(continuazione)
Verdi e lucenti scorrevano le colline sui finestrini del treno, dentro il cielo, nella memoria di Reden tore Guadagni che partiva militare lasciando sulla stazione di Sant’Ellero l’amore in pianto e i giuramenti eterni. Sulla ferrovia risaliva la primavera degli occhi di lei, di quell’amore lontano che confuse un
giorno la Conca di Brizzi con la volta del cielo, che sulle onde dell’erba e sotto le viti in fiore scambiò la
primavera per l’eternità. Malva era il suo nome e Malvella quello dell’amore.
Da quel forzato viaggio che lo condusse nel Sud, nella Città del Basilico, a rimpiangere l’Arno e il
dolce accento, a sospirare chi lo dimenticava, Malvella - e glielo scrisse che non lo pensava più, che c’e ra un altro, un fiorentino. Che la dimenticasse! -, nasceva quella tristezza lontana, da ferrovia, che lo coglieva sempre quando partiva in treno.
Gli succedeva sempre così. Sentiva subito la nostalgia dei suoi campi, dei suoi cipressi a confine del
cielo, del suo sole nascente sul Verde Verrucchi, della Bottega di Fontisterni odorosa di alimentari e di
mescita, della Bottega di Sant’Ellero, sulla Statale, dove scendeva nelle domeniche d’estate a passare il
pomeriggio, a bere birra con gli amici, a ragionare di macchine, di motociclette, di calcio, di pugilato, di
ciclismo, di cinema, di donne, a conoscere gente di passaggio e i fatti nuovi. Questo non gli succedeva
quando partiva in macchina, infilava la strada lasciandosi dietro tutto, casa, terra, animali, amici, dimenticando perfino dov’era diretto.
Sulla strada rullava ancora la giovinezza e Redentore Guadagni era il ragazzo che con la bicicletta,
una bellissima Bianchi nera, andò fino a Viareggio a vedere il mare, a farcisi il bagno dentro. Era il gio vanotto che sulla motocicletta, un Airone rosso come il fuoco, impennò l’asfalto e incrinò le curve per
raggiungere la macchina scoperta targata Roma, la ragazza al volante che era passata come il vento sulla
Statale lanciandogli un biondo sorriso cinematografico e il fazzolettino.
E la colpa di quel viaggio in treno era dei carabinieri.
Gli avevano fermato la patente di guida dopo l’incidente col trattore, per sospetta perdita dei requisiti fisici. “Sconquasso osseo in articolazione destra inferiore.” Con questa dicitura si era fatto un me sotto d’ospedale prima d’essere rilasciato, si fa per dire, a piede libero. E intanto era senza patente. La
revoca promossa dai carabinieri (colpiti dalla dicitura!) aveva operato meglio dei medici.
Ecco come si ragionava nel mondo. Per i carabinieri la gamba non era più buona nemmeno per an dare al cesso, per puntellare un bisogno corporale, mentre per la Coldiretti era ritornata nuova di zecca,
funzionava che era una meraviglia, meglio della leva di Archimede.
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Però tutta la colpa era della moglie che non distingueva i centimetri dai metri, che gli aveva forzato
quella manovra cieca, di retromarcia. “Vai, vai!” aveva insistito sull’orlo del fosso. “Ancora un po’, sì,
così, dell’altro, di più!” E dato che lui non aveva gli occhi di dietro, dio guercio, nel carrello carico di
fieno fino al cielo, quello andò giù nel fosso tirandosi appresso il trattore che non resse, che non trattenne un cazzo! E meno male che la FIAT e la Coldiretti, spalleggiandosi nella campagna promozionale
delle macchine agricole di Pontassieve, gliel’avevano garantito come il trattore più sicuro del mondo, oltre che il più conveniente, il più robusto, il più bello, il più docile, insistendo a turno su una caterva di
virtù da far invidia a un cavallo, a una persona.
“Lei, signor Guadagni (il cognome risultava in una lista di fortunati!), con questo FIAT, con un Testa blù come questo, si cambia la vita da così a così. È una macchina che si guida con un dito, col pensiero,
che va da sola. Lei, signor Guadagni, può andare tranquillo da tutte le parti. Non si fa per dire ma lei, si gnor Guadagni, con una macchina del genere può arrampicarsi sulle piante e scendere i fossi cantando,
con tutta sicurezza. Con il Testablù uno si sistema per sempre.”
Giusto! Così mentre la FIAT e la Coldiretti andavano a pranzo assieme, a braccetto, al Girarrosto
per l’occasione, per festeggiare il successo della loro campagna, lui, il signor Guadagni, andava per la
sua campagna a sistemarsi col trattore più sicuro del mondo, cantando, a inaugurarne la stabilità dentro
i fossi, a rimetterci la gamba con quel Testablù della madonna.
Alla stazione di Pontassieve, annunciata dal conduttore come una grande scoperta personale, il marciapiede d’imbarco era gremito d’anime purganti, pronte all’assalto, l’une all’altre aggrappate per meglio
risucchiar lo slancio. Sulle voraci bocche aperte delle carrozze confluì la massa e, nell’infornata, alcune
anime purganti, le men leste, costrette a fare da predellino, restarono giù di traverso, mezze fuori e mezze dentro, lamentando sangue e ossa rotte e imprecando contro le Ferrovie che non provvedevano all’aumento delle carrozze, al raddoppio dei treni, in quell’ora di punta. Restavano lì a impedire la chiusu ra delle porte rifiutando ogni soccorso, gridando che era ora di farla finita con quel trasporto bestiame,
chiamando le Ferrovie a risarcire i danni riportati (immensi a giudicare dai lamenti), elencando fratture e
contusioni, e ingiuriando il conduttore e il capostazione che si adoperavano per minimizzare l’accaduto,
per dimostrare che non era successo niente. Erano imbestialite, non volevano sentire discorsi, urlavano
che volevano parlare col Ministro dei Trasporti, con la Televisione, che di lì non si sarebbero smosse
neppure con l’intervento del Papa, e tiravano cazzotti contro le porte pneumatiche che le schiacciavano
nel tentativo di chiudersi, di soddisfare quel dannato cicalino (arrabbiatissimo pure lui) che insisteva a
chiudere il servizio peggio d’una puttana a tempo.
Intanto, dentro, la massa fermentava.
“È una vergogna! Non se ne può più! Tutte le mattine la stessa storia!”
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E il ritardo cominciava a puzzare.
“Ma si può sapere quanto dura questa storia?” urlò un’anima purgante sporgendosi di brutto dal fine strino. “Quando riparte questo cesso di treno?”
“Subito!” rispose un’amena anima purgante lì accanto, a nome delle Ferrovie. “Appena finito di caricare
la merda!”
E sul grasso delle risate fiorì la riflessione di merito.
“Perché questo siamo, merda!” rilevò un’anima purgante dalla sensibilità a fior di pelle, di pensiero,
proponendosi come esempio, come punto di riflessione appunto. “Merda calzata e vestita!”
E giù tutte dietro a riflettere le anime purganti.
“Giusto! Sicuro! Merda bella e buona! Non siamo altro che merda per le Ferrovie! E della migliore! del la più pregiata! della più redditizia!
La moderazione mosse un’anima purgante in tanto vanto.
“Sì, sì, però non esageriamo!”
Ma il richiamo a contenere l’entusiasmo fu mortificato sul nascere.
“Perché c’è qualche stronzo qui, per caso, che pensa d’essere qualcos’altro? qualcosa di più?”
E la massa garantì l’assenza d’ogni presunzione.
“No, no! Quello che siamo è pure troppo!”
Dalle piattaforme arrivavano ondate che gonfiavano le carrozze, che scontrandosi e refluendo rime scolavano la massa ormai sul punto di fuoruscire dai finestrini. E Redentore Guadagni, scalzato dal posto a sedere, era nel corridoio a lottare per un posto in piedi, quando un calcio anonimo ma altamente
qualificato gli centrò la gamba della Coldiretti.
“Piano, per favore, piano!” gemette pressato e semisoffocato. “Ho qui una gamba malandata.”
Tre virili anime purganti di energico spirito, magre come eremiti, dal duro pallore e l’occhio affebbrato, sorsero con voce soprana in soccorso di Redentore Guadagni che si piegava giù imprecando in
sordina per assorbire dignitosamente il dolore che gli tagliava la gamba.
“Fermi, state indietro! Qui c’è un invalido! C’è uno senza una gamba!”
La massa ristette un attimo, giusto il tempo per cambiare timbro e registro, per aggiornare la propria
sensibilità. E l’infruttuoso sfogo ferroviario si tradusse in caotica partecipazione.
“Fatelo respirare! Non gli state sopra, non vedete che gli manca l’aria! Cosa fate lì, tiratelo su, non vede te che non sta su, che è senza gambe, povero vecchio!”
E contro Redentore Guadagni che rifiutava le attenzioni fu decretato l’impiego delle maniere forti.
“Stia fermo, lei, non si agiti, si lasci aiutare, lasci fare a noi,” ripetevano le tre anime purganti investite
dall’iniziativa, abbrancando l’occasione nei panni di Redentore Guadagni. “E voi, laggiù, liberate il po sto degl’invalidi!”
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La massa partecipava guidando l’intervento.
“Fate piano! Attenti! Non così, così gli fate peggio, pigliatelo sotto!”
Se lo sollevarono sulle braccia come un infante, sulle teste, e lo rotolarono giù sopra la massa fino in
fondo alla carrozza.
“Ed eccoci qui belli comodi,” fecero scaricandolo sul posto degli invalidi evacuato. “Belli seduti!”
Scambiarono per commozione di riconoscenza il balbettio di Redentore Guadagni che stordito, frastornato da quella carica di generosità umana, non riusciva a districare la gratitudine dalla rabbia e stava
lì a fissare la propria incredulità.
“No, no, non dica niente, non c’è bisogno di ringraziamenti! Per noi è stato un piacere.”
E il piacere della fatica, del sudore fiorito sul pallore delle loro facce, si raccolse in rugiada nel cuore
di quella che era stata la più attiva delle tre pie anime purganti.
“Ah, questa?” fece vedendo che l’incredulità fissata da Redentore Guadagni coincideva con la spilla che
le brillava sul risvolto della giacca. “Non è niente, è la targhetta di riconoscimento.” Sorrise compiaciuta
coinvolgendo le due consorelle fornite d’identica spilla. “Noi siamo dell’O.S.C.,” disse forte, in modo
che ne usufruisse tutta la massa. “Dell’Opera di San Cristoforo.”
L’O.S.C.? Sì, l’O.S.C. era lì, e su pressione della massa che volle vedere, toccare, esaminare da vicino
le spille benemerite, tra l’altro bellissime (lettere d’oro su fondo verde), furono illustrati gli scopi del Volontariato, dell’O.S.C.
L’O.S.C. era nata per il soccorso dei passeggeri in difficoltà sui mezzi del trasporto ferroviario sempre più moderni e sempre più disumani, delle vittime degli avvisatori acustici (cinque secondi a disposizione!), causa di scompiglio e d’infarti, delle repentine porte pneumatiche che dividono il dentro dal
fuori cimando arti e teste, delle partenze fulminanti responsabili d’involontarie apnee irreversibili, dei
servizi igienici a tempo (due minuti e si spalanca la porta!) collaudati ignorando stranguria e stitichezza,
fonte di collassi da imbarazzo.
Rientravano, naturalmente, negli spontanei doveri dell’O.S.C., l’individuazione e l’assunzione in trattamento diretto distrattivo di evidenti disagi psicologici da latente siderodromofobia (rutti aerofagici,
venticelli personalizzati, tremori e sudorazione), risposte immediate tramite sacchetti di plastica a significativi accenni labioculari (turbe intestinali da ingestione ravvicinata di fortori ascellari e fiati agliati), rimozione d’ansia (treni sbagliati? coincidenze a rischio? scioperi a tagliola?), prestazioni audiovisive, ambulatorie, orientative (per i costretti a viaggiare di spalle), reperimento di posti a sedere (sgombero di
quelli riservati agl’invalidi abusivamente occupati e convincimento alla cessione volontaria di quelli regolarmente conquistati) per soggetti affetti da vistoso sopraccarico cronologico, scoliotico, elefantino, e
ovviamente per i portatori della classica gamba della Coldiretti.
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Al cospetto di tanto altruismo riassunto nell’O.S.C., Redentore Guadagni pensò, con la sincerità che
l’istintiva prudenza verso quella roba gli concedeva con riserva di diffidenza, che a conoscerle meglio, le
sigle, non erano tutto sommato così malvagie, così ostiche. Certo, restava sempre il fatto che una sigla
prima non vuol dire niente e poi vuol dire tutto. E stava lì appunto a ruminare la sigla e le premure ricevute, quando gli sfuggì un lungo sospiro di riflessione, di assestamento, che venne subito interpretato
dall’O.S.C. come richiesta di ulteriori gentilezze.
“Possiamo fare dell’altro per lei?”
Questa volta Redentore Guadagni mise avanti le sue grandi e indiscutibili mani.
“No, grazie, signori,” disse in maniera assoluta. “Basta così!”
E l’O.S.C. dovette accontentarsi dei risultati conseguiti.
Intanto fuori la protesta, partita a digiuno, cedeva alla debolezza e finiva per essere assorbita dalle
stesse Ferrovie che baldamente, in persona del capostazione, prendevano atto del perpetuato disservizio, del giusto incollerimento dell’utenza, denunciando per prime la scandalosa cadenza dei treni, uno
ogni morte di papa, e la vergognosa scarsità delle carrozze, arrivando perfino a dichiarare la protesta fin
troppo contenuta, a rinfacciarle addirittura la rincallita pazienza, il ritardo davvero scandaloso con cui
s’era manifestata.
Così, con la promessa che fatti del genere non si sarebbero più ripetuti e che l’Amministrazione
avrebbe provveduto all’istante (e guai a lei se non l’avesse fatto!) a triplicare i treni e a centuplicare le
carrozze, le travolte anime purganti furono convinte a dare dimostrazione d’intelligenza e sensibilità, a
rimettere la protesta sacrosanta, la santità dell’ira, in mani sicure, nelle mani delle Ferrovie, a declassare
con entusiasmo fratture e contusioni in semplici ammaccature, in ridicole sbucciature, a salire in piattaforma in parole povere, a rifarsi massa paziente.
“Si parte! Si parte!” annunciò il conduttore che nell’esaltazione della novità per poco non restò giù, tagliato fuori dalla rabbiosa chiusura delle porte.
“L’avvenimento del secolo!” commentò la massa. “S’è sverginata una puttana!”
Ma non era ancora detto.
La stessa amena anima purgante che poco prima aveva così squisitamente metaforizzato il carico,
s’affacciò dal finestrino e mirò sul capostazione che già impugnava il fischietto.
“Uno stronzo è rimasto giù,” sparò. “Non s’è caricato il meglio!”
Il capostazione riconobbe Nello Filippetti, già classificato poeta e attaccabrighe, e lasciò stare.
Alla fine arrivò la benedizione della paletta e il treno dei tribolanti del Valdarno partì con uno strap po che falciò i posti in piedi, che fece drizzare le orecchie all’O.S.C. in perenne attesa di occasioni, di
casi altrui.
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Oltre la ferrosa piana rossa degli antichi Depositi FS, sul verde dei celebri pescheti superstiti, scen deva verso Firenze una scia di luce polverosa. Il sole tracciava una strada d’oro e d’argento sopra l’Arno
che la Conca di Rosano taglia e nutre. In fondo, ai piedi degli ulivi che salgono a San Prugnano per contendere il cielo ai boschi di prugne selvatiche, dimorava la quiete della prigione del Signore, il monastero di Rosano dove, negl’inviolabili orti, le recluse coltivano il perpetuo laborioso silenzio, frugali preghiere manuali, il lino per l’Amore Divino, le api, il miele per il fiele della Croce, e gli aghi di pruno per
rammendare le ferite dello Sposo Celeste, per forare le pupille dell’Angelo Tentatore.
“Beata lei che s’è fatta monaca,” disse Redentore Guadagni vedendo scorrere lontano il monastero di
Rosano, rivedendo il viso di Vanna, la figliola rinchiusa che aveva rifiutato marito, i meglio giovanotti, e
adesso abitava in eterno là dentro in forma d’ape e di formica, sotto il nome di suor Umiliata. “Non
avrà le gioie della vita, delle altre, ma ha fatto meglio di tutte, avrà meno dolori.”
Ricordò la dolcezza del tempo che gli si concretizzò un giorno nelle mani in germogli d’eternità,
nelle sue creature, gemme trasudate dalla scorza del suo cuore, e udì scricchiolargli gli occhi ricapitolando la tenerezza della vita, le sue dilette figliole tutte andate via.
Piccarda, la maggiore, la più altera, andata sposa al Signorino Gianno Giannazzi che la tolse ancora
bambina e rustica per farla signora e padrona di Poggio Grato in Reggello. Vanna, la seconda, la più
dolce, andata appunto a rinchiudersi per suo talento a Rosano, nella prigione del Signore, dopo aver
chiesto perdono ai giovanotti rifiutati e al babbo che l’aveva tacitamente destinata a un confinante be nestante. Fiorenza, la terza, la più allegra, andata più lontana di tutte, in Arezzo, maritata a un fantasioso
ambulante di corredi nuziali casentinesi. Cesaretta, l’ultima, la più affettuosa, andata in moglie a un giovanotto dal tumultuoso futuro, inventore di attrezzi agricoli, che batteva il ferro e il suo ingegno nella
Fonderia del Terminaccio, sulla Statale. Quattro stelle fisse, i punti cardinali del babbo, le foglioline del
suo cuore tutte volate via. E a Vanna, rinchiusa, andò un frullo d’anima, un fremito d’addio, mentre alle
altre toccò il sereno rimpianto del babbo, la commozione delle sue viscere che già frugava con manine
di carne nelle rughe del nonno.
Nel trasparente cielo che sul vetro del finestrino specchiava, brillò il blu d’uno stormo di colombi
quando la strada, il fiume e la ferrovia si toccarono al Colombaiotto, sotto i cipressi dell’antica tristezza
murata che consumò Leopolda Guiderigi, la bella Rinchiusa.
Strada, strada ferrata e strada d’acqua non solcavano il cielo per l’infelice sposa murata che aspettava
ancora i suoi colombi d’amore fatti assassinare dal marito crudele, Guiderigi Signore, quando scoprì che
viaggiavano per l’amore lontano di lei.
“Chissà se sarà vero,” disse Redentore Guadagni seguendo i colombi diretti verso le verdi piramidi geologiche. “Che sono le ali della Rinchiusa.” Lo disse a se stesso perché non credesse alla dolorosa storia
del Colombaiotto, della bella Leopolda, e intanto fece: “Vanna, Vanna.”
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A Sieci, dove per farne uno ce ne vogliono dieci, e a Compiobbi, dove se non son storti son gobbi,
il treno dei tribolanti del Valdarno raccolse l’ultimo tributo d’anime purganti. E già Firenze, Firenze dell’uman divino, dei furiosi ingegni interdetti, dei bestemmiatori e della Coldiretti, arrivava nell’aria, sugli
ulivi, sui cipressi, sui Balzi della Cipressella dove il disdegnoso Bozzo Antignani coltivò manuali pensieri, lo spirito come fosse carne e la carne (Paradisa Bardini dalle sontuose mele!) come fosse luce, nel
tormentoso tempo di sua vita incelebre che gli mancò quando gli si tradusse in abbagliante fama, nella
Paradisa dalle belle mele che illuminò le notti a chierici e badesse.
A Campo di Marte il treno rimise metà del carico, riprese fiato, misura umana, e ripartì per andare a
morire nel purissimo genio di Michelucci, nella stazione più antropologica del mondo. E: Firenze
S.M.N.: c’era scritto sulle tabelle, proprio come diceva il biglietto.
Dolcemente il treno entrò nel cuore della Città del Fiore, distendendosi sui binari.
“Firenze! Firenze!” gridò il conduttore ignorando che erano già stati avvistati da qualche tempo la terra
di Colombo e il mare di Senofonte. “Santa Maria Novella!”
E il treno si sciolse rimettendo il resto delle anime purganti.
Alla fontanella del marciapiede un passero beccava sullo spillo d’acqua. “Chissà chi gliel’avrà inse gnato,” pensò Redentore Guadagni fermandosi a guardarlo: e pensò al sinonimo di Dio, alla natura.
Aspettò i comodi del passero, che bevesse, facesse toilette con trilli di goccioline, finché non lasciò libe ra la fontanella per andare a beccare delle mollichelle sui binari. “Grazie, signorino,” disse, e andò a passare il pettinino sullo spillo d’acqua. La coda dello sciame delle anime purganti già spariva in fondo al
marciapiede.
Guadagni Redentore si pettinò, si guardò la gamba, tastò il portafoglio e gl’incartamenti, e, stretto
nel suo glorioso doppiopetto sale e pepe che ne aveva visti di battesimi, cresime, matrimoni e funerali,
che lo faceva sentire nel pieno possesso del suo cognome e nome, s’avviò con passo sicuro, leggermente trocaico, verso l’uscita, puntando mentalmente verso la Coldiretti.
“Non dev’essere lontano, in mezz’ora ci arrivo.”
Aveva un’idea quasi precisa del Palazzo della Coldiretti, della distanza e del complicato sistema per
arrivarci.
“Esci dalla stazione, dall’uscita di sinistra, perché quella di destra porta da un’altra parte. Passati i cancelli, ti accorgi subito da solo che puoi andare dove ti pare, ma tu invece vai diritto, sotto il semaforo, e
appena scatta il verde attraversi la strada, svelto, perché il verde dura poco e, se viene il rosso prima che
sei di là, resti subito ammazzato dalle macchine (laggiù non fanno mica tanti complimenti!). Come sei di
là, ti trovi un fabbricato davanti, alto, lunghissimo, color sabbia, ecco quello lo lasci stare lì dove si trova
e vai a destra, cammini un cento metri, fai cento passi più o meno (non siamo mica lì per prendere le
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misure!), e giri a sinistra, dalla parte del Cinematografo aperto notte e giorno, dove danno della roba che
non ti dico, che non t’immagini, bellissime pellicole sudice che bisogmerebbe andarle a vedere di persona per crederci, prosegui giù senza pensarci, dopo un po’ trovi una piazza, grande, verde, piena di cani e
dei padroni dei cani che stanno lì a guardare i bisogni dei cani, ecco tu non li guardi, non ti fermi, vai
avanti, seguiti, passi il Palazzo delle Tasse e arrivi su un viale più largo dell’Arno, su un fiume di macchine che non finisce mai, ecco lì ti fermi, perché non sai dove andare, e chiedi a qualcuno, a uno che vedi,
dove sta il Palazzo della Coldiretti che è lì vicino, a due passi, se non è andato via. Se quello non lo sa
perché non è di lì, lo chiedi a un altro, a uno che sia di lì, che vedrai ti dice subito che il Palazzo della
Coldiretti sta dove è stato sempre, che è quello là, perché deve saperlo per forza dove sta sennò vuol
dire che quello non sa neppure dove sta di casa (e così siamo arrivati belli lisci come l’olio!),” gli aveva
spiegato il postino un giorno che Redentore Guadagni ritirando la posta della gamba, l’ennesima risposta negativa, aveva manifestato l’intenzione di volerla finire con quella storia, con quella gamba epistolare, di volerci andare di persona, con la gamba in mano, a ragionare con la Coldiretti. “È facilissimo,
puoi andarci a occhi chiusi!”
Lui c’era andato in veste di pubblico ufficiale, per conto delle Poste, per via di certi contributi la mentati dalla Coldiretti, che erano passati per le mani di certi impiegati postali che facevano meglio a re starsene a dormire a casa, c’era arrivato in un attimo, a occhi chiusi appunto, però non poteva garantire
per un altro e restava chiaro che se uno sbagliava strada, si perdeva, lui non c’entrava niente e declinava
ogni responsabilità civile e morale. La strada era quella e se uno non era preciso, andava da un’altra par te, non si andasse poi a cercare lui, che era stato chiarissimo, per dargli la colpa.
Ma chi gli aveva chiesto nulla, a quello!
Nel ripasso dell’itinerario del postino, l’uscita buona dalla stazione era quella di sinistra, ma Redentore Guadagni dominò a fatica la voglia di andare a destra. Se andò a sinistra lo fece soltanto per restare
in linea col suo intimo, ereditario indirizzo politico.
Ma che per andare per fatti propri, poi, uno dovesse andarci col postino in testa!
Ai cancelli lo bloccarono due bellissime ragazze in blu, mora e bionda, vestite come due gemelle.
Avevano occhi neri e celesti, labbra rosse, e mani bianche come il latte. La mora aveva in mano dei fogli
e una biro, mentre la bionda una scatoletta nera cromata, che poteva essere una radiolina spenta, o meglio guasta, dato che la manovrò un istante senza ricavarne più di un clic.
“Bongiorno, signore,” fece l’una, e l’altra: ”Ha fatto buon viaggio, signore?” E sulla sorpresa di Redentore Guadagni si sciolsero (per sciogliergli la voce?) due meravigliosi, luminosi sorrisi. Carne e miele.
Se gli avessero detto che loro erano lì da anni, in attesa di lui, ci avrebbe creduto da quanto sembrò
che aspettassero proprio lui da una vita.
“Noi siamo del Volontariato,” disse la mora dal sorriso di carne, “dello S.D.A.P.”
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“Siamo qui per il Sondaggio sui Disagi e le Aspirazioni dei Pendolari,” precisò la bionda dal sorriso di
miele, come se leggesse dentro ai suoi occhi d’acqua celeste. “Per raccogliere le lamentele e i desideri dei
viaggiatori.”
Protesero le targhette appuntate sul petto come fossero bigliettini da visita, un sensuale invito a leg gere da vicino, con i sensi degli occhi, quello che c’era sotto.
S.D.A.P., bello grande, in azzurro, c’era scritto in campo bianco plastificato sulle targhette, sopra a
quello che c’era sotto.
Per la prima volta in vita sua Redentore Guadagni sentì del debole per le sigle.
“Io non so niente, sono qui a Firenze per la gamba, per la Coldiretti,” disse accarezzandosi capelli e cravatta. “Io viaggio di rado, signorine, mi dispiace... (e il dispiacere sfumava nel nostalgico, interessava i
suoi trent’anni di troppo).”
“Meglio ancora, la sua impressione occasionale è preziosa,” fece la mora. “Il suo contributo arricchisce
lo S.D.A.P.”
Dalle parti di Redentore Guadagni la parola contributo voleva dire una cosa sola: cacciare soldi
quando non voleva dire versare sangue per la patria.
“Ma io già pago alla Coldiretti,” reagì Redentore Guadagni all’idea di nuovi contributi. “E sono in rego la coi versamenti!”
“Senz’altro, si vede benissimo, non si preoccupi,” lo rasserenò la mora con il luccichio dei suoi occhi,
del suo sorriso di carne. “Lo S.D.A.P. non chiede contributi, soldi, vuole sapere soltanto come si viag gia.”
“Ah,” fece Redentore Guadagni, “quand’è così.” E visto che non gli costava niente, che non veniva
chiamato a nuovi contributi (perché, diobono, non aveva nessuna intenzione di arricchire pure qualcun
altro, oltre la Coldiretti), rispose con baldanza. “Se non fosse per la gamba, per quello che mi fa passare
la Coldiretti, direi proprio che si viaggia più che bene, benissimo.”
“Sì, sì, va bene, lasciamo stare la Coldiretti,” intervenne irritata la bionda. “Ma lei, delle Ferrovie, cosa
ne pensa?”
Redentore Guadagni pensò quello che ne pensava e risultò subito che lui pensava alla Coldiretti e
basta.
“A me, le Ferrovie, non m’hanno fatto niente (la protesta di Pontassieve riguardava le anime purganti),
io ce l’ho con la Coldiretti.”
Dev’essere che la bionda, la Coldiretti, ce l’aveva sui nervi perché dalle mani, dalla scatoletta, le uscì
un altro sterile clic. E gli occhi celesti guardarono gli occhi neri.
“Allora, grazie,” disse la mora ritirando il suo sorriso di carne. “Abbiamo capito.”
“Auguri per la gamba,” disse la bionda che aveva smesso il suo sorriso di miele. “E per la Coldiretti!”
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S.D.A.P., improvvisamente S.D.A.P., come lo squillo dello spumante, della sua prigioniera luce d’oro, e uno apriva gli occhi, cambiava idea nei confronti delle sigle.
“Ecco come dovrebbe funzionare il mondo, cosa dovrebbe fare la Coldiretti, mandare fiori di ragazze a
interessarsi, a sentire, a vedere come sta la gamba, come viaggia,” ragionò Redentore Guadagni supe rando i cancelli e andando diritto, sul tracciato del postino. “Sì, proprio come fa lo S.D.A.P.” E si meravigliò della facilità con cui aveva pronunciato, seppure mentalmente, quella roba. “S.D.A.P.,” disse per
una verifica dal vivo, e lo ripeté per gustarne il suono che sapeva di spumante. “S.D.A.P.”
Arrivò sotto il semaforo del postino, che faceva rosso, e aspettò il verde. Siccome aveva ancora lo
S.D.A.P. nelle orecchie e il duplice sorriso lucente di carne e miele negli occhi, non sentì e non vide che
lì c’era qualcosa che non andava. Quando quello che non andava s’ingrossò, scoppiò, su Redentore
Guadagni già premeva una massa arrabbiata, incontrollata, peggio di quella della stazione di Pontassie ve.
“È uno schifo! Non funziona nulla! E si paga le tasse! Forza, avanti, o qui si fa buio!”
Il semaforo si era incantato sul rosso e la gente, che continuava ad ammassarsi, protestava, rimpiaz zava il verde che non arrivava col verde della rabbia, imprecava a piene mani contro il Comune, il Go verno, Firenze e il Cardinale di Firenze che non era fuori tema, una guarnizione che non c’entrasse un
tubo, ma che vestendo di rosso c’entrava eccome nella Divina Commedia del traffico. E l’idioma più
bello del mondo, infiorato di maiale fiorentine, di santi introvabili e satanassi dagli attributi celesti, illustrava l’assenza massiccia dei vigili urbani, aggiornava la Commedia di Dante scaricando politica e reli gione sull’inarrestabile flusso delle macchine.
“Vai, Governo sudicio! Vai, Roma santissima! Vai, Firenze bucaiola! Vai, Fiore!”
Le macchine, in forza del verde fisso, andavano giù sbattendosene degli altri colori, radendo i marciapiedi e le corna degli arditi pedoni in fase d’azzardo. Per rimuovere l’insensibilità del semaforo, per
ricondurlo all’alternanza, dagl’insulti si passò ai cazzotti. Ma quello non cambiò idea nemmeno quando
un intrepido marinaio di terra, un pedone in veste omerica, si arrampicò su per accecargli quel maledet to occhio rosso. E all’ulisside mancato furono tributati gli apprezzamenti del caso, ottimi e abbondanti,
da scialarci assieme alla sua donna.
“O chi l’ha inventato qui, questo trabiccolo?” fece una signora il cui eufemismo stentava addirittura a
designarne il sesso. “O non facevano meglio a piantarselo tra le mele?”
Sul finissimo spunto della signora fiorirono i paladini dell’ideale.
“Scudo crociato e acquasanta!” sentenziò storicamente uno, un sanguigno dalla cresposa fronte, a commento degli ultimi quarant’anni. “Ed eccoli, i risultati!”
A quello, che era più rosso dentro che fuori, rispose un segaligno dalle teschiose tempie.
“O di che ci si rammarica, adesso? O non si era tutti per il rosso fisso?”
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Se si fossero presentati con i documenti ideologici in mano, non si sarebbero riconosciuti meglio,
quei due sorpassati antiestetici. E intanto che l’uno si beccava del rosso marcio e l’altro del nero sudicio,
brillò il colore di moda.
“Belli davvero, questi colori!” disse uno dal sofferto profilo ecologico, un verde di sicuro. “Bel dipinto
storico!”
E su tutti spiccò uno che non era di nessun colore, che era del colore dei coriandoli suoi, che illu strò il suo pensiero nei termini del comune senso dell’arte invitando rossi e neri (compresa la signora
molto fine) ad andare a farselo stroncare tra le mele e spedendo i verdi a ripulire i greti d’Arno, e che ricapitolò il quadro ai piedi del semaforo con pittoresche e sostanziose sfumature prima di firmarlo con
un sacrilego ghirigoro.
Coi discorsi, però, lì si faceva buio e non restava che il ricorso all’azione disperata, all’utilizzo di santi protettori e di benigne stelle diurne. Così la gente andava alla sorte, si buttava col rosso rischiando
grosso per arrivare puntuale dove magari per non arrivarci per niente avrebbe dato la vita, al lavoro. Per
sfuggire alla falciatura delle macchine, al feroce ghigno degli automobilisti in preda all’eccitante sopruso
del verde fisso, ognuno scendeva in campo con la propria tattica che andava dalla simulata indifferenza
al balzo felino, dal segno della croce alla bestemmia, dall’apnea all’urlo di guerra.
E stava lì Redentore Guadagni a studiare l’attimo propizio per un tentativo di qualche speranza, a
mettere a punto una mossa di slancio compatibile con la gamba, quando due giovanotti, due cristoni in
maglietta verde che lo puntavano da qualche tempo con smaccato interesse, gli si lanciarono addosso al
grido di: “Venga! Venga!”
La violenza della sorpresa fu tale che a Redentore Guadagni gli si staccò la terra dalle piante dei pie di, e dal ragionamento delle sue grandi mani non uscì che un abbozzo di resistenza verbale: “Ma che
fate? Chi vi autorizza?”
Lo presero di peso, sotto le ascelle, e senza fargli toccar terra lo pilotarono dall’altra parte scartando
le macchine e ributtando indietro i temerari pedoni che andavano alla sorte in senso contrario.
Cosa stava succedendo? Chi erano quei due? Come si permettevano? E in balia dell’alato tragitto
Redentore Guadagni, col ronzio dell’ira nella mente, rivide quel nugolo di calabroni fiorito su dalla punta dell’aratro, sulle stoppie rimosse, in quel giorno di luglio che il caldo tremolava nell’aria. Rivisse il delirio della febbre che gli fece credere che fossero due angeli, che lo portavano in volo sul campo di
stoppie, sui cerulei solchi del cielo dove le zolle erano onde, nel fresco della tintinnante acqua perenne, i
due infermieri della Misericordia. “Dovettero rincorrerlo sull’aia prima di riuscire a cacciarlo nell’ambulanza,” raccontò poi la moglie. “Si arrampicava nell’aria come un gatto.” Ma lì Redentore Guadagni non
era in preda al delirio del calabrone e non poteva credere che due angeli lo portassero in volo verso il
Palazzo della Coldiretti. Credette invece, e pure subito, che lì si stava consumando una bella prepoten 26
za, come quella della puntura da cavallo che gli fecero per pareggiare quelle dei calabroni, si stava aggre dendo il prossimo in nome di chissà quale Soccorso, quale Volontariato, quale Opera Pia, e che quei
due giovanotti non fossero altro che quello che erano: due impiccioni, due benemeriti degli affari altrui.
“Chi v’ha chiamati?” protestò Redentore Guadagni atterrando sul marciapiede opposto, riaggiustandosi
giacca e cravatta. “Chi siete?”
Quei due caronti sorrisero felici sbattendogli sul muso le targhe di stoffa cucite sul verde delle magliette.
“Oh, bella!” fece l’uno. “Chi siamo?” E l’altro: “Ma siamo del G.A.S.A.S.P., non lo vede?”
Stampato bello grosso, in rosso, G.A.S.A.S.P., era quello che erano quei due impiccioni, Gruppo di
Assistenza Spontanea all’Attraversamento delle Strisce Pedonali.
Ma come, c’era ancora qualcuno in giro che si domandava chi era il G.A.S.A.S.P.? che non l’aveva
mai visto? che circolava ignorandone l’esistenza? Ma se il G.A.S.A.S.P. era presente su tutte le zebre di
Firenze! Se perfino i giornali se n’erano di recente interessati esaltando l’impegno sociale del Gruppo,
l’efficacia delle sue agili, bicefale unità operative che tutti ormai chiamavano Angeli delle Zebre e più affettuosamente “AZ”. Bisognava proprio essere nati e vissuti in Fontisterni!
In presenza di un assistito a scarsa sensibilità come quello, che non inclinava alla riconoscenza, che
ritardava a illuminarsi, a stravedere per la sigla, quei due impiccioni si ritennero obbligati a sottoporre la
sigla a un supplemento di luce.
Il G.A.S.A.S.P., per chi non lo sapesse, si alimentava di luce, ci nuotava addirittura dentro. Sorto per
illuminazione spontanea, cresceva e si fortificava alla luce del V.I.S.O.I., Volontariato per l’Individua zione e il Superamento degli Ostacoli Insormontabili, che a sua volta traeva luce dall’O.S.S.I., l’Osservatorio per la Segnalazione degli Steccati Intellettuali che impegnava le più illuminate teste in permanenti
colazioni di lavoro. Ma c’era di più. Dal G.A.S.A.S.P. stava per venire alla luce - il parto era previsto per
via ascellare, per promanazione alare - il C.A.S., Complemento di Assistenza Spirituale, destinato all’affiancamento del G.A.S.A.S.P., alla raccolta delle anime dei travolti da morte sulle zebre. E già dalle uni tà volanti, dalle ali degli “AZ”, si staccavano le piume per andare a impiumare l’alare creatura del
G.A.S.A.S.P., dei benemeriti cazzi altrui, il C.A.S. (che ne fossero padri proprio quegl’impiccioni, quei
due tangheri?), perché si materializzasse quanto prima sulle insanguinate zebre di Firenze. E al mondo
ancora c’era gente che viveva serena e tranquilla senza sapere chi era il G.A.S.A.S.P., che aveva il corag gio di andare bellamente in giro all’oscuro di tanta sigla. Vergogna!
“Bravi, bravi,” fece Redentore Guadagni a denti stretti prima che la luce del G.A.S.A.S.P. degenerasse
in tenebre, gli oscurasse la luce del giorno, che già le crepe dell’ira gli scricchiolavano negli occhi, nelle
mani. “Basta così!”
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Ma possibile che uno per andare a farsi gli affari suoi, a portare una gamba alla Coldiretti, doveva
essere aiutato e sensibilizzato a quella maniera: prima agguantato di forza e poi sollecitato alla gratitudine? I due benemeriti dopo il servizio, il sopruso, forzavano sfacciatamente per i ringraziamenti. Se restava lì un altro secondo: o s’illuminava nel buio dell’ira o abbracciava la luce della sigla.
Andandosene sentì la soddisfazione dei due caronti tradursi in viatico, in salvifiche premure pedonali.
“Eviti gli attraversamenti azzardati, con quella gamba. Si tenga sempre dentro le zebre e occhio alle
macchine, non si faccia metter sotto!”
Si tastò i testicoli e pensò che nel mondo stavano aumentando paurosamente le persone che trova vano più gratificante (veramente pensò: più riempitivo) farsi i cazzi altrui che quelli propri.
Con il G.A.S.A.S.P. nella testa, Redentore Guadagni, giunto al Largo Alinari, trascurò la mappa del
postino, la svolta a sinistra che prevedeva il transito davanti al Cinematografo delle bellissime pellicole
sudice, e andò su diritto, verso il Centro del Fiore.
(continua)
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Terzo capitolo