Stagione presenta 2008 2009 l’altro inema C via Roma 3/B S. Giov. Lupatoto (VR) tel/fax 045 925 08 25 www.cinemateatroastra.it cineforum Anno XVII I FILM VISTI: 1 Il cacciatore di aquiloni • 2 Sanguepazzo • 3 Amore, bugie e calcetto • 4 Pa-ra-da • 5 Un amore senza tempo • 6 Pranzo di ferragosto • 7 Il papà di Giovanna • 8 Mamma mia! • 9 Miracolo a Sant’Anna • 10 Giù al nord • 11 Changeling • 12 The burning plain • 13 Si può fare • 14 Nessuna verità • 15 Machan • 16 The Millionaire • 17 Solo un padre • 18 Il bambino con il pigiama a righe • 19 Australia • 20 Come dio comanda • 21 Revolutionary road Marzo 2009 lun 30 ore 20.45 mar 31 ore 21.00 Aprile 2009 merc 1 ore 21.15 Regia Jan Sverak ~ Interpreti Zdenek Sverak, Tatiana Vilhelmová, Daniela Kolarova, Alena Vránová, Jirí Machacek, Miroslav Táborský, Martin Pechlát, Nella Boudová, Jan Budar, Pavel Landovský, Filip Renc, Jirí Schmitzer, Ladislav Smoljak, Vera Tichánková, Ondrej Vetchy, Jan Vlasák ~ Anno Repubblica ceca, Gran Bretagna, 2007 ~ Genere Commedia ~ Durata 100’ Vuoti a rendere S ono la coppia meno edipica del cinema mondiale. Eppure sono padre e figlio. Zdenek scrive e interpreta. Jan dirige. Attenzione: il regista è il figlio, di solito accade il contrario. E questo già dice la tenera eccentricità di Vuoti a rendere, terzo capitolo di una trilogia resa celebre da Kolya (Oscar '96). L'ambientazione è particolare (la Praga neocapitalista di oggi). Il tema universale: la vecchiaia. Meglio: l'invecchiare insieme. Joseph infatti ha una moglie ma cerca, come dire?, di non pensarci troppo. Spiritoso e vitale com'è, farebbe di tutto per non annoiarsi. Dunque cambia lavoro più volte (insegnante, pony express, magazziniere...). Sogna a occhi aperti. Si concede complicate fantasie erotiche (se sono solo fantasie). Insomma partecipa divertito allo spettacolo del mondo cercando di non essere mai troppo vicino né troppo lontano. Nel frattempo accasa un coetaneo bisbetico, "piazza" la figlia abbandonata a un collega ignaro, scopre di poter provare, oltre che ispirare, gelosia. Il tutto raccontato con un tocco lieve e scanzonato come lo sbuffo d'aria calda che porta in alto la mongolfiera nel gran finale. Troppo in alto o troppo in basso? Troppo pericoloso o non abbastanza? Poco importa in fondo. L'essenziale è continuare a volare. Fabio Ferzetti (Il Messaggero) V uoti a rendere è molto più di un film. Il pur divertente e acuto film ceco, campione d'incassi, ha una storia dietro più bella e affascinante di quella che porta dentro. Se apparentemente è l'abile conclusione della trilogia della famiglia Sverak - i De Sica della Repubblica Ceca, Jan, il figlio regista e Zdenek, il padre sceneggiatore e attore - la realizzazione di quest'opera annunciata e molto attesa ha rappresentato uno dei più affascinanti viaggi nel mondo del cinema. Sverak raccontò l'infanzia nel delizioso Scuola elementare e si rivolse all'età adulta per il premio Oscar 1996 per il miglior film straniero Kolya. Doveva e voleva arrivare alla terza età, concludere la vita di un uomo che aveva visto crescere nel suo cinema. Ed era suo padre la vittima designata, anche come attore. Sicuri del progetto, decisero di dedicargli un documentario, Tatinek (papà). Voleva essere celebrativo, divenne uno psico-cinedramma, con uno scontro familiare e creativo tra le due generazioni. Nel 2004, questo Lost in la Mancha dell'est si concluse con una separazione, anche fisica, tra il cast 22 e papà Zdenek. Che però avendo grinta e tigna da vendere, in un anno ha riscritto il film. Il risultato è un passo indietro, ma diverte e intrattiene, con una leggerezza sentimentale che sceglie strade dirette e semplici per raccontare una terza età un po' troppo rassicurante. Nulla a che vedere con Pranzo di ferragosto, che pur gli si avvicina nello stile e nello spirito, e neanche con l'hard Wolke 9 , che l'amore ai tempi degli 80 lo racconta tra le pieghe di un letto caldo e sensuale. Qui siamo in Anziani: gioie e dolori della terza età. una casa piccolo borghese, due insegnanti in pensione e lui c'è andato da poco. Si ritrovano e riscoprono un amore stanco, tra le preoccupazioni di lei (Daniela Kolarova, bravissima) per la figlia bigotta (Tatiana Vilhelmova) e le fantasie ero(t)iche di lui, esilaranti e goffe, sempre ambientate in treni con controllore discinte. Se il ménage affaticato e il marito farfallone e stakanovista sembra banalotto, il carisma di Zdenek Sverak e i suoi commenti sul mondo e sui familiari sono le cose migliori, le più intelligenti, trovando la sua realizzazione proprio nello sportello dei vuoti a rendere di un supermercato. Ben girato e scritto, si sta bene in sala senza sentirsi troppo scorretti. Si può fare. Boris Sollazzo - Liberazione) S offerto ma spiritoso finale della trilogia (vedi Kolya) di Jan Sverak che scrittura papà Zdeneck, qui un professore cèco che deve decidere cosa farà da vecchio. Fra problemi concreti (fare il pony in moto!) ed esistenziali (sogni erotici alla Fellini) alla fine lavorerà in un supermercato diventando l' ago della bilancia degli affetti del gruppo, mentre la moglie ha un tentativo sentimentale a vuoto. La terza età funziona al cinema e se qui non c'è un pranzo di Ferragosto, il tono del racconto è di esemplare, acida misura, non sbanda nella retorica né nel pietismo, inquadra bene i passaggi e i paesaggi interiori del prof. che alla fine festeggia 40 anni di matrimonio con un viaggio pure simbolico in mongolfiera, come il nonnino di Giulietta degli spiriti. Cast ottimo e vario, la sceneggiatura garantisce attenzione per tutta una serie di indovinati, buffi caratteri femminili. Maurizio Porro - Il Corriere della Sera) Aprile 2009 lun 6 ore 20.45 mar 7 ore 21.00 merc 8 ore 21.15 Regia Gus Van Sant ~ Interpreti Sean Penn, Emile Hirsch, Josh Brolin, Diego Luna, James Franco, Alison Pill, Victor Garber, Denis O'Hare, Joseph Cross, Stephen Spinella, Lucas Grabeel, Brandon Boyce, Zvi Howard Rosenman, Kelvin Yu, Jeff Koons, Ted Jan Roberts, Robert Boyd Holbrook. Anno USA, 2008 ~ Genere Biografico ~ Durata 128’ ~ Vincitore Oscar 2009 Miglior attore Sean Penn Miglior sceneggiatura 23 Milk T ra i migliori registi in attività oggi, Gus Van Sant alterna film decisamente indipendenti con produzioni mainstream, più tradizionali e interpretate da star. Quel che è certo, è che non fa mai cose banali. Come in questo Milk, biografia dell’attivista gay “nominata” all’Oscar (e prima ai Golden Globes), sia come miglior film sia per l’interpretazione (davvero notevole) di Sean Penn. Compiuti da poco i quarant’anni, Harvey Milk si trasferisce con il compagno Scott nel quartiere popolare di Castro, San Francisco, che sta diventando porto franco per gli omosessuali, all’epoca apertamente perseguitati, picchiati, additati al pubblico disprezzo come pericolosi pervertiti. Gradualmente, si scopre una tempra di combattente e un forte istinto politico, un carisma di eroe per caso che lo obbliga a farsi paladino dei diritti della comunità gay. Bocciato più volte alle elezioni non si tira indietro, ma ritenta fin quando, nel 1977, è eletto nel “board of supervisors” (i consiglieri comunali) di Frisco, amministrata dal sindaco George Moscone. Da lì, promuove una battaglia civile per difendere i cittadini dai licenziamenti per orientamento sessuale; inoltre, deve parare i colpi dell’integralismo religioso rappresentato da Anita Bryant (una specie di Sarah Palin dell’epoca) e battersi contro un referendum statale che mira a cacciare dalle scuole gli insegnanti gay e chi li sostiene. Abile oratore, Milk affronta bene i dibattiti televisivi; ma soprattutto sa mobilitare le piazze, con l’aiuto di un gruppo di giovani militanti che ha convinto a sposare la causa. (...) Nei casi di biopic basati su vicende reali, è uso compiacersi se il regista non fa il santino del protagonista. In Milk, però, c’è parecchio di più. Van Sant immerge lo spettatore in un perfetto contesto d’epoca, mischiando la pellicola nuova (trattata con colori anni 70, alla “Woodstock”) a riprese di repertorio, con l’aggiunta di idee originali: come lo split-screen, il mosaico visivo che suddivide lo schermo in tanti piccoli schermi, a restituire il corrispondente visivo del “passaparola”. Altro merito, quello di non enfatizzare o additare troppo gli elementi già “forti” del film: come la trasformazione della politica in spettacolo, per la quale gli anni 70 furono decisivi, o una sorta di fatalismo drammatico implicito negli eventi (...). Saggiamente, il regista sceglie la via del dramma a freddo, mentre delega l’implicita essenza melodrammatica alle note di “Tosca”, opera molto amata dal- l’attivista. Quanto a Penn (ma ai Globes gli è stato preferito Rourke), si cala nel personaggio con l’intensità dolente degli adepti del “metodo” Actor’s Studio, tirando fuori la parte femminile che è in lui, come in ciascun uomo. Lo contrasta bene Josh Brolin, che abbiamo appena visto nella pelle di George W. Bush. Roberto Nepoti - La Repubblica S ean Penn, che ha adesso 48 anni, diventa sempre più bravo, coraggioso e maturo, come attore e regista, come persona: davvero per questo Milk di Gus Van Sant dovrebbero premiare con l’Oscar una sua interpretazione eccellente. Milk è Harvey Milk, primo gay americano ad avere un incarico pubblico notevole a San Francisco e popolarissimo attivista del movimento per i diritti degli omosessuali (...). Il film segue gli ultimi otto anni della sua vita, da quando, trasferitosi da New York a San Francisco (uno dei pochi luoghi in cui negli Anni Settanta i gay potevano vivere con relativa libertà), aprì nel quartiere Castro un piccolo negozio di fotografia, divenuto presto un centro di aggregazione e organizzazione per il movimento gay. Per quattro volte, tenacemente, si presentò alle elezioni amministrative. La quarta volta venne eletto consigliere comunale. L’orgoglio omosex dell'attivista Sean Penn: una storia che evita la trappola della retorica. Continuò sino alla morte a battersi per i diritti dei gay, contro la Proposition 6 che intendeva espellere i gay dalla scuola pubblica e da ogni ufficio statale, dando appoggio all’adozione della Rainbow Flag, la bandiera arcobaleno, come simbolo della LGBT (l'associazione di lesbiche, gay, bisessuali, transgender) (...). Nel 1985 il documentario The Times of Harvey Milk di Rob Epstein vinse l’Oscar. Milk è un film bello, importante, appassionante: e non soltanto perché è uno dei pochi in cui i gay non vengano rappresentati come vittime tragico-sentimentali o come personaggi comico-grotteschi. Il regista Gus Van Sant sa stabilire un equilibrio tra vita pubblica e privata, tra militanti e amanti; sa evocare il movimento gay americano dei Settanta non soltanto con esattezza storica, ma con assoluta mancanza di manierismi; sa presentare le battaglie gay contro il pregiudizio come lotte sindacali e insieme come avventure umane, non ancora concluse. E Sean Penn, spiritoso, leggero, amoroso, senza alcuna retorica, ricco di ardire, recita un personaggio bellissimo. Da non perdere. Lietta Tornabuoni - La Stampa Aprile 2009 lun 13 ore 20.45 mar 14 ore 21.00 merc 15 ore 21.15 Il curioso caso di Benjamin Button U Regia David Fincher ~ Interpreti Brad Pitt, Cate Blanchett, Tilda Swinton, Julia Ormond, Jason Flemyng, Taraji P. Henson, Lance E. Nichols, Elias Koteas, Faune A. Chambers, Donna DuPlantier, Jacob Tolano, Ed Metzger, David Jensen, Joeanna Sayler, Mahershalalhashbaz Ali, Fiona Hale, Jared Harris, Joel Bissonnette ~ Anno USA, 2008 ~ Genere Drammatico ~ Durata 159’ ~ Vincitore Oscar 2009 Miglior scenografia Miglior trucco Migliori effetti speciali n lungo flashback, che parte dal presente di un letto d'ospedale dove una madre lascia che la figlia legga il diario della sua vita. Si aprono le pagine e si torna indietro nel tempo, all'epoca in cui (fine della Prima guerra mondiale) un uomo inventò un orologio che camminava all'indietro nella speranza di veder tornare dalla guerra suo figlio morto sul campo. E' lo stesso giorno in cui un neonato affetto da sindrome di Hutchinson-Gilford (nato vecchio) viene abbandonato sulle scale di un pensionato. E' l'inizio del Curioso caso di Benjamin Button film di David Fincher ( Seven , Fight Club , The Game ) tratto da un breve racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922. A trasformarlo in una pellicola di tre ore e con 13 candidature all'Oscar è stati una squadra di sceneggiatori infinita (da Robin Swicord a Charlie Kaufman, fino a Eric Roth. Si sono passati la palla ad ogni cambio di regista) e il risultato ha un suo fascino. Perché alla fine veniamo non solo a conoscenza della vita al contrario di Benjamin (un Brad Pitt incartapecorito dal trucco per due terzi del film), del suo incontro folgorante con l'amore (che li incontra lei bambina, lui ancora anziano), del magico momento in cui l'età anagrafica dei due si sfiora e poi del punto di svolta, discesa senza freni verso l'adolescenza fino all'infanzia portatrice di morte. Di tutto questo, Fincher fa soprattutto un film sul "tempo", fatto di vènto e di ore, di stagioni e di rughe, di pagliette e guerre, le cui folate ci attraversano incuranti dei nostri liberi arbitri. (...) Il soffio del tempo si sente e lascia un'emozione struggente. Roberta Ronconi - Liberazione G razie al ruolo di Benjamin Button, nato ottantenne e morto bambino, l'attore è il candidato favorito per la statuetta. Qui il regista del film (con altre dodici nomination) parla di come ha scelto questa storia e il suo protagonista: «Oltre che bello è molto bravo. Ma è meglio che non si sappia in giro» Potrebbe la nostra vita essere migliore se invece di dover invecchiare potes simo ringiovanire? George Bernard Shaw disse che la giovinezza è sprecata nei giovani e Mark Twain lamentò che il meglio della vita è all'inizio e tutto il peggio alla fine: quanto preferibile sarebbe godere della giovinezza con l'esperienza di chi ha già vissuto, di chi sa apprezzarla... Da questa malinconica fantasia nasce Il curioso caso di Benjamin Button, storia di un uomo che vive la propria vita al contrario: nato come un piccolo ottuagenario rugoso, affetto dagli acciacchi tipici dell'età avanzata, con il trascorrere degli anni recupera energia, prestanza e vi- 24 rilità. Per poi lentamente scivolare verso l'infanzia e alla fine spegnersi per non essere ancora nato. È il settimo film di David Fincher, regista di Fight Club e Zodiac, tratto da un breve racconto che Francis Scott Fitzgerald scrisse nel 1921, incuriosito dalle parole di Twain. Ed è un film bellissimo, premiato dal botteghino americano e dall'Academy, che gli ha assegnato tredici Il tempo protagonista delle nostre emozioni. candidature all'Oscar. Raccontata in flashback da una vecchia in punto di morte alla figlia in un ospedale di New Orleans, mentre l'uragano Katrina, fra scrosci di pioggia violentissima, sta per abbattersi su di loro, la storia di Benjamin, che la donna ha amato, diviene la metafora dell'inadeguatezza di ognuno di fronte alla vita e l'amore, la transitorietà dei rapporti e dei momenti che riusciamo a spartire con gli altri. Benjamin (Brad Pitt) è, almeno in apparenza, un vecchio quando incontra la prima volta Daisy bambina (che da adulta è interpretata da Cate Blanchett). Le vite dei due si sfioreranno per anni, finché in apparenza le loro età saranno compatibili. Due esseri che hanno già sperimentato i sentimenti e il dolore ora sono capaci di scegliere di amarsi, finché le correnti opposte che guidano il trascorrere dei loro anni li separeranno nuovamente. In definitiva, per gran parte della nostra vita, siamo «troppo giovani o troppo vecchi», come cantava Bette Davis degli uomini che la guerra non aveva chiamato a combattere. Fincher era interessato al progetto dal '92 e l'idea di portare sullo schermo questo «curioso caso», che nelle poche pagine del racconto includeva la Guerra di secessione, affascinava Hollywood dagli anni Sessanta. Solo che era troppo difficile, troppo costoso. Tanto che persino Steven Spielberg rinunciò. Poi, sei anni fa, Eric Roth, sceneggiatore di Forrest Gump, scrisse un adattamento che partiva dalla Prima guerra mondiale e che dell'originale conservava solo l'idea di partenza. «Ed era finalmente possibile girarlo» racconta Fincher «perché con la tecnologia digitale si poteva fare ormai quasi tutto. Siamo stati costretti a sperimentare, a volte sbagliando, durante un periodo di preparazione che sembrava non dover mai finire, ma possiamo essere fieri del risultato». Mentre la Blanchett è progressivamente invecchiata dal trucco, Pitt, con un magnifico esercizio di sovrimpressioni, dà tracce del suo volto al neonato vecchio dell'inizio e attraversa ogni fase della sua vita per cedere il posto a un bambino solo nel finale. «Se avessimo avuto ancora più soldi, saremmo riuscito a fargli interpretare anche quello. Ma spendere di più sarebbe stato irragionevole» ammette il regista. Claudio Masenza - Ciak Aprile 2009 lun 20 ore 20.45 mar 21 ore 21.00 merc 22 ore 21.15 Regia Bryan Singer ~ Interpreti Tom Cruise, Kenneth Branagh, Bill Nighy, Tom Wilkinson, Carice van Houten, Thomas Kretschmann, Terence Stamp, Eddie Izzard, Jamie Parker, Christian Berkel, Tom Hollander, Julian Morris, Kenneth Cranham, Kevin McNally, Harvey Friedman, David Schofield, Andy Gatjen, Halina Reijn, Werner Daehn, David Bamber, Matthias Schweighöfer. ~ Anno USA, Germania, 2008 ~ Genere Thriller ~ Durata 120’ Operazione Valchiria 25 A volte la mente fa strani scherzi. A proposito di un film che si presenta seriamente, parlo di Operazione Valchiria, mi riaffiora a sorpresa un ricordo buffo. Molti anni fa, a un festival di Locarno, un tipo estroso che fra amici chiamavamo la Madre Badessa, volle trascinarci al vicino cimitero di Minusio per visitare la tomba di Stefan George (1868-1933). Trovammo la lapide del poeta ingombra di fogliame e rifiuti, tanto che la nostra guida pretese dal custode una ramazza e montò in piedi sull’avello per spazzarlo. Ci raccontò, dall’alto dell’insolita tribuna, che George si era ritirato in quel tranquillo angolo del Ticino per prendere le distanze dalle convulsioni politiche della Germania. Ma quando morì la corona inviata ai suoi funerali dal ministro Goebbels non fu ritirata, rimase a marcire nel deposito della stazione. Fu una decisione degli adepti di «un circolo molto esclusivo» di cui facevano parte i fratelli von Stauffenberg, antica nobiltà, incluso il sottotenente conte Claus. Proprio il militare che una decina d’anni più tardi, avendo subìto nel ’43 in Tunisia la perdita dell’occhio sinistro, della mano destra e di due dita dell’altra, ed essendo pervenuto al grado di colonnello dello stato maggiore, avrebbe attentato alla vita di Hitler. Sul personaggio vale la pena di leggere un puntuale libretto di Peter Steinbach edito da Bruno Mondadori: «Testimone nel fuoco». Lo animarono idealismo, patriottismo e senso del dovere: lo stesso amalgama che motiva la poesia di George, indiscusso maestro dei patrioti «diversi». Scoppiata la guerra, Stauffenberg si mostrò leale con i nemici e corretto verso la popolazione civile, mettendosi così in contrasto con gli alti comandi adusi a comportamenti ben peggiori. Ne derivò un’opposizione sempre più articolata. Fu così che Stauffenberg si trasformò in un aspirante chirurgo della storia: come Bruto, Bresci e gli altri che nei secoli hanno tentato di modificare a mano armata i destini della patria. Sotto tale profilo, fallita la vasta congiura che riuscendo avrebbe risparmiato al mondo ulteriori milioni di vittime, Claus fu atrocemente denigrato. Perfino il New York Times, nel dare la notizia, lo chiamò «the assassin»: bella gratitudine da parte americana, non c’è che dire. E gli alleati non mossero un dito per aiutare gli antinazisti: «Sono fatti loro», dissero all’epoca. A lavare l’onta arriva Tom Cruise, che in Operazione Valchiria, da ispirato europeo di complemento, illustra il tormentato itinerario spirituale dell’eroe. Sull’argomento c’era già stato, con parecchi altri, un film di Pabst non molto riuscito, Accadde il 20 luglio (1955). Sarà che l’inglese è una lingua abbastanza vicina al tedesco, ma qui gli attori anglosassoni (Kenneth Branagh, Terence Stamp, Tom Wilkinson e compagni) parlano e si comportano come veri ufficiali della Wehrmacht. Notevole anche David Bomber, grigio e viscido nella raffigurazione del Fuehrer annidato nella Tana del Lupo. Da accreditare al controllo rigoroso del regista Bryan Singer la perfetta ricostruzione ambienta- le, gli impeccabili costumi, la suggestiva fotografia; ma soprattutto il coraggio di non concedere niente al romanzesco. Perfino al tenero rapporto di Claus con la moglie si accenna soltanto e con insolita sobrietà. Chi al cinema cerca solo lo spettacolo ne esce magari annoiato, ma chi sa approfittare dell’occasione impara cose importanti. Assume evidenza un contesto dal quale, giocando il caso la sua parte imprevedibile, si desume il disordine, l’incertezza e il generale intontimento di un’epoca. Il miserabile e sanguinoso balletto che segue Il giorno in cui Hitler sarebbe dovuto morire. la falsa notizia della morte di Hitler, diffusa e poi smentita, è qualcosa che non si era mai percepita con tanta chiarezza. E anche se il film non lo dice, il grido finale di Stauffenberg («Lunga vita alla santa Germania!») nacque proprio a Minusio fra i catecumeni di Stefan George. Tullio Kezich - Il Corriere della Sera B attaglia di dimensioni epiche: da una parte Tom Cruise, ex re delle stelle di Hollywood e dall’altra un personaggio storico come Adolf Hitler. Ecco il complotto organizzato da uomini che il 20 luglio del 1944 osarono sfidare il male. La mattina del 20 luglio 1944 il colonello Claus von Stauffenberg (lo interpreta Tom Cruise), arrivò al quartier generale di Adolf Hitler in Prussia per partecipare ad una riunione; l’uomo portava con sé una valigetta esplosiva. Entrato nella sala, alla presenza del führer, Stauffenberg attivò il timer, impostandolo a sei minuti. Senza farsi notare uscì dalla stanza: quando si trovò a 200 metri di distanza vide l’esplosione. Sfortunatamente qualcuno all’ultimo minuto aveva involontariamente spostato la valigetta. Questo spostamento e il resistente materiale del tavolo salvarono la vita a Hitler che ne uscì incolume nonostante i diversi morti provocati dallo scoppio. Stauffenberg rientrò a Berlino, pensando di essere riuscito nell’attentato (...). Questo fu il triste esito dell’operazione Valchiria, ovvero il tentativo di uccisione di Adolf Hitler e rovesciamento del terzo Reich da parte di alcuni uomini ancora puri all’interno delle S.S. Diretto da Bryan Singer e sceneggiato dal premio Oscar Christopher McQuarrie (lo stesso duo de I soliti sospetti), il film è il primo grande progetto internazionale di Tom Cruise come produttore con la sua nuova United Artists. La star americana fa grande gioco di squadra, circondandosi dei migliori attori del cinema europeo. Un cast all british che comprende Terence Stamp, Bill Nighy e Kenneth Branagh. Singer sottolinea l’importanza che questa storia venga raccontata anche oltre i confini tedeschi: “È la prova che non tutti supportavano Hitler e che c’era anche una resistenza militare. Uomini che hanno avuto il coraggio di reagire e dire no. Più approfondivo le mie ricerche storiche, più mi rendevo conto che era una storia memorabile”. www.primissima.it Aprile 2009 lun 27 ore 20.45 mar 28 ore 21.00 merc 29 ore 21.15 Regia Giovanni Veronesi ~ Interpreti Carlo Verdone, Sergio Castellitto, Riccardo Scamarcio, Ksenia Rappoport, Dario Bandiera, Remo Girone, Makram Khoury, Valeria Solarino, Elena Presti, Ottaviano Blitch Anno Italia, 2009 ~ Genere Commedia ~ Durata 116’ 26 Italians B eppe Severgnïni è il giornalista del Corriere che da anni tiene una rubrica di dialogo con i lettori. Giovanni Veronesi è il regista che ne ha preso in prestito il titolo per un film sui vizi dei nostri connazionali. Ecco il loro faccia a faccia. Beppe Severgnini «Italians? Bel titolo». Giovanni Veronesi «Grazie. Cioè, volevo dire: grazie a te e al Corriere della Sera per avercelo prestato». (...) BSEV «Puoi spiegare, brevemente, la trama dei due episodi di Italians, il film?». GVE «Il primo episodio racconta di un carico di Ferrati rubate che viene trasportato in camion dall'Italia agli Emirati Arabi. I due camionisti - Castellitto e Scamarcio - usano il viaggio per avviare un rapporto d'amicizia e di iniziazione tra vecchia e nuova generazione. Sono due tipologie di italiani che viaggiano. Uno, Castellitto, è più arrogante e sbruffone; l'altro, Scamarcio, è invece più logico e idealista. Nel secondo episodio si racconta la storia di un dentista molto borghese - Verdone - che si trova coinvolto in una vicenda assurda, in una San Pietroburgo popolata da nuovi ricchi e mafiosi». BSEV «A chi è venuto in mente di raccontare le avventure degli italiani all'estero? A te, al produttore Aurelio De Laurentiis? A qualcun altro?». GVE «I: idea di fare un film sugli italiani all'estero è di De Laurentiis. Solo che lui voleva lavorare sui connazionali di successo, io invece ho pensato che mi stavano più simpatici personaggi normali o perlomeno credibili, riconoscibili. Unendo gli sforzi abbiamo tirato fuori, anche grazie agli sceneggiatori Chiti e Agnello, due storie molto rappresentative dell'italianità. O almeno così mi sembra». BSEV «Ho rivisto, sere fa, Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) di Luigi Zampa, con Alberto Sordi e Claudia Cardinale. Un capolavoro, nel suo genere, anche per la fedeltà dell'ambientazione (merito dello sceneggiatore Rodolfo Sonego, immagino, e dei suoi sopralluoghi). C'è qualche classico cinematografico dell'emigrazione che vi ha ispirato?». GVE «Penso che esista tutta una serie di film sullo stesso tema, e che alcuni siano veramente belli. Per esempio Pane e cioccolata e Il Gaucho sono davvero particolari. Anche Bello, onesto... è un ottimo film sugli italiani all'estero, certo. Però, se dovessi scegliere, direi Pane e cioccolata». (...) BSEV «Com'è stato girare un film in Russia? Complicato, come quasi tutto il resto?». GVE «Molto complicato. Non voglio parlare male dei russi, però sono diventati un popolo, diciamo, strano». BSEV «E in Medio Oriente? Com'è stato girare laggiù?». GVE «Posso dire che gli Emirati sono un Paese veramente particolare. Sembra di stare in un luna-park per adulti, un luogo in perenne mutamento, una specie di frontiera dove tutti gli affari sono leciti. È un luogo per avventurieri e businessmen, sono tutti avvocati e industriali, manager e finanzieri. Insomma di artistico c'è ben poco». BSEV «Ho sempre pensato che, una volta all'estero, noi italiani diventiamo più italiani. Italiani alla seconda potenza, diciamo. Più generosi, più intuitivi, più reattivi; ma anche più superficiali, più furbi, più inaffidabili. Sei d'ac- cordo? I personaggi di Italians, da quanto ho potuto vedere, lo confermano». GVE «È vero: gli italiani all'estero diventano molto più italiani. Siamo l'unico popolo che si porta sempre dietro una gran dose di "nazionalità" Siamo più romantici, parliamo ancora dello "stivale", da lontano ricordiamo l'Italia come un luogo sereno e accogliente. Poi ci sono gli italiani che viaggiano per mestiere, e quelli che girano il mondo appena hanno messo due soldi da parte: ancora diversi». BSEV «Quando hai studiato gli italiani all'estero? Sapevi già tutto, o l'hai imparato viaggiando?». GVE «Ho visto di tutto, in questi due anni di viaggi per il film: un ragazzo romano che surfava sul nastro dei bagagli in aeroporto perché voleva farsi notare da una ragazza libanese; un barone della medicina che si era costruito un vero e proprio harem nel Paese che lo ospitava, e ci andava ogni giovedì, con la scusa di operare in una clinica privata. In Russia ho conosciuto un cuoco sardo che millantava di avere tre stelle Michelin, e poi ci ha fatto gli spaghetti scotti». BSEV «Spiegami la frase che apre il film, come un'epigrafe. "Gli italiani sono il popolo che suona più di tutti al metal detector". Da dove sbuca, e perché ti piace tanto?». GVE « È una citazione del New York Times, che riportava non so più quale sondaggio. Non so perché, ma mi sembra che in questa frase sia riassunto tutto quello che volevo raccontare. Hanno tanta roba da portarsi dietro gli ita- Verdone, Castellitto e l’Italietta all’estero. liani: la cialtroneria e l'eroismo, la vigliaccheria e la generosità. Un bagaglio unico e ingombrante. Il metal detector, quello nascosto dentro la testa di ciascuno, suona sempre, quando passano gli Italians». Beppe Severgnïni - Corriere della Sera Magazine È vero: siamo un popolo che stenta a riconoscersi in valori istituzionali e storici comuni. E magari per questo sono i nostri caratteri individuali a risaltare di più riverberando all'estero un'immagine di noi, diciamo così, pregiudiziale. E' il tema di Italians, bi-movie firmato da Giovanni Veronesi per la Filmauro. Protagonisti del primo episodio, Sergio Castellitto e Riccardo Scamarcio trasportano fra vari incidenti di percorso sei Ferrari rubate nella futuristica Dubai: si fanno riconoscere, ma nel finale assistiamo a un doppio riscatto. Nel capitolo due, l'odontoiatra depresso Carlo Verdone, a San Pietroburgo per un convegno, si fa tentare da un festino orgiastico con conseguenze catastrofiche finché a salvarlo non interviene la limpida Ksenia Rappoport. Imbroglioni ed erotomani, dunque questi Italians? Non solo. C'è anche la simpatia, un'umanità forse un po' loffia ma piena di calore e perfino qualche imprevista resipiscenza di orgoglio nazionale: nella personificazione di uno straordinario Castellitto e di un puntualissimo Verdone, ben appoggiati da Scamarcio e Rappoport, come possiamo non amarli? Alessandra Levantesi - La Stampa Ringraziando tutti gli abbonati e gli sponsor, ci auguriamo di ritrovarvi numerosi anche il prossimo anno. 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