27 Aprile 2003
n. 16
10 Domenica
INTERVISTA
SPETTACOLI
il nostro
tempo
Claudio Magris parla della trasposizione sul palcoscenico del suo libretto «La mostra», dove racconta la vicenda drammatica del pittore
triestino Vito Timmel. Nel testo una solidarietà fraterna e un gran rispetto per la prosa quotidiana. Una «scrittura notturna»
Teatro: come sedersi al caffè
TRIESTE
RENZO SANSON
Claudio Magris, che
cosa ha provato ad assistere alla rinascita
de «La mostra»?
Veder nascere questo
spettacolo è stato emozionante. Anche perchè, durante le prove, ho potuto
capire i piccoli cambiamenti che intervengono:
una parola “vista” assume in parte altri significati. Intendiamoci, potrebbero esserci (ma non è
questo il caso) degli stravolgimenti totali, in cui un
autore non si riconosce
più. Ma quando ti senti
capito, e quindi “tradotto”
(non tradito) in una nuova dimensione, è un bel
vedere come una parola o
una frase si arricchiscano nell’esser pronunciate. Basta un piccolo ritocco e si scopre che in
una battuta non c’era solo malinconia, ma anche
un pizzico di rabbia oppure celava una sfumatura d’allegria, di gioia. In
questi casi il testo originale ne viene arricchito.
Le parole del testo
scritto sono rimaste
intatte nella loro eco
più profonda una volta
approdate sul palcoscenico?
La versione scenica è stata
per me motivo di riflessione, non tanto sul prodotto, quanto sul processo
della scrittura, quindi sui
sentimenti che mi hanno
mosso a scrivere, sulle parole che dentro di me avevano e hanno una fortissima carica emotiva. Veder nascere lo spettacolo
è come tornare al momento in cui ho cominciato
a scrivere il libro. Mi sento
coinvolto in qualche cosa
FILM
che è persino più importante dello libro stesso.
Mi restituisce, più forti, le
sensazioni del vissuto, doloroso o incantevole, triste o allegro. Questo succede naturalmente anche
quando senti un altro leggere le tue pagine: si ha la
sensazione di non esserne l’autore.
In scena Timmel partecipa al suo funerale
come un fantasma?
Non è un fantasma, è piuttosto una presenza, che
Calenda sottolinea con
qualche piccola aggiunta
di regia che trovo azzeccata. Perchè non solo Timmel è lì, ma si sente che
tutti sono sempre presenti sulla scena. Perchè essere vivi o essere morti
è importante, come è importante essere al di qua
o al di là dell’oceano. Pensi al nostro amico Biagio
Marin, vivo o morto che
sia, «el xe», esiste, è una
presenza quasi fisica per
chi lo ha conosciuto. E anche Timmel dialoga tranquillamente con Sofianopulo, pur essendo uno è
di qua e l’altro di là.
Che cosa l’attira di
Timmel?
Pur sentendolo diversissimo da me (che non sono né pittore, né matto,
né morto in manicomio)
sono stato affascinato dal
suo senso di non reggere
all’intensità della vita, ai
sentimenti. E quindi, in
qualche modo, di vivere,
di amare e di sentire.
Quando fa così male che
uno cerca disperatamente
di tapparsi le orecchie, di
dimenticare, e non ci riesce. Tutto questo ho sentito fortissimamente in
Storia di Vito, eroe e vittima
di un destino autodistruttivo
ROBERTO CANZIANI
H
Un momento dello spettacolo
teatrale «La mostra», tratto dal
libro scritto un paio di anni fa da
Claudio Magris (nella foto
piccola). L’allestimento, dopo
l’esordio sul palcoscenico di
Trieste, andrà in scena in Friuli
Venezia Giulia e a Roma
questo personaggio, che
in un certo modo cerca di
dire di no. E anche in termine teatrale è la forma
più coerente e radicale di
quella che io chiamo, copiando il grande Ernesto
Sabato, la «scrittura notturna», cioè quella scrittura che non corrisponde
a quel che uno pensa
esplicitamente del mondo, alla sua opinione, alle sue idee, alle sue convinzioni filosofiche, politiche, religiose. A quello
che uno dice in prima
persona, quindi, quando
le parole vanno prese alla lettera e corrispondono alla nostra visione del
mondo. Ma è anche la vita che ogni tanto affiora
in noi in un modo che
ci stupisce. Pensieri che
uno si chiede «Ma come
«La finestra di fronte» di Ferzan Ozpetek
Un indimenticabile
Massimo Girotti
ANNA ABBATE
I sogni dimenticati, il
sospetto di una vita sprecata, il tentativo di recuperare il tempo perduto e
di darsi un’altra possibilità, l’importanza della memoria, non solo quella intima e privata, ma quella
collettiva: l’ultimo film di
Ferzan Ozpetek, «La finestra di fronte», ci racconta
tutto questo scavando nel
profondo dei sentimenti
umani, e fotografando la
quotidianità di gente comune, di gente come noi.
Ed è forse proprio per
questo, per l’aver saputo
raccontare così da vicino, in modo davvero intelligente, una storia di
persone comuni, semplice nella sua complessità,
che il film si è recentemente aggiudicato ben
cinque David di Donatello, miglior film, miglior attrice a Giovanna Mezzogiorno, miglior attore a
Massimo Girotti (premio
postumo per un grande
del cinema italiano, mancato a gennaio di quest’anno appena finite le
riprese), miglior musicista ad Andrea Guerra e
infine il David Scuola.
Un palazzone nel cuore
di Roma, oggi. Urla, confusione, colore, odori. Qui
vivono Giovanna (Mezzogiorno) e Filippo (Nigro):
pur essendo molto giovani, sono sposati da nove
anni e hanno già due figli;
lei lavora come contabile
in una polleria industriale, lui passa da un lavoro
precario all’altro. La vita
di Giovanna scorre incastrata tra i ritmi lavorativi,
la casa, la spesa, i bambini: avrebbe voluto una vita diversa, ma dignitosamente e con durezza porta avanti la famiglia. La
mai penso questo? Come
mai dico queste cose?».
Insomma spesso emerge
non la nostra fotografia,
bensì il suo negativo. Eppure siamo sempre noi.
Che cosa è per lei il teatro?
È come se io ascoltassi il
brusio della gente, i corpi che si muovono. È come sedersi in un caffè
e ascoltare le conversazioni di chi siede al tavolino accanto: non sappiamo niente, non diamo un
giudizio, sentiamo questi
brandelli di parole, le registriamo e registriamo
qualche cosa che ci interessa. Non è detto che
siamo d’accordo, però recepiamo qualcosa di intenso: due che fanno baruffa, che si incontrano,
che si amano, che “ciàco-
lano”. È una rivelazione
della vita, che magari non
condividiamo. Come dire
che la vita non ha senso,
perchè la sentiamo contraddittoria, e un attimo
dopo siamo pronti a giurare che, invece, la vita
è piena di significato.
Shakespeare ci dice che
la vita è una favola raccontata da un idiota, poi
ti presenta Giulietta e Romeo. È il privilegio o il limite della poesia. E questo non vale solo per i geni, ma per chiunque, anche per i poveri diavoli.
Ed è anche il fascino del
teatro, di una scrittura
selvaggia, intemperante,
assolutamente libera, dove dici cose di cui senti
la necessità in quel momento, e che magari non
condividi e che, anzi, ti
LIRICA
tobre del 1943, giorno in
cui i nazisti rastrellarono
il ghetto di Roma trascinando verso lo sterminio
gli ebrei romani. Il film si
snoda quindi in due storie parallele che si intrecciano tra loro, quella del
presente (Giovanna e Lorenzo si conoscono a causa del vecchio Davide, insieme tenteranno di aiutarlo e infine Lorenzo avrà
modo di dichiararle il proprio amore) e quella del
passato (la vera storia dell’ebreo Davide, un eroe di
quel giorno terribile del
1943). E sarà proprio grazie all’aver conosciuto Davide, alla sua storia, alle
sue parole («Non si accontenti di sopravvivere, Giovanna, lei deve “pretendere” di vivere in un mondo migliore e non soltanto sognarlo») che la
giovane donna troverà la
forza di rimettersi in gioco, di cambiare la sua vita
realizzando quello che ha
sempre sognato di fare.
Alla fine, nonostante tutto, la famiglia di Ozpetek
(quella unione nata dall’amore e dalla speranza,
sgomentano.
Arte, dramma, follia.
Cos’altro c’è nel suo
testo?
C’è la solidarietà fraterna
e anche grande rispetto
per la prosa quotidiana,
che s’identifica con il Direttore: una figura che ci
assomiglia, che cerca di
far quadrare i conti. È un
personaggio che mi è nato proprio scrivendo. E
che non è una parodia della critica figurativa, della
psichiatria o della burocrazia: rappresenta quella mescolanza di verità e
di retorica che c’è in tutti
noi che dobbiamo far quadrare i conti, dall’autore
del testo al regista che lo
mette in scena, dall’attore
che lo interpreta al giornalista che lo commenta
e così via.
A PRESO finalmente corpo il destino
del pittore Vito Timmel. Destino minimo e
randagio che Claudio Magris aveva inseguito nel
suo libretto «La mostra»:
nemmeno cento pagine
apparse due anni fa da
Garzanti, e ora sbocciate
nello spettacolo teatrale
che, dopo essere andato
in scena alla sala Bartoli
del Politeama Rossetti di
Trieste, è in tournée nei
teatri di Friuli Venezia
Giulia e arriverà anche
a Roma. Alla scena questo lavoro era destinato,
ma senza premeditazione. Poteva trasformarsi
in teatro, musica, persino cinema, perché non si
trattava della ricostruzione geometrica di una vita, né di un ritratto dell’artista da matto, ma del
rapprendersi (in sessantasei pagine costellate da
voci, monologhi, filastrocche) di un’esistenza «in
perdere».
L’esistenza di Vittorio
«Vito» Timmel pittore triestino, eroe e vittima di un
destino autodistruttivo e
strambo che lo aveva fatto nascere a Vienna, nel
1886, con risonanze nobili, von Thümmel, e morire
a Trieste, il primo gennaio
del 1949, ospite psichiatrico, tra le lenzuola sporche e gli inservienti del
manicomio di San Giovanni. Tra quell’esordio e
questa conclusione, il lavoro di scrittura di Magris: non il saggio letterario preparato per illuminare gli anni all’inferno
del pittore del «Ciclo delle
Maschere» e del «Taccuino Magico». E nemmeno
la rivelazione, tra il buio
della confusione mentale
e gli ultimi scarabocchi,
della luminescenza di un
personaggio geniale.
Il Timmel de «La mostra» è una figura di quelle «fughe nell’ombra» che
la vena più personale di
Magris sente il bisogno
di indagare: l’abdicazione
alla vita reale, ma un’abdicazione da re, come la
fuga di Stadelmann, il
servo di Goethe raccontato nel primo lavoro teatrale di Magris, come la
fuga di Enrico Mreule,
il protagonista di «Un altro mare». Nell’ombra ci
si accomoda dunque, da
spettatori, dopo aver superato il breve percorso di
pareti scure che introduce alla sala. C’è il tempo
per riconoscere, su questi muri, i piccoli disegni
che hanno accompagnato gli anni ospedalieri di
Timmel, visioni ordinate
e metafisiche che guidano verso un pavimento di
mattoni, un letto nero di
metallo, un fondale di finestroni pronti ad aprirsi come tanti sipari, nel-
«Les Pècheurs de perles», opera giovanile
Nell’immaginario collettivo il nome di Georges Bizet e di «Carmen», il suo capolavoro, formano un’equivalenza schiacciante; tanto da non lasciare spazio o
da lasciarne ben poco ad
A sinistra, Raul Bova e
altre partiture del francese
Giovanna Mezzogiorno ne
scivolate nell’oblio. È il ca«La finestra di fronte» di Ferzan
so dell’opera giovanile «Les
Ozpetek. Sopra, ancora la
Pécheurs de perles», 1863,
giovane interprete
che il Teatro municipale di
Piacenza, in sinergia con
quelli di Ferrara e Reggio,
e con gli anni logorata dal- ha riproposto in un’edila convivenza quotidiana zione di pregio affidata alaffaticata, delusa e astiosa, e dai problemi della
precarietà sentimentale e
finanziaria) resiste, non
si spezza, rimane unita,
non per viltà ma per alto
senso di responsabilità.
Al suo quarto lungometraggio, il regista italo-turco si conferma autore di grande sensibilità, narratore scrupoloso di vite comuni, esteta
della normalità analizzata con realismo intelligente, cineasta rapito
dalla fragilità e dall’inquietudine umana. E in
più è ammirevole il lavoro che riesce a fare sugli/
con gli attori, riuscendo
STEFANO FRASSETTO
a tirare fuori l’essenza da
L’ectoplasmatico Comiogni interprete: ma, oltre
a Giovanna Mezzogiorno, tato che dovrebbe tutebravissima nel suo dialo- lare i minori abbandonago continuo con la mac- ti di fronte allo schermo
china da presa, a Raoul ha finalmente battuto un
Bova e a Filippo Nigro, colpo. Pochi giorni fa ha
la figura per cui questo richiamato con severità il
film si colloca tra quelli «Grande Fratello», colpeche resteranno è quella vole di aver mandato in
di Massimo Girotti, gran- onda scene di sesso, conde nella prigione di una dite da volgarità assortite
vecchiaia disperata, cui durante la fascia protetta
la pellicola è dedicata. In pomeridiana. Nella deliogni sequenza che lo ve- bera emessa dal suddetto
de protagonista, sembra Comitato si invita l’Authocomparire magicamente rity per le telecomunical’intera storia del cinema zioni a prendere dei provvedimenti: verosimilmenitaliano.
la competenza di Reynald
Giovaninetti, un direttore
che sull’opera francese ha
pressoché interamente costruito una prestigiosa carriera.
I tre atti raccontano una
storia d’amore con il gusto della fiaba esotica, ambientata tra i palmizi e le
foreste dell’isola di Ceylon,
dove i pescatori di perle sfidano ogni giorno la morte
per impadronirsi dei più
preziosi frutti del mare. In
spregio ai canoni più consolidati del melodramma,
qui tenore e baritono so-
CANALE 5
no amicissimi, ed essendo innamorati della stessa
donna si sono reciprocamente giurati l’un l’altro
di tenersene alla larga. Ma
quando la giovane giunge
sull’isola in qualità di sacerdotessa, cominciano i
guai. Il melodizzare sempre felice e fecondo della
partitura restituisce il fascino oleografico della storia orientale. Poderosi interventi corali, arie egregiamente confezionate che
han fatto la fortuna dei
grandi cantanti del passato, uno per tutti Benia-
mino Gigli che rese celebre l’aria tenorile di Nadir
«Je crois entendre ancore»
che i nostri nonni conoscevano a menadito come
«Mi par d’udire ancora», si
susseguono in un caleidoscopio di tinte che spesso e volentieri fa sfoggio
di una corposa vena strumentale all’epoca aspramente tacciata di wagne-
L’Authority interviene sulla trasmissione
Il «Grande Fratello» si libera
anche degli ultimi pudori
te una multa che qualche sponsor compiacente
si accollerà senza indugi.
In questo caso specifico
la responsabilità dei sei
primati che ancora vegetano nel boudoir di Cinecittà è assai limitata.
Il merito di questo corso
accelerato in educazione
sessuale va ascritto ai geniali programmatori: sono
loro che selezionano i momenti più entusiasmanti
della giornata appena trascorsa nel bunker, per
mandarli poi in onda alle
18.30. Questa mirabile
sintesi viene trasmessa
subito dopo i disperati
«Amici di Maria De Filippi», la cronaca truculenta
di Cristina Parodi e seguita dalle “letterine” esposte
a quarti da Gerry Scotti. Il
Comitato dunque è riusci-
to a cogliere questa lieve
sfumatura nel tipico pomeriggio che Canale 5 regala quotidianamente ai
telespettatori più piccoli.
Dal canto suo il «Grande Fratello» non ha nulla
da rimproverarsi. Sin dall’inizio di questa edizione
si è capito che l’intenzione dei suoi padroni era
quella di procedere con le
reti a strascico per poter
raccattare tutti gli ascolti
possibili, anche quelli collocati più in basso. Così,
un programma che già in
passato non brillava per
misura e buon gusto si
è definitivamente liberato
degli ultimi pudori per potersi esprimere in piena
sintonia con il gusto del
Paese. Dunque la giornata nel lager allestito da
Mediaset è oggi scandita
l’impianto scenico di Pier
Paolo Bisleri.
Poi tocca al pittore rimanere sempre più spesso solo, a tu per tu con i
suoi cori. Cori di altri degenti, «in zavàte e capèl
de paia, la vestaglia a pindolòn», tutti in fila o accoccolati nel cerchio indolente, a soffrire o a ridere della propria sofferenza. Cori anche di sedie, in
vena di chiacchiere, negli
anni finali della vita trascorsi male in arnese, entrando e uscendo da San
Giovanni, sperando sempre di ridursi a un oggetto, un mobile, una cosa,
«per non sentire nulla».
Proprio là, nei cori, si
svela il modello alto e antico che la regia di Antonio
Calenda, lettore attento
delle tragedie classiche,
valorizza anche attraverso le musiche di Germano Mazzochetti. Se non
che l’indole dello scrittore, alieno qui più che mai
dalla retorica, spezza subito l’intuizione all’altezza di canti da osteria e
filastrocche per bambini.
«Go dàdo una piàda a la
tàvola»: colate laviche e
plebee di un dialetto che
spinge con forza per uscire, e esplode qua e là,
con sempre maggior frequenza, in lunghe visioni
o squarci biografici, equamente attribuibili allo
scrittore Magris e al pittore Timmel.
Un’immagine
del primo atto
dello spettacolo
con in primo
piano il baritono
Alessandro
Corbelli
Sulle scene il Bizet
scivolato nell’oblio
GIORGIO GERVASONI
sera, quando tutti sono a
letto, si concede un’abitudine segreta, quella di
spiare dalla finestra il suo
vicino di casa Lorenzo (Raoul Bova), la cui finestra è
proprio davanti alla sua.
«La finestra di fronte» del
titolo è la cornice dei sogni, il quadro delle speranze esistenziali, uno schermo luminoso acceso su
una vita diversa immaginata e desiderata come un
“principe azzurro”, la proiezione delle proprie fantasie… A sua insaputa anche Lorenzo la spia, sa
tutto di lei, i suoi orari,
le sue abitudini: è perdutamente e segretamente innamorato.
Un giorno Giovanna e
Filippo incontrano per
strada Davide, un vecchio
elegante (Massimo Girotti) che ha perso la memoria, non sa più chi sia né
da dove venga; i due decidono di aiutarlo ospitandolo qualche giorno a casa loro e l’anziano irrompe nella loro vita con un
carico di dolorosi segreti
e confusi ricordi strazianti che risalgono al 16 ot-
L’artista morto nell’ospedale psichiatrico
da dissertazioni scatologiche, palpeggiamenti e
flatulenze, nella migliore
tradizione della commedia all’italiana. Per regolamento si può parlare
di qualsiasi cosa tranne
che di politica (che è poi
lo stesso principio adottato in tutti i programmi
delle reti del Cavaliere, telegiornali compresi).
L’unica concessione al
mondo reale è stata la
bandiera della pace appesa nella saletta “confessionale” all’indomani dell’inizio della guerra all’Iraq.
Quando gli hanno comunicato che la guerra era finita, è stata subito tolta. A
quel punto hanno messo
in pratica lo slogan: «Fate
l’amore e non la guerra». I
guerrafondai del Comitato non lo hanno capito.
rismo dai contemporanei.
Oltre che sulla presenza di Giovaninetti, l’edizione piacentina poteva contare sulla maiuscola interpretazione di Zurga offerta dal baritono Alessandro
Corbelli. Sin dalla prima
scena della elezione a capo del villaggio, hai subito la percezione di avere di
fronte un eccellente cantante interprete giunto ad
un livello ottimale di maturazione. Fraseggio morbido ed elegante, eccellente dizione francese, accento incisivo, Corbelli scolpisce un personaggio ricco
di sfumature e di chiaroscuri. È un piacere nel
primo atto ascoltare il
suo famoso duetto con Nadir, che troverà un’autentica sublimazione nell’ancor più celebre duetto amicale del Don Carlo verdiano. Stefano Secco, nei
panni del giovane innamorato, fa sfoggio dei suoi
acuti facili e di un timbro
di non comune bellezza.
È un peccato che Doina
Dimitriu, dotata di una
vocalità di lirico spinto, risulti qui estranea al ruolo
di Leila, che vorrebbe invece un soprano di estrazione più lirica. Pierfrancesco Maestrini, un regista figlio d’arte che sembra
avere le idee molto chiare
in fatto di melodramma,
firma uno spettacolo dinamico e avvincente, nel segno della fiaba e dell’esotismo, in fondo i due principali elementi dell’opera
capaci di far rivivere quell’idea dell’Oriente che tutti, almeno una volta, abbiamo sognato.
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