole. Le arie di Metastasio infatti non nacquero per essere dette in un teatro di prosa, o in un intermezzo comico, ma per l’opera in musica, alle quali dovevano rivelarsi funzionali, senza mai dimenticare l’indispensabile veicolo e vincolo rappresentato dall’interprete, dai suoi limiti, qualità e pretese. Tutto questo non poteva esser applicato meglio del Farinelli per le opere del poeta. Nel cercare di ricostruire il periodo brillante della collaborazione tra i due artisti, ho voluto citare le opere più conosciute portate in scena sia a Madrid sia a Napoli, tutte le altre non sono state citate da me semplicemente per l’impossibilità di farlo visto l’enorme numero di esse. Mi è sembrato giusto e doveroso ritagliare un piccolo spazio esclusivo per questo periodo particolare di Farinelli, in quanto la messa in pratica dell’idea riformatrice di Metastasio che mirava a ridare dignità al testo, attribuendo ai versi un’autonomia poetica ed espressiva funzionale alla partitura musicale e non secondaria a questa, e la sua volontà arcadica di creare opere di maggior respiro, che trattassero argomenti seri e fossero dotate di un intreccio complesso. “Metastasio fu di un temperamento idillico. Pertanto, il mondo tranquillo e decoroso e galante dell’Arcadia e le facili e superficiali commozioni sentimentali della vita mondana del Settecento trovarono in lui l'espressione più felice e genuina” (Cfr., Reinhard, 1991, p. 197). Fu perciò il poeta più rappresentativo e più fortunato del Settecento italiano. Le sue canzonette “A Nice” e “La partenza”, sono tra le cose migliori della lirica arcadica. Ma la gloria piuttosto che dalla lirica gli venne dal melodramma, che egli portò a vera opera d'arte, indipendentemente dalla musica; alcuni suoi melodrammi, infatti, furono spesso recitati come tragedie. Metastasio aspirò alla semplicità e alla potenza drammatica della tragedia greca, di cui considerava il melodramma come legittimo erede, ma si accostò di più, per la qualità del suo temperamento, alla tragedia francese, nella 58 fusione dell’eroico col galante e nella grazia e nel decoro del dialogo. E sebbene altamente drammatiche nella sua opera siano le situazioni, costruite con grande abilità, tuttavia il dramma non scaturisce dall’anima dei personaggi, nei quali i sentimenti si ammorbidiscono nel patetico, quando non assumono toni oratori e si risolvono in musica; questo suo modo di fare musica raggiunse l’apice nel periodo di collaborazione col sopranista, visto che tali volontà del poeta erano già state messe in pratica un tempo prima, ma non con la stessa intensità che non dimenticherà mai. Ciò è dimostrato dalla volontà del poeta di scrivere le sue ultime righe prima di morire nell’aprile 1782 all’amico a Bologna, che, chissà se sia solo un caso, lo raggiunse lo stesso anno cinque mesi dopo. 2.3 Una leggenda per i musici successivi Farinelli fu una figura molto importante nella vita degli artisti di quel periodo. Soprattutto per i compositori. Fu soprattutto un rivale per i musici suoi contemporanei, e un esempio per quelli che lo hanno succeduto. Tra i musici suoi contemporanei spiccano ad esempio le personalità del Bernacchi, di Senesino, Caffarelli (Gaetano Majorano), il Manfredini, Guadagni e Pacchierotti. Nonostante la sorte comune, le loro voci e soprattutto i loro caratteri, erano totalmente diversi. Nel caso di Caffarelli ad esempio si sa che fu molto capriccioso nei confronti dei suoi compositori, famoso per i suoi scatti di ira dentro e fuori del palcoscenico, e per le sue storie amorose con molte nobil’donne del tempo. Lo scrive anche il Metastasio in una delle sue lettere destinate al Farinelli, lamentandosi delle sue assurdità e della sua “fragilitas”. A quel tempo Metastasio scriveva al Farinelli: “…trovano la sua voce molta ma falsa, stridula e disubbidiente, a segno che non sforzandola non attacca, e sforzandola riesce per lo più aspra…ha cattivo gusto ed antico…ne recitativi pare una monaca vecchia, in tutto quello ch’egli canta regna sempre un tono lagrimevole di lamentazioni da far venire l’accidia all’allegria” (Cappelletto, 1995, p. 109). E’ chiaro che non tutti la pensavano allo stesso modo del poeta, ma è anche vero che mai nessuno si azzardò mai a criticare Farinelli se non sul suo 59 aspetto buffo. La voce di Farinelli era inimitabile, amatissima e richiestissima da numerosi compositori e direttori artistici. Per non parlare poi del Bernacchi, celebre cantante castrato contralto, nato a Bologna verso il 1700, godette di grande reputazione come interprete e professore di canto. Ebbe la fortuna di incontrarsi con Farinelli, al quale diede lezioni di canto, in quanto per la grande umiltà di quest’ultimo, il Bernacchi risultò più bravo e più capace nel canto. Espertissimo nei gorgheggi, fu l’unico che accaparrò Farinelli. C’è da dire però che all’epoca del loro incontro il Bernacchi aveva già in buona parte fatto esperienza teatrale, mentre Farinelli ancora acerbo sarebbe stato destinato dopo qualche anno alla sua bravura incommensurabile. Altro castrato famoso fu Senesino, che durante la sua carriera lavorò molto con Haendel, con il quale aveva un rapporto abbastanza burrascoso. Cantò diciassette arie di Haendel, ma ben presto ritorno in Italia dove era visto alquanto antiquato nel modo di cantare. Dalla personalità molto bizzarra anche lui, al momento del suo ritiro volle prendere con se un servitore nero, una scimmietta, ed un pappagallo, e i suoi ultimi anni della sua vita furono tormentati dalle numerose dispute con i parenti, in particolar modo con un nipote. Infine il Manfredini che, come il Farinelli, ebbe l’onore di incontrare Mozart (ma a differenza di Farinelli, si recò il cantante dal giovane compositore austriaco), ed il Pacchierotti, valutato positivamente dall’opinione pubblica settecentesca, e celebre per la sua rivalità con il Caffarelli. Le storie di questi castrati che ho voluto citare sono molto differenti da quella del Carlo Broschi, anche per quanto riguarda la situazione familiare, e il perché della scelta dell’evirazione. Ora non voglio dilungarmi sul dire che lavoro facessero i loro padri, ma mi basta dire che la maggior parte di loro cantava in chiesa e che provenivano da famiglie povere, quindi per la maggior parte di essi (come vuole la “tradizione”), la decisione di sottoporsi all’intervento non fu voluto da loro bensì da terzi. Solo nel caso del Caffarelli, tale decisione fu voluta espressamente da lui, in quanto appassionato di musica. Ma chissà se possiamo denominarlo “pazzo” o “fanatico” per questa sua volontà. Nonostante infatti l’attività di agricoltore del padre e quindi la miseria della sua casa, non gli fu mai chiesta una 60 cosa del genere, o meglio non gli fu mai imposta da nessuna. Anzi fu il Caffarelli a dover convincere il padre. Storie diverse quindi, ma a tutte rimane comune un velo di mistero. Non si sa se questi erano felici o infelici, se amavano il proprio canto oppure no, se avrebbero mai voluto ritornare indietro e ribellarsi, oppure nel caso di Caffarelli se si fosse mai pentito. Di certo i loro capricci non erano solo il sintomo del “divismo” che sentivano sulla propria persona, ma anche una valvola di sfogo, per poter in qualche modo sopperire alla loro sofferenza, ed infliggerne un po’ anche agli altri, ossia ai compositori, continuamente costretti a dover cambiare gli spartiti ed assecondare le loro necessità ed esigenze se non ordini e ricatti. Su Farinelli sappiamo di per certo che capricci non ne faceva, anzi al contrario dava ascolto ai suoi maestri e ai compositori che lo scritturavano. Ed anche la sua decisione di lasciare le scene nel pieno del suo successo per recarsi dal ipocondriaco Filippo V in Spagna, fa capire che non gli importava di porsi sul piedistallo come un divo. Le sue frustrazioni rimanevano dentro di lui probabilmente, e chissà se queste non avrebbero mai voluto uscire fuori e scoppiare. Se lui non avesse voluto urlarle e sbatterle in faccia al mondo, come appunto urlava il suo stomaco suo persecutore da sempre, nel quale forse le reprimeva con la conseguenza che tutto quel male gli si riversava sull’intero corpo. Tra gli evirati che non poterono esser rivali di Farinelli, ma solamente porlo come esempio da seguire (a mio parere non solo per il canto ma anche per personalità), abbiamo Giovan Battista Velluti, Alessandro Moreschi. Questi due, “nacquero” quando il Farinelli aveva lasciato definitivamente le scene. Non ci risultano molto chiare le loro vicissitudini familiari e personali, ma sta il fatto, che nonostante siano trascorsi parecchi anni dai primi grandi castrati, l’atteggiamento divistico e capriccioso di questi rimane ancora molto alla moda. Per quanto riguarda il Velluti, rimangono poco chiare le circostanze della sua evirazione, forse conseguenza di un errore medico, anche perché pare che i genitori lo avessero destinato, in un primo tempo, alla carriera militare. Divenne noto, oltre che per le sue eccezionali doti artistiche, per i suoi atteggiamenti difficili e “divistici”, anche di fronte a personaggi di rango venuti per ascoltarlo, 61 come l'imperatore Napoleone, o a compositori come Gioachino Rossini. Nonostante la sua condizione, Velluti ebbe numerose avventure erotiche, e la sua relazione con una giovane nobildonna milanese, nel 1809, suscitò un certo scandalo. Di lui si racconta che decise di ritirarsi definitivamente dalle scene, perché durante le sue esibizioni capitavano episodi frequenti di insulti e offese sulla sua persona. Infine Alessandro Moreschi diventato poi in seguito Domenico Mustafà. Fu l’ultimo grande castrato della storia, che ebbe i suoi natali artistici quando l’era dei castrati era ormai in declino. Di lui infatti si conservano delle registrazioni, unica testimonianza di quelle voci. Domenico Mustafà “L'angelo di Roma”, alludendo con questo appellativo sia alla sua voce soave che al suo verosimile status di purezza sessuale. Tra l’altro adottò un figlio che divenne poi successivamente tenore e attore cinematografico. Alcuni critici moderni non hanno molto apprezzato lo stile del cantante. E’ chiaro che tali opinioni sono state date dopo aver ascoltato le registrazioni, ma si deve anche pur dire che al tempo delle incisioni il cantante fosse ormai in una fase di declino causata dall’età non più giovane. Una cosa molto importante da tenere in conto e che le differenze tra i vari castrati della storia, non erano differenze solo riferite ai loro comportamenti o al loro stile, ma sappiamo che i castrati si distinguevano in sopranisti e contralti, e ciò dipendeva dall’età in cui fu praticata loro la castrazione. Prima avveniva infatti e prima aumentava la possibilità di ottenere un buon sopranista. Se si aspettava un po’ di più, maggiori erano le probabilità che la voce si avvicinasse più alla sfera contraltista. Poi si deve anche dire che una volta determinata la voce, essa non rimaneva costante (come appunto dimostrò Farinelli alcuni anni dopo l’incontro col Bernacchi): ci fu infatti chi iniziò con tonalità gravi contraltistiche, per giungere man mano ai livelli sopranili e viceversa; chi non poteva più affrontare le difficoltà teatrali, e si dedicava dunque all’insegnamento oppure alle più semplici partiture di sfera ecclesiastiche. Furono molti i casi di evirati che non fecero carriera, relegandosi all’insegnamento ed anche alla prostituzione in alcuni casi. La voce dei castrati tra l’altro era molto diverse da quella della donna, ed è ovvio come ancora oggi quando si cerca di mettere in scena opere scritte appositamente 62 per i castrati, le donne non arrivino a quei livelli cosi assurdi, sia per acutezza della voce, sia per sublimità, non si è mai più parlato oggi in epoca moderna dei deliri di massa, o degli orgasmi artistici. Voglio accennare il fatto che oggi esistono sopranisti, come pure esistevano anche allora ma si preferirono i sopranisti castrati e non quelli naturali. Proprio perché anche la voce dei sopranisti naturali è anch’essa molto diversa da quella che fu la voce degli evirati settecenteschi. Ancora oggi se si decidesse di utilizzare un sopranista naturale per cantare un “Orfeo” non si raggiungerebbe lo stesso risultato. Sono voci che appartengono al passato oramai e che non ritorneranno mai più per nostra fortuna, nonostante sicuramente ancora oggi sia presente da qualche parte un qualche “folle” che vorrebbe che tali voci resuscitassero. E c’è da dire che oggi sono presenti molti musicologi, o esperti di canto e di musica, che stentano a credere che tali timbri siano state figlie della naturalezza, provenienti esclusivamente dalla bravura del ragazzetto che aveva avuto il dono di possederla. Ed io non posso non dare loro ragione. In realtà tale dono non lo si può chiamare tale. Il dono e un qualcosa che ci è stato regalato dalla natura, dalla fortuna, da qualcuno che ce lo ha trasmesso o anche da Dio se vogliamo. Tali timbri invece non sono stati altro che una forzatura da parte dell’uomo, la cui tendenza è sempre stata quella di imitare il creatore, o di superarlo addirittura, senza pietà e senza limiti. Ma non ci riuscirà mai, in quanto soltanto la natura o Dio (se esso esiste), possono riuscirci senza infliggere sofferenza. La mia intenzione infatti sino ad ora è stata quella di raccontare la vita di Farinelli e descrivere la sua voce meravigliosa, perché obiettivamente essa lo era ma sempre ribadendo che quella era una bellezza che conviveva con l’orrido, figlia di un delitto che alienava il castrato non più uomo ma macchina per cantare. 2.4 Il famosissimo incontro con Mozart Ritiratosi a Bologna dopo l’esperienza madrilena vissuta assieme all’amico Metastasio, Farinelli trascorse gli ultimi anni della sua vita, nella sontuosa villa che si era fatto costruire, circondato dai suoi meravigliosi quadri, e da oggetti di valore tra cui le numerose tabacchiere finemente decorate, regalategli dalle tante 63 personalità importanti che incontro nel corso della sua vita e che lo ascoltarono cantare. Il periodo bolognese parte dal 1761 fino all’anno della sua morte nel 1782. Durante questo periodo il cantante ricevette numerose visite, tra cui quella del compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart, allora ragazzetto prodigio. Un incontro molto significativo, in quanto dal colloquio che ebbero quel giorno, si riescono a capire molte cose sull’ammirazione del piccolo compositore che ascoltava con attenzione i consigli del grande maestro, ma soprattutto traspare quanto Farinelli abbia lasciato un segno nel cuore delle importanti personalità che sarebbero successivamente appartenute al suo stesso mondo, quello della musica, e che avrebbero anche esse lasciato un contributo fondamentale. L’incontro inizia con la figura di Farinelli seduto sulla poltrona con di fronte le numerose tabacchiere le cui pietre brillavano ad intermittenza, ed un solo candelabro acceso. Mozart rimase colpito da questa primo approccio, soprattutto quando il cantante si alzò per accoglierli, ormai stanco, incurvato ed un po’ pallido, ma sempre molto grande e bello. Farinelli nella prima parte di quell’incontro accompagna il piccolo Mozart nelle varie stanze del palazzo, volendogli mostrare tutti i doni che gli vennero fatti durante i suoi innumerevoli tour. Farinelli aveva già sentito parlare del ragazzetto prodigio, cosi iniziò con lui subito una lunga conversazione sulla musica e sull’opera che il compositore aveva intenzione di intraprendere. Mozart spiegò subito al celebre sopranista quali fossero le sue intenzioni, e soprattutto come sarebbe iniziata la sua opera: “ho il soggetto, i personaggi, la scena. Siamo in Creta. Il re di quel paese ritornando dalla guerra di Troia, è naufragato davanti all’isola. Suo figlio Idamante, convinto che suo padre sia morto sfoga il proprio dolore.” Farinelli: “mi sembra di capire che Idamante sarà il nome dell’eroe, il dessus quindi. La vostra opera ragazzo sarà un fiasco completo! Fate alzare il sipario sul primo attore, lo fate cantare mentre la gente arriva, si siede, fa baccano. Nessuno di noi sarà il vostro uomo.” (Fernandez, 2008, p. 137). Ho voluto riportare qui, un pezzo del dialogo avvenuto tra i due artisti, a mio parere la parte più significativa, in cui si può cogliere la durezza di Farinelli nell’essere molto franco nei confronti del ragazzino dilettante. In quel momento infatti Farinelli si rese subito conto di quanto il piccolo compositore (nonostante bravo), avesse ancora molto da imparare e da 64 sperimentare, non solo a livello di studio, ma di esperienza, e soprattutto di come fosse ancora completamente inconsapevole ed ignaro di quel mondo con il quale aveva deciso di lavorare: il mondo dei castrati. Mozart a quel tempo, non sapeva ancora del “divismo” di cui i sopranisti soffrivano, dei loro capricci e della subordinazione a cui erano costretti i compositori per poterli accontentare e non rischiare di non mettere in scena le loro opere. Tra l’altro Mozart non poté avere la fortuna di cantare con un Farinelli al quale i capricci erano estranei. Cosi subito il cantante gli consiglio di cambiare la scena iniziale, e di ritardarla di qualche tempo, il tempo necessario affinché tutto il teatro sarebbe stato in silenzio, cosicché nessun castrato avrebbe rifiutato quel ruolo. Il sopranista continuo a dare consigli al futuro celebre compositore, consigli riguardanti la scelta dei personaggi, il numero dei protagonisti, fino al punto di aprire un discorso sull’opera italiana, la cui decadenza fu causata in primis dai capricci e dalle vanità degli evirati che si ostinavano a cambiare le scene, e dal pubblico che non avrebbe mai apprezzato un’opera che non fosse già stata portata in scena trenta-quaranta volte. Farinelli capi subito che Mozart aveva buoni sentimenti nei confronti della musica, dei sentimenti che per Farinelli rendevano più infelici che felici e che sarebbe stato meglio non averli. Le aspirazioni musicali di Mozart per Farinelli, erano sante quanto disgraziate. Egli ne aveva l’esperienza, aveva passato anni a contatto con il pubblico, con gli scenografi e con gli altri cantanti. La sua schiettezza nei confronti del compositore non era cattiveria o un modo per deviare i desideri del futuro artista, ma un comportamento di stima quasi paterna che metteva in guardia il pianista, che di parte sua capi immediatamente queste sincere intenzioni, ascoltandolo a lungo ed in silenzio, facendo tesoro di tutti i consigli. Mozart ebbe la certezza di ciò quando, dimostrando tutta la sua ammirazione per il cantante, quest’ ultimo rispose che era sprecata e mal riposta. Farinelli non era come tutti gli altri suoi contemporanei ed emuli, a lui era stata rubata l’arte, spesa per interi anni (quasi un quarto di secoli), cantando le stesse quattro arie tutte le sere per curare la malattia psico-fisica di due Re. Forse fu una scelta voluta, consapevole, per lui era la stessa cosa cantare facendo da terapia, e cantare per un pubblico mediocre, se non meglio. Quel pubblico che li derideva, 65 quel pubblico sovrano di ogni cosa: dei loro scarpini, dei loro trucchi, delle loro parrucche, dei loro comportamenti capricciosi e divertenti. “Ecco perché abbiamo avuto la meglio sui giovani musicisti che, entusiasti e animati da una fede come la vostra, hanno tentato di scrivere per noi una musica che scaturisse dal cuore” (Fernandez, 2008, p. 140). Mozart tentò invano di trascinare il cantante a parlare di qualche episodio della sua vita. Dimostrandogli che forse aveva denigrato troppo la categoria dei castrati, ma il compositore era troppo piccolo per capire, troppo puro. L’incontro si conclude con le lacrime di Mozart che seppe trattenersi, dal dolore che provò guardando quella celebre figura alla quale restavano solo le sue tabacchiere, simbolo di gloria e derisione di una vita sacrificata alla musa più bella, afflitto dai ricordi e da un pensiero pessimista. Ormai vecchio e senza nessun interesse nel parlare in modo cosi severo e cosi veritiero. Capitolo 3 LA “VOCE REGINA”: I MODERNI 3.1 Il film di Gerard Corbiau “Farinelli voce Regina” è il titolo di un film del 1995 del regista belga Gèrard Corbiau, di produzione italo-francese, sulla vita del celebre cantante castrato del XVIII secolo Carlo Broschi, in arte Farinelli. Il film è stato premiato come miglior film straniero ai Golden Globe e ha ricevuto una nomination all’Oscar. L’attore Stefano Dionisi, che interpreta il protagonista, recita le battute di dialogo, mentre nelle parti cantate, per riprodurre la particolarissima voce di un castrato, sono state registrate separatamente le voci di un soprano donna, Ewa MałasGodlewska, e di un controtenore uomo, Derek Lee Ragin, e poi mixate insieme con mezzi digitali. Pur presentandosi come una biografia del celebre castrato, all’interno del film sono presenti parecchie inesattezze. Il film si apre con la presenza del cantante in Spagna, per poi proseguire con un lunghissimo flashback che si protrarrà fino a quasi la fine del film. A Napoli, nei primi anni del ‘700, con il padre vivono 66 Riccardo e Carlo Broschi: il primo ha dieci anni più del fratello e scrive canzoni sacre e pezzi d’occasione, ma non certo con il talento di molti musicisti operanti in quella coltissima città, mentre il fratellino, che fa parte di una cantoria in Chiesa, possiede per natura una voce d’angelo. Un giorno non riesce a farsi uscire dalla gola un solo suono davanti al grande Nicola Antonio Porpora (che ha accettato di sentirlo, perché colpito dal suicidio di un amico cantore, terrorizzato dalla castrazione, di cui si abusava quando le donne non potevano in Chiesa ricoprire ruoli vocali femminili). Riccardo Broschi, però ambizioso com’è (ha cominciato a comporre "l'Orfeo"), profittando di una malattia di Carlo, ridotto in stato di incoscienza, gli somministra dell’oppio, lo immerge in una tinozza di latte e lo castra. La sua voce gli preme troppo: essa deve restare per sempre purissima e con Carlo, ribattezzato Farinelli, i due condividono onori e gloria per anni e anni. Cominciano così i concerti gremiti ed i fastosi spettacoli teatrali a Napoli, a Vienna, a Londra e, con la protezione del Re, in Spagna. A Londra pontifica Georg Friedrich Haendel, che detesta Farinelli, diventato ormai il più splendente degli astri. Le donne cadono in delirio per il cantante napoletano, ma il castrato trionfante sulla scena, ai vertici della celebrità non è felice: egli sa di non essere un uomo completo e la malinconia lo incupisce. Una bella vedova inglese, Margareth Hunter, non accetta la richiesta di sposarlo e Carlo ripiega sulla nipote Alexandra Keene, innamorata di lui. Intanto ferve a Londra la lotta tra il pubblico del Covent Garden, regno di Haendel, e quello del Teatro della Nobiltà, dove Porpora ha moltissimi ammiratori. Tre anni dopo Riccardo ha ultimato il suo faticosissimo “Orfeo”; lo offre al fratello, che lo rifiuta. Ormai a Madrid egli canta solo per Re Filippo V che, malato, crede di trovare in Farinelli la sola medicina efficace a calmarlo. Riccardo si taglia le vene durante un’eclissi solare ed ecco che il cantante gli è fraternamente vicino: i due non possono separarsi. Poi come è accaduto in passato con tante altre donne, Carlo, innamoratosi di Alexandra lascia al fratello di completare e rendere fertile la propria vana passione. Un bambino deve nascere, mentre Riccardo fugge a cavallo da Madrid dopo aver distrutto lo spartito de “l’Orfeo”. 67 Già da questo breve riassunto si capisce di quanto sia poco coerente il film con la vera storia del grande cantante, e di quanto sia impossibile rimanerne passivi e non criticare. Ma ho riservato a dopo lo spazio per la critica, piuttosto ora voglio cercare di capire quali fossero le vere intenzioni del regista belga e coglierne i lati positivi. Guardando il film mi sono accorta che le inesattezze riguardano la vita di Farinelli e non altro. Nel senso che, conoscendo la storia del cantante e paragonandola con quella del film, possiamo appieno affermare che non si tratta di esso. Ma se guardiamo oltre la vera vita del cantante, possiamo dire che quelle inesattezze cinematografiche non siano poi cosi inesatte, se dall’altra parte consideriamo anche tutte le fantasie del pubblico settecentesco che circondavano i castrati e che il regista belga ha rappresentato nel suo film. Ha commesso però l’errore di andare troppo oltre, fino alla trasgressione di spacciarle per vere. Credo fermamente infatti, che il regista abbia voluto non raccontare la vita di Farinelli, bensì raccontare appunto le fantasie sui castrati, e abbia voluto prendere come figura protagonista il Farinelli semplicemente perchè è stato il più straordinario, ma la sua straordinarietà non è affatto rappresentata, ma solo nominata. Forse il regista a mio parere ha cercato di fondere ambedue le cose: ricordare la figura di Farinelli (nominandolo soltanto, dato che c’è ben poco di lui nel film), e ricordare anche tutti gli altri castrati, non nominandoli come Corbiau ha fatto con Farinelli, ma rappresentando e mettendo in scena tutte quelle perversioni, fantasie e anche il successo che circondava i musici in quel periodo. Continuando ad analizzare il film ho notato comunque una certa bravura del regista belga nell’essere molto attento nella costruzione delle scenografie, dei costumi, dei trucchi. Non solo attento ma anche preparato e competente nel riprodurre quel periodo. Per quanto riguarda quindi l’estetica del film, non ho notato nessuna stonatura, il tutto e stato ben curato nei minimi dettagli. Una particolare attenzione e stima anche nei confronti delle parti scritte, o meglio al modo in cui sono state scritte. Mi hanno molto colpito infatti quei dialoghi in particolar modo quelli tra Haendel e Farinelli, nei quali si notava quella punta di volgarità corretta (se cosi la si può definire per rendere meglio il concetto), o 68 meglio una volgarità non volgare. Riporto qui due battute di Haendel nel film interpretato da Jeroen Krabbe: “Senza musica, voi non esistete più. Non siete che un animale senza coglioni, né uomo né donna. La vostra voce è la sola giustificazione della vostra esistenza. Quello che avete qui (indica la sua gola) è un organo del quale la natura vi permette di godere... per farvi dimenticare il ridicolo dell'altro. La voce di un castrato è la manifestazione di una natura derisa, distolta dal suo scopo per truffa!”. Non soffermandomi troppo sulla scelta del termine “coglioni” in quanto a mio parere per come era il contesto della scena non si poteva usare altra parola più adatta, non ho trovato niente di volgare nei vari dialoghi e monologhi degli attori. Ciò che ho trovato completamente inadatto e volgare è stata la scelta di dare tale battuta ad Haendel, il quale ho già raccontato di quanto stimasse i castrati per i quali scrisse molte delle sue opere, piuttosto che darla ad un qualsiasi nobile o personaggio del popolo. Il concetto al quale voglio arrivare quindi è la mia ipotesi iniziale sulle intenzioni del regista: cioè che abbia voluto rappresentare le fantasie e anche le offese e i pensieri del pubblico di quel periodo nei confronti dei castrati, immaginari collettivi che furono costruiti a loro tempo anche sul rapporto tra Farinelli ed Haendel, pensati come due rivali, ma in realtà come ho già spiegato i due illustri appartenevano solo a due teatri diversi, e per questo si preclusero la possibilità di lavorare insieme, ma ciò non fu per inimicizia. Ciò infatti poi è confermato in un’altra battuta di Farinelli rivolgendosi ad un nobile che rideva dell’insuccesso del teatro di Haendel: “Voi siete un asino, signore! Non meritate di possedere delle orecchie! Quando i posteri avranno perduto da anni il ricordo della vostra misera esistenza, pronunceranno il nome di Haendel con un infinito rispetto!”. Altra battuta del Farinelli (Stefano Dionisi) che voglio qui riportare è quella durante una discussione col fratello Riccardo (Enrico Lo Verso): “Tu rimpiazzi l'ispirazione con il virtuosismo! Tutti questi ornamenti, queste fioriture che moltiplichi, queste complessità che gravano sulle partiture! Dimentica la mia voce! È tempo di pensare alla musica! Devi toccare cuori, trovare l’emozione giusta, essenziale. Vorrei che la tua musica facesse fremere quella parte di infinito che dorme dentro la gente. È questo che ti chiedo, Riccardo”. Anche qui è 69 completamente infondata la confidenza tra i due fratelli nell’avere dialoghi cosi accesi nella storia. Non abbiamo nessuna notizia di come fosse veramente il loro rapporto. Però appunto l’inesattezza anche qui sta solo riferendosi alla vita di Farinelli e al suo rapporto in questo caso col fratello, ma per quanto riguarda la musica barocca e soprattutto le musiche create per i castrati, le fioriture, le complessità degli spartiti e il virtuosismo che si andava a sostituire all’ispirazione come accennato nella battuta, erano elementi che effettivamente caratterizzavano i melodrammi del barocco. In ultima analisi sui dialoghi voglio riprendere altre due battute. La prima dell’amico suicida del piccolo Carlo quando non era ancora castrato che cantava nella cantoria della chiesa: “Non cantare più, Carlo! Non cantare più! Non lasciarti fare questo! C’è la morte nella tua gola!”. La seconda del Carlo oramai castrato anche esso: “A forza di incarnare gli dei, sono arrivato a credere di poter essere un uomo.” Appieno queste due battute rappresentano la disperazione, la tristezza, la desolazione e la delusione della vita, causati dalla pratica della castrazione. Voglio ricordare in effetti di quanti casi di ragazzini suicidi sono pervenuti sino ai nostri giorni, e soprattutto di come Farinelli e tutti gli altri (quasi tutti) non si siano mai sentiti uomini a tutti gli effetti, e sfociavano appunto in quel divismo frivolo, capriccioso e permaloso che apparteneva solo ad essi, “visti come appunto degli Dei, cosi da darsi una specificità non essendo ne uomini e ne donne” (Celletti, 1986, p. 356) . Non a caso il genere che Gerard Corbiau dà al suo film è: drammatico-biografico. Poiché appunto probabilmente ha voluto rappresentare sulla scia di questo velo biografico sottilissimo sulla vita di Farinelli, la drammaticità della vita di tutti i castrati, vittime del loro lusso (unica e sola cosa che forse li amava davvero) e delle fantasie pregiudiziose della gente e del pubblico che non rendeva omaggio a loro ma a se stessi, alle loro curiosità, e divertimenti. Per quanto riguarda ancora il film, è stato davvero un piacere per le mie orecchie ascoltare le arie d’opera scelte per le scene di debutto dal regista. Possiamo infatti notare: Qual guerriero in campo armato (da Idaspe di Riccardo Broschi), “Ombra fedele anch’io” (da Idaspe di Riccardo Broschi), “Son qual nave” (da Artaserse di Hasse), “Se al labbro mio non credi” di Riccardo Broschi, “De torrente” (da Dixit 70 Dominus di Georg Friedrich Händel), “Cara sposa” (da Rinaldo di Georg Friedrich Händel), “Venti turbini” (da Rinaldo di Georg Friedrich Händel), “Lascia ch'io pianga” (da Rinaldo di Georg Friedrich Händel), “Overture” da Artaserse (di Johann-Adolf Hesse), “Generoso risvegliati oh core” (da Cleofide di Johann-Adolf Hasse), “Salve regina” di Giovanni Battista Pergolesi, “Alto Giove” (da Polifemo di Nicola Porpora). Credo che non si poteva fare scelta migliore, in quanto sono le opere più famose di quel periodo che ancora oggi sono portate in scena dalle cantanti soprano e sopranisti moderni per rilanciare il repertorio barocco dei castrati. Non ho gradito però la scelta di mixare le voci di un soprano e di un controtenore, semplicemente per il fatto che non ne vedo il motivo, ma approfondirò meglio tale questione più avanti. La mia scelta infatti, è stata quella di cogliere tra tante inesattezze la ragione di queste ultime. Ma non voglio screditare completamente il regista, che rimane pur sempre bravo e piacevole, ed anche preparato, nonostante le “falsità” che ha rappresentato, quelle falsità che comunque lasciano intravedere un’intenzione ed anche una passionalità per il tema e soprattutto una sensibilità. Ho voluto infatti, in questa prima parte del capitolo cogliere il lato positivo nel negativo. 3.1.1 La critica al film Fino ad ora ho voluto affermare il fatto che le inesattezze presenti nel film si riferissero esclusivamente alla biografia del grande castrato, e che nonostante tali tratti, al regista rimane comunque il merito di aver fornito una descrizione inedita dell’epoca barocca. Ad ogni modo, mettendo da parte questa mia abituale predisposizione nel cogliere i lati positivi, non posso rimanere muta di fronte alle scelte del regista di rappresentare comunque parecchie falsità biografiche. Posso dire quindi che nonostante una sufficiente coerenza estetica (a parte la scelta degli attori principali), come ad esempio le scenografie che sono senza dubbio suntuose, “non si possono nascondere i limiti di una produzione che non ha trovato il “manico” più indicato per poter essere rappresentata a dovere” (Ferzetti, 1995). Vi è maggiormente un eccesso di fasto, di costumi, che seppur giusti contrastano 71 con quelli che sono i codici storici completamente miseri. Infatti nel film per esempio non si accenna neppure al lungo periodo di ritiro di Farinelli alla corte di spagna, e i suoi rapporti con le varie personalità della sua vita sono talmente enfatizzati da sfociare in errori grossolani, che sembra quasi che il regista fosse completamente impreparato. Di certo non abbiamo molte informazioni sulla vita dell’evirato, ma non per questo bisogna “approfittarne a tal punto da risultare completamente fantasiosi e romanzeschi” (Rondi, 1995). Magari il regista belga sarebbe stato più coerente se non avesse proprio accennato alla figura del Farinelli, limitandosi a raccontare tutte le credenze che circondavano i sopranisti settecenteschi. Come ad esempio le fantasia delle donne sulle loro altissime prestazioni sessuali, ma sempre ponendo tali fantasie come tali, e non costruirmi una scena dove un Farinelli fa sesso in modo cosi prestante con varie donne che arrivano ad avere orgasmi lunghissimi. Ciò è assurdo sia biograficamente sia scientificamente. Vi sono infatti all’interno del film varie scene in cui Farinelli possiede donne una dopo l’altra come un qualsiasi maschio non castrato, e ciò fa cadere il vero significato per cui i castrati sono diventati celebri, ossia la loro insoddisfazione ed infelicità per la vita, dovute alla negazione del loro elemento virile, in cambio del quale hanno conservato le loro voci infantili. Riguardo alla voce tra l’altro non vedo la necessità di fondere insieme computerizzandole, la voce di un soprano donna e di un controtenore moderno, visto che è del tutto assente la possibilità di ascoltare ancora una volta quelle voci, e di capire quale fosse effettivamente il loro vero timbro, soprattutto data la scarsezza di registrazioni antiche. Forse è l’immaginazione del regista, pensare che la voce di un avo castrato fosse stata uguale o almeno somigliante alla voce computerizzata all’interno del suo film? Beh, chi può dirlo? Forse ha ragione forse si sbaglia! Ma sarebbe stato meglio per me utilizzare la voce di una Cecilia Bartoli o di una Vivica Geneaux, impegnate da anni nell’era moderna a rispolverare il repertorio dei castrati, o utilizzare voci dei moderni sopranisti. Di certo non sarebbe stata la stessa cosa, ma almeno non cosi artificiale e virtuale. Per riprodurre quella tonalità impossibile da tre ottave e mezzo, Corbiau ha 72 sintetizzato al computer e rielaborato con processo inedito due canti, quello di Eva Godlewska e di Derek Lee Ragin. Stefano Dionisi ha dovuto anche allenarsi ad alterare il suono della voce parlata che sarebbe altrimenti risultato incongruo rispetto al tono acuto del cantato. La voce, ancora la voce. E’ il motivo dominante del film di Corbiau. “La voce umana e lo strumento più coinvolgente ed emozionante che esista. E la voce del castrato è pura magia, la dimostrazione ideale dell'armonia, della complementarietà e della divergenza dei sessi” (Celletti, 1986, p. 401). Forse è stato questo l’intento del regista: fondere il femminile e l’androgino insieme. Ma forse Corbiau nel 1995 non sapeva che la voce del sopranista moderno (frutto di allenamento, e per questo “artificiale”) è diversa da quella di un castrato (frutto di una deviazione fisiologica e per tanto “naturale”). Corbiau forse credeva che la sua creazione virtuale sarebbe stata la “chicca”, “la ciliegina sulla torta” del suo film che lo avrebbe portato al successo, come poi effettivamente è avvenuto. Ma a mio parere immeritato. Un successo vittima ancora oggi dopo secoli, delle credenze, delle fantasie e della poca informazione e documentazione sui castrati, strumentalizzati anche nel film, “attraverso la virtualizzazione moderna che coincide con quella che un tempo veniva chiamata divinizzazione”(Ferzetti, 1995, p. 44). Anche nel film, posti come trascendentali, quando in realtà non sono stati altro che bambinetti vittime dell’inumana cultura e del business che si venne a creare su di essi per la troppa speculazione di norcini, dei maestri, dei preti e delle famiglie. È sempre quello il bandolo della matassa! Per non parlare delle rappresentazioni dei rapporti di Farinelli con le donne, completamente inesistenti nella vita sentimentale di Farinelli, se non per collaborazione artistica. Addirittura nel film Farinelli desidera un figlio dalla donna che poi sarà la sua compagna per la vita Alexandra (Elsa Zylberstein), che viene fecondata dal fratello Riccardo nel film durante una sottospecie di orgia, dove Carlo ha il ruolo di far godere la donna e Riccardo dà il seme, scena totalmente ridicola e imbarazzante peggio di un film alla Tinto Brass. Anche il rapporto con Porpora (Omero Antonutti), al quale non viene data enfatizzazione e importanza in quanto fu fino alla fine presente nella vita del cantante, ma che nel film sembra sia solo un’ombra di passaggio. Del suo 73 rapporto con Haendel (Jeroen Krabbe), posto come nemico di Farinelli, e che in realtà lavoravano semplicemente per due teatri diversi. Haendel che dirigeva la Royal Opera House, il teatro rivale della Opera of Nobility di Porpora, in cui si esibiva Farinelli. Hendel fu nemico di Porpora e non di Farinelli. “Le diatribe musicali di Haendel e Porpora sono date spesso in modo approssimativo, le continue esibizioni in teatro di Farinelli si riducono a uno sfoggio ridondante di costumi settecenteschi e di gorgheggi da cantante sopranista, insistiti, ripetitivi, non sempre ben collegati all’evolversi della vicenda” (Rondi, 1995). Ed infine il rapporto col fratello, dove l’unica verità all’interno del film sta nella costruzione della scena della castrazione del Farinelli per mano di esso. Nel film infatti si ha l’impressione che Farinelli abbia lavorato esclusivamente con e per il fratello, quando in realtà fu un periodo molto breve, e sembra addirittura che Riccardo sia un compositore grandioso, quando invece risultava piuttosto mediocre. Vi è una continua rappresentazione di un bisogno spasmodico del fratello minore Carlo nei confronti del maggiore e viceversa, e soprattutto di una complicità vincente sia in scena che nella vita con il loro gioco continuo e diventato insopportabile e disgustoso di dividersi le donne. Lo scontro fra i due fratelli al momento della rivelazione del misfatto serve quasi soltanto ad aggiungere alcune scene madri alle tante che, costellano il racconto; con qualche momento intenso quando ci si raccoglie attorno alla disperazione di Farinelli di non essere un uomo completo. Per farne una critica completa, voglio soffermarmi anche sulla scelta degli attori, con un riferimento particolare ai due principali: Stefano Dionisi nella parte di Farinelli, ed Enrico Lo Verso in quella del fratello Riccardo. Il primo più bravo del secondo, ma non esageratamente, entrambi bambocci inespressivi in molte scene. Bravo il Dionisi nel labiale cantato che per doppiare ha dovuto prendere lezioni di canto per due mesi, molto mediocre Lo Verso nell’interpretazione di battute madri e nell’uso della pronuncia straniera. “Per quanto possano riuscire comunque ad uscirne, e possano essere potuti anche piacere, le loro bellezze e fisicità non si avvicinano minimamente a quelle originali” (Levantesi, 1995). Due scelte molto azzardate, ancora una volta per mantenere coerente la linea estetica ed esteta adottata dal regista. 74 Candidato all’Oscar per il miglior film straniero, con il David di Donatello per migliore costumista ad Olga Berlutti, due Premi César 1995 come miglior scenografia e miglior sonoro, ed anche premiato come miglior film straniero Golden Globes, “Farinelli” è un prodotto spettacolare che nelle scenografie di Gianni Quaranta, molto ben fotografate, da Walter Van den Ende, divulga in maniera sontuosa un capitolo della musica europea, merito di questo lo si deve dare anche al sonoro utilizzato, e alle musiche suonate dall’orchestra Les Talents Lyriques diretta da Christophe Rousset. Infine bisogna dire che anche la cronologia temporale non risulta cosi lineare. Con continui salti nel tempo non ordinati. Nel guardare il film avevo continuamente la sensazione che mancasse sempre la chiave che chiarisse il perché di un successivo evento; mancante sempre di molti pezzi di storia importantissimi per chiarire le scelte di vita prese dal castrato a suo tempo. Il problema è che nel mettere in scena il suo teorema sul rapporto fra arte e vita, la sceneggiatura è più pretenziosa che convincente: poco ci interessano dei furori di Haendel, impersonato da Jeroen Krabbe, e poco i rimorsi di Riccardo, che fu causa dell’evirazione del fratello. In tutto il resto quindi prevale solo l’impegno di far spettacolo con le musiche, i costumi, le scenografie e ripeto che sono completamente coerenti con l‘estetica di quel periodo, ma trascurando troppo spesso l'analisi delle psicologie, pur affidate, almeno quelle dei due fratelli, a delle problematiche precise. Un impasto anche di cose giuste quindi, ma che probabilmente per la troppa ansia della prestazione del regista Corbiau, non vengono trattate e collegate con coerenza, dove i vari codici non combaciano ad incastro. Un film dove forse il regista avrebbe potuto fare un pochino meglio, ma non più di tanto, in quanto la mia impressione nel guardarlo è stata quella di una furbizia da parte sua di dare importanza totale a quei codici immediatamente comunicativi, come appunto i trucchi, i costumi, le scenografie, la voce mixata che avrebbero nascosto le inesattezze. Un approfittazione quindi di codici forti, immediati che avrebbero sicuramente impressionato a tal punto da offuscare le bugie. Soprattutto anche per la scelta di due attori italiani troppo belli per incarnare tali figure. Un duro lavoro solo ed esclusivamente sull’estetica appunto, che diventando il perno centrale nel film, avrebbe sicuramente subordinato ad essa le verità storiche e soprattutto la 75 sensibilità nell’affrontare certi temi, una sensibilità mancata, che sarebbe dovuta essere ancora più strutturata e profonda, data la difficoltà di rappresentare una tematica cosi delicata e allo stesso tempo cosi misteriosa e pertanto bisognosa di una profondità elevata attraverso la cinematografia. 3.2 I sopranisti moderni Secoli fa con il termine sopranista si intendeva indicare la categoria dei castrati in ragione della tessitura vocale che questi uomini possedevano e che era paragonabile a quella dei soprani. Il XIX secolo ha visto la fine della barbara pratica della castrazione ed ha portato alla luce questa triste verità storica. Il termine però è ancora in uso benché oggi per sopranista si intende: il controtenore, ovvero un uomo “tenore” che canta arrivando alla tessitura vocale tipica del soprano. I moderni sopranisti si cimentano per lo più nei ruoli seicenteschi e settecenteschi scritti in origine per la voce dei cantori evirati soprani o contralti. A differenza dei cantori eunuchi, i sopranisti attuali non sono castrati; questi ultimi sono praticamente scomparsi nel Novecento con Alessandro Moreschi. Oggi uno dei nomi più illustri è quello di Philippe Jaroussky. Philippe Jaroussky (MaisonsLaffitte, 13 febbraio 1978) è un sopranista e controtenore francese. Studia violino, pianoforte e composizione al Conservatorio di Versailles e dal 1996 inizia la formazione vocale con il soprano Nicole Fallien, entrando al Dipartimento di Musica Antica del Conservatorio di Parigi l’anno successivo, e continuando gli studi con Michel Laplenie, Kenneth Weiss e Sophie Boulin. Si diploma in canto nel 2001. Dal 2003 il suo registro vocale cambia in quello di controtenore (estensione: sol2-si4) riversando il suo interesse nel repertorio operistico e oratoriale barocco. Esordisce nel 1999 al festival musicale di Royaumont e Ambronay come sopranista nell’oratorio inedito di Alessandro Scarlatti “Sedecia, re di Gerusalemme”. Nel 2007 vince il premio Artista Lirico Francese dell’anno, 76 cantando l’aria di Antonio Vivaldi “Vedrò con mio diletto” dall’opera Giustino. Importantissima nel suo repertorio la musica barocca, in particolar modo Vivaldi e Haendel. Al nome di Philippe Jaroussky, possiamo affiancarne molti altri. Ad esempio Max Emanuel Cencic, Aris Christofellis, Tomotaka Okamoto. Max Emanuel Cencic è un giovane promettente controtenore croato, istruito vocalmente al canto fin da piccolo. Esibitosi per la prima volta all’età di 6 anni. Dal 1987 al 1992 Cencic è stato uno dei Piccoli Cantori di Vienna e in seguito ha intrapreso la carriera da solista e, grazie ad una tecnica particolare, è riuscito a cantare anche come soprano. Fino al 1997 Cencic si è esibito con successo come sopranista in Giappone, America ed Europa. Nel 2001 cambia definitivamente categoria entrando a far parte così della categoria dei controtenori. In questo nuovo registro vocale si esibisce in sede teatrale e concertistica, nonché in campo discografico, dove può vantare un ricco repertorio. E’ stato impegnato nel ruolo di Ottone “nell’Incoronazione di Poppea” di Monteverdi con la direzione di William Christie. Cencic si è esibito anche in sede concertistica con importanti recital con musiche di Handel, Mozart e Rossini. Aris Christofellis (Atene, 5 febbraio 1960) è un sopranista greco. Dopo aver compiuto gli studi pianistici ad Atene e a Parigi, si concentra sulla sua voce e sullo studio dei castrati settecenteschi. Ha debuttato a Bordeaux nel 1984. Nel 1985 ha cantato “l’Exultate jubilate” di Mozart al concerto inaugurale del Cannes Midem Classique, dove la sua interpretazione è stata ritenuta entusiasmante sia dalla critica che dal pubblico. Ha cantato, inoltre, in molti festival di musica e opera barocca: “Il trionfo dell’onore” di Alessandro Scarlatti a Parigi (Théâtre du Chatelet); “L’Olimpiade” di Antonio Vivaldi a Parigi (Teatro Champs élisee); a Barcellona (Palao de la Musica) nelle olimpiadi del ‘92 e nell’”Arminio” di Georg Friedrich Haendel (Festival de Montpellier). Ha cantato in Francia, Italia, Spagna, Inghilterra, Germania, Austria, Ungheria, Israele e Marocco. Il suo repertorio varia dal barocco alla musica contemporanea, ma, in particolar modo, è specializzato nell’opera italiana barocca. Tomotaka Okamoto (Sukumo, 3 dicembre 1976) è un controtenore giapponese. Si iscrive al Conservatorio Francis Poulenc di Parigi e lo porta a termine col 77 massimo dei voti. È celebre per gli abiti buffi e vistosi che indossa durante le sue esecuzioni. Ho voluto riportare qui dei piccoli accenni biografici per far notare che gli studi compiuti da questi quattro sopranisti (che reputo i più importanti dell’epoca moderna) siano avvenuti in Francia dove all’epoca barocca fu vietato l’utilizzo dei castrati. Tra l’altro possiamo notare anche delle somiglianze con i castrati barocchi. Ad esempio il fatto che anche i moderni hanno portato le arie settecentesche cantate da loro in tutto il mondo, e di come alcuni di essi (io ho accenato solo a Tomotaka Okamoto) “riprendano l’uso degli abiti sfarzosi, seppur in modo diverso dai veri abiti barocchi, ma conservano un tipo di stile (forzato a mio parere) per differenziarsi dagli “altri” come se lo facessero di proposito” (Cfr., Benedetto, 1994, p 342). In epoca contemporanea ci troviamo spesso di fronte ad artisti molto particolari con stili appariscenti e sfarzosi per citarne alcuni un po’ più trascorsi come il grande Renato Zero con i suoi costumi fusi tra somiglianze animalesche e abiti settecenteschi, o ancora negli anni 80 con il gruppo spagnolo “Locoomia” formato da quattro cantanti gay i cui costumi univano lo stile di un torero e quello di un nobile barocco. Non posso fare a meno di pensare che tali stili provengano (o almeno riprendano e ricordano) da quello dei castrati. E cosi ancora oggi i sopranisti moderni cercano di mimare quello stile se non con gli abiti, ma con la loro voce. Anche questi spesso vittime dell’ignoranza della gente, derisi e identificati come omossessuali, o come addirittura castrati da chi pensa di saperne un po’ di più. Di certo non derisi come venivano derisi i castrati settecenteschi, ma rimangono comunque vittima dello sbigottimento del pubblico che non ha mai sentito parlare di quei cantanti inimitabili, e milioni e milioni di volte ancora più particolari in epoca barocca. E di certo non vagheggiati e ammirati come veniva fatto con Farinelli o con Caffarelli. I sopranisti quindi sono diversi dai castrati, se non l’opposto, anzi sono l’opposto, ma allo stesso tempo comunque molto vicini. Essi sono comunque ragazzi competenti, professionisti, che conoscono la musica alla pari o forse ancor meglio di qualsiasi altro cantante leggero o tenorile, visto che comunque attraverso lo 78 studio quotidiano hanno sviluppato quel senso canorile che rimane in ogni caso opposto al loro sesso. Ad essi va il merito di sensibilizzare con le loro voci e di istruire il pubblico musicale ad una storia dimenticata, “anche se spesse volte dimenticano o vogliono dimenticare di essere completamente diversi dai divi del melodramma barocco” (Cfr., Benedetto, 1994, p. 267). Anche essi quindi affetti da una sorta di divismo che li porta ad immaginarsi alla pari o anche migliori ai loro avi. Come dimostra il titolo di un album di Philippe Jaroussky intitolato ”Opium”, titolo molto glamour (così come la patinatissima copertina che raffigura il divo con lo sguardo vago e distratto, la pelle levigata e diafana, e le labbra più lucide e carnose del solito semiaperte, sullo sfondo di un broccato da tappezzeria di albergo di lusso. Il titolo fa riferimento forse all’oppio utilizzato da Riccardo Broschi per la castrazione del fratello Farinelli, oppure implicitamente vuole affermare che il repertorio dei castrati che loro (tentano) di riportare in scena è come l’oppio, un canto che ti riporta indietro che ti fa entrare in un modo diverso fatto di passaggi veloci, fioriture, imbellimenti; Anche se tutte queste caratteristiche non vengono e non possono essere ripetute o resuscitate, e questo è un tema che chiarirò per bene più avanti. Oggi oltre ai cantanti maschi sopranisti ci sono anche molte soprano donne che si sono appassionate a questo repertorio bellissimo, il più bello forse nella storia di tutte le arie e periodi artistici-musicali. Voglio ricordare Cecilia Bartoli una delle più famose mezzosoprano italiane. Le sue grandi doti le consentono di spaziare su vasti repertori, ma soprattutto nel repertorio protoromantico, in particolare nei ruoli mozartiani e rossiniani ed in quelli di coloratura. Cecilia Bartoli è anche un’interprete di musica barocca. Apprezzata in tutto il mondo non solo per i suoi virtuosismi di cantante, ma anche per le sue doti di attrice, la Bartoli ha collezionato numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il disco di platino in Francia per Opera proibita. In virtù del suo impegno per la diffusione dell’opera barocca tra un pubblico sempre più vasto, recentemente ha portato in scena anche il suo repertorio di trilli e contrappunti seicenteschi. Ha lavorato con importanti direttori d’orchestra, e presso le più importanti sale da concerto e teatri del mondo, quali il Metropolitan 79 di New York, il Covent Garden di Londra, il Teatro alla Scala di Milano, la Bavarian State Opera di Monaco, e l’Opera di Zurigo. Da notare il fatto che si è esibita nei teatri dove si esibirono al loro tempo molti castrati famosi, quegli stessi teatri diretti dai più importanti compositori. Da notare il il Covent Garden di Londra diretto da Haendel nel periodo di Farinelli, dove la Bartoli si è esibita rilanciando il repertorio seicentesco e settecentesco cantando ed interpretando le arie scritte per i castrati. Proseguendo l’impegno nella diffusione dell’opera barocca, la cantante arriva a toccare sempre nuove città in tutto il mondo. Da oltre due decenni Cecilia Bartoli è indiscutibilmente una delle artiste più importanti nel campo della musica classica. I suoi ruoli operistici, i suoi programmi concertistici e i suoi progetti discografici sono sempre attesi con grande entusiasmo e curiosità nel mondo intero. Questi successi le hanno consentito di avvicinare la musica ai cuori di milioni di persone in tutto il mondo. Inoltre, grazie alla loro immensa popolarità, i suoi progetti musicali hanno dato luogo ad un’ampia rivalutazione e riscoperta di compositori trascurati e di un repertorio caduto nell'oblio e che Cecilia Bartoli ha riproposto al mondo musicale per una discussione: “Riscopro tante arie perdute. Molti castrati venivano evirati su consiglio di impresari senza scrupoli. E poi a teatro il pubblico gridava: “Evviva il coltellino!” Il marketing vorrebbe far passare divi pop come la Jenkins e Potts per artisti lirici: ma senza microfono non potrebbero esibirsi.” (Persivale, 2008). Da ricordare il suo album “Sacrificium”, che la Bartoli dedica alle migliaia di ragazzi, spesso provenienti da famiglie povere, che andarono sotto i ferri del “chirurgo” per raggiungere la celebrità, ma che invece spesso finirono indigenti ed isolati dalla società. In questo album, la Bartoli canta delle arie rare, talune mai registrate in precedenza. Arie scritte specificatamente per essere cantate da castrati. Fra gli autori troviamo Handel ed il napoletano Nicola Porpora che diresse, a Napoli, la più importante scuola per questo tipo di cantanti. L’album musicale, costituito da due CD con quindici arie straordinarie delle quali undici inedite, è accompagnato da un libro intitolato “Evviva il coltellino!”, grido che i fans dei castrati usavano urlare all’indirizzo dei loro beniamini al termine dell’esibizione. Poco più di un’ora e mezzo di musica da ascoltare, magari in più 80 spezzoni, mentre si scorrono le pagine del libro che ci narra di quei poveri ragazzi che furono “sacrificati” per la gloria dell’opera sinfonica. La cantante però non è molto conosciuta in Italia…come appunto affermò in un’intervista: “Il mondo mi ama l’Italia mi ignora!” e prosegue l’intervista affermando ancora: “forse in patria sono troppo impegnati a seguire le canzonette, ed artisti che hanno davvero poco a che fare con la musica, ma fanno audience” (Mattioli, 2008). A mio, parere non posso darle torto! La Bartoli è un’artista come gli altri che ho citato in questo spazio, a trecentosessanta gradi. Un’artista e allo stesso tempo una “diva” che non è profeta in patria” (Mattioli, 2008). Continua a dare davvero un grande contributo affermato da essa stessa: “ rendo onore ai castrati del Belcanto vere vittime dell’arte” (Persivale, 2009). Ma non bisogna ignorare il fatto che comunque non si raggiungerà mai quel tipo di arte. Non si arriverà mai più a quei risultati canori e musicali. Si può solo cercare di sensibilizzare di più le persone e ad educarle ad avvicinarsi con più conoscenza a questo tema e a queste musiche, ma non di più, a meno che non si “voglia restituire la musica ai castrati” come affermato dal compositore Igor Stravinsky ai giorni nostri quando fortunatamente l’impiego della pratica castrativa era stata già abolita da quasi un secolo, e al cui compositore ho già fatto una critica abbastanza dura e severa come oggettivamente è stato giusto fare da parte mia. A tale critica mi sento di aggiungere che non sarebbero restituiti i castrati alla musica come affermò il musicista, bensì la musica ritornerebbe ad essere restituita ai castrati, diventando un abbominio o meglio un miscuglio di sublime ed orrore, ed il sublime non è sempre bellezza. O meglio ancora è un fatto che la bellezza può convivere con l’orrore. Ma in questo caso di ha il diritto anche di rifiutarla. 3.2 Il fascino di una voce d’altri tempi Sino ad ora mi sono limitata ad utilizzare esclusivamente il termine “sopranista” per motivi di semplicità, in quanto la mia intenzione è stata quella di elencare le personalità contemporanee che hanno dato un contributo culturale nel rilanciare le musiche e le arie scritte per castrati nel barocco e ricordare la loro storia spesso dimenticata. Ho spiegato tra l’altro quanto sia impossibile riprovare le stesse 81 emozioni ascoltando un sopranista contemporaneo, non approfondendo però le ragioni specifiche di tale limite. Mi sembra opportuno quindi spiegarle e fare delle chiarificazioni non più limitandomi ad utilizzare solo il termine “sopranista”. Oggi un sopranista è fondamentalmente un controtenore il cui falsetto è molto più esteso e meglio sviluppato rispetto a quello di un normale controtenore, ma esistono rari casi nei quali anche uomini adulti possono essere in grado di cantare in questa gamma con la voce piena a causa di disfunzioni endocrine, o in presenza di una laringe non completamente sviluppata. Precisiamo che al giorno d’oggi i sopranisti veri e propri sono rari, perché la maggior parte dei controtenori canta nelle gamme di contraltista e mezzosoprano. Con il termine contraltista si definiscono i cantanti di sesso maschile che cantino nel registro di contralto. L'etimologia deriva dalla musica polifonica, in cui si denominava contratenor altus o contra altus la parte medio-acuta delle composizioni, originata dal contratenor. Per estensione, colui che cantava tale parte, o voce, fu chiamato infine contralto. Chi cantava la parte del tenor, chiamato a volte tenorista, non era assimilabile al tenore moderno, quanto piuttosto a una voce maschile che canti su un registro centrale, normale. Chi cantava una parte di altus (o di contratenor altus, detto a volte contratenorista) sfruttava le note acute della voce maschile molto più del tenorista, ricorrendo al falsetto. Nel linguaggio musicale quindi, il contraltista era una voce maschile corrispondente al registro di contralto che è un registro con forte timbro femminile, usata soprattutto in alcuni ruoli che un tempo erano propri dei cantanti castrati. Ma bisogna proprio a questo punto chiarificare che il contraltista o mezzo sopranista non erano sempre dei castrati, ma per loro natura avevano la tendenza verso un timbro falsettista, che permetteva loro di sfruttare le note acute (tipiche delle donne) anziché quelle gravi (tipiche invece degli uomini). Possiamo finalmente dire che sopranista era un cantore adulto di sesso maschile che, naturalmente (in passato tramite evirazione) o artificialmente (sviluppando il registro di falsetto), era dotato di voce acuta adatta a sostenere parti di soprano. I castrati quindi non erano dei falsettisti. Essi non avevano bisogno del falsetto, ne di svilupparlo, dato che per questo ci aveva pensato il norcino con l’operazione 82 castrativa, ed è per questo che vengono definiti come voci naturali. I falsettisti invece hanno dovuto svilupparlo con lo studio e l’esercitazione, diventando cosi o contraltisti o mezzosopranisti, spesse volte riuscendo a passare da un registro all’altro. A questo punto sorge spontanea la domanda: oltre a questa differenza di artificialità o naturalità, quale altra differenza vi è tra i castrati e i falsettisti? E perché venivano preferiti i primi a questi ultimi? Analizziamone meglio le differenze per capire: i cosiddetti “controtenori” o “falsettisti artificiali” utilizzano un falsetto “rinforzato” ottenuto aggiungendo a tale meccanismo un abbassamento della scatola laringea che consente, tramite un incremento dei fenomeni armonici (per guadagno di spazio di risonanza), l’emissione di un suono più ricco e rotondo nel quale sono tuttavia facilmente riconoscibili le caratteristiche del falsetto. A questo proposito è utile chiarire che la distinzione compiuta da Rodolfo Celletti per distinguere tra falsettisti e castrati, attribuendo ai primi il termine di falsettisti artificiali e ai secondi quello di falsettisti naturali, non è del tutto appropriata. Il “naturale” conseguente risultato della castrazione è infatti la mancata crescita laringea e delle corde vocali che pertanto mantengono pressoché l’estensione dell’età infantile, estensione che per una voce maschile dopo la pubertà è possibile “imitare” solo attraverso il ricorso al registro di falsetto. Ma così come il “registro” delle voci bianche infantili è un registro pieno su un’estensione acuta, anche il registro del castrato è un registro pieno, vero, in tal senso “naturale”, e non una imitazione in falsetto. Il castrato non era un falsettista, semplicemente perché non usava un registro di falsetto. D’altro lato non comprendo perché l’uso del falsetto, nella voce maschile adulta, debba essere etichettato come artificiale: è un registro legittimo, un modo per emettere suoni in acuto, è falsetto e basta. Ecco perché la definizione di falsettisti, eventualmente distinti in sopranisti e contraltisti in base all’estensione, ci sembra la più adeguata a individuare le voci maschili che si muovono su tessiture di ambito tonale femminile. La resa vocale del falsettista, su tutta la gamma tonale, è comunque diversa, e per alcuni musicologi insufficiente, rispetto a quella che doveva essere un tempo la vocalità del castrato: sia per volume, che per estensione, che per pienezza di suono 83 (cioè ricchezza armonica), spessore nel registro grave, qualità d’emissione (suoni penetranti ma aspri nel falsettista), lontana comunque dalla particolarità e ricchezza di colori dei castrati. In effetti l’uso del falsetto professionale su tutta la gamma impone al falsettista una certa uniformità di emissione (e perciò maggiore “rigidità” di gestione delle cavità di risonanza). Questa differenza faceva si appunto che i castrati fossero preferiti ai falsettisti, “in quanto bisogna tener conto che questi erano dotati di una voce bianca, acuta, infantile che fuoriusciva da una cassa toracica di adulto del tutto sviluppata, e ciò rendeva le arie di una qualità armonica più ricca, un suono in un certo senso più pieno” (Cfr., Cappelletto, 1995, p. 99). Questo non poteva avvenire con i falsettisti data la loro integrità fisica, ma ciò non giustifica il fatto che essi debbano essere etichettati come artificiali, anzi penso che siano più naturali dei castrati, in quanto sicuramente questi ultimi (non volendo screditare la scuola di Porpora), non abbiano dovuto lavorare tantissimo sulla voce in quanto già la possedevano senza sforzi, senza dover cambiare niente o migliorare ancora di più. Gli studi durissimi che essi erano costretti a svolgere probabilmente era un eccesso inutile, quasi di formalità di prassi, ma non del tutto necessario ed inevitabile. Vittime dei loro creatori, dei loro maestri e delle loro famiglie. Infatti ricordiamo che al di sotto dello studio vi era un business in quanto si studiava e si partecipava alle cerimonie ecclesiastiche per essere pagati e mandare parte di quei soldi alle famiglie e ai conservatori che li ospitava. Quindi forse potevano anche non studiare cosi tante ore al giorno. Opposta invece la situazione dei falsettisti i cui studi erano e sono necessari per sviluppare quel falsetto. D’altra parte oggi non si può fare l’errore di spacciare un falsettista per castrato o dire che siano la stessa cosa. Ricordiamo che i falsettisti vennero impiegati prima dei castrati, per poi lavorare insieme ad essi fino a quando però alla fine del ‘500, i castrati si sostituirono ai falsettisti artificiali, da cui si distinsero per le particolari capacità di resistenza polmonare, dolcezza, pienezza e duttilità di suono. I castrati, per cui il mondo civile impazziva, che da San Pietroburgo a Madrid, da Londra a Roma, diventavano gli idoli di teatri, corti, regge e palazzi nobiliari, contesi da re e imperatori, principi e cardinali. Semidei che suscitavano ovunque furori e svenimenti, per cui si formavano fazioni e partiti, ma anche oggetto di 84 intrighi, invidie, rivalità, ricchezza, onori, drammi e tragedie. Questo era il mondo dei castrati: un intreccio di musica meravigliosa, politica, eccessi, miserie, passione, scandalo, un romanzo storico. Come pensare di ritrovare anche qualche frammento di tutto questo variopinto e mutevole mondo nelle voci degli odierni falsettisti? Nessuno di noi, ovviamente, ha mai ascoltato un castrato cantare: ci resta però la musica scritta per loro dai grandi compositori (musica di enorme difficoltà che richiede dei veri fuoriclasse) e le testimonianze e i giudizi dei loro contemporanei. Su ciò che ci resta si deve ragionare e valutare. E da tutto questo non si può che evincere come l’impiego di tali falsificazioni vocali ( nel caso dell’impiego dei falsettisti odierni in arie scritte a loro tempo per castrati) sia assai scorretto, e per fattori fisici e per ragioni musicali. I primi sono dovuti chiaramente al fatto che gli effetti che l’evirazione comportava sulla crescita e lo sviluppo della persona non sono riproducibili oggi. E mi sento di aggiungere un “menomale”. La voce dei castrati non era semplicemente una creazione insuperabile alla “frankenstein”, ma un canto evirato, evirato non solo della sua integrità naturale, ma evirato della sua verità, di ciò che è realmente possibile in natura. Non si conosce il senso vero dell’arte, ma possiamo cercare di darle un senso. Possiamo provare a selezionare gli elementi che le appartengono, i pezzi necessari a darle un’identificazione e che la rendono funzionale per una sensibilizzazione e per una acculturazione generale e collettiva, ma soprattutto una morale ed un’eticità. E credo fermamente che la castrazione non sia un elemento o una parte di essa. Le “voci angeliche” che la castrazione ha creato non erano altro che fiamme demoniache, che hanno devastato chi le possedeva. Portatrici di bellezza e sublimità, detentrici di impossibilità inaccessibili all’uomo comune. E pertanto un peso che è stato troppo grande da portare e sopportare. Qui timbri luciferi di tutto il firmamento musicale barocco, che avevano un’apparenza o un aspetto straordinario, incantatore, ma che in realtà nascondevano l’orrido, la sofferenza, il brutto. Tutto quello che non poteva essere musica, essere arte. I canti più belli che si siano mai sentiti, si diceva allora, che si siano cosi vagheggiate. Le voci figlie non della natura, non della musica, non 85 dell’arte, ma di una pratica barbara, che non distingueva gli uomini dagli animali. Quella pratica che negava i diritti universali degli uomini, della piena libertà e dell’inalienabilità umana. Il marcio che ha condannato e imprigionato i corpi. Quelle “bestie dentro”. Quelle voci, padrone terribili che domavano i loro stessi padroni, vittime deboli, assuefatti dal loro irresistibile potere, a cui non vi era nessun rimedio, se non quello di rassegnarsi ad esse, odiarle sempre, ma allo stesso tempo amarle come delle “beltà maliarde”. Conclusioni Ai nostri giorni è diventata ormai prassi comune suonare la cosiddetta musica antica con gli strumenti dell’epoca. Sono stati copiati gli strumenti dei musei, quando non si sono potuti usare direttamente gli originali; sono stati ricostruiti fedelmente i modi di suonare sulla base dei trattati e di tutte le testimonianze disponibili. Possiamo quindi avere molto più di un tempo la pretesa di avvicinarci alla fedeltà storica nell’esecuzione della musica barocca. A completare il mosaico manca tuttavia un tassello fondamentale, la cui importanza viene tuttora inspiegabilmente sottovalutata. Questo elemento, che è per noi impossibile da ricostruire, sono le voci dei cantanti castrati. Per tutta l’epoca barocca lo spettacolo musicale per eccellenza fu l’opera lirica, e la musica scritta per il melodramma è la parte di gran lunga predominante di tutta la musica dell’epoca. Se quindi l’opera, almeno quantitativamente, domina la scena, i protagonisti assoluti di essa dai primi del ‘600 alla fine del ‘700 sono appunto i castrati, all’epoca detti semplicemente “musici”, capaci di commuovere le folle, di suscitare entusiasmi pari a quelli delle star del cinema e del rock di oggi, considerati dal popolo e dai sovrani quasi dei semidei o per lo meno degli “angeli”. Come giustamente le ha definite Sandro Cappelletto nel suo libro sulla vita di Farinelli si tratta di “voci perdute”, di cui ci rimangono solo testimonianze scritte. Testimonianze su bambinetti innocenti, che molto spesso erano coristi delle cantorie parrocchiali. La storia della chiesa cattolica infatti, non è solo piena di colpe, riguardo alle punizioni e alla morte a cui portava i cosiddetti peccatori, ma è piena di atti di 86 umiliazione verso i corpi del “loro gregge”, che spessissimo sfruttava per tessere le lodi di se stessa. Moltissimi bambini infatti, venivano accolti nei cori di voci bianche, e quelli ritenuti più promettenti subivano un’operazione, che li portava a divenire cantori del papa. Angeli controvoglia, creati dalla Chiesa: i Castrati. Le voci dei castrati erano assolutamente le principali, le più ricercate e anche le più pagate dell’epoca Barocca, a cui seguivano a ruota quelle dei soprani. Tuttavia questa crudele pratica nacque molto prima. Nell’era del Neolitico infatti, possiamo ritrovare le prime forme di metodi castrativi sugli animali per la loro domesticazione. E successivamente durante l’impero Ottomano, con gli eunuchi, i guardiani del letto, o meglio degli harem. La pratica si arrestò intorno l’anno 1204, per poi ricomparire più di tre secoli dopo, intorno alla fine del 1500. Ma fu il seicento a produrre una quantità enorme di evirati cantori, poiché molte famiglie che versavano in tristi condizioni economiche, erano disposte a sacrificare le possibilità generative del figlio per un eventuale guadagno economico elevato che avrebbe sistemato per sempre la famiglia dell’evirato se il giovane cantore avesse avuto successo; tutt’al più se la voce del piccolo dopo la castrazione non risultava idonea al teatro (che ripeto dava ottimi guadagni), rimaneva per il piccolo cantore nel suo futuro, un impiego meno redditizio ma sicuro all’interno del coro di qualche cappella. Tuttavia dobbiamo tener presente che solo una piccola percentuale dei cantori evirati giungeva al successo, ossia si faceva conoscere a livello europeo, ma quando questo accadeva, neppure i soprani potevano contrastare la loro fama: erano le star assolute. Spesso si andava a teatro solo per sentire cantare il castrato, gli altri cantanti passavano così in secondo piano. Tuttavia la castrazione non assicurava assolutamente una carriera, anche perché solo dopo l’operazione e lo studio si poteva decretare se una voce aveva le tonalità angeliche del castrato, oppure se era qualcosa di mediocre e quindi destinato ad un futuro modesto. La maggioranza dei bambini castrati, non possedevano una voce adatta a calcare i palcoscenici, ed erano perciò destinati a vivere una vita repressa nei cupi meandri 87 della Chiesa, per dedicarsi a canti ecclesiastici, molto meno remunerativi e appaganti. I cantanti castrati impersonavano, spesso, eroi maturi, molto virili, capi di stato o condottieri, benché la tonalità vocale che li riguardava era una miscela tra quella maschile e quella femminile. Il cantore evirato si distingueva in due categorie: sopranista e contraltista. Due tipologie vocali dallo stesso registro vocale della donna che segnarono un’epoca: l’Epoca d'Oro dei castrati. Infatti, una nota distintiva di tutta l’epoca barocca fu proprio la presenza, nei teatri di tutta Europa, di quelle figure enigmatiche che diedero origine al belcantismo italiano: gli evirati cantori. Questi ultimi, inizialmente, come già ho avuto modo di sottolineare, cantavano esclusivamente nelle Cappelle ecclesiastiche, dopo che il veto di Papa Sisto V (1588) proibì l’esibizione pubblica alla donna in tutto lo Stato Pontificio, suscitando tanta meraviglia nei fedeli che assistevano alla messa, rapiti dallo stupore che il loro canto destava, a tal punto che ogni volta che un castrato si esibiva in occasioni particolari in chiesa (la notte di Natale, per es.) la folla, estasiata, si faceva sempre più numerosa alle funzioni liturgiche dando vita, molto spesso, a veri e propri deliri di massa. Successivamente sulle scene teatrali mutarono il volto musicale d’Europa. Ma è soprattutto il nascente melodramma e, in particolare, il teatro napoletano del Settecento a svilupparne la presenza in modo esponenziale, in nome di un gusto artistico incline al senso della festa e al piacere sensuale che mira alla conquista della bellezza pura; una bellezza che si basa su suoni morbidi, rotondi, omogenei nel passaggio dalle zone gravi a quelle acute, sull’uso di grande agilità sia di fraseggio che di ornamentazione, ma anche di potenza vocale costante, ben oltre la possibilità delle voci femminili. E non è un caso che a cancellarne la presenza con un brusco colpo di spugna sarà invece l’avvento del romanticismo, quando dal mondo dell’arte scompariranno lo spazio dell’illusione e la dimensione dell’artificio, il gioco del travestimento la sottile sfera dell’ambiguità vocale. 88 Nel mio lavoro ho voluto dare grande spazio al più celebre degli “angeli”, al più grande: Carlo Broschi in arte Farinelli. Egli divenne il più celebre sopranista dei suoi tempi. Acclamato sulle scene di tutta Europa per le sue eccezionali facoltà naturali, la sua raffinata tecnica, la sua intelligenza e cultura. Fu per ventidue anni alla corte di Spagna, e si ritirò poi (1761) a Bologna. Fu legato da grande amicizia al Metastasio al quale diede la sua collaborazione artistica in numerose occasioni. Castrato dal suo stesso fratello: il compositore Riccardo Broschi, e da lì iniziò la sua scalata verso il successo e allo stesso tempo la sua “via cruscis”. La sua personalità e la sua stessa vita è un connubio tra bellezza e sublimità, tra meraviglia ed orrore, tra gloria ed infelicità. Una vita, una personalità sdoppiata, che rimane ancora oggi misteriosa. L’arte del Broschi fu giudicata da chi lo ascoltò. Assolutamente inarrivabile, la sua fama può paragonarsi solo a quella del suo illustre “gemello” Metastasio, ambedue tipici rappresentanti del sec XVIII, ricco di grandi figure. Come cantante ebbe voce di sopranista naturale, dall’estensione di tre ottave, di timbro chiarissimo, dolce e penetrante, che all’inizio della sua carriera adoperò per suscitare più meraviglia che per far musica. Amava, infatti, variare, secondo la moda del resto, tutte le arie, ma lo faceva con gusto e abilità, essendo egli stesso un buon musicista. Colto e raffinato (conosceva benissimo le lingue francese, inglese, tedesca e spagnola), fu anche di bell’aspetto ed elegante. Divulgatore della cultura italiana, aiutò generosamente gli artisti italiani ad affermarsi ovunque i suoi impegni all’estero lo conducessero. Il complesso stesso delle sue eccezionali qualità di uomo e di artista ne fecero un fenomeno unico e irrepetibile. Dal 1723 al 1734 apparve nei principali teatri europei, acclamatissimo dal pubblico e ricercato dai maggiori operisti del tempo. Decise di ritirarsi ad un certo punto della sua vita nel 1735, quando stava nel culmine del suo successo, a Madrid presso il re Filippo V ipocondriaco e depressivo. Farinelli rimase alla corte madrilena per quasi ventidue anni fino al 1759, cantando ogni sera le stesse identiche arie, nella stanza del re, tentando di farlo guarire dalla sua malattia psichica. 89 Fu il più eccezionale, non solo per le sue doti di cantante, ma anche per la sua personalità modesta ed umile, non affetta dal divismo che divorava la maggior parte dei suoi colleghi a quel tempo. E’ questa la ragione che lo fa grande. Nel 1759 si ritirò in una splendida villa presso Bologna; il suo salotto fu frequentato da uomini illustri come Gluk, Padre Martini, Mozart, Casanova. Lì vi rimase fino alla sua morte avvenuta nel 1782 in completa solitudine e malinconia, sue due uniche compagne fin dall’inizio della sua gloria. Oggi è impossibile poter riprodurre quelle stesse voci se non riproponendo l’uso della castrazione. È impossibile anche avvicinarsi ad esse, al limite si può credere di imitare quelle voci angeliche, ma in questo senso imitare significa illudersi. Sono numerosi nella nostra epoca cantanti sopranisti che riportano e rilanciano il repertorio seicentesco e settecentesco dei castrati. Ma tale repertorio spesso o quasi sempre è “vittima” (come è giusto che sia), delle continue modificazioni o di abbassamenti di tono dei spartiti, in quanto per i sopranisti moderni, per quanto la loro voce sia femminile ed acuta (dovuta a malformazioni congenite alla laringe o all’apparato riproduttivo), sarebbe impossibile arrivare a quegli acuti. Come già ho spiegato su questi non è stata applicata la castrazione e non verrà mai applicata fortunatamente. L’unica cosa che essi possono fare, assieme anche a molti soprano donna che si accingono continuamente a studiare le arie barocche, è quella di riproporre il repertorio dei castrati, che è il più bello, il più minuzioso ed il più ricco che sia mai stato composto nella storia della musica. Quella musica che sarebbe bastata a se stessa e all’arte, non aveva bisogno di voci evirate. Tra l’altro queste opere sono le creazioni dei più grandi compositori e musicisti mai esistiti, che a mio parere non si vedranno ne ascolteranno più. Posso provare una certa tristezza nei confronti dei compositori e musicisti del passato la cui bravura e il cui stile non ritorneranno mai più. Oggi si contano davvero sule dita di una mano i musicisti ed i compositori irripetibili, i veri professionisti che hanno capito il vero senso della musica e dello studio costante. Ma non posso provare tristezza per il “non ritorno” dei castrati. I castrati non furono dei cantanti, o dei sopranisti o degli attori, o di artisti eccellenti. E se lo sono stati, fu solo perché privati della loro libertà e negati dei loro diritti. Non furono degli “angeli” cosi come venivano chiamati, perché possedevano una voce 90 celestiale. Ma furono degli angeli perché bambini innocenti, vittime delle loro stesse famiglie e di chi avrebbe dovuto volerli più bene e proteggerli. Bambini negati della loro crescita per un futuro incerto che non assicurava il “successo”, il successo che non è sopravvivenza. Si può essere famosi e tristi allo sesso tempo, cosi come si può essere vivi e morti allo stesso tempo. Questo erano i castrati, uomini ai quali fu negato il diritto, quel diritto che una volta tolto non lo si può più avere. E allora cosa rimase loro? Solamente quella voce, amata e odiata allo stesso tempo, soltanto la rassegnazione a quel destino, nemmeno lo sfogo di scagliarsi contro qualcuno o qualcosa. A quei pochissimi che sono riusciti, al Farinelli, al Senesino, al Pacchierotti, al Ferri, al Caffarelli, al Crescentino, al Porporino, al Manzoletto è riservata la menzione storica, per loro si è costruita una vera e propria epopea artistica. Ma forse l’omaggio più giusto e più grande che l’uomo deve a questi castrati e alle tante creature innocenti, vittime della Storia, non è il ricordo delle loro voci, ma di aver lasciato l’insegnamento più grande che potevamo mai avere dal passato, e che abbiamo raggiunto e dobbiamo continuare a preservare nel presente, i diritti umani, la libertà, l’autonomia, l’inviolabilità della persona. Poiché non esiste niente e nessuno per qualsiasi motivo che sia esso politico, religioso, economico, sociale, o artistico che possa mai violarli. 91 Bibliografia Ackermann A., Donne violate. 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