(continuazione)
L’interno della dimora terrena di Dio, tarlato e bisunto, puzzava di chiuso e di rancido. Un trespolo
di ceri accesi alimentava sul fondo l’enorme vescica di luce livida e giallognola dove galleggiano bluastri
e rosati gli osceni visceri dell’antropomorfo pellicano, grappoli d’interiora spremuti sulla parete dall’esperta mano del Pellicano che fu scortichino prima che frescante, Cosmo dei Macelli prima che Pellica no.
Dal sinistro affresco trasudava il pianto delle innocenti creature, cani e gatti randagi che il Pellicano,
con la benedizione della committenza porporata, scorticò vivi e sventrò nel sublime interesse dell’arte
sacra per studiare a crudo le radici e i colori del sentimento, per poter imprimere il dolore a grappoli
sulle pareti della casa di Dio. E si disse che il Pellicano - che lo lasciò credere - per il cuore sbranato dell’affresco avesse egli stesso sbocconcellato e spremuto un cuore vivo di cane. Si disse poi che dell’alta
opera sua il Pellicano se n’afflisse ma che non gli giovasse a nulla perché nell’ora del trapasso cani e gatti - ai quali il Demonio sottratto aveva il miglior boccone, l’anima del committente Eugenio Doni Por porato - si contesero i brandelli dell’anima sua pentita.
Non si poteva certo dire che là dentro il Padreterno fosse in un ventre di vacca. Stava cento volte
meglio a Fontisterni e mille volte e più sul Pian dei Frondizzi, alla Madonna del Vitellino, nel grembo
scalcinato della Vergine del Sasselli, sulla paglia, al posto del vitellino che, screpolato e sbiadito, sogna
ancora il latte del cielo scrostato, la briaca mano guidata dagli angioletti nascosti nel pennello, il firma mento del Sasselli, stellato, azzurro, trapunto di capezzoli d’oro. E c’era gente in campagna che invidia va la città, bestemmiava la natura e la volta del cielo che la proteggeva, quando in città perfino il Padro ne dell’Universo viveva senza verde e senz’aria, in un tugurio dalle oscene pareti.
Si segnò Redentore Guadagni entrando, addebitò alla FIAT e alla Coldiretti in combutta che gli avevano messo in testa e fatto comprare quel Testablù della madonna, e pure alla moglie, la stentata genuflessione, e si buttò giù a sedere, morto sfinito, sulla panca degli evangelici primi, sull’ultima.
Se si fosse intervistata la gamba della Coldiretti (e la meritava un’esclusiva televisiva): “Può dirci il
suo stato d’animo in questo momento? Vuole spiegare a chi ci ascolta cosa si prova nella sofferenza?
Vuole dire (e alla gamba non si lasciava il tempo di dire nulla!) al pubblico seduto a casa come ci si sente
dopo una giornata simile? Aveva mai pensato (e c’era del rimprovero nella domanda: perché avrebbe
dovuto pensarlo!) di vivere un’esperienza del genere? Penserebbe mai di ripeterla? Augura a nessuno
quello che ha passato oggi? Adesso come cambia la sua vita? Cosa vede nel futuro? Cosa si aspetta dalla
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vita? Lei ha una famiglia (e la gamba, che aveva soltanto una sorella, non sapeva se bastava per avercela,
una famiglia!)? Lei crede in Dio (e la gamba non si era mai posto il problema!)?”, avrebbe sicuramente
risposto: “Per favore, basta! Lasciatemi in pace. Lasciatemi qui.”
In chiesa però ci si andava per un motivo, per un battesimo, un matrimonio, un funerale, a pigliare
la cenere, a vuotare il sacco, per la benedizione dei foraggi e dei cereali, e naturalmente per la messa della domenica e delle feste comandate quando non si saltavano - e si era in regola lo stesso - per il pane in
pericolo sui campi e per le bestie che davano alla luce. O magari ci si andava a bestemmiare il destino
crudele, l’ostia sull’altare, come faceva il sacrilego Fioravanti da Diacceto dal cervello rivoltato, che si ri voltò a Dio dopo la disgrazia, che in chiesa ci andava fisso a ragionare col Padreterno a suon di bestemmie, a invitarlo a giustificare lo sterminio della sua povera famiglia, moglie e figlioli, schiantata dai fun ghi che lui stesso aveva raccolto come una provvidenza e dalla quale si astenne perché ne toccasse un
po’ di più a tutti. Non ci si andava così, in chiesa, alla leggera, di testa propria, dietro alla scusa d’una
gamba che non sapeva più doveva andare a battere la testa, e Redentore Guadagni si spaventò.
Cosa stava a fare la dentro? Come c’era finito in quel tugurio di chiesa? La gamba da sola, per quanto disperata, fuori di senno, non giustificava un passo così sconsiderato. E lui con Fioravanti da Diacceto non aveva nulla da spartire. Si stava appunto chiedendo che cristo era andato a cercare là dentro,
quando gli si ristampò nella mente, quasi tra le mani, una rudimentale lettura fatta tanto tempo addietro
a più riprese, nell’ora di cena, tra un boccone e l’altro. Una storia inventata dai preti, impossibile, ridico la, e per questo pericolosa. “Un’assurdità!” che non meritò di ruminarci sopra.
In un libro, dato a leggere dal prete a sua figlia Vanna e che lei consumava a tavola al posto del
companatico, aveva letto di uno, di uno che non era più nessuno da quanto era diventato qualcuno, che
si era perduto senza fine nell’infinita notte dell’anima sua, per le vie del mondo, in una brulicante città
senza fine inondata d’oro e di luci, e aveva ritrovato se stesso entrando per caso in una chiesa fuori
mano, buia e deserta, dove non c’era un’anima, nemmeno l’ombra di Dio. “Un’assurdità!” che la dolce
Vanna spiegò senza successo: “Ritrovò Dio, babbo!”
“E brava, Vanna!”
Intanto lui non doveva ritrovare nessuno, tanto per essere chiari, e se si guardava bene intorno non
c’era che qualche raggomitolata creatura inginocchiata qua e là, aggrappata ai banchi, decrepiti involucri
che non avrebbero certamente invogliato qualcuno, nemmeno l’anima più sperduta, a ritrovarcisi dentro, e che a Dio proprio non gli assomigliavano neppure alla lontana.
“Vanna, Vanna...”
E poi lui, Dio, se lo risparmiava volentieri perché non gli piaceva, e non perché non gli piacesse l’o pera sua, il cielo, la terra, il sole, gli animali, le piante, ma perché gli restava difficilissimo immaginarselo.
Per lui, Dio era il vuoto. Sulla ragione di questo vuoto che non riusciva ad approfondire una volta chie95
se il parere del prete, o meglio una conferma perché lui non aveva dubbi. E il prete gli dette ragione a
modo suo, a prete appunto: “Vuoto sì, ma pieno di Dio.” Peggio pure! Così se insisteva a raffigurarsi il
vuoto pieno finiva che ci cascava dentro, che lo vedeva riempito a proprie spese.
Diversa era la Madonna, a lei ci arrivava senza sforzo, a vista. Ricordava sua madre viva, morta, dalle nodose mani d’inverno fiorite di candidi ricami (e lui bambino a contendersi il gomitolo col gatto), e
vedeva la Madonna del Merletto di Sasserigi, rivedeva sua moglie con le figliole dentro e vedeva la Madonna del Parto di Monterchi visitata in un viaggio d’epoca in corriera, guardava la vigna gonfia d’occhi
e vedeva la Madonnina del Vino di Strada Bottari, pensava al grano sotto la neve e vedeva la Madonni na della Spiga (detta anche del Pane) in Valgerosa, accarezzava l’enorme pacifico candore delle sue vac che amate come spose e vedeva la Madonnina del Vitellino sul Pian dei Frondizzi, e senza averle mai viste, mai visitate, vedeva le Madonnine del Porcellino, del Pozzo, del Melo e del Pero, del Latte, della
Febbre, dell’Ossa, dell’Ulcera, della Vescica, della Salute, disseminate nella prodigiosa memoria ereditaria, e non aveva bisogno di chiudere gli occhi per vedere la Madonnina della Polla di Fontisterni.
Diverso era pure Gesucristo, a lui non dovevi neppure arrivarci perché scendeva lui da te, alla tua
portata per farti sentire alla pari. Con lui ci potevi parlare, ragionare, spiegarti, perché era uno del popolo, un socialista stando a chi lo conosceva bene, meglio dei preti, perché a differenza dei preti lui non se
la faceva coi signori, con gl’istruiti, conosceva la fatica dell’ignoranza e del pane quotidiano e amava i
poveri. Lui non andava in giro a pesare i peccati dei poveri, come facevano i preti, a ingrossarli con
gl’interessi anticipati dell’Inferno per farglieli scontare da vivi perché da morti non si sapeva mai (c’era il
rischio che andassero tutti in Paradiso: e allora valli a ripescare!), lui andava in giro a predicare il sociali smo, a raddrizzare le storture, a sradicare i soprusi, a bollare i ricchi con tanto di cruna e di cammello, e
se trovava che la misura delle ingiustizie era superata, diventava cattivo, si arrabbiava da far paura per ché non era né raffinato né biondo. Bastava andare a vedere le sue fattezze sul Lenzuolo (che poi era
un sacco!) di Torino per capire con chi si aveva a che fare quando non si stava nella misura, nel giusto.
Ciononostante, in casi eccezionali, disperati, come quello di Fioravanti da Diacceto, uno poteva anche
bestemmiarlo senza finire dannato, bruciato in perpetuo, come sostenevano i preti, perché lui capiva,
compativa e perdonava. Perché Gesucristo era un uomo e sapeva benissimo come ci si sentiva a dover
sputare sudore e sangue nella vita, l’anima, a essere figli di Dio sulla terra.
Con questo non si voleva dire che uno fosse autorizzato a farsi un’idea secondaria di Dio, o peggio,
di una persona astratta, campata in aria, per il fatto che non si riuscisse a raffigurarselo in carne e ossa,
che anzi era il caso di temerne l’Occhio Triangolare e il Dito Indice del Libretto della Dottrina, ma solo
che Dio era troppo grande, troppo complicato, difficile da capire e anche tremendo se faceva sul serio
con quella storia del Giudizio Universale, ed era meglio se con lui ci ragionava il Papa in San Pietro che
era stato messo lì apposta per studiare il pensiero e il linguaggio di Dio, che aveva l’autorità, la compe 96
tenza e il permesso di non capirci niente lui, il Papa. Tanto più che in campagna non c’era tempo da
sprecare a capire, che non ce n’era nemmeno per respirare, per morire, mentre a Roma, nella Residenza
di Dio, di tempo ce n’era un’eternità.
Però non furono né Gesucristo né la Madonna - troppo terreni, troppo compromessi con le debo lezze degli uomini, col dolore e la felicità, per vincere il vizio della vita - che tradussero in dolcezza di
morte l’afflizione di Redentore Guadagni, che gli sciolsero nel benessere del vuoto la mente e il cuore.
Fu Dio. E la gamba, leggera come una piuma, risalì alla vita in fiore galleggiando nel cielo capovolto
dove l’azzurro era il verde della Conca di Brizzi, e le stelle gli occhi dell’erba, e i giorni le onde dell’erba
che viaggiavano nel vento d’aprile e non arrivavano mai, mai, e che si fermarono un momento e per
sempre sotto le viti in fiore, nel fiore dell’amore, come per un momento e per sempre si fermarono sul
prato in fiore, nel fiore della luce e dell’aria, sul graticcio del pozzo dimenticato d’inverno (che sull’in treccio di vimini e canne era germogliato il tranello!), sull’ultimo frullo di Antognuccio, fratellino d’uovo
e di primavera, che volò in cielo precipitando giù.
“Angelo di Dio che sei il mio custode...” brucavano i fratellini d’uovo, brucavano assieme la preghiera
della sera sulla soglia del sonno consegnandosi a mani giunte all’Angelo custode chiamato dalla nonna
perché li vegliasse, li guardasse dal buio, nell’azzurra midolla del sonno.
Ribollì il bimbo superstite dentro la scorza della vita.
“Bell’Angelo custode!” si rammaricò, ma non uscì: che l’avvolse dolcezza di morte, liquido sferico sonno in tiepido immenso ventre di vacca, memoria e nostalgia dell’Alvo di Dio, dell’unica fisica felicità
sperimentata e perduta che aspettava la morte perché la riproducesse in perpetuo.
“Su, su, figliolo,” biascicò la voce tremolante e miope avvicinandosi in forma di mano, a tasto.
“Come?” reagì al freddo contatto il colpo di sonno in dolcezza di morte. “Cosa?”
“Nulla, nulla,” brancicò la mano parlante.
Gelatinosa e bluastra, l’appendice faceva capo a un arcuato braccio mal governato, di consolidata
natura populea, nel cui tremore era implicata per intero la figura vestita di nero che stava lì ripiegata,
sdentata e sorridente, in balia del braccio setaccio.
“Non ho bisogno del prete,” mise avanti le mani, respingendo l’altrui, Redentore Guadagni.
“No, no, figliolo, non sono il prete.”
“E allora chi è?”
“Nessuno,” disse il mancato prete. “Io,” fece illuminandosi negli occhi e nei denti superstiti. “Io sono
tuo fratello.”
Di fratelli ne aveva avuti parecchi (uno anche d’uovo), Redentore Guadagni, e ne aveva ancora di
vivi e vegeti un po’ dovunque, in Casentino, nel Valdarno e da qualche altra parte in Toscana, e perfino
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in Argentina dove, confondendola con gli Stati Uniti d’America, fuggì senza speranza l’americanizzato
Vanni detto Johnny per dimenticare il disperato amore per la bella Argentina (appunto!) di Sant’Ellero,
e di tutti ne ricordava il nome e il soprannome e ne rivedeva come fosse ieri i giorni lontani nella felice
vita assieme sulla Grande Madre Casa dei Guadagni in Poggio al Vento, di ognuno poteva ripassarne la
fisionomia e la voce e riudirne i passi, di quelli sopra la terra e di quelli sottoterra, ma di quello lì non
avrebbe potuto avere ricordanza nemmeno a perderci la memoria. Mai aveva avuto luogo nella razza
dei Guadagni una disgrazia antropologica a quella maniera, una vergogna simile, neppure tra quelli nati
morti o non nati per niente. E l’incredulità di Redentore Guadagni restò a bocca aperta mentre il prete so fratello partiva sull’accelerazione motoria del suo braccio setaccio.
“Io sono il tuo indegno fratello e sono qui per te, perché tu possa vedere in me tutta la misericordia di
Dio.”
Enumerò, esaltandosi nella progressione, tutta una serie di vizi, di errori, di smarrimenti (confortati
da precipizi e tenebre), di peccati, di lordure, di nefandezze, che utilizzò come scala ascensionale per
toccare l’abisso, per andare a brillare in cima, e, per evidenziare meglio la misericordia sfondata di Dio
nei suoi confronti, se ne vantò.
“Mai nessuno è caduto da più in alto di me.” Si vedeva che aveva ben precisa in testa la scala della degradazione. “Dall’ultimo gradino.” E la scala doveva essere altissima perché si prese una consistente
pausa per dar tempo alla scellerata prova vivente di venir giù, di toccar terra. “Ma Dio ama i peccatori, i
caduti, gli afflitti, i disperati.” Recuperò per i capelli un oscillante filo di bava e, saltando “i bavosi”, terminò l’elenco alla grande”. “E gli assassini!”
Qui un colpo di tosse emotiva, o forse un contraccolpo da sopraccarico parkinsoniano, lo avvertì
che stava spudoratamente indulgendo alla sua non meglio ripercorsa sciagurata vita, abusando dell’im meritata misericordia di Dio concessa a fondo perduto.
“Ma chi sono io?” si domandò con cattiveria. “Sono forse qualcuno?” E sembrò non costargli fatica al cuna la meritoria rinuncia ad esserlo. “No, io non sono nessuno.” Anzi, se ne compiacque dandosi una
guardata addosso con tanto di competenza, come per dire: non si vede? “Non sono che polvere, che
fango.” E sentì il dovere di perfezionarsi, di personalizzarsi meglio. “Io sono uno sputo!” E poteva risparmiarsela la rifinitura, quel bavoso, perché si vedeva benissimo che non era altro.
Non c’era che dire, la misericordia di Dio su di lui era stata spietata, e lui ne approfittava.
“Io sono l’indegno strumento dell’amore di Dio e sono qui al tuo servizio, fratello.”
Siccome l’incredulità del beneficiario di tanto strumento non dava segnali di rinvenimento, di gratitudine, il preteso fratello passò a più accessibili declinazioni d’identità, si qualificò in termini operativi.
“Io sono dell’O.D.A.R.F.R.A.S., dell’Opera del Divino Amore per il Recupero dei Fratelli e il Ristoro
delle Anime Sconsolate.”
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L’esplicita offerta d’una mano consolatoria così qualificata, così sensibile, così ondulatoria, meritava
una scarica di gratitudine, quantomeno un baciamano, braccio setaccio permettendo. Ma, niente. Il beneficiario persisteva nell’incredulità, nell’ingratitudine. Allora il preteso fratello materializzò l’infruttuosa
declinazione verbale nella più smisurata e inaudita delle carte d’identità. Estrasse dalla tasca, e Dio sa il
tempo e lo sforzo impiegati, una targa di latta smaltata che richiamava alla memoria, molto da vicino, il
lusso dei tempi magri, quelle dei grassi animali e vegetali, “LARDO”, “STRUTTO”, “BURRO”,
“MARGARINA”, “OLIO di SEMI”, “OLIO d’OLIVA e di SANSA”, infisse sugli sporti delle Botteghe di Generi Alimentari e Diversi, e la protese con delicato tremore - per l’occasione accennò un rite gno il braccio setaccio -, in atto sacramentale, quasi fosse una reliquia.
“Ecco, fratello,” disse. “Puoi vedere e toccare chi sono io.”
“O.D.A.R.F.R.A.S.” lesse nero su bianco Redentore Guadagni: e il nero gli esplose nel bianco degli occhi.
“Anche qui dentro!” E la targa volò tra i banchi rincorsa dal braccio setaccio. “Perché questo?” fece de legando a bestemmiare il destino al posto suo l’empio Fioravanti da Diacceto che in chiesa ci andava
apposta per quello. “Perché proprio a me?”
Sull’affresco del Pellicano, fra i ventrami squarciati, mascherata nella piega d’un lobo, la scritta
“s.v.c.r.” ammoniva che se ci fosse stata una risposta non ci sarebbe stata la domanda.
E Redentore Guadagni fuggì dalla dimora di Dio caduta in mano all’O.D.A.R.F.R.A.S.
(continua)
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