Domenica
La
di
DOMENICA 27 MARZO 2011/NUMERO 319
Repubblica
l’attualità
Peppino Impastato, il caso non è chiuso
ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLO
cultura
Le avventure di Jean-Jacques Sempé
FABIO GAMBARO e TULLIO PERICOLI
La paura
della morte,
la stanchezza
di vivere
CHRISTOPHER ISHERWOOD
Diario di un uomo solo
M
N
CHRISTOPHER ISHERWOOD
ALBERTO ARBASINO
Un altro ciak per la Casa Bianca
4 LUGLIO 1961
on sono felice. Sono depresso, profondamente.
Odio questa città e il suo clima. I rapporti con Don
vanno male per la maggior parte del tempo. Lui soffre la mia presenza e in realtà vorrebbe che me ne
andassi, ma sa che gli sarò d’aiuto per la mostra. È felice solo quando dipinge o disegna — sta sperimentando una tecnica pittorica
interessantissima in bianco e nero. Non sono esattamente dispiaciuto per me; piuttosto stanco di me. Hemingway è morto. È probabile che lo abbia fatto intenzionalmente, stanco di tutto all’improvviso, anche della sua leggenda. Non c’è da stupirsi. Oggi capisco la melanconia senile. Ma non mi ci abbandonerò, credo.
(segue nelle pagine successive)
spettacoli
entre i più classici e sempreverdi romanzetti di
Christopher Isherwood vengono riproposti da
Adelphi (Un uomo solo, La violetta del Prater...),
Chatto & Windus presenta il secondo e finale
grosso volume dei suoi Diari, 750 pagine, The Sixties. Dunque, gli
anni Sessanta: quando lo si vedeva ogni mattina sulla “muscle beach” di Santa Monica, giusto al termine di Sunset Boulevard. Passeggiando fiero e birichino col suo berrettino girato in una distesa
di giovanottoni gay. E talvolta con una palla distrattamente fuori
dal vecchio slip. A casa sua, lì accanto, ripeteva: «Non scrivo mai
niente su qualcosa che non mi piace».
(segue nelle pagine successive)
CLAUDIA MORGOGLIONE e VITTORIO ZUCCONI
i sapori
Alla riscoperta del vitigno italiano
AMPELIO BUCCI e LICIA GRANELLO
l’incontro
Ascanio Celestini, storie di casa mia
RODOLFO DI GIAMMARCO
Repubblica Nazionale
FOTO DAN TUFFS/GETTY IMAGES
Nell’autoritratto
dello scrittore
la nascita
del suo romanzo
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
la copertina
Un uomo solo
La malattia, la crisi con il compagno Don,
la California lisergica, il “Black Friday”
in cui morirono Jfk e Aldous Huxley
Escono negli Stati Uniiti i diari
di Christopher Isherwood, scritti mentre
lavorava al suo libro più difficile
CHRISTOPHER ISHERWOOD
(segue dalla copertina)
on abbandonerò Don
anche se magari tornerò
in California e lo aspetterò. So cosa devo fare:
andare avanti con il Ramakrishna e dedicarmi
alle umili occupazioni quotidiane. Ormai sono di mezz’età e lento. Odio quando mi mettono fretta. Ha chiamato la
Bbcchiedendomi se potevo dire qualcosa su Hemingway. No, ho risposto.
N
26 agosto 1962
La mia aspettativa di vita oggi è di diciassette anni. Ma sono ben consapevole che potrei morire da un momento all’altro. Quella aggressiva ragazza nera
che ho conosciuto alla festa a Natale a
New York ha detto che sarei morto dopo
aver scritto un altro libro (di grande successo), un anno o due dopo, credo abbia
detto. Ho paura della morte? Sì e no. Ho
il terrore di perdere il controllo, sapendo
di essere nella fase terminale della malattia, sapendo che i medici e le infermiere mi hanno in loro potere, nel loro
mondo crudele di antidolorifici insufficienti. Ma ho anche fede. Credo che in
qualche modo avrò un sostegno. Se mai
esiste la vita dopo la morte. E per me è ancora un po’ un se. Non grande però.
Non mi piace come invecchio. Ho il viso imbruttito dalla tensione, dal rancore
e dalla libidine. Non è affatto bello. Vecchio e brutto. E ho la pancetta nonostante tutta la ginnastica. Devo domina-
mia casa e soprattutto i miei libri. Voglio
stare qui e andare avanti col mio lavoro,
ai miei ritmi. Posso lasciarlo solo ora, è
chiaro, con molta più facilità di un tempo; abbiamo più spazi privati. Ma non
abbastanza. La nostra vita insieme è tutta sbagliata e non so se si possa tornare
indietro. [...]
18 maggio 1963
Se devo scrivere il diario in questo periodo bisogna che resti molto aderente
ai fatti. Altrimenti sarà un nauseante raccontare me stesso. Sono tornato a casa in
macchina il quindici perché Don ha detto che in fin dei conti non vuole venire a
San Francisco; perché non abbiamo la
casa dei Wells-Hamilton. [...]
Ieri ho fatto una corsa in centro da Kazanjian e gli ho comprato un anello con
uno zaffiro australiano blu scuro. Questa mattina a colazione è scoppiato in lacrime dicendo che non poteva accettarlo. Il nostro per lui è un rapporto impossibile. Io sono troppo possessivo. Non
regge l’idea di avermi attorno per altri
dieci anni o più a consumare tutta la sua
vita. Gli ho detto che sono assolutamente d’accordo. Se non funziona bisogna
dire basta. [...]
2 agosto
Gavin ha letto il romanzo e pare apprezzarlo moltissimo. Ma lo preoccupa
l’identità di George. Ha la sensazione
che il modo di parlare di George e l’atteggiamento che ha nei confronti del
suo lavoro del college siano talmente
miei personali che non lo si accetta come un personaggio a se stante. Può ben
essere. Ma non sono sicuro che si possa
“Sto con te
ma sono
a single man”
re il mio rancore in qualche modo, mi logora.
Odio Don? Solo la parte egoista di me
lo odia perché rompe l’incanto. Quando
riesco ad andare oltre questo mi fa davvero pena, perché sta soffrendo terribilmente. Ancora non so se vuole lasciarmi
sul serio o che altro. E non credo lo sappia. Ieri sera era ubriaco e si è messo a
piangere, nell’atelier, così forte che potevo sentirlo da casa. Sono andato da lui
e mi ha detto di lasciarlo solo, che gli andava di piangere. Ho avuto l’impressione che fosse sul punto di crollare. Ma poi,
stamattina, si è presentato con dei regali di compleanno con sopra una dedica
giocosa — due camicie, calzini bianchi,
un cinturino per l’orologio e un bellissimo cavallo in miniatura, giapponese,
bianco con finimenti arancio, verdi e
oro.
10 settembre
Con Don va male ma almeno abbiamo avuto un chiarimento l’altro giorno.
Dovrei andar via, ovviamente, per qualche mese e lasciarlo qui a ritrovare la
bussola. Non farlo significa costringere
lui ad andar via, ed è sbagliato perché è
lui che non si sente davvero a suo agio in
questa casa e ora che ha il suo atelier dovrebbe essere libero di goderselo.
E poi perché non vado via? Perché mi
crea trambusto e non voglio lasciare la
fare qualcosa al riguardo. Forse sarà meglio pubblicare il romanzo riconoscendone i limiti piuttosto che cercare di
creare un George fittizio, del tutto convincente nella sua insulsaggine, finendo
però per perdere tutta la follia del personaggio.
A letto lunedì sera Don è rimasto a lungo in silenzio. Pensavo si fosse addormentato. Poi all’improvviso mi ha chiesto: «Che ne diresti di intitolarlo Un uomo solo?». Ho capito all’istante e da allora non ho mai avuto dubbi al riguardo,
ossia che è il titolo assolutamente ideale
per il romanzo e che userò quello a meno che non me lo rubino. [...]
30 novembre
Riluttanza a scrivere sul ventidue, il
Black Friday, ma dovrei. Per ricordare.
Don ed io eravamo ancora a letto, alle
undici circa, perché la sera prima avevamo organizzato una cena d’addio per
Cecil Beaton (in partenza per New York
e, da lì, per l’Inghilterra), c’erano anche
Paul Wonner e Bill [Brown] e Jack Larson
e Jim [Bridges], e avevamo fatto tardi. Telefonò Henry (ancora adesso ricordo
che era lui — pare impossessarsi di tutto
— intrufolandosi con la sua insensibilità
teutonica) per dire che avevano sparato
al presidente. Accendemmo la vecchia
radio di Harry Brown, che altrimenti non
usavamo mai, e ascoltammo dal letto le
RITRATTO D’ARTISTA
Christopher
Isherwood posa
per il compagno
Don Bachardy
nei primi anni Ottanta
In copertina, il ritratto
dello scrittore
notizie che si succedevano e che ben
presto confermarono la morte.
Quando morì Roosevelt ero triste, ma
mi dissi: bene, ci daranno un giorno libero. Stavolta era diverso. Solo orrore e
disgusto. Quando ci penso mi torna in
mente un soggiorno a Calcutta, quando
nell’hotel cosiddetto di lusso da sotto il
gabinetto iniziò a trasudare una fanghiglia nera. Si aveva la sensazione — per
quanto dirlo possa suonare sensazionalistico — che fosse un’opera del male di
cui la nazione intera si era macchiata,
tutti noi con il nostro odio.
Per Aldous [Huxley] fu il contrario.
Presumo in parte perché non era colpa
nostra. Morì senza soffrire. Alla fine
chiese l’acido lisergico e gli fu somministrato. Era lucidissimo. Il giorno prima
aveva terminato e rivisto un articolo su
Shakespeare e la religione che a detta di
Laura è molto valido.
La domenica successiva Laura e Rose,
la sorella di Maria, e la madre di Maria e
il figlio di Rose, Siggy e Mattew Huxley e
Peggy Kiskadden e altri, me incluso, andammo a fare una passeggiata verso la
riserva — invece di celebrare il funerale.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 MARZO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
L’Hollywood Vedanta
dei favolosi Sixties
ALBERTO ARBASINO
(segue dalla copertina)
on m’interessa. Perciò non
me ne occupo. Neanche una
parola. Meglio parlare solo
delle persone e cose che si amano, no?».
E intanto descriveva A Single Man, che
stava componendo. «Non taglio mai.
Semmai, allungo». In questi diari, scopre
a un tratto che il protagonista del romanzo dovrebbe essere un anziano la
mattina, un adulto a mezzogiorno, un
giovanotto verso sera, un bambino la
notte. Ma intanto componeva anche un
impegnativo libro su Ramakrishna, santo avatar bengalese.
Pare ormai impressionante notare, in
questi Diarie in un Glossariodi oltre cento pagine di brevi biografie, la quantità di
personaggi e amici allora viventi e frequentati ogni giorno. In una California
ancora stupenda, però fissata intorno al
mondo del cinema. Dunque senza gli
spettacoli e le mostre e la musica tanto
fitti e brillanti a New York. Gli Stravinskij,
gli Huxley, i vari Mann, Gerald Heard e i
colleghi Auden e Vidal e Capote e Spender spesso lì, accanto a Tony Richardson,
Cecil Beaton, Charles Laughton ed Elsa
Lanchester. E il meraviglioso stuntman
Mike Steen, amico di Nicholas Ray e Tennessee Williams e William Inge e Gavin
Lambert e molti altri, e generosamente
disponibili in vari posti giusti americani
ed europei. Da ultimo, nei primi anni
Sessanta, collaboratore del superproduttore Samuel Bronston per i kolossal
con Charlton Heston e Sophia Loren a
Madrid, dove in un ricco attico ospitava
il tremendissimo Gerald Hamilton, l’originario e autenticato Mr Norris di Mr
Norris se ne va. Già tanto descritto da
Isherwood come lustro, unto, grassissimo e cattivissimo fin dai primi anni
Trenta berlinesi. Uno di quegli elisabettiani ingordi e sfrenati che anche vecchissimi stramangiano e strabevono.
(Ma ormai andava a dormire presto,
Mike e il suo amico gli preparavano delle minestrine, poi uscivano nei locali).
Sospettoso e molto dispettoso. «Berlino negli anni di Weimar era noiosissima!
Locali chiusi, atmosfera da Salvation
Army, tutti a letto entro le nove!... Semmai, la vera follia inarrivabile ci fu solo
nell’inverno 1907/1908! Però nel 1909
era già tutto finito!»... Si lasciava andare
parlando di suoi progetti certamente
finti: un musical perfidissimo, Braganza
Extravaganza, sulla decadenza e fine
delle dinastie portoghesi e brasiliane. E i
giovanotti americani lo ascoltavano.
(Come diceva Truman Capote: «Io canto
per la mia zuppa»).
Piuttosto imbarazzante, nei voluminosi diari di Isherwood, accanto ai molti
nomi noti e illustri, appare la presenza
continua di tanti “swami” indiani e californiani dai nomi pittoreschi: Prabhavananda, Madhavananda, Ranganathananda, Vidyatmananda, Vivekananda,
Nikhilananda... Talvolta anglosassoni
convertiti alla filosofia e agli inni e ai riti
Vedanta. E magari turbati davanti ai diversi libri devozionali indù di Isherwood,
sempre così impertinente su tutto; e poi,
questa biografia del sant’uomo ottocentesco Ramakrishna, venerato e adorato
quale taumaturgico fondatore di vastissimi ordini monastici indiani con predicazioni e meditazioni e propagande positive e favorevoli con donazioni e istituti e centri soprattutto presso Hollywood.
Con decenni di diari isherwoodiani
devoti... Allora, chissà, confronti impossibili con i trimillenari sacrifici ed ebbrezze del Veda, nelle rielaborazioni di
FOTO ©ZEITGEIST FILMS/COURTESY EVERETT COLLECTION
«N
Fu un’idea di Matthew. Peggy ed io fummo educati ma non parlammo quasi [...].
Continuo a pensare: i libri ormai sono
finiti. Forse morirò presto, come ha profetizzato quella ragazza di colore a New
York. Se così non sarà, aspettiamo comunque che questo orrore indiano sia
finito e poi vediamo cosa porta. La vita va
avanti o si ferma. Se va avanti, le cose
cambieranno per me.
Traduzione Emilia Benghi
© 2010 Don Bachardy
(Ha collaborato Gabriele Pantucci)
‘‘
Il nostro per lui è un rapporto impossibile
Io sono troppo possessivo
Non regge l’idea di avermi attorno
per altri dieci anni o più a consumare
tutta la sua vita. Gli ho detto
che sono assolutamente d’accordo
Se non funziona bisogna dire basta
Roberto Calasso con L’ardore? Dunque,
slacciati da qualunque contemporaneità nelle pratiche e tempistiche quotidiane? Così come si assisteva compunti
ai Mahabarata inscenati da Peter Brook
in certi scavi edilizi nel Quartiere Prati,
rammentando quale modello di “autenticità” la sua Carmen all’Argentina. Via
tutti i posti di platea; tutti giù per terra in
pose di “lotus” intorno a un focherello. E
le voci della saggezza: «Qua seppoffà tutto. I sedili, se ponno mette e se ponno toglie». Con la musica di Bizet eseguita da
un’orchestrina tipo Piazza San Marco.
Altro show, rispetto alla Carmen di Karajan alla Scala. Anche rispetto ai
Kathakali, di Bali, al lume delle torce perché non c’erano ancora l’elettricità e le
macchine, e non si pagava il biglietto
nemmeno agli attigui teatrini delle ombre.
Su Veda e Vedanta e i loro santoni,
Isherwood compose varie pensose opere, anche in margine ad A Single Man, e
sempre frequentando gli Huxley e Stravinskij e badando al successo artistico e
mondano del suo amico Don Bachardy.
Ma sempre trenta secoli separano l’ardore dei Veda di Calasso da questi traffici californiani intorno al “carismatico”
Gerarld Heard grande amico di Aldous
Huxley nelle iniziative pacifiste, nelle
pratiche ascetiche presso lo Swami
Prabhavananda, con fondazione della
comunità monastica di Trabuco, poi ceduta per insufficiente austerità a un’altra
Vedanta Society, ma continuando con
Huxley gli esperimenti con mescalina ed
Lsd. Eccellenti modelli per la narrativa tipo macchina fotografica di Isherwood.
Ne ha approfittato parecchio. Ma quanti poi saranno, infine, i veri e falsi guru?
Anche i poeti beat Allen Ginsberg e Peter
Orlovsky, di passaggio, cantano nenie
indù sciogliendo le chiome a un pranzo
di giovanotti dove un diciassettenne
prodigio dispiega un rotolo che ha eseguito sul Libro tibetano dei morti. E finisce con accuse reciproche di stregoneria.
Nell’India vera e propria, gli swami risultano arroganti e maleducatissimi fra
complessissimi gradi e voti di iniziazioni
e vari Senza Nome, Senza Forma e giubilei sanscriti. E diarree per i forestieri. Tornando a Santa Monica, però, riecco
George Cukor, King Vidor, Jennifer Jones, Anne Baxter, David Hockney, Janet
Gaynor, Natalie Wood, David Selznick,
Shelley Winters, gli importanti produttori figli di Max Reinhardt o di Bertholt
Viertel (sempre La violetta del Prater).
Muore intanto Charles Laughton.
Letteratura e quotidianità si intrecciano, molto naturalmente. Soliti pranzetti
in casa con gli Stravinskij e gli Huxley. Ma
Christopher si ubriaca «terribly» tutte le
sere, e così non ricorda niente. Forse si
addormentava, secondo Stravinskij.
L’amico Bachardy è spesso di malumore
perché la sua carriera artistica non procede malgrado le raccomandazioni illustri. Però si assoggetta alle cerimonie di
iniziazione indù, con rituali di fiori, fuocherelli, incensi; e tuttavia dimentica i
suoi mantra, che bisogna ripetere un
certo numero di volte su un apposito rosario.
(Come facevano le nostre vecchie zie.
Ma ancora in un recentissimo Times Literary Supplement si dedicavano paginate alle posizioni yoga già praticate cinque millenni fa, e sviluppatesi come «industria multimiliardaria» nell’America
d’oggi).
© Alberto Arbasino
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Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’attualità
Cento passi
DOMENICA 27 MARZO 2011
La notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, quella in cui il ragazzo di Cinisi
venne ucciso, i carabinieri uscirono da casa sua con sacchi pieni
di documenti. Ora, dai sotterranei del Palazzo di giustizia
di Palermo, qualcosa riemerge: alcune lettere, la lista della spesa
per la festa di Radio Aut, le tessere Arci. Troppo poco rispetto
ai materiali sequestrati. E così i magistrati riaprono le indagini
LE FOTO
A sinistra Peppino Impastato nella
casa di Cinisi; in basso è con gli amici
sulla neve (1968); nella foto grande
(e in quella in basso a sinistra) viene
fermato da un poliziotto a un corteo
contro la guerra in Vietnam (1967);
nelle due foto a colori la sede di Radio
Aut. Le foto sono state gentilmente
concesse dalla “Casa memoria
Felicia e Peppino Impastato”, Cinisi
PALERMO
«È
come se mancasse ancora un
pezzo della vita
di Peppino — sussurra il fratello Giovanni — quella vita che era dentro le sue lettere, i suoi volantini, i libri, i ciclostili: furono portati via dalla nostra casa di Cinisi la notte dell’omicidio. Una decina di
carabinieri misero tutto dentro dei grandi sacchi neri. Cinque, forse sei. Come se
quei fogli fossero il corpo del reato. E da
quella notte dell’8 maggio ’78 sono
scomparsi». Giovanni Impastato non ha
mai smesso di cercare l’archivio di suo
fratello. E insieme a lui l’hanno cercato
gli amici di Peppino e i compagni del
centro Impastato. «Fra quelle carte c’è la
chiave del mistero che ancora avvolge
l’omicidio — sostiene Giovanni —. Subito le indagini furono depistate da esponenti delle istituzioni. Cosa si doveva nascondere? Quali complicità della mafia
Peppino aveva scoperto?».
IL
Sono le stesse domande
che adesso si pongono il procuratore
aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e il
sostituto Francesco Del Bene, che hanno appena aperto un fascicolo di accertamenti preliminari sui depistaggi di
trent’anni fa. Ancora una volta, dunque,
la storia di Peppino Impastato riparte da
quella casa che dista cento passi dalla
palazzina che era il regno del capomafia
Gaetano Badalamenti: da lì, i carabinieri iniziarono a indagare. Nel 2000, la
commissione antimafia presieduta da
Giuseppe Lumia ha rilevato che fu davvero uno strano inizio di indagini, e ha
segnato una traccia per arrivare all’archivio scomparso di Impastato: rimanda al processo contro Badalamenti, condannato come mandante dell’omicidio.
Bisogna allora scendere nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo
per provare ad andare oltre. È nel faldone 4 bis del processo a don Tano l’indicazione che l’Antimafia aveva segnato, a
futura memoria. Fra le righe di una laconica relazione di servizio del comandante del nucleo informativo è scritto: «1 giugno ’78. Controllo persone sospettate di
appartenenza a gruppi eversivi. Si trasmette l’elenco, sequestrato informalmente nell’abitazione di Impastato Giu-
L’archivio
segreto
di Peppino
O
T
A
T
S
A
P
M
I
O
S
CA
SALVO PALAZZOLO
seppe». «Sequestro informale», una formula che ha poco di diritto. Qualche foglio dopo, ecco «l’elenco del materiale
informalmente sequestrato in occasione del decesso di Impastato». Due fogli
senza intestazione, senza firma, senza
data. Solo un elenco in 32 punti. Inizia
con: «Fotocopia di una lettera spedita a
Impastato». Si conclude con: «Statuto
Circolo Arci». Passando per lettere, volantini e appunti per iniziative di Radio
Aut, il vero megafono di Peppino.
Eccole, le carte che erano dentro ai
sacchi neri. Saranno una cinquantina di
fogli, davvero pochi per stare nei cinque
sacchi che Giovanni Impastato vide portare via. E poi questi fogli sono solo fotocopie annerite. Nel febbraio 2000, il pubblico ministero Franca Imbergamo le ottenne dai carabinieri. I documenti erano
sempre rimasti dentro la pratica “P029542” del reparto operativo.
Adesso, Giovanni Impastato sta sfogliando le fotocopie nella redazione palermitana di Repubblica. «È un ritrovamento importante», dice. «Questa è la
scrittura di Peppino — ora Giovanni sorride — qui annotava: “È vero che il 9 luglio il maresciallo si è incontrato col deputato fascista e col criminale nazi-fascista?”». Tra le fotocopie spunta una lettera di alcuni muratori: «Aveva organizzato un collettivo di edili», spiega Impa-
I DOCUMENTI
In alto la lista dei tesserati al Circolo Arci
di Cinisi; l’elenco dei materiali
sequestrati dai carabinieri la notte
dell’omicidio; una lettera scritta
da Impastato sulle connivenze
tra carabinieri e neofascisti
stato. Il fratello di Peppino continua a
sfogliare e trova delle lettere che erano
dirette a lui: «Scrivevamo spesso ad alcuni compagni conosciuti durante il servizio militare, in Friuli». Ecco la fotocopia della copertina di un libro di Toni Negri, edito da Feltrinelli: Il dominio e il sabotaggio. «Lo comprammo durante una
licenza», ricorda Giovanni, che intanto
ha trovato un elenco del circolo Musica
e cultura: «Ci sono i nomi dei ragazzi di
allora — sorride — Questi documenti
fanno rivivere un movimento importan-
te». In alcune lettere è citato Ciro Noia,
un attivista di Lotta Continua arrivato in
Sicilia con Mauro Rostagno. «Mi emoziona sfogliare queste carte. Sono convinto che c’è dell’altro, non so dove».
La prova che la lista ritrovata è da considerarsi incompleta è ancora fra le fotocopie. C’è un volantino che non è citato
fra i 32 punti. Riguarda la strage alla casermetta di Alcamo, che nel ’76 fece due
morti. Il volantino che adesso Giovanni
stringe fra le mani si intitola: «Provocatorie perquisizioni dei carabinieri». Pep-
pino denunciava la «strategia della tensione». Giovanni Impastato è convinto
che fra le carte mai ritrovate ci siano degli appunti importanti: «Probabilmente
— dice — Peppino aveva scoperto le collusioni fra Badalamenti e alcuni carabinieri». Aggiunge: «Di certo, oggi sappiamo che l’archivio di Peppino viene trattenuto in un palazzo delle istituzioni sulla base di un atto illegittimo. È venuto il
momento di farlo tornare a casa nostra,
ormai casa della memoria».
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DOMENICA 27 MARZO 2011
la storia
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IL DELITTO
LE INDAGINI
IL PROCESSO
I DEPISTAGGI
LA RIAPERTURA
La notte dell’8 maggio
1978, sicari ancora ignoti
colpiscono Peppino
Impastato, poco fuori
Cinisi, e lo fanno
esplodere sui binari
della Palermo-Trapani
I carabinieri parlano
di un attentato suicida
ma la denunce
dei compagni
di Peppino convincono
la magistratura
della tesi dell’omicidio
Nel ’96 Badalamenti
viene condannato
all'ergastolo come
mandante dell’omicidio
Il boss Vito Palazzolo
viene invece condannato
a trent’anni di carcere
Nel ’98 la relazione
della commissione
antimafia parla
di depistaggi
istituzionali
nelle prime indagini
sul caso Impastato
Ora la Procura
di Palermo ha aperto
un fascicolo
di accertamenti
preliminari
sui presunti depistaggi
istituzionali
TO
Non solo mafia, trent’anni di depistaggi
ATTILIO BOLZONI
ominciamodalla scena del crimine, cominciamo da lì per ricordare che
la morte di Peppino non è ancora un caso chiuso. I binari, il “terrorista”
steso in mezzo al suo sangue e ai frammenti della sua bomba. È la prima volta che la mafia usa l’esplosivo per un bersaglio facile, un ragazzo che se
ne va in giro di notte e da solo per le campagne di Cinisi. Niente armi corte per
un agguato, il modo più semplice per uccidere. Niente lupara bianca, il modo più mafioso per lasciare la firma. No, per Peppino hanno scelto come ambiente la linea ferrata, fra le sue mani il tritolo. Il ritrovamento della vittima che
incolpa se stessa. Una scena del crimine molto militare.
Cominciando da lì — da quello che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi
— qualcuno oggi ha il sospetto che a volere morto Peppino Impastato non
sia stato solo Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi che in Sicilia era una potenza e dal dopoguerra aveva regolato il traffico degli stupefacenti con l’America. Troppo diversa quella tecnica omicidiaria. L’omicidio di mafia — sia
esso “preventivo” o “dimostrativo”, quelli del primo tipo ordinati per eliminare un pericolo per l’organizzazione, quegli altri per produrre paura — serve sempre a far capire a tutti chi è stato a volerlo. È la forza del segnale, dell’avvertimento. «Gli omicidi di matrice mafiosa presentano caratteri strutturali talmente singolari da costituire una categoria assolutamente autonoma, non assimilabile ad alcun’altra nell’intero panorama criminale», viene
riportato in tutte le motivazioni delle sentenze delle corti di Assise del distretto giudiziario palermitano.
La scena del crimine inconsueta — quasi più da “operazione” che da vendetta mafiosa — e poi un’inchiesta contraffatta per sostenere la tesi dell’attentato finito male. Con le indagini concentrate, sin dalle prime ore, esclusi-
C
vamente sulla ricerca di prove contro la vittima. Come in un verdetto già scritto: Peppino è stato “suicidato” subito. Da magistrati. Da carabinieri. Da testimoni reticenti. Prove scomparse, indizi cancellati, le sue carte (come raccontiamo nell’articolo accanto) prelevate da uomini in divisa e mai più ritrovate.
Un inquinamento investigativo a tutto campo, percepibile dai primi sopralluoghi e dalle prime informative trasmesse alla procura della repubblica.
Troppo sproporzionato quel depistaggio per proteggere solo un mafioso
— seppure un mafioso importante, di peso — come Badalamenti. C’era probabilmente qualcun altro da coprire a Cinisi, quella notte fra l’8 e il 9 maggio
1978. Archiviato in più riprese come «omicidio a carico di ignoti» e poi più
volte riesumato fino ad arrivare faticosamente alla condanna di don Tano
come mandante, il caso Impastato è uno di quei delitti siciliani dove s’intravede una “convergenza di interessi” fra Cosa Nostra e altri poteri. Qualcuno
vorrebbe ancora indagare, cercare, capire. Anche perché chi allora aveva
manovrato (alcuni ufficiali dei carabinieri) per accreditare l’ipotesi dell’atto
terroristico — escludendo categoricamente qualsiasi altra pista — oggi è scivolato nelle investigazioni sulle trattative fra Stato e mafia all’ombra delle
stragi siciliane del 1992.
L’inchiesta sulla morte di Peppino non è stata sepolta nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo solo per la tenacia e l’amore dei suoi compagni
(come non ricordare le intuizioni di Umberto Santino, che in solitudine e per
lungo tempo non ha mai abbandonato la speranza di scoprire la verità) e per i
lavori della commissione parlamentare antimafia che nel 2000 ha svelato le
prime mosse per lo sviamento delle indagini. A trentatré anni dall’uccisione di
quel coraggioso ragazzo siciliano, forse è stata fatta giustizia solo a metà.
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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
CULTURA*
Settantanove anni, oltre sessanta libri, disegnatore per riviste come
“Paris Match” e “New Yorker”, la sua satira è sempre in bilico tra ironia,
poesia e malinconia. Dal suo atelier di Parigi il creatore de “Le petit Nicolas”
parla del suo metodo, dell’ansia da foglio bianco, dell’importanza della revêrie
E del libro che esce in Italia: “Racconta di quando ero povero e di un regalo che non ebbi mai”
Ai bordi della vita
TULLIO PERICOLI
disegnidi Sempé non si guardano, vi si assiste. Come ad uno
spettacolo. Uno spettacolo che però sembra visto dal finestrino di un treno. Come dalla ferrovia vediamo passare il
dietro delle case, un po’ dall’alto, da una certa distanza e protetti dal vetro, così nei suoi disegni assistiamo alla vita degli altri, scoprendo quello che di solito tendiamo a non mostrare: oggetti svogliatamente conservati, passatempi oziosi, scarti e biografie di cui ci vergogniamo un po’. Le storie di Sempé rivelano
così le nostre segrete intimità. E lo spettacolo dei suoi disegni è
quindi quello di un piccolo segreto svelato, che ci dice ciò che
non vorremmo essere e quello che preferiremmo non sapere di
essere. Queste scene vanno guardate per frammenti: come nella pittura antica è bene cominciare dai bordi, perché i dettagli
che danno senso al tutto sono nascosti lì, dietro una siepe, al di
là di un recinto, sul retro di un grattacielo. Come se dal centro
una forza centrifuga ce li avesse spinti.
Sempé ritrae persone, ma anche case, paesaggi, interni come fossero persone. E sopra a tutto questo aleggia il suo lieve
sorriso che sfrutta un segno timido e leggero, incerto e delicato, che più che graffiare accarezza, aiutato da un colore acquoso e trasparente di un acquarello steso con sapienza. Un segno
messo in mano ad un osservatore acutissimo, capace di notare e riferire l’imperfezione
delle nostre cose,
dei nostri gesti e
delle nostre idee.
I
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Officina
Sempé
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 MARZO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Il sognatore di vignette e biciclette
FABIO GAMBARO
«I
IL LIBRO
Arriva
in libreria
per Donzelli
Il segreto
di Monsieur
Taburin
da cui è tratta
l’immagine
della pagina
a sinistra
(94 pagine,
14 euro)
Donzelli inizia
così la
pubblicazione
dell’opera
di Sempé
in Italia
avendo
opzionato
in esclusiva
tutti i diritti
PARIGI
l disegno è un mezzo di comunicazione universale. Può parlare a tutti,
al di là delle differenze di lingua e cultura. Per questo cerco di creare immagini con poche connotazioni spazio-temporali, ma
capaci di evocare la poesia presente in ogni uomo».
Gentilissimo e sorridente, Jean-Jacques Sempé ci riceve nel suo appartamento-atelier all’ultimo piano di un
palazzo signorile nel quartiere parigino di Montparnasse. Uno spazio luminoso e ordinato, dominato da
una grande vetrata da cui lo sguardo si perde sulla distesa dei tetti di Parigi. Qui, tra tavoli ingombri di fogli
e colori, il celebre disegnatore francese crea le sue incantevoli vignette, la cui poetica perennemente in bilico tra ironia e malinconia è ormai conosciuta in tutto il mondo: «I miei disegni nascono sempre dalla fantasia e dalla rêverie. E questa vista su Parigi è perfetta
per perdersi a fantasticare, anche se poi, dato che sono molto pigro, faccio fatica a mettermi al lavoro».
Sempé — che fino al 24 aprile espone a Parigi, alla
Galérie Martine Gossieaux una serie di illustrazioni sul
tema del mare, dell’estate e delle vacanze — si presenta come un artigiano disinteressato alle nuove tecnologie, che da più di cinquant’anni lavora sempre allo
stesso modo — «anche perché alla fine sono sempre io
da solo davanti a un foglio bianco» — alternando matite, pastelli, chine e acquerelli, a seconda del tema e
dell’umore del momento. Non a caso, non ha mai pensato di fare un disegno al computer, che peraltro neppure possiede. «Non credo ai libri elettronici, perché ci
saranno sempre dei lettori che avranno voglia di avere
un libro vero tra le mani, di sfogliarne le pagine e continuare a sognare. Se proprio devo interessarmi a qualcosa, preferisco guardare alle tecniche del passato, come ad esempio l’incisione», ammette, mentre guarda
soddisfatto Il segreto di Monsieur Taburin, un libretto
delizioso appena pubblicato in Italia da Donzelli (già
editore delle avventure del Piccolo Nicolas), che racconta la buffa storia di un bravissimo meccanico di biciclette che però non sa andare in bicicletta, un segreto che non ha il coraggio di rivelare a nessuno, neppure a sua moglie. «È un libro cui tengo molto, perché per
finirlo mi ci sono voluti quasi trent’anni. All’inizio,
scrissi e disegnai due terzi dell’avventura di Raoul Taburin in pochissimi giorni, procedendo spedito senza
mai fermarmi. Poi però non seppi come concludere la
storia, che così è restata per quasi tre decenni nei miei
cassetti». Ripreso e abbandonato più volte, il libro ha
trovato un finale solo qualche anno fa: «Alla fine, n’è
venuta fuori una bella storia d’amicizia, costruita sull’idea che ogni uomo ha probabilmente un segreto nascosto dentro di sé». Una storia che, oltretutto, rende
omaggio al grande sogno della sua infanzia: «Avrei tan-
“Mi sento come un trapezista
che si allena per ore
per poi volteggiare nell’aria
per un brevissimo istante”
to voluto avere una bicicletta, ma i miei genitori, che
erano molto poveri, non hanno mai potuto regalarmela. Così, quando finalmente ho potuto comprarmene una, per molti anni mi sono spostato a Parigi
esclusivamente pedalando. Non mi stancavo mai».
Nonostante i settantanove anni e gli innumerevoli
successi di una carriera durante la quale ha pubblicato una sessantina di libri, Sempé oggi continua a lavorare di buona lena, dedicandosi come sempre a più
progetti contemporaneamente. In questo momento,
ad esempio, oltre ai disegni per Paris Match e il New
Yorker, due testate con cui collabora da moltissimi anni, sta preparando due nuovi libri, uno dedicato all’infanzia e uno di vignette umoristiche, che sono la sua
vera passione: «L’ironia non deve mai trasformarsi in
cattiveria. Un vignettista non deve infierire né prendersi troppo sul serio, pensando d’essere migliore degli altri. Al contrario, deve essere dotato di una certa autoironia. Nei miei disegni evito di fare la morale, preferisco far sorridere con leggerezza, una qualità che però
domanda moltissimo lavoro. In fondo, mi sento come
un trapezista che si allena per ore per poi volteggiare
nell’aria per un brevissimo istante». Per questo ricomincia le sue illustrazioni infinite volte, senza mai esserne pienamente soddisfatto, sebbene oggi sia più indulgente con se stesso di quanto non lo sia stato in passato: «In fondo, cerco sempre la perfezione, anche se
non so mai bene cosa sia».
Per ottenere un buon disegno occorre naturalmente saper osservare la società, cogliendone i dettagli che
ne rivelano le debolezze e le contraddizioni, le incongruenze e le stranezze. E Sempé, seppure abbia spesso dichiarato d’essere poco interessato alla realtà, sa
osservare benissimo il mondo che lo circonda. «Se disegno una strada, non mi metto certo a disegnare cavalli e carrozze, ma automobili e camion. È così che la
realtà entra nei miei disegni, benché sempre filtrata
dal mio punto di vista», spiega, ricordando che la società contemporanea gli sembra «molto più dura, più
violenta, più rapida, ma anche molto più monotona»,
di quella della sua giovinezza. «Oggi tutto tende all’uniformità, tutto si assomiglia, quindi per un disegnatore è meno divertente rappresentare il reale. Ecco
perché cerco di metterne in luce gli aspetti più buffi o
stravaganti», conclude l’autore del Segreto di Monsieur Taburin, che, «di fronte ai grandi maestri del passato», considera un suo dovere restare «necessariamente umile». E mentre ci saluta, accendendosi l’ennesima sigaretta, si lascia andare a un’ultima confidenza: «Sono sempre stupito dalla caparbietà degli
uomini che cercano in ogni situazione di crearsi almeno un pezzetto di felicità. Che per me, poi, ha sempre
qualcosa a che fare con la poesia». Ecco, adesso forse
abbiamo capito. Au revoir, Monsieur Sempé.
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LE RIVISTE
IN MOSTRA
Dal New Yorker a Punch, alcune delle riviste
a cui collabora Sempé. In alto, la copertina di Rallye
jeunesse che lo ritrae al lavoro da giovane
Due copertine del New Yorker disegnate da Sempé
Le tavole in alto sono esposte fino al 24 aprile
alla Galérie Martine Gossieaux di Parigi
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
SPETTACOLI
In principio, anno 1908, fu “Life of Abraham Lincoln”. Poi, da Oliver
Stone a Stanley Kubrick, da Nixon a Bush, non si è mai esaurita
la passione americana di raccontare cosa accade dentro le stanze
del potere. L’ultima puntata di una saga infinita si intitola “The Kennedys”
Che dal 3 aprile porta in tv le debolezze private di Jfk. Con polemiche al seguito
SERIE TV
All’ombra
della Casa Bianca
1987
The West Wing
1999-2006
24
2001-2010
The Reagans
2003
(nella foto sopra)
Una donna
alla Casa Bianca
2005-2006
The Kennedys
2011
FILM
SU PRESIDENTI
REALI
Life of Abraham Lincoln
di Van Dyke Brooke
1908
Abraham Lincoln
di D.W. Griffith
1930
Set
Casa
Bianca
Tutti i film del Presidente
Alba di Gloria
di John Ford
1939
Jfk
di Oliver Stone
1991
(nella foto sopra)
Gli intrighi del potere Nixon
di Oliver Stone
1995
Le ragazze
della Casa Bianca
di Andrei Fleming
1999
CLAUDIA MORGOGLIONE
13 days
di Roger Donaldson
2000
(nella foto sopra)
Fahrenheit 9/11
di Michael Moore
2004
Death of a president
di Gabriel Range
2006
er chi ama il cinema è ogni
volta un’emozione, visitare
— virtualmente — le sue segrete stanze. Scoprendo atmosfere, sapori, inquietudini sempre differenti. L’oppressione di un luogo popolato da fantasmi della mente, per il Nixon shakespeariano ritratto da Oliver Stone. La fortezza da cui riscattarsi da un incubo
edipico, per l’inadeguato George Bush
junior di W. Un bunker da delirio d’onnipotenza militarista, nel Dottor Stranamoredi Kubrick. Il teatro romantico dell’attrazione tra un uomo e una donna,
nel Presidente — Una storia d’amore.
Un’icona di libertà destinata a sbriciolarsi sotto un attacco alieno, in Indipendence day. L’ufficio occupato da uno
P
staff talentuoso e nevrotico, nella serie tv
pluripremiata The West Wing. Film o telefilm accomunati da un elemento che
certo non è solo architettonico: la Casa
Bianca. Residenza dalla carica simbolica fortissima, sede di quel Potere assoluto che è anche il titolo di un thriller di
Clint Eastwood, centrato su un inquilino
della White House più cattivo che mai.
La lunga love story tra Hollywood e il
1600 di Pennsylvania Avenue comincia
nel lontano 1908, con l’uscita della prima pellicola del genere: l’agiografica Life of Abraham Lincoln. E adesso, dopo
tante altre rivisitazioni presidenziali,
una nuova tappa, attesissima negli Usa:
la fiction in otto puntate The Kennedys,
prodotta dal conservatore Joel Surnow,
già artefice dell’adrenalinico 24. I protagonisti sono Greg Kinnear e Katie Holmes, nei panni di Jfk e di Jackie. Sarà tra-
smessa dal 3 aprile da ReelzChannel (in
Italia l’ha opzionata La7), dopo il gran rifiuto dell’emittente che l’aveva commissionata, History Channel. Motivo del
“no”: la scarsa attendibilità storica. Ma
dal fronte repubblicano si insinua che ci
siano state pressioni del potente clan
democratico di Boston. Allarmato da
una sceneggiatura con alcune palesi
inesattezze; ma soprattutto dal racconto delle debolezze private del presidente
ucciso a Dallas. Uno sguardo indiscreto
sulla sua sessuomania, e sul rapporto
complicato con la first lady.
Un caso classico in cui la Casa Bianca
viene vista dal buco della serratura: l’enfasi è più sulle stanze da letto che sullo
Studio Ovale. Ma in questo 2011 ci sono
anche progetti di tenore ben diverso. Come il Lincoln firmato Spielberg, che
verrà girato in estate. Scritto dal premio
Pulitzer Tony Krusher, interpretato da
Daniel Day-Lewis, si concentrerà sugli
scontri tra il presidente abolizionista e i
membri del suo gabinetto. Sempre in
questi mesi, il produttore Mark Joseph
sta preparando, per il grande schermo,
Reagan: la storia partirà dall’attentato
fallito del 1981, e per flashback racconterà gli anni precedenti. I rumors indicano, tra i candidati al ruolo, Josh Brolin
(già protagonista di W di Oliver Stone) e
Ben Affleck.
Tutti segnali di vitalità, nel rapporto
tra cinema e Casa Bianca. Un legame trasversale per eccellenza, che oltre al
dramma spazia tra commedia (Dave di
Ivan Reitman), azione (Air Force One,
con Harrison Ford), fantascienza (il folle
Mars Attacks! di Tim Burton). In alcuni
casi, i film ritraggono presidenti veri: ad
esempio il Bill Clinton di A Special Rela-
W.
di Oliver Stone
2008
(nella foto a sinistra)
FILM
CON PRESIDENTI
IMMAGINARI
Dave
di Ivan Reitman
1993
(nella foto a sinistra)
I due presidenti The Special Relationship
di Richard Loncraine
2010
Dottor Stranamore
di Stanley Kubrick
1964
(nella foto a sinistra)
Il presidente Una storia d’amore
di Rob Reiner
1995
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 MARZO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Una villa
non è
un Palazzo
VITTORIO ZUCCONI
i sentii come se il cielo mi fosse caduto addosso», confessò Harry Truman
quando alla morte di Roosvelt gli annunciarono che sarebbe entrato lui, il suo vice, alla
Casa Bianca. Qualcosa in effetti cadde, durante la
presidenza Truman, ma non fu il cielo. Fu il pavimento del secondo piano che crollò sotto il pianoforte che la moglie si era portata nel trasloco,
sprofondando lo strumento e la First Lady al piano
di sotto. Era il 1948 e l’incidente, che lasciò illesa la
signora ma sfasciò lo strumento, produsse la prima,
radicale ristrutturazione della villotta bianca al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington,
dopo 150 anni di ripitture, rattoppi, aggiunte, incendi e cannonate inglesi che l’avevano resa pericolante, tra l’indifferenza generale.
Perché in fondo, nonostante da quella casa fossero state condotte tre grandi guerre, una civile e
due mondiali, deciso il lancio di una bomba atomica, organizzate riforme epocali come il New Deal,
per la gente, per «the people», quella villotta di pietra arenaria in stile neo classico verniciata di bianco, copiata da dozzine di edifici inglesi o irlandesi
come il suo architetto, non aveva mai assunto il carattere sacrale e mistico del «palazzo» imperiale o
vaticano. Una villa come le altre, dove abitano, ma
solo per quattro o otto anni se gli va bene, famiglie
che devono ricordare, in ogni momento, di essere a
un passo dallo sfratto. Sic transit Casa Bianca.
Non esiste, negli Stati Uniti, quella relazione
aspra, diffidente, spesso reciprocamente malevola
che invece lega, nell’Europa di monarchie, cricche
e curie i cittadini a quello che appunto fu definito «il
palazzo». A nessun inquilino, che fosse il primo ad
occuparla, John Adams il primo novembre del 1800
quando ancora carpentieri e muratori segavano e
martellavano costringendo la signora Adams a vivere in una sola stanza, o che sia Barack Obama con
la sua Michelle e le due ragazzine che coltivano rapanelli e lattuga nel giardino, è mai permesso di dimenticare che quella non è «casa loro», ma casa nostra, di noi che paghiamo le spese condominiali e lo
stipendio di chi ci vive.
Dunque, se negli ultimi decenni cinema, televisione, letteratura di massa e sempre più occhi ci
hanno guardato dentro, dalla West Wing, dove si fa
la politica, allo Studio Ovale, dove a volte si fa qualcosa più che la Storia, non è violazione di privacy,
gossip. È l’ispezione che il padrone di casa, cioè noi
contribuenti, ha il diritto di compiere per accertarsi che gli occupanti non violino il contratto. Un sentimento di estraneità passeggera che gli stessi presidenti spesso avvertono, come Kennedy che brontolava: «L’unico vantaggio di questa casa è che puoi
andare in ufficio a piedi», abitando la Prima Famiglia al piano superiore degli uffici, casa e bottega.
Già non la volevano proprio costruire questa casa i vecchi e malfidenti «padri» americani nel ’700,
giudicata inutile, tronfia e pericolosamente «imperiale» per la neonata repubblica che di sovrani e Papi non voleva più sapere. Fu solo l’autorità di George Washington, il generale-contadino che aveva
cacciato la corona britannica, a zittire i brontolii di
repubblicani e federalisti duri che si vendicarono
lesinando i soldi per il progetto. E prima che il crescendo delle paure, culminato nel 2001 dopo l’11
settembre e dopo il monomotore Piper che un kamikaze americano anticlintoniano portò a sfasciarsi sotto le finestre di Bill e Hillary, allontanasse
i confini della Casa, ormai inavvicinabile dai turisti
senza permessi e controlli, di fatto chiunque poteva entrarvi.
Nei sette ettari del prato, oggi giardino, pascolavano le pecore di chi non aveva terreni propri. Presidenti, ancora fino alla fine dell’800, scoprivano
curiosi, passanti, rompiscatole che vagavano nelle
sue stanze, per presentare petizioni, offrire servizi
o per «dare un’occhiata». Anche se oggi non vi si entra più liberamente né si possono portare capre a
brucare o cani a far pipì come in passato, e missili
antiaerei di fabbricazione norvegese vegliano sul
tetto pronti ad abbattere qualunque velivolo entri
nella «no fly zone», qualche visita guidata nell’ala
che Jacqueline Kennedy fece arredare per quello
scopo deve essere permessa, perché la legge continua a imporre che tutti gli edifici del governo siano
davvero aperti al pubblico. Tutti tranne la Cia, dietro i boschi della Virginia, a Langley.
Il progressivo isolamento della Casa Bianca dal
resto del territorio, circondata da sbarramenti di
cemento, allontanata dal traffico che un tempo la
sfiorava fin quasi alla porta, trova il suo palliativo
nella pletora di film e telefim e docufiction che proliferano. Non per curiosare sotto le lenzuola, sotto
le scrivanie o nei minuscoli cubicoli dove lavora lo
staff del Presidente. Ma per ricordare che quella Casa, signor Presidente, è nostra e lei ci vive per gentile, e non sempre saggia, concessione del padrone di
casa. We, the people.
«M
tionship, in cui si mostra la sua amicizia
con Tony Blair; John e Bobby Kennedy
alle prese con la crisi dei missili a Cuba,
in Thirteen days; i tanti Abraham Lincoln
già visti sullo schermo, tra cui va citato almeno quello di D. W. Griffith, protagonista nel 1930 dell’omonimo film. Ma i segreti del luogo sono raccontati con altrettanta forza in opere con presidenti
immaginari: la pietra miliare, in questo
senso, è The West Wing(l’ala della White
House con gli uffici del “capo” e dei suoi
collaboratori), scritta dallo sceneggiatore premio Oscar Aaron Sorkin, che descrive con una verosimiglianza mai raggiunta il dietro le quinte del potere.
Un’altra serie tv, Una donna alla Casa
Bianca, ha messo in scena le difficoltà di
un presidente di sesso femminile; mentre 24 ci ha fatto vedere la carica innovativa di un leader afroamericano — anche
se in un telefilm che esalta le strategie alla Cheney nella lotta al terrorismo — già
prima dell’era Obama.
E poi ci sono i film che i presidenti non
li fanno vedere. O quasi. Concentrandosi di più sul luogo, e sulle persone che non
finiranno nei libri di storia. Nel centro del
mirino, con un grande Clint Eastwood, è
un omaggio all’abnegazione delle guardie che si occupano della sicurezza del
boss. Murder at 1600 ci introduce nei
meandri di un edificio di cui conosciamo solo le immagini ufficiali. Mentre
Sesso e potere ipotizza che dallo Studio
Ovale parta l’ordine di inscenare una finta guerra in stile kolossal per distogliere
l’attenzione dagli scandali a luci rosse
del Commander in Chief. Qui la tesi è che
la White House imiti Hollywood: una rivincita del cinema sulla politica.
Indipendence day
di Roland Emmerich
1996
Mars attacks!
Tim Burton
1996
(nella foto a sinistra)
LO STUDIO OVALE
I presidenti
americani
in una
illustrazione
di Victor Juhasz
Deep Impact
Mimi Leder
1998
Delitto alla Casa Bianca
- Murder al 1600
di Dwight H. Little
1997
Sesso & potere
di Barry Levinson
1997
Potere assoluto
di Clint Eastwood
1997
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Nel centro del mirino
di Wolfgang Peterson
1996
(nella foto a sinistra)
Air Force One
di Wolfgang Petersen
1997
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Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
le tendenze
Calze a rete, foulard con teschietti, leggings traslucidi,
scarpe fetish dai tacchi vertiginosi, minigonne rigorosamente
in pelle. Tutti accessori già incontrati nei guardaroba
di fine anni Settanta. Ma oggi la seduzione “total black”
Oltre il colore
non ha più il sapore della ribellione. Semmai la voglia
estrema di comparire. E di stupire
Borchie & chiodi
le ragazze del rock
IRENE MARIA SCALISE
he la moda intercetti stati
d’animo e fenomeni sociali
per poi trasformarli in suggestioni di taglio, materiali e colori è una scontata verità. Capita così, in questi tempi
piuttosto bui, di rivedere in passerella (e
nelle vetrine) giubbotti borchiati, foulard
stampati con teschietti, leggings traslucidi
(quelli che una volta si chiamavano fuseaux), scarpe fetish dai tacchi vertiginosi,
nonché minigonne in pelle: tutti accessori
già incontrati nei guardaroba delle sorelle
maggiori. La moderna Morticia Addams di
filmica memoria è oggi, però, assai più prorompente (anche grazie alla mastoplastica
additiva che tra le diciottenni continua a fare furore), decisamente più glamour e infinitamente meno disperata delle copie metallare di fine anni Settanta.
Più che l’emblema della ribellione, insomma, il look extreme di questa stagione
affonda nella voglia di stupire senza troppi
giri di parole e di volant. Sarà la crisi che imperversa, la disaffezione dilagante alla sobrietà del vestire o più semplicemente il ritorno di un’antica attrazione rock & dark
che ha sempre dato molto nel cinema e nella letteratura, dove imperversano gli eroi
che fanno innamorare il mondo proprio perché oscuri. Un trend, insomma, che non deve né stupire
né inquietare. Lo sa bene Valerie Steele, storica della moda
e a capo del Museum Of Fashion Institute Of Technology, che all’argomento ha
dedicato un libro: Fetish, sesso e potere, in cui racconta e spiega l’attrazione fatale che lega molti stilisti al più misterioso degli universi.
Ed eccoci, dunque, di fronte all’ennesima ricaduta di questa torbida passione
che scopre la pelle (come nei modelli con
catene di Y3), la fascia di stringhe e
zip (la sfilata Gucci docet), l’avvolge (e la strizza) con sete nere e una
cascata di paillettes. Ma la trasgressione è tutta qui: quello che
era anticonformista ieri, oggi diventa glamour. L’informale si trasforma in più formale che mai. E
sbarca con tutti gli onori nei salotti dell’haute couture segnando la
fine definitiva delle brave ragazze
tutte camicetta, giro di perle, giacchetta, tacco medio e bon ton. Signorine che, d’altro canto, si rintracciano solo nelle fiction ambientate nel Dopoguerra come
Atelier Fontana e che risultano estinte se non nella vita reale certamente
nei reality.
Tra gli effetti collaterali della nuova passione, la totale
scomparsa del colore. Una pennellata
black seppellisce tonalità fluo e toni pastello. Accade ciclicamente, dicono gli
esperti, che nei periodi più grigi i creativi
scelgano il nero come colore simbolo. E
così la nuova moda trionfa soprattutto
con le tenebre. Ricordate: dalle otto di sera in poi, al posto delle collane classiche si
sfoggiano bracciali “cattivissimi” con borchie e punte e scarpe che avvolgono la caviglia scatenando fantasie impure. Le
giacche diventano armature da guerriere metropolitane, i tacchi stiletti-coltello. Tempi duri per i troppo buoni. Magari se ne riparla la prossima stagione.
LUMINOSA
C
X
Ingentilita da paillettes
nere e chiusura
arricchita con pietre
la pochette
griffata Prada
CATTIVA
Ha anche il frustino
la divina proposta
da Hermès che unisce
fascino e mistero
Con cappello,
pantaloni aderenti
e tacchi vertiginosi
XX
LOLITA
Piacerà alle teenager
il look di Killah
che unisce il fascino
del rock alla malizia
di una moderna Lolita
Con minigonna
e maglia stampata
XXX
CHIC
Sexy ma anche molto
elegante la proposta
di Gucci: stivale
a punta scoperta
dalla lavorazione
raffinata e borsa
pochette
X
XX
XXX
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 MARZO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
AFRODITE
Sandalo in pelle a gabbia
alta per una moderna Afrodite
di CafèNoir. Ideale
per un abito scollato da notte
Christopher Bailey/Burberry
“La moda impari dalla musica”
SIMONE MARCHETTI
LONDRA
Q
OPTICAL
Bracciali luminosi
in bianco e nero
per Armani. Eleganza
per serate in grande stile
VERTIGO
Sandalo in pelle
vertiginoso
con tacco antigraffio
di Alberto Guardiani
uattro milioni di fan su Facebook. Una ventina di gruppi indie-rock emergenti. E tanti video con
le performance live per le strade di Londra. Sono i numeri e i contenuti di Burberry Acoustic, la fan page del brand inglese sul Social Network più famoso del mondo. L’ha voluta con insistenza Christopher
Bailey, il creativo a capo del marchio. Lo incontriamo nel suo studio al settimo piano di Horseferry
House, il palazzo di Burberry vicino a Westminster. Il designer è così appassionato di musica da curare personalmente la colonna sonora di ogni sua sfilata.
Da dove viene il suo amore per la musica indie-rock?
«Non c’è un inizio. La musica rock mi ha sempre accompagnato, ha sempre fatto parte della mia vita.
Anche di quella creativa. Burberry Acousticè forse il riassunto in immagini e in suoni di questa passione».
Oltre che un designer, lei è anche un talent scout di gruppi musicali sconosciuti. Dove li trova?
«A Londra funziona molto il passaparola. Spesso alle cene, tra le chiacchiere con gli amici, mi capita di venire a conoscenza di qualche nome nuovo della musica indie-rock. E poi, ovviamente, c’è Internet. Basta essere curiosi e consultare i siti giusti. Sono un grande fan di Youtube, penso sia una delle cose migliori della Rete. Poi non dimentico MySpace, Spotify e ovviamente iTunes. Infine, esiste ancora il piacere di trovare un album sconosciuto in un negozio di dischi. Oggi, però, tutto è reso più veloce e raggiungibile grazie al web».
Borchie, chiodi di pelle…Tanti i simboli rock nella moda di Burberry.
«Naturale, quasi organico. Fa tutto parte dello spirito dei tempi. Però non si tratta di copiare quello
che indossano i musicisti. Piuttosto di tradurre in estetica lo spirito, l’anima della loro musica. In un
certo senso, la musica ha fatto da apripista alla moda di oggi. Un gruppo musicale, infatti, non ha più
bisogno di fare i passaggi obbligati del passato per farsi conoscere: la Rete gli permette di fare un salto
di qualità e di notorietà impossibile fino a ieri. Così il Fashion System: oggi deve viaggiare a una velocità nuova e deve utilizzare tutte le possibilità di un mondo connesso e più vicino di prima».
La moda, quindi, deve imparare dalla musica?
«In un certo senso sì. Per esempio, noi di Burberry abbiamo capito che bisogna abbracciare la tecnologia senza nostalgia, senza snobismo e senza fanatismo. Il problema, resta umanizzare la Rete.
Burberry Acoustic si muove in questa direzione. E così molte altre iniziative del brand: artofthetrench.com (il sito dove tutti possono postare una propria foto col trench Burberry, ndr) o il servizio di vendita dopo la sfilata, che permette di ricevere gli abiti visti in passerella due mesi prima che arrivino in
negozio. Il cambiamento è generale, profondo, rivoluzionario. Si tratta solo di non averne paura e di
interpretarlo con intelligenza».
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GRINTOSA
Cintura alta in rosso e nero di Miss Sixty
È l’accessorio ideale per un look grintoso
X
X
XX
XXX
SPORTIVA
Sport e rock per Y3
Sneakers comode,
leggings aderenti,
guanti in pelle, top
sexy, collana, cintura
e cappello
con visiera dark
XX
DIVINA
Abito in organza
e pizzo nero
con inserti
in piume
Adatta alla notte
più fascinosa
la proposta Chanel
XXX
SEXY
MUST
Conturbante la mise
proposta da John
Richmond: gilet
brillante sulla pelle,
tacchi altissimi
e pantaloni
a vita bassa
Non può mancare
nella valigia
della perfetta
rockstar il chiodo
firmato Burberry
in morbida pelle
naturalmente nera
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
i sapori
le bottiglie
Prosit
Cortese
Radicato a Gavi, Alessandria,
da fine Ottocento, ha colore
paglierino e sentori di citrico
Ottimo come aperitivo,
per carni bianche e caprini freschi
Gavi Pisé
La Raia (da 12 euro)
Pecorino
In un mercato dominato da concorrenti
di qualità come i francesi o di quantità
come quelli del nuovo mondo,
si riscoprono i vitigni italiani: forse
più scorbutici, forse meno facili da abbinare,
ma di certo più preziosi. È la sfida del Vinitaly
Il nome di questo bianco
marchigiano dalle note fresche
e acidule omaggia l’attività
dei pastori e dei loro greggi,
ben accompagnandone i formaggi
Pecorino Fiobbo
2008 Aurora (da 9 euro)
edizione numero quarantacinque
LICIA GRANELLO
etit rouge, barbera, croatina, rossese di Dolceacqua, raboso, teroldego, refosco dal peduncolo rosso, sangiovese, cesanese di Affile, sagrantino, lacrima, montepulciano, tintilia, negroamaro, aglianico, aglianico del Vulture, gaglioppo, nero d’Avola,
carignano. Basta leggere un frammento del lunghissimo elenco di vitigni autoctoni che abitano le nostre campagne per attraversare l’Italia intera dalla Val D’Aosta alla Sardegna, senza saltare nemmeno una regione. Nello specifico, si
tratta di un piccolo rosario enologico non casuale, se è vero che
questi sono i venti vini scelti per produrre la versione rossa di
“Una”, la bottiglia nata per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia (ne è stata creata una speculare, da altrettanti vitigni bianchi). Due blend, entrambi curati dal super enologo Riccardo
Cotarella, pronti per le cantine del Quirinale dopo il battesimo
ufficiale dell’iniziativa, in coincidenza con l’inaugurazione
dell’edizione numero quarantacinque del Vinitaly, in programma a Verona dal 7 all’11 aprile, mai come quest’anno
aperto alle istanze del nuovo movimento.
Si dice autoctono e si pensa ai vitigni antichi e un po’ demodé,
accantonati in favore dei supergrappoli dei Soliti Noti, quelli
che si coltivano e commercializzano in tutto il pianeta. Perché
per molti anni ci è piaciuto cavalcare l’onda dell’enologia globalizzata. Abbiamo sposato la causa delle produzioni importanti per quantità, accessibili nel prezzo e nella comunicazione e poco differenziate. Fare la corsa sulle etichette più potenti e ruffiane alla fine non ci ha giovato. Anche perché all’estero,
in materia di grandi vini continuano a preferirci i francesi, mentre nel quotidiano la scelta cade sui nuovi mostri, le bottiglie del
P
Nostre
vigne
Le
355
5.000
i vitigni coltivati
nel mondo
i vitigni autoctoni
registrati in Italia
La rivincita dei soliti ignoti
nuovo mondo, perfette nella loro scaltra pochezza.
Così, ci è toccato riscoprire il piccolo mondo antico, fatto di
vitigni nati, o importati da lungo tempo, in un luogo che è quello e quello soltanto, dove l’adattamento a clima e terreno e una
buona attitudine a dare il meglio di sé anche in situazioni non
ottimali contribuiscono a creare veri miracoli. Un recupero di
uve glorificato dalle pratiche di agricoltura naturale — biologico e biodinamico in primis — e da una comunicazione quasi
da passaparola, eppure a suo modo efficacissima.
Risultato: vini senza scorciatoie, fieri delle proprie imperfezioni, rappresentanti autentici del proprio terroire in armonia
con esso. Se merlot e chardonnay vanno bene con tutto o quasi, gli autoctoni sanno essere empatici ma anche scorbutici,
molto amando i cibi di casa propria e pochissimo quelli altrui.
Provare per credere: regalatevi una bottiglia di timorasso dell’alessandrino Walter Massa e sorseggiatelo con una fetta di
formaggio montebore o un morso di pesca di Volpedo, figli
gourmand delle stesse colline. Allo stesso modo, un buon bicchiere di falanghina campana solleticherà la dolce rusticità di
past’e patatecome mai avreste immaginato. Chiusura in gloria
con tavolette della Chocolate Valley e aleatico dell’isola d’Elba.
Sigaro toscano a parte, s’intende.
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Itinerari / Verona
dove
dormire
B&B DUOMO
Via Duomo 19
Tel. 045-8034006
Camera doppia
da 75 euro,
colazione inclusa
HOTEL MASTINO
Corso Porta Nuova 16
Tel. 045-595388
Camera doppia
da 90 euro,
colazione inclusa
dove
mangiare
PIZZERIA I TIGLI
Via Camporosolo 11
Località S. Bonifacio
Tel. 045-6102606
Chiuso mercoledì
menù da 15 euro
HOTEL
GIULIETTA E ROMEO
Vicolo Tre Marchetti 3
Tel. 045-8003554
Doppia da 105 euro,
colazione inclusa
HOTEL ACCADEMIA
Via Scala 12
Tel. 045-596222
Camera doppia
da 170 euro,
colazione inclusa
HOTEL
MARCO POLO
Via di Sant’Antonio 6
Tel. 045-8010885
Doppia da 110 euro,
colazione inclusa
AL CAPITAN
DELLA CITTADELLA
Piazza Cittadella 7
Tel. 045-595157
Chiuso dom. e lun. a pranzo
menù da 45 euro
DA ADRIANO
Via Moschini 26
Tel. 045-913877
Chiuso domenica
e lunedì a pranzo
menù da 40 euro
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 MARZO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Fortana
Nosiola
Vermentino
Pignolo
La “regina delle uve negre per fare
buon vino” (da un testo del 1600)
viene tramutata in uno spumante
di sei gradi che profuma di more,
perfetto col culatello
Ha riflessi verdolini e profumo
delicato di fiori bianchi il vino
da pesce (di lago), declinato
anche in versione passita
(Vin Santo Trentino)
Ama il mare, l’uva diffusa
tra le coste di Toscana, Sardegna
e Corsica. Sapido e brillante,
il vino si abbina a meraviglia
con i piatti di pesce
Da grappoli serrati come pigne,
il millenario rosso friulano
di sapore elegante e generoso,
da sorseggiare con prosciutto
San Daniele stagionato
Fortana del Taro
Antica Corte Pallavicina (da 6,50 euro)
Nosiola
Gino Pedrotti (da 7 euro)
Vermentino Campo del Noce
2009 Pieve Vecchia (da 9 euro)
Pignolo 2005
Adriano Gigante (da 22 euro)
Sagrantino
Grillo
Bombino
Pascale
Importato in Umbria dall’Asia
Minore, è un rosso avvolgente,
modulato dalla permanenza
in legno, perfetto per arrosti
e tome stagionate
È dedicato a Nicolò Azoti,
martire della mafia, il dorato bianco
siciliano di buona struttura,
che regge ricette come
i paccheri al ragù di cernia
Il Bonvino pugliese, di probabile
provenienza spagnola, profuma
di macchia mediterranea
e ben si accompagna
agli antipasti di pesce
Battezzato Giacomino in Gallura,
il vitigno rosso della campagna
sassarese regala profumi speziati
e vinosi. Si gusta con carni robuste
o da meditazione
Montefalco Sagrantino
2005 Di Filippo (da 22 euro)
Grillo 2009
Centopassi (da 13 euro)
Bombino 2009
Rivera (da 6 euro)
Ottomarzo 2007
Dettori (da 21 euro)
Un paese di santi, eroi
e viticoltori
AMPELIO BUCCI
egliultimi decenni i produttori hanno lavorato sugli aspetti poetici, estetici e sensoriali del vino: qualità, gusto, profumi... E i vini italiani sono migliorati molto. Oggi però urge affrontare un tema più
prosaico come il mercato, problema che ha sorpreso il settore del vino:
negli ultimi anni, infatti, i viticoltori si sono trovati impreparati non a fare il vino, ma a venderlo. È vero che il mercato si è allargato a tutto il mondo. In compenso, la stessa globalizzazione ha portato quasi tutto il mondo a produrre vino, spesso con regole semplificate rispetto alle nostre.
Questi vini utilizzano soprattutto i cosiddetti vitigni internazionali: cabernet, merlot, chardonnay e pochi altri, con la strategia di offrire prodotti
già noti al consumatore, che si troverà a confrontare lo chardonnay californiano con quello australiano, cileno o siciliano. Think global and act
local, pensa globale e agisci locale, è lo slogan di questa strategia, la quale richiede un rapporto molto aggressivo con il mercato, attraverso prezzi, comunicazione e distribuzione.
I vitigni autoctoni evidentemente fanno fatica a entrare in questa competizione. Per fortuna, oggi esiste un’altra strategia, che parte dal principio diametralmente opposto: «Pensa locale e agisci globale». Ovvero, se
possiedi una cosa speciale, assolutamente locale, che esiste solo nel tuo
territorio, è possibile trovare uno spazio nel mondo dei consumi per la ragione inversa a quella dell’altra strategia: non perché è un prodotto già conosciuto ma proprio perché è un prodotto diverso. Infatti, nel mondo saturo dei consumi il nuovo consumatore post-moderno è curioso, alla ricerca di novità e di differenze.
I vitigni autoctoni rispondono proprio a questo principio. L’Italia
è il paese che ne ha di più nel mondo: nebbiolo, sangiovese, vermentino, soave, fiano, nero d’Avola e così via. Certo, non bisogna
credere che siano interessanti solo in quanto autoctoni. Bisogna
che siano buoni e riconoscibili, che ci sia una produzione seria, qualitativa e continuativa, che la quantità rimanga
contenuta per non inflazionare il mercato, come
purtroppo sta succedendo in alcuni casi. Ma tutto questo non basta. Entrare sul mercato globale con un vitigno autoctono è difficile: bisogna costruire una narrazione e una relazione, e più ancora un’identità non equivoca. Se questa strategia riesce, ha più vantaggi competitivi dell’altra.
L’Italia è il paese del bello e del buono e resta anche sorprendentemente il paese delle
diversità: architettoniche, artistiche, paesaggistiche e di cultura materiale (oltre ai vitigni autoctoni, la cucina italiana — unica al
mondo — ha più di duemila ricette). Questo è il
tema sul quale centrare un’attività di comunicazione e di relazione con il mondo di oggi,
che non può essere copiata da nessuno. Un
modo di fare turismo senza spostarsi da
casa: non attraverso il video, ma una cena
e un bel bicchiere di vino italiano.
N
10
77 d.C.
i principali vitigni
nei vigneti italiani
Plinio il Vecchio
cita il vino da uva Apia
L’autore è docente di marketing
strategico e produttore
di uno dei migliori esemplari
di verdicchio di Jesi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
TRATTORIA
AL POMPIERE
V.le Regina d'Ungheria 5
Tel. 045-8030537
Chiuso domenica
e lunedì a pranzo
PERBELLINI
Via Muselle 130
Località Isola Rizza
Tel. 045-7135352
Chiuso dom., lun. e mart.
menù da 65 euro
dove
comprare
SALUMERIA ALBERTINI
Corso Sant’Anastasia 41
Tel. 045-8031074
ENOTECA SEGRETA
Vicolo Samaritana 10
Tel. 045-8015824
ENOTECA ZAMPIERI
Via Alberto Mario 23
Tel. 045.597053
ISTITUTO ENOLOGICO
ITALIANO
Via Sottoriva 7
Tel. 045-590366
ZENO GELATO
E CIOCCOLATO
Piazza San Zeno 12/A
Tel. 338-6716878
PASTICCERIA TOMASI
Corso Milano 16
Tel. 045-574017
PANIFICIO GASPARONI
Via Dora Baltea 31
Tel. 045-956283
ANTICHI SAPORI
Via Pellicciai 20
Tel. 045-594454
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 MARZO 2011
l’incontro
Abita con moglie e figlio in una casa
della periferia romana costruita
dal padre e in cui vivono anche
la mamma e la sorella. Èqui che
è nato il suo destino
di autore narrante:
“Tutto iniziò con
le storie di streghe
raccontate da mia
nonna alle donne
e ai bambini”
Poi, da grande, inciampò
nell’antropologia: “E da lì al teatro
e al cinema il passo è stato breve”
Militanti
Ascanio Celestini
on Ascanio Celestini ci si
vede in un laboratoriomagazzino con tanto di
vecchio bancone da lavoro di robusto legnaccio, con pareti su cui
spiccano raspe, scalpelli, pialle («Un
tempo si chiamavano sponnarole»), lime («Dette anche code di sorcio»), seghe («Ribattezzate saracchi») e taglierini di precisione («Soprannominati
sgorbie»). Sugli scaffali abbondano barattoli per la colla, e spuntano anche
bizzarre, nasute maschere in cuoio.
Qua e là campeggiano un tamburello,
una chitarra, un tamburo bianco che
sembra un water, una montagna di dischi in vinile, mobili della nonna, un
banco di scuola biposto dell’Ottocento,
un calco con un’incisione rupestre
(«Me l’ha fatto scoprire un amico della
Val Camonica, è di due-tremila anni fa,
a riprova che l’arte era in simbiosi con la
natura»).
«Un tempo questo luogo era il regno
di mio padre, che restaurava mobili.
Aveva messo su quest’officina-garage a
pochi metri dalla casa di due piani che
negli anni Sessanta aveva contribuito
lui stesso a costruire, partecipando al
cantiere. Tutto era cominciato acquistando un lotto di terreno di 1200 metri». Siamo a Morena, in una traversa di
via Anagnina, a pochi metri dal Grande
Raccordo Anulare, all’altezza dell’uscita 21, quella dell’Ikea, e Celestini, in attesa di trasferirsi in un’abitazione da ristrutturare non molto lontana da qui, è
ancora un inquilino di questa palazzina
dove su altri piani abitano la madre e la
sorella, mentre gli affittuari sono tre:
una famiglia e due negozianti («Uno è
un barbiere napoletano che sta nella
sua bottega da quarant’anni, si chiama
Antonio Posillipo»). Insomma questo
ta di testimonianze, Ascanio Celestini è
riuscito a farci sentire la voce registrata
del padre in un suo spettacolo (ispirato
alle epopee del genitore), Scemo di
guerra, producendo sensazioni che
hanno parlato al cuore.
Come attore di teatro (da Radio clandestina a Fabbrica, fino ad Appunti per
una lotta di classe), di televisione (a RaiTre con Serena Dandini) e di cinema
(nel suo La pecora nera), come autore di
libri (Storia di uno scemo di guerra, La
pecora nera, Lotta di classe, e l’appena
pubblicato Io cammino in fila indiana),
come cantantautore-strumentista con
all’attivo tournée di concerti, e come artista impegnato in campagne sociali e
politiche, Ascanio è una macchina inarrestabile di parole. Sempre così?... «In
famiglia non tanto. Di questi tempi a cena parlo magari della Repubblica Romana, come in altri casi facevo cenno ai
minatori, agli operai, ai pazienti dei manicomi. A mio figlio che ha un carattere
contemplativo la sera riservo, per farlo
Ho letto molto
sulla Repubblica
Romana. Uno
dei momenti più alti
del Risorgimento,
con protagonisti
giovanissimi
Come a un raduno
a Woodstock
FOTO BLACKARCHIVES
C
ROMA
attore-raccontatore-scrittore, che da
anni alimenta una cultura popolare e
umana di immediata comunicazione,
abita in una specie di borgo attrezzato
fatto di un solo caseggiato alla periferia
di Roma, accatastando in un piccolo locale le frugali e quasi inesistenti scenografie dei suoi spettacoli, collezionando libricini e moleskine su cui prende
appunti di idee per la scrittura, frasi da
rielaborare, progetti scenici. Da un album di foto di gioventù si apprende che
già al liceo Celestini aveva i capelli lunghi, un retaggio adesso molto ridimensionato. «Lotta di classel’ho scritto qui».
Mi mostra anche un archivio povero
(ma ricco di sentimenti) a base di reperti di conversazione. «Sono le ore e ore di
racconti degli anziani di Rubiera, in
provincia di Reggio Emilia, storie che ho
raccolto dal 2000 al 2004. A forza di sentire le vicende, le disavventure, le emozioni e i matrimoni di quella gente di
paese, nel 2003 mi ci sposai anch’io, lì.
Con mia moglie, Sara, vivevo già insieme dall’89, pure lei è di Morena. E abbiamo un figlio, Ettore, che ha quattro
anni».
Parliamo di famiglia, di radici, e di
tradizioni domestiche, con Ascanio,
perché il suo destino di artista e di autore narrante prende corpo in modo indelebile, come ricorda lui stesso, nel
corso di pratiche verbali casalinghe metabolizzate poco a poco in gioventù.
«Tutto cominciò con un ampio repertorio di storie di streghe sul quale mia
nonna faceva affidamento d’istinto.
Non erano fiabe di magia. Lei raccontava cose risalenti a un passato remoto, e
diceva che erano cose vere, ma io ebbi
presto la certezza che di reale c’era soprattutto il suo bisogno di esporsi, di dire, di rendere partecipi. Notai che nonna si intratteneva soltanto con un pubblico formato da altre signore e ragazze,
o da bambini. Riferiva di accadimenti
ascritti a donne che avevano prerogative o poteri superiori ad altre donne, all’insaputa degli uomini cui erano legate. E suscitava stupore descrivendo milioni di aghi in un uovo, dando magari
anche la ricetta di pozioni magiche...
Rammento una faccenda curiosa: chi
c’era partecipava molto, perché si trattava di un rito, con soggetti che ricorrevano spesso, al punto che le storie erano straconosciute, eppure ogni volta, a
sentirle, scattava una specie d’attrazione automatica. È lì che ho assorbito i primi germi del raccontare, della voglia di
raccontare. E devo anche molto a mio
padre, che però era portavoce di una
realtà drammatica di tempi più vicini a
noi, della guerra, incline com’era a rispolverare le vicissitudini che gli erano
capitate». Fedele all’idea di una staffet-
addormentare, una storia al buio, e di
recente utilizzo favole di Gianni Rodari,
ma può capitare che gli dica (a volte al
telefono, da lontano) fiabe mie come
Santa Minanta Buffanta o Il galletto, o
può anche capitare che ripassi con lui il
libro illustrato su Giufà. I bambini si trovano benissimo coi volumi da sfogliare». Ammette che la dimensione intima
della paternità gli toglie un po’ delle sicurezze di lui artista pubblico. «Confesso d’avere un sentimento di paura, un
timore che a mio figlio succeda qualcosa, ma questo è nell’ordine delle incertezze che sento gravare oggi su tutti noi
adulti. In compenso condivido con Ettore una specie di teatro realistico della
cucina. Ad esempio facciamo insieme
la pasta con acqua e farina (le uova no,
perché ci sporchiamo troppo le mani),
e la pizza. Se s’escludono le spade di legno che mi costruivo nell’infanzia
avendo un padre restauratore (spade
che Ettore ha trovato e con cui, essendo
affascinato dall’invisibile, fa battaglie
immaginarie), io da piccolo giocavo poco, e allora mi diverto molto di più, adesso, da grande, con questi riti del mangiare».
Poi c’è, ci sarebbe, il capitolo dei sentimenti, degli affetti dell’Ascanio uomo
che è l’altra (schiva) faccia dell’Ascanio
artista. «Io, che compio trentanove anni a giugno, da ventidue sto assieme a
Sara che fa trentanove anni a maggio.
Non siamo mai stati persone da colpi di
testa. È successo tutto lentamente, da
quando eravamo entrambi diciassettenni. Siamo cambiati, è cambiato il
rapporto, abbiamo affrontato l’odissea
della casa, lei ha lasciato il posto all’Ibm
e ora lavora con me occupandosi delle
faccende concrete del mio lavoro. Io
non so quanti soldi ho in tasca. Non mi
capita di spendere, salvo che per i libri.
Ho un furgone anziché una macchina,
e un motorino nuovo che è una sòla».
Pochi forse sanno che Ascanio avrebbe anche potuto fare il pennivendolo,
come l’avrebbe definito Carmelo Bene,
sulla carta stampata. «Dopo il liceo classico a Frascati, mi iscrissi a Lettere, e sono arrivato a dare quindici esami su
venti. Volevo fare al più presto il giornalista, e ho cominciato a firmare articoli
sulla cronaca romana del Momento Sera, poi mi sono fatto prendere da studi e
da letture di antropologia, e dall’antropologia al teatro il passo è stato breve.
Un amico, Nico, mi convinse a fare un
laboratorio teatrale, e intanto all’università frequentavamo il teatro Ateneo
dove mettevano piede il Teatro Settimo
di Gabriele Vacis, Giorgio Barberio Corsetti, i Teatri Uniti, Enzo Moscato. All’epoca io vendevo la rivista Sipario e otte-
nevo i biglietti gratis per il teatro. Riuscii
a frequentare la scuola di Perla Peragallo, un’esperienza grande, scioccante,
appassionante. E dopo vennero i primi
soldi, guadagnati in Toscana col Teatro
Agricolo, imparando a fare la commedia dell’arte, il teatro di strada, le giullarate in maschera». Nacque di lì a poco il
primo vero spettacolo, Cicoria, ispirato
a Pasolini, e Baccalà, e Vita, morte e miracoli, e Fine del mondo che nel 2000,
grazie a Mario Martone, conobbe niente meno che un insediamento con regole a norma Cee al teatro Argentina.
Adesso ha in mano il nuovo libro Io cammino in fila indianaedito da Einaudi. «È
una raccolta di quaranta racconti, un
terzo circa di materiali di teatro, e due
terzi di testi battezzati in tv». Apologhi,
denunce, grotteschi manifesti, monitoraggi di infamie, ritratti da paura, comicità alla deriva. A metà aprile la Feltrinelli annuncia un dvd del film La pecora neracon l’allegato cartaceo di un diario di lavorazione e di testi antipsichiatrici. E Mario Martone torna a essere un
suo committente. Dopo Pasqua, il 2829 aprile, è atteso alla Cavallerizza di Torino, ospite dello Stabile, con uno studio dal titolo Senza prigioni, senza processi che condurrà al futuro lavoro Pro
Patria. «L’impegno nasce da un suggerimento dello stesso Mario: approfondire la Repubblica Romana. Ho letto
molte cose, è uno dei momenti più alti
del Risorgimento, con protagonisti giovanissimi, con una corrente collettiva di
adolescenti come per un raduno epocale a Woodstock, con scontri tra ragazzi e vecchi, e io impersonerò uno che sta
preparando un discorso, per dire fatti e
motivi, come se avesse un dialogo diretto con Mazzini e con la lotta armata di
allora». Gli brillano gli occhi, ad Ascanio. Sempre lì con quella sua voce calma, con quella sua posa compunta, con
quella sua coscienza sorridente.
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RODOLFO DI GIAMMARCO
Repubblica Nazionale
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Diario di un uomo solo