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A Claudia, Paolo e Vincenzo
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SERGIO PEDEMONTE
COME UNA VOLTA
LA SERA
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In copertina:
Isola del Cantone nel 1903 – Confluenza del Vobbia nello Scrivia
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Grafiche G7 - Savignone (GE)
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INTRODUZIONE
Sarebbe bello iniziare la presentazione di un libretto come questo dicendo: “Dopo innumerevoli insistenze di molti amici …”; purtroppo però succede a pochi.
Io ho deciso di raccogliere tutti questi miei scritti perché in fin dei
conti mi piacciono. Rileggendoli ritrovo un me stesso più educato e diplomatico di quel che sono nella realtà. Mi sembra di vedere a volte un
bambino, a volte un adulto, che ha rispetto dei suoi simili e che in certe
occasioni riesce ad essere brillante o originale. Invece so benissimo di essere un po’ pedante e scontato, a volte collerico e invadente.
Comunque non è solo questa fragile megalomania che mi ha
spinto: forse non potrò, come una volta la sera, mettermi a raccontare
quel che ho visto e vissuto.
Ho pensato quindi che, non oggi per carità, ma forse tra dieci,
vent’anni, qualcuno potrà essere interessato al clima sociale di un paesotto che si trasforma in periferia di Genova. Forse si metterà intorno
ad Internet ed al fuoco di un motore di ricerca troverà le mie parole
scritte; proprio perché mi cercherà, il suo viso non sarà visibilmente
annoiato e magari avrà gli spunti adatti anche per la sua introspezione.
Perché quello che c’è più avanti è una mia introspezione.
Avevo iniziato a scrivere firmandomi Archimede sull’effimero
Eco di Isola degli ormai lontanissimi anni ’70 continuando poi sui vari
Appunti, Rendiconti e U Bricchettu del Centro Culturale: tante piccole
confessioni che oggi possono far parte di questo zibaldone.
Servirà a qualcosa tutto ciò? Non lo so, ma sono convinto che
se gli anziani che ho conosciuto avessero scritto le loro memorie forse
capiremmo le atmosfere odierne attraverso quelle antiche.
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UN’ESTATE ISOLESE
È una sera in cui il sole indugia sulla Cagnola.
Davanti a Poldo si finiscono, stancamente, i commenti, mentre il ghiaccio nel bicchiere, allo stesso modo, si scioglie.
Guardando verso Ronco appare una figura su bicicletta modello
Santamaria anni ’60 con cambio Simplex: i pantaloni hanno due mollette alle caviglie.
In giro bagnano gli orti e forse qualcuno va ancora a lavarsi nel
Vobbia (lago delle Figgie perché in quello degli Uomini l’ombra arriva
già nel primo pomeriggio).
Profumo di ambra solare e salici nell’aria.
Aria, per favore, aria.
Certo, pure i rintocchi delle campane fanno parte di questo
quadro: potrebbero essere i ciucchetti perché poco fa Don Zaccaria ha
finito di cenare con l’Arciprete e si è precipitato verso la chiesa.
Ma sì sono proprio i ciucchetti: non vedi la Rosetta che si avvia, poi la Natalina, il Signor Sciutti e dietro due o tre bambini?
È proprio estate e addirittura ci sono le rondini che sembrano
preferire il cielo sulla piazza del Comune.
La signora Leale esce dal suo negozio e chiama “Ginetto-o!!”.
Dai ruderi della Casa Littoria come fantasmi appaiono anche
Nanni, Peppi, Liccio; hanno sbucciature sulle ginocchia o nei gomiti,
scarpe da tennis bianche e blu, cerbottane, cacciafruste1 e quant’altro
possa servire nel loro Far West immaginario.
Gli manca solo il tempo: quello non basta mai
perché è subito sera.
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UN INVERNO ISOLESE
Ernesto cominciava a sollecitarmi poco dopo la fiera di S. Michele:
“Dai tiriamo fuori la slitta! Finisce che nevica e non è ancora
pronta”.
Aveva un pezzo di sciolina vecchio di trent’anni ma la sua
slitta non era fatta in casa, era elegante e slanciata.
Le giornate si accorciavano e le nuvole passavano sempre più
piano poi la neve iniziava a cadere quando erano ferme del tutto e insieme a lei arrivava il silenzio. Se succedeva di notte me ne accorgevo
perché l’unico suono al risveglio era quello del badile di Rico che grattava sul marciapiede.
Con un atto di coraggio mi alzavo e dai vetri ghiacciati m’incantavo a guardare le meteore bianche che miracolosamente sollevavano lo stato d’animo: chi può infatti immaginare qualcosa di negativo durante una lenta nevicata?
Correvo a scuola ma che patire!
“Mia de nu bagnate, né!” mi gridava dietro mia madre.
Per strada pochi avventurosi con il bavero rialzato entravano dal
giornalaio, o nel bar, pestando i piedi.
Si può descrivere la dilatazione che subisce in quelle circostanze
lo spazio dal negozio di Caccian fino al campanile sullo sfondo?
Tutto sembra lontanissimo: sarà la nebbia che nasconde Moncu, sarà
il turbinio, sarà che anche le rare auto vanno pianissimo, ma arrivare
fino alla piazza del Comune ti costringe a notare particolari come in
una camminata di ore in altre stagioni.
Poi dal banco, finché la Pierina non suonava la campanella,
guardavo il monumento ai Caduti le cui aquile diventavano improvvisamente vive, rannicchiate sotto un velo di neve e pregustavo le discese vertiginose in slitta sfiorando il muro della Villa.
Invece del piumino avevo (avevamo) un cappotto goffo, un maglione di lana, la camicia di flanella, la maglia da pelle in lana urticante: il tutto ci riduceva a palombari che deambulavano al rallentatore e sudavano al minimo sforzo.
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All’uscita della scuola Nanni, Peppi, Liccio e Ginetto ridevano
nel raccontarsi il tema della giornata: “La prima neve”.
No, le maestre non avevano grande inventiva.
Avevano un grande cuore.
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UN AUTUNNO ISOLESE
In autunno il colore dei tetti aumenta la mia tristezza.
Ormai la piazza è vuota anche nel primo pomeriggio e poche biciclette sfrecciano nella Strada Vecchia. Nessuno ha il coraggio di sedersi sulle panchine sotto i tigli della piazza.
Ho visto mia madre riporre le scarpe da tennis in una scatola:
un altr’anno mi andranno ancora bene?
Alla sera è già freddo ma nessuno porta il cappotto, solo maglioni pungenti dai colori impossibili.
Eppure a scuola si scruta con ansia il cielo per sperare in una
giornata di sole che permetta l’esplorazione di Piancastello, S. Stefano
o del Rià Badun; ma alle quattro c’è la dottrina che fa rima con Vittorina. Le pagellette, condotta e profitto, riposano ancora lì su quel
tavolino e continuano a indicare che tutta la vita è così: sono un atto
di coraggio e responsabilità per chi le compila, sono un monito, uno
sprone, un premio, un suggerimento per chi le porta a casa.
Non sperate voi giovani che scompaiano per sempre
Poi la pioggia restringe il campo e ci fa rifugiare sotto il voltino di Stecun per monotone partite con le figurine o le grette; ogni
tanto facciamo un sopralluogo ai ruscelli che soffiano e spandono
un odore di umidità tale da invocare il fuoco della stufa.
Stufa a legna. Non è ancora accesa, troppa grazia S. Antonio.
Però mio padre sega i roveri, i carpini, i frassini, poco castagno, tutto
a mano, e ogni pezzo che cade io lo prendo e lo porto in cantina.
Con Nanni, Peppi, Liccio e Ginetto raccogliamo mucchi di
foglie sul piazzale della Chiesa per buttarcisi dentro con un tuffo
dal muretto: ma già le ombre e l’abitudine ci richiamano verso casa.
“A domani”.
Già, a domani, perché non ci sono dubbi, ci rivedremo di
nuovo e staremo bene insieme.
E non è poco.
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UNA PRIMAVERA ISOLESE
Verso le due la Strada Vecchia veniva illuminata da un sole debole ma che permetteva di tenere aperte le finestre; era facile così chiamare gli amici e trovarsi nel pomeriggio intorno alla Casa Littoria.
Non era ancora il tempo delle biciclette, quelle uscivano dalle
cantine ad aprile inoltrato, comunque ormai le giornate si erano allungate e con loro il nostro raggio d’azione.
Chi ci attirava di più era lo Scrivia. Dopo i mesi invernali in cui
ben difficilmente ci si andava, con la primavera ogni ostacolo era rimosso e l’ancestrale rapporto con il torrente riaffiorava prepotentemente.
Scendevamo giù dal sottopassaggio della ferrovia verso il baraggio2
e già a metà strada ci assalivano acuti l’odore e il rumore del fiume.
Quanto era diverso il mondo visto dal greto!
Il ponte sembrava altissimo, l’acqua precipitava incessante dallo
sbarramento scivolando sul letto di bava verdastra, erodendo la muratura, formando un gorgo ribollente tra grossi massi che ai nostri occhi nascondevano caiastri e barbi enormi. Più in giù c’erano il lago
della Stanza e il lago del Cavallo con tutte le loro leggende irrisolte.
Proseguivamo sulla sponda cercando di non bagnarci le scarpe
e le sgure3 ci frustavano la faccia. Si risaliva dalla Sabbiunea passando
vicino alla casa di Berto e attraverso il Chinettone ci trovavamo davanti
alla Sede parrocchiale, sopra la Sacrestia.
Il nostro Camel Trophy era terminato: non ci rimaneva che il
ping-pong.
Nanni, Peppi, e Liccio sceglievano le racchette e cominciavano
le partite con agonismo, voglia di vincere e vera competizione.
Nessuno però ne usciva sconfitto moralmente.
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UN CURATO ISOLESE
Don Gianni Russotto fu Curato di Isola molto tempo fa, nei
fatidici anni che seguirono il ‘68. Per alcuni di noi, alla voglia di scoperte tipica dei ventenni, si sommava l’influenza del clima politico di
allora: eravamo dei sovversivi di campagna che all’ombra del campanile finivano per contestare sé stessi.
Gianni, perché sorprendentemente fu il primo Curato a farsi
dare del tu, aprì la porta della Canonica ad un esperimento che si chiamava ISOLA VIVA. Ogni sabato sera ci vedevamo in tanti, giovani
e meno giovani, a discutere su fantomatiche gite, concorsi, mostre che
poi puntualmente non si concretizzavano. Ma quello che contava era
stare insieme, conoscersi, parlare. Non esistevano Presidenti e Consigli, fumavamo come turchi e ci facevamo crescere la barba.
Da Gianni avremmo dovuto imparare tantissimo, anche se allora non volevamo ammetterlo: innanzitutto l’altruismo, la caparbietà
nel raggiungere gli obiettivi attraverso sacrifici personali, la generosità.
Avremmo dovuto accettare che un’informazione non deve essere necessariamente un giudizio e che la tolleranza non è una debolezza.
Suoi, e di pochi altri, furono il Villaggio dei Ragazzi, le Miniolimpiadi, i campeggi fino a Varazze, Recco e all’Antola.
Certe sere partivamo con zaino e sacco a pelo, anche d’inverno
con la neve, e andavamo a dormire in qualche cascina, soprattutto in
Alpe di Buffalora, una stravaganza che ci faceva vivere momenti bellissimi: una volta recitò la parte del Diavolo, un’altra fece il fantasma
arrampicandosi su un campanile, un’altra ancora rapì uno di noi sorprendendo gli altri.
Andare in Alpe, divenne nel nostro immaginario sinonimo di
sfida al comodo letto, a quelli che rimanevano al caldo: era la nostra
vita spericolata; forse una scusa per garantirci la diversità in un
mondo che stava profondamente cambiando ma non sapevamo
come.
Gianni si trovò cosi al centro di un processo che senz’altro non
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avrebbe voluto guidare ma che lo vide, almeno ai nostri occhi, principale protagonista. Capimmo però l’importanza di quei giorni, come
succede sempre quando si cresce, non appena lui andò via, prima a
Bolzaneto, poi missionario in Cile, a Copiapò.
Ripensando a tutte le presunte fughe dalla realtà, condensammo nella poesia seguente quei tempi: inutile dire che non riesce
senz’altro ad esprimere ciò che abbiamo provato.
A pensarci bene non era stupido quel sentiero
che ci portava in Alpe al buio
anche se anonimo e faticoso
ma non guardarsi attorno
permetteva un dialogo
e riuscivi almeno a confessarmi.
Poi
sulla modesta vetta
quasi sempre sudato nella nebbia
ti fermavi alla porta di S. Anna
io scoppiato lì vicino
scettico ma serio
ascoltavo quel misto di preghiera
che usciva insieme alla tua tosse.
Non riuscivo a ridere
come avrei fatto in città
ed anche col solito vento
cessavan il respiro quei ruderi
scomposti e provati dal tempo.
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GIOCHI ISOLESI4
I luoghi cambiano di poco, i giochi anche, chi cambia sono le persone.
Soprattutto nelle prime sere d’estate, la Piazza del Municipio e
la strada vecchia diventavano teatro di tanti giochi. La Casa Littoria5,
enorme scheletro incompiuto di calcare e mattoni, era il rifugio non
solo dei gatti, ma delle nostre scorribande giovanili.
Subito dopo la novena della Madonna, quando le lampadine
non erano ancora accese e un tardivo sole illuminava e faceva risaltare
la Cagnola, castelletto bruscia monopolizzava grandi e meno grandi.
A seconda dei partecipanti (non credo di esagerare elevando il numero
a 40-50 in certe sere), ci si divideva in due squadre: chi cercava (7-8
persone) e chi scappava (tutti gli altri); una volta stabilita in base all’età, ai vincoli di amicizia e alla prestanza fisica questa divisione, la
squadra cercante si riuniva attorno al Monumento ai Caduti ed
aspettava che gli altri corressero a nascondersi.
Ma descriviamo un po’ meglio l’ambiente: la parte superiore
della Piazza non aveva gli attuali ornamenti architettonici ed era in
terra battuta e ghiaietto: a pochi passi dalla CRI una pompa a mano
dava un’acqua freschissima, che però sapeva di ferro e proveniva da
un sottostante pozzo, resto del giardino prospiciente il palazzotto settecentesco.
Il Monumento era circondato da una ringhiera con cancelletto
colorata di nero il cui scopo era difendere alcuni asfittici alberelli.
La casa Littoria, era divisa in due corpi: uno parallelo a Via Postumia con il “ballo” in mattonelle rosse e, sotto, locali per gli attrezzi
di manutenzione comunale; uno abbozzato con tanti muretti che
avrebbero dovuto sostenere il pavimento. Oggi la prima parte ospita
il Municipio e la seconda la Caserma Carabinieri. Intorno e dentro:
spine, acacie e liane.
Dalla Via Postumia vi si accedeva per uno stretto viottolo che
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costeggiava “la villa” e mi ricordo una terra rossa e scivolosa se bagnata
(la taera gnera) e un profumo che non ho più sentito di fiori selvatici,
di scarpe da tennis nuove (quelle bianche e celesti), di veghissi accesi.
Ogni tanto una madre, la Maria, la Vera, a Scià Anna gridavano
qualcosa all’indirizzo di qualcuno.
Sull’attuale Piazza Vittorio Veneto, tra i tigli, alcune panchine verdi
sostituivano qualunque sede sociale, culturale o politica: anche se al mattino era ben difficile vederle occupate, e al pomeriggio servivano solo a
qualche mamma, alla sera tutti noi ragazzi ci riunivamo là.
Chi girava in bicicletta tra gli alberi e le panchine della
piazza finiva sempre per scontrare o gli uni o le altre, ma il record
di acqua ossigenata e cadute penso lo detenga ancora Ginetto, il figlio della signora Leale: vestito con pantaloni di cuoio alla tirolese
aveva uno zio con tanto di stendardo e stemma Savoia per le
grandi occasioni.
Le ricerche in campo naturalistico consistevano nel catturare
mosche e grilli da inserire nelle ragnatele che si formavano sulle pareti della strada vecchia: quella adiacente alla villa, si ricopriva di parietaria officinalis o scanigea, un’erba leggermente urticante che
serve ancora oggi per lavare le bottiglie; qualcuno sosteneva fosse anche diuretica; insieme all’ortica e al papavero è la pianta che popola
i miei ricordi: oggi occorre andare sempre più lontano dalle case per
trovarle.
Ma ritorniamo al castellettu: nascostisi i fuggitivi, iniziava il
gioco. I cercatori gridavano:
castellettu bruxia in simma de na pruscia, a pruscia a lè bruscià
a castellettu a lè restà”.
A Giretta si diceva: “castellettu sciallu scià, chi l’è foa vegni a
ciappà”. Paese e generazione che vai, ritornello che trovi. A Prarolo
d’altronde lo stesso gioco era chiamato a loa.
Chi veniva catturato (cioè toccato) era condotto al monumento e, insieme ad altri sventurati formava una riga che con poderosi calci teneva lontano le guardie.
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I compagni dovevano con furbizia e velocità riuscire a toccare a loro
volta la catena liberando tutti ed allora echeggiava il grido: “Liberi tutti!”.
Non mi ricordo che una partita sia stata vinta da qualcuno, si
finiva perché il buio impediva di continuare e, completamente sudati,
si andava alla fontana vicino all’ARCI, allora falegnameria di Nitto
dove immancabilmente chi arrivava prima al rubinetto bagnava tutti.
I più fortunati, cioè quelli che non avevano madri ossessionate
da scuole e rapitori, confabulavano ancora un po’ ricordando o inventando storie di fantasmi o, meglio, di spiriti.
I nascondigli da castellettu erano diversi a seconda che fosse buio
o no. I più coraggiosi andavano in quella che si chiamava a suddica,
tra via Roma e Via Postumia, vicino alla lavanderia. Oppure nel ritale che va a Montemoro, nella villa del Barbarossa6, nel portico di
Medeo7, che se durante il giorno era nostro alleato come venditore di
ammennicoli ciclistici, di sera andava su tutte le furie per il rumore.
Non so con quale legge cambiano i soprannomi, probabilmente con la stessa che ha governato la nascita del nomi e poi dei cognomi, ma sarebbe interessante farne una ricerca per Isola: c’era Verinna, Nanni (comunissimo), Cocco Bill, la Tatto, Castellin,
Trapattoni, Lillu e Lello e altri che ancora resistono come Treg e Peppi.
Ho fatto tutte queste divagazioni perché pensare al nostro
gioco preferito è inscindibile da tante altre sensazioni, come gli odori,
i posti, alcuni personaggi, (e aggiungerei Amabene Gesualdo, il dott.
Cilli, il maestro Strata) ma ho la tentazione di concludere in poesia,
così descrivendo Isola:
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È un paese senza ombre lunghe il mio
dove l’acqua si trascina millenni
per creare spazio tutt’attorno;
e basta una nuvola sola per coprirne il cielo
mentre i tetti e la gente la toccano.
Eppure, nelle tranquille sere di maggio
la prima erba tagliata è odorosa
e ti aumenta la voglia di viverci
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LE SUORE DELL’ASILO
I ricordi dell’Asilo sono diversi da quelli delle Elementari perché gli episodi compaiono nella memoria meno nitidi e se la Maestra
ha un volto la Suora è indefinita.
Riaffiorano però gli odori del refettorio e quei banchi molto
bassi, il formaggio degli aiuti americani ed il cestino in vimini per la
merenda: dentro i biscotti si scioglievano in un abbraccio con le banane del Monopolio di Stato mentre il Cremifrutto lo trovavamo solo
una volta alla settimana.
La Suora ci aspettava ogni mattina all’ingresso e chi era accompagnato dalla mamma coglieva frasi smozzicate sul proprio carattere o sulle ultime linee di febbre: “… però il dottor Cilli ha detto
che non è niente ...”.
Mai che la Suora elencasse problemi suoi, ascoltava quelli del
prossimo.
Se poi non ne avessi conosciute altre nella mia vita e mi affidassi
ai soli ricordi dell’Asilo, potrei credere che queste donne fossero
aliene dai crucci umani a tal punto che necessitavano di un solo vestito nero, il più semplice che esista.
Non che fossero belle, anzi, a volte le vecchie zie erano in confronto delle Miss, però non le ricordo pedanti o villane, arroganti o
pretenziose. Certo, inconsciamente avevamo nella più giovane la
preferita, mentre la Superiora era sempre esigente e poco propensa a
farci le coccole che in alcuni giorni un po’ malinconici andavamo cercando. Ma chissà a quante domande avrà dovuto rispondere senza
l’aiuto della Psicologia dell’Età Evolutiva, scoperta dopo il ‘68. Probabilmente erano domande più pungenti di quelle odierne che sono
tempestivamente soddisfatte da genitori ultra preparati in mille corsi
pre e post matrimoniali.
L’ho incontrate anche negli Ospedali, quando Volontario della
CRI arrivavo a considerarle colleghe. Però il mio era un contatto limitato ed effimero con il paziente, loro ne portavano avanti uno ben
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più complesso e pesante. Quante domande anche lì avranno dovuto
evitare? E non si trattava di Educazione Sessuale o di Morale, ma di
Vita e di Morte.
Alcune, anni dopo, le ho riviste e scherzosamente si è anche parlato di certe mie scelte, non proprio ortodosse, fatte nel tempo. Ma
il burbero rimprovero, con un sorriso mal nascosto, era sempre diretto
al bambino, quasi che l’uomo per loro fosse ancora da venire.
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CORPI SANTI E ANIME PERSE
Ai corpisanti gli isolesi scendono sul piazzale della Chiesa.
Tutti mugugnano che la festa è scialba, che la Banda è sempre più
fuori moda, che nella lotteria quest’anno ci sono un mucchio di serie, che
a Busalla fanno i fuochi artificiali, che a Gavi c’è più gente, però tutti sono
lì, dopo la processione, a guardarsi ed a guardare in giro.
Anche negli anni ‘60 il rito sociale si equivaleva, ma per noi c’era
una grande differenza: i Beatles. Altre generazioni avranno avuto Elvis Presley o Gino Latilla e non mi chiedo cosa successe a loro. Io so
che noi diventammo diversi da quello che saremmo dovuti diventare
perché allora c’erano i Beatles e Bob Dylan.
Le serate in Prodonno, nella vecchia Conceria, per la nostra generazione avevano un senso solo se si pensa a cosa ci fece fare il Rock
con i suoi protagonisti: alle letture che ci accompagnavano, ai dischi,
agli atteggiamenti che assumevamo convinti di imitare i fans americani o inglesi, alla superiorità che pensavamo di possedere perché traducevamo Like a rolling stone, per ciò che eravamo prima di Abbey
Road, per l’insana voglia di leggere l’Ulisse.
C’era un nesso tra la swinging London ed il nostro ‘68 campagnolo? Non credo, ci sarebbe stato anche per altri, eventualmente.
Qualcuno teneva le Marlboro tra le labbra mentre parlava ed
era, ai nostri occhi, originale; c’era chi conosceva tutti i titoli possibili e immaginabili dell’universo discografico; altri erano proprio
come adesso: irreprensibili. Riuscivamo ad essere contenti con mille
lire di benzina in una 850 spider celestina ma non, come molti pensano, perché eravamo giovani e spensierati: no. Eravamo soprattutto
pieni di interrogativi e tendenzialmente pessimisti perché coscienti che
ad ottobre si chiudeva una parentesi festosa per aprirsene una malinconica. La nostra era un’equazione molto semplice: all’aumentare degli anni diminuivano le incognite della vita. Bastava aspettare ed
avremmo saputo cosa avremmo fatto, chi avremmo incontrato, cosa
saremmo stati.
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Può darsi che pure questo abbia contribuito a far sì che ancora
adesso i corpisanti non mi rapiscono in quel vortice di luoghi comuni
che potrebbe essere però tonificante. Pensavo, allora come oggi, che
questi meeting erano a misura di chi, in un modo o nell’altro, accetta
Isola come è.
Io invece sognavo altro e non so dire con precisione cosa. Non
era ribellione, non era intolleranza, era senz’altro la coscienza di volere qualcosa di più di quello che mi si offriva.
Come un alieno osservavo la processione sfilare, l’ondeggiare
dell’urna, i canti e le preghiere interrotti continuamente dalla banda,
la lunga fila delle auto bloccate agli ingressi del paese, le lampadine
colorate sui balconi e i visi abbronzati dal sole degli orti, le camicie
bianche dei padri che tenevano per mano i bambini.
Aspettavo ai bordi della strada che passasse il crocifisso ostentato da una ragazza, poi due file con i più piccoli, le donne sotto il
velo, i Cristi luccicanti, i sacerdoti, le reliquie, le autorità compunte,
la marea di chi seguiva in un voluto disordine. Finito il vespro andavo
sul campo sportivo o dietro la chiesa o in bicicletta da qualunque altra parte che non fosse il piazzale.
Per me i corpisanti hanno ancora adesso profumo di incenso e
di tonache inamidate. Vedo i visi sudati degli uomini sotto la cassa e
non mi sembrano diversi da quelli che fanno ballare il Cristo: non sopporto l’idea che una morte così atroce possa essere il pretesto di una
prova di forza mascherata da atto di Fede.
In anni passati ho percorso anch’io tutta Isola lentamente, da
chierichetto con il candeliere o da anonimo parrocchiano in un
gruppo cui giungeva solo l’eco del salmodiare misto al parlottio dei
vicini. Non c’erano fortunatamente ancora gli altoparlanti portatili che
mi ricordano le fiere con gli imbonitori rauchi.
Poi ho seguito altre strade e mi sono trovato, sempre più spesso
e sempre più per caso, ai bordi di un marciapiede che era una specie
di frontiera: di là i Credenti dietro al Parroco, di qua gli altri.
Per anni molti come me sognarono un ballo alla Festa del Paese;
sembrava che quei quattro salti avrebbero rivitalizzato Isola. Sarebbe sen-
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z’altro stata una rottura nei confronti della tradizione e di un’atmosfera
che pesava perché limitativa di quelli che sembravano diritti. “Vietare”
il ballo lo consideravamo (ed era) la solita ipocrisia italiana: come sempre ce lo avrebbero concesso quando ormai non ci interessava più.
Anche per il ’68 finì così: pretendevamo cose che oggi sono banali ma che allora segnavano il crinale tra una vita autonoma e una
dipendente dal conformismo imperante.
Con gli anni cambiammo noi, cambiò Isola e cambiarono i corpisanti: il paese ad un certo punto offrì alla mia generazione gli strumenti necessari per un’affermazione “politica” che però non volle (o
non fu capace) di sfruttare; forse rimase al palo quel rinnovamento culturale che avremmo almeno tentato di proporre.
Con il passare del tempo tutte le innovazioni divennero vittorie che non davano l’orgasmo della conquista e ci accorgemmo che
Isola Viva, USI, Croce Rossa o Centro Culturale rimanevano esperimenti sfibranti, zuppe di pesce che non si trasformavano in acquari
tropicali, riserve indiane al dilagare di un anestetico che si chiamava,
come al solito, conformismo.
Oggi i corpisanti hanno un rito tradizionale che si svolge sempre sul
piazzale della Chiesa ma che è il passaporto per andare a far finta di divertirsi
dietro al Cimitero: un’innovazione che non ci saremmo davvero aspettati
e che tutto sommato non sposta il problema di una virgola.
Isola, 3 settembre 1998.
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ISOLA DEL CANTONE VISTA DA ALFREDO DEDDO RIVARA8
Per tramandare l’opera dell’uomo spesso ci si rivolge ai grandi
monumenti, alle splendide sculture, alle gesta memorabili: noi, e
come noi tanti altri, preferiamo rivolgerci alle cose di tutti i giorni, a
quella che è esperienza di tutti, all’essenza del vivere semplicemente
in un paese lavorando con onestà e contribuendo senza schiamazzi od
egocentrismo al suo sviluppo.
Con il Centro Culturale abbiamo così pubblicato le Tradizioni
Religiose, abbiamo esplorato il mare senza fine dei dolori causati dalle
guerre con le testimonianze raccolte in Verso casa; adesso proponiamo
qualcosa di diverso che potremmo paragonare ad una sorta di memoria visiva, come le leggende e i racconti lo erano per i nostri vecchi intorno alla stufa.
Alfredo Rivara, Deddo per tutta Isola, con le sue foto ci tramanda un paese che non saremmo capaci di raccontare con le sole parole; una comunità a cui un inizio di benessere, siamo tra il ’50 e il
’60, ha impedito di imprimersi nitido nei ricordi della gente, così
come lo rimanevano invece le carestie, le malattie, gli avvenimenti
esagerati di forse un secolo fa. L’Isola del Cantone di quegli anni non
viene ancora descritta come un patrimonio comune a tutti: essa è tuttora ricordo del singolo ed al singolo appartiene potendola trasformare in aneddoto, curiosità o episodio individuale.
Deddo invece, con le sue immagini, riesce in un solo colpo a smussare ed amalgamare una ridda di sentimenti privati dandogli una dignità
quasi storica. Ecco che le processioni, le partite di pallone, le prime gite in
corriera non sono più l’attimo di vita di cinque o dieci isolesi, ma sono le
processioni, le partite, le gite di una comunità intera.
È facile quindi osservare in esse non soltanto il viso del compagno di banco o di leva, ma intuire anche il loro stato d’animo e ricordare improvvisamente che la scuola era un grosso sacrificio o che
dalla fabbrica e dalla campagna non si ricavava granché.
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Proviamo a considerare non solo com’era Isola in quegli anni,
ma come stava cambiando in meglio o peggio che sia, ovvero come i
cambiamenti sociali ed economici influenzassero gli isolesi nel loro
modo di vivere.
Ad esempio il ritratto, nei tempi che furono, era appannaggio
di pochi: addirittura mancava a molti l’immagine di se stessi o, se
l’avevano, non era riproducibile facilmente. La foto rivoluzionò tutto
questo: anche le classi meno abbienti poterono impressionare le proprie sembianze e spedirle a chi era lontano. L’infernale macchina lavorò a trasmettere “dati” per molti anni: il figlio soldato, il nipotino
ai parenti oltremare e così via. Non erano ancora i tempi per poter fissare i ricordi, gli attimi fuggenti di un tratto di vita. Solo in seguito
iniziò la ripresa di momenti celebrativi collettivi: la festa campestre,
la gita, il matrimonio ...
Oggi la foto è costume, essa è il nostro binario parallelo: c’è tutto
quello che facciamo, dal lavoro ai momenti intimi, privati, alle cose futili a quello che pensiamo o vogliamo vedere in un gioco di luci. Essa è
reportage, arte spicciola, ausilio alla memoria, strumento di lavoro, introspezione psicologica, tentativo di manipolare la realtà e così via.
Quando Deddo iniziò a fotografare Isola e gli isolesi, si era in
mezzo al guado di questa tecnica ormai alla portata di tutti ma che
non era ancora una procedura semplice. Occorreva in altre parole un
mediatore: il fotografo.
Volevamo il ritratto ed era il fotografo che ci imponeva la posa;
volevamo il ricordo ed era lui che sceglieva le inquadrature. Pochi
possedevano una macchina fotografica e in ogni modo si decidevano
a scattare un’immagine solo quando le condizioni erano ottimali perché c’era sempre il dubbio se veniva o no.
Anche il nostro Autore aveva dei limiti da non oltrepassare ma,
rispetto ai più, possedeva almeno la volontà di fare una cosa non solo
per hobby, a tutti i costi, con quanto di meglio si poteva avere come
professionista di provincia.
A quel punto, immaginiamo, occorreva interessare i soggetti,
costringerli in qualche modo, inconsciamente, a diventare potenziali
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protagonisti di quel palcoscenico che sono gli avvenimenti in un
paese. Pensate un po’ se Deddo si fosse accorto che ai suoi compaesani
non piacevano le foto di processioni, di incidenti stradali, di nevicate
notturne, di balli in maschera. Avrebbe degnamente ricoperto il ruolo
di artista da foto-tessera e sarebbe finita lì. Complici i tempi e la curiosità, egli arrivò a sistemare una bacheca sotto casa dove tutti, passeggiando, potevano ammirare gli ultimi scatti eseguiti,
programmando chissà, di poter comparire presto su quello schermo.
Ma per non irritare o deludere il pubblico non si può solo fargli vedere quello che già vede: occorre proporgli fatti e persone in una
luce diversa dal normale, filtrata o elaborata da un taglio che non
tutti riescono a fornire.
Probabilmente Deddo non era cosciente di tutto questo processo tecnico - psicologico ma senz’altro intuì che solo una ricerca
originale, fuori dagli schemi, poteva alimentare l’interesse per i suoi
racconti ad immagini.
C’era in quel momento nell’aria una continua trasformazione
di idee che si traduceva in nuove scenografie anche a Isola: pensate
solo alla nuova autostrada, al Municipio appena inaugurato, al campo
sportivo, ai primi condomini.
Associati a questi abbiamo però la scomparsa della Casa Littoria,
dei baracconi di Savio, di alcune abitazioni e di campi e prati. Nel sociale
c’era l’avvento della televisione come momento aggregante che poi, divenuta patrimonio di ogni famiglia, si trasformerà in principale causa di
isolamento; arrivarono le scuole medie obbligatorie (le commerciali) e
terminò l’esodo verso le Americhe iniziando quello per Genova.
Non che nei decenni precedenti non ci fossero state profonde trasformazioni nella comunità isolese: basta pensare alle guerre del fascismo
che dispersero i giovani in tutta Europa all’infuori che a casa loro. Solo che
con il cosiddetto boom il cambiamento non venne imposto dalle necessità
materiali o dall’alto: per la prima volta c’era una parte di scelta in quello
che stava succedendo a livello personale. In fin dei conti non si moriva più
di fame e la democrazia (o la cultura), anche se ancora giovane, permetteva quello che era impensabile qualche anno prima.
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Cosa contraddistingue in fin dei conti le nazioni avanzate dalle
altre? Le comunicazioni e l’energia. Se cominciate a far leggere giornali di ogni tipo, commentare le notizie, trasmettere opinioni, lasciar
girare la gente a proprio piacere, vuol dire che tutto sommato ci sono
strade, petrolio, libertà. Possiamo discutere su quanto di tutto questo serve per essere veramente moderni, ma la sostanza della crescita,
dell’espansione economica italiana, era questa.
E il nostro paese ne risentiva come ne risentivano singolarmente gli isolesi.
Nelle foto di Deddo abbiamo tutto ciò: il calcio giocato con le
scarpe che servivano anche per le feste, la Vespa e la Lambretta (diventate passioni come Coppi e Bartali, il Genoa e il Doria), cappotti
goffi e pesantissimi, le maschere di carnevale che non sono più esclusivamente Arlecchino e Pulcinella ma anche Indiani e Cow-boys, Cinesi e Fate.
Guardate quelle processioni del Corpus Domini che non comunicano pathos spirituale o folcloristico ma un sobrio spettacolo di
gente insieme, sì, uno spettacolo in cui gli attori hanno condiviso il
copione senza dirselo.
Guardate quei gruppi affollati a Livorno o alla Guardia che
sembrano voler dimostrare all’obiettivo che la giornata non finisce lì
perché non si può sorridere in quel modo se la vita è appesa al sottile
filo di una scampagnata: ci vuole una speranza, un’illusione, un programma per il futuro.
Oggi non si fanno più fotografie di gruppo, non ci si mette
più in posa; forse neanche nelle scuole, a primavera, si scende fin sulla
piazza con la Maestra per un ritratto che sarà il termine di paragone
per tanti anni. A cosa servirebbe? Oltre, nel futuro, c’è delusione, c’è
coscienza di scarsi rapporti interpersonali, si guarderebbero le foto (a
colori) solo per notare la pettinatura. Cosa fa Sandro o Giorgio o
Anna tanto lo sappiamo benissimo, non c’è neanche bisogno di uscire
perché il telefonino è comodo e poi ognuno è preso nel vortice delle
cose nuove e non si ha il tempo di somatizzare l’esperienza delle altre
generazioni. Chissà cosa succederà con Internet in tutte le case?
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Già oggi non esistono più generazioni.
La creatività, il ricordo, il sogno, sono diventati un software che si
può innestare su qualunque hardware biologico: che differenza c’è tra un
diciottenne ed un trentenne alle soglie del 2000? La si misura in termini
di rap o di branco, sono entrambi insoddisfatti e cercano solo di prenotarsi un posto sull’autobus del welfare che passa sempre più raramente.
Nelle foto di Deddo la differenza esiste eccome: il crinale era
netto, preciso. Finita la scuola (elementare per i più) si lavorava, non
c’era alternativa, i ragazzi di qui, gli altri di là: belin lo potevano dire
solo i grandi, ai mocciosi e alle donne rimaneva il belan.
Tutto questo si rifletteva in una mancanza di tempo libero che
sfociava in domeniche intense, da vivere profondamente. Ecco allora
che stare insieme non era un caso, ma una programmata necessità per vivere meglio la settimana dopo. Aggiungete la mancanza di auto, una
TV ancora acerba e troverete il perché dei narcisi sul Monte Buio, o
delle lunghe ore di pullman su per il Bracco per arrivare fino a Parma,
fotografarsi sotto un campanile e ritornare a Isola nella notte fonda.
Ma un’altra cosa ci colpisce in quei gruppi: un’immancabile
tonaca nera. Allora il Curato era organizzatore e assistente spirituale
di una generazione: Don Ferretti, Don Cerro, Don Canepa, Don Serafino, Don Gianni hanno largamente influenzato i giovani che li
frequentavano. Sul piazzale della Chiesa, in Canonica, nella Sede, si
forgiavano gli animi in divertimenti ma anche in discussioni, verifiche, provocazioni, smarrimenti, ilarità. Non per niente Isola ricorda
proprio quei preti che più hanno inciso fuori dall’altare vero e proprio, fuori dal rito religioso. Agli ex frequentatori della Parrocchia
non vengono in mente le belle Messe, gli splendidi Vespri della propria gioventù, tutt’altro. Nei discorsi tornano in continuazione le sere
passate a discutere magari di calcio, di lavoro, e, perché no, di una
prima timida educazione sessuale.
Hanno fatto breccia i Curati che non si sottraevano alle domande più spinose con qualche citazione dottrinale, ma che sapevano affrontare la realtà, le contraddizioni, le spinte autonome dei
giovani isolesi.
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Oggi i Curati sono in via d’estinzione e se ce ne fosse uno per
Isola non avrebbe probabilmente l’ascendente di quelli di una volta.
Quando si parla di villaggio globale, di massificazione, si uccidono
anche i capo-branco. Chi potrebbe reggere alla concorrenza, qualunque essa sia, disponendo solo della propria buona volontà unita a una
sede spoglia e fredda d’inverno?
Deddo ambientò e ritrasse comparse e scenari con la complicità
di un mondo che manteneva ancora atteggiamenti antichi e aspirazioni moderne, cerimoniali consunti dalle esperienze e regole di comportamento in rapida evoluzione. Ma non per questo il suo merito è
minore: ancora oggi egli conserva con grande meticolosità quel
mondo di ricordi che riusciamo ad evocare debolmente solo se sentiamo Modugno, Claudio Villa o i Platters.
Con le sue foto egli ha surrogato la macchina del tempo: per un isolese sono lo specchio in cui, veramente, appare quello che non c’è più.
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GLI ISOLESI IN TUSCIA
Per gli isolesi Santuario è sinonimo di Tuscia.
Siamo affezionati ad Alpe ma è una Cappelletta, ci incute rispetto
S. Michele che è la Parrocchiale figuriamoci se avessimo una Basilica od
una Cattedrale. Non pensiamo di sbagliare quindi affermando che Tuscia è il luogo di culto più vicino sentimentalmente agli isolesi.
Tra l’altro è una zona paesaggisticamente gradevole, stranamente bassa rispetto al profilo della valle od alla tipica posizione di
molti Santuari fondati generalmente sulle vette dei monti liguri: il
letto del Vobbia poi la lambisce come una sciarpa rilucente e gli stessi
colori dell’edificio e della cupola del campanile sembrano più consoni
ad un luogo di serenità che non di penitenza.
Bisogna aver assaggiato le leccornie di un 8 settembre precedente agli anni settanta per capire la giusta atmosfera di quelle feste;
intanto si raggiungeva Tuscia a piedi: alla mattina per la Messa (più
donne e bambini che uomini) e quindi al pomeriggio per il Vespro.
A quel punto c’era il pienone, un po’ di odore d’incenso anche sul
piazzale e qualche viso arrossato dalla fatica di mangiare antipasti, brodino con fegatini, ravioli (obbligatori), pollami e conigli, verdure, fugassa duse, e tutto quello che le cuoche riuscivano a scovare nel loro
curriculum.
Tra i massari i più intraprendenti scendevano con bottiglia e bicchiere a brindare con amici e conoscenti mentre alcune donne dalla
finestra chiamavano gruppi famigliari per l’assaggio dei dolci o per il
caffé.
Bambini ce n’erano a frotte: i figli degli organizzatori in una posizione di privilegio, con un ascendente che sarebbe scomparso già il
giorno dopo; poi c’erano i chierichetti che avevano conosciuto in quell’occasione menù inaspettati e vino dolce fino allo stordimento. Tutti
gli altri alla ricerca di uno spazio dove provare il giocattolo appena acquistato alla bancarella: spade di gomma alla Tre Moschettieri, aereo
con motore ad elastico incorporato, cerbottana simil bronzo con mi-
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rino variabile, fucile a tappi, pallone in vero cuoio con camera d’aria
in gomma per il più fortunato e meritevole.
Premi di consolazione, dopo un’ora di Vespro in silenzio e con
finto raccoglimento, erano le reste di canestrelli durissimi, la liquirizia a strisce, le mente, il reganissu ed i famosi, unici, mai sufficientemente lodati, degni di uno spot fantastico (se fosse esistita la televisione): i marunsini!
Erano complemento e sregolatezza di una giornata che volgeva
alla fine; complemento perché senza di loro non esisteva Tuscia neanche se ci fosse stato Gualtiero Marchesi a cucinare; sregolatezza perché dopo la Mamma ce li facevamo comprare dal Pa’, poi dalle Lalle
e dai Barbi e avevamo già in corpo biscotti, torte e caramelle.
In stagioni più avanzate della vita ai marunsini sostituivamo la
luna che si vedeva durante il ballo a Noceto. Ahi che momenti! I 4
Jolly o i Meppiggs sudavano su chitarre e fisarmoniche, noi arrivavamo
(per la terza volta a piedi nella giornata) con il maglioncino sulle spalle,
calzoni in terital a zampe di elefante e aspettavamo che apparisse Lei:
in genere aveva una sola treccia, niente trucco, gonna a pieghe, bicicletta della zia. A quel punto pre-fantozzianamente ci aggrediva la tachicardia con saliva azzerata e sguardo brillante tipo Mino Reitano.
Se poi suonavano Samba pa ti o Whiter shade of pale si rischiava
veramente l’infarto nel tratto di cemento che ci separava dal chiederle:
“Sc-sc-u-usa, b-balli?”. Ahi luna! Niente ombretto, abbronzatura nature, profumo preso dal tabacchino. Non sto descrivendo Mazinga:
erano proprio così!
E ci facevano impazzire lo stesso.
Finivamo la serata con una sigaretta (Nazionali semplici, 180
lire al pacchetto) e la sensazione che l’estate fosse agli sgoccioli. Ancora un bagno, forse due, al lago di Savio; poi un temporale che non
provocava alluvioni, decretava però l’uscita dalla scena degli amici genovesi e Vobbietta o Isola o Prodonno ritornavano ad essere un insieme di case e strade.
Fino alla festa in Tuscia erano state il nostro paradiso.
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JAZZ ISOLESE
Martedì 12 agosto 2003, ex scalo ferroviario FS.
Il caldo è soffocante. Alle nove metà sedie sono occupate e si rivedono visi quasi dimenticati mentre per molti è la prima volta che
sentono jazz dal vivo.
La mia agorafobia vorrebbe che me ne andassi e rimpiango già
questa debolezza estiva in onore della musica del popolo afro-americano.
Che scoperta fu il jazz! Quando si sciolsero i Beatles pensai che
il rock era ormai affidato al solo Bob Dylan (dovetti accorgermi anni
dopo quanto sbagliavo …) e quasi per ripicca oltrepassai le frontiere
della classica e della lirica.
Tenete presente che allora il rock non era solo musica: era un
comportamento e un credo. Rifiutare Claudio Villa, Gianni Morandi
e Wilma Goich o, meglio, il Quartetto Cetra, significava schierarsi con
i capelloni, ritenere la musica un’emancipazione sociale, proiettarsi in
un futuro di libertà. Era insomma una bandiera: dietro di essa vi erano
torme di irrequieti che di generazione in generazione si chiamarono
figli dei fiori, hippy, punk, metallari e così via.
Mi stupii a sentire non solo Beethoven ma anche Chopin,
Bach, Strauss: quante arie mi erano già note! Avanzavo in un mondo
che avevo considerato fossile e invece rivelava attualità inaspettate, sonorità vive e, oltre alle tradizioni, anche messaggi per il futuro.
Le Quattro Stagioni di Vivaldi o l’Alleluja di Haendel avevano
costituito per la musica ciò che Shakespeare aveva fatto per il teatro:
una rivoluzione. Ma ancora oggi indicano all’ascoltatore che la dimensione tempo nella cultura non esiste, che i capolavori nascono dal
coraggio, dall’intuizione, dalla preveggenza, dall’ostinazione di un
uomo e tale messaggio non si estingue, persiste, modella e influenza
le coscienze anche secoli dopo la sua comparsa.
Cioè è sempre attuale.
Se ti senti emozionato nell’ascoltare Bruce Springsteen in Drive
all night e subito dopo provi la stessa cosa con il Lieder di Schubert
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An Sylvia, ebbene, per la proprietà transitiva significa che per te il messaggio dei due Autori è lo stesso.
Dall’Inno alla Gioia passai quasi subito a Verdi, Bellini, Rossini
e Puccini: certo, per la lirica il discorso non può prescindere da un palcoscenico; lo spettacolo è l’unico modo per apprezzare totalmente
l’opera. Però anche a casa, se togli un po’ di scoria tra un’aria e una
cavatina, tra un preludio e un quartetto, come fai a non apprezzare
non dico il Va’ pensiero, ma anche Una voce poco fa, Casta diva, La
donna è mobile, Un di felice eterea …
E un bel giorno comprai per 1.000 lire il 33 giri Jumpin’ with
Woody Herman’s first herd: devo dire che Aldo Adamoli, villeggiante
a Giretta, ebbe parecchia responsabilità in tutto ciò. Ancora oggi Blues
on parade mi fa andare fuori di testa. Ma all’orizzonte comparve Nutty
di Thelonious Monk. Tanto per prendere qualcosa in prestito da qualcuno: niente fu più uguale nella mia vita.
Ricordo ancora quando una sera con Giorgino andai da Giulio Marelli che si stava allenando sul sax tenore. Giorgio soffiò per la
prima volta in vita sua in quello strumento e ne uscì abbozzata,
rude, imperiosa, Nutty! Lo invidiai, lo ammirai, avrei clonato la sua
dote musicale, avrei ipotecato la mia collezione di minerali per poterlo
fare anch’io. Mi accontentai di acquistare col tempo almeno 500 longplaying di Miles Davis, John Coltrane, Count Basie, Oscar Peterson,
Sonny Rollins, Ornette Coleman ecc ecc.
Se con la musica classica l’orchestra era quasi un suono unico,
qui sentivo e imparai a distinguere i singoli strumenti: piano, sax contralto/tenore/baritono, tromba, flicorno, clarino e la voce che diventava pure lei strumento.
Lessi subito I primi del jazz di Milton Mezzrow e poi Free jazz
Black power di Carles e Comolli e mi vennero in mente i volantini risorgimentali lanciati alla Scala con su scritto VIVA VERDI: la musica che si fa politica e la politica che si fa musica.
Ebbi così la sensazione che ciò valesse anche per All you need is
love, Blowin’ in the wind, per gli Inti Illimani, Garcia Lorca, Quasimodo e per quanti altri recitavano, componevano, strumentavano le
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aspirazioni di chi voleva un mondo libero, autonomamente scelto e
migliore, di chi voleva rompere gli schemi.
A quei tempi il sesso era il centro della nostra libertà individuale:
odiavamo le imposizioni conformiste e volevamo esplorare i nostri
sentimenti senza tirare in ballo regole e imposizioni. Dal sesso partivano quindi le nostre istanze di democrazia vera e vita da vivere.
L’ancheggiare di Elvis Presley, La Traviata, il solista dei Queen,
ma anche Archie Sheep che gridava “Il mio sax è un simbolo sex”
erano tutte facce della stessa medaglia.
Però se la musica classica è passione, se il rock è amore, per il
jazz c’è solo un termine di paragone: complicità allo stato puro.
Come non ritrovare tutto ciò al vecchio scalo ferroviario quella
sera? Avete visto quelle ragazze che muovevano le spalle o le gambe
ritmicamente guardando Faraò, Zunino o Bobby?
E quei cinquantenni che alzavano le braccia e ululavano? Cosa
era quello se non complicità, cioè la passione e l’amore sommati insieme, quello di tutti i protagonisti di Nove settimane e 1/2 finalmente
espressi senza sottintesi malevoli, senza malizia, con grazia e garbo? E
quando Durham & C. hanno bissato con Georgia on my mind chi si
sarebbe rifiutato di dedicarla al proprio/a partner, chi non si è illuso
di conquistarlo/a con un’atmosfera simile?
Sto scrivendo e sento il CD del Bobby Durham Trio: come vorrei che questa fosse la tastiera di un piano! Come vorrei chiamarmi
Faraò e suonare per Isola, per il mondo, sottintendendo ad ogni
nota che finché c’è musica c’è speranza, che solo i regimi retrivi e totalitari hanno paura dei giovani ai concerti, che dal gregoriano in poi
l’uomo ha usato le note e le corde vocali per testimoniare il suo attaccamento alla vita, al meglio.
Ma a tutto questo si aggiungeva l’atmosfera dello Scalo: pensare a una serata così tempo fa era impossibile. Per Isola esisteva solo
il Piazzale della Chiesa con la Banda, qualche complesso rock, sempre all’ombra di una festa patronale e come riempitivo tra lotterie, vespri e gare di bocce.
No, l’altra sera non era così. Si usciva di casa per sentire jazz non per
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vedere chi c’era e chi non c’era. Un altro segnale che Isola è cambiata.
Grazie anche al jazz.
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A GIBU’ 9
Non posso dirti che ci rivedremo di là perché gli uomini si sono
riservati questa prerogativa solo per sé stessi.
Posso prometterti che ogni volta, su per i ruscelli o lungo il Vobbia, ti sentirò seguirmi, fedele non solo a parole, nonostante lo sforzo
non indifferente dovuto al tuo peso.
Per me sarai sempre sdraiato sul tappeto con il muso tra le
zampe a guardare perplesso Araone e Attila che vicendevolmente si lavano, come solo i gatti sanno fare con delicatezza e affetto.
Sarai sempre quell’amico che poco ubbidiente, ma terribilmente affezionato, finiva ogni volta per impormi la sua volontà di rimanere nel prato ancora un po’.
Sarai sempre quello che appoggiato sulle zampe anteriori era capace di aspettare per ore il momento in cui lo degnavo di attenzione.
Non è vero che siamo tutti uguali: voi siete migliori.
Non avete bisogno di molto: solo di affetto.
Vi si può dare qualunque leccornia ma ciò a cui aspirate è avere
vicino il vostro padrone.
Voi non siete capaci di tradire né dimenticare; con i vostri simili conoscete la competizione, non l’odio o l’umiliazione.
Tu poi, Gibù, eri anche paziente con i cani piccoli e rompiballe:
li guardavi abbaiare e saltellare e sembrava che ti stupisse tutto quel
casino; non ti sei mai avvalso della tua mole per avvantaggiarti. Anche i gatti mangiavano nella tua ciotola e aspettavi che finissero.
Non posso pensare che ti ho perso: dovrò però avere la forza per
convincermene.
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RELIO E LE ARGILLITI
Cari Sergio e Marco,
finalmente riesco a scrivervi. Pensate che dopo la vostra proposta
mi ero detto: “Perché a un geologo debbono sempre chiedere storie
di sassi e di oceani scomparsi, di animali impietriti e di versanti instabili?” Non ne avevo voglia di cominciare con la solita solfa … “ A
Montoggio più di 60 milioni di anni fa vi era un mare calmo dove le
particelle di argilla si depositavano sul fondo formando …”
No, mi sono detto, Marco e Sergio sono degli originali, il loro
modo di fare cultura non è mai didattico e scontato, quindi non gli
racconto quella dell’uva, devo trovare qualcos’altro.
Quella dell’uva! Ma certo, posso cominciare col dirgli che Miglin
di Giretta pigiava i suoi grappoli in una navassa e poi metteva il mosto
in una vecchia botte dove con la bollitura cominciava a uscire dall’apposita apertura. Prendeva allora una specie di fango plastico, a tera gnera,
in genere rosso vinaceo (ma guarda un po’) o grigio chiaro e lo modellava intorno al foro costruendo un canale di scolo che arrivava a una tinozza in modo da riutilizzarlo. Questo materiale naturale affiorava a Prarolo e i bambini ci giocavano facendo orrende statuine o palline da
gettare contro un muro dove restavano attaccate proprio come si vede
alla Grotta di Toirano: solo che lì i grandi archeologi non hanno dato
ancora (che io sappia) un significato vero a questo fenomeno e pensano
a riti religiosi, scaramantici o chissà cosa.
Ma questa roccia debole non serviva solo a quello: Relio di Cascissa era specializzato in innesti di alberi da frutto e verso la fine di
febbraio partiva da quel borgo a 1.000 metri di altezza, oggi abbandonato, e passando per la Serra, Spinola, S. Lazzaro scendeva a Tuscia
nel greto del Vobbia. Lì cercava, dove ogni anno le piene si divertivano a coprire e scoprire, uno strato dello stesso materiale che usava
Miglin di Giretta. Lo metteva in un sacco e ritornava, con due ore di
strada a piedi, a Cascissa.
In precedenza aveva tagliato i rametti di albero da frutto (le mele
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roncaline o le ciattine, le pere dall’armella, le prugne settembrine) con
almeno tre gemme e li aveva messi sotto la sabbia bagnata in modo
che ritardassero la fioritura. Al momento giusto scendeva su quelle
isole di pietra che sono i campi da Cascissa a Busti, larghi due metri
al massimo e lunghi una decina, uno sopra all’altro tenuti da maxee10 centenarie. A volte pensava che se le sue galline avessero fatto l’uovo
sui bordi di uno di quegli orti volanti sarebbe rotolato fino al Ponte
di Zan senza mai fermarsi: ma gli animali hanno buon senso.
Trovato il selvatico da innestare, con il pennacco11 faceva uno
spacco alla testa del ramo segato e vi infilava un piccolo cuneo in
modo da tenerlo aperto. Poi incastrava, proprio sulla circonferenza,
in modo che la corteccia del nuovo toccasse quella del vecchio, l’innesto sagomato e toglieva il cuneo. A quel punto sigillava con la tera
gnera presa a Tuscia le ferite della pianta in modo che l’acqua piovana
non si infiltrasse, e fasciava il tronco con una striscia di stoffa vecchia.
Un salice, u sanguin, teneva il tutto ben stretto e legato.
Che ne sapevano Miglin e Relio delle Argilliti di Montoggio termine ormai entrato nella Geologia italiana e che contraddistingue proprio l’elemento semplice, frutto della Terra e della sua Storia, da loro
usato? Forse Montoggio lo avevano sentito nominare perché era sulla
strada di Torriglia dove qualcuno si spingeva, temerario, a comprare
le patate da semina, e quarantin-e o gianche de Torriggia, ma delle Argilliti del Cretacico senz’altro non conoscevano niente.
Oggi Relio, dopo il militare in Francia, Albania e Russia, riposa
in un cimitero tranquillo da cui non si sente il rumore di autostrade
e ferrovie ma al cui perimetro non ci sono alberi da frutto innestati,
mentre Miglin, anche lui ormai tra i più, rimpiange probabilmente
il suo vino: sempre in bottiglioni mai nella trequarti.
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PUNNI E LA CALCE
«A volte osserviamo uno scalino, a volte camminiamo su un solaio, ma mai ci chiediamo come è nato quel materiale che lo compone,
che lo rende duro come la pietra.
Con Punni di Alpe invece, se ti sedevi sulla panca con le spalle
al muro di casa sua, in una serata estiva quando si guardavano le stelle
e iniziavano i ceti12, non potevi non chiedergli ad un certo punto:
“Ma è vero che secondo te la calce di una volta era migliore del
cemento di oggi?”.
Tutti sapevano in paese di questa sua teoria e tutti, pur rispettandolo e apprezzandolo come muratore e carpentiere, tendevano a
farla diventare un tormentone da tempo perso.
Suo nipote, che studiava da geometra, stava zitto anche se non
credeva neanche all’influenza della luna sull’imbottigliamento del
vino e lasciava che Punni si arrotolasse una sigaretta e iniziasse a parlare:
“Mio padre mi diceva che intorno al ‘13 o ‘14 (del 1900, s’intende) erano arrivati dalla Lombardia dei tecnici che lavoravano nella
galleria ferroviaria di Borlasca e avevano sorriso quando gli fece vedere
come otteneva la calce.
Lui andava sempre dove erano andati suo padre e suo nonno,
là alla Costa Sarvega13 dove c’è uno spiazzo che sembra fatto apposta.
Scavava un buco di circa 1 metro e mezzo, 2 metri di diametro e profondo altrettanto. Era proprio sul ciglio della piccola scarpata e sotto
ci stava il fornello in cui metteva paglia e fascine umide.
Prendeva dei blocchi di pietra, pria de casin-na, lì vicino, direttamente dalla parete di roccia. Sceglieva con cura perché anche a
soli 100 metri di distanza lo stesso banco dava una calce meno resistente e li inseriva nel buco. Sotto a tutto c’era la ramaglia e poi venivano strati di pietre e legna de savergu fino a coprirne l’ultimo con
terra bagnata. Una volta acceso il fuoco lo teneva avviato anche tre
giorni e tre notti e poi lo lasciava raffreddare per cinque o sei fino a
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che la pietra diventava leggera e più chiara. A quel punto prendeva i
buoi e portava la calce viva a casa.
In un grosso recipiente la sommergeva di acqua e aspettava il
momento che servisse a lui o a qualcuno della sua famiglia. Poteva passare anche un anno: l’importante era che la calce fosse sempre sott’acqua e non toccasse l’aria. Otteneva così la calce spenta che mescolata a sabbia fine o anche grossolana e, ovviamente con ancora un
po’ d’acqua aggiunta, gli serviva per costruire muri e case.
Questi tecnici gli dissero che loro in tre giorni facevano tre cotte
perché usavano il carbone e quindi raggiungevano i 900 °C: lui con
le sue ramaglie bagnate evidentemente non raggiungeva neanche i 6700. Mio padre non rispose, perché non era presuntuoso, disse solo
che quello che faceva andava bene per lui e che quindi non intendeva
cambiare. Anch’io ho fatto la calce con lo stesso metodo finché non
è comparso il cemento in sacchetti. La mia calce però resisteva di più,
ma oggi è più comodo e veloce comprare il cemento”.
L’allievo geometra allora interveniva e spiegava che la tecnologia dei materiali contraddiceva questi ricordi: “Anche il tempo sembra che cambi. Tu, nonno, dici sempre che da giovane gli inverni erano
terribili, che veniva tanta neve, che avevate i geloni alle mani. Ma non
è il tempo che cambia! È solo che le case e i vestiti sono migliori e allora ti pare di sentire meno il freddo. Forse qualche piccolo cambiamento c’è stato, ma è una cosa naturale che fluttua negli anni e statisticamente si ripropone. È solo alla scala dei tempi geologici che si
può ammettere un cambiamento percepibile e significativo …”.
Fortunatamente a quel punto arrivava qualcun altro di Alpe che
finita la cena voleva ciccare il toscano in pace con gli amici e il discorso
si spostava su altri temi: dalla scabbia14 bruciata alla pioggia che non
arrivava, dalla qualità del fieno a seconda dell’altezza dell’erba fino alle
cimici che quell’anno invadevano i pagliai.
Punni taceva, non era un contadino e i muratori si sa, hanno
meno variabili incontrollabili nel loro lavoro.
Anni dopo incontrai a Genova il nipote diventato geometra.
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Come va, come non va, il nonno ormai è mancato, il paese è cresciuto
e lui lavorava in Soprintendenza.
Bene, “Sarai contento” gli dico. “Certo” risponde “ma ho un
rammarico che solo tu puoi capire”.
E mi spiegò che negli anni ’80 aveva partecipato al restauro del
Palazzo Ducale ed ai lavori al Porto Vecchio. Insieme ad altri, guidati
da un giovane professore universitario, tale Ercolani, aveva dovuto
constatare che la calce usata per i moli antichi resisteva all’azione del
mare meglio delle stesse pietre in essa inglobate. Strati di 20 centimetri
di calce erano ancora intatti dopo secoli.
Infervorato e spinto dalla mia curiosità mi disse anche che queste calci venivano cotte a Sestri Ponente alle pendici del Monte Gazzo
e il materiale di partenza era la dolomia che ancora oggi è sfruttata.
Ma la calce odierna non ha la qualità e la resistenza di quella antica.
Una studentessa aveva provato a rifarla cambiando alcune cose (e qui
cominciavo a perdermi perché non sono un ingegnere) come la temperatura di cottura che influenza la pressione di CO2, l’umidità presente eccetera eccetera.
Insomma la morale era che i vecchi, come suo nonno Punni,
inconsapevolmente avevano trovato il metodo giusto: riuscivano ad
ottenere una struttura a grana fine che la calce cotta a 900 °C non ha.
Nel restauro del Palazzo Ducale invece avevano scoperto un intonaco di marmorino di calce pura spesso circa 1 o 2 millimetri che
per rifarlo avevano dovuto cercare due famiglie che ormai da anni non
lavoravano più ma conoscevano questi segreti.
Era poi ritornato con un geologo al sito dove Punni raccoglieva
le pietre da cuocere ed aveva così saputo che quello strato era il più
calcareo dei dintorni, con una quantità di argilla giusta per ottenere
la calce selvatica, quella che si assomiglia di più alle calci idrauliche.
Quelle rocce erano il cosiddetto Flysch dell’Antola di cui erano fatti
i monti di Alpe e dei paesi vicini della Valle Scrivia da Torriglia e Montoggio fino a Isola; flysch significava per i geologi “caotico” perché era
difficile che uno strato fosse uguale all’altro sia nello spessore che nella
composizione mineralogica, cioè nelle quantità di carbonato di cal-
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cio e argilla. Trovare il livello con una percentuale di argilla tra il 5 ed
il 10%, senza gli strumenti odierni, era lavoro da veri esperti, cioè “di
coloro che dell’esperienza fanno tesoro”, aveva detto l’anziano geologo.
Viveva quindi con il rimorso di aver snobbato il nonno, di non
aver riconosciuto in quelle sue parole una saggezza atavica che non era
solo tecnica ma anche morale.
Poco prima di incontrarlo avevo comprato un piccolo libro in
cui, sfogliandolo, mi erano capitate sotto gli occhi due frasi:
“...Da quando la ragione ha dato agli uomini la coscienza di essere loro i padroni del mondo, si sono divisi in due gruppi: quelli che
vogliono trasformarlo continuamente, convinti di migliorarlo, e quelli
che si sentono responsabili di conservarlo, convinti di salvarlo...”.
“... Non si può salvare il mondo se non si salva l’uomo, ma è
impossibile salvare l’uomo senza salvare il mondo ...”15.
Glielo regalai sperando di convincerlo che altri personaggi più famosi e importanti, di me e di lui, avevano avuto momenti di scetticismo o buchi neri della ragione ma che poi, si spera, si erano ravveduti.
Anche se troppo tardi per gli affetti familiari».
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UOMINI DI GALLERIA, GALLERIA DI UOMINI16
Il Capo Cantiere rimase perplesso per la mia arrabbiatura.
Però quell’inclinometro17 non stava fermo e poi il cunicolo di drenaggio che non andava avanti ... Bastava un temporale estivo per mettere in crisi tutto il lavoro. Da buon bergamasco si accese l’ennesima
sigaretta e disse: “Dai dottor geomago, non prendertela, faremo tutto
il possibile! Adesso andiamo a Iselle e mangiamoci su. Vedrai che i
tempi saranno rispettati”.
Salimmo sulla Land Rover in dodici, come al solito; avevo l’elmetto del Bepi che mi schiacciava contro il finestrino e maledicevo i
filoinglesi che preferivano quelle assurde macchine a due comodissime
Panda 4x4. Era inutile che gli spiegassi che nelle gallerie oggi si può
entrare in pantofole, niente, loro volevano il carrarmato.
Arrivati nel sottopasso della stazione l’autista con difficoltà ingranò la marcia: sulla parete di roccia viva spiccava una grande lapide; la mia innaturale posizione me l’aveva fatta scorgere. Una serie di nomi in fila e una frase retorica, subito mi venne in mente che
eravamo all’imbocco della Galleria del Sempione, la più lunga.
d’Italia, 19 Km.
“Ferma! Ferma! Voglio vedere quella lapide!”
Undici bocche affamate di minatori smoccolarono in vari dialetti rudi, che idea veniva a quel benedetto geologo? Prima le misure
al fronte18, poi le temperature dell’acqua e adesso anche la lapide, che
tra l’altro porta male.
Una pubblicazione sui lavori nella Galleria del Sempione così recita:
“... Per effetto delle pressioni interne si ruppero travi di quercia di 40x40 cm. mentre la galleria si deformava sino a chiudersi ...
dopo una volata si ebbe una violenta irruzione di acqua della portata
di ben 1.118 litri secondi.
Il 5 novembre 1902 all’ottavo chilometro la temperatura raggiunse
i 54 °C. Finalmente il 24 febbraio 1905 alle ore 7,20 venne aperta la
prima breccia che mise in comunicazioni italiani e svizzeri …”.
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Quanti minatori sono morti durante i lavori e poi a causa
della silicosi?
Un tuffo al cuore, un cognome e un paese familiari nella lunga lista: BARBAGELATA G.B. (Torriglia). Ma allora c’era uno della Valle Scrivia! Sarà partito da Pentema o da chissà dove, magari dopo aver lavorato
in altre gallerie era finito lassù tra quelle gole e quelle rocce così diverse dalle
nostre. Con lui qualcun altro di Vobbia o di Voltaggio, forse ci saranno stati
anche un Desirello, uno Zuccarino, un Garaventa, un Tavella.
Mangiai con poca voglia nonostante che il Toni per l’ennesima
volta raccontasse dello scherzo fatto al topografo, quando il sondaggio in avanzamento19 dava per sbagliati i suoi conti.
E sul treno pensavo alla mia vita: vado e vengo in un giorno da
Domodossola e mugugno; chissà allora quanto saranno stati senza vedere Monte Reale? E poi io vado in galleria quando ce n’è bisogno e
per un tempo limitato, loro, come oggi, avranno lavorato almeno otto
ore al giorno nella polvere e nell’umidità, con la roccia che non sempre “ride”20 e che a volte fa paura. Sai solo che occorre affrontarla con
calma perché le reazioni non sono mai sicure.
Alla sera a casa parlo con la Lilli che è un po’ la memoria storica della. famiglia21 ed al nome di Iselle-Trasquera ride:
“C’è nata nel ‘900 la madre della Milia, la Maria. Si chiamava Bargelli e i suoi erano dello stesso paese toscano del Remo Vitali; sono venuti qui per la costruzione della galleria ferroviaria tra Ronco e Arquata.”
Nooh!
“Ma la Milia non è di Serré?”
“Sì, lei è nata a Serré perché sua madre ha sposato un Repetto.
Un fratello della madre è morto proprio nella galleria di Borlasca un
po’ prima del ‘15”.
Pochi giorni dopo vedo Erminio abbronzato anche lui dal sole
di cantiere:
“Mio nonno ha lavorato al Sempione, era caposciolta22, poi alla
galleria di Ronco e quando hanno sospeso i lavori per la guerra è andato con Savio a fare le piccole gallerie del Castello della Pietra. Una
mattina del ‘17 hanno caricato la volata23, allora usavano una polvere
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bagnata con olio, una mina non è partita così lui e un altro sono entrati a vedere: ci sono rimasti sul colpo. I Fortieri sono marchigiani e
hanno girato l’Italia sottoterra”.
Mi vengono in mente i Tartagni, i Cappelli, i Beneforti e poi i
Perri: autostrade e ferrovie isolesi hanno fermato la marcia di questi
minatori, qualcuno sarà arrivato addirittura con Sommelier e Grandis24 quando nel 1853 costruirono la galleria di Pietrabissara.
Vado all’avanzamento dopo qualche giorno, Bepi e Toni nonostante la polvere fumano tranquilli sotto centinaia di metri di roccia, il rumore è assordante e non hanno le cuffie (per sentire se le centine miagolano25, dicono loro).
Un gesto, un saluto:
“Il Doria l’è come la roccia di Antigorio”.
“L’Atalanta l’è come noi, che la roccia di Antigorio la buttiamo
giù con un chilo per metro cubo26!”
Me la sono cercata, me la meritavo.
Loro sono i Signori del sotterraneo, loro non hanno paura.
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ALTRI UOMINI DI GALLERIA
“Hai preso la lampada?”
“Si”
“Portiamo anche i pantaloni impermeabili?”
“Si”
“Hai svegliato Bolla?”
“Senti ... non è la prima volta che noi entriamo in quel maledetto cunicolo, so benissimo quello che bisogna fare! Smettila di rompere e muoviti, è un’ora che ci siamo alzati.”
Le Cime Bianche di Telves, stamattina hanno il colore della depressione, quello stesso che ricordo dell’Alpe di Marmassana vista dal
ponte alla mattina presto. Un bel dire quello di Logan! Anche lui è
nervoso. Sono tutti nervosi. La fresa si è piantata, bloccata in fondo
al cunicolo dalla spinta della roccia; da me vogliono sapere se ce ne
sarebbe stata ancora tanta di quella porcheria plastica davanti alla macchina27. L’acqua inoltre, nei primi chilometri, è aumentata contro ogni
previsione e adesso esce da ogni fessura proprio come nell’etichetta
della San Bernardo.
Anche lì, depressione.
Mi prendevano quelle bottiglie trent’anni fa in farmacia, solo
quando ero malato perché allora costava troppo o forse non era di
moda comprare l’acqua. C’era un minatore sull’etichetta, con un gran
cappello e una lampada e guardava una specie di fiotto che usciva da
un buco in una parete sotterranea.
O era la Lurisia?
A mezzogiorno vado in paese a vedere se ne hanno. Sono
scemo; qui hanno solo acque austriache28 e poi oggi chissà a che ora
usciamo.
La vita in cantiere ha comunque i suoi aspetti ridicoli: ricordo
quando Venin andò con il Direttore Tecnico a comprarsi le scarpe a Mantova, per risparmiare. Nel negozio, come al solito, si tiravano le tasche e
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la commessa ingenuamente chiese:
“Ma come, vi prendete in giro e vi date del lei?”
“E si, lavoriamo insieme in galleria”
“Ah! Vendete quadri. Interessante: allora conoscete tanti artisti!”
Chiamali artisti …
Oppure quando vicino a Pasqua un cappellano tirolese celebrò Messa
nella sala ritrovo. Chi non era di turno fu alzato dal letto e spedito a presenziare. Anch‘io, per educazione, mi ci recai. Ero appoggiato alla parete di fondo
e mi divertivo ad analizzare gli strani abiti degli operai sotterranei in libera
uscita: un insieme di tute da ginnastica, felpe con scritto University of California, scarpe da lavoro, piumini stinti e strappati, capelli ancora umidi per
una frettolosa doccia senza shampoo, lo sguardo di chi cerca una sigaretta.
Il sacerdote, in un italiano germanizzato, aveva iniziato la predica.
Eravamo quasi tutti con le braccia incrociate, chi guardva il soffitto, chi
i turni di domani, chi il cuoco che intanto spadellava in cucina.
“ … Foi fate laforo duro, lontano da fostra famiglia, sempre al
puio, con grande pericolo, fostri molti amici fi guardno da lassù, io fi auguro tanta fortuna e spero di rifederfi un altr’anno!”
Immediatamente una trentina di mani scesero all‘altezza media del
loro possessore e toccarono quello che viene considerato il portafortuna più
efficace: Don Volkmar sgranò gli occhi perché la scena spontanea doveva
essere stata proprio eclatante! Un rito pagano finito per caso nel mezzo di
un serissimo precetto pasquale.
Il capo cantiere, che ci teneva ai buoni rapporti con i locali, fece
poi un cicchetto a tutti, me compreso, perché statale, laureato e per di più
nato a sud di Bergamo senza un‘educazione adeguata. Si calmò solo all‘indomani quando il sacrestano portò una cassetta di vino bianco Traminer
offerta dal simpatico sacerdote.
“Ragazzi, la prossima volta sentite Messa in ginocchio e con le mani
giunte!”
Ma intanto cercava disperatamente il cavatappi che nei momenti
giusti è sempre nel cassetto sbagliato.
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I primi passi nel cunicolo sono duri perché devi abituarti al
fondo irregolare, con le piccole rotaie, qualche masso staccato, ma è
soprattutto il fiume d’acqua che ti fa faticare. Poi inizi a sudare e
guardi sempre più insistentemente i numeri sulle pareti che indicano
la progressiva rispetto all’ingresso: ... 1.250 metri, 1.300, 1.350 ...
2.750, 2.800 … ecco qui iniziano le centine ... 4.000, 4.050, il tubo
dell’aria è strappato e sibila. Ormai non c’è più un centimetro di roccia visibile sulle pareti, tutto calcestruzzo proiettato e centine d’acciaio.
Sopra di noi almeno mille metri di montagna.
Logan ha cessato di parlare della sua Golf che ha preso fuoco
nell’autostrada, Rico penserà certamente a come tirare fuori la fresa
e salvare i conti della ditta; da parte mia ho da tenere il cuore a bada
perchè un senso di soffocamento sta salendo alla bocca.
Ci siamo tolti le mantelle impermeabili, basta stillicidi, sul
fondo corre solo un rigagnolo. L’aria è mefitica e si incontrano bottiglie di birra vuote, uno stivale, delle tavole, delle frasi in tedesco che
il topografo scrive con lo spray rosso per ricordarsi i punti che gli servono.
Ci fermiamo a bere qualcosa, ovviamente in piedi. Riesco a
guardare finalmente l’orologio perché è sotto alla camicia e alla tuta:
sono le nove.
Quattro chilometri, come da Isola a Ronco, forse. Però ci
siamo fermati a vedere un sacco di cose.
Una lampada comincia a dare segni di appannamento, per i
miei occhiali è una tragedia, mentre il sudore cola sotto la camicia. Le
poche parole che diciamo rimbombano; mi fermo un po’ indietro e
spengo la lampada per provare il nulla: buio e silenzio totale … da impazzire. Si sente il cuore battere, non dall’interno ma dall’esterno!
Cerco di pensare ad altro e mi viene in mente il Vobbia dai Tre
Laghetti a u Lagu de cadenne29 con un odore di salici e ambra solare,
le prime ragazze in costume, perché?
Lì, sulle ripide pareti calcaree ci sono quei buchi fatti dai genieri
in tempo di guerra, e risento qualche genitore che grida perché
stiamo entrando; c’era un fango repellente sul fondo, erano possibili
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antri misteriosi pieni di serpenti secondo i più anziani ... associazione
di idee, autoanalisi, ma dove sono adesso?
Ho di nuovo Isola nella testa e rivedo la costruzione della caserma dei carabinieri, decine di anni fa, quando insieme ad altri ne
esploravo le camere ancora vuote, che rimbombavano ... ecco: si
chiude una porta e rimaniamo intrappolati!
Sono tornato bambino, prigioniero in quella stanza buia e nessuno mi sente.
E se urlo come allora?
Riprendo a camminare e ho un dubbio: sarà il verso giusto? Mi
sarò girato nel buio inavvertitamente e starò andando dalla parte sbagliata? No, sono in salita, vado bene.
“Il gorgonzola ha bisogno di marsala secco, non puoi berci del barbera, porca vacca!”
Teoria e pratica si sposano nelle parole di un grande intenditore
come Bolla. Poi riprende:
“Ti ricordi quando per un mese il cuoco ha fatto solo maiale di secondo? Mi usciva dalle orecchie. Un giorno esasperato gli chiedo una fettina di vitella e nei miei occhi c’era un odio profondo. Me la porta sorridendo, 1’assaggio e gli dico: ma è maiale!”
“Sì, ma è come se fosse vitella!”
Sperava nella suggestione ...
Un‘altra volta arriva il Grande Capo, era di mattina, con forse sette
o otto gradi sotto zero. Gli offriamo un caffé in mensa, è sorridente (soddisfatto della produzione? contento di aver riposato nel dormitorio fatto
da Cecco Beppe?). Lo sorseggia, poi si rivolge a quel maledetto cuoco e sibila:
“Ne ha ammazzati tanti stamattina con questa roba?”
Giornata rovinata.
Riprendo il mio viaggio al centro della Terra in un silenzio da
incubo: Logan e Rico mi aspettano più avanti parlottando appoggiati
uno di fronte all’altro. Hanno spento le lampade per risparmiare le
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pile. La loro presenza dovrebbe rinfrancarmi ma mi accorgo che per
i miei nervi è ancora peggio.
Vedo le prime spaccature nel rivestimento e mi sembra che la
roccia spinga anche sull’aria del cunicolo, che tutto poi si ripercuota
sul mio corpo: forse sono il diavoletto di Archimede (o di Pascal?) di
un colossale esperimento di fisica.
Certo le gallerie hanno qualche riflesso sulla nostra mente,
forse rappresentano un tentativo di ritorno nel ventre materno, forse
i nostri antenati hanno vissuto migliaia di anni nelle grotte e ci
hanno trasmesso nei cromosomi quell’aspirazione all’antro caldo e sicuro. Ho conosciuto un sacco di gente che si divertiva a scendere sottoterra, basta pensare agli speleologi, ma io, pur attratto da questa attività (e me lo ricordo adesso), più che a Bossea ed in quei piccoli
cunicoli del Vobbia non sono mai stato.
Ora il sudore è di un altro tipo, almeno il mio: è panico cristallino. Vedo ondeggiare le pareti e sento che ormai sono chiuso dentro, mi sembra che l’acqua tenda a salire e che tra poco arriverà fino
a noi. La camicia appiccicata alla pelle stringe il collo, continuo a credere che non finisca mai questo buco inospitale.
Un altro flash mi illumina: Il Signore degli Anelli di Tolkien! Un
libro bellissimo e inquietante che descrive un’avventura fiabesca nell’oscurità delle Miniere di Moria, l’ho letto tempo fa e mi ha colpito
per le sue descrizioni:
“… col moltiplicarsi delle insidie la marcia si fece più lenta. Pareva già che i loro pesanti passi fossero andati avanti, avanti, senza fine,
sin nelle radici delle montagne. Erano più che sfiniti, eppure non offriva
alcun sollievo il pensiero di una sosta in qualche parte ... Non vi era altro rumore che quello dei loro piedi; il passo sordo degli stivali da Nano
di Gimli; ... quando sostavano per un attimo, non udivano assolutamente
nulla, salvo di tanto in tanto un debole gorgoglio e un gocciolare di acque invisibili. Eppure Frodo incominciò a udire, o a immaginare di udire,
qualche altra cosa ...”30.
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Anch’io sono come Frodo: sfinito, ma fermarmi non mi porta
sollievo e non ho accanto il Mago Gandalf con il suo bastone dai poteri eccezionali.
I miei due compagni continuano a camminare e imprecano per
il caldo, come se si trovassero in una qualunque gita in montagna.
“Logan, vado indietro!”
“Sei matto? Abbiamo ancora poco ... ”
“Non ce la faccio ... ho ... paura ...”
Mi accorgo di aver sbagliato termine: è come spiegare ad un cinese il gusto del ragù. Logan non sa cosa sono paura, angoscia o ansia. Dovevo dire che sto male e basta.
Ci pensano le mie gambe a mettere in evidenza il mio stato
d’animo: semplicemente si afflosciano. A quel punto Rico capisce che
non è una cosa leggera e decide di tornare.
Mi prendono sottobraccio, ma ad ogni passo che faccio verso
l’uscita sento le forze ritornarmi finché poi cammino da solo. Svelto.
Penso che la cosa farà il giro di tutti i cantieri.
“Ti ricordi quando il Teorico se 1’è fatta addosso nel cunicolo?”
“Fanno tanto i duri, ma poi son galli d’allevamento!”
Forse smetteranno di parlare quando entrerò in mensa alla
sera. Sarà inutile che racconti cosa ho fatto al mio paese, le escursioni,
gli aneddoti ... per loro sarò sempre un fifone.
Non m’importa. Adesso voglio uscire ... 3.250, 3.200, 3.150 ...
in discesa si va meglio, anche se ormai un po’ d’acqua entra dal collo
... 1.600, 1.550 ... qui c’è la grande curva, la luce la vedremo solo agli
ultimi metri ... 800, 750, adesso sto correndo ed ho contagiato gli altri: o forse lo fanno per non lasciarmi andare da solo?
Un’aria più fresca entra sotto la tuta ed un chiarore avanza, si,
è l’uscita! L’effetto dei fumi all’imbocco o di chissà che cosa dà una
parvenza notturna al paesaggio: adesso mi calmo. Mai visto con
tanto piacere una centrale di betonaggio.
Mi sembra di essere di nuovo in salvo nella Strada Vecchia.
“Siete già tornati?” chiede Bolla stupito togliendo le mani unte
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dall’interno del compressore.
“Era inutile proseguire” fa Logan “le batterie sono a terra e potevamo rimanere al buio”
“Bisogna cambiare il caricatore, non dobbiamo rischiare ogni
volta” aggiunge Rico.
Guardo stupito i due.
“No!” dico, e mi giro verso Bolla “sono tornati indietro perché
ho avuto un attacco di panico, chiamala claustrofobia, paura, strizza,
ma non riuscivo ad andare avanti!”
Bolla ha costruito tante gallerie che ormai l’Italia l’ha vista dalla
parte dei più tanti: ha iniziato quando si utilizzava ancora il legname
e gli incidenti mortali erano in media uno al chilometro, esclusa la silicosi.
Per me invece la carriera è finita appena iniziata, pazienza.
Ciao ragazzi, dovrei dirgli, è stato un piacere conoscervi, siete
simpatici, ma io non posso rimanere in questo cantiere e diventarne
lo zimbello.
Prendo la mantella e mi avvio alla doccia.
“Ehi belin!”
È la voce di Bolla; adesso mi prenderà in giro. Sembrano tre giudici, mi guardano, non ridono. C’è già odore di spezzatino in questo
effimero villaggio di containers e case prefabbricate; avrei voglia di
sprofondarmi sotto le lenzuola, dimenticare che ho delle debolezze incompatibili con la mia età e il mio mestiere.
La bandiera italiana voluta dal capo garrisce sul pennone ma
Rin Tin Tin è in ritardo.
“Lo sai quanti ne ho visti diventare bianchi e portati fuori a braccia? Bellunesi, abruzzesi e anche tuoi compaesani mangia-pesto. È un biglietto che bisogna pagare. Adesso stiamo tutti zitti ma domani entri con
me. Solo dopo vedremo se darti una martellata sulla gnuca!”.
Oggi, a distanza di quattro anni, il cantiere lo stanno smontando, la galleria ha ancora necessità di qualche ritocco, poi è finita.
Rico e Logan sono già a cento chilometri di distanza alle prese con le
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prime baracche, i primi problemi di un’altra stagione (“io con quello
lì in stanza non ci dormo: in Libia russava come un orso ... voglio vedere Tele Valtellina altrimenti me ne vado ... ragazzi, se vi provate ancora a rompere le palle a quella che serve in tavola vi licenzio: è la nipote del Sindaco ... ”).
Bolla mi stringe la mano e brontola di portare via tutte quelle
maledette pietre che ho lasciato nel magazzino degli attrezzi. Lui andrà invece nel “cantiere sotto casa”, cioè in pensione.
Ha un paio di occhiali scuri comprati da un marocchino arrivato fin quassù e le Cime Bianche di Telves riescono a starci dentro
riflesse; i suoi blue-jeans sono stirati con la piega nel mezzo come fossero pantaloni normali, la cravatta ha un nodo bestiale, si vede che non
la mette mai. Forse bestemmia un po’ meno.
“Ti ringrazio, senza di te non sarei mai più entrato in un cunicolo. È stata una grande cosa farmi riprovare e accompagnarmi: ho
anche capito che nella vita è bene dare una possibilità in più a quelli
come me”
“Sei una bestia!” sibila in veneto mentre si infila la giacca
troppo stretta “non hai imparato un’ostia, boia d’un can. Una possibilità in più bisogna darla a tuti, non solo a quelli come te, scoppialibri e cocacola!”
La scuola che frequentava non ha mai insegnato pedagogia né
filosofia, ciò non toglie che sia diventato un grande personaggio: capire gli altri è un diploma che non si prende in nessuna università.
La sua scassatissima Opel sta già partendo con un rombo.
Sono un pirla, devo ammetterlo, perché il mio cuore diventa piccolo
piccolo.
Se non fosse ridicola e impropria una scena del genere tra minatori mi verrebbe in mente il finale di Via col Vento:
“Domani è un altro giorno”
“Sì O’Hara, domani è un altro giorno”
Mi giro e rientro nell’ufficio per preparare le poche cose da mettere in valigia. Stacco le foto appiccicate disordinatamente sull’armadio.
In una c’è Rico senza barba sulla jeep impantanata; in un’altra
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le due giornaliste vichinghe del Dolomiten con tuta misura XL, stivali,
elmetto e dei nani estasiati attorno.
Ho anche quella in bianco e nero scattata a Paola mentre prende
un caffè in un boulevard di Parigi: solo gli occhi sono a fuoco.
Quindi ripongo le polaroid di gruppi in visita, anonimi, tutti
uguali, sorridenti sul fronte di scavo come giapponesi a Firenze, ma
impacciati e fieri con le mantelle gialle indossate per l’occasione.
Per ultima prendo quella mia e di Bolla sulla fresa. Dietro c’è
una sbiadita scritta a pennarello con la calligrafia di chi ha mani grosse
e calli secolari:
“13/7/82 al Pede — me amigu - progr. 6.150 cunicolo”
Si nota il mio viso che è disteso e lui che ride come un pazzo.
Mi svegliano dei rumori insoliti. Ho fatto uno strano ed agitato
sonno, devo finirla con canederli e speck31 a cena. Al buio 32 cerco l‘orologio e il calendario, amici che mi ricordano la direzione della vita: è presto però per alzarsi. Sono le sei e un quarto di martedì 12 luglio, S. Fortunato, anno stupendo per chi ama la Nazionale ed i mondiali di calcio:
siamo campioni. Logan è già in piedi perché sento che traffica nella sua
stanza e parla con il capo sciolta33 del turno di notte appena smontato.
Speriamo che la fresa non si sia bloccata, ieri sera faticavano a proseguire34.
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È TORNATO ARZIMBA?
Si presentò la prima volta in estate quando il turno pomeridiano
usciva dalla galleria e c’era ancora un po’ di luce. La Letteria cominciò
a raccogliere qualcosa per lui in mensa ogni sera e divenne uno di noi.
Allora lavoravo al rivestimento in calcestruzzo e pensavo di essere fortunato: avevo un salario qui in Italia, ritornavo una volta al
mese a casa, dormivo in una baracca con stanze a due letti e potevo
vedere la televisione dell’Impresa.
Mi sembra che lo scavo allora proseguisse bene, non ricordo interruzioni o pause, i camion giravano continuamente sollevando polvere o schizzando fango e lui aveva imparato ad evitarli: sapeva che
sbucavano da quel buco nero contro la collina e si dirigevano verso il
ruscello, gli bastava quindi scavalcare l’imbocco e attraverso i magazzini arrivare alle cucine.
Non si può dire che ci desse molta confidenza, ma era giusto
così. Anche i minatori non avevano troppa voglia di moine, se non a
Santa Barbara o quando arrivavano brutte notizie dal paese.
Io ero il più giovane e ogni tanto cercavo di accarezzarlo, non
era un tentativo per accattivarmelo, lo giuro, era che mi sembrava solo,
o per lo meno poco compreso dagli altri, anche se nessuno lo maltrattava o sbeffeggiava.
Una sera il capo cantiere andò a vedere i nuovi casseri a Imperia
e allora decisi di fargli visitare la galleria: un’idea cretina come un’altra.
Mio cugino aveva una doccia in cortile ed al sabato facevamo la
fila per lavarci. I gatti osservavano sorpresi quegli animali più alti che lunghi, in costante equilibrio precario, senza pelo , che si buttavano sotto un
getto bollente. C’erano Attila, Faccia Bruttilla, Araone e uno che chiamavamo Rossetto Idraulico per il colore e la propensione ad osservare l’acqua che cadeva. Mia nonna diceva che facevano bene al cuore perché riposavano la testa se li tenevi in braccio alla sera e ronfavano. Be’, in
cantiere è tutto un po’ diverso perché le poltrone non esistono e se ognuno
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avesse un gatto ci dovrebbe essere il veterinario quando non c’è neanche
un infermiere.
Comunque non fu difficile convincerlo a salire sulla Land Rover: lui non sapeva che guidavo da pochi giorni. Si fidava.
Chi entra in galleria per la prima volta crede di trovare un mare
di gente che sgobba come ad una catena di montaggio e magari una
tensione, non dico paura, che pervade chi lavora vicino al fronte di
avanzamento. Non è così: in giro ci sono a volte i topografi, un elettricista, quelli come me che si dedicano ai calcestruzzi, e poi due o tre
veri minatori nel punto più avanzato e pericoloso.
Tutto il resto sono camion che entrano ed escono, visitatori
rompiballe e rumori. Questi e quelli sono tanti e tutti diversi, ma poi
ci si abitua in un modo o nell’altro. In quanto ai sentimenti sono in
genere di noia o fatica perché chi ha visto mille volate non ha più curiosità di incontrare chissà che cosa.
A metà del tragitto vedemmo il mio amico Venin ma era
troppo preso dalle betoniere per considerarci anche solo un attimo.
Proprio la sera prima la Letteria gli aveva portato una scodella di fagioli e lui, con la battuta sempre pronta, gli aveva sibilato:
“Me ne faccia avere qualche metro cubo che li mettiamo sul
piazzale a strati: sono meglio della ghiaia”.
Mi stupivo sempre di come sapeva coniugare il suo carattere critico ad oltranza con l’ironia e con il mestiere, forse fu il nostro primo
addetto alla “qualità” perché controllava anche la data sui gelati dello
spaccio, ma allora non ne sapevamo niente di questa nuova specializzazione. Una volta a Ferrara, in un pomeriggio di caldo tremendo,
mi invitò a bere in un bar. Io ordinai un’aranciata e lui un bicchiere
d’acqua minerale mezza naturale e mezza gasata. La signora da dietro il banco rispose:
“Allora le do’ la Ferrarelle...”. Venin con calma ribatté:
“No, perché ha 1.500 milligrammi di residuo fisso”. Lo ammirai.
Ma intanto il mio ospite Arzimba, perché questo era il suo
nome, non mi sembrava per niente interessato alla gita ed a quello che
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gli raccontavo: si era addormentato sul sedile.
Quanto spazio bisogna lasciare in un foglio per dare l’idea del
tempo?
La maestra non me l’ha spiegato e io leggo pochi libri. So che
al punto che adesso voglio raccontare i camion non uscivano più dall’imbocco sul cantiere ma percorrevano ormai la galleria fino al suo
termine verso il mare.
Arzimba non si era più fatto vedere, forse aveva capito che io
ero interessato maggiormente ad altre cose o forse percepiva la mia tristezza perché l’inverno ai minatori fa tristezza, doppia rispetto a voi,
perché si finisce a non veder mai la luce naturale. O lavoriamo in sotterraneo o dormiamo.
E Arzimba me lo dimenticai.
“Ride o non ride?”
La domanda si fa ad ogni cambio turno: se la roccia spinge, se le
centine scricchiolano, se i bulloni si spezzano allora la roccia non ride.
Ma, paradossalmente, non sono quelli i momenti pericolosi perché gli uomini stanno attenti e non mancano i mezzi per fronteggiare
ogni eventualità.
Il problema purtroppo nasce quando la roccia è contenta, sembra che non serva nulla a sostenerla, tutto va bene, si avanza veloci,
scattano i premi di produzione, la gente si distrae e ...
Fu così il primo incidente al quale assistetti.
Cuccurullo aveva lasciato i pomodori di Caserta per fare l’operaio in galleria ed il suo compito era quello di manovrare la pompa
del calcestruzzo, un lavoro monotono che ti fa pensare troppo a casa
tua, che ti rovina i polmoni, che però ti fa comprare i BOT e sperare
in un pezzo di terra in futuro.
Probabilmente vedeva il sole della Campania (sì è un’espressione
banale ma questo racconto non lo scrivo per avere il Premio Nobel, voglio solo dirvi come stanno le cose) quando un pezzo di roccia si staccò
dal tetto della galleria e lo colpì. È assurdo, è assurdo vedere un amico
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steso per terra, il casco in mille frantumi e quel pezzo di roccia lì vicino.
Dico un pezzo di roccia perché è così che si muore in galleria: bastano
due chili di calcare o granito per togliervi da mezzo, l’importante è che
la loro stazione di partenza sia ad almeno otto metri sopra di voi.
L’accompagnammo al cimitero e sul cumulo poggiammo quella
pietra ed un elmetto nuovo. E fu proprio lì che mi ricordai di Arzimba.
Il nome glielo aveva dato Cuccurullo che possedeva questa predilezione: chiamava il capo cantiere Nembo Kid, il ragioniere era Cruciverba ed io Archimede, poi c’erano Penna Bianca e Stramal, MagoStinco e Duracell.
Forse mi scappò anche da ridere al funerale, ma rividi la scena
come fosse stato ieri: tutti in cantiere aspettavamo il Presidente dell’Abkasia che è una Repubblica sul Mar Nero con capitale Sukumi.
Preparativi, ruffianaggini e pulizie, bisognava fare bella impressione
che forse ci avrebbe dato lavoro per tre tunnel là in quella terra dove
gli aranci e i limoni dicono che maturano due volte l’anno. Viene domani, no, domani non può; viene domenica, no, va dal Papa; viene
il 15 luglio, no, va da Ranieri a Montecarlo. Insomma, tra un falso
allarme e l’altro il Presidente dell’Abkasia non si fece più vedere.
Io e Cuccurullo eravamo seduti sotto un albero a commentare
queste bufale estive sul calar della sera, quando lui improvvisamente
grida e ride:
“Eccolo Arzimba, è arrivato!”
Un magnifico gatto strabico stava facendo il suo ingresso al
campo e per prima cosa si strofinò sulle gambe di Cuccurullo.
Ancora adesso lo aspetto e ogni tanto chiedo a Letteria:
“È tornato Arzimba?”
“No, non l’ho visto e se torna non so cosa dirgli di Cuccurullo”
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NOTE
Fionda.
Briglia in calcestruzzo che evita l’erosione delle fondazioni del ponte tra
Isola e Cantone.
3 I salici.
4 Pubblicato su AA.VV., Tradizioni religiose isolesi, Centro Culturale di
Isola del Cantone, 1991.
5 Durante il periodo fascista (1922-1943) si iniziò la costruzione di un edificio che avrebbe ospitato oltre che la sede del Partito anche le attività culturali e
sociali del paese.
6 Attuale residenza di Maria e Renato Seghezzo.
7 Amedeo Zuccarino.
8 Dagli Appunti del Centro Culturale del 1998. Il Centro aveva organizzato
una mostra fotografica dedicata a Deddo.
9 Gibù (da Gibuti) era un Mastino dei Pirenei (circa 70 kg di peso), bianco
e nero. Vissi con lui dal 1996 al 2003.
10 Muretti a secco.
11 Roncola.
12 Pettegolezzi.
13 È un toponimo inventato, come tutto il racconto d’altronde.
14 Bosco ceduo, da taglio.
15 Questo racconto è, come già detto, immaginario, ma la sostanza delle vicende e cose dette intorno alla calce è vera. Debbo tutto quanto da me scritto a quel
Maestro che è Tiziano Mannoni, insigne docente all’Università di Genova, che ha
saputo coniugare la Scienza con l’Esperienza degli umili. Egli ci ha insegnato che
ancora oggi purtroppo molti preferiscono dimenticare in pochi anni ciò che si è imparato in centinaia e che non sempre è possibile ricostruire mezzi e fasi di lavorazione per recuperare il perduto. Ercolani, il giovane archeologo, è uno dei protagonisti de Il Fantasma della Ripa scritto dal Prof. Mannoni all’epoca delle
Colombiadi quando il porto vecchio di Genova fu ristrutturato e aperto al pubblico.
Per una più documentata descrizione delle fornaci per calce si veda F. Bandini, C.
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Montanari, A. Spinetti, “Quarta campagna di archeologia ambientale di Vobbia
(Ge): i forni da calce”, in Archeologia Postmedievale, n. 3, 1999.
16 Strumento che misura i movimenti dei terreno a causa di frane o scavi in
galleria.
17 Fronte: la parte più avanzata della galleria in costruzione
18 Sinonimo di “fronte”.
19 È un modo di dire dei minatori per spiegare che al fronte c’è una situazione tranquilla e senza problemi.
20 Santina Rivara Cornero, mia suocera. Lo stupore era anche dovuto al fatto
che Lilli non era mai stata, escluso il viaggio di nozze, fuori da Isola un solo giorno.
21 Caposquadra all’avanzamento.
22 L’insieme delle cariche di esplosivo.
23 Sommelier e Grandis provarono le loro perforatrici a vapore durante la
costruzione della galleria per la ferrovia Torino-Genova a metà del secolo XIX. Secondo Natale Rivara furono loro a costruire la galleria di Pietrabissara e con essa il
“falso scopo” in mattoni che oggi si vede sulle pendici del monte sovrastante la statale dei Giovi.
24 Le centine in ferro hanno sostituito il legname nella costruzione di gallerie: quando la montagna spinge vanno sotto sforzo ed in alcuni casi si sentono forti
rumori, quasi miagolii.
25 Con un chilo di dinamite per metro cubo di roccia.
26 A costo di annoiare i pochi lettori credo sia utile descrivere una parte delle
operazioni necessarie alla costruzione di gallerie. A volte lo scavo vero e proprio
(raggio 5,5 metri) è preceduto da un foro pilota (cunicolo o preforo) che ha
dimensioni di circa un decimo rispetto alla sezione finale e che può arrivare anche
a molti chilometri di lunghezza. Si utilizzano in questi casi delle frese meccaniche
lunghe anche 100 metri (talpe), che possono purtroppo avere notevoli danni se la
roccia “spinge”, cioè se il cunicolo diminuisce di raggio subito dopo lo scavo. È
capitato che tale riduzione fosse di parecchi decimetri, incompatibile con le
strutture della talpa: non resta allora che abbandonare il foro pilota e, nei casi
estremi, anche la macchina stessa il cui valore era, negli anni ‘80 e ‘90 di circa duetre miliardi di lire. Essendo poi il cunicolo un’opera provvisoria rispetto alla galleria
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vera e propria, i rivestimenti sono limitati al minimo indispensabile e quindi il
pericolo più frequente è il crollo delle pareti dietro la talpa o l’irruzione improvvisa
e inaspettata di acqua. Le ditte appaltatrici di prefori sono in genere svizzere o
austriache; all’imbocco gli operatori della fresa mettono sempre, oltre alla statua di
Santa Barbara protettrice dei minatori, anche un vistoso cartello con scritto Gluck
Auf! (Buona Fortuna!).
27 L’episodio è accaduto al Brennero.
28 Al Lago delle catene.
29 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, 1977, pagg. 389 e 390.
30 Piatto tipico sud-tirolese.
31 Capo squadra.
32 Inutile dire che ogni riferimento geografico o di persona non ha un esatto
riscontro con la realtà. I fatti sono comunque accaduti, anche se non in quel preciso modo.
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INDICE
INTRODUZIONE
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UN’ESATE ISOLESE
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UN INVERNO ISOLESE
8
UN AUTUNNO ISOLESE
10
UNA PRIMAVERA ISOLESE
12
UN CURATO ISOLESE
13
GIOCHI ISOLESI
15
LE SUORE DELL’ASILO
19
CORPI SANTI E ANIME PERSE
21
ISOLA DEL CANTONE VISTA DA ALFREDO DEDDO RIVARA
24
GLI ISOLESI IN TUSCIA
32
JAZZ ISOLESE
35
A GIBÙ
39
RELIO E LE ARGILLITI
40
PUNNI E LA CALCE
42
UOMINI DI GALLERIA, GALLERIA DI UOMINI
46
ALTRI UOMINI DI GALLERIA
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È TORNATO ARZIMBA?
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NOTE
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FINITO DI STAMPARE
NEL GENNAIO 2010
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