Comune di Sormano
Gruppo Alpini di Sormano
Parrocchia S. Ambrogio
DON CARLO BANFI:
UN EROE SCONOSCIUTO
Solidarietà e impegno civile a Sormano 1943 - 1945
Documenti e testimonianze
Consulenza storica
ISTITUTO DI STORIA CONTEMPORANEA PIER AMATO PERRETTA
Associato all’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
Comune di Sormano
Gruppo Alpini di Sormano
Parrocchia S. Ambrogio
DON CARLO BANFI:
UN EROE SCONOSCIUTO
Solidarietà e impegno civile a Sormano 1943 - 1945
Documenti e testimonianze
Consulenza storica
ISTITUTO DI STORIA CONTEMPORANEA PIER AMATO PERRETTA
Associato all’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia
I
II
Tutti noi abbiamo insegnato
con la parola e coll’esempio
che quando è l’ora
si deve andare innanzi
se occorre pagare di persona.
Da una lettera di don Carlo Banfi
al dottor Angelo Bianchi Bosisio
Un po’ di bene fatto ci lascia
contenti del tempo vissuto.
Ci è grato sapere che altri ancora
possono godere la vita in grazia nostra.
Ecco un segreto per la felicità:
vivere per gli altri, non per noi soli
per la famiglia,
come voi per la scuola,
per i fratelli in tribolazione.
Da una lettera di don Carlo Banfi
al professor Ferruccio Pardo
III
Comune di Sormano - Via Trento e Trieste 14 - 22030 Sormano (Co)
Edizione Tipografia Artigiana Vallassinese - Asso
Prima edizione: aprile 2013
Si ringraziano per la collaborazione
Anita Bernasconi
Rosa Bussadori
Tiziana Meroni
Giuseppe Rizzi
Rosita Luisa Sormani
Raul Sormani
IV
INDICE
VII
Presentazione
IX
Don Valentino Viganò Dare la vita per i propri amici
1
Daniele Corbetta Salvezza e Shoah in Vallassina
10
Lina Paracchi L’aiuto agli ebrei: don Carlo Banfi, Ada Tommasi e Mario De Micheli
16
Don Carlo Banfi Passaggio in Svizzera
20
Lucio Pardo Il segreto di don Carlo Banfi: vivere per gli altri
26
Denuncia di don Carlo Banfi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato
28
Mons. Primo Discacciati Comunicazione al cardinale Schuster
30
Don Carlo Banfi Lettera informativa al cardinale Schuster
32
Emilio Canarutto Proposta di medaglia d’oro per Ada Tommasi De Micheli
35
Anna e Gioxe De Micheli Ada e Mario
40
Scialom Hassan In Isvizzera ha continuato a rincuorare e consolare
41
Don Carlo Banfi Lettera al dott. Angelo Bianchi Bosisio
45
Comunità Israelitica di Milano Ricordo perenne di gratitudine degli ebrei d’Italia
V
VI
Presentazione
La vicenda della persecuzione e sterminio degli ebrei mi sconvolse quando, da ragazzino, lessi i libri di
Primo Levi, il Diario di Anna Frank, le testimonianze dei sopravvissuti che raccontavano quanto era
successo. Non riuscivo a capacitarmi dell’enormità di quello che leggevo. Fu in queste letture che mi
imbattei per la prima volta nel nome di don Carlo Banfi: in un elenco di persone che avevano aiutato
e difeso gli ebrei veniva citato un Don Carlo di Sormano. Non ne avevo mai sentito parlare. Chiesi a
mia mamma che mi raccontò quel poco che sapeva: “si, si c’era il parroco di allora che faceva scappare
gli ebrei, anche lo zio Piero li portava in Svizzera”.
Ma era una storia di cui non si parlava. In paese i vecchi la conoscevano, ma non veniva mai rievocata.
Nei libri che raccontano la storia del paese la vicenda è completamente ignorata. Nel 1977 un articolo
di Carlo Demetrio Faroldi su L’Ordine fece conoscere qualcosa di quel periodo, ma passò quasi
inosservato.
Nel 2006 venne pubblicato il “Taccuino degli anni difficili” dell’Istituto Perretta che documentava
questi fatti insieme a molti altri di quel periodo nella nostra zona. In seguito il professor Corbetta ha
ritrovato altri documenti ed ha raccolto la testimonianza di Lina Paracchi.
Quest’anno, nel settantesimo anniversario di quelle vicende e nella ricorrenza della Festa della Liberazione,
il Comune di Sormano, la Parrocchia S. Ambrogio e il Gruppo Alpini, con la collaborazione
indispensabile dell’Itituto Perretta, hanno voluto finalmente ricostruire questo capitolo della storia del
nostro paese e ricordare le persone e i fatti di quegli anni. Ci sembra doveroso far conoscere questi
episodi di generosità ed altruismo e rendere il giusto omaggio ai loro protagonisti.
Senza voler fare paragoni con gli anni terribili 1943 – 1945, anche oggi stiamo vivendo momenti
difficili e abbiamo, tanti fratelli in tribolazione. Non a caso il cardinale Tettamanzi, nel 2008, ha dato
nuovo impulso alla Carità dell’Arcivescovo, istituzione nata in quegli anni, il cui fondatore e primo
responsabile, nominato dal Cardinale Schuster, fu l’ing. Carlo Bianchi, martire a Fossoli, allievo e
amico di Don Banfi.
La crisi che oggi travaglia la nostra società non è solo crisi economica, ma è soprattutto crisi di valori.
In queste pagine, possiamo trovare valori e norme di vita. Solidarietà umana e condivisione dei sacrifici:
con queste si esce dai periodi bui.
Quando è l’ora si deve andare innanzi, dice Don Banfi. Da queste vicende, da queste donne e uomini
possiamo trarre, umilmente, esempio per il nostro presente.
Giuseppe Sormani
Sindaco di Sormano
I
VIII
Dare la vita per i propri amici
Quando un uomo compie una scelta, porta in questo gesto tutta la sua storia. Più alta è la decisione,
maggiore è lo spessore umano che la deve accompagnare. Persone mediocri sanno produrre scelte
mediocri. Persone luminose compiono scelte luminose.
Così è stato per Don Carlo Banfi, Parroco di Sormano.
Ci troviamo al cospetto di un uomo che, per quello che la sua storia lo aveva portato ad essere, ha
scelto di mettere a disposizione la sua esistenza per consentire all’esistenza di altri di non venire umiliata
e spezzata da ideologie disumane.
Nella storia che ha portato Don Banfi a comportamenti eroici un ruolo essenziale lo ha avuto il suo
essere un Sacerdote.
Da un punto di vista pratico: il Sacerdote Cattolico non ha una famiglia sua. La sua vita appartiene
totalmente a Dio ed è a disposizione del popolo che gli è affidato. Se Don Banfi avesse avuto una
moglie e dei figli, se avesse avuto un lavoro con interessi economici, avrebbe dovuto fare i conti con
legami e doveri che avrebbero rallentato o addirittura impedito la possibilità di rischiare per altri.
Da un punto di vista interiore: un Sacerdote sa che deve conformare la sua vita a quella del Cristo. E
proprio Lui ci ha consegnato questa Parola: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita
per i propri amici”. Come Sacerdote, come Parroco, Don Banfi non ha compiuto semplicemente
azioni di squisita umanità. Lo ha spinto la Parola e l’esempio di quel Maestro a cui aveva dedicato la sua
vita. Il suo è stato un realizzare nella sua esistenza la Parola del suo Signore. Così non ha avuto paura
di spendere la sua vita per la vita di altri anche con il rischio di perderla, sicuro di quanto è detto da
Gesù: “chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo, la troverà”.
Per questa nostra Parrocchia di Sormano è motivo di orgoglio poter annoverare tra i suoi Parroci un
Sacerdote di questo spessore e scoprire con sempre rinnovata certezza quanto sia affascinante e bello
il Vangelo quando viene vissuto.
Don Valentino Viganò
Parroco di Sormano
IX
X
Daniele Corbetta
Salvezza e Shoah in Vallassina.
Bisogno di memoria - In questo tempo di crisi della convivenza (e delle certezze istituzionali, anche europee),
conviene tornare alla lezione di chi, nella Resistenza, trovò risposte che rimangono. Ripensare alla
Resistenza che è stata sorgente del nostro attuale umanesimo.
In Vallassina bisognerà ritrovare la figura di don Carlo Banfi (parroco di Sormano, 1938 – 1945), di cui
ricorre quest’anno un anniversario: quello dell’accompagnamento in Svizzera di 16 ebrei (22 – 23
novembre 1943). Fu il gesto conclusivo di una pratica pastorale - quasi un manifesto - come servizio
rivolto a tutti; in fondo, di una didattica della concretezza.
Era un senso comune alla migliore Resistenza (specie a quella appena successiva all’8 settembre, quando
il centro–nord era stato abbandonato all’occupazione nazista e mancava un’organizzazione capillare) il
dovere per ognuno di assumersi le proprie responsabilità. E’ la “spontaneità autosufficiente” delle
prime iniziative autonome, di cui parla Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella
Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991).
Don Banfi riassume questo principio etico, che ha evidenti riferimenti evangelici, in una lettera del
12.11.1949 al dott. Angelo Bianchi Bosisio, in cui ricorda l’allievo–amico Carlo Bianchi, fucilato a
Fossoli con altri 66 il 12.7.1944. Don Banfi era andato a consolare i genitori, che l’avevano guardato
con rimprovero, considerandolo quasi corresponsabile della morte del figlio (Carlo Bianchi era stato
suo allievo all’oratorio della Barona, a Milano, dove don Banfi era coadiutore).
“Tutti noi abbiamo insegnato con la parola e con l’esempio che quando è l’ora si deve andare innanzi,
se occorre pagare di persona.” Chiarissimo.
E in effetti l’ing. Carlo Bianchi, che veniva spesso a trovarlo a Sormano, era divenuto presidente della
FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani) clandestina e attivista di OSCAR (Opera Scautistica
Cattolica Aiuto ai Ricercati); poi fondatore dell’associazione “La carità dell’Arcivescovo” e collaboratore
di Teresio Olivelli. Un legame importante anche per don Banfi. Carlo Bianchi era stato arrestato con
Olivelli il 27.4.1944.
Quella stessa idea di “andare innanzi, se occorre pagare di persona” a Sormano fu praticata da tanti
altri amici e collaboratori di don Banfi: Lina Paracchi, Piero Bussadori, Alessandro Beretta, il magg.
Clemente Gatta… Soprattutto da una coppia di intellettuali comunisti, Ada Tommasi e Mario De
Micheli, che erano ospiti nel piano seminterrato della casa del parroco. Questo era il primo rifugio di
tanti perseguitati in fuga: quasi tutti cercavano una possibilità di salvezza in Svizzera; si trattava di ebrei,
ex-prigionieri alleati, oppositori politici, militari italiani sbandati. E’ un’esperienza che anticipa la
Costituzione, questa collaborazione tra diverse culture in difesa dell’uomo (e non si dimentichi che si
intitolava “L’Uomo” il giornale clandestino diffuso da Apollonio, Bontadini, Franceschini, padre Turoldo
nell’Università Cattolica).
Così Sormano si trovò ad essere, nell’autunno ’43, l’approdo di varia gente in pericolo, perché la Vallassina
1
(come del resto anche l’alta Brianza e il Lecchese) era un rifugio facilmente accessibile per chi veniva
dalla città e da più lontano.
Naturalmente arrivarono anche oppositori politici e militari coraggiosi, decisi a battersi per la dignità
dell’Italia umiliata e per un’idea di nuova società. Il comando della prima Resistenza in Vallassina fu
situato nella “Villa dei tre pini” a Sormano ed era costituito da ufficiali agli ordini del maggiore Clemente
Gatta. I partigiani del Pian del Tivano e del monte S. Primo, invece, gravitavano attorno all’albergo del
Pian del Tivano ed erano al comando di Cesare Pusinelli e del ten. Carlo Fumagalli.
Questi presìdi fornirono al parroco don Banfi una collaborazione essenziale per il soccorso ai perseguitati.
Salvezza e Shoah in Vallassina - Le iniziative di soccorso e Resistenza intrecciarono progressivamente una
rete di contatti con il CLN di Milano (dalla fine di gennaio 1944: Comitato di Liberazione Nazionale
Alta Italia) e con i CLN locali, in via di formazione.
Nella Vallassina, come nella Brianza e nel Lecchese, il più infaticabile coordinatore di questa “spontaneità”
iniziale fu Poldo Gasparotto, accademico del CAI, che verrà catturato a Milano l’11.12.1943; poi fucilato
a Fossoli il 22.6.1944. Gasparotto era in collegamento con il gruppo di Puecher a Erba - Pontelambro
e con quelli del magg. Gatta in Vallassina, di Pusinelli e Fumagalli al Pian del Tivano.
L’assistenza agli ex-prigionieri alleati in fuga, anche attraverso la Vallassina, poi il lago e le montagne di
confine, fu affidata dal CLN centrale a Sergio Kasman (“Marco”), poi a Giuseppe Bacciagaluppi (“Joe”),
che negli ultimi tempi operò dalla Svizzera.
Il solidarismo cattolico si esercitò soprattutto tramite la rete di OSCAR (don Enrico Bigatti, don Aurelio
Giussani, don Giovanni Barbareschi, don Natale Motta ecc…) con la collaborazione di molti parroci di
campagna e di confine. Contarono anche le iniziative singole, che rivelavano un sentimento diffuso,
come quella del salesiano padre Davide Perniceni, viceparroco di S. Bernardo a Lodi e cappellano di un
campo di concentramento: questi accompagnò due volte ex-prigionieri alleati fino a Sormano, per
affidarli a don Banfi. Scoperto il 17.11.1943, finirà a Mauthausen, da cui tornerà per intercessione del
card. Schuster.
In Vallassina l’afflusso di gente in pericolo crebbe notevolmente dopo il 20 settembre 1943, quando i
nazisti chiusero la frontiera a Como e Varese. Da allora fu più sicuro (benché faticoso) raggiungere la
Svizzera passando per Asso, Sormano, Magreglio, Civenna. Di là si scendeva a Nesso o Faggeto Lario,
Lezzeno, Bellagio; si attraversava il lago e si valicavano le montagne di confine.
D’altra parte la Vallassina offriva numerose possibilità di rifugio (alberghi, pensioni, case di vacanza) ed
era facilmente accessibile grazie alla Ferrovia Nord e a una discreta rete stradale. Purtroppo era facilmente
accessibile anche per le forze nazifasciste; tanto che i partigiani entro il dicembre ’43 dovettero trasferirsi
altrove (sulle montagne del lago o in Valsassina). Un ordine esplicito era stato dato in tal senso dal CLN
di Como verso la metà di novembre.
Ed è all’incirca in quel periodo che don Banfi pensò di accompagnare in Svizzera i suoi amici ebrei.
Comunque l’assistenza ai perseguitati continuerà anche nei mesi successivi, per quanto in forma
clandestina e con maggiori rischi. Purtroppo in questa fase ulteriore la Vallassina conoscerà episodi
orrendi: per gli ebrei una shoah.
Fino ai primi di maggio ’44 il più importante snodo di raccordo, per l’assistenza ai ricercati, tra il centro
2
Le SS italiane a Villa Meda, trasformata in caserma, Canzo
[Foto Paredi, Asso - Biblioteca Comunale di Canzo]
3
(CLN di Milano, poi CLNAI) e il Triangolo Lariano e il Lecchese, fu quello organizzato in Brianza dal
cap. Guido Brugger (tra Cesana, Suello, Bosisio Parini, Annone B.za, Molteno).
Guido Brugger si nascondeva nella cascina Brugné di Bosisio Parini, da dove coordinava i passaggi in
montagna, tenendo i contatti con il presidente del CLNAI, Alfredo Pizzoni, suo vecchio amico (cfr.: A.
Pizzoni, Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli, Il Mulino, Bologna 1995, p. 202); oltre che con Kasman
e Bacciagaluppi, naturalmente (Bacciagaluppi cita esplicitamente don Banfi nel suo Rapporto finale
sull’attività svolta dal C. L. N. Alta Italia in favore di ex prigionieri di guerra alleati, in “Il Movimento di
Liberazione in Italia”, 1954, 33, pp. 3-31).
Del resto lo stesso Pizzoni aveva un rifugio nelle vicinanze, a Longone al Segrino, presso l’abitazione
dell’industriale Carletto De Filippi. Brugger verrà arrestato il 4 maggio 1944 e morirà nel lager di
Gusen: un martire, di una generosità indimenticabile.
La fuga da Milano per molti ricercati (tra cui gli ebrei che approdavano numerosissimi in Vallassina),
poteva includere l’arrivo in treno alle stazioni di Merone, Pontelambro, Canzo-Asso, oppure Molteno e
Oggiono (linee Milano–Asso, Como–Lecco, Milano–Molteno–Lecco). Poi il trasferimento in montagna
con l’aiuto di partigiani o passatori retribuiti.
A prima vista appare sorprendente l’affollamento di tanti ebrei stranieri (in aggiunta agli italiani) in
Vallassina. Quali le ragioni? Oltre alla facilità di accesso e alle opportunità già viste (che certamente
sollecitarono gli afflussi dopo l’8 settembre), si può ritenere che molti vi avessero predisposto un
rifugio fin dall’approvazione delle leggi razziali nel ’38. Quei provvedimenti, tra l’altro, vietavano la
residenza in Italia agli ebrei stranieri (R. d. L. 17.11.1938, art. 17), che perciò dovevano nascondersi.
Molti ebrei stranieri (specialmente tedeschi) erano affluiti in Italia dal momento delle leggi antiebraiche
di Norimberga (settembre 1935); tanti altri a seguito dell’espansionismo nazista verso l’Austria, i Sudeti,
la Moravia, la Polonia.
Mussolini fino alla conferenza di Stresa (11–14 aprile 1935) si era atteggiato a oppositore
dell’espansionismo tedesco, a garante dello status quo. Un’amara illusione. Anche in Italia arrivò la
persecuzione razziale; con l’entrata in guerra, nel ’40, fu disposto l’internamento degli ebrei stranieri. In
Brianza, ad esempio, furono sedi di internamento Mariano Comense, Inverigo, Lambrugo, Erba…
Naturalmente tutti questi ebrei, dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e a maggior ragione dopo
l’8 settembre, fuggirono: molti in alta Brianza e Vallassina, a Canzo, Asso, Sormano, Magreglio e Civenna.
Sormano fu un approdo sicuro e una via di salvezza fino alla fine di novembre ’43; fin quando, cioè,
funzionò la rete di don Banfi. In seguito ci furono arresti e deportazioni.
Nel frattempo, infatti, i nazifascisti avevano completato l’occupazione del territorio. In ottobre le SS si
erano stanziate a Canzo; la Guardia Nazionale Repubblicana (che sostituiva la vecchia Milizia e
comprendeva anche i carabinieri) si era stabilita ad Erba, poi a Canzo, Asso, S. Valeria (amministrazione
comprendente Caglio, Sormano e Rezzago).
Bellagio era diventata un’importante sede di presidio militare e di governo per la Repubblica di Salò,
con la presenza di ambasciate e ministeri.
Nell’estate ’44 a Longone al Segrino (Villa Beldosso) si insediò una formazione militare speciale tedesca,
il Sonderkommando Magnus, dell’Abwehr II (scuola di commando per servizi speciali; si veda il saggio di
Roberta Cairoli in Taccuino degli anni difficili. Alta Brianza e Vallassina 1943-1945, Istituto di Storia
4
Contemporanea P. A. Perretta – NodoLibri, Como 2009, pp. 95-97).
Nell’ottobre ’44 Himmler trasferì ad Asso e Canzo il reggimento di artiglieria della 59.a brigata (poi
29.a divisione) delle SS italiane.
Bisogna anche ricordare che la Repubblica Sociale Italiana aveva emanato l’atto amministrativo più
abietto della storia d’Italia: l’ordine di arresto e di deportazione nei campi di sterminio di tutti gli ebrei
presenti sul territorio (Mussolini – Buffarini Guidi, 1 dicembre 1943). I fascisti di Salò non furono
soltanto spettatori, ma carnefici.
Dal dicembre ’43 la Shoah macchiò anche la Vallassina. Il Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion
(Mursia, Milano 2002) elenca numerosi ebrei arrestati a Sormano e Magreglio e assassinati nei lager
tedeschi. Persone ospiti di questi paesi, che non sono state salvate. Le ricordiamo per un debito di
onore e di solidarietà.
Arrestati a Sormano: Oliviero Ruggero Barda (arrestato nel 1943, Auschwitz, morto il 25.9.1944);
Salomone Barda e Renata Hannuna (arrestati nel 1943, Auschwitz, morti il 10.4.1944); Simeone Barda
(arrestato nel 1943, Auschwitz, data di morte ignota); Alessandro Bardavid e Violetta Pontremoli (coniugi,
arrestati il 13.3.1944, Auschwitz, data di morte ignota); Elia Bardavid (arrestato con i genitori il 13.3.1944,
Auschwitz, morto dopo il 22.1.1945).
Arrestati a Magreglio: Frieda Junger (arrestata il 13.9.1944, Ravensbrück, data di morte ignota); Finder
Breindel (arrestato il 13.9.1944, Auschwitz, data di morte ignota).
Di altri ebrei arrestati a Magreglio nella stessa data (13. 9.1944) non si hanno notizie.
Della famiglia Bardavid (padre, madre e figlio uccisi) si salvò la figlioletta Graziella, che era stata affidata
ai coniugi Maria Bonaiti e Giuseppe Mazza di Asso. Nel 1998 lo Yad Vashem onorò Maria e Giuseppe
con il riconoscimento di Giusti tra le nazioni.
I fatti di Vassena, Civenna e Magreglio – Il 13 settembre 1944 a Vassena (comune di Oliveto Lario) ci fu un
atto di guerra partigiana: l’uccisione del ten. Hermann Weber, che provocò minacce di ritorsioni sui
paesi del circondario. Invece l’esito imprevisto di quell’episodio fu la deportazione nei lager degli ebrei
rifugiati a Magreglio e Civenna.
Era stato arrestato uno dei capi partigiani dei dintorni di Bellagio, Cesare Gilardoni, e trasferito a Lecco
nella sede della GNR. I suoi compagni pensarono di catturare un ostaggio per proporre uno scambio.
Perciò disposero un posto di blocco a Vassena (sulla strada Bellagio – Lecco) e intimarono l’alt al
passaggio di un’auto tedesca, che non si fermò. Allora i partigiani fecero fuoco, ferendo gravemente il
ten. Weber. Testimonianze locali riferiscono che l’ufficiale, in punto di morte, chiese ai suoi di non
effettuare rappresaglie (cfr.: Taccuino degli anni difficili. Alta Brianza e Vallassina 1943-1945, cit., p. 91).
Comunque affluirono forze tedesche e fasciste, che rastrellarono i paesi costieri e quelli di montagna
(Oliveto Lario con le frazioni di Vassena e Limonta; Civenna con le frazioni di Magreglio e Barni),
intimando la consegna dei responsabili, pena gravi rappresaglie. Scadenza il 15 settembre. Furono presi
in ostaggio gli anziani delle famiglie con figli renitenti o sbandati. Le camicie nere appartenevano alla XI
brigata “Cesare Rodini” ed erano comandate dal cap. Antonio Ciceri, responsabile dell’Ufficio Politico
Investigativo della stessa.
Per salvare la popolazione civile furono messe in atto varie iniziative. I parroci e il commissario prefettizio
5
di Oliveto Lario si recarono alla casa del Fascio a Como, dove barattarono la salvezza della comunità
con la consegna delle armi da parte dei partigiani locali. Qualcosa di simile dovette accadere a Civenna,
dove spadroneggiava una squadra antipartigiana agli ordini del ten. Giovanni Tucci (nome di copertura,
in realtà si chiamava Emilio Poggi: un ex-agente dell’OVRA), che alternava la violenza alla concessione
di autorizzazioni, lasciapassare. Tale politica “moderata” era approvata dal capo della provincia Renato
Celio e dal questore Lorenzo Pozzoli, mentre il federale Paolo Porta, comandante della XI Brigata
Nera, propugnava una linea di intransigenza.
Un’altra iniziativa, questa più eccentrica ma certamente coordinata alle precedenti, fu messa in atto
dallo scrittore tedesco Albert Rausch, residente a Magreglio.
Rausch era stato un autore di successo, ora caduto in disgrazia e perciò confinato a Magreglio in una
specie di esilio controllato. Tuttavia conservava aderenze con elementi potenti della gerarchia nazista,
tra cui il gen. SS Paul Zimmerman, che era stato suo amico (con lui aveva condiviso una passione per
i concerti). Zimmerman era un personaggio pericolosissimo: responsabile nel Nord Italia della repressione
antioperaia. Risiedeva a Blevio (secondo certe testimonianze, a Torno). I parroci di Civenna e di Magreglio
(don Pietro Caprotti e don Ermelindo Viganò) convinsero Rausch a recarsi nella sua residenza e ve lo
accompagnarono.
Il risultato fu che Zimmerman accettò di derubricare l’uccisione ad atto di criminalità comune e di non
effettuare rappresaglie. Le ragioni di questa moderazione sono forse da identificare in un desiderio di
migliorare la propria immagine (in previsione del finale di partita, ovviamente) e di tranquillizzare il
territorio di Bellagio, che era sede di importanti istituzioni.
C’è però un documento del comune di Civenna che testimonia come in realtà una rappresaglia sia stata
fatta: sulla parte più innocente e inerme della popolazione, quella degli ebrei (quasi tutti di origine
straniera), che furono arrestati e inviati nei lager. La data è il 13 settembre 1944 (2 giorni prima della
scadenza dell’ultimatum).
Ebrei presenti al 13 settembre 1944:
Arturo Spielberger, nato a Vienna il 26/7/1887, abitante in Civenna, frazione di Magreglio.
Anna Schrank Spielberg, nata a Vienna il 27/2/1888, abitante in Civenna, frazione di Magreglio, via Milano 24.
Berta Reisman in Stossel, nata a Budapest il 25/10/1874, abitante in Civenna, frazione di Magreglio, via Milano
24.
Jacob Junger, nato a Dragonina il 5/3/1865, residente in Civenna, frazione di Magreglio.
Frieda Junger, nata a Vienna il 7/7/1903, abitante in Civenna, frazione di Magreglio.
Betti Loringen in Junger, nata a Galanta il 16/5/1885, abitante in Civenna, frazione di Magreglio, via Bologna 7.
Finder Herz Breindel, nato a Stopniza il 9/2/1890, abitante in Civenna, frazione di Magreglio.
Horn Herz Jetti, nato a Vienna il 7/10/1897, abitante in Civenna, frazione di Magreglio, via Bologna 7.
Armin Abramo Schwarz, nato a Nyitra il 23/3/1869, abitante in Civenna, frazione di Magreglio.
Sarolta Gluk Schwartz, nata a Nyitra il 8/2/1874, abitante in Civenna, frazione di Magreglio, via Milano 24.
Valeria Hoherberger Wassing, nata a Vienna il 10/8/1893, abitante in Civenna.
Felice Wassing, nato a Vienna il 18/10/1880, abitante in Civenna, via Cermenati 9.
Gli ebrei Ada della Torre in Toller, Francesca Toller, Antonio Toller, Kuzmann Rosher, Geltrude Herpe, Raffaele
Herpe, Erna Lobl Seeman, Beata Seeman, Hamelae Seeman, Silvana Seeman, Attilio della Torre, Berardo Fontanella,
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Rosa Mendelsom Jakubonschi, non sono più presenti in questo Comune.
(Dall’Archivio del Comune di Civenna. Pubblicato da P. Ceruti in Un’altra vita. Albert H. Rausch – Henry
Benrath, Grafica A.Zeta, Erba 2001, pp. 123-124.)
Come si è visto, due di queste persone, Frieda Junger e Finder Breindel, figurano nel libro di Liliana
Picciotto Fargion tra i deportati e uccisi nei campi di sterminio (rispettivamente a Ravensbrück e ad
Auschwitz). Si può ritenere con ragionevole certezza che anche gli altri siano stati arrestati; della loro
sorte nei lager non si hanno notizie.
E’ interessante osservare come quasi tutti gli ebrei arrestati fossero residenti a Magreglio. “Noi i nostri
ebrei li abbiamo salvati tutti” dicono a Civenna. La differenza stava nel fatto che Civenna era un paese
di contrabbandieri e di militari sbandati: gente esperta di montagna, disponibile ad accompagnare i
fuggiaschi per umanità o per lucro. Magreglio invece era un paese più chic, di residenze borghesi, carente
di quel particolare tessuto sociale.
I due ebrei di Civenna centro, compresi nell’elenco degli arrestati (Valeria Hoherberger Wassing e
Felice Wassing), in precedenza erano stati accompagnati alla frontiera da passatori, ma respinti dalle
guardie svizzere (cfr. la testimonianza di Zita Merzario in Taccuino degli anni difficili, cit., p. 105).
Rimane la sensazione che una permanenza rischiosa sia stata protratta troppo a lungo. Il comune era in
possesso dell’elenco degli ebrei presenti e dei salvati (di quelli che erano fuggiti per tempo). Evidentemente
gli ebrei di Civenna – Magreglio avevano raggiunto un modus vivendi con l’amministrazione, sicuramente
approvato dalla banda del ten. Tucci, che spadroneggiava in paese come un signorotto, una specie di
Kurtz (Cuore di tenebra, Conrad); che non disdegnava di prelevare tangenti dai contrabbandieri (cfr. la
testimonianza di Angelo Colombo, in Taccuino degli anni difficili, cit., p. 93).
Probabilmente mancavano a Civenna – Magreglio i necessari collegamenti con la rete di assistenza del
CLNAI, dal momento che le stesse bande partigiane erano alquanto precarie, instabili, più che altro
costituite da renitenti nascosti, militari sbandati.
Soprattutto mancavano il coraggio e il lavoro di un personaggio profetico come il parroco di Sormano.
La lezione di don Banfi – Anche nei mesi della più crudele repressione, dopo la sua partenza, rimase viva
a Sormano la lezione di don Banfi. Si è già detto che continuò, pur con maggiori difficoltà, l’attività
degli amici: Ada Tommasi e Mario De Micheli, Piero Bussadori, Alessandro Beretta, il magg. Clemente
Gatta (fin che poté)…
L’azione di don Banfi era stata tutt’altro che improvvisata. Aveva un radicamento e una proiezione
educativa nell’esperienza del movimento cattolico di allora, soprattutto dell’Azione Cattolica milanese.
Abbiamo visto il suo ruolo nella formazione di Carlo Bianchi a Milano. Bisognerà aggiungere la
frequentazione dell’industriale Angelo Testori, presidente diocesano dell’Unione Uomini di Azione
Cattolica, che risiedeva a Novate Milanese, ma era originario di Sormano. Del resto era stato proprio
Giovanni Testori, lo scrittore suo cugino, ad accompagnare i De Micheli a Sormano. In quell’ambiente
formativo avevano avuto un forte impatto le prese di posizione antirazziste di Pio XI (“L’antisemitismo
è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti”, allocuzione del 6 settembre 1938 a un gruppo di
giovani belgi della Jeunesse Catholique Ouvrière) e del card. Schuster (“Un’eresia antiromana”, omelia
del 13 novembre 1938, dove il razzismo è definito “pericolo internazionale non minore del bolscevismo”).
7
La svolta di Schuster era tanto più importante se si considera che veniva dopo un’iniziale simpatia per
il regime.
L’orientamento del parroco influenzò largamente i parrocchiani, che per la maggior parte solidarizzarono
con i perseguitati, come conferma la testimonianza di Lina Paracchi (Sormano). Favorì anche l’intesa
con i due ospiti Ada Tommasi e Mario De Micheli, che furono i principali continuatori della sua opera.
Continuarono a risiedere nel seminterrato della casa parrocchiale e a ospitare perseguitati, nonostante
le sgradevoli contestazioni da parte della curia milanese, finché furono arrestati nell’estate ’44. I loro
nomi sono ricordati nello Yad Vashem di Israele.
Del resto lo stesso don Banfi ebbe qualche difficoltà a giustificare presso la burocrazia curiale l’abbandono
della parrocchia (che in realtà non restò senza preti, essendo stato nominato un sostituto, padre Gaetano
Cappellini).
Nel dopoguerra continuò con modestia la sua attività nelle parrocchie di Mesenzana (Varese) e di
Gorla (Milano), senza rivendicare meriti, convinto di avere semplicemente adempiuto ai suoi doveri.
Ebbe la riconoscenza della Comunità Ebraica di Milano e l’amicizia di persone che aveva salvato o che
l’avevano conosciuto nei momenti di difficoltà.
A noi quell’esperienza di Sormano rimane come un frammento della parte migliore della Resistenza,
quella che ha praticato nel concreto, cioè nel vissuto, i Principi Fondamentali della Costituzione,
anticipandola.
Rimane, accanto al dolore per le vittime di un’aberrazione storica, la lezione morale di don Carlo Banfi:
interpretò un’idea di parroco-fratello di credenti e non credenti, che vede in chi soffre l’icona del santo
volto.
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Lina Paracchi
L’aiuto agli ebrei: don Carlo Banfi, Ada Tommasi e
Mario De Micheli.
Intervista del 10 luglio 2010 a cura del prof. Daniele Corbetta
D Quando iniziò questa presenza di ebrei a Sormano?
R Già nel ‘43. Io facevo le punture alle famiglie Cappelluto; poi Modena, anche… C’era qui il dottore,
mio fratello, e mi diceva: “Tu fai finta di niente, tu fai le punture”. Facevo da infermiera a mio fratello
Natalino, lui era medico interinale. In queste circostanze avevo occasione di vedere gli ebrei che
arrivavano. Perché fossero venuti non lo sapevo, che fossero ebrei lo sapevo. Ce n’erano tanti, di tutti i
tipi: ce n’erano dai Molteni, ce n’erano soprattutto dai Conti. Questi qui che sono scappati e sono
venuti da me, erano dai Conti.
D Quando sono arrivati a Sormano?
R Non so, ma nel ’42 - ‘43 c’erano già.
D In genere dove erano sistemati?
R Ah, erano ospitati in case private.
D Sappiamo che qui c’erano anche molti ebrei di origine straniera…
R Guardi, questo io non lo so. C’erano famiglie che vendevano anche, come si dice, delle pietre preziose…
ori. Quelli lì erano giù all’albergo dove c’è adesso il Luigi, al “Miravalle”. Un’altra famiglia era là dove
andava a servire la zia Bambina. E questi qui una notte sono spariti: avevano possibilità, erano
commercianti.
D Una volta ha raccontato di avere salvato degli ebrei.
R Sì. Ero giù sul terrazzo, dove allora c’era un lavatoio, con la donna di servizio che curava i bambini.
Arriva dentro ‘sta madre con una bambina e dice: “Signora, c’è il dottore?” Ma dopo un minuto: “Eh,
sa signora… noi siamo ebrei… ci stanno buttando fuori dalla stanza la nostra roba, le nostre cose…”.
Abitavano nella casa del Conti Antonio, la casa era del Conti Giuseppe. “Signora, io sono scappata, ma
adesso mi nasconda… mi metta in qualche posto!” Avevano buttato fuori la loro roba.
D E questo chi lo faceva?
R Le SS. Erano salite a fare una perquisizione e loro due erano scappate. La casa aveva due uscite: una
più grande e una lì dietro, dove c’è il Meroni. Il marito non è venuto qui, è scappato dal Molteni; è
andato là col figlio. Io avevo nel camino un calderone, era un lunedì. Sarà stato il primo o il secondo
lunedì del mese. Di questo sono certa, di aprile ’44. Ho tirato giù il calderone dal camino (perché
avevamo un grande camino con le ante) e ho messo dentro la mamma con la bambina, le ho nascoste.
Poco dopo sono arrivati due con il moschetto… non lo so se erano italiani o tedeschi, perché ero
talmente confusa… e hanno chiesto alla donna che era fuori a lavare: “E’ lei la padrona?” “No.”
Allora sono andata fuori io. “Ah. E’ lei la padrona? Allora faccia saltar fuori gli ebrei.” “Guardi, io non
ho visto nessuno.” (Ecco, sono più commossa adesso che allora.) E dice: “Lei ha qui gli ebrei. Li han
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Perquisizione delle SS alla famiglia ebrea Vita, Asso
[Foto Paredi, Asso]
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visti entrare e adesso li faccia saltar fuori”. “Io non sono mica obbligata a far declinare le generalità a
tutti, non è possibile. C’è qui il dottore.” “Ah sì? Mi faccia girar la casa.”
D Quindi erano italiani?
R No. Adesso che ci penso erano tedeschi, ma c’era insieme un italiano che faceva da guida […].
Quello lì faceva la spia. Qui c’era una famiglia… c’erano qui degli sfollati… poi di sopra un’altra
famiglia… li abbiamo accompagnati a visitarli tutti. E non li hanno trovati. Allora hanno minacciato:
“Adesso noi usciamo e lei sta qui. Perché lei deve bruciare con gli ebrei. Noi adesso bruciamo la casa”.
E io che avevo due fratelli nascosti! Avevamo fatto una specie di bunker in un prato a monte; però ogni
tanto venivano giù a fare la barba. Erano nascosti in un casel, dove si metteva là il formaggio. Adesso
dove saranno, cosa faranno? Ma la casa non l’hanno bruciata.
Ad ogni modo abbiamo bagnato una ventina di lenzuola e le abbiamo messe nei corridoi, distese lungo
il loggiato. Poi abbiamo tirato fuori quelle là - che si erano anche un po’ scottate - e le abbiamo fatte
salire in cascina. Le lenzuola servivano a non farle vedere. Sono rimaste in cascina finché è venuta sera.
Intanto le abbiamo cambiate, perché per combinazione mi era morta anche una sorella e avevo i vestiti.
Mia sorella aveva lasciato qui due bambini. Difatti quello che accompagnava i tedeschi aveva cercato di
farli parlare: “Dov’è che hai visto il tuo zio?” “Non c’è lo zio, è andato via.”
Alpe Spezzola: luogo di transito di partigiani, ebrei, rifugiati, prigionieri alleati in fuga
[Archivio privato Cesare Gilardoni, Civenna]
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Poi di notte quella donna che era qui a servizio - era di Arzignano - li ha portati su al Pizzo, sopra
Lasnigo. Hanno attraversato il Lambro e sono andati dal parroco di Lasnigo, che li ha tenuti tre giorni
sul campanile. Dopo un po’ li hanno accompagnati giù a Onno e da Onno hanno fatto la traversata e
sono andati a prendere il treno. Sono stati nascosti tutto il tempo a Milano. Dopo la guerra sono tornati
a salutarmi, io allora mi ero già sposata.
D Come si chiamavano?
R E’ passato tanto tempo, ma credo che fossero i Cappelluto… O i Modena o i Cappelluto. E mi è
stato detto che sono l’unica famiglia che si è salvata di quelli che sono stati cercati qui, nel ‘44. Allora
don Carlo era già andato in Svizzera. Mi hanno portato un cuscino per ricordo.
D Continuiamo a parlare di Sormano. C’erano molti rifugiati e figure importanti della Resistenza:
anzitutto il parroco Don Carlo Banfi, poi due intellettuali milanesi, Ada Tommasi e Mario De Micheli.
Parliamo di queste parsone.
R Quando son venuti a Sormano, è stato il Testori Giovanni, lo scrittore, che me li ha portati
personalmente. Lui e sua mamma - c’era insieme sora Lina, anche lei Paracchi, che era di Lasnigo perché li mettessimo a posto. Sono arrivati qua nel ‘41 - ‘42, credo.
D I De Micheli sono stati arrestati nel luglio ’44.
R Quando erano qui, avevano una scuola a Milano, che non mi ricordo quale fosse.
Ogni tanto facevano lezioni private qui a casa nostra, in questa cucina. Poi però aumentavano sempre
più gli allievi, tutta gente danarosa. E allora mio papà e mia mamma hanno detto: “Ghe domandom a don
Lina Paracchi nel giorno del suo novantesimo compleanno
[Archivio privato famiglia Invernizzi, Novate Milanese]
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Banfi, che ha giù quel posto lì”. Mio padre era fabbriciere della parrocchia, sapeva come era costruita la
casa. Infatti don Banfi li ha accolti subito, nel suo seminterrato; il seminterrato della canonica. C’è
ancora adesso, lì adesso c’è il sagrestano. Facevano lezione nel salone grande della casa del parroco.
D E il famoso refettorio, dove ospitavano gli ebrei e altri perseguitati, dov’era?
R Sarà stato dietro la loro abitazione, nel seminterrato.
D Sapevate dell’aiuto che davano agli ebrei?
R No, di loro sapevamo che erano comunisti. Non hanno mai accennato a questa attività.
D Parliamo di don Carlo Banfi.
R Aveva un coraggio… perché aveva due sorelle, Erminia e Maria, che facevano da perpetue, ma non
aveva neanche le suole da cambiare! Perché ghe n’era minga… Probabilmente dava tutto agli ebrei e a
quelli che avevano bisogno. Era povero. C’erano qui anche suo papà e suo fratello, che faceva il calzolaio.
Il papà è morto qui. Sugli ebrei era molto riservato, quando è rimasto via si è saputo che era andato con
gli ebrei. Per la mia famiglia sono stati mesi cruciali, pieni di disgrazie. Mio fratello, questo qui che è
rimasto, andando a caccia aveva preso una schioppettata (volevano prendere una lepre). Poi si è ammalata
mia sorella, aveva 28 anni, ed è morta; ha lasciato lì due bambini piccoli. Poi mi è morta mia mamma.
E i fratelli nascosti. Insomma è stato un macello, peggio di così…
D Quando don Banfi è andato in Svizzera con gli ebrei, cos’è successo in paese? Successivamente altri
ebrei sono stati arrestati e portati nei lager.
R Sì. Poi hanno detto che solo quelli lì che ha portato via don Banfi si sono salvati. Gli unici! Gli altri
sono stati uccisi. Invece quello lì, quel …taleone [si intenda: Portaleone, n. d. r.] - doveva essere il giorno di
Natale o di Pasqua quando sua moglie ha avuto un’emorragia, forse aveva perso un bambino - ha
chiamato di notte mio fratello, che abitava qui. E lui è andato subito di notte e l’ha salvata per miracolo,
se no moriva dissanguata, ‘sta povera donna, era la moglie di un ebreo. Quando l’ho rivisto dopo la
guerra, era il preside di una scuola. La scuola Leonardo da Vinci a Milano. Giù vicino alla stazione.
Loro erano ebrei che erano qui sfollati, ce n’erano parecchi qui sfollati nella villa rossa. Si chiamavano…
Pantaleone… no, Portaleone! Quello lì io l’ho trovato come preside nella scuola Leonardo da Vinci,
dove ha studiato mio figlio. Vicino alla Nord. E mi ha contato su: “Pensi, sono stato ad Auschwitz - o
a Dachau, non mi ricordo più bene - [nota della testimone]! Ho preso tante botte e ci avevo un rene
solo…” Però è tornato, io li ho rivisti negli anni ‘60.
D Invece le famiglie che sono state arrestate e poi uccise nei lager si chiamavano Bardavid, Barda,
Hannuna, Pontremoli…
R Anche a Lasnigo ce n’erano...
D Quando don Banfi è andato in Svizzera, i De Micheli hanno continuato la sua opera. Questo fino
all’estate ’44, quando li ha presi il famigerato Pankoff. Ma alla fine li ha lasciati andare. Cosa possiamo
ricordare? Non sono più tornati a Sormano?
R No no. Non si sono più visti. Saranno tornati a Milano, saranno andati via tramite i Testori… Si vede
che il Gianni… bisogna dire che lui era proprio un comunista…
D Giovanni Testori era andato a scuola dai coniugi De Micheli?
R Senz’altro. Allora Mario arrivava dentro da quel portone… e mia mamma stava facendo il minestrone…
La sera arrivavano da Milano, quando uscivano andavano a Milano. Perché in giro non è che Mario
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Il vecchio Miravalle negli anni ‘40.
[Cartolina d’epoca dalla collezione Rosa Bussadori, Sormano]
camminava molto. Lui usciva il tempo di andare a prendere la corriera; perché non camminava tanto,
era bello zoppo, eh! Senza l’Ada non usciva mai. Ci siamo sentiti ancora dopo la guerra con lui e con
l’Ada. Allora arrivava dentro e diceva: “Senti, Ada, che bel profumo che viene dalla cucina della signora
Martina.” E le la faseva: “O sciur Mario, l’è rivaa?” “Sì, cosa sta facendo?” “Un bel minestrone.” “Ah, che
bel profumo si sente!” “Sciur Mario, se stasera el vegn giò a respund al rusari gh’en do una bela marmitina per tutt
e du e anca per la tusa.” Perchè c’era anche la bambina.
“Hai sentito Ada? Dobbiamo venire a mangiare e a rispondere al rosario. Ebbene, hai fame? Sì.
Cominciamo a prendere la minestra. Poi veniamo giù a rispondere al rosario.” E venivano a rispondere
al rosario! Quante volte hanno fatto così! Eravamo tutta una famiglia, sa. Poi suonavano l’ocarina…
quando il mandolino… quando la mandola e cantavano. Cantavano: “Corpo de… sangue de… in duvé te
sett Marianna, sangue de biss…” Lui faceva sempre il marito, la moglie cantava in falsetto. C’era un rapporto
di amicizia, ma tanto. Tra l’altro non avevano mai i soldi per pagare l’affitto. Spendevano tutto in libri.
Poi quando prendevano il ‘27 arrivavano con un gabaret cosi. E mia mamma: “Oh, ma si propi por bagai!”.
Ora che pagaven i debiti e portà su cose inutili, ghe n’even pu.
D E don Banfi frequentava le case della gente? Era di compagnia?
R No. Non era un compagnone come il De Micheli, era un uomo riservato. In famiglia da noi veniva
spesso, perché c’era qui il fabricer che doveva firmare. L’era semper chi. Era una persona simpaticissima.
Ma brava!
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Don Carlo Banfi
Passaggio in Svizzera
Archivio Storico Diocesano, Milano, Fondo Resistenza.
ll Sac. Don Carlo Banfi fu Antonio,
nato a Saronno il 10.09.1903, ordinato l’ 11 giugno 1927 al tempo dei fatti, luglio ‘ 43 luglio ’45 Parroco
a Sormano, si è trovato compromesso nella Resistenza senza averci mai pensato. Tornato dalla Svizzera
il 25.07.1945 riprese la sua vita di Parroco, senza pensar più altro. Solo dopo aver ricevuto la lettera del
Cancelliere della Curia si decise a scrivere le note che seguono.
Tutto cominciò nel luglio ’43. Stando io in Sormano vennero da me i fratelli Hassan Scialom e Leone,
e il sig. Hannuna. Ebrei, di Tripoli, cittadini italiani. Hassan residenti a Milano Hannuna rientrato dalla
Francia dopo essere sfuggito alla Gestapo per intervento del Console italiano, perché cittadini italiani.
Erano sfollati a Asso, ma non si sentivano sicuri. Cercavano un alloggio in Sormano dove vivere ignorati
e quieti. Trovato l’alloggio, si sistemarono e … respirarono.
Venne il 25 luglio. Caduta di Mussolini . Breve euforia. Presto vennero i tedeschi. Dissi a tutti: Per ora
non c’è pericolo, quando si presentirà vi avvertirò. Arrivò l’otto settembre. Proclama di Badoglio,
disorganizzazione dell’esercito, militari che tornano a casa, se possono, e chi abita in zona occupata
cerca un rifugio dove può. Di questi parecchi arrivano a Sormano. Diversi Colonnelli qui sfollati si
interessano di questi e trovano per loro un rifugio al Pian del Tivano, ma occorre in Sormano un posto
di tappa e raccolta prima di mandarli lassù colle guide. Nel salone dell’Oratorio si preparano tavoli e
coperte (data dai sigg. Testori e Beretta). La cucina già disposta per la refezione scolastica darà i pasti..
E arrivano i prigionieri di guerra. Li porta un giorno Don Davide Perniceni, Ex Salesiano, missionario
in India, è Cappellano di un campo Prigionieri nella zona di Lodi. Dopo l’8 settembre fugge la guardia,
e fuggono i prigionieri, ma arrivano i Tedeschi e li catturano per mandarli in Germania. Si avviano alla
Svizzera via Como e Varese, ma in poco tempo i tedeschi bloccano i passi. Don Davide tenta la via di
Sormano. Perché? Deve aver sentito che di lì è possibile andare in Svizzera. Difatti, soldati o sbandati
o renitenti alla leva han trovato il passo: Pian-Tivano , discesa a Nesso, traversata a Torrigia, albergo del
Tabacco e confine.
Una e due volte venne D. Perniceni con prigionieri, ed una terza ne mandò un gruppo con una guida.
Intanto siamo arrivati a Novembre. Le guide ci dicono che la strada è dura, più dura la notte per il
freddo; se la cosa deve continuare, occorre provvedere. Per conoscere de visu la situazione faccio una
volta il percorso. Con difficoltà ma senza pericolo, entriamo in Svizzera da Bruzzella. Con ingenua
semplicità diciamo il motivo della nostra venuta, ma la guardia di frontiera scuote il capo: ma Reverendo.
Siamo in guerra, la frontiera è chiusa, lei ha commesso un reato violandola. Io dovrei consegnarla alla
Polizia. Benevolmente suppongo di averlo fermato alla frontiera e lo rimando immediatamente. Prima
di partire dissi: Io ho della gente in pericolo: ebrei, prigionieri, soldati che presto o tardi dovrò condurre
quì. La Confederazione riceve chi è in pericolo, ma chi decide è il Comando di Polizia.
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Non passarono molti giorni ed il pericolo si presentò: si volevano far paracadutare armi sul Pian Tivano.
Il presidio tedesco di Erba sarebbe subito intervenuto. Dissi agli ebrei che era necessario partire. Qui la
sorpresa: tre ne conoscevo, ma alla partenza diventarono 16. Spuntarono bambine di 5 e 6 e 7 anni,
uomini attempati, vecchie signore che non riuscivano bene a camminare. Non c’era tempo per discutere,
e fare complicati preparativi, eppure tutto andò bene. Si offrirono di accompagnarci e fu provvidenza,
Crivelli, Bussadori e Haardt. Durante la faticosa salita trovammo aiuto nei boscaioli della zona, e le
Guardie di Finanza ci indicarono il punto in cui si poteva alzare la rete di confine e passare. Il difficile
vene dopo: passata la rete,le donne ed i vecchi non vollero più avanzare. Non ne potevano più. La china
era ripida, il fondo sdrucciolevole, il luogo deserto. Cercai di convincere almeno i validi ad andare
avanti ma non vollero. Non era tempo né luogo da tergiversare. Troncai gli indugi e mi misi in cammino.
Veduta di Sormano fine anni ‘40
[Cartolina d’epoca dalla collezione Rosa Bussadori, Sormano]
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Chi può mi segua. Scesi un poco, trovammo un sentiero e poco dopo le guardie svizzere. Senza una
parola ci guidarono al posto di dogana. Il comandante del posto mi riconobbe e disse: Questa volta
devo proprio consegnarlo alla Polizia. Niente in contrario, però lassù al 47 (numero sulla rete di confine)
ci sono donne e bambini che attendono aiuto. “Bene. Sarà provveduto.”
Rifocillati, ci condussero al posto di raccolta in Bruzzella. Intanto arrivarono tutti gli altri. Si dormì
sulla paglia, ed al mattino ci condussero a Mendrisio e nel pomeriggio a Chiasso, dove trovammo altri,
ebrei e no, entrati nella notte. Da Chiasso ci portarono a Bellinzona al Comando di Polizia. Fatto
l’interrogatorio, gli ebrei ebbero Asilo, Crivelli che mi aveva voluto accompagnare ebbe un mese di
arresto, ed io 5 giorni di arresto. Spiegatomi colla Polizia il giorno dopo fui libero e, per intervento del
Vescovo Mons. Jelmini, condotto a Lugano e consegnato al Seminario, ospite di Monsignor Vescovo.
Ero salvo in Svizzera ma senza mezzi e senza il minimo corredo. Rendo quindi omaggio alla carità di
Mons. Jelmini che mi ospitò nel suo seminario per più di tre mesi. Mi permise anche qualche opera di
ministero, finchè per la Pasqua del 1944 fui assegnato come cappellano ad un campo di internati, prima
come provvisorio, poi come effettivo con largo stipendio. La mia sede era Klendietwil nel settore di
Langental in Cantone di Berna. Mio superiore immediato era il Rev. Bruno Heim oggi Vescovo
Internunzio in America Latina. Egli risiedeva in Rohrbach. Cappellano del settore era Don Giuseppe
Carozzi di Como. Avevo in consegna sei campi di internati italiani che dovevo periodicamente visitare.
Fu così fino all’autunno del ‘ 44 quando, dopo l’effimera Repubblica di Domodossola, si rifugiarono in
Svizzera i partigiani della Val D’Ossola e della Val Toce. Dopo diversi spostamenti in Tracselvald e in
Lutzelflue, ritornai in Klendietwil coi partigiani. Con loro rimasi sino alla fine. Al momento di rimpatriare
fui fermato ala frontiera e rimandato al campo, perché il mio nome non c’era sull’elenco del Comando
militare. Difatti io civile ero addetto al servizio dei campi ma ero civile. Dovetti restare internato fino al
25 luglio 1945 quando, finito l’internamento, tutti i servizi vennero rimpatriati: Comandi, Magazzini,
Furerie ecc.
Dirò una parola anche dei miei rapporti ecclesiastici nel tempo dell’internamento. Ho detto che il
giorno dopo il mio arrivo a Bellinzona, liberato dalla Polizia sono stato dato in consegna a Mons.
Jelmini Vescovo di Lugano. Lui fece sapere al Cardinal Schuster che io ero a Lugano. Il Cardinale di
risposta disse al Vescovo di non lasciarmi partire, se volessi rientrare, perché a Sormano c’era una
reazione fortissima delle autorità per quanto faceva la Resistenza del luogo, ma tutti erano anonimi; io
solo ero conosciuto per nome, e tornando avrei pagato per tutti.
Dopo il 25 aprile la prospettiva era di tornare quanto prima. Ma dove? A Sormano c’era un altro
Parroco; io non avevo più casa. Scrissi al Cardinale di assegnarmi una Parrocchia dove poter andare. Mi
assegnò Mesenzane. Saputo questo Mons. Jelmini mi sollecitava a partire, ma a Soletta Mons. Streng,
dopo un ritiro ci fece promettere che nessun Cappellano sarebbe partito clandestino, per non lasciare
i campi senza assistenza.
Dopo il 25 aprile arrivarono alla frontiera gli Alleati ed ognuno che rientrasse era sottoposto al loro
controllo. Ci potevano essere criminali di guerra o spie o collaborazionisti. Dalla Svizzera prima di
partire una schedatura della Croce Rossa, al confino foglio alleato di rientro che doveva servire come
foglio di via, tessera viveri, e controllo sussidi avuti.
18
Arrivati a Como la mattinata del 26 luglio, arrivai a Sormano la sera accolto da una ovazione del popolo.
Ebbi aiuti, riconoscimenti, ed attesati vari che metto qui di seguito come documentazione.
Attestato del Comando Volontari della Libertà
Comando Settore di Asso
Attestato del Comune di Santa Valeria
Attestato e premio del Comando Alleato Alta Italia.
Attestato della Comunità Israelitica di Milano
E qui ci dovrebbe essere il brevetto di Partigiano, ma non c’è. Motivo? Con molta premura me lo
offrivano in quei giorni, il Partito Comunista ed il Partito d’Azione ai quali appartenevano quelle che
con me lavorarono nei giorni in cui di partiti neppur si parlava. C’era un solo partito: Italia. Allora il
brevetto di partigiano non mi interessava e la lasciai perdere. Più tardi pensando ai possibili vantaggi
che la legge concedeva ai partigiani, ne feci richiesta alla Democrazia Cristiana tramite l’On. Clerici.
Con lui ci eravamo visti a Lugano cogli On. Migliori e Malvestiti. Lui sapeva e poteva testimoniare , ma
ero fuori tempo massimo. Per legge l’era di liberazione era chiusa, e brevetti non si concedevano più.
Nessun male, nessun dispiacere ma per la verità qui la cosa si doveva dire.
La conclusione. Se questo album di ricordi fosse stato preparato nei giorni immediatamente seguenti ai
fatti, sarebbe completato con attestazioni e firme di testimoni. Ma alla data di oggi 23 novembre 1978,
a 33 anni di distanza dai fatti molte persone sono morte, ed altre disperse per il mondo. D’altra parte la
mia vicenda è stata breve, e non ci sono fatti che si possano mettere in discussione, essendo avvenuti
alla luce del sole , ed hanno la testimonianza: prima della Svizzera, di tutto Sormano. Dopo l’ingresso
in Svizzera, delle Autorità Competenti: Polizia Svizzera degli Stranieri, egli Ecc. Vescovi di Lugano e di
Basilea. Quanto a me ho la coscienza di aver fatto solo il mio dovere. Chiunque avrebbe fatto altrettanto.
Fatto e firmato in Varese – Casa S. Giuseppe – il 28 Nov. 1978
In fede di tutto
Sac. Don Carlo Banfi
19
Lucio Pardo
Il segreto di don Carlo Banfi
Lucio Pardo era bambino, rifugiato in Svizzera con la famiglia, quando conobbe Don Banfi. Questa è la testimonianza
di quegli eventi.
Anni fa Anna Amendola giornalista RAI presentò in TV (e poi in un libro) testimonianze dell’ultimo
conflitto mondiale intitolate “La Mia Guerra”.
C’era anche mia madre Iris Volli, così:
“Il 25 novembre del 1943 riparammo fortunosamente in Svizzera. Non fu affatto semplice... tutti i passaggi, tutte le
frontiere erano chiuse e sorvegliate dai tedeschi...
Due mesi prima per i continui bombardamenti su Bologna eravamo sfollati a Budrio (circa 20 km. dalla città) in affitto
in un piccolo appartamento. Mio marito però veniva a Bologna regolarmente per dare lezioni private di matematica ad
alcuni studenti.
Una mattina perse il treno, arrivò a Bologna in ritardo. Tornò a Bologna due giorni dopo. Stava per aprire il cancello del
nostro appartamento al primo piano, già studio notarile, sotto la scuola elementare ebraica ove insegnavo. Ma sentì una
voce da sopra le scale: ‘Professore, non entri venga, venga qua...’ Era l’inquilino del quarto piano del nostro stesso stabile.
Aggiunse: ‘Per carità, non entri in casa sua, venga un momentino da me...’ Andarono nel suo appartamento attraverso
quanto restava dell’antica torre degli Orsi. Gli raccontò che due giorni prima un poliziotto nazista, con un carabiniere,
era venuto a cercarlo, interrogando inquilini e passanti, sostando lungamente in attesa (era stato proprio quando mio
marito aveva perso il treno…) Alfredo Giommi, retta e coraggiosa persona, da allora non aveva più avuto pace. Sapeva
che mio marito quasi regolarmente veniva in città, ed era stato tre giorni lì, sulle scale, davanti alla sua porta ad attenderlo
per avvertirlo del pericolo. Era sicuro che sarebbero senz’altro tornati. E lo fecero. Il sig. Giommi accettò le chiavi di casa
nostra, gli mostrò dove le avrebbe nascoste, lo salutò, rifiutò un rimborso spese, dicendo: ‘Ora servono più a te che a me.
Quando tornerai festeggeremo insieme’, come hanno fatto per tutta la vita.
Per strada incontrò ancora chi lo scongiurò di andarsene e tornò subito a Budrio.
Preoccupato, ma non sconvolto; non vide nostro figlio. ‘Dov’è Lucio?’ - chiese - e subito corse fuori. Vide che giocava con
gli altri bambini. Tornò dentro, mi informò e disse: ‘Andiamo via subito, non possiamo più rimanere qui...’ “Andiamo.
Ma dove andiamo? Qui non conosciamo nessuno...’ ‘Via - insisteva - presto!’ ‘Sì, ma domani dovremo venire a prendere
qualcosa da mangiare, da vestire...’
Dicemmo alla signora Bonoli: ‘Siamo ebrei, dobbiamo partire, ci vogliono uccidere tutti…’ ‘Ma… anche i bambini?’,
poi non riuscì più a parlare, piangeva... Allora il marito chiese: ‘Ma cosa avete fatto?’ ‘Niente, siamo ebrei… ha capito
che siamo ebrei?’ Lo guarda e dice: ‘E allora? Non siete Cristiani come noi?’ E la moglie aggiunge: ‘Ma cosa volete fare?
Dove volete andare? Lasciateci almeno i bambini...’
Chiedemmo un carro... qualcosa per trasportare noi e un po’ di cose che avevamo cominciato frettolosamente ad imballare.
Faceva notte ed eravamo sfiniti quando ci avvisarono: ‘Abbiamo trovato un carro con due buoi. Se volete, a mezzanotte
sarà qui...’ Eravamo stanchissimi, i bambini dormivano. Aggiunsero: ‘…oppure domattina...’
Io quella notte feci venti casse di roba, mio marito raccolse i suoi manoscritti (anni di ricerche e di faticoso lavoro poi
riconosciuti dalla Treccani).
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Alle cinque del mattino svegliai i bambini. Presi pure i materassi sui quali dormivano. Partimmo che era ancora buio. A
Bologna dovevamo prendere un treno per Milano.
Ma la stazione non esisteva più: distrutta dalle bombe.
Andammo più a Nord, a Borgo Panigale. Il capo stazione, viste le casse, esclamò: ‘Signora, ma non sono neanche chiuse,
come faccio a caricargliele?’ Firmai che mi assumevo io la responsabilità del viaggio.
Soltanto alla stazione di Milano: sventurati fra tanti sventurati, profughi fra tanti profughi, fra gente che dormiva per
terra, soldati sbandati, distesi con gli zaini sotto alla testa, con le sirene che fuori ululavano l’allarme aereo, derelitti fra
tanti derelitti, ma finalmente anonimi potemmo tirare un sospiro di sollievo. Finalmente eravamo uguali a tutti gli altri...
‘Qui nessuno ci conosce, - pensammo - forse in questo momento i nazisti ci cercano ancora a Bologna o forse già a
Budrio...’ Ed intanto, ossessivo, l’altoparlante martellava: ‘Milano! Stazione di Milano! Coprifuoco ! Chi esce dalla
stazione sarà passato per le armi!’ (E sempre a mio figlio in qualunque stazione, anche estera, l’altoparlante ricorda
sempre quell’annuncio!)
Partimmo per Solzago la mattina seguente. Scaricando, una grossa cassa si sfasciò ed il contenuto si sparpagliò al suolo...
Ernesto Raffa, mio cognato, Ingegnere Capo del Genio Civile, risiedeva in Como.
Mio marito andava a Milano per dare lezioni e la sera, se tardava qualche minuto, io ero col cuore in gola per la paura
che l’avessero preso. Stavo in casa, i nostri bambini scendevano a giocare con gli altri bambini.
Un giorno mi dissero: ‘Domenica nella casa vicina danno una festa. Hanno invitato noi e te, andiamo? Vieni?’ Mandai
loro due. Come rispondere a domande, dire chi ero?
Rientrarono e mi dissero: ‘Tutti i bambini erano con le loro mamme, solo noi eravamo soli, tutti ci hanno chiesto di te...’
Dopo la guerra mio marito ha scritto a questi vicini: ‘Scusateci, non vi abbiamo mai ringraziato e neanche salutato, ma
sapete, siamo ebrei ed eravamo ricercati.’
Immediata la risposta: ‘L’avevamo capito benissimo, cercavamo solo di rendere meno amaro questo periodo della vostra
vita.’
Gemma Volli, mia sorella, sfollata a Laglio viene a trovarci: ‘Com’è che siete qua?’ ‘Siamo vicini alla Svizzera, dove
pensiamo di andare… E tu?’ ‘Perché ci siete voi. Volete andare in Svizzera? Ci andremo insieme, lasciate fare a me.’
Ritorna Il giorno dopo: ‘Adesso la frontiera è aperta, ho preso contatto con dei contrabbandieri che ci porteranno fino al
confine. Occorre roba pesante, scarpe adatte perché la mulattiera che dovremo percorrere può essere ghiacciata. Sul
Bisbino ha nevicato e noi lo dobbiamo oltrepassare. Mi hanno assicurato che vi procureranno due muli. Potrete portare
uno zaino per persona, niente di più!’ ‘Valigie?’ ‘No, niente valigie! Ci sarà pure un portatore per portare la bambina
fino al confine.’”
***
Scendiamo a Como, giriamo tutto il giorno per comperare il necessario. Alla sera gli zii preparano dei
letti improvvisati. Ma la mamma è sfinita. Per la stanchezza, l’agitazione, l’immobilità forzata e per non
svegliare mia sorella, dorme poco e male.
Alla mattina non può muoversi, tutta anchilosata come un pezzo di legno. Con uno sforzo immane
arriva fino al bagno e lì sviene. Come potrà affrontare la montagna?
Ma é curata bene. Mio padre la sostiene. Risaliamo a Solzago.
Due giorni dopo, la mattina presto, scendiamo a Laglio: il battello ci porta all’altra sponda del lago. Da
li un’erta mulattiera andava fino alla cima innevata del Monte Bisbino. Il piccolo gruppo s’avvia per la
salita. Dopo un po’ ecco i contrabbandieri che devono portarci in Svizzera con i muli ed un giovane di
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20 anni che deve portare mia sorella Ariella in braccio fino al confine. Con noi si è unita la famiglia
Cafàz di Bologna marito e moglie. Per la moglie il marito ha contrattato un mulo. Per noi due muli per
gli zaini, due su ogni mulo. Ariella é presa in braccio. Sembra molto grassa. Indossa due vestiti e due
cappotti. Ci avviamo. Io, sette anni, snello e leggero, sono sempre avanti a tutta la fila indiana.
Davanti alla mamma cammina un mulo. La mulattiera è ripida, stretta. Il mulo cammina sempre rasente
al muro. Uno zaino sfrega sempre contro le pietre del muro contro ripa, che sovrasta la strada.
Camminiamo da ore. La mamma guarda con terrore il mulo e pensa: adesso la tela dello zaino si
sbriciola e semina tutto il contenuto nella zona sottostante.
Imbruniva ed é stanca. Si attacca alla coda del mulo. È un aiuto. Camminiamo nel più assoluto silenzio.
Ad un tratto per una mossa brusca perde la coda del mulo, inciampa e cade. Ariella grida per lo spavento...
é buio... pensa che la mamma sia rotolata in fondo al burrone. È zittita con una mano sulla bocca e dalle
parole: “Tua mamma ora è morta, ma non vogliamo morire anche noi”. Aveva tre anni e mezzo. Mai
più ha dimenticato. A tuttoggi se qualcosa la spaventa vuole gridare, ma la voce la muore in gola…
La mamma si rialza e proseguiamo. In silenzio.
Io sono avanti a tutti, con qualche zolletta di zucchero, con l’energia dei miei sette anni e lo sguardo in
avanti. Non ho visto e non ho saputo niente fino a qualche anno fa.
Dopo la notte passata in una malga di pastori, all’alba riprendiamo la marcia nel buio dell’alba invernale,
in cresta facendo ben attenzione ai crepacci coperti da un velo di ghiaccio azzurrino. Dopo un po’ ci
indicano una caserma che s’intravede da lontano. “Là ci sono i tedeschi” dicono. “Adesso non fiatate!
Avanti!”
E poi, con il Bisbino alle spalle, la rete! Dal foro, sul pendio a strapiombo ci rotoliamo giù, non si riesce
a stare in piedi. Ci sono tante montagnole ove viene prodotta della carbonella con la combustione
incompleta del legno, ma la pendenza è sempre forte.
Ci sediamo per terra : é giorno fatto.
Un doganiere svizzero ci viene incontro. Tiene il figlioletto in mano. “Non si può entrare, dovete
tornare in Italia.” Ariella lo guarda e dice: “Ma lì ci sono i tedeschi che vogliono prenderci per
ammazzarci…”
Lui la prende in braccio e ci avviamo verso la casa cantoniera.
Seguita a dire: “Bisogna tornare indietro” e intanto suo figlio, un ragazzino di sette o otto anni, mi
mette in mano di nascosto una mela ed una tavoletta di cioccolata…
Nella casa cantoniera di Bruzzella aspettiamo da Bellinzona l’assenso della Polizia Cantonale.
Il giorno dopo siamo condotti a Chiasso. Scortati da due guardie, saliamo sul postale. Dai vestiti si
capisce che siamo profughi. Piove, ad Ariella hanno regalato una mantellina impermeabile con il
cappuccio. Una signora seduta vicino a lei chiede: “Come ti chiami? Da dove vieni?” Lei risponde,
mentre tutti la guardano, ed aggiunge con chiarezza: “Siamo qui perché i tedeschi volevano ammazzarci
tutti”.
Sull’autobus cala il silenzio. Una signora di fronte a noi ha gli occhi lucidi…
Nella grande caserma di Chiasso l’accettazione.
Dopo la doccia obbligatoria, ci mettono in mano un biglietto. C’è scritto: S.P. e i miei pensano: “S. P. =
Servizi Pesanti? Ma anche ai bambini?” Più tardi - seppi - ci svelano il significato: “Senza pidocchi”.
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La procedura é completata, abbiamo nuovamente dei documenti di identità veri, le sole annotazioni
servono per assegnarci le razioni dei viveri, niente più razza e discriminazioni. È il Libretto per rifugiati.
Entriamo nel grande refettorio, ci danno il nostro primo “caffè completo” con pane , burro, marmellata.
In fondo, proprio di fronte a noi, si apre una porta, entra un sacerdote cattolico: Don Carlo Banfi.
Per l’ennesima volta è riuscito a portare in salvo un numeroso gruppo di ebrei, fra i quali pure una
novantenne e molti bambini.
Quando entra nel refettorio della caserma le persone si alzano, si avvicinano, alcuni baciano i lembi
della sua veste ed altri si inginocchiano davanti a lui.
Come la limatura di ferro accanto ad una calamita sono tutti attorno a lui.
Mio padre vuole conoscerlo. Per anni nel dopoguerra gli scrive.
Veduta di Sormano nel 1925
La freccia indica la casa dei pini, rifugio dei partigiani del Maggiore Clemente Gatta
[Cartolina d’epoca da collezione privata - Edizione Oleotti, Asso]
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La Svizzera ci accoglie. Nel 1944 – 45, nel Castello di Trevano, sopra Lugano, il Governo dell’Italia
libera organizza un Liceo - convitto, presieduto da mio padre Ferruccio Pardo, per aiutare i profughi
più giovani a recuperare gli anni scolastici perduti. C’erano studenti, docenti, famiglie e diverse altre
persone dai più vecchi ai più giovani: dal vecchio Alpron alla piccola Ariella.
Quel mezzogiorno di luglio del ’45 in cui il prof. Pinchetti, decano del corpo insegnante annuncia il
ritorno in Italia tutti scattano in piedi.
È festa grande per tutto il giorno.
Due giorni dopo da Como giungono i camion americani.
Tre giorni dopo la famiglia Pardo è a Bologna.
L’appartamento di via Zamboni é stato requisito dalla polizia fascista ed assegnato ad un nucleo familiare
di tre persone. Altri venticinque parenti sono poi venuti dalla campagna, portando oche e galline,
conigli e mangime.
Nella grande terrazza sulla Piazza di Porta Ravegnana, al primo piano di via Zamboni n.2 hanno
sistemato fornelli all’aperto alimentati dai libri e dalle riviste della biblioteca di casa.
Quella notte Alfredo Giommi, grande invalido della guerra di Libia, dorme per terra insieme ai suoi per
lasciare i letti alla famiglia Pardo.
La vita riprende faticosamente, ma mio padre conserva le vere amicizie delle ore difficili. Fra le carte
più care l’ultima lettera di Don Carlo Banfi.
È una calligrafia bella e chiara, una lettera semplice, ma che a noi dice tanto,
Prof. Pardo,
Così è! Siamo ancora qui.
e possiamo ringraziare Dio di esserci.
E quanti non sono più tornati, dopo
quei giorni!
Un po’ di bene fatto ci lascia
contenti del tempo vissuto. Ci è
grato sapere che altri ancora possono
godere la vita in grazia nostra.
Ecco un segreto per la felicità:
vivere per gli altri, non per noi soli
per la famiglia, come voi
per la scuola,
per i fratelli in tribolazione.
Grazie del ricordo che contraccambio.
Augurio di anni molti e felici
Don Carlo Banfi.
24
Lettera autografa di don Carlo Banfi al prof. Ferruccio Pardo
[Archivio privato della famiglia Pardo, Bologna ]
25
Denuncia di don Carlo Banfi al Tribunale Speciale per
la Difesa dello Stato
Archivio di Stato, Como, Fondo Gabinetto di Prefettura II versamento, Carte Scassellati, Cart. 1 n.1 a/C
REGIA QUESTURA DI COMO
N°0452G/GAB.
Como, 18 Febbraio 1944 . XXII
OGGETTO: CAPARARO Giancarlo di Guido e di Camilla Chiara, nato a Erba il 2.7.1910, domiciliato
ad Albavilla Via dei Crotti, impiegato Cassa Risparmio;
BANFI Carlo fu Antonio e fu Galli Antonietta, nato a Saronno il 9.9.1903, parroco di Sormano
AL TRIBUNALE SPECIALE PER LA DIFESA DELLO STATO - SUA SEDE
E p.c. ALL’ECCELLENZA IL CAPO DELLA PROVINCIA – COMO
La persona in oggetto subito dopo l’8 settembre abbandonava la sua abituale dimora e si dava alla
campagna. Giunto pertanto a Sormano di S. Valeria si portava nell’abitazione di un fascista intimandogli
a mano armata di consegnargli le armi che il predetto deteneva. In tale occasione il Capararo dichiarò
che era a contatto con alcune personalità fra le quali il Generale Pariani e che il gruppo per il quale egli
agiva era sovvenzionato dal Senatore De Capitani di Milano.
In data 17 del mese di novembre per gli addebiti sopracitati si procedeva al fermo del Capararo. Questi
interrogato una prima volta negava di avere minacciato lo squadrista [...] di Sormano allo scopo di farsi
consegnare le armi in suo possesso e negava anche di avere dichiarato che era in contatto con alcune
personalità tra le quali il Generale Pariani e di avere affermato che il gruppo per il quale egli agiva era
sovvenzionato dal Senatore De Capitani di Milano. Ammetteva tuttavia di avere potuto fare dei nomi
di personalità molto in vista in quell’epoca.
Aggiungeva di essersi trovato a Sormano verso la metà del mese di settembre mentre si dirigeva a
Casargo per sottrarsi alle operazioni di rastrellamento dei Militari sbandati da parte delle forze armate
tedesche.
Secondo le sue dichiarazioni egli si sarebbe recato in casa del [...] per una visita amichevole ed avrebbe
ottenuto dal [...] stessi una pistola “Beretta” calibro 6,35, della quale si sarebbe liberato il giorno dopo
gettandola nel lago di Como, essendo venuto a conoscenza della proibizione di detenzione di armi.
Contrariamente a quanto dichiara il Capararo, il [...] afferma che il Capararo si recò in casa sua verso la
mezzanotte, unitamente a due giovani ed al parroco Don Carlo Banfi. Il Capararo gli dichiarò che ai
piani di Resinelli presso Lecco un Colonnello deli alpini organizzava gli sbandati, a suo dire finanziati
da alcuni industriali fra cui il Senatore De Capitani d’Arzago di Milano, e che gli inglesi ormai erano a
26
trenta chilometri da Roma. Poiché il Capararo lasciò capire di essere pronto ad usare la maniera forte,
vedi secondo verbale di interrogatorio, egli fu costretto a consegnargli una pistola “Beretta” calibro
6,35- Non è vero infine che detta pistola sia stata gettata nel lago, poiché il padre del Capararo la restituì
al [...] verso la fine di novembre. Dette dichiarazioni concordano con quelle del giovane Cesare Capararo
che aveva accompagnato il fratello Giancarlo attraverso i monti. Il Capararo si recò in casa del [...] per
consiglio del parroco di Sormano Don Carlo Banfi, noto sostenitore degli sbandati della località e che
aveva alloggiati vari sbandati in casa propria.
Il Capararo era un po’ brillo poiché oltre ad essersi fatto offrire da bere dal [...], aveva già bevuto in casa
del parroco e nella trattoria Porta Carlo (vedi secondo verbale di interrogatorio) dove sostò in sua
attesa il fratello Cesare che pare quindi estraneo al fatto. Un attenuante al gesto compiuto dal Capararo
è il fatto che egli il giorno dopo il discorso del Duce liberato, rientrò ad Albavilla ed aderì in seguito al
Partito Repubblicano. Il Parroco Don Carlo Banfi è da tempo scomparso da Sormano e pare che si sia
recato in Svizzera con un gruppo di persone espatriate clandestinamente. Sorge anche il sospetto che il
Capararo abbia avuto contatto sia pure per qualche giorno con elementi che in seguito assunsero colori
antifascisti compiendo i noti misfatti contro le persone e contro il patrimonio.
Sta di fatto che anch’egli ha ricorso all’ausilio del famigerato Don Carlo Banfi, Parroco di Sormano a
mezzo del quale assunse le notizie per potersi procurare a qualsiasi costo una pistola.
Il predetto Parroco va lumeggiato con tutti i caratteri richiesti dalla sua losca figura. Egli non solo era
un accanito antifascista, al cui scopo aveva sovvertito il suo sacro Ministero, come si rileva dalle
dichiarazioni del [...], del [...] e del Gatta allegati in stralcio al presente rapporto, ma era notorio che le
sue prediche dal Pulpito servivano per aizzare la popolazione alla disubbidienza alle leggi dello Stato ed
alla lotta contro il nascente Stato Repubblicano.
Con tali orientamenti egli si scelse una posto di primo ordine, schierandosi dapprima a favore degli
sbandati, successivamente a fianco dei ribelli e dei loro capi (vedi rapporto inviato al Tribunale Speciale
per la Difesa dello Stato a carico del Ten. Col. Gatta e Carletti).
Infine prendeva apertamente le difese degli ebrei, dichiarati nemici della Patria, e con questi si allontanava
dal territorio della Repubblica, espatriando clandestinamente nella vicina Svizzera, donde non risulta
che sia ancora rientrato.
Si denunziano per quanto sopra il Capararo a piede libero a norma degli articoli 265- 266-270 2^
capoverso , 271 1^ capoverso, 286 1^ parte, 305-306 e 610 aggravata dalle condizioni previste dall’art.
399 del C.P ed il Parroco Banfi in contumacia per i reati previsti dagli art. 265-266-270-272-285-286302-303-306 e 307 del C.P nonché per la violazione delle disposizioni che regolano il trattamento ai
cittadini di razza ebraica, considerati nemici della Patria.
Si allegano gli atti assunti.
IL QUESTORE
(Console Lorenzo Pozzoli)
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Monsignor Primo Discacciati
Comunicazione al cardinale Schuster
Archivio Storico Diocesano, Milano, Carte Schuster, n. 29179.
Asso 3-12-1943
Em.za Rev.ma
Il Sacerdote che fa da Coadiutore a Sormano, Giovedì 25/11 in occasione della
Congregazione Plebana in Asso mi comunicava che il Parroco di Sormano si sarebbe
assentato dalla parrocchia alcuni giorni, ma certamente sarebbe rientrato prima di
Domenica 28/11.
Lunedì 29/11 il Coadiutore di Somano tornava ad avvisarmi che il Parroco non era
ancora rientrato, ma lo si aspettava da un momento all’altro.
Dove era andato? Aveva varcato il confine svizzero - ignoro il motivo.
Ho pregato il Coadiutore di telefonarmi immediatamente appena fosse arrivato per poi
mettermi in comunicazione con lui ed avere spiegazioni.
Oggi alle 17 il Parroco di Caglio è venuto da me a comunicarmi che il Parroco di Sormano
non ancora era ritornato in paese e che il Questore di Como lo cercava e voleva vederlo…
Da più di un mese, per una disgraziata caduta, devo camminare col bastone, non posso
quindi muovermi come vorrei e le circostanze consigliano
Ho dato al Parroco di Caglio le direttive per assumere più dettagliate notizie a fonte
sicura perché si naviga nel buio.
Domani verrà a riferirmi in merito ed io potrò essere più preciso anche con V. Eminenza.
Ho esposto in succinto i fatti come sono a mia conoscenza: ho tardato e non l’ho fatto
prima perché ogni giorno speravo nel ritorno del Parroco.
Ora sembra che le cose si complicano.
Baciando il lembo della Sacra Porpora
Umiliss. In Xsto
Rev. Discacciati Primo
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Testimonianza di buona e volenterosa collaborazione di don Carlo Banfi a Piero Bussadori
[Archivio privato Rosa Bussadori, Sormano]
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Don Carlo Banfi
Lettera informativa al Cardinale Schuster
Archivio Storico Diocesano, Milano, Ultimi Tempi di un Regime, n. 307.
KLEINDIETWIL 19/06/1944
Eminenza Reverendissima,
scrivo queste righe nella speranza che possano giungere sino a voi, e per dirvi, in seguito a quali
circostanze mi son trovato esule in terra straniera, dopo aver abbandonata la mia parrocchia.
A dir vero avevo prevenuto il Prevosto di Asso della possibilità di una mia improvvisa scomparsa,
ma lui non riteneva che il fatto dovesse avverarsi mancandone i motivi. Egli infatti non sapeva quanto
io mi fossi compromesso, dopo che ebbi assistito i pochi ebrei che egli mi aveva mandati.
Subito dopo l’armistizio, Sormano ed i monti soprastanti, eran divenuti nascondiglio di disertori,
a cui provvedevano alti ufficiali residenti sul posto. L’amichevole confidenza ed il bisogno, spinsero
quelli a domandare, e me a concedere, in diversi modi, aiuto e consiglio. Poi la necessità di disciplinare
le cose e di avere sussidi consigliarono di far capo al Comitato Milanese di Liberazione.
D’altra parte verso la fine di settembre, un sacerdote Salesiano, già cappellano di un campo di
prigionieri, domandò il mio aiuto per poter far arrivare in salvo, in Svizzera, parecchi di questi infelici
che sfuggiti al campo, vagavano per la campagna di Lodi, ed a lui si raccomandavano. Casa mia cominciò
così ad esser luogo di tappa per prigionieri che provenienti da diverse parti, giungevano a Sormano, si
rifocillavano e poi proseguivano per i monti dove un altro punto di tappa, munito di guide, provvedeva
all’inoltro fino alla frontiera. La faccenda continuò bene per un mese circa poi, don Davide fu arrestato
coi suoi collaboratori ed io ne ebbi notizia solo due settimane dopo, quando già ero sul punto di partire.
Non basta. Il Comitato di Milano ritenne di dover agire anche nella zona di Sormano, e poiché
ciò avrebbe senz’altro messo in pericolo gli ebrei che vi stavano occultati, occorreva provvedere a
metterli in salvo. Poiché ero già venuto in svizzera una prima volta e ne ero tornato presto e bene, non
ritenni imprudente aderire all’insistente preghiera degli ebrei, ormai divenuti amici, di accompagnarli
per garantirli dai tiri birboni delle guide e dei contrabbandieri; e dalla certezza di restare in salvo.
Fu così che il 22 nov. Partii da Sormano, dove lasciavo altro Sacerdote, con 16 ebrei; e dopo due
giorni di viaggio, assai duro, arrivai alla frontiera. Qui, tentai un’ultima volta di ritornare lasciando gli
altri al sicuro, ma quelli a piangere; che non sapevan la via, che il luogo (un pendio scosceso e viscido)
era impraticabile per le donne ed i bambini, che se venissero rimandati come era già loro occorso altra
volta, mal li avrebbe incolti per non saper la via del ritorno, ecc. ecc. . Non era quello il luogo ed il
tempo di far discussioni, per cui mi decisi a guidar la comitiva fino in fondo. Il risultato fu che, ritenuto
dalle Autorità di frontiera, trattato come passatore di contrabbando, ebbi 5 giorni di arresto a partire
dal venerdì sera. Presi a riflettere: a Milano 13 Sacerdoti erano già stati arrestati (me l’aveva detto il
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Prevosto di Asso); il passo alla frontiera presentava ben maggiori pericoli all’uscita, che non all’entrata;
a casa il lavoro mi comprometteva ogni giorno più, ed era già di pubblica ragione. Pensai: potior est
conditio possidentis¼ Prudenza vuole che si resti. Ma per non far di mio capo, dopo la preghiera chiesi
consiglio ad un Sacerdote di qui, e secondo il suo consiglio, chiesi di rimanere. Era il sabato 27 nov.
1943, a mezzogiorno.
Queste cose deve averle già dette a voi D. Cirillo Monzani, ed anche un’altro Sacerdote che in incognito
partì da qui e venne da Voi portando il mio saluto e chiedendo la Pastorale benedizione.
Sono rimasto 4 mesi a Lugano in Seminario, e dal 25 aprile sono cappellano di un campo di internati a
Kleindietwil nel canton di Berna.
Don Carlo Banfi
Parroco di Sormano
La vallata di Sormano e la chiesa parrocchiale all’epoca di don Carlo Banfi
[Cartolina d’epoca da collezione privata. Edizioni Prato Bambina, Sormano]
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Emilio E. Canarutto
Proposta di medaglia d’oro per Ada Tommasi De
Micheli
Archivio Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano
Milano, 16 marzo 1955.
Oggetto:
DOTT.SSA DE MICHELI ADA NATA TOMMASI
Piazza Lima, 1 - MILANO tel. 27.60.48
Detta signora, attualmente attiva nelle trasmissioni televisive della Radio Italiana, insieme al marito
prof. Mario De Micheli, critico d’arte, ha svolto una importante opera di salvataggio e di assistenza agli
ebrei fuggitivi, organizzando nel paese di Sormano di S. Valeria, a sette km. Da Canzo il lavoro di aiuto
per il passaggio dei profughi oltre frontiera, esponendosi a gravissimi rischi e subendo, insieme al
marito, le conseguenze di tale sua attività.
Il prof. Mario De Micheli venne anche arrestato con quattro capi di accusa di cui il primo era
“per aver organizzato il salvataggio degli ebrei”. Gli altri capi di accusa erano: “noto comunista”,
cifrario segreto”, “elenco di armi”.
L’attività in favore dei profughi ebrei veniva però svolta in modo particolare dalla signora Ada
De Micheli Tommasi nel seminterrato annesso alla parrocchia di Sormano di S. Valeria, dove il parroco,
Don Carlo, forniva pure la propria assistenza per l’accompagnamento in Svizzera.
La signora De Micheli ha così salvato una trentina di ebrei, fra uomini, donne e bambini,
fornendo loro anche denari, vitto e vesti, nei casi più disperati.
La signora De Micheli profittava del fatto che la parrocchia si trovava al termine della scorciatoia
sul dirupo per recarsi alla frontiera. Ed i profughi venivano prelevati alla stazione di Canzo dove alcune
staffette li convogliavano nel seminterrato anzidetto.
Nel luglio del 1944 la signora De Micheli prelevava il signor Haardt nella casa in cui era nascosto,
e trattandosi di un sessantenne infermo, lo accompagnava attraverso il paese, brulicante di brigatisti
neri, sino a Milano, mentre gli stessi fascisti, in possesso del nome del Haardt, perquisivano il rifugio di
questi e la casa della signora De Micheli.
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Ritornata la signora De Micheli a Sormano, essa veniva arrestata col marito, per mandato del
questore di Como, Pozzuoli e del capo della polizia, Saletta, noto seviziatore, che si serviva per le sue
indagini del famigerato russo - bianco Pankoff.
Lo stesso Pankoff interrogò i coniugi De Micheli per 24 ore consecutive, dichiarando che egli
avrebbe proposto la loro esecuzione immediata.
I coniugi De Micheli resistettero nei loro dinieghi e riuscirono a salvarsi, non esistendo prove
contro di loro.
L’episodio dell’Haardt verrà confermato, nei prossimi giorni, dal figlio Ruggero, vivente,
commerciante in tessuti, dato che il padre è frattempo deceduto.
Subito dopo questo episodio, che è stato quello culminante, il paese Sormano di S. Valeria è stato
completamente invaso dai fascisti, che volevano impedire la continuazione dell’opera di salvataggio,
procedendo ad arresti di numerosi ebrei, provvisoriamente nascosti in diverse case, colla speranza di
raggiungere la Svizzera.
La signora dott.ssa Ada De Micheli Tommasi risponde alle nostre esigenze nei riguardi del dosaggio
politico e me lo ha provato, ma data l’attuale situazione di lavoro, desidera che nella motivazione non si
faccia assolutamente cenno delle sue ideologie.
L’attività sua e di suo marito era completamente disinteressata, dovrà essere attribuita
esclusivamente a solidarietà umana e politica.
(Emilio E. Canarutto)
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consegna medaglia d’oro
La consegna della medaglia d’oro della Comunità Ebraica ad Ada Tommasi De Micheli
[Archivio privato famiglia De Micheli, Milano]
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Anna e Gioxe De Micheli
Ada e Mario
Questo scritto, dei figli Anna e Gioxe, ripercorre la storia dei coniugi De Micheli, con particolare riguardo al periodo
trascorso a Sormano.
Ada Tommasi e Mario De Micheli si incontrano nel 1938 a Milano all’Università Cattolica. Ada, una
bella ragazza bruna arrivata da Parma dove viveva con la famiglia, era nata a Poggio Rusco in provincia
di Mantova. La madre era maestra e il padre cappellaio. Mario è un bel giovanotto biondo con gli occhi
azzurri - pare che gli occhi azzurri piacquero molto all’Ada - ed è approdato a Milano dopo uno strano
percorso che lo aveva portato dalla nativa Genova a Gubbio e a Roma, dove aveva intrapreso gli studi
di Tomistica. Nella città ligure, la mamma Pierina, che era nata a Trezzo, aveva un carretto di frutta e
verdura e il padre, profugo dalla Dalmazia, era tagliatore di tomaie. Soldi ce n’erano pochi e Mario,
come i giovani poveri di un tempo, “aveva studiato da prete”.
A Milano i due ragazzi diventano ben presto innamorati e antifascisti. I loro amici sono Ernesto Treccani,
Raffaele De Grada, Giacomo Manzù, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo. Malgrado l’oscurantismo
del regime sono anni di grande fermento culturale; gli amici discutono, progettano, sognano l’Europa,
il surrealismo, il cubismo, Eluard, Breton, Picasso, Tristan Tzara. E progettano possibili strategie contro
il potere. All’inizio degli anni Quaranta Mario pubblica due libri che aprono la sua attività: uno su
Picasso corredato dalle poesie che Eluard aveva dedicato al grande artista e uno su Manzù. La seconda
edizione del Picasso sarà sequestrata dalla censura fascista, mentre il Manzù uscirà nelle edizioni di
Corrente, il movimento milanese a cui ha aderito.
Ada e Mario nel ‘41 si sposano e nel ’42 nasce la figlia Anna. Per vivere insegnano, fanno supplenze,
danno lezioni private. Tutto attorno c’è la guerra. Entrano in contatto con il gruppo di Eugenio Curiel
e prendono attivamente parte alla Resistenza.
Nel 1943, Ada, Mario e Anna, abitano in via degli Arditi (oggi via Cerva), ma, dopo che una bomba
colpisce il loro palazzo, si trasferiscono a Sormano di Santa Valeria, in provincia di Como, inizialmente
ospiti delle sorelle di Giovanni Testori e poi della famiglia Paracchi. In seguito, don Carlo Banfi, parroco
del paese, offre alla famiglia un piccolo appartamento e uno spazio dove insegnare ai ragazzi delle
medie. Qui, Ada e Mario organizzano la fuga verso la vicina Svizzera di numerosi ebrei. Per questo
motivo Ada è insignita della medaglia d’oro della Comunità Ebraica italiana e il suo nome e quello di
Mario sono scolpiti nel Muro dei Giusti a Gerusalemme.
Nel settembre del ’44, di notte, i fascisti fanno irruzione nella loro casa. In quei giorni Mario sta
traducendo la Marcia trionfale, di Thomas Eliot. Nella perquisizione le “camicie nere” sequestrano dei
fogli che così recitano:
Cosa viene per primo? Puoi vedere? Diccelo.
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Sono
5.800 fucili e carabine
102.000 mitragliatrici
28.000 mortai da trincea
53.000 cannoni pesanti e da campagna
Non posso dirti quanti proiettili, mine e spolette,
13.000 aeroplani
24.000 motori d’aeroplano
50.000 carri di munizioni
e ora 55.000 carri militari
11.000 cucine da campo
1.500 forni da campo*
Mario viene arrestato e tradotto alle carceri di Como.
“[...] Il prof. De Micheli venne anche arrestato con quattro capi di accusa di cui il primo era ‘per aver organizzato
l’espatrio di ebrei’. Gli altri capi d’accusa erano: ‘noto comunista’ , ‘cifrario segreto’, ‘elenco di armi’. [...]”**
Sottoposto per 24 ore consecutive a un martellante interrogatorio da parte del “famigerato russobianco Pankoff ” e minacciato di fucilazione immediata, Mario continua a negare ostinatamente ogni
addebito. Dopo alcune settimane mia madre riesce a farlo rilasciare. Infatti, impietosendo la fidanzata
del tenente fascista che aveva eseguito l’arresto, ottiene una serie di preziose informazioni. Nella denuncia
erano infatti indicate delle date precise, ma non corrette e, grazie alla testimonianza del professor Di
Iorio, un medico comasco, riesce a dimostrare al prefetto Porta e al commissario Piunti che nei giorni
indicati nella denuncia riguardante la fuga degli ebrei, il marito, malato di difterite, era ricoverato a
Como all’ospedale Sant’Anna della Camerlata, e che l’elenco di armi e il cifrario altro non erano che un
poemetto del grande poeta americano e che il “noto comunista” era solo un “sognatore dedito
esclusivamente ai suoi studi e assolutamente innocuo”.
In realtà nella casa di Sormano c’era un documento davvero compromettente che però, durante la
perquisizione, mia madre era riuscita a nascondersi addosso. Si trattava di “Realismo e poesia” , un saggio
di Mario che per disposizione di Eugenio Curiel era stato diffuso clandestinamente, attraverso i canali
della Resistenza, fin dall’anizio del 1944.
Il 25 aprile del ’45, Ada e Mario sono a Milano con il fazzoletto rosso al collo.
L’immediato dopoguerra è tutto un intreccio di lavoro culturale, di grande idealità, di rinnovati progetti,
la pittura, la poesia, il “Partito”.
Ed è per il “Partito” che, nel 1947, accettano di andare a insegnare in Jugoslavia nelle scuole della
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Diploma d’onore dello Yad Vashem a Ada Tommasi De Micheli e Mario De Micheli
[Archivio privato famiglia De Micheli, Milano]
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minoranza italiana. Nel gennaio nasce il secondo figlio, Gioxe. Poco dopo la famiglia si trasferisce a
Fiume, ma bastano pochi mesi per capire che c’è qualcosa che non va in quel paese che si dice “socialista”.
Ada e Mario denunciano pubblicamente i soprusi e le intimidazioni contro quegli italiani che optano
per il ritorno in patria e criticano la “congiura del silenzio” verso le voci dissenzienti. Ce n’è abbastanza
per guadagnarsi il sospetto e l’ostilità del regime. Dopo il XX Congresso del PCUS e la rottura di Tito
con l’Unione Sovietica, i comunisti italiani in Jugoslavia vengono accusati di un inesistente complotto.
Una notte la polizia politica, l’UDBA, irrompe in casa e arresta Mario. Vogliono sapere da lui i nomi dei
cospiratori. Mario non ammette nulla e non fa nomi, i cospiratori non esistono perché non c’è nessun
complotto. Lo terranno nove mesi in una minuscola cella in compagnia solo delle cimici. Cerca di non
lasciarsi abbattere, si impone di fare qualche esercizio di ginnastica tutti i giorni e, sostenuto dalla sua
prodigiosa memoria, recita ad alta voce i versi di Carducci e la Divina Commedia. Fuori vengono tolte
le tessere per gli alimentari e si sospende l’insegnamento all’Ada. La situazione è disperante: fame,
malattie, amara disillusione. Li aiutano gli operai di una fabbrica vicina che passando lanciano di nascosto
nel giardinetto dei cartoccetti con un po’ di pane nero e di lardo. Dall’Italia arriva qualche pacco
spedito dalla nonna Pierina. Ada vende la sua vera, l’anello con il brillantino, la catenina d’oro e si
inventa l’impossibile per trovare qualcosa da mangiare, senza dimenticarsi del suo compagno in carcere.
Privati anche dei passaporti, dopo alcuni tentativi di fuga, compreso un fallito imbarco su un piccolo
peschereccio genovese, alla fine, nascosti in un camion, nel ’49 i De Micheli riescono a tornare a
Milano. Nella casa di viale Abruzzi la vita ricomincia e nel 1953, a Palazzo Reale - che porta ancora le
ferite dei bombardamenti - Mario è tra i curatori e allestisce l’indimenticabile grande mostra di Picasso.
Ma gli anni che vanno dal ’50 al ’60 sono ancora difficili. Il magro stipendio che percepisce da “l’Unità”
per cui tiene la Cronaca d’arte non basta certo per sostenere tutta la famiglia. Ancora una volta Ada,
che già insegna Lettere alla “Manzoni”, provvede. Collabora con la radio, dove tiene una rubrica
pedagogica, con la televisione con dei programmi per “La TV dei ragazzi” e alla fine della giornata
insegna anche alle “serali”. Intanto Mario scrive: libri, saggi, presentazioni - che non si fa mai pagare
- e certo i suoi scritti, i suoi studi, ne fanno uno dei più importanti critici e storici dell’arte italiani. E’ di
quegli anni “Le avanguardie artistiche del Novecento”, un libro che, giunto oggi alla quarantunesima
edizione e tradotto in mezzo mondo, è diventato, nel suo genere, un vero caso letterario.
Ma essenzialmente Mario è un critico militante, un critico, cioè, che “vive” con gli artisti, li appoggia,
sprona, conforta, cresce assieme a loro e al loro lavoro. Il talento di un giovane artista lo entusiasma, la
tenacia di un vecchio artista lo commuove. Per loro scrive, cerca contatti con galleristi e mercanti, trova
persino il possibile collezionista, scopre e promuove giovani talenti ancora sconosciuti, organizza mostre.
Dalla fine degli anni ’60 in poi arriva finalmente un po’ di tranquillità economica, Mario è ormai un
critico di fama e di successo. Sono gli anni delle sue grandi mostre: Siqueiros a Firenze (1976), Orozco
a Siena (1981), Marino Marini a Venezia (1983), Arturo Martini a Milano (1989), Henry Moore ancora
a Milano (1989); delle prestigiose monografie: Picasso, Manzù, Guttuso, e della cattedra di Sociologia
dell’Arte al Politecnico di Milano. Ma contemporaneamente continua ad occuparsi attivamente degli
artisti più giovani ed esordienti o di quelli meno giovani e più appartati o addirittura colpevolmente
dimenticati da critica e mercato.
Ada lo segue e approva, il suo Mario con gli occhi azzurri.
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Ecco, abbiamo voluto raccontare brevemente queste cose, perché se c’è stata una cosa che ha
contraddistinto la vita dei nostri genitori, questa è stata la loro “fame e sete di giustizia”. Per questo
hanno sempre messo al secondo posto il loro interesse personale e sempre in accordo tra loro, uniti e
solidali, anche nelle più dure avversità, forti del coraggio di vivere. Questa “fame e sete di giustizia” e
l’amore per la cultura sono ora “dentro” i libri della loro gigantesca biblioteca, nei tanti documenti,
nelle opere d’arte che, per loro volontà, sono diventati patrimonio della collettività di Trezzo D’Adda e
raccolti nel museo loro dedicato.
* Non si è potuta riportare la traduzione di mio padre, sequestrata dai fascisti,
si è utilizzata quindi quella di Roberto Sanesi, edizioni Bompiani
**Archivio del centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano.
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Scialom Hassan
In Isvizzera ha continuato a rincuorare e consolare
Archivio Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano
Firenze, 18 Aprile 1955.
Signor
Avv. Giuseppe Ottolenghi
presso Comunità Israelitica
Milano: Via Guastalla
Gentilissimo Avvocato,
sul “Corriere della Sera del 14 Aprile sotto il titolo “Riconoscenza degli Ebrei Italiani per gli
aiuti ricevuti nel periodo razziale” leggo, fra l’altro, che a Sormano era stato organizzato dalla D.ssa
Ada De Micheli un centro di aiuto a favore degli ebrei perseguitati dai nazifascisti. Siccome in quel
periodo mi trovavo assieme a mio fratello a Sormano desidero segnalarle l’opera altamente umanitaria
svolta dal parroco di Sormano spesso a rischio della propria vita.
Don Carlo Banfi aveva dato ospitalità ad una quantità di ebrei e prigionieri alleati, li ha assistiti;
quando poi la permanenza a Sormano era diventata pericolosa ha organizzato l’espatrio ed accompagnato
in Isvizzera un primo gruppo di circa diciotto persone fra cui donne vecchi e bambini, non senza
prima recarsi qualche giorno prima alla frontiera Svizzera per informarsi delle reali possibilità di
accoglimento in quel paese.
Dopo aver condotto attraverso le montagne questo gruppo in Isvizzera e si accingeva a rientrare
in Italia, è stato consigliato – pare dall’Arcivescovo di Lugano – a non rientrare per non esporsi a sicura
rappresaglia.
In Isvizzera ha continuato a rincuorare e consolare con lettere affettuose e ad aiutare con quel
magro provento che gli proveniva facendo il cappellano militare.
Segnalo quanto sopra per dovere di riconoscenza e perché Ella gent.mo Avvocato, lo renda noto
a chi di ragione.
Si abbia i sensi della mia massima considerazione,
Scialom Hassan
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Don Carlo Banfi
Al dottor Angelo Bianchi Bosisio
Ricordo di Carlo Bianchi
Archvio privato professoressa Carla Bianchi Iacono, Milano
Mesenzana, 12.XI.1949.
Caro dottore,
è molto facile scrivere a te, per riprendere un’amicizia interrotta, ma non è facile esaudire il tuo desiderio.
Di Carlo o dir troppo o dir niente. Voi l’avete conosciuto più a lungo e più a fondo che non io, e voi gli
siete stati vicini negli ultimi anni, i più decisivi. Comunque vedrò di raccogliere le idee sull’argomento.
Senz’altro sono consenziente ad illustrare la sua figura perché ha fatto molte cose buone in poco
tempo, e non ha cercato nulla, ne gloria, ne onore ma pagò di persona e volentieri la sua passione per
l’idea che se fu idea di libertà, di patria, di umanità, fu prima e soprattutto, idea di fedeltà Al Bene in
tutte le sue forme: Dovere, carità, generosità, difesa del debole, rivendicazione dei diritti civili. Anch’io
ti rivedrei volentieri, e perderei qualche momento a rivangare cose passate. Se vengo a Milano, verrò a
cercarti.
Salutami don Ghetti. Non lo conosco e la sua ombra mi insegue dappertutto. Al Buon Pastore son
succeduto a lui; presso Carlo lui è succeduto a me. In Svizzera ancora di lui si parlò, oggi ancora di lui
parliamo e mai l’ho vista.
Ciao. Sta bene.
Don Carlo Banfi
Di Carlo Bianchi collegiale, universitario, propagandista, professionista, confratello di S. Vincenzo, altri
potrà dire meglio di me. Io mi limiterò a parlare di lui per quello che fece negli anni 1927-1931 in seno
alla sua Associazione ed al suo Oratorio della Barona. In quegli anni non solo l’Oratorio, ma tutta la
Parrocchia della Barona era ben poco oanizzata, e l’ambiente era per nulla invitante, specie per un
elemento come il Bianchi uso a frequentare ambienti ben più signorili. Suo primo merito fu dunque
quella di accettare il campo del suo lavoro così come era di entrarvi decisamente, senza riserve.
Coi ragazzi del popolo, cogli operai, non sempre in linea coll’etichetta, in una Associazione che era alle
sue prime incerte esperienze, egli entrò colla massima naturalezza e di primo acchito, si amicò tutti,
famigliarizzò con tutti senza limitazioni.
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Non fu il primo Presidente, ma lui , licealista cedè il passo ad un ortolano. Per se invece riservò l’ingegno
del buon esempio iscrivendosi subito al corso Propagandisti. Non era quella iscrizione una fiamma
fugace di entusiasmo passeggero. Durò fino alla fine del corso e subito entrò in propaganda dove restò
fino al giorno in cui le esigenze degli studi glielo impedirono.
All’Oratorio assisteva i ragazzi, faceva la dottrina, prendeva parte alle piccole recite, giocava con gli altri
sempre pronto agli scherzi bonari, alla sana allegria.
Quando era con gli altri, non era mai diverso dagli altri. Quando però gli altri se ne erano andati egli
diventava tutt’altra cosa. Nessuno come lui si imposte fin dal principio la Messa, la Comunione la
meditazione quotidiana.
Il secondo suo merito fu dunque quello di incoraggiare con l’esempio, coll’opera, col suo valore personale,
i primi tentativi di Azione Cattolica in quel greggio ambiente della Barona 1927. E poiché faceva le
cose “sul serio” con franchezza e decisione, il suo esempio fu decisivo per più di un compagno.
Tutti gli altri lo apprezzavano assai più di quello che stimava lui stesso, ed una volta che lo si invitava a
prendere certo atteggiamento d’avanguardia diffidando di se, gli sfuggì detto “Oh, ma voi, chissà cosa
mi credete …..”
Ogni anno faceva, durante le vacanze, un mese di soggiorno in Germania. Fu così che vide il Nazismo
nascere, crescere sviluppare di anno in anno fin a divenire un’esaltazione parossistica collettiva; mentre
la resistenza della parte migliore andava sempre più attenuandosi. Una volta al suo ritorno dalla Germania
gli chiesi: Di Hitler, del Nazismo che ne pensi, che ne dicono, là? Scosse il capo scoraggiato. O faranno
una rivoluzione tra di loro, e sarà terribile, o si romperanno la testa con tutti gli altri. Sono troppo
esaltati….. Quel troppo voleva dire: son fuori dell’onesto, del giusto”. Se irromperanno fuori della loro
terra, bisognerà fermarli ad ogni costo, ma il cozzo sarà duro. Eravamo nel 1934 o 1935. Vedeva
dunque giusto, e fin dallora preparavasi in se le idee che l’avrebbero poi animato alla lotta, tra i primi,
nell’ottobre 1943.
In quei giorni io ero a Sormano, e lui ci veniva in campagna con la famiglia. Poiché anche là nascevano
le prime forme di resistenza importava aver direttive ed aiuti dal C.L.N. di Milano, Si rivolsero a lui.
Ebbe uno sguardo scrutatore, fu cauto nel pronunciarsi, promise di interessarsi…. Ma io che ero
presente, mi trovai ad un tempo sorpreso e contento di vederlo già impegnato nella lotta.
Buon sangue, non mente …..
Qualche giorno più tardi ci portava la risposta: bastare coi propri mezzi per il momento, ed andare cauti
perché il nemico vegliava. Fu l’ultima volta che lo vidi: Pochi giorni dopo, le circostanze mi portarono
in Svizzera, ed a Lugano mi trovai con Jacini, Migliori, Malavasi, Malvestiti, Clerici. Fu appunto da loro,
sempre in contatto coi centri della resistenza, che nel Luglio Agosto 1944 ebbi la notizia: Hanno
fucilato l’Ing. Bianchi di Milano. Ebbi un colpo, ma sapendo che il nome Bianchi a Milano è assai
comune speravo ancora. Clerici mi levò ogni illusione: un Bianchi ingegnere, della Democrazia Cristina,
tipografo….. troppe coincidenze è lui. Naturalmente era lui.
Rientrato in Italia dopo la liberazione andai a trovare la famiglia Bianchi colla quale ero in relazione da
tempo. Vi aleggiava un senso di dolore nobile e silenzioso. Nel salotto dove fui ricevuto una bella
fotografia di Carlo, la più recente, rassomigliatissimo, era attraversata nell’angolo da un nastro tricolore.
Anche volendo sfuggire l’argomento, non si poteva, lui era là troppo presente, non si poteva ignorarlo.
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Don Carlo Banfi
[Archivio privato famiglia Banfi, Saronno]
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La conversazione era difficile, e papà e mamma mi guardavano con un muto rimprovero negli occhi.
Voi ne avete un po’ colpa, voi gli avete insegnato così…. E’ vero signori, ma anche voi di casa gli avete
insegnato così. Tutti noi abbiamo insegnato con la parola e coll’esempio che quando è l’ora si deve
andare innanzi, se occorre pagare di persona. Figlio della sua casa e forte della sua fede, come poteva
diversamente? …. Per questo, se egli è il nostro dolore, egli è anche la nostra gloria. Colla sua fine eroica
egli ha veramente cantato, nel modo migliore, le virtù delle sue famiglie.
E quanti conoscono la sua famiglia mi daranno ragione.
La Colma negli anni ’30. Qui i fuggitivi valicavano i monti per scendere a Nesso.
[Cartolina d’epoca da collezione privata. Edizioni Sormani Giuseppe, Sormano]
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Comunità Israelitica di Milano
Ricordo perenne di gratitudine degli ebrei d’Italia
Archivio privato famiglia Banfi, Saronno
COMUNITÀ ISRAELITICA DI MILANO
Milano,
Aprile 1956.
Via Guastalla, 19 – tel. 791.851 – 791.892
M. Rev.
Don Carlo Banfi
Parrocchia S. Teresa
Via Aristotile, 2
Gorla
Circa un anno fa, il 17 Aprile 1955, gli ebrei di tutta Italia celebravano in Milano, in occasione
del decimo anniversario della Liberazione, la loro “Giornata della riconoscenza”. Nel corso di una
solenne, commovente cerimonia vennero distribuite, simbolicamente, 23 medaglie d’oro a benemeriti
di ogni categoria e di ogni ceto sociale i quali, durante le nefande persecuzioni nazifasciste contro gli
ebrei, si erano prodigati talora attraverso torture e pericoli di ogni genere, talora sino alla morte, a
favore dei loro fratelli colpiti da un flagello che non ha pari nella storia dei secoli.
Ci giunsero nei giorni che seguirono quella memorabile cerimonia tante e tante lettere di nostri
correligionari i quali ci segnalavano le gesta veramente indimenticabili di moltissimi non ebrei. Ogni
lettera meriterebbe una citazione particolare, ed il Comitato centrale dell’Unione delle Comunità
Israelitiche Italiane, con la collaborazione delle varie Comunità d’Italia, decideva di riunire in una
documentazione di eccezionale valore storico i nomi e la disinteressata, nobile opera svolta, nel solo
nome di una giustizia superiore, da tanta parte del popolo italiano.
Ci permettiamo oggi inviare a Lei, il cui nome è compreso e ricordato con amore da persone
alle quali Ella giovò in tempi ed in circostanze ormai lontane ma pur tanto vicine nei nostri cuori, un
modesto simbolo della nostra gratitudine.
Forse Ella sorriderà, perché certi slanci spontanei del cuore non si portanno mai abbastanza
premiare. Ma questo non è un premio, rappresenta semplicemente il ricordo perenne di gratitudine
degli Ebrei d’Italia.
Con devoti saluti.
IL PRESIDENTE DEL COMITATO
(Dott. Marcello Cantoni)
COMUNITÀ ISRAELITICA DI MILANO
IL PRESIDENTE
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DON CARLO BANFI: