Domenica La di DOMENICA 27 MARZO 2011/NUMERO 319 Repubblica l’attualità Peppino Impastato, il caso non è chiuso ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLO cultura Le avventure di Jean-Jacques Sempé FABIO GAMBARO e TULLIO PERICOLI La paura della morte, la stanchezza di vivere CHRISTOPHER ISHERWOOD Diario di un uomo solo M N CHRISTOPHER ISHERWOOD ALBERTO ARBASINO Un altro ciak per la Casa Bianca 4 LUGLIO 1961 on sono felice. Sono depresso, profondamente. Odio questa città e il suo clima. I rapporti con Don vanno male per la maggior parte del tempo. Lui soffre la mia presenza e in realtà vorrebbe che me ne andassi, ma sa che gli sarò d’aiuto per la mostra. È felice solo quando dipinge o disegna — sta sperimentando una tecnica pittorica interessantissima in bianco e nero. Non sono esattamente dispiaciuto per me; piuttosto stanco di me. Hemingway è morto. È probabile che lo abbia fatto intenzionalmente, stanco di tutto all’improvviso, anche della sua leggenda. Non c’è da stupirsi. Oggi capisco la melanconia senile. Ma non mi ci abbandonerò, credo. (segue nelle pagine successive) spettacoli entre i più classici e sempreverdi romanzetti di Christopher Isherwood vengono riproposti da Adelphi (Un uomo solo, La violetta del Prater...), Chatto & Windus presenta il secondo e finale grosso volume dei suoi Diari, 750 pagine, The Sixties. Dunque, gli anni Sessanta: quando lo si vedeva ogni mattina sulla “muscle beach” di Santa Monica, giusto al termine di Sunset Boulevard. Passeggiando fiero e birichino col suo berrettino girato in una distesa di giovanottoni gay. E talvolta con una palla distrattamente fuori dal vecchio slip. A casa sua, lì accanto, ripeteva: «Non scrivo mai niente su qualcosa che non mi piace». (segue nelle pagine successive) CLAUDIA MORGOGLIONE e VITTORIO ZUCCONI i sapori Alla riscoperta del vitigno italiano AMPELIO BUCCI e LICIA GRANELLO l’incontro Ascanio Celestini, storie di casa mia RODOLFO DI GIAMMARCO Repubblica Nazionale FOTO DAN TUFFS/GETTY IMAGES Nell’autoritratto dello scrittore la nascita del suo romanzo 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 la copertina Un uomo solo La malattia, la crisi con il compagno Don, la California lisergica, il “Black Friday” in cui morirono Jfk e Aldous Huxley Escono negli Stati Uniiti i diari di Christopher Isherwood, scritti mentre lavorava al suo libro più difficile CHRISTOPHER ISHERWOOD (segue dalla copertina) on abbandonerò Don anche se magari tornerò in California e lo aspetterò. So cosa devo fare: andare avanti con il Ramakrishna e dedicarmi alle umili occupazioni quotidiane. Ormai sono di mezz’età e lento. Odio quando mi mettono fretta. Ha chiamato la Bbcchiedendomi se potevo dire qualcosa su Hemingway. No, ho risposto. N 26 agosto 1962 La mia aspettativa di vita oggi è di diciassette anni. Ma sono ben consapevole che potrei morire da un momento all’altro. Quella aggressiva ragazza nera che ho conosciuto alla festa a Natale a New York ha detto che sarei morto dopo aver scritto un altro libro (di grande successo), un anno o due dopo, credo abbia detto. Ho paura della morte? Sì e no. Ho il terrore di perdere il controllo, sapendo di essere nella fase terminale della malattia, sapendo che i medici e le infermiere mi hanno in loro potere, nel loro mondo crudele di antidolorifici insufficienti. Ma ho anche fede. Credo che in qualche modo avrò un sostegno. Se mai esiste la vita dopo la morte. E per me è ancora un po’ un se. Non grande però. Non mi piace come invecchio. Ho il viso imbruttito dalla tensione, dal rancore e dalla libidine. Non è affatto bello. Vecchio e brutto. E ho la pancetta nonostante tutta la ginnastica. Devo domina- mia casa e soprattutto i miei libri. Voglio stare qui e andare avanti col mio lavoro, ai miei ritmi. Posso lasciarlo solo ora, è chiaro, con molta più facilità di un tempo; abbiamo più spazi privati. Ma non abbastanza. La nostra vita insieme è tutta sbagliata e non so se si possa tornare indietro. [...] 18 maggio 1963 Se devo scrivere il diario in questo periodo bisogna che resti molto aderente ai fatti. Altrimenti sarà un nauseante raccontare me stesso. Sono tornato a casa in macchina il quindici perché Don ha detto che in fin dei conti non vuole venire a San Francisco; perché non abbiamo la casa dei Wells-Hamilton. [...] Ieri ho fatto una corsa in centro da Kazanjian e gli ho comprato un anello con uno zaffiro australiano blu scuro. Questa mattina a colazione è scoppiato in lacrime dicendo che non poteva accettarlo. Il nostro per lui è un rapporto impossibile. Io sono troppo possessivo. Non regge l’idea di avermi attorno per altri dieci anni o più a consumare tutta la sua vita. Gli ho detto che sono assolutamente d’accordo. Se non funziona bisogna dire basta. [...] 2 agosto Gavin ha letto il romanzo e pare apprezzarlo moltissimo. Ma lo preoccupa l’identità di George. Ha la sensazione che il modo di parlare di George e l’atteggiamento che ha nei confronti del suo lavoro del college siano talmente miei personali che non lo si accetta come un personaggio a se stante. Può ben essere. Ma non sono sicuro che si possa “Sto con te ma sono a single man” re il mio rancore in qualche modo, mi logora. Odio Don? Solo la parte egoista di me lo odia perché rompe l’incanto. Quando riesco ad andare oltre questo mi fa davvero pena, perché sta soffrendo terribilmente. Ancora non so se vuole lasciarmi sul serio o che altro. E non credo lo sappia. Ieri sera era ubriaco e si è messo a piangere, nell’atelier, così forte che potevo sentirlo da casa. Sono andato da lui e mi ha detto di lasciarlo solo, che gli andava di piangere. Ho avuto l’impressione che fosse sul punto di crollare. Ma poi, stamattina, si è presentato con dei regali di compleanno con sopra una dedica giocosa — due camicie, calzini bianchi, un cinturino per l’orologio e un bellissimo cavallo in miniatura, giapponese, bianco con finimenti arancio, verdi e oro. 10 settembre Con Don va male ma almeno abbiamo avuto un chiarimento l’altro giorno. Dovrei andar via, ovviamente, per qualche mese e lasciarlo qui a ritrovare la bussola. Non farlo significa costringere lui ad andar via, ed è sbagliato perché è lui che non si sente davvero a suo agio in questa casa e ora che ha il suo atelier dovrebbe essere libero di goderselo. E poi perché non vado via? Perché mi crea trambusto e non voglio lasciare la fare qualcosa al riguardo. Forse sarà meglio pubblicare il romanzo riconoscendone i limiti piuttosto che cercare di creare un George fittizio, del tutto convincente nella sua insulsaggine, finendo però per perdere tutta la follia del personaggio. A letto lunedì sera Don è rimasto a lungo in silenzio. Pensavo si fosse addormentato. Poi all’improvviso mi ha chiesto: «Che ne diresti di intitolarlo Un uomo solo?». Ho capito all’istante e da allora non ho mai avuto dubbi al riguardo, ossia che è il titolo assolutamente ideale per il romanzo e che userò quello a meno che non me lo rubino. [...] 30 novembre Riluttanza a scrivere sul ventidue, il Black Friday, ma dovrei. Per ricordare. Don ed io eravamo ancora a letto, alle undici circa, perché la sera prima avevamo organizzato una cena d’addio per Cecil Beaton (in partenza per New York e, da lì, per l’Inghilterra), c’erano anche Paul Wonner e Bill [Brown] e Jack Larson e Jim [Bridges], e avevamo fatto tardi. Telefonò Henry (ancora adesso ricordo che era lui — pare impossessarsi di tutto — intrufolandosi con la sua insensibilità teutonica) per dire che avevano sparato al presidente. Accendemmo la vecchia radio di Harry Brown, che altrimenti non usavamo mai, e ascoltammo dal letto le RITRATTO D’ARTISTA Christopher Isherwood posa per il compagno Don Bachardy nei primi anni Ottanta In copertina, il ritratto dello scrittore notizie che si succedevano e che ben presto confermarono la morte. Quando morì Roosevelt ero triste, ma mi dissi: bene, ci daranno un giorno libero. Stavolta era diverso. Solo orrore e disgusto. Quando ci penso mi torna in mente un soggiorno a Calcutta, quando nell’hotel cosiddetto di lusso da sotto il gabinetto iniziò a trasudare una fanghiglia nera. Si aveva la sensazione — per quanto dirlo possa suonare sensazionalistico — che fosse un’opera del male di cui la nazione intera si era macchiata, tutti noi con il nostro odio. Per Aldous [Huxley] fu il contrario. Presumo in parte perché non era colpa nostra. Morì senza soffrire. Alla fine chiese l’acido lisergico e gli fu somministrato. Era lucidissimo. Il giorno prima aveva terminato e rivisto un articolo su Shakespeare e la religione che a detta di Laura è molto valido. La domenica successiva Laura e Rose, la sorella di Maria, e la madre di Maria e il figlio di Rose, Siggy e Mattew Huxley e Peggy Kiskadden e altri, me incluso, andammo a fare una passeggiata verso la riserva — invece di celebrare il funerale. Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 L’Hollywood Vedanta dei favolosi Sixties ALBERTO ARBASINO (segue dalla copertina) on m’interessa. Perciò non me ne occupo. Neanche una parola. Meglio parlare solo delle persone e cose che si amano, no?». E intanto descriveva A Single Man, che stava componendo. «Non taglio mai. Semmai, allungo». In questi diari, scopre a un tratto che il protagonista del romanzo dovrebbe essere un anziano la mattina, un adulto a mezzogiorno, un giovanotto verso sera, un bambino la notte. Ma intanto componeva anche un impegnativo libro su Ramakrishna, santo avatar bengalese. Pare ormai impressionante notare, in questi Diarie in un Glossariodi oltre cento pagine di brevi biografie, la quantità di personaggi e amici allora viventi e frequentati ogni giorno. In una California ancora stupenda, però fissata intorno al mondo del cinema. Dunque senza gli spettacoli e le mostre e la musica tanto fitti e brillanti a New York. Gli Stravinskij, gli Huxley, i vari Mann, Gerald Heard e i colleghi Auden e Vidal e Capote e Spender spesso lì, accanto a Tony Richardson, Cecil Beaton, Charles Laughton ed Elsa Lanchester. E il meraviglioso stuntman Mike Steen, amico di Nicholas Ray e Tennessee Williams e William Inge e Gavin Lambert e molti altri, e generosamente disponibili in vari posti giusti americani ed europei. Da ultimo, nei primi anni Sessanta, collaboratore del superproduttore Samuel Bronston per i kolossal con Charlton Heston e Sophia Loren a Madrid, dove in un ricco attico ospitava il tremendissimo Gerald Hamilton, l’originario e autenticato Mr Norris di Mr Norris se ne va. Già tanto descritto da Isherwood come lustro, unto, grassissimo e cattivissimo fin dai primi anni Trenta berlinesi. Uno di quegli elisabettiani ingordi e sfrenati che anche vecchissimi stramangiano e strabevono. (Ma ormai andava a dormire presto, Mike e il suo amico gli preparavano delle minestrine, poi uscivano nei locali). Sospettoso e molto dispettoso. «Berlino negli anni di Weimar era noiosissima! Locali chiusi, atmosfera da Salvation Army, tutti a letto entro le nove!... Semmai, la vera follia inarrivabile ci fu solo nell’inverno 1907/1908! Però nel 1909 era già tutto finito!»... Si lasciava andare parlando di suoi progetti certamente finti: un musical perfidissimo, Braganza Extravaganza, sulla decadenza e fine delle dinastie portoghesi e brasiliane. E i giovanotti americani lo ascoltavano. (Come diceva Truman Capote: «Io canto per la mia zuppa»). Piuttosto imbarazzante, nei voluminosi diari di Isherwood, accanto ai molti nomi noti e illustri, appare la presenza continua di tanti “swami” indiani e californiani dai nomi pittoreschi: Prabhavananda, Madhavananda, Ranganathananda, Vidyatmananda, Vivekananda, Nikhilananda... Talvolta anglosassoni convertiti alla filosofia e agli inni e ai riti Vedanta. E magari turbati davanti ai diversi libri devozionali indù di Isherwood, sempre così impertinente su tutto; e poi, questa biografia del sant’uomo ottocentesco Ramakrishna, venerato e adorato quale taumaturgico fondatore di vastissimi ordini monastici indiani con predicazioni e meditazioni e propagande positive e favorevoli con donazioni e istituti e centri soprattutto presso Hollywood. Con decenni di diari isherwoodiani devoti... Allora, chissà, confronti impossibili con i trimillenari sacrifici ed ebbrezze del Veda, nelle rielaborazioni di FOTO ©ZEITGEIST FILMS/COURTESY EVERETT COLLECTION «N Fu un’idea di Matthew. Peggy ed io fummo educati ma non parlammo quasi [...]. Continuo a pensare: i libri ormai sono finiti. Forse morirò presto, come ha profetizzato quella ragazza di colore a New York. Se così non sarà, aspettiamo comunque che questo orrore indiano sia finito e poi vediamo cosa porta. La vita va avanti o si ferma. Se va avanti, le cose cambieranno per me. Traduzione Emilia Benghi © 2010 Don Bachardy (Ha collaborato Gabriele Pantucci) ‘‘ Il nostro per lui è un rapporto impossibile Io sono troppo possessivo Non regge l’idea di avermi attorno per altri dieci anni o più a consumare tutta la sua vita. Gli ho detto che sono assolutamente d’accordo Se non funziona bisogna dire basta Roberto Calasso con L’ardore? Dunque, slacciati da qualunque contemporaneità nelle pratiche e tempistiche quotidiane? Così come si assisteva compunti ai Mahabarata inscenati da Peter Brook in certi scavi edilizi nel Quartiere Prati, rammentando quale modello di “autenticità” la sua Carmen all’Argentina. Via tutti i posti di platea; tutti giù per terra in pose di “lotus” intorno a un focherello. E le voci della saggezza: «Qua seppoffà tutto. I sedili, se ponno mette e se ponno toglie». Con la musica di Bizet eseguita da un’orchestrina tipo Piazza San Marco. Altro show, rispetto alla Carmen di Karajan alla Scala. Anche rispetto ai Kathakali, di Bali, al lume delle torce perché non c’erano ancora l’elettricità e le macchine, e non si pagava il biglietto nemmeno agli attigui teatrini delle ombre. Su Veda e Vedanta e i loro santoni, Isherwood compose varie pensose opere, anche in margine ad A Single Man, e sempre frequentando gli Huxley e Stravinskij e badando al successo artistico e mondano del suo amico Don Bachardy. Ma sempre trenta secoli separano l’ardore dei Veda di Calasso da questi traffici californiani intorno al “carismatico” Gerarld Heard grande amico di Aldous Huxley nelle iniziative pacifiste, nelle pratiche ascetiche presso lo Swami Prabhavananda, con fondazione della comunità monastica di Trabuco, poi ceduta per insufficiente austerità a un’altra Vedanta Society, ma continuando con Huxley gli esperimenti con mescalina ed Lsd. Eccellenti modelli per la narrativa tipo macchina fotografica di Isherwood. Ne ha approfittato parecchio. Ma quanti poi saranno, infine, i veri e falsi guru? Anche i poeti beat Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, di passaggio, cantano nenie indù sciogliendo le chiome a un pranzo di giovanotti dove un diciassettenne prodigio dispiega un rotolo che ha eseguito sul Libro tibetano dei morti. E finisce con accuse reciproche di stregoneria. Nell’India vera e propria, gli swami risultano arroganti e maleducatissimi fra complessissimi gradi e voti di iniziazioni e vari Senza Nome, Senza Forma e giubilei sanscriti. E diarree per i forestieri. Tornando a Santa Monica, però, riecco George Cukor, King Vidor, Jennifer Jones, Anne Baxter, David Hockney, Janet Gaynor, Natalie Wood, David Selznick, Shelley Winters, gli importanti produttori figli di Max Reinhardt o di Bertholt Viertel (sempre La violetta del Prater). Muore intanto Charles Laughton. Letteratura e quotidianità si intrecciano, molto naturalmente. Soliti pranzetti in casa con gli Stravinskij e gli Huxley. Ma Christopher si ubriaca «terribly» tutte le sere, e così non ricorda niente. Forse si addormentava, secondo Stravinskij. L’amico Bachardy è spesso di malumore perché la sua carriera artistica non procede malgrado le raccomandazioni illustri. Però si assoggetta alle cerimonie di iniziazione indù, con rituali di fiori, fuocherelli, incensi; e tuttavia dimentica i suoi mantra, che bisogna ripetere un certo numero di volte su un apposito rosario. (Come facevano le nostre vecchie zie. Ma ancora in un recentissimo Times Literary Supplement si dedicavano paginate alle posizioni yoga già praticate cinque millenni fa, e sviluppatesi come «industria multimiliardaria» nell’America d’oggi). © Alberto Arbasino © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’attualità Cento passi DOMENICA 27 MARZO 2011 La notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, quella in cui il ragazzo di Cinisi venne ucciso, i carabinieri uscirono da casa sua con sacchi pieni di documenti. Ora, dai sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo, qualcosa riemerge: alcune lettere, la lista della spesa per la festa di Radio Aut, le tessere Arci. Troppo poco rispetto ai materiali sequestrati. E così i magistrati riaprono le indagini LE FOTO A sinistra Peppino Impastato nella casa di Cinisi; in basso è con gli amici sulla neve (1968); nella foto grande (e in quella in basso a sinistra) viene fermato da un poliziotto a un corteo contro la guerra in Vietnam (1967); nelle due foto a colori la sede di Radio Aut. Le foto sono state gentilmente concesse dalla “Casa memoria Felicia e Peppino Impastato”, Cinisi PALERMO «È come se mancasse ancora un pezzo della vita di Peppino — sussurra il fratello Giovanni — quella vita che era dentro le sue lettere, i suoi volantini, i libri, i ciclostili: furono portati via dalla nostra casa di Cinisi la notte dell’omicidio. Una decina di carabinieri misero tutto dentro dei grandi sacchi neri. Cinque, forse sei. Come se quei fogli fossero il corpo del reato. E da quella notte dell’8 maggio ’78 sono scomparsi». Giovanni Impastato non ha mai smesso di cercare l’archivio di suo fratello. E insieme a lui l’hanno cercato gli amici di Peppino e i compagni del centro Impastato. «Fra quelle carte c’è la chiave del mistero che ancora avvolge l’omicidio — sostiene Giovanni —. Subito le indagini furono depistate da esponenti delle istituzioni. Cosa si doveva nascondere? Quali complicità della mafia Peppino aveva scoperto?». IL Sono le stesse domande che adesso si pongono il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e il sostituto Francesco Del Bene, che hanno appena aperto un fascicolo di accertamenti preliminari sui depistaggi di trent’anni fa. Ancora una volta, dunque, la storia di Peppino Impastato riparte da quella casa che dista cento passi dalla palazzina che era il regno del capomafia Gaetano Badalamenti: da lì, i carabinieri iniziarono a indagare. Nel 2000, la commissione antimafia presieduta da Giuseppe Lumia ha rilevato che fu davvero uno strano inizio di indagini, e ha segnato una traccia per arrivare all’archivio scomparso di Impastato: rimanda al processo contro Badalamenti, condannato come mandante dell’omicidio. Bisogna allora scendere nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo per provare ad andare oltre. È nel faldone 4 bis del processo a don Tano l’indicazione che l’Antimafia aveva segnato, a futura memoria. Fra le righe di una laconica relazione di servizio del comandante del nucleo informativo è scritto: «1 giugno ’78. Controllo persone sospettate di appartenenza a gruppi eversivi. Si trasmette l’elenco, sequestrato informalmente nell’abitazione di Impastato Giu- L’archivio segreto di Peppino O T A T S A P M I O S CA SALVO PALAZZOLO seppe». «Sequestro informale», una formula che ha poco di diritto. Qualche foglio dopo, ecco «l’elenco del materiale informalmente sequestrato in occasione del decesso di Impastato». Due fogli senza intestazione, senza firma, senza data. Solo un elenco in 32 punti. Inizia con: «Fotocopia di una lettera spedita a Impastato». Si conclude con: «Statuto Circolo Arci». Passando per lettere, volantini e appunti per iniziative di Radio Aut, il vero megafono di Peppino. Eccole, le carte che erano dentro ai sacchi neri. Saranno una cinquantina di fogli, davvero pochi per stare nei cinque sacchi che Giovanni Impastato vide portare via. E poi questi fogli sono solo fotocopie annerite. Nel febbraio 2000, il pubblico ministero Franca Imbergamo le ottenne dai carabinieri. I documenti erano sempre rimasti dentro la pratica “P029542” del reparto operativo. Adesso, Giovanni Impastato sta sfogliando le fotocopie nella redazione palermitana di Repubblica. «È un ritrovamento importante», dice. «Questa è la scrittura di Peppino — ora Giovanni sorride — qui annotava: “È vero che il 9 luglio il maresciallo si è incontrato col deputato fascista e col criminale nazi-fascista?”». Tra le fotocopie spunta una lettera di alcuni muratori: «Aveva organizzato un collettivo di edili», spiega Impa- I DOCUMENTI In alto la lista dei tesserati al Circolo Arci di Cinisi; l’elenco dei materiali sequestrati dai carabinieri la notte dell’omicidio; una lettera scritta da Impastato sulle connivenze tra carabinieri e neofascisti stato. Il fratello di Peppino continua a sfogliare e trova delle lettere che erano dirette a lui: «Scrivevamo spesso ad alcuni compagni conosciuti durante il servizio militare, in Friuli». Ecco la fotocopia della copertina di un libro di Toni Negri, edito da Feltrinelli: Il dominio e il sabotaggio. «Lo comprammo durante una licenza», ricorda Giovanni, che intanto ha trovato un elenco del circolo Musica e cultura: «Ci sono i nomi dei ragazzi di allora — sorride — Questi documenti fanno rivivere un movimento importan- te». In alcune lettere è citato Ciro Noia, un attivista di Lotta Continua arrivato in Sicilia con Mauro Rostagno. «Mi emoziona sfogliare queste carte. Sono convinto che c’è dell’altro, non so dove». La prova che la lista ritrovata è da considerarsi incompleta è ancora fra le fotocopie. C’è un volantino che non è citato fra i 32 punti. Riguarda la strage alla casermetta di Alcamo, che nel ’76 fece due morti. Il volantino che adesso Giovanni stringe fra le mani si intitola: «Provocatorie perquisizioni dei carabinieri». Pep- pino denunciava la «strategia della tensione». Giovanni Impastato è convinto che fra le carte mai ritrovate ci siano degli appunti importanti: «Probabilmente — dice — Peppino aveva scoperto le collusioni fra Badalamenti e alcuni carabinieri». Aggiunge: «Di certo, oggi sappiamo che l’archivio di Peppino viene trattenuto in un palazzo delle istituzioni sulla base di un atto illegittimo. È venuto il momento di farlo tornare a casa nostra, ormai casa della memoria». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 la storia LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL DELITTO LE INDAGINI IL PROCESSO I DEPISTAGGI LA RIAPERTURA La notte dell’8 maggio 1978, sicari ancora ignoti colpiscono Peppino Impastato, poco fuori Cinisi, e lo fanno esplodere sui binari della Palermo-Trapani I carabinieri parlano di un attentato suicida ma la denunce dei compagni di Peppino convincono la magistratura della tesi dell’omicidio Nel ’96 Badalamenti viene condannato all'ergastolo come mandante dell’omicidio Il boss Vito Palazzolo viene invece condannato a trent’anni di carcere Nel ’98 la relazione della commissione antimafia parla di depistaggi istituzionali nelle prime indagini sul caso Impastato Ora la Procura di Palermo ha aperto un fascicolo di accertamenti preliminari sui presunti depistaggi istituzionali TO Non solo mafia, trent’anni di depistaggi ATTILIO BOLZONI ominciamodalla scena del crimine, cominciamo da lì per ricordare che la morte di Peppino non è ancora un caso chiuso. I binari, il “terrorista” steso in mezzo al suo sangue e ai frammenti della sua bomba. È la prima volta che la mafia usa l’esplosivo per un bersaglio facile, un ragazzo che se ne va in giro di notte e da solo per le campagne di Cinisi. Niente armi corte per un agguato, il modo più semplice per uccidere. Niente lupara bianca, il modo più mafioso per lasciare la firma. No, per Peppino hanno scelto come ambiente la linea ferrata, fra le sue mani il tritolo. Il ritrovamento della vittima che incolpa se stessa. Una scena del crimine molto militare. Cominciando da lì — da quello che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi — qualcuno oggi ha il sospetto che a volere morto Peppino Impastato non sia stato solo Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi che in Sicilia era una potenza e dal dopoguerra aveva regolato il traffico degli stupefacenti con l’America. Troppo diversa quella tecnica omicidiaria. L’omicidio di mafia — sia esso “preventivo” o “dimostrativo”, quelli del primo tipo ordinati per eliminare un pericolo per l’organizzazione, quegli altri per produrre paura — serve sempre a far capire a tutti chi è stato a volerlo. È la forza del segnale, dell’avvertimento. «Gli omicidi di matrice mafiosa presentano caratteri strutturali talmente singolari da costituire una categoria assolutamente autonoma, non assimilabile ad alcun’altra nell’intero panorama criminale», viene riportato in tutte le motivazioni delle sentenze delle corti di Assise del distretto giudiziario palermitano. La scena del crimine inconsueta — quasi più da “operazione” che da vendetta mafiosa — e poi un’inchiesta contraffatta per sostenere la tesi dell’attentato finito male. Con le indagini concentrate, sin dalle prime ore, esclusi- C vamente sulla ricerca di prove contro la vittima. Come in un verdetto già scritto: Peppino è stato “suicidato” subito. Da magistrati. Da carabinieri. Da testimoni reticenti. Prove scomparse, indizi cancellati, le sue carte (come raccontiamo nell’articolo accanto) prelevate da uomini in divisa e mai più ritrovate. Un inquinamento investigativo a tutto campo, percepibile dai primi sopralluoghi e dalle prime informative trasmesse alla procura della repubblica. Troppo sproporzionato quel depistaggio per proteggere solo un mafioso — seppure un mafioso importante, di peso — come Badalamenti. C’era probabilmente qualcun altro da coprire a Cinisi, quella notte fra l’8 e il 9 maggio 1978. Archiviato in più riprese come «omicidio a carico di ignoti» e poi più volte riesumato fino ad arrivare faticosamente alla condanna di don Tano come mandante, il caso Impastato è uno di quei delitti siciliani dove s’intravede una “convergenza di interessi” fra Cosa Nostra e altri poteri. Qualcuno vorrebbe ancora indagare, cercare, capire. Anche perché chi allora aveva manovrato (alcuni ufficiali dei carabinieri) per accreditare l’ipotesi dell’atto terroristico — escludendo categoricamente qualsiasi altra pista — oggi è scivolato nelle investigazioni sulle trattative fra Stato e mafia all’ombra delle stragi siciliane del 1992. L’inchiesta sulla morte di Peppino non è stata sepolta nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo solo per la tenacia e l’amore dei suoi compagni (come non ricordare le intuizioni di Umberto Santino, che in solitudine e per lungo tempo non ha mai abbandonato la speranza di scoprire la verità) e per i lavori della commissione parlamentare antimafia che nel 2000 ha svelato le prime mosse per lo sviamento delle indagini. A trentatré anni dall’uccisione di quel coraggioso ragazzo siciliano, forse è stata fatta giustizia solo a metà. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 CULTURA* Settantanove anni, oltre sessanta libri, disegnatore per riviste come “Paris Match” e “New Yorker”, la sua satira è sempre in bilico tra ironia, poesia e malinconia. Dal suo atelier di Parigi il creatore de “Le petit Nicolas” parla del suo metodo, dell’ansia da foglio bianco, dell’importanza della revêrie E del libro che esce in Italia: “Racconta di quando ero povero e di un regalo che non ebbi mai” Ai bordi della vita TULLIO PERICOLI disegnidi Sempé non si guardano, vi si assiste. Come ad uno spettacolo. Uno spettacolo che però sembra visto dal finestrino di un treno. Come dalla ferrovia vediamo passare il dietro delle case, un po’ dall’alto, da una certa distanza e protetti dal vetro, così nei suoi disegni assistiamo alla vita degli altri, scoprendo quello che di solito tendiamo a non mostrare: oggetti svogliatamente conservati, passatempi oziosi, scarti e biografie di cui ci vergogniamo un po’. Le storie di Sempé rivelano così le nostre segrete intimità. E lo spettacolo dei suoi disegni è quindi quello di un piccolo segreto svelato, che ci dice ciò che non vorremmo essere e quello che preferiremmo non sapere di essere. Queste scene vanno guardate per frammenti: come nella pittura antica è bene cominciare dai bordi, perché i dettagli che danno senso al tutto sono nascosti lì, dietro una siepe, al di là di un recinto, sul retro di un grattacielo. Come se dal centro una forza centrifuga ce li avesse spinti. Sempé ritrae persone, ma anche case, paesaggi, interni come fossero persone. E sopra a tutto questo aleggia il suo lieve sorriso che sfrutta un segno timido e leggero, incerto e delicato, che più che graffiare accarezza, aiutato da un colore acquoso e trasparente di un acquarello steso con sapienza. Un segno messo in mano ad un osservatore acutissimo, capace di notare e riferire l’imperfezione delle nostre cose, dei nostri gesti e delle nostre idee. I © RIPRODUZIONE RISERVATA Officina Sempé Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Il sognatore di vignette e biciclette FABIO GAMBARO «I IL LIBRO Arriva in libreria per Donzelli Il segreto di Monsieur Taburin da cui è tratta l’immagine della pagina a sinistra (94 pagine, 14 euro) Donzelli inizia così la pubblicazione dell’opera di Sempé in Italia avendo opzionato in esclusiva tutti i diritti PARIGI l disegno è un mezzo di comunicazione universale. Può parlare a tutti, al di là delle differenze di lingua e cultura. Per questo cerco di creare immagini con poche connotazioni spazio-temporali, ma capaci di evocare la poesia presente in ogni uomo». Gentilissimo e sorridente, Jean-Jacques Sempé ci riceve nel suo appartamento-atelier all’ultimo piano di un palazzo signorile nel quartiere parigino di Montparnasse. Uno spazio luminoso e ordinato, dominato da una grande vetrata da cui lo sguardo si perde sulla distesa dei tetti di Parigi. Qui, tra tavoli ingombri di fogli e colori, il celebre disegnatore francese crea le sue incantevoli vignette, la cui poetica perennemente in bilico tra ironia e malinconia è ormai conosciuta in tutto il mondo: «I miei disegni nascono sempre dalla fantasia e dalla rêverie. E questa vista su Parigi è perfetta per perdersi a fantasticare, anche se poi, dato che sono molto pigro, faccio fatica a mettermi al lavoro». Sempé — che fino al 24 aprile espone a Parigi, alla Galérie Martine Gossieaux una serie di illustrazioni sul tema del mare, dell’estate e delle vacanze — si presenta come un artigiano disinteressato alle nuove tecnologie, che da più di cinquant’anni lavora sempre allo stesso modo — «anche perché alla fine sono sempre io da solo davanti a un foglio bianco» — alternando matite, pastelli, chine e acquerelli, a seconda del tema e dell’umore del momento. Non a caso, non ha mai pensato di fare un disegno al computer, che peraltro neppure possiede. «Non credo ai libri elettronici, perché ci saranno sempre dei lettori che avranno voglia di avere un libro vero tra le mani, di sfogliarne le pagine e continuare a sognare. Se proprio devo interessarmi a qualcosa, preferisco guardare alle tecniche del passato, come ad esempio l’incisione», ammette, mentre guarda soddisfatto Il segreto di Monsieur Taburin, un libretto delizioso appena pubblicato in Italia da Donzelli (già editore delle avventure del Piccolo Nicolas), che racconta la buffa storia di un bravissimo meccanico di biciclette che però non sa andare in bicicletta, un segreto che non ha il coraggio di rivelare a nessuno, neppure a sua moglie. «È un libro cui tengo molto, perché per finirlo mi ci sono voluti quasi trent’anni. All’inizio, scrissi e disegnai due terzi dell’avventura di Raoul Taburin in pochissimi giorni, procedendo spedito senza mai fermarmi. Poi però non seppi come concludere la storia, che così è restata per quasi tre decenni nei miei cassetti». Ripreso e abbandonato più volte, il libro ha trovato un finale solo qualche anno fa: «Alla fine, n’è venuta fuori una bella storia d’amicizia, costruita sull’idea che ogni uomo ha probabilmente un segreto nascosto dentro di sé». Una storia che, oltretutto, rende omaggio al grande sogno della sua infanzia: «Avrei tan- “Mi sento come un trapezista che si allena per ore per poi volteggiare nell’aria per un brevissimo istante” to voluto avere una bicicletta, ma i miei genitori, che erano molto poveri, non hanno mai potuto regalarmela. Così, quando finalmente ho potuto comprarmene una, per molti anni mi sono spostato a Parigi esclusivamente pedalando. Non mi stancavo mai». Nonostante i settantanove anni e gli innumerevoli successi di una carriera durante la quale ha pubblicato una sessantina di libri, Sempé oggi continua a lavorare di buona lena, dedicandosi come sempre a più progetti contemporaneamente. In questo momento, ad esempio, oltre ai disegni per Paris Match e il New Yorker, due testate con cui collabora da moltissimi anni, sta preparando due nuovi libri, uno dedicato all’infanzia e uno di vignette umoristiche, che sono la sua vera passione: «L’ironia non deve mai trasformarsi in cattiveria. Un vignettista non deve infierire né prendersi troppo sul serio, pensando d’essere migliore degli altri. Al contrario, deve essere dotato di una certa autoironia. Nei miei disegni evito di fare la morale, preferisco far sorridere con leggerezza, una qualità che però domanda moltissimo lavoro. In fondo, mi sento come un trapezista che si allena per ore per poi volteggiare nell’aria per un brevissimo istante». Per questo ricomincia le sue illustrazioni infinite volte, senza mai esserne pienamente soddisfatto, sebbene oggi sia più indulgente con se stesso di quanto non lo sia stato in passato: «In fondo, cerco sempre la perfezione, anche se non so mai bene cosa sia». Per ottenere un buon disegno occorre naturalmente saper osservare la società, cogliendone i dettagli che ne rivelano le debolezze e le contraddizioni, le incongruenze e le stranezze. E Sempé, seppure abbia spesso dichiarato d’essere poco interessato alla realtà, sa osservare benissimo il mondo che lo circonda. «Se disegno una strada, non mi metto certo a disegnare cavalli e carrozze, ma automobili e camion. È così che la realtà entra nei miei disegni, benché sempre filtrata dal mio punto di vista», spiega, ricordando che la società contemporanea gli sembra «molto più dura, più violenta, più rapida, ma anche molto più monotona», di quella della sua giovinezza. «Oggi tutto tende all’uniformità, tutto si assomiglia, quindi per un disegnatore è meno divertente rappresentare il reale. Ecco perché cerco di metterne in luce gli aspetti più buffi o stravaganti», conclude l’autore del Segreto di Monsieur Taburin, che, «di fronte ai grandi maestri del passato», considera un suo dovere restare «necessariamente umile». E mentre ci saluta, accendendosi l’ennesima sigaretta, si lascia andare a un’ultima confidenza: «Sono sempre stupito dalla caparbietà degli uomini che cercano in ogni situazione di crearsi almeno un pezzetto di felicità. Che per me, poi, ha sempre qualcosa a che fare con la poesia». Ecco, adesso forse abbiamo capito. Au revoir, Monsieur Sempé. © RIPRODUZIONE RISERVATA LE RIVISTE IN MOSTRA Dal New Yorker a Punch, alcune delle riviste a cui collabora Sempé. In alto, la copertina di Rallye jeunesse che lo ritrae al lavoro da giovane Due copertine del New Yorker disegnate da Sempé Le tavole in alto sono esposte fino al 24 aprile alla Galérie Martine Gossieaux di Parigi Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 SPETTACOLI In principio, anno 1908, fu “Life of Abraham Lincoln”. Poi, da Oliver Stone a Stanley Kubrick, da Nixon a Bush, non si è mai esaurita la passione americana di raccontare cosa accade dentro le stanze del potere. L’ultima puntata di una saga infinita si intitola “The Kennedys” Che dal 3 aprile porta in tv le debolezze private di Jfk. Con polemiche al seguito SERIE TV All’ombra della Casa Bianca 1987 The West Wing 1999-2006 24 2001-2010 The Reagans 2003 (nella foto sopra) Una donna alla Casa Bianca 2005-2006 The Kennedys 2011 FILM SU PRESIDENTI REALI Life of Abraham Lincoln di Van Dyke Brooke 1908 Abraham Lincoln di D.W. Griffith 1930 Set Casa Bianca Tutti i film del Presidente Alba di Gloria di John Ford 1939 Jfk di Oliver Stone 1991 (nella foto sopra) Gli intrighi del potere Nixon di Oliver Stone 1995 Le ragazze della Casa Bianca di Andrei Fleming 1999 CLAUDIA MORGOGLIONE 13 days di Roger Donaldson 2000 (nella foto sopra) Fahrenheit 9/11 di Michael Moore 2004 Death of a president di Gabriel Range 2006 er chi ama il cinema è ogni volta un’emozione, visitare — virtualmente — le sue segrete stanze. Scoprendo atmosfere, sapori, inquietudini sempre differenti. L’oppressione di un luogo popolato da fantasmi della mente, per il Nixon shakespeariano ritratto da Oliver Stone. La fortezza da cui riscattarsi da un incubo edipico, per l’inadeguato George Bush junior di W. Un bunker da delirio d’onnipotenza militarista, nel Dottor Stranamoredi Kubrick. Il teatro romantico dell’attrazione tra un uomo e una donna, nel Presidente — Una storia d’amore. Un’icona di libertà destinata a sbriciolarsi sotto un attacco alieno, in Indipendence day. L’ufficio occupato da uno P staff talentuoso e nevrotico, nella serie tv pluripremiata The West Wing. Film o telefilm accomunati da un elemento che certo non è solo architettonico: la Casa Bianca. Residenza dalla carica simbolica fortissima, sede di quel Potere assoluto che è anche il titolo di un thriller di Clint Eastwood, centrato su un inquilino della White House più cattivo che mai. La lunga love story tra Hollywood e il 1600 di Pennsylvania Avenue comincia nel lontano 1908, con l’uscita della prima pellicola del genere: l’agiografica Life of Abraham Lincoln. E adesso, dopo tante altre rivisitazioni presidenziali, una nuova tappa, attesissima negli Usa: la fiction in otto puntate The Kennedys, prodotta dal conservatore Joel Surnow, già artefice dell’adrenalinico 24. I protagonisti sono Greg Kinnear e Katie Holmes, nei panni di Jfk e di Jackie. Sarà tra- smessa dal 3 aprile da ReelzChannel (in Italia l’ha opzionata La7), dopo il gran rifiuto dell’emittente che l’aveva commissionata, History Channel. Motivo del “no”: la scarsa attendibilità storica. Ma dal fronte repubblicano si insinua che ci siano state pressioni del potente clan democratico di Boston. Allarmato da una sceneggiatura con alcune palesi inesattezze; ma soprattutto dal racconto delle debolezze private del presidente ucciso a Dallas. Uno sguardo indiscreto sulla sua sessuomania, e sul rapporto complicato con la first lady. Un caso classico in cui la Casa Bianca viene vista dal buco della serratura: l’enfasi è più sulle stanze da letto che sullo Studio Ovale. Ma in questo 2011 ci sono anche progetti di tenore ben diverso. Come il Lincoln firmato Spielberg, che verrà girato in estate. Scritto dal premio Pulitzer Tony Krusher, interpretato da Daniel Day-Lewis, si concentrerà sugli scontri tra il presidente abolizionista e i membri del suo gabinetto. Sempre in questi mesi, il produttore Mark Joseph sta preparando, per il grande schermo, Reagan: la storia partirà dall’attentato fallito del 1981, e per flashback racconterà gli anni precedenti. I rumors indicano, tra i candidati al ruolo, Josh Brolin (già protagonista di W di Oliver Stone) e Ben Affleck. Tutti segnali di vitalità, nel rapporto tra cinema e Casa Bianca. Un legame trasversale per eccellenza, che oltre al dramma spazia tra commedia (Dave di Ivan Reitman), azione (Air Force One, con Harrison Ford), fantascienza (il folle Mars Attacks! di Tim Burton). In alcuni casi, i film ritraggono presidenti veri: ad esempio il Bill Clinton di A Special Rela- W. di Oliver Stone 2008 (nella foto a sinistra) FILM CON PRESIDENTI IMMAGINARI Dave di Ivan Reitman 1993 (nella foto a sinistra) I due presidenti The Special Relationship di Richard Loncraine 2010 Dottor Stranamore di Stanley Kubrick 1964 (nella foto a sinistra) Il presidente Una storia d’amore di Rob Reiner 1995 Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Una villa non è un Palazzo VITTORIO ZUCCONI i sentii come se il cielo mi fosse caduto addosso», confessò Harry Truman quando alla morte di Roosvelt gli annunciarono che sarebbe entrato lui, il suo vice, alla Casa Bianca. Qualcosa in effetti cadde, durante la presidenza Truman, ma non fu il cielo. Fu il pavimento del secondo piano che crollò sotto il pianoforte che la moglie si era portata nel trasloco, sprofondando lo strumento e la First Lady al piano di sotto. Era il 1948 e l’incidente, che lasciò illesa la signora ma sfasciò lo strumento, produsse la prima, radicale ristrutturazione della villotta bianca al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington, dopo 150 anni di ripitture, rattoppi, aggiunte, incendi e cannonate inglesi che l’avevano resa pericolante, tra l’indifferenza generale. Perché in fondo, nonostante da quella casa fossero state condotte tre grandi guerre, una civile e due mondiali, deciso il lancio di una bomba atomica, organizzate riforme epocali come il New Deal, per la gente, per «the people», quella villotta di pietra arenaria in stile neo classico verniciata di bianco, copiata da dozzine di edifici inglesi o irlandesi come il suo architetto, non aveva mai assunto il carattere sacrale e mistico del «palazzo» imperiale o vaticano. Una villa come le altre, dove abitano, ma solo per quattro o otto anni se gli va bene, famiglie che devono ricordare, in ogni momento, di essere a un passo dallo sfratto. Sic transit Casa Bianca. Non esiste, negli Stati Uniti, quella relazione aspra, diffidente, spesso reciprocamente malevola che invece lega, nell’Europa di monarchie, cricche e curie i cittadini a quello che appunto fu definito «il palazzo». A nessun inquilino, che fosse il primo ad occuparla, John Adams il primo novembre del 1800 quando ancora carpentieri e muratori segavano e martellavano costringendo la signora Adams a vivere in una sola stanza, o che sia Barack Obama con la sua Michelle e le due ragazzine che coltivano rapanelli e lattuga nel giardino, è mai permesso di dimenticare che quella non è «casa loro», ma casa nostra, di noi che paghiamo le spese condominiali e lo stipendio di chi ci vive. Dunque, se negli ultimi decenni cinema, televisione, letteratura di massa e sempre più occhi ci hanno guardato dentro, dalla West Wing, dove si fa la politica, allo Studio Ovale, dove a volte si fa qualcosa più che la Storia, non è violazione di privacy, gossip. È l’ispezione che il padrone di casa, cioè noi contribuenti, ha il diritto di compiere per accertarsi che gli occupanti non violino il contratto. Un sentimento di estraneità passeggera che gli stessi presidenti spesso avvertono, come Kennedy che brontolava: «L’unico vantaggio di questa casa è che puoi andare in ufficio a piedi», abitando la Prima Famiglia al piano superiore degli uffici, casa e bottega. Già non la volevano proprio costruire questa casa i vecchi e malfidenti «padri» americani nel ’700, giudicata inutile, tronfia e pericolosamente «imperiale» per la neonata repubblica che di sovrani e Papi non voleva più sapere. Fu solo l’autorità di George Washington, il generale-contadino che aveva cacciato la corona britannica, a zittire i brontolii di repubblicani e federalisti duri che si vendicarono lesinando i soldi per il progetto. E prima che il crescendo delle paure, culminato nel 2001 dopo l’11 settembre e dopo il monomotore Piper che un kamikaze americano anticlintoniano portò a sfasciarsi sotto le finestre di Bill e Hillary, allontanasse i confini della Casa, ormai inavvicinabile dai turisti senza permessi e controlli, di fatto chiunque poteva entrarvi. Nei sette ettari del prato, oggi giardino, pascolavano le pecore di chi non aveva terreni propri. Presidenti, ancora fino alla fine dell’800, scoprivano curiosi, passanti, rompiscatole che vagavano nelle sue stanze, per presentare petizioni, offrire servizi o per «dare un’occhiata». Anche se oggi non vi si entra più liberamente né si possono portare capre a brucare o cani a far pipì come in passato, e missili antiaerei di fabbricazione norvegese vegliano sul tetto pronti ad abbattere qualunque velivolo entri nella «no fly zone», qualche visita guidata nell’ala che Jacqueline Kennedy fece arredare per quello scopo deve essere permessa, perché la legge continua a imporre che tutti gli edifici del governo siano davvero aperti al pubblico. Tutti tranne la Cia, dietro i boschi della Virginia, a Langley. Il progressivo isolamento della Casa Bianca dal resto del territorio, circondata da sbarramenti di cemento, allontanata dal traffico che un tempo la sfiorava fin quasi alla porta, trova il suo palliativo nella pletora di film e telefim e docufiction che proliferano. Non per curiosare sotto le lenzuola, sotto le scrivanie o nei minuscoli cubicoli dove lavora lo staff del Presidente. Ma per ricordare che quella Casa, signor Presidente, è nostra e lei ci vive per gentile, e non sempre saggia, concessione del padrone di casa. We, the people. «M tionship, in cui si mostra la sua amicizia con Tony Blair; John e Bobby Kennedy alle prese con la crisi dei missili a Cuba, in Thirteen days; i tanti Abraham Lincoln già visti sullo schermo, tra cui va citato almeno quello di D. W. Griffith, protagonista nel 1930 dell’omonimo film. Ma i segreti del luogo sono raccontati con altrettanta forza in opere con presidenti immaginari: la pietra miliare, in questo senso, è The West Wing(l’ala della White House con gli uffici del “capo” e dei suoi collaboratori), scritta dallo sceneggiatore premio Oscar Aaron Sorkin, che descrive con una verosimiglianza mai raggiunta il dietro le quinte del potere. Un’altra serie tv, Una donna alla Casa Bianca, ha messo in scena le difficoltà di un presidente di sesso femminile; mentre 24 ci ha fatto vedere la carica innovativa di un leader afroamericano — anche se in un telefilm che esalta le strategie alla Cheney nella lotta al terrorismo — già prima dell’era Obama. E poi ci sono i film che i presidenti non li fanno vedere. O quasi. Concentrandosi di più sul luogo, e sulle persone che non finiranno nei libri di storia. Nel centro del mirino, con un grande Clint Eastwood, è un omaggio all’abnegazione delle guardie che si occupano della sicurezza del boss. Murder at 1600 ci introduce nei meandri di un edificio di cui conosciamo solo le immagini ufficiali. Mentre Sesso e potere ipotizza che dallo Studio Ovale parta l’ordine di inscenare una finta guerra in stile kolossal per distogliere l’attenzione dagli scandali a luci rosse del Commander in Chief. Qui la tesi è che la White House imiti Hollywood: una rivincita del cinema sulla politica. Indipendence day di Roland Emmerich 1996 Mars attacks! Tim Burton 1996 (nella foto a sinistra) LO STUDIO OVALE I presidenti americani in una illustrazione di Victor Juhasz Deep Impact Mimi Leder 1998 Delitto alla Casa Bianca - Murder al 1600 di Dwight H. Little 1997 Sesso & potere di Barry Levinson 1997 Potere assoluto di Clint Eastwood 1997 © RIPRODUZIONE RISERVATA Nel centro del mirino di Wolfgang Peterson 1996 (nella foto a sinistra) Air Force One di Wolfgang Petersen 1997 © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 le tendenze Calze a rete, foulard con teschietti, leggings traslucidi, scarpe fetish dai tacchi vertiginosi, minigonne rigorosamente in pelle. Tutti accessori già incontrati nei guardaroba di fine anni Settanta. Ma oggi la seduzione “total black” Oltre il colore non ha più il sapore della ribellione. Semmai la voglia estrema di comparire. E di stupire Borchie & chiodi le ragazze del rock IRENE MARIA SCALISE he la moda intercetti stati d’animo e fenomeni sociali per poi trasformarli in suggestioni di taglio, materiali e colori è una scontata verità. Capita così, in questi tempi piuttosto bui, di rivedere in passerella (e nelle vetrine) giubbotti borchiati, foulard stampati con teschietti, leggings traslucidi (quelli che una volta si chiamavano fuseaux), scarpe fetish dai tacchi vertiginosi, nonché minigonne in pelle: tutti accessori già incontrati nei guardaroba delle sorelle maggiori. La moderna Morticia Addams di filmica memoria è oggi, però, assai più prorompente (anche grazie alla mastoplastica additiva che tra le diciottenni continua a fare furore), decisamente più glamour e infinitamente meno disperata delle copie metallare di fine anni Settanta. Più che l’emblema della ribellione, insomma, il look extreme di questa stagione affonda nella voglia di stupire senza troppi giri di parole e di volant. Sarà la crisi che imperversa, la disaffezione dilagante alla sobrietà del vestire o più semplicemente il ritorno di un’antica attrazione rock & dark che ha sempre dato molto nel cinema e nella letteratura, dove imperversano gli eroi che fanno innamorare il mondo proprio perché oscuri. Un trend, insomma, che non deve né stupire né inquietare. Lo sa bene Valerie Steele, storica della moda e a capo del Museum Of Fashion Institute Of Technology, che all’argomento ha dedicato un libro: Fetish, sesso e potere, in cui racconta e spiega l’attrazione fatale che lega molti stilisti al più misterioso degli universi. Ed eccoci, dunque, di fronte all’ennesima ricaduta di questa torbida passione che scopre la pelle (come nei modelli con catene di Y3), la fascia di stringhe e zip (la sfilata Gucci docet), l’avvolge (e la strizza) con sete nere e una cascata di paillettes. Ma la trasgressione è tutta qui: quello che era anticonformista ieri, oggi diventa glamour. L’informale si trasforma in più formale che mai. E sbarca con tutti gli onori nei salotti dell’haute couture segnando la fine definitiva delle brave ragazze tutte camicetta, giro di perle, giacchetta, tacco medio e bon ton. Signorine che, d’altro canto, si rintracciano solo nelle fiction ambientate nel Dopoguerra come Atelier Fontana e che risultano estinte se non nella vita reale certamente nei reality. Tra gli effetti collaterali della nuova passione, la totale scomparsa del colore. Una pennellata black seppellisce tonalità fluo e toni pastello. Accade ciclicamente, dicono gli esperti, che nei periodi più grigi i creativi scelgano il nero come colore simbolo. E così la nuova moda trionfa soprattutto con le tenebre. Ricordate: dalle otto di sera in poi, al posto delle collane classiche si sfoggiano bracciali “cattivissimi” con borchie e punte e scarpe che avvolgono la caviglia scatenando fantasie impure. Le giacche diventano armature da guerriere metropolitane, i tacchi stiletti-coltello. Tempi duri per i troppo buoni. Magari se ne riparla la prossima stagione. LUMINOSA C X Ingentilita da paillettes nere e chiusura arricchita con pietre la pochette griffata Prada CATTIVA Ha anche il frustino la divina proposta da Hermès che unisce fascino e mistero Con cappello, pantaloni aderenti e tacchi vertiginosi XX LOLITA Piacerà alle teenager il look di Killah che unisce il fascino del rock alla malizia di una moderna Lolita Con minigonna e maglia stampata XXX CHIC Sexy ma anche molto elegante la proposta di Gucci: stivale a punta scoperta dalla lavorazione raffinata e borsa pochette X XX XXX © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 AFRODITE Sandalo in pelle a gabbia alta per una moderna Afrodite di CafèNoir. Ideale per un abito scollato da notte Christopher Bailey/Burberry “La moda impari dalla musica” SIMONE MARCHETTI LONDRA Q OPTICAL Bracciali luminosi in bianco e nero per Armani. Eleganza per serate in grande stile VERTIGO Sandalo in pelle vertiginoso con tacco antigraffio di Alberto Guardiani uattro milioni di fan su Facebook. Una ventina di gruppi indie-rock emergenti. E tanti video con le performance live per le strade di Londra. Sono i numeri e i contenuti di Burberry Acoustic, la fan page del brand inglese sul Social Network più famoso del mondo. L’ha voluta con insistenza Christopher Bailey, il creativo a capo del marchio. Lo incontriamo nel suo studio al settimo piano di Horseferry House, il palazzo di Burberry vicino a Westminster. Il designer è così appassionato di musica da curare personalmente la colonna sonora di ogni sua sfilata. Da dove viene il suo amore per la musica indie-rock? «Non c’è un inizio. La musica rock mi ha sempre accompagnato, ha sempre fatto parte della mia vita. Anche di quella creativa. Burberry Acousticè forse il riassunto in immagini e in suoni di questa passione». Oltre che un designer, lei è anche un talent scout di gruppi musicali sconosciuti. Dove li trova? «A Londra funziona molto il passaparola. Spesso alle cene, tra le chiacchiere con gli amici, mi capita di venire a conoscenza di qualche nome nuovo della musica indie-rock. E poi, ovviamente, c’è Internet. Basta essere curiosi e consultare i siti giusti. Sono un grande fan di Youtube, penso sia una delle cose migliori della Rete. Poi non dimentico MySpace, Spotify e ovviamente iTunes. Infine, esiste ancora il piacere di trovare un album sconosciuto in un negozio di dischi. Oggi, però, tutto è reso più veloce e raggiungibile grazie al web». Borchie, chiodi di pelle…Tanti i simboli rock nella moda di Burberry. «Naturale, quasi organico. Fa tutto parte dello spirito dei tempi. Però non si tratta di copiare quello che indossano i musicisti. Piuttosto di tradurre in estetica lo spirito, l’anima della loro musica. In un certo senso, la musica ha fatto da apripista alla moda di oggi. Un gruppo musicale, infatti, non ha più bisogno di fare i passaggi obbligati del passato per farsi conoscere: la Rete gli permette di fare un salto di qualità e di notorietà impossibile fino a ieri. Così il Fashion System: oggi deve viaggiare a una velocità nuova e deve utilizzare tutte le possibilità di un mondo connesso e più vicino di prima». La moda, quindi, deve imparare dalla musica? «In un certo senso sì. Per esempio, noi di Burberry abbiamo capito che bisogna abbracciare la tecnologia senza nostalgia, senza snobismo e senza fanatismo. Il problema, resta umanizzare la Rete. Burberry Acoustic si muove in questa direzione. E così molte altre iniziative del brand: artofthetrench.com (il sito dove tutti possono postare una propria foto col trench Burberry, ndr) o il servizio di vendita dopo la sfilata, che permette di ricevere gli abiti visti in passerella due mesi prima che arrivino in negozio. Il cambiamento è generale, profondo, rivoluzionario. Si tratta solo di non averne paura e di interpretarlo con intelligenza». © RIPRODUZIONE RISERVATA GRINTOSA Cintura alta in rosso e nero di Miss Sixty È l’accessorio ideale per un look grintoso X X XX XXX SPORTIVA Sport e rock per Y3 Sneakers comode, leggings aderenti, guanti in pelle, top sexy, collana, cintura e cappello con visiera dark XX DIVINA Abito in organza e pizzo nero con inserti in piume Adatta alla notte più fascinosa la proposta Chanel XXX SEXY MUST Conturbante la mise proposta da John Richmond: gilet brillante sulla pelle, tacchi altissimi e pantaloni a vita bassa Non può mancare nella valigia della perfetta rockstar il chiodo firmato Burberry in morbida pelle naturalmente nera Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 i sapori le bottiglie Prosit Cortese Radicato a Gavi, Alessandria, da fine Ottocento, ha colore paglierino e sentori di citrico Ottimo come aperitivo, per carni bianche e caprini freschi Gavi Pisé La Raia (da 12 euro) Pecorino In un mercato dominato da concorrenti di qualità come i francesi o di quantità come quelli del nuovo mondo, si riscoprono i vitigni italiani: forse più scorbutici, forse meno facili da abbinare, ma di certo più preziosi. È la sfida del Vinitaly Il nome di questo bianco marchigiano dalle note fresche e acidule omaggia l’attività dei pastori e dei loro greggi, ben accompagnandone i formaggi Pecorino Fiobbo 2008 Aurora (da 9 euro) edizione numero quarantacinque LICIA GRANELLO etit rouge, barbera, croatina, rossese di Dolceacqua, raboso, teroldego, refosco dal peduncolo rosso, sangiovese, cesanese di Affile, sagrantino, lacrima, montepulciano, tintilia, negroamaro, aglianico, aglianico del Vulture, gaglioppo, nero d’Avola, carignano. Basta leggere un frammento del lunghissimo elenco di vitigni autoctoni che abitano le nostre campagne per attraversare l’Italia intera dalla Val D’Aosta alla Sardegna, senza saltare nemmeno una regione. Nello specifico, si tratta di un piccolo rosario enologico non casuale, se è vero che questi sono i venti vini scelti per produrre la versione rossa di “Una”, la bottiglia nata per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia (ne è stata creata una speculare, da altrettanti vitigni bianchi). Due blend, entrambi curati dal super enologo Riccardo Cotarella, pronti per le cantine del Quirinale dopo il battesimo ufficiale dell’iniziativa, in coincidenza con l’inaugurazione dell’edizione numero quarantacinque del Vinitaly, in programma a Verona dal 7 all’11 aprile, mai come quest’anno aperto alle istanze del nuovo movimento. Si dice autoctono e si pensa ai vitigni antichi e un po’ demodé, accantonati in favore dei supergrappoli dei Soliti Noti, quelli che si coltivano e commercializzano in tutto il pianeta. Perché per molti anni ci è piaciuto cavalcare l’onda dell’enologia globalizzata. Abbiamo sposato la causa delle produzioni importanti per quantità, accessibili nel prezzo e nella comunicazione e poco differenziate. Fare la corsa sulle etichette più potenti e ruffiane alla fine non ci ha giovato. Anche perché all’estero, in materia di grandi vini continuano a preferirci i francesi, mentre nel quotidiano la scelta cade sui nuovi mostri, le bottiglie del P Nostre vigne Le 355 5.000 i vitigni coltivati nel mondo i vitigni autoctoni registrati in Italia La rivincita dei soliti ignoti nuovo mondo, perfette nella loro scaltra pochezza. Così, ci è toccato riscoprire il piccolo mondo antico, fatto di vitigni nati, o importati da lungo tempo, in un luogo che è quello e quello soltanto, dove l’adattamento a clima e terreno e una buona attitudine a dare il meglio di sé anche in situazioni non ottimali contribuiscono a creare veri miracoli. Un recupero di uve glorificato dalle pratiche di agricoltura naturale — biologico e biodinamico in primis — e da una comunicazione quasi da passaparola, eppure a suo modo efficacissima. Risultato: vini senza scorciatoie, fieri delle proprie imperfezioni, rappresentanti autentici del proprio terroire in armonia con esso. Se merlot e chardonnay vanno bene con tutto o quasi, gli autoctoni sanno essere empatici ma anche scorbutici, molto amando i cibi di casa propria e pochissimo quelli altrui. Provare per credere: regalatevi una bottiglia di timorasso dell’alessandrino Walter Massa e sorseggiatelo con una fetta di formaggio montebore o un morso di pesca di Volpedo, figli gourmand delle stesse colline. Allo stesso modo, un buon bicchiere di falanghina campana solleticherà la dolce rusticità di past’e patatecome mai avreste immaginato. Chiusura in gloria con tavolette della Chocolate Valley e aleatico dell’isola d’Elba. Sigaro toscano a parte, s’intende. © RIPRODUZIONE RISERVATA Itinerari / Verona dove dormire B&B DUOMO Via Duomo 19 Tel. 045-8034006 Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa HOTEL MASTINO Corso Porta Nuova 16 Tel. 045-595388 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa dove mangiare PIZZERIA I TIGLI Via Camporosolo 11 Località S. Bonifacio Tel. 045-6102606 Chiuso mercoledì menù da 15 euro HOTEL GIULIETTA E ROMEO Vicolo Tre Marchetti 3 Tel. 045-8003554 Doppia da 105 euro, colazione inclusa HOTEL ACCADEMIA Via Scala 12 Tel. 045-596222 Camera doppia da 170 euro, colazione inclusa HOTEL MARCO POLO Via di Sant’Antonio 6 Tel. 045-8010885 Doppia da 110 euro, colazione inclusa AL CAPITAN DELLA CITTADELLA Piazza Cittadella 7 Tel. 045-595157 Chiuso dom. e lun. a pranzo menù da 45 euro DA ADRIANO Via Moschini 26 Tel. 045-913877 Chiuso domenica e lunedì a pranzo menù da 40 euro Repubblica Nazionale DOMENICA 27 MARZO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Fortana Nosiola Vermentino Pignolo La “regina delle uve negre per fare buon vino” (da un testo del 1600) viene tramutata in uno spumante di sei gradi che profuma di more, perfetto col culatello Ha riflessi verdolini e profumo delicato di fiori bianchi il vino da pesce (di lago), declinato anche in versione passita (Vin Santo Trentino) Ama il mare, l’uva diffusa tra le coste di Toscana, Sardegna e Corsica. Sapido e brillante, il vino si abbina a meraviglia con i piatti di pesce Da grappoli serrati come pigne, il millenario rosso friulano di sapore elegante e generoso, da sorseggiare con prosciutto San Daniele stagionato Fortana del Taro Antica Corte Pallavicina (da 6,50 euro) Nosiola Gino Pedrotti (da 7 euro) Vermentino Campo del Noce 2009 Pieve Vecchia (da 9 euro) Pignolo 2005 Adriano Gigante (da 22 euro) Sagrantino Grillo Bombino Pascale Importato in Umbria dall’Asia Minore, è un rosso avvolgente, modulato dalla permanenza in legno, perfetto per arrosti e tome stagionate È dedicato a Nicolò Azoti, martire della mafia, il dorato bianco siciliano di buona struttura, che regge ricette come i paccheri al ragù di cernia Il Bonvino pugliese, di probabile provenienza spagnola, profuma di macchia mediterranea e ben si accompagna agli antipasti di pesce Battezzato Giacomino in Gallura, il vitigno rosso della campagna sassarese regala profumi speziati e vinosi. Si gusta con carni robuste o da meditazione Montefalco Sagrantino 2005 Di Filippo (da 22 euro) Grillo 2009 Centopassi (da 13 euro) Bombino 2009 Rivera (da 6 euro) Ottomarzo 2007 Dettori (da 21 euro) Un paese di santi, eroi e viticoltori AMPELIO BUCCI egliultimi decenni i produttori hanno lavorato sugli aspetti poetici, estetici e sensoriali del vino: qualità, gusto, profumi... E i vini italiani sono migliorati molto. Oggi però urge affrontare un tema più prosaico come il mercato, problema che ha sorpreso il settore del vino: negli ultimi anni, infatti, i viticoltori si sono trovati impreparati non a fare il vino, ma a venderlo. È vero che il mercato si è allargato a tutto il mondo. In compenso, la stessa globalizzazione ha portato quasi tutto il mondo a produrre vino, spesso con regole semplificate rispetto alle nostre. Questi vini utilizzano soprattutto i cosiddetti vitigni internazionali: cabernet, merlot, chardonnay e pochi altri, con la strategia di offrire prodotti già noti al consumatore, che si troverà a confrontare lo chardonnay californiano con quello australiano, cileno o siciliano. Think global and act local, pensa globale e agisci locale, è lo slogan di questa strategia, la quale richiede un rapporto molto aggressivo con il mercato, attraverso prezzi, comunicazione e distribuzione. I vitigni autoctoni evidentemente fanno fatica a entrare in questa competizione. Per fortuna, oggi esiste un’altra strategia, che parte dal principio diametralmente opposto: «Pensa locale e agisci globale». Ovvero, se possiedi una cosa speciale, assolutamente locale, che esiste solo nel tuo territorio, è possibile trovare uno spazio nel mondo dei consumi per la ragione inversa a quella dell’altra strategia: non perché è un prodotto già conosciuto ma proprio perché è un prodotto diverso. Infatti, nel mondo saturo dei consumi il nuovo consumatore post-moderno è curioso, alla ricerca di novità e di differenze. I vitigni autoctoni rispondono proprio a questo principio. L’Italia è il paese che ne ha di più nel mondo: nebbiolo, sangiovese, vermentino, soave, fiano, nero d’Avola e così via. Certo, non bisogna credere che siano interessanti solo in quanto autoctoni. Bisogna che siano buoni e riconoscibili, che ci sia una produzione seria, qualitativa e continuativa, che la quantità rimanga contenuta per non inflazionare il mercato, come purtroppo sta succedendo in alcuni casi. Ma tutto questo non basta. Entrare sul mercato globale con un vitigno autoctono è difficile: bisogna costruire una narrazione e una relazione, e più ancora un’identità non equivoca. Se questa strategia riesce, ha più vantaggi competitivi dell’altra. L’Italia è il paese del bello e del buono e resta anche sorprendentemente il paese delle diversità: architettoniche, artistiche, paesaggistiche e di cultura materiale (oltre ai vitigni autoctoni, la cucina italiana — unica al mondo — ha più di duemila ricette). Questo è il tema sul quale centrare un’attività di comunicazione e di relazione con il mondo di oggi, che non può essere copiata da nessuno. Un modo di fare turismo senza spostarsi da casa: non attraverso il video, ma una cena e un bel bicchiere di vino italiano. N 10 77 d.C. i principali vitigni nei vigneti italiani Plinio il Vecchio cita il vino da uva Apia L’autore è docente di marketing strategico e produttore di uno dei migliori esemplari di verdicchio di Jesi © RIPRODUZIONE RISERVATA TRATTORIA AL POMPIERE V.le Regina d'Ungheria 5 Tel. 045-8030537 Chiuso domenica e lunedì a pranzo PERBELLINI Via Muselle 130 Località Isola Rizza Tel. 045-7135352 Chiuso dom., lun. e mart. menù da 65 euro dove comprare SALUMERIA ALBERTINI Corso Sant’Anastasia 41 Tel. 045-8031074 ENOTECA SEGRETA Vicolo Samaritana 10 Tel. 045-8015824 ENOTECA ZAMPIERI Via Alberto Mario 23 Tel. 045.597053 ISTITUTO ENOLOGICO ITALIANO Via Sottoriva 7 Tel. 045-590366 ZENO GELATO E CIOCCOLATO Piazza San Zeno 12/A Tel. 338-6716878 PASTICCERIA TOMASI Corso Milano 16 Tel. 045-574017 PANIFICIO GASPARONI Via Dora Baltea 31 Tel. 045-956283 ANTICHI SAPORI Via Pellicciai 20 Tel. 045-594454 Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 MARZO 2011 l’incontro Abita con moglie e figlio in una casa della periferia romana costruita dal padre e in cui vivono anche la mamma e la sorella. Èqui che è nato il suo destino di autore narrante: “Tutto iniziò con le storie di streghe raccontate da mia nonna alle donne e ai bambini” Poi, da grande, inciampò nell’antropologia: “E da lì al teatro e al cinema il passo è stato breve” Militanti Ascanio Celestini on Ascanio Celestini ci si vede in un laboratoriomagazzino con tanto di vecchio bancone da lavoro di robusto legnaccio, con pareti su cui spiccano raspe, scalpelli, pialle («Un tempo si chiamavano sponnarole»), lime («Dette anche code di sorcio»), seghe («Ribattezzate saracchi») e taglierini di precisione («Soprannominati sgorbie»). Sugli scaffali abbondano barattoli per la colla, e spuntano anche bizzarre, nasute maschere in cuoio. Qua e là campeggiano un tamburello, una chitarra, un tamburo bianco che sembra un water, una montagna di dischi in vinile, mobili della nonna, un banco di scuola biposto dell’Ottocento, un calco con un’incisione rupestre («Me l’ha fatto scoprire un amico della Val Camonica, è di due-tremila anni fa, a riprova che l’arte era in simbiosi con la natura»). «Un tempo questo luogo era il regno di mio padre, che restaurava mobili. Aveva messo su quest’officina-garage a pochi metri dalla casa di due piani che negli anni Sessanta aveva contribuito lui stesso a costruire, partecipando al cantiere. Tutto era cominciato acquistando un lotto di terreno di 1200 metri». Siamo a Morena, in una traversa di via Anagnina, a pochi metri dal Grande Raccordo Anulare, all’altezza dell’uscita 21, quella dell’Ikea, e Celestini, in attesa di trasferirsi in un’abitazione da ristrutturare non molto lontana da qui, è ancora un inquilino di questa palazzina dove su altri piani abitano la madre e la sorella, mentre gli affittuari sono tre: una famiglia e due negozianti («Uno è un barbiere napoletano che sta nella sua bottega da quarant’anni, si chiama Antonio Posillipo»). Insomma questo ta di testimonianze, Ascanio Celestini è riuscito a farci sentire la voce registrata del padre in un suo spettacolo (ispirato alle epopee del genitore), Scemo di guerra, producendo sensazioni che hanno parlato al cuore. Come attore di teatro (da Radio clandestina a Fabbrica, fino ad Appunti per una lotta di classe), di televisione (a RaiTre con Serena Dandini) e di cinema (nel suo La pecora nera), come autore di libri (Storia di uno scemo di guerra, La pecora nera, Lotta di classe, e l’appena pubblicato Io cammino in fila indiana), come cantantautore-strumentista con all’attivo tournée di concerti, e come artista impegnato in campagne sociali e politiche, Ascanio è una macchina inarrestabile di parole. Sempre così?... «In famiglia non tanto. Di questi tempi a cena parlo magari della Repubblica Romana, come in altri casi facevo cenno ai minatori, agli operai, ai pazienti dei manicomi. A mio figlio che ha un carattere contemplativo la sera riservo, per farlo Ho letto molto sulla Repubblica Romana. Uno dei momenti più alti del Risorgimento, con protagonisti giovanissimi Come a un raduno a Woodstock FOTO BLACKARCHIVES C ROMA attore-raccontatore-scrittore, che da anni alimenta una cultura popolare e umana di immediata comunicazione, abita in una specie di borgo attrezzato fatto di un solo caseggiato alla periferia di Roma, accatastando in un piccolo locale le frugali e quasi inesistenti scenografie dei suoi spettacoli, collezionando libricini e moleskine su cui prende appunti di idee per la scrittura, frasi da rielaborare, progetti scenici. Da un album di foto di gioventù si apprende che già al liceo Celestini aveva i capelli lunghi, un retaggio adesso molto ridimensionato. «Lotta di classel’ho scritto qui». Mi mostra anche un archivio povero (ma ricco di sentimenti) a base di reperti di conversazione. «Sono le ore e ore di racconti degli anziani di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, storie che ho raccolto dal 2000 al 2004. A forza di sentire le vicende, le disavventure, le emozioni e i matrimoni di quella gente di paese, nel 2003 mi ci sposai anch’io, lì. Con mia moglie, Sara, vivevo già insieme dall’89, pure lei è di Morena. E abbiamo un figlio, Ettore, che ha quattro anni». Parliamo di famiglia, di radici, e di tradizioni domestiche, con Ascanio, perché il suo destino di artista e di autore narrante prende corpo in modo indelebile, come ricorda lui stesso, nel corso di pratiche verbali casalinghe metabolizzate poco a poco in gioventù. «Tutto cominciò con un ampio repertorio di storie di streghe sul quale mia nonna faceva affidamento d’istinto. Non erano fiabe di magia. Lei raccontava cose risalenti a un passato remoto, e diceva che erano cose vere, ma io ebbi presto la certezza che di reale c’era soprattutto il suo bisogno di esporsi, di dire, di rendere partecipi. Notai che nonna si intratteneva soltanto con un pubblico formato da altre signore e ragazze, o da bambini. Riferiva di accadimenti ascritti a donne che avevano prerogative o poteri superiori ad altre donne, all’insaputa degli uomini cui erano legate. E suscitava stupore descrivendo milioni di aghi in un uovo, dando magari anche la ricetta di pozioni magiche... Rammento una faccenda curiosa: chi c’era partecipava molto, perché si trattava di un rito, con soggetti che ricorrevano spesso, al punto che le storie erano straconosciute, eppure ogni volta, a sentirle, scattava una specie d’attrazione automatica. È lì che ho assorbito i primi germi del raccontare, della voglia di raccontare. E devo anche molto a mio padre, che però era portavoce di una realtà drammatica di tempi più vicini a noi, della guerra, incline com’era a rispolverare le vicissitudini che gli erano capitate». Fedele all’idea di una staffet- addormentare, una storia al buio, e di recente utilizzo favole di Gianni Rodari, ma può capitare che gli dica (a volte al telefono, da lontano) fiabe mie come Santa Minanta Buffanta o Il galletto, o può anche capitare che ripassi con lui il libro illustrato su Giufà. I bambini si trovano benissimo coi volumi da sfogliare». Ammette che la dimensione intima della paternità gli toglie un po’ delle sicurezze di lui artista pubblico. «Confesso d’avere un sentimento di paura, un timore che a mio figlio succeda qualcosa, ma questo è nell’ordine delle incertezze che sento gravare oggi su tutti noi adulti. In compenso condivido con Ettore una specie di teatro realistico della cucina. Ad esempio facciamo insieme la pasta con acqua e farina (le uova no, perché ci sporchiamo troppo le mani), e la pizza. Se s’escludono le spade di legno che mi costruivo nell’infanzia avendo un padre restauratore (spade che Ettore ha trovato e con cui, essendo affascinato dall’invisibile, fa battaglie immaginarie), io da piccolo giocavo poco, e allora mi diverto molto di più, adesso, da grande, con questi riti del mangiare». Poi c’è, ci sarebbe, il capitolo dei sentimenti, degli affetti dell’Ascanio uomo che è l’altra (schiva) faccia dell’Ascanio artista. «Io, che compio trentanove anni a giugno, da ventidue sto assieme a Sara che fa trentanove anni a maggio. Non siamo mai stati persone da colpi di testa. È successo tutto lentamente, da quando eravamo entrambi diciassettenni. Siamo cambiati, è cambiato il rapporto, abbiamo affrontato l’odissea della casa, lei ha lasciato il posto all’Ibm e ora lavora con me occupandosi delle faccende concrete del mio lavoro. Io non so quanti soldi ho in tasca. Non mi capita di spendere, salvo che per i libri. Ho un furgone anziché una macchina, e un motorino nuovo che è una sòla». Pochi forse sanno che Ascanio avrebbe anche potuto fare il pennivendolo, come l’avrebbe definito Carmelo Bene, sulla carta stampata. «Dopo il liceo classico a Frascati, mi iscrissi a Lettere, e sono arrivato a dare quindici esami su venti. Volevo fare al più presto il giornalista, e ho cominciato a firmare articoli sulla cronaca romana del Momento Sera, poi mi sono fatto prendere da studi e da letture di antropologia, e dall’antropologia al teatro il passo è stato breve. Un amico, Nico, mi convinse a fare un laboratorio teatrale, e intanto all’università frequentavamo il teatro Ateneo dove mettevano piede il Teatro Settimo di Gabriele Vacis, Giorgio Barberio Corsetti, i Teatri Uniti, Enzo Moscato. All’epoca io vendevo la rivista Sipario e otte- nevo i biglietti gratis per il teatro. Riuscii a frequentare la scuola di Perla Peragallo, un’esperienza grande, scioccante, appassionante. E dopo vennero i primi soldi, guadagnati in Toscana col Teatro Agricolo, imparando a fare la commedia dell’arte, il teatro di strada, le giullarate in maschera». Nacque di lì a poco il primo vero spettacolo, Cicoria, ispirato a Pasolini, e Baccalà, e Vita, morte e miracoli, e Fine del mondo che nel 2000, grazie a Mario Martone, conobbe niente meno che un insediamento con regole a norma Cee al teatro Argentina. Adesso ha in mano il nuovo libro Io cammino in fila indianaedito da Einaudi. «È una raccolta di quaranta racconti, un terzo circa di materiali di teatro, e due terzi di testi battezzati in tv». Apologhi, denunce, grotteschi manifesti, monitoraggi di infamie, ritratti da paura, comicità alla deriva. A metà aprile la Feltrinelli annuncia un dvd del film La pecora neracon l’allegato cartaceo di un diario di lavorazione e di testi antipsichiatrici. E Mario Martone torna a essere un suo committente. Dopo Pasqua, il 2829 aprile, è atteso alla Cavallerizza di Torino, ospite dello Stabile, con uno studio dal titolo Senza prigioni, senza processi che condurrà al futuro lavoro Pro Patria. «L’impegno nasce da un suggerimento dello stesso Mario: approfondire la Repubblica Romana. Ho letto molte cose, è uno dei momenti più alti del Risorgimento, con protagonisti giovanissimi, con una corrente collettiva di adolescenti come per un raduno epocale a Woodstock, con scontri tra ragazzi e vecchi, e io impersonerò uno che sta preparando un discorso, per dire fatti e motivi, come se avesse un dialogo diretto con Mazzini e con la lotta armata di allora». Gli brillano gli occhi, ad Ascanio. Sempre lì con quella sua voce calma, con quella sua posa compunta, con quella sua coscienza sorridente. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ RODOLFO DI GIAMMARCO Repubblica Nazionale