100-101 AR322_Audio 322 - 100-101.qxd 02/05/11 13.33 Pagina 100 MUSICA IN VINILE P.I. Tchaikovsky Quando ascolto Tchaikovsky voglio sentire la passione. Interpretazioni di mera routine, magari corrette, talvolta persino bensuonanti, non riescono ad accendere quel senso di struggimento che in alcuni momenti la musica del grande russo esige. Ecco allora che il Tchaikovsky sinfonico, popolare e indubbiamente di facile ascolto, in troppe esecuzioni esce anemico, con il risultato di giustificare le opinioni non lusinghiere di certa critica arcigna. Il 33 giri della Hi-Q (distribuzione Sound and Music) qui segnalato è la ristampa in vinile di alta qualità di uno dei dischi più belli del catalogo EMI degli anni Settanta, che vede protagonista André Previn alla guida della London Symphony Orchestra. Vi troviamo una lettura potente ed espressiva della celeberrima “Ouverture 1812”, della “Marcia Slava” e della fantasia orchestrale “Romeo e Giulietta”. Qualche mese fa avevamo ascoltato in questa serie e con i medesimi interpreti un altro eccellente titolo sinfonico. Si trattava dei “Pianeti” di Holst, in una delle letture meglio riuscite della vasta pagina sinfonica del compositore inglese. L’originale faceva parte di quelle pregevoli registrazioni (molte delle quali in quadrifonia) effettuate intorno alla metà degli anni ‘70 nella mitica Kingsway Hall di Londra con l’équipe tecnica di Christopher Bishop e Christopher Palmer. Dischi tra i migliori mai ascoltati, per quella rara combinazione tra efficacia della concertazione, smalto strumentale, caratteristiche acustiche della sala e competenza della regia tecnica. Sono molti gli ingredienti che contribuiscono a rendere attendibile la resa di un disco, autentica “fotografia dell’evento sonoro”. Non fa eccezione il vinile. Di queste pagine “leggere” di Tchaikovsky, Previn realizza una lettura di squisita fattura, cogliendo il senso di ogni frase, mettendo a fuoco i particolari strumentali, costruendo un edificio sonoro che dopo quasi quattro decenni appare davvero esaltante. La sua vocazione musicale non deve in fondo sorprendere, considerando che il Nostro - nasce da famiglia tedesca di discendenza ebraica russa, che è tutto dire in ambito musicale - prima ancora che direttore d’orchestra è stato (ed è) compositore, arrangiatore e pianista jazz. Non sarà inopportuno ricordare che sin dai primissimi anni ‘50 Previn è stato uno dei protagonisti della vita musicale americana, attivo come pianista jazz (collaborando con Ella Fitzgerald, Julie Andrews, Benny Carter), ma soprattutto vincendo ben quattro premi Oscar per la migliore colonna sonora. Avvia con la Houston Symphony Orchestra una feconda attività direttoriale, per poi approdare per dodici anni (1968-1979) alla London Symphony Orchestra. Proprio a questo periodo risalgono le incisioni pubblicate in vinile dalla Hi-Q; confidiamo che ne possano arrivare delle altre. Dopo Londra Previn dirige a Pittsburgh e poi ancora a Los Angeles; con questa orchestra ha curato diverse registrazioni disponibili (in CD) nel catalogo della Telarc. In questi ultimi anni si è dedicato prevalentemente alla composizione. Come “esecutore” musicale Previn porta con sé l’originalità della lettura di chi è nel mondo musicale a tutto tondo, in grado di proporre anche in pagine tanto frequentate una visione non banale. Sin dall’incipit della “1812” si apprezza lo smalto solido di un’orchestra in forma splendida, per la notevole forma tecnica e fiati capaci di farsi protagonisti con un suono potente e tuttavia mai sguaiato. Le frasi di violoncelli e contrabbassi hanno un corpo e una solidità nella prima ottava che meriterebbero la prima pagina di ogni rivista di alta fedeltà. Il senso di naturale turgore delle frasi più sommesse a sostegno della linea armonica è reso con energica precisione dalla formazione inglese e opportunamente documentato dal supporto discografico. Notevole la dinamica, con buona estensione in gamma bassa e impatto anche della grancassa. Il brano che esige più di ogni altro la vostra attenzione di appassionati è il “Romeo e Giulietta”, documentato in una lettura che surclassa la maggior parte di quelle moderne. A nostro avviso solo alcuni (pochi) russi e (l’immancabile) Bernstein sono riusciti, con questo episodio, ad accendere in modo altrettanto convincente il sano fuoco della passione. Previn coglie il vero senso del “tema d’amore”, con archi e fiati tirati allo spasimo. La resa della sezione corni è quanto di meglio ascoltato su vinile in tanti anni, un alone di suono che avvolge lo spazio sonoro, mentre i piatti illuminano la scena con precisione e non inopportuna brillantezza. Da consigliare senza riserve anche per la stampa silenziosa, che fa “respirare” la profondità dell’immagine orchestrale anche nelle parti più delicate. Marco Cicogna 100 AUDIOREVIEW n. 322 maggio 2011 100-101 AR322_Audio 322 - 100-101.qxd 02/05/11 13.33 Pagina 101 Rock PATTI SMITH GROUP Easter (Music On Vinyl) Pubblicato giustappunto una vigilia di Pasqua (quella del 1978), terzo album per Patti Smith, primo a vedere la luce dopo il drammatico incidente di Tampa (una caduta dal palcoscenico che la costringeva per mesi su una carrozzella), in modo affatto diverso “Easter” si rivelava prova cruciale quanto il debutto “Horses” per definire la cifra stilistica dell’artista. Primo LP a iscriversi complessivamente in un ambito di classicismo rock, primo a offrire una canzone scritta - a quattro mani con Bruce Springsteen, che nella sala accanto ai Record Plant stava lavorando a “Darkness On The Edge Of Town” per essere un successo e che un successo in effetti lo diventava: tredicesima negli USA, quinta nel Regno Unito, “Because The Night”. Resta trentatré anni dopo (ehi! quanto la vita di Cristo) la canzone di Patti Smith conosciuta da tutti quelli per i quali Patti Smith è a malapena un nome e va da sé che non offenda il lettore raccontandogliela. È sempre stato il disco meglio suonante del Group (e tanto di più in questa massiccia edizione per audiofili calda di pressa nel momento in cui scrivo), grazie alla regia accorta e scaltra di un Jimmy Iovine che arrotondava le chitarre, spargeva luccicanza sulle tastiere (non il solito Richard Sohl, bensì Bruce Brody), incrementava il punch della ritmica. Sembra un live, ma senza le imperfezioni dei live. È pure il più vario dei dischi della cantantessa del punk, con dentro una “Ask The Angels” più esultante chiamata “Till Victory” e una “Ghost Dance” fra il folk e l’ethno-rock, lo spoken su sfondo noise di “Babelogue” a prologo di una guerrigliera (alla MC5) “Rock’n’Roll Nigger” e una “We Three” che fa ragazze riottose le Ronettes, la grinta Steppenwolf di “25th Floor” e il teatrino Doors di “High On Rebellion”. Collisione di contraddizioni ineffabili: “Babelogue” sbraita che “non ho venduto la mia anima a Dio” e “Privilege (Set Me Free)” cita estesamente il più noto fra i Salmi di Davide, il ventitreesimo; “Rock’n’Roll Nigger” suggella il primo lato dichiarando che “fuori dalla società/è dove voglio stare” e la title track ci congeda dal secondo punteggiando liturgicamente con rintocchi di campane e un dipanarsi di corde lisergiche un bordone d’organo. Che a distanza di appena tre (ma pienissimi e tumultuosi) anni questa Patti Smith pacificata fosse persona assai diversa da quella dell’incipit di “Gloria”, provocatorio ai limiti della blasfemia, in pochi lo coglievano. E solo a posteriori ci si accorgerà che in quella citazione da Timoteo in quarta di libretto tutto era già scritto: “Mi sono battuto per una buona causa, il mio tempo è finito…”. Un album e un anno e mezzo dopo la signora annuncerà il ritiro dalle scene. TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS Damn The Torpedoes (ORG/Sound & Music) Per Tom Petty e la sua ghenga di Spezzacuori, “Damn The Torpedoes” era nel 1979 l’album dove le promesse fatte nel ’76 in un omonimo esordio già rigoglioso di sempreverdi, e parzialmente tradite nel ’78 dal meno convincente “You’re Gonna Get It!”, venivano mantenute definitivamente e si diventava grandi. In tutti i sensi: numero due e doppio platino negli USA e una scaletta - fra l’epica sudista di “Refugee” (una “Free Bird” per la generazione del punk) e la ballatona alla Little Feat “Louisiana Rain” - ai limiti della perfezione. Mai più Tom e sodali sfioreranno così da vicino il capolavoro. Ribadito un eclettismo che fa passare in scioltezza dalla seduzione carezzevole di “You Tell Me” al Jerry Lee Lewis appena aggiornato di “What Are You Doin’ In My Life”, la Rickenbacker sfoggiata in copertina sapeva tanto di rivendicazione: sono io l’erede di Roger McGuinn, siamo noi i nuovi Byrds. Ripubblicato qualche mese fa in digitale seguendo la formula ormai canonica della “Deluxe Edition”, già in quella stampa il disco incrementava se possibile l’aura di classicismo che lo circonda sin dall’uscita, con suoni tirati a lucido che a dir poco surclassavano il discutibile vinile d’epoca. Pur modesto quantitativamente, il gruzzoletto di bonus regalava poi un paio di chicche: una ricreazione di Springsteen chicano chiamata “Casa Dega”; una scorticata resa del classico punk’n’roll di Eddie Cochran “Somethin’ Else”. La fedele replica di quella versione espansa che offre ora O.R.G. risulta ancora più entusiasmante, una festa pure per gli occhi (il libretto ovviamente un’altra cosa) e soprattutto per orecchie che sì, allibiscono. Solo neo il prezzo: praticamente il triplo, questo doppio vinile, del corrispondente doppio CD, con a parziale indennizzo la possibilità di scaricare il lavoro in forma liquida, in MP3 a 320 di bitrate, FLAC o nei corrispondenti formati Apple. Blues MUDDY WATERS At Newport 1960 (Speakers Corner/Sound & Music) Sul programma del settimo “Newport Jazz Festival” Muddy Waters veniva presentato come accompagnato non dalla sua band bensì dalla sua “Orchestra” e alla prestigiosa ribalta il 3 luglio il nostro eroe e i suoi fenomenali complici - per non fare che due nomi: Otis Spann al piano e James Cotton all’armonica - si presentavano in impeccabili abiti da sera. Aria paludata che bastavano poche note di una densa e trillante, strascicata ma con energia, “I Got My Brand On You” a dissolvere. Una scarsa mezz’ora dopo, alla ripresa come bis di “Got My Mojo Working” era l’azzimato pubblico ad avere perso ogni ritegno, con eleganti signore della borghesia bianca a battere le mani e a urlare in discinto delirio e i loro compagni in piedi sulle sedie. Mai vista una roba del genere alla più storica delle rassegne del jazz e, del resto, mai in precedenza quel tipo di platea era stato esposto al blues elettrico. Va da sé che in nessun modo un disco possa rendere appieno un simile evento. Nondimeno questo live faceva lo stesso epoca, primo incontro per una generazione di giovani bianchi - su quella e su questa sponda dell’Atlantico con una musica già a un niente da tutto quanto verrà dopo compreso fra i Rolling Stones e l’hard. Eddy Cilìa AUDIOREVIEW n. 322 maggio 2011 101