DOMENICA DELLE PALME
PASSIONE DEL SIGNORE
Mc 14,1-15,47; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che hai dato come modello agli uomini
il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore,
fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce,
fa' che abbiamo sempre presente
il grande insegnamento della sua passione,
per partecipare alla gloria della risurrezione.
Egli è Dio e vive e regna con te...
Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che
la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo
perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati
all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il
cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio
annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per
questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione
delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso
trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà
nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce.
Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno
di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare
per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima
lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda che rimane incomprensibile
se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude
inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una
profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di
un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente
apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla
Croce celebra il suo vero trionfo.
Alla commemorazione
dell’ingresso del Signore
in Gerusalemme
Orazione
Dio Onnipotente ed eterno,
benedici + questi rami [di ulivo],
e concedi a noi, tuoi fedeli,
che accompagniamo esultanti il Cristo,
nostro Re e Signore,
di giungere con lui alla Gerusalemme del cielo.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Dal Vangelo secondo Marco
(11,1-10)
Quando
furono vicini a Gerusalemme, verso Bétfage e Betània,
presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse
loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso,
troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito.
Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate
questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui
subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla
strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché
slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto
Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed
egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri
invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e
quelli che seguivano, gridavano: «Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».
Parola del Signore.
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L’ingresso di Gesù in Gerusalemme
Mc 11,1-10
Questo episodio segna l’inizio di una nuova sezione in cui è raccontato il ministero di
Gesù a Gerusalemme (Mc 11-12). Questo è concentrato da Marco nei primi giorni di
una settimana: ciò è dovuto probabilmente non tanto a ricordi di carattere storico, ma
al fatto che, quando si è formato il racconto, la Chiesa celebrava già una specie di
«settimana santa» in preparazione della pasqua cristiana. L’entrata di Gesù in
Gerusalemme assume nel vangelo di Marco una grande importanza perché rappresenta
la meta di un viaggio che l’evangelista ha presentato come un vero e proprio itinerario
spirituale, al termine del quale, proprio nel luogo più santo del giudaismo, egli si
confronta prima con le autorità ufficiali (11,12-12,12) e poi con i rappresentati dei
movimenti giudaici (12,13-40).
L’ingresso in Gerusalemme è situato nel primo giorno della settimana (domenica), come
risulta dai cenni cronologici successivi (cfr. 11,11.19-20; 14,1; 15,42). Venendo da
Gerico Gesù raggiunge due località ormai vicine a Gerusalemme, chiamate Bètfage e
Betania (geograficamente la seconda è in realtà la prima per chi giunge da Oriente): il
narratore osserva che esse si trovano presso il monte degli Ulivi (v. 1a), quindi proprio
là dove si pensava che JHWH sarebbe apparso per liberare Gerusalemme dai suoi nemici
(cfr. Zc 14,4) e dove i rabbini collocavano la venuta del Messia.
Giunto ormai nelle vicinanze di Gerusalemme Gesù manda due discepoli nel villaggio
vicino dicendo loro che vi troveranno un puledro legato, sul quale nessuno è ancora
salito. Essi devono scioglierlo e portarglielo. Se qualcuno chiederà loro ragione dovranno
rispondere che il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà subito (vv. 1b-4).
L’evangelista osserva che tutto si avvera con precisione (vv. 5-6): con questa
descrizione dettagliata egli intende presentare Gesù come il regista sovrano degli eventi
che lo porteranno alla morte. Per questo forse, contrariamente alle sue abitudini, lo
designa per due volte come «il Signore» (vv. 3.6), titolo che nei LXX traduce il nome
divino (JHWH); non è escluso che ciò sia dovuto anche al fatto che le caratteristiche
dell’asinello (non ancora utilizzato per usi profani) sono quelle richieste per gli animali
offerti al «Signore» (JHWH; cfr. Nm 19,2; Dt 21,3). Il fatto che Gesù usi
intenzionalmente quest’animale costituisce un’allusione alla profezia che annuncia
l’ingresso del Messia nella città santa (Zc 9,9; cfr. 14,3-4).
Il particolare dei mantelli stesi sul puledro e sulla strada (vv. 7-8) ricorda la
proclamazione di Ieu come re di Israele (2Re 9,13); l’uso delle fronde invece richiama
sia i riti che si compivano nella festa delle capanne (Lv 23,40), sia quelli compiuti da
Giuda Maccabeo per la dedicazione del tempio dopo la profanazione che ne era stata
fatta dai re siriani (2Mac 10,7). Se queste allusioni sono intenzionali, vi sarebbe qui un
riferimento ai temi della messianicità di Gesù, del nuovo esodo e della purificazione del
tempio: quest’ultimo motivo sarà poi ripreso nella scena successiva.
Coloro che accompagnano Gesù gridano «Osanna», che significa «dona salvezza», e
«benedetto colui che viene nel nome del Signore» (v. 9): queste due espressioni sono
ricavate dal Sal 118,25a.26a, dove sono usate dai sacerdoti per rivolgere il loro saluto
a un personaggio, probabilmente il re che, dopo aver ottenuto una grande vittoria, sale
al tempio per ringraziare JHWH.
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Il carattere regale e messianico di queste acclamazioni è sottolineato con l’aggiunta
della frase «Benedetto il regno che viene del nostro padre Davide» (v. 10): secondo
Marco dunque i discepoli esaltano la prossima instaurazione del regno davidico, ma non
attribuiscono esplicitamente a Gesù un titolo messianico, come accade invece negli altri
due sinottici (Mt 21,9; Lc 19,38). Le acclamazioni si concludono con l’espressione
«Osanna nel più alto dei cieli», con la quale il dono della salvezza è attribuito
direttamente a JHWH. Giunto a Gerusalemme Gesù entra nel tempio e, dopo aver rivolto
tutto attorno uno sguardo scrutatore, lascia la città e si ritira a Betania (v. 11): egli
mostra così il suo interesse per il tempio, dove saranno situati gli eventi successivi.
Gesù è entrato in Gerusalemme cavalcando un asinello e una piccola folla lo ha accolto
con manifestazioni di stima e di affetto. Non è escluso che lui stesso, e più direttamente
la folla che lo accoglieva, abbia voluto dare a questo ingresso una connotazione
messianica. Ma è difficile immaginare che ciò sia stato chiaramente percepibile, perché
le autorità romane non avrebbero lasciato passare la cosa inosservata.
La fitta rete di riferimenti alla Bibbia mostra che Marco, come poi la tradizione
successiva, ha visto nell’entrata di Gesù in Gerusalemme la manifestazione del Messia,
figlio di Davide.
L’ingresso in Gerusalemme pochi giorni prima della Pasqua assume una dimensione
drammatica e provocatoria. Gesù sta per confrontarsi in modo cruciale con i supremi
rappresentati della religione giudaica, che egli stesso aveva più volte sottomesso a dura
critica. È difficile sapere quale fosse lo scopo ultimo che Gesù si prefiggeva. Forse
pensava che, alla fine, le autorità avrebbero accettato il suo appello per un
rinnovamento radicale del popolo di Dio. O forse piuttosto ha pensato che fosse giunto
il momento di dare un segno inequivocabile ai suo discepoli accettando fino in fondo le
conseguenze delle sue scelte. In qualunque modo si intenda la scelta di Gesù, essa
rivela un grande coraggio perché un rifiuto nei suoi confronti avrebbe significato
automaticamente la morte. Nonostante ciò Gesù non si è tirato indietro.
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PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Isaìa
(50,4-7)
Il signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Parola di Dio.
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Il Servo perseguitato (3° carme)
Is 50,4-7
La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, si distacca
nettamente dalla precedente in quanto non si situa nel periodo storico in cui è vissuto
il profeta, ma contiene una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per
annunziare loro la fine dell’esilio. Il libro si apre con il lieto annunzio del ritorno nella
terra dei padri (Is 40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio (55,1-13). Il
corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due blocchi, quelli
composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli
che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1 - 54,17). Nel libretto del
Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso,
chiamato «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato
dato l’appellativo di «Carmi del Servo di JHWH» (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12).
Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e
dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione di cui è
fatto oggetto. Esso è molto simile ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto
perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina: solo
dalle parole conclusive, non riportate dalla liturgia, appare che si tratta ancora una volta
del servo di JHWH. Nel brano liturgico il Servo ricorda anzitutto la sua chiamata (vv. 45), poi passa alla descrizione delle sofferenze che gli sono inflitte (v. 6) e termina con
una dichiarazione di fiducia in Dio (v. 7).
La composizione si apre con un soliloquio: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da
discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento
il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (vv. 4-5). Il servo è una
figura profetica, il cui compito è quello di parlare a nome di Dio. Questo concetto viene
formulato mediante l’immagine della lingua, cioè della capacità di parlare, che gli è stata
data direttamente da Dio, al quale egli d’altra parte ha volto ogni giorno il suo orecchio
esattamente come fa un vero discepolo. Il rapporto del Servo con JHWH è dunque simile
a quello del discepolo nei confronti del maestro. Quando egli parla lo fa a nome di colui
che lo ha istruito. Per questo può parlare con autorevolezza soprattutto a chi è
sfiduciato. Proprio perché ha ricevuto lui stesso per primo un’istruzione interiore, il
Servo può toccare il cuore dei suoi ascoltatori. Nel contesto del Deuteroisaia gli sfiduciati
sono gli esuli deportati in una terra straniera, ai quali il Servo dà la speranza di poter
ritornare finalmente nella loro patria.
Bruscamente il Servo soggiunge che il suo abbandono all’iniziativa divina comporta una
dolorosa persecuzione: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro
che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (v. 6).
Il fatto di annunziare quello che JHWH gli aveva suggerito comporta nei confronti del
Servo non un atteggiamento di apertura e di fiducia, ma un’opposizione rabbiosa e
violenta. Si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi. È difficile
dire in che contesto queste vessazioni gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche.
Ma certo si tratta di sofferenze gravissime. Non si dice neppure chi ne è l’autore. Si
potrebbe pensare all’autorità civile che vede in lui un sobillatore. Dal contesto però
sembra piuttosto che si tratti di coloro a cui è stato mandato, i quali non solo non
accettano il suo messaggio, ma cercano di eliminare l’incomodo messaggero: è questa
la sorte dei profeti, di cui l’esempio più significativo è Geremia.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: «Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso» (v. 7). Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo
non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza
verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta
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fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli
deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le
opposizioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la
realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Nella conclusione, omessa dalla liturgia, il Servo riafferma la sua fiducia in Dio e lancia
una sfida ai suoi avversari (vv. 8-9). Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi
avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da
una volontà di vendetta ma dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.
In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di
Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale
riceve il messaggio che egli comunica al popolo. Nel suo comportamento è assente tutto
quello che potrebbe anche solo sembrare un progetto umano, perseguito a scopi di
successo personale o nazionale. Al primo posto il Servo mette Dio e la sua decisione di
liberare Israele. Così facendo egli si oppone a ogni tentativo di considerare il ritorno
nella terra promessa come occasione per una ricerca di potere da parte di un individuo
o di un gruppo nei confronti del popolo, o anche come una rivalsa del popolo nei
confronto dei propri oppressori.
Il servo ha dovuto pagare di persona perché il primato di Dio apparisse veramente
convincente. Egli non è andato semplicemente incontro all’insuccesso, come appare nei
carmi precedenti, ma ha suscitato un’inspiegabile persecuzione; di fronte ad essa però
è rimasto fedele al compito ricevuto e ha continuato ad annunziare con fermezza il
decreto divino senza abbandonare il metodo non violento adottato fin dall’inizio. Il rifiuto
della violenza appare così come l’unico mezzo capace di assicurare non solo il successo,
ma anche una piena partecipazione di tutti alla libertà acquistata. Se la libertà fosse
acquistata per mezzo della violenza facilmente lascerebbe il posto a una nuova violenza
nei confronti degli stati più poveri e indifesi della popolazione. Forse è proprio il fatto di
essersi rivolto a tutto il popolo che ha suscitato l’opposizione delle classi dirigenti, le
quali avrebbero voluto gestire il ritorno nella terra promessa a proprio vantaggio.
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SALMO RESPONSORIALE
(Sal 21,8-9.17-20.23-24) (22)
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!». \R.
Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa. \R.
Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto. \R.
Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele. \R.
SALMO 21 (22)
Esaudimento del giusto provato dalla sofferenza
Anche se nell’antica Israele questo stupendo Salmo è stato un’invocazione di aiuto
rivolta al Signore dal giusto afflitto e perseguitato, per la ricchezza delle immagini e per
l’intensità della preghiera, si presta anche a una lettura simbolica che lo rende sempre
attuale (per questo gli Evangelisti, nei racconti della passione, lo hanno utilizzato per
sottolineare con le sue parole i momenti decisivi della vicenda dolorosa di Gesù); esso
è una delle suppliche più celebri di tutto il Salterio, ed è particolarmente caro alla
tradizione cristiana perché, nella sua parte iniziale, ricorda le parole che Cristo in Croce
(secondo Matteo) pronunziò nella versione aramaica (Elì, Elì, lemà sabactàni? “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Il Salmo, pur essendo dominato da un grande
senso di tristezza, e inizialmente segnato dal silenzio di Dio, contiene anche un gioioso
ringraziamento al Signore per il suo aiuto, la sua giustizia e il suo amore.
Il canto amaro dell’orante è indirizzato a un Dio simile a un imperatore indifferente alla
sofferenza e alle lacrime di chi soffre; la lamentazione si completa con la descrizione
dello sfacelo fisico e degli incubi in cui è immerso l’orante, e di come la sua dignità sia
completamente calpestata. I nemici sono raffigurati con immagini “bestiali” in una scena
di caccia dove la preda è raggiunta e assalita. Il quadro finale descrive il fedele ormai
in fin di vita, umiliato e spogliato anche delle vesti che sono divise tra i persecutori.
Ma ecco improvvisamente la nuova realtà, un’immagine di gioia che vede la passione
del giusto finalmente premiata; egli è rappresentato nel tempio mentre scioglie i suoi
voti per la liberazione e l’aiuto concessi da Dio. Iniziato come un grido di desolazione, il
Salmo si conclude con un inno di gioia.
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SECONDA LETTURA
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
(2,6-11)
Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Parola di Dio.
CANTO AL VANGELO
(Fil 2,8-9)
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
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Fil 2,6-11
Inno cristologico
Questo testo si presenta come una composizione abbastanza autonoma all’interno della
lettera ai Filippesi a motivo sia del suo contenuto cristologico, sia della sua forma
letteraria poetica: queste due caratteristiche fanno sì che esso venga comunemente
chiamato “inno cristologico”. Il contesto del brano è il seguente: dopo aver incoraggiato
i fedeli a lottare concordemente per la causa del vangelo contro gli avversari provenienti
dall’esterno, l’apostolo si rivolge a loro nel c. 2 con un lungo periodo nel quale li invita
ad «avere i medesimi sentimenti» e inculca l’umiltà e la rinuncia a se stessi per il bene
comune. A tal fine li esorta a «sentire in se stessi» ciò che ha sentito Gesù, il quale
viene poi presentato nell’inno cristologico come modello di una rinuncia di sé portata
fino all’estremo delle proprie possibilità (vv. 6-11). La parenesi si conclude poi con una
rinnovata esortazione a lottare per la salvezza, che si attua in mezzo a un mondo
perverso ed è fonte per Paolo e per i suoi lettori di una gioia comune.
Attualmente è diffusa l’opinione secondo cui Paolo non sarebbe direttamente l’autore
dell’inno, in quanto questo rivela uno stile e soprattutto una visione teologica che non
sono quelli tipici dell’apostolo. Esso sarebbe perciò una di quelle composizioni
preesistenti, originariamente autonome, utilizzate successivamente in funzione di un
contesto diverso. L’inno di Filippesi avrebbe avuto origine nell’ambito del culto e sarebbe
stato qui inserito da Paolo per scopi parenentici. Paolo non se ne è servito per fare una
sintesi o un’esposizione teologico-dottrinale sulla persona di Cristo (la sua preesistenza,
l’incarnazione, le due nature), ma per proporre ai cristiani l’umile atteggiamento di Gesù
come esempio del loro comportamento comunitario.
L’inno cristologico si divide in due parti (vv. 6-8 e 9-11), di cui la prima a sua volta si
divide in due unità (vv. 6-7b e 7c-8). Da ciò risulta la seguente divisione: dalla
condizione di Dio a quella di servo (vv. 6-7b), la sua umiliazione (vv. 7c-8) ed
esaltazione (vv. 9-11).
Dalla condizione di Dio a quella di schiavo (vv. 6-7b)
La prima cosa che viene affermata di Gesù Cristo è che egli era «nella condizione di
Dio» (v. 6a). Sullo sfondo si può intuire il racconto della creazione, nel quale si dice che
il primo uomo fu creato a immagine di Dio. Siccome la «condizione di Dio», in
contrapposizione alla condizione dello schiavo, comporta essenzialmente dominio,
autorità e dignità, si può ritenere che Gesù Cristo fosse in condizione di Dio in quanto
queste prerogative divine gli appartenevano pienamente come suo privilegio originario.
L’esistenza di Cristo nella condizione di Dio viene espressa con una proposizione
concessiva («pur essendo»), con la quale si sottolinea come il suo essere in condizione
di Dio non sia stato rimosso, ma è continuato anche dopo che egli «si svuotò».
L’inno continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il suo essere
in condizione di Dio: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (v 6b). L’oggetto di
cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere alla pari di Dio». Questa
espressione è stata comunemente tradotta «l’essere come Dio», con riferimento alla
natura o essenza divina di Cristo. Dal punto di vista filologico però essa indica
semplicemente l’esercizio attivo del suo «essere nella forma di Dio», cioè dei poteri
propri di Dio, e di riflesso la pretesa che gli altri li riconoscano e li rispettino con un
atteggiamento di obbedienza e di culto. Ciò che Gesù Cristo non volle sfruttare a proprio
vantaggio sono dunque le conseguenze esterne del suo rapporto privilegiato con Dio.
Anche qui sullo sfondo si intuisce l’esperienza di Adamo, il quale si è ribellato proprio
perché ha voluto essere «come Dio», acquistando la conoscenza del bene e del male.
In contrasto con lui, Cristo non ha voluto gestire in termini di potere il suo privilegio di
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essere «in forma di Dio»: per questo ha iniziato un cammino che lo ha portato a
immergersi negli strati più bassi dell’umanità, non come castigo ma per libera scelta.
L’autore dell’inno prosegue affermando che Cristo non solo non volle approfittare di ciò
che gli competeva, ma addirittura vi rinunciò, «svuotò se stesso» (v. 7a). L’oggetto di
cui svuotarsi è il diritto nativo di essere alla pari di Dio. L’espressione «svuotò se stesso»
significa quindi che Cristo ha rinunciato in modo totale, e al tempo stesso libero e
volontario, a tutto ciò che il suo status divino comportava dal punto di vista della dignità
e del trattamento. L’autore stesso spiega che cosa significa «svuotò se stesso» mediante
l’inciso «assumendo una condizione di servo» (v. 7b). Cristo durante la sua vita terrena
non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni
dignità, autorità e potere, completamente dedito all’umile servizio degli altri. Il termine
«servo» si rifà ancora una volta al personaggio deutero-isaiano e alla sua esperienza: il
servizio consiste nell’accettazione della sofferenza in funzione della riaggregazione del
popolo, della sua conversione a Dio e del ritorno nella terra dei padri.
L’umiliazione del servo (vv. 7c-8)
Viene poi delineata l’inquadratura storica in cui si è svolta la rinunzia volontaria di Gesù:
«diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo» (v. 7cd). Colui
che era nella condizione di Dio è ora sullo stesso piano degli uomini. L’autore dell’inno
intende sottolineare come la totale somiglianza di Gesù con gli uomini si situi nel tempo
e nello spazio, sia cioè la conseguenza di un evento che si situa all’interno della storia
umana. Non si tratta però di una semplice somiglianza: durante la sua esistenza terrena
egli fu percepito, riconosciuto da quelli che l’hanno incontrato, nel suo modo di essere
e di agire, come veramente uomo, alla pari di tutti gli altri. Viene così sottolineata a
tutti gli effetti la sua piena solidarietà con il genere umano.
L’autore afferma che Gesù «umiliò se stesso» (v. 8a). Questa espressione viene usata
nel NT in contrapposizione ai sentimenti di vanità, ambizione e autoesaltazione propri
dell’uomo. L’autoumiliazione di Gesù consiste dunque nel radicale rifiuto dell’ambizione
e dell’orgoglio, e di riflesso nell’adozione di quella ferma e risoluta mitezza, aliena da
qualsiasi violenza, che è stata propria del Servo di JHWH.
Gesù ha portato a termine la sua umiliazione «facendosi obbediente fino alla morte» (v.
8b). L’aggettivo «obbediente» è unito a facendosi, che indica un atteggiamento abituale
e costante, che si caratterizza come fedeltà totale alla volontà di Dio. L’espressione
«fino alla morte» non ha un senso temporale, ma un senso qualitativo: un’obbedienza
che non cede davanti al sacrificio personale, compreso anche quello supremo della
propria vita.
L’autore infine commenta: «e a una morte di croce» (v. 8c). Questa espressione, che
rappresenta il climax dell’inno, può considerarsi come una ripetizione retorica che mette
in rilievo l’estremo grado di umiliazione a cui Gesù è andato incontro. Nel contesto
esortativo in cui l’inno è inserito l’espressione «morte di croce» assume un significato
speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi,
che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il
colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il
limite estremo dell’umiliazione.
Il Cristo esaltato (vv. 9-11)
Il movimento dell’umiliazione di Cristo, che ha toccato il suo punto più profondo nella
morte sulla croce, subisce un arresto inopinato e decisivo all’inizio del v. 9, dove si apre
uno spiraglio sulla sua esaltazione. Il linguaggio, che nei vv. 6-8 era conciso e lapidario,
diventa ora elaborato. Cambia anche il soggetto dell’azione: mentre finora chi agiva era
Gesù, a partire dal v. 9 è Dio che esalta colui che si è abbassato e gli conferisce la
dignità di Kyrios, mentre il cosmo intero dà lode a colui che aveva preso la condizione
umile di servo.
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Il nuovo brano inizia con la descrizione degli effetti che ha avuto l’umiliazione di Cristo:
«Per questo Dio lo esaltò» (v. 9a). L’espressione «per questo» sottolinea come la
radicalità della svolta che interessa la persona di Gesù ha uno stretto collegamento con
ciò che è capitato precedentemente. Proprio in forza della sua morte egli ha conseguito
un modo di essere immensamente superiore a quello dei semplici mortali. L’esaltazione
che gli è conferita appare come un esempio del modo di agire di Dio, enunciato da Gesù
stesso nei vangeli.
L’intervento divino viene ulteriormente precisato con questa affermazione: Egli «gli
donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (v. 9b). Questo è l’unico passo nel NT in
cui si parla di un atto di grazia concesso a Cristo. Dal contesto (cfr. v. 11b) si ricava che
«il nome» attribuito a Gesù è il nome stesso di Dio, JHWH, che in greco è stato tradotto
Kyrios. Il nome significa, alla luce del linguaggio biblico, non un appellativo o un
attributo specifico (in questo caso la divinità), ma piuttosto un ufficio, status, o dignità.
Per iniziativa gratuita di Dio Gesù riceve quindi lo status di Kyrios, che comporta la
suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra.
Proprio quel Gesù, che durante la sua esistenza terrena non aveva voluto avvalersi a
proprio vantaggio del suo «essere come Dio», viene ora esaltato in sommo grado,
ricevendo in dono da Dio la dignità suprema propria di Dio stesso: ciò a cui aveva
liberamente e volontariamente rinunciato come diritto lo ottiene ora come dono
gratuito.
Lo scopo dell’esaltazione di Cristo viene poi descritto in questi termini: «perché nel
nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua
proclami» (v. 10). Il «nome di Gesù» è quello che gli appartiene perché gli è stato dato
da Dio, e indica la sua signoria universale. Perciò in esso, cioè in segno di profonda
adorazione nei suoi confronti, «si pieghi ogni ginocchio... e ogni lingua proclami».
L’autore dell’inno aggiunge «nei cieli, sulla terra e sotto terra» per esplicitare il carattere
universale di tale adorazione.
L’inno cristologico raggiunge la sua conclusione quando rivela che tutto il cosmo
proclama che «Gesù Cristo è Signore» (v. 11b). Con questa formula carica di profondo
significato teologico l’autore vuole affermare che Gesù Cristo non è un signore
qualunque, ma il KYRIOS per antonomasia. Gesù, che durante la sua esistenza terrena
ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell’umiliazione, è stato innalzato alla
suprema dignità.
L’inno termina con l’espressione «a gloria di Dio Padre» (v. 11c). Si afferma che Gesù
non è il sostituto né il concorrente di Dio, in quanto la confessione della sua signoria
torna in ultima analisi a gloria di Dio Padre. A rigore di termini questa frase si riferisce
dunque direttamente all’esaltazione di Gesù. Tuttavia a giudizio di vari studiosi essa
serve come conclusione dossologica per tutto l’inno, in quanto sottolinea che anche
come esaltato egli non fa altro che prolungare quell’atteggiamento di umiltà che lo ha
portato a non usare per il proprio vantaggio personale il suo essere alla pari di Dio.
Nel corso dei secoli l’inno cristologico è stato interpretato in due modi sostanzialmente
diversi. I Padri Greci e quelli Latini fino ad Ambrogio e all’Abrosiaster hanno visto come
soggetto del brano il Verbo nella sua realtà umana concreta, cioè Gesù nella sua vita
terrena. Questa interpretazione è quella a cui si è ispirato Paolo stesso quando l’ha
utilizzato nel contesto della parenesi, e di riflesso non può essere che quella che gli
hanno dato i filippesi. Per combattere l’arianesimo Ambrogio, l’Abrosiaster e i Padri
Latini posteriori hanno invece adottato un’altra interpretazione che vede come
protagonista dell’inno il Verbo preesistente nella sua esistenza presso il Padre e nel
processo che lo ha portato a scendere in questo mondo e a prendere la natura umana.
Questa lettura del brano è diventata tradizionale, in quanto domina tutta l’esegesi
cattolica fino ai tempi moderni. È oggi convinzione abbastanza diffusa che lo schema
teologico alla base di questa interpretazione non possa essere utilizzato per la
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comprensione dell’inno e si sta ritornando progressivamente all’interpretazione
originaria.
Appare così che nell’inno la vicenda di Gesù viene letta sulla falsariga dell’esperienza di
Adamo e del Servo di JHWH. Adamo, creato a immagine di Dio, ha preteso di essere
come Dio, e così ha perso la dignità che gli era stata conferita. Gesù invece, pur essendo
in senso pieno «nella condizione di Dio», non ha fatto valere il suo privilegio in termini
di prestigio e di potere, ma ha assunto la condizione propria del Servo sofferente, dando
la sua vita come espressione della sua fedeltà totale e Dio. Sullo sfondo di questa
profonda umiliazione non bisogna dunque vedere un processo ascetico di
automortificazione, ma un impegno personale e costante per la liberazione di un popolo
ancora lacerato da profonde divisioni e impregnato di violenza. Come il Servo anche
Gesù ha mostrato in tutti i modi l’amore di Dio per i piccoli e gli emarginati, mettendo
in questione i privilegi dei ricchi e dei potenti. E proprio costoro non glielo hanno
perdonato, provocando la sua morte violenta.
Su questa linea si scorge nell’inno una percezione profonda dei rapporti unici e irripetibili
che Gesù ha con Dio, al punto di essere fin dall’inizio della sua vita terrena nella stessa
«condizione di Dio». Egli è dunque il nuovo Adamo, il quale dà origine a un’umanità
nuova, liberata dalla sopraffazione e dalla violenza. Ma ciò appare chiaramente solo alla
fine di un lungo itinerario umano in cui egli ha manifestato il suo progetto come esigenza
di fedeltà radicale a Dio e di solidarietà attiva con l’umanità. In altre parole proprio
perché egli, sulla linea del cammino percorso dal Servo di JHWH, ha rinunziato a
interpretare il suo rapporto con Dio in termini di potere e di gloria, appare al credente
come colui che, fin dall’inizio, ha dato origine a un cammino di liberazione. Il suo
abbassamento significa quindi non la perdita ma la piena affermazione del suo essere
nella «condizione di Dio», nella quale coinvolge coloro che credono in lui, dando così
inizio a una nuova umanità. Proprio in forza di questo abbassamento riceve già fin d’ora
l’omaggio escatologico di tutto il cosmo e gli sono riconosciuti i titoli cristologici di
Signore, Cristo, Servo e nuovo Adamo.
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PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
SECONDO MARCO
(14,1-15,47)
Indicazioni per la lettura dialogata:
 = Gesù; C = Cronista; A = Discepoli e amici, Folla, Altri personaggi
Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo
C Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei
sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un
inganno per farlo morire. Dicevano infatti: A «Non durante la festa,
perché non vi sia una rivolta del popolo».
Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura
C Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre
era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno
di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di
alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro,
che si indignarono: A «Perché questo spreco di profumo? Si poteva
venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». C Ed erano
infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse:  «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha
compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete
sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non
sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in
anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque
sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si
dirà anche quello che ha fatto».
Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro
C Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti
per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e
promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al
momento opportuno.
Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi
discepoli gli dissero: A «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché
tu possa mangiare la Pasqua?». C Allora mandò due dei suoi
discepoli, dicendo loro:  «Andate in città e vi verrà incontro un
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uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al
padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa
mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano
superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena
per noi». C I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come
aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà
Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e
mangiavano, Gesù disse:  «In verità io vi dico: uno di voi, colui
che mangia con me, mi tradirà». C Cominciarono a rattristarsi e a
dirgli, uno dopo l’altro: A «Sono forse io?». C Egli disse loro:  «Uno
dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio
dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal
quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non
fosse mai nato!».
Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza
C E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo
spezzò e lo diede loro, dicendo:  «Prendete, questo è il mio corpo». C Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero
tutti. E disse loro:  «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è
versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto
della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai
C Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù
disse loro:  «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:
Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». C Pietro gli disse:
A «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». C Gesù gli disse:
 «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due
volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». C Ma egli, con grande
insistenza, diceva:  «Anche se dovessi morire con te, io non ti
rinnegherò». C Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Cominciò a sentire paura e angoscia
Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi
discepoli:  «Sedetevi qui, mentre io prego». C Prese con sé Pietro,
Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse
loro:  «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e
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vegliate». C Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che,
se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva:  «Abbà!
Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non
ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». C Poi venne, li trovò
addormentati e disse a Pietro:  «Simone, dormi? Non sei riuscito
a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in
tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». C Si allontanò
di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li
trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non
sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro:
 «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio
dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta
C E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici,
e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei
sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un
segno convenuto, dicendo: A «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e
conducetelo via sotto buona scorta». C Appena giunto, gli si avvicinò
e disse: A «Rabbì» C e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e
lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo
del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro:
 «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e
bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e
non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». C Allora
tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che
aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato
cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?
Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi
dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da
lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se
ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti
e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per
metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano
il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni
si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: A «Lo
abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto
da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da
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mani d’uomo”». C Ma nemmeno così la loro testimonianza era
concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea,
interrogò Gesù dicendo: A «Non rispondi nulla? Che cosa
testimoniano costoro contro di te?». C Ma egli taceva e non
rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò
dicendogli: A «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
Gesù rispose:  «Io lo sono!
E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo».
C Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: A «Che
bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che
ve ne pare?». C Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si
misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a
dirgli: A «Fa’ il profeta!». C E i servi lo schiaffeggiavano.
Non conosco quest’uomo di cui parlate
Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del
sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò
in faccia e gli disse: A «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». C
Ma egli negò, dicendo: A «Non so e non capisco che cosa dici». C Poi
uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo,
ricominciò a dire ai presenti: A «Costui è uno di loro». C Ma egli di
nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: A «È
vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». C Ma egli cominciò
a imprecare e a giurare: A «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
C E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò
della parola che Gesù gli aveva detto:  «Prima che due volte il
gallo canti, tre volte mi rinnegherai». C E scoppiò in pianto.
Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?
E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e
tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù,
lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: A
«Tu sei il re dei Giudei?». C Ed egli rispose:  «Tu lo dici». C I capi
dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo
dicendo: A «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». C
Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato,
a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere
insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La
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folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito
concedere. Pilato rispose loro: A «Volete che io rimetta in libertà per
voi il re dei Giudei?». C Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo
avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la
folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba.
Pilato disse loro di nuovo: A «Che cosa volete dunque che io faccia
di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». C Ed essi di nuovo
gridarono: A «Crocifiggilo!». C Pilato diceva loro: A «Che male ha
fatto?». C Ma essi gridarono più forte: A «Crocifiggilo!». C Pilato,
volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro
Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse
crocifisso.
Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo
Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e
convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono
una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a
salutarlo: A «Salve, re dei Giudei!». C E gli percuotevano il capo con
una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si
prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo
spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo
condussero fuori per crocifiggerlo.
Condussero Gesù al luogo del Gòlgota
Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo
Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e
di Rufo. Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo
del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne
prese.
Con lui crocifissero anche due ladroni
Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse
ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo
crocifissero. La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il
re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e
uno alla sua sinistra.
Ha salvato altri e non può salvare se stesso!
Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e
dicendo: A «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre
giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». C Così anche i capi
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dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e
dicevano: A «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo,
il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
C E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Gesù, dando un forte grido, spirò
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del
pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce:  «Eloì, Eloì, lemà
sabactàni?», C che significa:  «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?». C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: A
«Ecco, chiama Elia!». C Uno corse a inzuppare di aceto una spugna,
la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: A «Aspettate,
vediamo se viene Elia a farlo scendere». C Ma Gesù, dando un forte
grido, spirò.
(Qui si genuflette e si fa una breve pausa).
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione,
che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo,
disse: A «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». C Vi erano anche
alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di
Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le
quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte
altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro
Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del
sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che
aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e
chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e,
chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo.
Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora,
comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo
e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una
pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di
Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
Parola del Signore.
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La passione del Signore
Mc 14,1-15,47
La liturgia di oggi ci presenta due grandi scene: la prima di gioia, l'altra di dolore.
La prima scena riguarda l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, acclamato come re da una
folla entusiasta (Mc 11, 1-10). I cristiani oggi, con la medesima esultanza, si stringono
al loro Signore, ormai vivo per sempre in mezzo a loro.
Gesù entra nella Città Santa per affrontare la sua passione. Tale ingresso, però, è un
annuncio della vittoria strabiliante che Egli riporterà sulla morte. I fedeli si associano a
Lui e rivivranno in questi giorni il suo dramma, con lo sguardo orientato verso il
traguardo della risurrezione.
Il ramoscello di palma o di olivo - che portiamo a casa o regaliamo a qualcuno - non è
un portafortuna, ma un segno-ricordo dell'esperienza di fede in Gesù che oggi abbiamo
fatto e un richiamo a restargli fedeli.
La seconda grande scena è il racconto della passione del Signore secondo Marco.
L'evangelista ha ricevuto questa storia da testimoni oculari - in primo luogo da Pietro,
di cui era discepolo -, da persone ormai certe che il Crocifisso era risorto, lo avevano
incontrato, e consideravano la tragedia finale della sua vita un immenso tesoro da non
dimenticare.
E' un dono, e anche un grande atto di saggezza, sostare in ascolto e in contemplazione
davanti alla Passione del Signore. Marco, in modo molto visualizzato, ce la fa scorrere
davanti agli occhi nella successione delle sue tragiche sequenze. Il cuore si riempirà di
gratitudine.
Focalizziamo l'attenzione su due momenti estremamente significativi, che si
corrispondono: la preghiera di Gesù nell'orto degli Ulivi e il suo grido desolato sulla
croce.
- Marco descrive anzitutto la "passione interiore" di Gesù. Schiacciato dall'angoscia e da
una tristezza mortale, Egli la confida al Padre nel suo dialogo solitario con Lui, mentre i
discepoli dormono: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a Te...". In questa preghiera Gesù
manifesta la consapevolezza del proprio rapporto filiale con Dio. Nei Vangeli questo
termine si trova solo in Marco. Se Dio è suo Padre e può tutto, perché non lo sottrae
alla prova? Ma immediatamente scatta la fiducia rinnovata e l'abbandono senza riserve:
"Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu!". Nella preghiera Gesù trova la forza
per superare la tentazione, rimanendo fedele a Dio e accettando la Passione. Nella
preghiera Gesù viene come trasformato: rinuncia alla sua volontà per abbracciare, in
una resa incondizionata, la volontà del Padre. Si rivela, così, veramente "Figlio di Dio",
a Lui perfettamente unito nell'amore.
L'agonia di Gesù continua nella storia della Chiesa, nella storia dell'umanità sofferente,
nella storia di milioni di uomini terribilmente provati nel corpo e nello spirito. In ciascuno
di essi Gesù continua a implorare la nostra attenzione, continua a ripeterci nel tentativo
di scuoterci dal sonno: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola?". E'
difficile cancellare dal nostro animo la scena di Gesù che, in preda a indicibile angoscia,
va mendicando un po' di compagnia per la sua solitudine. E gli amici gli hanno negato
la loro presenza vigile e amorevole. Gli amici non lo hanno capito. Non hanno capito il
dramma che Egli viveva. Gli amici dormivano. Quante volte Gesù ci passa accanto
implorando un gesto di attenzione, di solidarietà, di amicizia!... E’ un nostro fratello
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povero, bisognoso soprattutto di affetto...E’ sempre Lui, Gesù, e noi...restiamo
insensibili, continuiamo a dormire?
"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Queste parole, le uniche che Marco
pone sulle labbra di Gesù morente, esprimono una desolazione estrema: l'isolamento di
Gesù è totale, la sua solitudine è senza misura. Anche il Padre tace e pare abbandonarlo
completamente, ritirando la sua presenza. Gesù rivive il dramma spirituale dell'uomo
giusto, oppresso, di cui Dio sembra non ricordarsi, perché non lo protegge.
Un motivo, poi, di particolare sofferenza per Gesù sta nel fatto che la sua "causa" è la
"causa" di tutti i poveri a cui si è legato, i quali perdendo Lui perdono la speranza di
risolvere la loro situazione. Dio non interviene e sembra, così, smentire, anzi
condannare tutto l'impegno di Gesù per i poveri, mostrando che la sua approvazione va
ai capi del popolo che lo hanno mandato a morte.
Di più, Gesù vive il dramma unico del "figlio" che si sente abbandonato da colui che egli
considerava e chiamava il suo "Abba" (=papà): la sua morte, allora, è vista come la
rovina e il fallimento della "causa" stessa di Dio. Ma, più profondamente ancora, la
ragione ultima espressa nel grido di Gesù dovremmo ricercarla nella sua scelta di
spingere la sua solidarietà con gli uomini peccatori fino alle estreme conseguenze. Fino
al punto, cioè, di sperimentare l'abisso della lontananza da Dio in cui si trovano gli
uomini che sono preda del peccato. Durante l'esistenza terrena essi forse non avvertono
questo stato di separazione da Dio e quindi di morte. Lui, Gesù, lo ha condiviso e vissuto
con tragica lucidità, trasformandolo però in amore. Mentre si identifica col nostro
peccato, "abbandonato" dal Padre, Egli "si abbandona" nelle mani del Padre. Così Gesù,
gridando sulla croce, fa suo il grido di tutti i poveri, sofferenti, oppressi della storia. Fa
suo il grido dell'umanità infelice e lo lancia verso Dio. Non un grido di disperazione, ma
di sconfinata fiducia.
Gesù in croce appare come il Povero per eccellenza, il quale riassume in sé tutto il dolore
che, dall'ingresso del peccato nel mondo, ha travagliato l'umanità. Sulla croce c'è il
Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Ma
- ed è paradossalmente l'altra faccia della stessa realtà - sulla croce c'è l'Amore.
Il Padre risponderà al grido del Figlio con la risurrezione. L'evangelista però ne scorge
già la luce come anticipata in due segni, che sembrano poca cosa, ma hanno un
significato profondo: "Il velo del tempio si squarciò in due". Il vecchio tempio di
Gerusalemme cederà il posto a un tempio nuovo (= Gesù risorto), aperto anche ai
pagani, la cui fede è anticipata dalla confessione del centurione romano: "Veramente
quest'uomo era Figlio di Dio". Come è arrivato a tale scoperta? "Vistolo spirare in quel
modo". Cioè ha visto Gesù soffrire con tale amore, da intuire che soltanto il Figlio di Dio
può soffrire in questo modo, soltanto Dio è capace di un amore così incredibile.
Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito che pende dalla
croce la realtà di Dio che traspare come Amore.
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