APROLIBRO.COM
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Il libro
Los Angeles, Stati Uniti. Il Nord America è spaccato in due parti, la Repubblica e le Colonie, e la
guerra sembra destinata a non finire mai. A quindici anni, June è già una promessa della Repubblica.
Nata in una famiglia ricca e prestigiosa, oltre a una bella casa, un mucchio di soldi e la possibilità di
frequentare le scuole migliori, possiede anche un vero talento nel cacciarsi nei guai e senza
l’intervento di Metias, il fratello maggiore, probabilmente qualcuna delle sue bravate all’accademia
militare sarebbe già finita male. Dalla morte dei genitori, Metias è l’unico su cui può contare, almeno
fino al giorno in cui viene ucciso in circostanze misteriose.
Il primo sospettato è Day, un ragazzo della stessa età di June, ma nato e cresciuto nei bassifondi della
Repubblica. Ed è anche il criminale più ricercato del paese. Da quel giorno, June ha un unico
desiderio: vendicare Metias.
Ma per lei e Day il destino ha altri piani.
L’autore
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Marie Lu è Art Director di video game e proprietaria del marchio Fuzz Academy.
L’ispirazione per scrivere Legend è nata guardando I Miserabili e chiedendosi come la relazione fra
un famosissimo criminale e un prodigioso detective potesse essere trasferita in una storia moderna.
Laureata alla Southern California University, Marie Lu vive a Los Angeles, dove passa il tempo
imbottigliata nel traffico.
www.marielu.org
MARIE LU
LEGEND
Traduzione di Giorgio Salvi
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A mia madre
LOS ANGELES, CALIFORNIA
REPUBBLICA D’AMERICA
POPOLAZIONE 20.174.282
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PARTEPRIMA
IL RAGAZZO CHE CAMMINA NELLA LUCE
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DAY
MIA MADRE MI CREDE MORTO.
Ovviamente non sono morto, ma per lei è più sicuro crederlo.
Almeno due volte al mese vedo il mio poster da ricercato trasmesso sui jumbo-schermi disseminati
per tutto il centro di Los Angeles.
Sembra fuori posto, lassù. La maggior parte delle immagini che passano sono quadretti allegri:
bambini sorridenti sotto un cielo limpido, turisti in posa sotto le rovine del Golden Gate, spot della
Repubblica con colori al neon.
C’è anche la propaganda antiColonie. Le Colonie vogliono la nostra terra, dichiarano i comunicati.
Desiderano ciò che non hanno. Non lasciate che conquistino le vostre case! Appoggiate la causa!
Poi compare la mia fedina penale. Illumina i jumbo-schermi in tutta la loro gloria multicolore:
RICERCATO DALLA REPUBBLICA
FILE N.: 462178 – 3233 “DAY” ---------------------------------------------RICERCATO PER
AGGRESSIONE, INCENDIO DOLOSO, FURTO, DISTRUZIONE DI PROPRIETÀ MILITARE E
INTRALCIO ALLO SFORZO BELLICO.
200.000 BANCONOTE DELLA REPUBBLICA PER INFORMAZIONI CHE CONDURRANNO AL
SUO ARRESTO.
Insieme alla fedina scorre sempre una
foto diversa. Una volta era di un ragazzo con gli occhiali e una
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folta chioma di ricci color rame.
Un’altra di un ragazzo con gli occhi neri e neanche un capello. A volte sono nero, a volte bianco,
altre ancora olivastro o marrone o giallo o rosso o qualunque altro colore venga loro in mente.
In altre parole, la Repubblica non ha idea di quale sia il mio vero aspetto. Sembra che non sappiano
un granché sul mio conto, tranne che sono giovane e che quando analizzano le mie impronte digitali
non trovano nessuna corrispondenza nel loro database.
Per questo mi odiano ed è per questo che non sono il criminale più pericoloso del paese, ma il più
ricercato. Gli faccio fare brutta figura.
È pomeriggio tardi, ma fuori è già buio pesto e si vedono i jumboschermi riflessi nelle pozzanghere
della strada. Sono seduto sul davanzale pericolante di una finestra al secondo piano, nascosto alla
vista dietro travi arrugginite. Un tempo l’edificio era un condominio, ma ormai è in rovina. Il
pavimento di questa stanza è ricoperto di lanterne rotte e frammenti di vetro e tutte le pareti hanno la
vernice scrostata. In un angolo, un vecchio ritratto dell’Elector Primo giace a terra con la faccia
rivolta verso l’alto. Mi chiedo chi abitasse qui, nessuno è così matto da abbandonare sul pavimento
in quel modo il proprio ritratto dell’Elector.
Ho i capelli ficcati dentro a un vecchio berretto, come al solito, e sto fissando una casetta a un piano
dall’altro lato della strada. Con le dita do il tormento al ciondolo che ho al collo.
Tess si appoggia all’altra finestra della stanza e mi guarda attentamente.
Stasera sono irrequieto e, come sempre, lei riesce a sentirlo.
Il morbo ha colpito duramente il settore Lake. Nel bagliore dei jumbo-schermi Tess e io riusciamo a
vedere i soldati in fondo alla strada che ispezionano ogni casa, con i loro mantelli lucenti slacciati
per il caldo. Ognuno di loro indossa una maschera antigas. Quando riemergono da un’abitazione, ogni
tanto, ne contrassegnano la porta dipingendoci sopra una grossa X rossa. Dopodiché nessuno entra o
esce più da lì, almeno non alla luce del sole.
«Ancora non li vedi?» sussurra Tess. La sua espressione è nascosta dalle ombre.
Per cercare di distrarmi, costruisco una fionda di fortuna con vecchi tubi di PVC. «Non hanno cenato.
Sono ore che non si siedono al tavolo.» Cambio posizione e mi sgranchisco il ginocchio malandato.
«Magari non sono in casa?» Lancio uno sguardo arrabbiato a Tess. Sta tentando di consolarmi, ma
non sono dell’umore giusto.
«C’è una lampada accesa. Guarda quelle candele. Mia madre non le sprecherebbe mai se nessuno
fosse in casa.» Tess si avvicina. «Dovremmo allontanarci dalla città per un paio di settimane, non
credi?» Prova a controllare la voce, ma la paura è lì.
«Presto il morbo passerà e potrai tornare a trovarli. Abbiamo soldi più che a sufficienza per due
biglietti del treno.» Scuoto la testa. «Una sera a settimana, ricordi?
Lasciameli controllare almeno una sera a settimana.»
«Certo. Peccato che questa settimana sei venuto tutte le sere.»
«Voglio solo assicurarmi che stiano bene.»
«E se ti ammali?»
«Correrò i miei rischi. E non eri tenuta a venire. Potevi aspettarmi ad Alta.» Tess solleva le spalle.
«Qualcuno deve pur tenerti d’occhio.» Due anni più piccola di me, eppure a volte sembra grande
abbastanza da farmi da balia.
Continuiamo a guardare in silenzio i soldati che avanzano verso la casa in cui vive la mia famiglia.
Ogni volta che si fermano davanti a una porta, un soldato bussa mentre un altro gli sta a fianco con il
fucile spianato. Se nessuno apre nel giro di dieci secondi, il primo soldato la butta giù a calci.
Quando fanno irruzione non riescoAPROLIBRO.COM
a vederli, ma conosco la procedura: un soldato preleva un
campione di sangue da ogni membro della famiglia, poi lo inserisce in un analizzatore portatile e
controlla se hanno il morbo.
L’intera operazione richiede dieci minuti.
Conto le case che separano i soldati dalla mia famiglia. Dovrò aspettare ancora un’ora prima di
conoscere la loro sorte.
Dall’altro capo della strada riecheggia un grido. I miei occhi scattano verso il suono e la mia mano
verso il coltello che tengo infilato nella cintura. Tess trattiene il respiro.
È una vittima del morbo. Deve essersi deteriorata per mesi perché ha la pelle screpolata e
sanguinante e mi chiedo come abbiano fatto i soldati a non notarla durante le precedenti ispezioni.
Barcolla per un po’, disorientata, poi si lancia in avanti, ma solo per inciampare e cadere in
ginocchio. Sposto di nuovo lo sguardo sui soldati.
Adesso la vedono eccome. Il soldato col fucile spianato si avvicina alla donna, mentre gli altri undici
rimangono dove sono e osservano la scena. Una vittima del morbo non costituisce un vero pericolo.
Il soldato solleva l’arma e prende la mira. Una raffica di scintille travolge la donna infetta, che crolla
a terra e rimane immobile. Il soldato si riunisce ai suoi compagni.
Mi piacerebbe mettere le mani su una di quelle armi. Un giocattolo come quello non costa molto sul
mercato, quattrocentottanta banconote, meno di una stufa. È precisa, come tutte le armi, guidata da
magneti e correnti elettriche e può colpire un bersaglio a tre isolati di distanza. Tecnologia rubata
alle Colonie, mi disse una volta mio padre, anche se la Repubblica non lo ammetterebbe mai. Tess e
io potremmo comprarne cinque se volessimo... Con gli anni abbiamo imparato a mettere via i soldi
extra che rubiamo e tenerli da parte per le emergenze. Il vero problema di possedere una pistola non
è quanto costa, ma quanto sia facile tracciarla. Ogni arma ha un sensore integrato che trasmette forma
della mano, impronte digitali e posizione di chi la utilizza. Abbastanza per farmi beccare.
Perciò devo accontentarmi delle mie armi artigianali, fionde di PVC e gingilli simili.
«Ne hanno trovata un’altra» dice Tess. Strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco.
Guardo in basso e vedo i soldati che escono da una casa. Uno di loro agita una bomboletta di vernice
spray e disegna una gigantesca X sulla porta. Conosco quella casa. La famiglia che abita lì un tempo
aveva una figlia della mia età.
Quando eravamo più piccoli, mio fratello e io ci giocavamo insieme a guardie e ladri e a hockey da
strada con mazze di ferro e palle di carta.
Tess prova a distrarmi indicando il fagotto ai miei piedi con un cenno. «Cosa gli hai portato?»
Sorrido, poi allungo la mano per slegare il panno. «Un po’ della roba che abbiamo messo via in
settimana.
Per festeggiare degnamente appena avranno passato l’ispezione.» Rovisto tra il mucchietto di tesori
nel fagotto e pesco un paio di occhiali protettivi usati. Li esamino di nuovo per assicurarmi che non
ci siano crepe nel vetro. «Per John. Un regalo di compleanno anticipato.» In settimana mio fratello
compie diciannove anni.
Lavora nelle fornaci della centrale del quartiere, ha turni di quattordici ore e torna sempre a casa con
gli occhi arrossati per il fumo. Questi occhiali sono il fortunato bottino di un furto a un carico di
rifornimenti militari.
Li metto giù e frugo tra il resto della roba. Per lo più sono lattine di carne in scatola e fiocchi di
patate che ho rubato dalla mensa di un’aeronave. C’è anche un paio di scarpe con le suole intatte. Mi
piacerebbe poter stare nella stanza con loro quando consegnerò il fagotto. Ma l’unico a sapere che
sono vivo è John e ha promesso di non dirlo a mamma e a Eden.
Eden compie dieci anni tra due mesi,APROLIBRO.COM
il che significa che tra due mesi dovrà affrontare la Prova.
Quando è toccato a me non l’ho superata. Per questo mi preoccupo per Eden, perché – anche se è di
gran lunga il più intelligente di noi tre – il suo modo di ragionare somiglia molto al mio. Io ero così
sicuro delle mie risposte che non mi sono neanche preoccupato di assistere alla valutazione. Poi però
gli addetti mi hanno portato in un angolo dello stadio insieme a un gruppo di altri ragazzini. Hanno
impresso un timbro sul mio test e mi hanno stipato su un treno diretto al centro. Non mi hanno fatto
portare niente tranne il ciondolo che avevo al collo. Neanche il tempo di dire addio.
Dopo la Prova possono succedere varie cose.
Votazione perfetta: 1500 punti.
Nessuno li ha mai presi, be’, tranne un ragazzino qualche anno fa sul quale l’esercito ha fatto un
mucchio di cerimonie. Chissà cosa capita a qualcuno con una votazione così alta? Di sicuro tanti
soldi e potere, come minimo.
Votazione tra 1450 e 1499. Puoi darti una pacca sulla spalla da solo perché avrai accesso immediato
a sei anni di scuola superiore e poi quattro nelle migliori università della Repubblica: Drake,
Stanford e Brenan.
Vieni assunto dal Congresso e guadagni un sacco di soldi. Seguono gioia e felicità.
Almeno stando a quanto dice la Repubblica.
Votazione buona, qualcosa tra i 1250 e i 1449 punti. Continui con le superiori e poi vieni assegnato a
un’università. Non male.
Te la cavi per un pelo con un punteggio tra i 1000 e i 1249 punti.
Il Congresso ti vieta di andare alle superiori. Ti unisci ai poveri, come la mia famiglia.
Hai buone probabilità di finire annegato lavorando alle turbine idrauliche o cotto al vapore nelle
centrali elettriche.
Non passi.
Di solito sono i ragazzini dei bassifondi a non superarla. Se rientri in questa sfortunata categoria, la
Repubblica invia degli ufficiali a casa tua. Costringono i tuoi genitori a firmare un contratto con il
quale delegano la tua custodia al Governo. Dicono che sei stato trasferito nei campi di lavoro e che
la tua famiglia non ti rivedrà mai più. I tuoi genitori devono annuire e acconsentire. Alcuni addirittura
festeggiano, perché la Repubblica dà loro mille banconote come dono di condoglianze. Soldi e una
bocca in meno da sfamare? Ma che Governo premuroso.
A parte il fatto che è tutta una bugia. Un bambino scadente, con geni marci, non serve alla nazione.
Se sei fortunato, il Congresso ti lascia morire senza prima spedirti nei laboratori dove ti esaminano
per trovare i difetti.
Mancano cinque case. Tess vede la preoccupazione nei miei occhi e mi posa una mano sulla fronte.
«È in arrivo uno dei tuoi mal di testa?»
«No. Sto bene.» Scruto la casa di mia madre attraverso la finestra aperta, poi finalmente vedo di
sfuggita una faccia familiare. Eden passa davanti alla finestra, poi guarda furtivamente i soldati in
avvicinamento e punta loro contro uno strano congegno di metallo.
Quindi torna a nascondersi e scompare alla vista. Alla luce tremolante della lampada i suoi ricci
brillano di un biondo platino.
Conoscendolo, ha costruito quell’aggeggio per misurare a che distanza si trovano le persone, o
qualcosa del genere.
«Sembra più magro...» mormoro.
«È vivo e se ne va in giro» risponde Tess. «Direi che è una cosa buona.» Qualche minuto dopo
vediamo John e mia madre sfilare davanti alla finestra, impegnati in una discussione.
John e io ci assomigliamo molto, anche
se le lunghe giornate alla centrale lo hanno irrobustito. I suoi
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capelli, come per la maggior parte di quelli che vivono nel nostro settore, sono raccolti in una
semplice coda che scende oltre le spalle. Ha la canottiera macchiata di terra rossa.
Si capisce che mamma lo sta sgridando per qualcosa, forse per aver permesso a Eden di sbirciare
dalla finestra. John allunga una mano, ma lei la scaccia quando le viene un attacco della sua tosse
cronica. Mi lascio sfuggire un sospiro. D’accordo. Se non altro sono tutti e tre sufficientemente in
salute da camminare. Anche se uno di loro è infetto, è ancora abbastanza presto da avere una
possibilità di guarigione.
Non riesco a smettere di immaginare quello che accadrebbe se i soldati dovessero marcare la porta
di mia madre. La mia famiglia rimarrebbe impalata in salotto anche dopo che i soldati se ne fossero
andati.
Poi mamma tirerebbe fuori la sua espressione coraggiosa, solo per rimanere alzata tutta la notte ad
asciugarsi in silenzio le lacrime. La mattina inizierebbero a ricevere piccole razioni di cibo e acqua
e aspetterebbero semplicemente di guarire. O morire.
La mia mente vaga verso il gruzzolo di soldi rubati che Tess e io abbiamo nascosto.
Duemilacinquecento banconote.
Abbastanza per sfamarci per mesi... ma non abbastanza per comprare alla mia famiglia fiale di
vaccino contro il morbo.
I minuti scorrono lentamente.
Metto via la fionda e sfido Tess a qualche mano di morra cinese. (Non so perché, ma è un fenomeno a
carta, forbice, sasso.) Lancio più volte uno sguardo verso la finestra di mia madre, ma non vedo
nessuno. Devono essersi riuniti vicino alla porta, pronti ad aprirla appena sentono il pugno contro il
legno.
Poi tocca a loro. Mi sporgo dal davanzale così tanto che Tess mi afferra il braccio per assicurarsi
che non cada di sotto. I soldati battono sulla porta. Mia madre apre immediatamente, fa entrare i
soldati e la richiude. Mi sforzo di sentire delle voci, dei passi, qualunque cosa che provenga da casa
mia. Prima questa faccenda finisce, prima posso portare di nascosto i miei regali a John.
Il silenzio prosegue.
Tess sussurra: «Nessuna nuova, buona nuova. Giusto?».
«Molto divertente.» Conto i secondi che passano nella mia testa. Un minuto è andato.
Poi due, quattro e, finalmente, dieci minuti.
Poi quindici. Venti.
Guardo Tess, che alza le spalle.
«Magari si è rotto l’analizzatore» suggerisce.
Passano trenta minuti. Non oso distrarmi. Ho paura che succeda qualcosa così in fretta da
perdermela, se sbatto le palpebre.
Tamburello con le dita sul manico del coltello.
Quaranta minuti.
Cinquanta minuti. Un’ora.
«Qualcosa non va» mormoro.
Tess arriccia le labbra. «Non puoi saperlo.»
«Sì che lo so. Perché ci mettono così tanto?» Tess apre la bocca per rispondere, ma prima che possa
dire una parola i soldati escono da casa mia, in fila, impassibili.
L’ultimo soldato si chiude la porta alle spalle e prende qualcosa dalla sua cintura. Improvvisamente
mi gira la testa. So cosa sta per succedere.
Il soldato stende il braccio e disegna
una lunga linea rossa diagonale sulla nostra porta. Poi ne
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disegna un’altra, formando una X.
Impreco sottovoce e sto per voltarmi, ma poi il soldato fa qualcosa di inaspettato, qualcosa che non
ho mai visto prima.
Spruzza una terza linea verticale sulla porta di mia madre, tagliando a metà la X.
JUNE
ORE 13.47.
UNIVERSITÀ DI DRAKE, SETTORE BATALLA.
TEMPERATURA INTERNA 22 °C.
SONO SEDUTA NELL’UFFICIO della segretaria del rettore. Di nuovo.
Dall’altro lato della porta, riesco a vedere un gruppetto di compagni (dell’ultimo anno, almeno
quattro anni più grandi di me) accalcati contro il vetro smerigliato per cercare di sentire cosa sta
succedendo. Molti di loro mi hanno vista mentre venivo trascinata via dall’esercitazione pomeridiana
(lezione di oggi: come caricare e scaricare un fucile XM-621) da un paio di guardie dall’aria
minacciosa.
Ogni volta che capita, la notizia fa il giro del campus.
La ragazzina prodigio più amata della Repubblica si è di nuovo cacciata nei guai.
L’ufficio è silenzioso, fatta eccezione per il ronzio sordo che viene dal computer della segretaria.
Ho memorizzato ogni dettaglio della stanza (pavimenti di marmo tagliato a mano importato dal
Dakota, 324 piastrelle di plastica sul soffitto, sei metri di drappi grigi che pendono su entrambi i lati
del glorioso ritratto dell’Elector appeso al muro posteriore dell’ufficio, uno schermo da trenta pollici
sulla parete laterale, senza audio, e un titolo che recita: GRUPPO DI “PATRIOTI” TRADITORI FA
ESPLODERE UNA BOMBA IN UNA STAZIONE MILITARE, CINQUE MORTI, seguito da LA
REPUBBLICA SCONFIGGE LE COLONIE
NELLA BATTAGLIA PER HILLSBORO).
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Arina Whitaker, la segretaria del rettore in persona, è seduta dietro la sua scrivania e tamburella con
le dita sul vetro. Di sicuro sta scrivendo il mio rapporto.
Questo trimestre è l’ottavo che ricevo. Scommetto che sono l’unico studente della Drake che è
riuscito a collezionare otto rapporti in un trimestre senza essere espulso.
«Si è infortunata la mano ieri, signora Whitaker?» dico dopo un po’.
Lei smette di scrivere per lanciarmi un’occhiataccia. «Cosa glielo fa pensare, signorina Iparis?»
«Gli intervalli quando digita i tasti sono lunghi. Sta usando di più la mano sinistra.» Miss Whitaker
sospira e si appoggia allo schienale. «Sì, June.
Ieri mi sono slogata il polso durante una partita di kivaball.»
«Mi dispiace. Dovrebbe provare a ruotare di più il braccio e meno il polso.» Volevo solo darle un
consiglio, ma è venuto fuori con il tono di una frecciatina e la signora Whitaker non sembra aver
gradito.
«Chiariamo una cosa, signorina Iparis,» mi dice «può darsi che lei si creda molto intelligente. Può
darsi che lei creda di aver diritto a un trattamento speciale per via dei suoi voti perfetti. Può darsi
anche che lei creda di avere degli ammiratori in questa scuola, viste simili assurdità.» Con un gesto
indica gli studenti pigiati fuori dalla porta. «Ma io sono incredibilmente stufa di questi nostri incontri
nel mio ufficio. E mi creda, quando conseguirà il diploma e verrà assegnata alla destinazione che la
nazione sceglierà per lei, le sue buffonate non faranno colpo sui suoi superiori. Mi ha capito?»
Annuisco, perché è ciò che si aspetta da me. Però si sbaglia. Io non credo soltanto di essere
intelligente. Sono l’unica persona in tutta la Repubblica ad aver superato la Prova con il punteggio
perfetto di 1500. Sono stata assegnata qui, all’università migliore del paese, all’età di dodici anni,
quattro prima del previsto. Poi ho saltato il secondo anno e alla Drake ho ottenuto per tre anni solo
voti impeccabili.
Io sono intelligente. Ho quelli che la Repubblica definisce geni buoni e, come dicono sempre i miei
professori, migliori i geni, migliori i soldati, migliori le possibilità di vittoria contro le Colonie.
Perciò, se ho la sensazione che le esercitazioni pomeridiane non m’insegnino abbastanza su come
arrampicarmi sui muri completamente equipaggiata, allora... be’, non è colpa mia se sono stata
costretta a scalare la facciata di un edificio di diciannove piani con un fucile XM-621 a tracolla.
Si è trattato solo di autoperfezionamento, per il bene della mia nazione.
Si dice che una volta Day abbia scalato un palazzo di quattro piani in meno di otto secondi. Se il
criminale più ricercato della Repubblica riesce a fare una cosa del genere, come pensiamo di
catturarlo se non siamo altrettanto veloci? E se non riusciamo neanche a prenderlo, come pensiamo di
vincere la guerra?
Qualcosa dalla scrivania della signora Whitaker squilla tre volte.
Lei schiaccia un pulsante e lo tiene premuto.
«Sì?»
«Il capitano Metias Iparis è all’ingresso» risponde una voce. «È qui per sua sorella.»
«Bene. Fatelo entrare.» Solleva il dito dal pulsante e lo punta verso di me. «Spero che questo suo
fratello cominci a badare meglio a lei, perché se questo trimestre la rivedo un’altra volta nel mio
ufficio...»
«Metias si occupa di me meglio dei miei genitori morti» rispondo, forse in modo più brusco di
quanto non volessi.
Piombiamo in un silenzio imbarazzante.
Finalmente, dopo quella che sembra un’eternità, sento della confusione in corridoio. Gli studenti
accalcati contro il vetro della portaAPROLIBRO.COM
si disperdono di colpo e le loro ombre si spostano di lato per
fare spazio a una sagoma. Mio fratello.
Mentre Metias apre la porta ed entra, vedo delle ragazze nel corridoio che soffocano delle risatine
con le mani. Ma tutta l’attenzione di Metias è per me.
Abbiamo gli stessi occhi, neri con una punta d’oro, le stesse ciglia lunghe e i capelli scurissimi. Le
ciglia lunghe fanno più effetto su di lui. Quando la porta si richiude riesco ancora a sentire i
mormorii e le risate soffocate che provengono da fuori. Ha l’aria di essere venuto dritto al campus
dal suo servizio di pattugliamento, agghindato in alta uniforme: cappotto nero da ufficiale con doppia
fila di bottoni dorati, guanti (neoprene, fodera di spectra, ricami del grado di capitano), spalline
scintillanti, cappello d’ordinanza, pantaloni neri, anfibi lucidi. I miei occhi incontrano i suoi.
È furioso.
La signora Whitaker rivolge a Metias un sorriso smagliante. «Ah, capitano!» esclama. «È un piacere
vederla.» Metias la saluta cordialmente toccando il cappello. «Peccato che sia ancora in queste
circostanze» risponde lui. «Le porgo le mie scuse.»
«Nessun problema, capitano.» La segretaria del rettore minimizza con un gesto della mano. Che
lecchina, specialmente dopo quello che mi ha appena detto. «Non è certo colpa sua. Oggi, durante la
pausa pranzo, sua sorella è stata sorpresa a scalare un palazzo. Per farlo si è allontanata dal campus
di ben due isolati.
Come lei sa, per l’addestramento fisico agli studenti è permesso utilizzare soltanto le pareti
d’arrampicata all’interno dell’università.
È proibito abbandonare il campus durante la giornata...»
«Sì, ne sono consapevole» la interrompe Metias, guardandomi con la coda dell’occhio.
«A mezzogiorno ho notato gli elicotteri che sorvolavano la Drake e ho avuto il... sospetto che June
potesse essere coinvolta.» Erano arrivati tre elicotteri. Non potevano farmi scendere dalla facciata
dell’edificio scalandolo a loro volta, così mi hanno tirato giù con una rete.
«Grazie per il suo aiuto» dice Metias alla segretaria. Poi schiocca le dita e capisco che devo
alzarmi.
«Quando June tornerà al campus, le assicuro che si comporterà meglio.» Ignoro il sorriso finto della
signora Whitaker e seguo mio fratello fuori dall’ufficio e nel corridoio. Subito gli studenti ci sono
addosso. «June...» dice un certo Dorian accodandosi a noi. Mi ha invitato (senza successo) al ballo
annuale della Drake due volte di fila. «Allora è vero? Quanto sei riuscita a salire?» Metias lo
interrompe con un’occhiataccia. «June sta andando a casa.» Poi mi piazza una mano sulla spalla e mi
allontana da loro.
Io riesco a guardarmi dietro e sorrido ai miei compagni.
«Quattordici piani» dico.
L’informazione sembra rimetterli in fermento. Per qualche ragione questo è il massimo dei rapporti
che ho con gli altri studenti della Drake. Sono rispettata, discutono e spettegolano di me, ma nessuno
parla davvero con me.
Questa è la vita di una studentessa quindicenne dell’ultimo anno in un’università per ragazzi dai
sedici anni in su.
Metias non dice un’altra parola mentre avanziamo per i corridoi, superiamo i prati curati del cortile
interno e l’imponente statua dell’Elector e finalmente attraversiamo una delle palestre coperte.
Passiamo accanto alla classe pomeridiana di esercitazioni a cui avrei dovuto partecipare.
Guardo i miei compagni correre intorno a una gigantesca pista circondata da uno schermo a
trecentosessanta gradi che simula una strada desolata come quelle del fronte. Tengono i fucili
sollevati davanti a loro e cercano APROLIBRO.COM
di caricarli e scaricarli il più velocemente possibile mentre
corrono. Nella maggior parte delle altre università non ci sono tanti cadetti, ma qui alla Drake quasi
tutti riceveremo un incarico nell’esercito della Repubblica.
Qualcun altro è destinato alla politica o al Congresso e altri verranno selezionati per rimanere a
insegnare. Ma questa è la migliore università della Repubblica e, visto che i migliori vengono
sempre assegnati all’esercito, la sala delle esercitazioni è piena di studenti.
Quando raggiungiamo uno dei viali perimetrali della Drake e salgo sul sedile posteriore della jeep
militare che ci sta aspettando, Metias riesce appena a contenere la sua rabbia. «Sospesa per una
settimana?
Ti dispiacerebbe spiegarmelo?» mi domanda.
«Rientro dopo una mattinata passata a fare i conti con i ribelli e cosa mi tocca sentire? Elicotteri a
due isolati dalla Drake. Una ragazzina che scala un grattacielo.» Scambio uno sguardo amichevole
con Thomas, il soldato alla guida.
«Mi dispiace» mormoro.
Metias si volta indietro dal sedile del passeggero e mi fissa con gli occhi stretti. «Che diavolo ti è
venuto in mente? Ti sei accorta che eri uscita dal campus?»
«Sì.»
«Ovvio. Hai quindici anni. Ti sei arrampicata per quattordici piani sopra a un...» Metias fa un
respiro profondo, chiude gli occhi e si ricompone.
«Per una volta, apprezzerei molto se mi lasciassi svolgere i miei incarichi giornalieri senza dovermi
preoccupare di quello che stai combinando.» Cerco di incontrare di nuovo lo sguardo di Thomas
nello specchietto retrovisore, ma ha gli occhi fissi sulla strada. Ovviamente non dovrei aspettarmi
alcun aiuto da parte sua. Sembra più in ordine del solito, con i capelli perfettamente pettinati e la
divisa stirata a pennello. Nemmeno un pelo o un filo fuori posto.
Nonostante Thomas sia di molti anni più giovane di Metias e un subordinato della sua pattuglia, è la
persona più rispettosa delle regole che conosco. A volte vorrei avere anch’io tutta quella disciplina.
Probabilmente disapprova le mie bravate anche più di Metias.
Ci lasciamo il centro di Los Angeles alle spalle e percorriamo l’autostrada tortuosa in silenzio. Il
paesaggio passa dai grattacieli a cento piani del settore Batalla ai casermoni e ai complessi
residenziali per civili, ognuno alto tra i venti e i trenta piani, con le luci guida rosse che lampeggiano
sui tetti, quasi tutti con la vernice scrostata a seguito delle tempeste di quest’anno. Le travi metalliche
di supporto tracciano delle croci sulle loro pareti. Mi auguro che quei supporti vengano rinforzati
presto.
Negli ultimi tempi la guerra si è intensificata e visto che diversi decenni di fondi destinati alle
infrastrutture sono stati trasferiti all’approvvigionamento del fronte, non so se questi edifici
potrebbero affrontare un altro terremoto.
Dopo qualche minuto Metias riprende a parlare in tono più pacato. «Oggi mi hai fatto davvero
spaventare» dice. «Ho temuto che ti scambiassero per Day e ti sparassero.» Lo so che il suo non
voleva essere un complimento, ma non posso fare a meno di sorridere. Mi piego in avanti per
appoggiare il braccio sul suo schienale. «Ehi,» gli dico, tirandogli l’orecchio come facevo da
piccola «mi dispiace di averti fatto preoccupare.» Lui si lascia sfuggire una risatina sarcastica, ma si
capisce che la rabbia sta già sfumando. «Certo. È quello che dici ogni volta, Junbruco.
Per caso la Drake non ti tiene la mente abbastanza impegnata? Se è così, non so proprio come
aiutarti.»
«Sì che lo sai... se solo tu mi portassi con te in qualcuna delle tue missioni contro i Patrioti,
probabilmente imparerei molto di piùAPROLIBRO.COM
e starei lontana dai guai.»
«Bel tentativo. Non vai da nessuna parte finché non ti laurei e non vieni assegnata alla tua pattuglia.»
Mi mordo la lingua. L’anno scorso, quando tutti gli studenti del terzo anno hanno dovuto affiancare
un’unità dell’esercito a loro assegnata, Metias mi ha scelto per una missione. Il suo comandante lo ha
mandato a uccidere un prigioniero di guerra delle Colonie in fuga. Così Metias mi ha portato con lui
e insieme abbiamo inseguito il prigioniero di guerra addentrandoci sempre di più nel nostro
territorio, lontano dalle barriere divisorie e dalla striscia di terra che va dal Dakota al Texas
Occidentale e separa la Repubblica dalle Colonie, lontano dal fronte, dove le aeronavi punteggiano il
cielo. Ho seguito le sue tracce fino a un vicolo di Yellowstone City, nel Montana, e Metias gli ha
sparato.
Durante l’inseguimento mi sono rotta tre costole e mi hanno conficcato un coltello nella gamba e
adesso Metias si rifiuta di portarmi con lui.
Quando finalmente mio fratello si decide a parlare di nuovo, sembra curioso suo malgrado. «Allora,
dimmi,» domanda a fil di voce «quanto ci hai messo a scalare quei quattordici piani?» Thomas
brontola senza aprire bocca, ma sulla mia faccia si allarga un sorriso soddisfatto. La tempesta è
passata. Metias mi vuole di nuovo bene. «Sei minuti» sussurro a mia volta. «E quarantaquattro
secondi.
Che te ne pare?»
«Devi aver stabilito un nuovo tipo di record. Non che, sia ben chiaro, avresti dovuto farlo.» Thomas
ferma la jeep a un semaforo rosso e guarda Metias con aria esasperata.
«Andiamo, capitano» dice. «June, cioè, la signorina Iparis non imparerà mai niente se continua a
lodarla per aver infranto le regole.»
«Su con la vita, Thomas.» Metias allunga la mano e gli dà una pacca sulla spalla. «Sono sicuro che
infrangere una regola ogni tanto è tollerabile, specialmente se lo fai per aumentare le tue capacità per
il bene della Repubblica. Vittoria contro le Colonie. Dico bene?» Il semaforo diventa verde e
Thomas riporta gli occhi sulla strada (sembra contare mentalmente fino a tre prima di spingere la
jeep in avanti).
«D’accordo» borbotta.
«Però dovrebbe comunque stare attento alle cose che incoraggia la signorina Iparis a fare, soprattutto
adesso che i vostri genitori non ci sono più.» La bocca di Metias si stringe in una linea e nei suoi
occhi appare uno sguardo familiare, teso.
Per quanto il mio intuito sia affilato, per quanto io vada bene all’università e ottenga un punteggio
perfetto in autodifesa, al poligono di tiro o nel combattimento corpo a corpo, gli occhi di Metias
contengono sempre quella paura. Teme che un giorno possa succedermi qualcosa, come l’incidente
d’auto che ci ha strappato i genitori. Quella paura non abbandona mai il suo volto. E
Thomas lo sa.
Non ho conosciuto i nostri genitori abbastanza a lungo da sentirne la mancanza allo stesso modo di
Metias. Ogni volta che piango per la loro perdita, piango perché non ho alcun ricordo che li riguardi.
Solo vaghe reminiscenze di gambe lunghe, di adulto, che si muovono per il nostro appartamento e
mani che mi sollevano dal seggiolone. Tutto qui.
Tutti gli altri ricordi della mia infanzia – io che guardo verso il buio della sala mentre ricevo un
premio, che sorseggio la minestra preparata per me perché sono malata, che vengo sgridata o messa a
letto con le coperte rimboccate – sono legati a Metias.
Superiamo metà del settore Batalla e attraversiamo alcuni isolati poveri. (Questi mendicanti non
potrebbero tenersi un po’ più a distanza dalla jeep?) Finalmente raggiungiamo gli sfavillanti
palazzoni terrazzati di Ruby e siamo APROLIBRO.COM
a casa. Metias scende per primo.
Mentre lo seguo, Thomas accenna un sorriso.
«A presto, signorina Iparis» mi dice, dandosi un colpetto al cappello.
Ho smesso di provare a convincerlo a chiamarmi June, non cambierà mai. Tutto sommato non è poi
tanto male essere chiamata in modo rispettabile. Magari quando cresco e Metias smette di svenire
all’idea che io possa uscire con qualcuno...
«Ciao, Thomas. Grazie per il passaggio.» Ricambio il sorriso prima di scendere dalla jeep.
Metias aspetta che la portiera si sia richiusa prima di girarsi verso di me e abbassare la voce.
«Stasera farò tardi» mi dice. Di nuovo quella tensione negli occhi. «Non uscire da sola. Secondo le
notizie dal fronte, stasera toglieranno la corrente alle abitazioni per risparmiare energia destinata alle
basi aeree. Perciò rimani a casa, intesi? Le strade saranno più buie del solito.» Il mio cuore fa un
tonfo. Vorrei che la Repubblica si sbrigasse a vincere questa guerra una buona volta, così potremmo
avere un mese intero di elettricità continua.
«Dove stai andando? Posso venire con te?»
«Devo sorvegliare il laboratorio del Central Hospital.
Consegneranno delle fiale di un virus mutato, non dovrebbe volerci tutta la notte. E ti ho già detto di
no. Nessuna missione.» Metias ha un attimo di esitazione. «Torno prima che posso. Abbiamo un
sacco di cose da dirci.» Mi mette le mani sulle spalle, ignora il mio sguardo perplesso e mi dà un
bacio veloce sulla fronte. «Ti voglio bene, Junbruco.» È il suo modo di salutarmi. Poi si gira per
risalire sulla jeep.
«Non ho intenzione di aspettarti alzata» gli urlo dietro, ma è già entrato in macchina e la jeep si sta
allontanando con lui dentro. «Stai attento» bisbiglio.
Ma è inutile dirglielo adesso.
Metias è troppo lontano per sentirmi.
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DAY
QUANDO AVEVO SETTE ANNI, mio padre tornò a casa dal fronte per una settimana di licenza. Il
suo lavoro consisteva nel fare pulizia dopo il passaggio dei soldati della Repubblica, perciò era
sempre via e a mia madre è toccato tirarci su da sola. Quando quella volta tornò, le pattuglie
cittadine effettuarono un controllo di routine in casa nostra e poi trascinarono mio padre alla centrale
di polizia di zona per interrogarlo.
La polizia ce lo restituì con due braccia rotte e la faccia insanguinata.
Molte notti dopo, immersi una palla di ghiaccio tritato in una latta di benzina, aspettai che il petrolio
si solidificasse attorno al ghiaccio e gli diedi fuoco. Poi lo lanciai con una fionda dentro la finestra
della centrale di polizia di zona. Ricordo ancora le autopompe che arrivarono a sirene spiegate
subito dopo e i resti carbonizzati dell’ala ovest dell’edificio. Non presero mai il colpevole e io non
mi feci avanti.
Dopotutto, non c’era alcuna prova.
Avevo commesso il mio primo crimine perfetto.
Mia madre sperava che un giorno mi sarei elevato dalle mie umili radici. Che sarei diventato una
persona di successo, magari anche famoso.
Famoso lo sono eccome, ma non credo che sia quello che mia madre aveva in mente.
È di nuovo il tramonto, sono quasi quarantotto ore che i soldati hanno marcato la porta di casa nostra.
Aspetto nell’ombra di un vicolo a un isolato dal Los Angeles Central Hospital e guardo il personale
entrare e uscire dall’ingresso principale. È una notte nuvolosa, senza luna, e non riesco neanche a
vedere il cartello fatiscente della Bank Tower in cima all’edificio. Ogni piano risplende di luci
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elettriche, un lusso che solo gli edifici
governativi e le case dei ricchi possono permettersi. Una
colonna di jeep militari attende lungo la strada il permesso di accedere al parcheggio sotterraneo.
Qualcuno controlla che i loro documenti siano a posto. Io rimango immobile, con gli occhi fissi
sull’entrata.
Stasera sono proprio una forza.
Ai piedi ho le mie scarpe buone, degli anfibi di pelle scura ammorbidita dall’usura, con lacci robusti
e punte di ferro. Comprati con centocinquanta banconote della nostra riserva. Sotto ciascuna suola ho
nascosto un coltello e quando muovo il piede riesco a sentire il metallo freddo a contatto con la
pelle. Ho infilato i pantaloni negli anfibi e nelle tasche ho un paio di guanti e un fazzoletto nero. Una
camicia scura con le maniche lunghe annodata intorno alla vita. I capelli, di solito biondo platino,
sono sciolti sulle spalle. Stavolta mi sono tinto di nero corvino, come se li avessi immersi nel
petrolio grezzo. Oggi, nel retro di una cucina, Tess ha barattato cinque banconote con un secchio di
sangue di maiale pigmeo che ho usato per imbrattarmi le braccia, la pancia e la faccia. Sulle guance
mi sono anche spalmato del fango, tanto per stare sicuro.
L’ospedale occupa i primi dodici piani del palazzo, ma a me interessa solo quello senza finestre.
Il secondo, il laboratorio, dove tengono i campioni di sangue e le medicine. Dall’esterno l’intero
piano è nascosto da elaborate sculture di pietra e bandiere della Repubblica consumate. Oltre la
facciata si estende un vasto ambiente privo di corridoi e porte, solo un gigantesco stanzone con
dottori e infermiere dietro a mascherine bianche, provette e pipette, incubatrici e barelle. Lo so
perché ci sono già stato. Il giorno in cui non ho superato la Prova, il giorno in cui avrei dovuto
morire.
Esamino la fiancata della torre. A volte riesco a irrompere in un edificio passando dall’esterno, se ci
sono balconi da cui saltare e davanzali su cui mantenersi in equilibrio. Una volta ho scalato un
palazzo di tre piani in meno di cinque secondi. Questo però è troppo liscio, senza punti d’appoggio.
Dovrò raggiungere il laboratorio dall’interno.
Rabbrividisco nonostante il caldo e vorrei aver chiesto a Tess di accompagnarmi, ma due intrusi
sono più facili da prendere di uno. E poi non è la sua famiglia che ha bisogno di cure. Controllo di
aver infilato il ciondolo sotto la maglietta.
Un veicolo medico solitario accosta dietro le jeep militari.
Diversi soldati scendono e salutano le infermiere mentre altri scaricano delle scatole dal furgone. Al
comando del gruppo c’è un giovane ufficiale con i capelli scuri vestito tutto di nero, a eccezione di
due file di bottoni d’argento sulla giacca.
Aguzzo l’udito per sentire cosa sta dicendo a una delle infermiere.
«...dalla sponda del lago.» L’uomo si tira i guanti. Intravedo la pistola infilata nella cintura.
«Stanotte i miei uomini sorveglieranno le entrate.»
«Va bene, capitano» risponde l’infermiera.
L’uomo la saluta toccandosi il cappello. «Mi chiamo Metias. Se ha delle domande, venga pure da
me.» Attendo che i soldati si siano sparpagliati intorno al perimetro dell’ospedale e l’ufficiale di
nome Metias sia impegnato in una conversazione con due dei suoi uomini. Molti altri mezzi di
soccorso vanno e vengono e scaricano soldati, alcuni con fratture agli arti, altri con lesioni alla testa
e ferite alle gambe. Faccio un respiro profondo e poi esco dall’ombra e barcollo verso l’entrata
dell’ospedale.
È un’infermiera a notarmi per prima, appena fuori dalle porte d’ingresso. Il suo sguardo cade subito
sul sangue che ho sulle braccia e in faccia. «Posso entrare, cugina?» le chiedo. Faccio una smorfia di
dolore immaginario. «C’è ancora posto
stanotte?
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Posso pagare.» Mi guarda senza alcuna pietà prima di rimettersi a scrivere sul suo blocchetto. Forse
non ha gradito l’appellativo affettuoso. Ha un cartellino di riconoscimento appeso al collo. «Cosa ti è
successo?» mi domanda.
Quando la raggiungo mi piego in due e mi accascio sulle ginocchia.
«Una rissa» dico ansimando.
«Credo che mi abbiano accoltellato.» L’infermiera non mi degna di un altro sguardo. Finisce di
scrivere e fa un cenno con la testa a una delle guardie. «Perquisiscilo.» Rimango dove sono mentre
due soldati controllano che non abbia armi addosso. Quando mi toccano le braccia e la pancia grido
al momento giusto. Non trovano i coltelli che nascondo negli anfibi, però intascano il sacchetto di
banconote che tengo legato alla cinta: il dazio per accedere all’ospedale. Naturale.
Se fossi stato un ragazzo di qualche settore ricco, mi avrebbero ammesso senza chiedermi soldi.
Oppure mi avrebbero mandato un dottore gratis direttamente a casa.
Quando i soldati fanno segno all’infermiera che sono a posto, lei mi indirizza verso l’entrata. «La
sala d’attesa è a sinistra. Trovati un posto.» La ringrazio e mi trascino verso le porte scorrevoli.
Mentre passo, l’ufficiale di nome Metias mi osserva.
Sta ascoltando con attenzione uno dei suoi soldati, ma lo vedo che studia la mia faccia come per
abitudine.
Anch’io memorizzo la sua.
L’interno dell’ospedale è di un bianco spettrale. Vedo la sala d’aspetto alla mia sinistra, proprio
come ha detto l’infermiera, uno spazio enorme pieno zeppo di persone con ferite di entità e
dimensione variabile. Molti gemono per il dolore, uno addirittura giace a terra immobile. Non voglio
neanche immaginare da quanto tempo sono parcheggiati lì, o quanto hanno dovuto sborsare per
entrare. Prendo nota della posizione di ogni soldato – due davanti allo sportello della segretaria, due
in fondo accanto alla porta del dottore, molti vicino agli ascensori, tutti con un tesserino di
riconoscimento – e poi abbasso lo sguardo sul pavimento. Trascino i piedi fino al sedile più vicino e
mi siedo. Per una volta il mio ginocchio malandato serve a qualcosa. Tengo comunque le mani
premute sul fianco, per precauzione.
Conto a mente dieci minuti, abbastanza perché nella sala d’aspetto siano arrivati altri pazienti e i
soldati siano meno interessati a me. Quindi mi alzo, faccio finta di barcollare e sbando verso il
soldato più vicino. Lui porta istintivamente la mano alla pistola.
«Rimettiti seduto» mi ordina.
Inciampo e gli cado addosso. «Mi serve il bagno» sussurro, con la voce rauca. Mi aggrappo al suo
mantello nero con le mani tremanti per riprendere l’equilibrio. Il soldato mi guarda disgustato,
mentre i suoi compagni sghignazzano. Vedo le sue dita scivolare verso il grilletto della pistola, ma
uno degli altri soldati scuote la testa. Niente sparatorie all’interno dell’ospedale.
Il soldato mi spinge via e indica con la pistola la fine del corridoio.
«Laggiù» dice in tono brusco.
«Vedi di toglierti quella schifezza dalla faccia. E se mi tocchi ancora ti riempio di piombo.» Mollo
la presa e quasi cado in ginocchio.
Poi mi giro e m’incammino con passo malfermo verso la toilette, gli anfibi di pelle scricchiolano
sulle mattonelle del pavimento. Mentre entro nel bagno e chiudo a chiave la porta, mi sento addosso
gli occhi dei soldati.
Non importa. Tra un paio di minuti si saranno dimenticati di me.
E ci vorranno molti altri minuti prima che quello al quale mi sono aggrappato si accorga che gli
manca il tesserino.
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Appena sono nel bagno la smetto con il numero del malato. Mi sciacquo la faccia e strofino finché il
grosso del sangue non è venuto via.
Apro la cerniera degli anfibi e tolgo le solette interne per prendere i coltelli, che inserisco nella
cinta. Mi rimetto gli anfibi. Poi mi slego la camicia nera dalla vita e la indosso, abbottonandola fin
sopra al colletto e allacciandoci sopra le bretelle.
Lego stretti i capelli e infilo la coda nella camicia in modo che aderisca alla schiena.
Per ultimo, metto i guanti e mi annodo un fazzoletto nero intorno alla bocca e al naso. Se qualcuno
dovesse beccarmi adesso, sarei comunque costretto a scappare.
Tanto vale coprirsi il volto.
Quando ho finito, uso la punta di uno dei coltelli per svitare la grata del condotto di aerazione. Poi
tiro fuori il tesserino di riconoscimento del soldato, lo aggancio alla collanina e mi infilo nel
cunicolo.
L’aria nel condotto ha un odore strano e sono contento per il fazzoletto intorno alla faccia. Mi
trascino in avanti più velocemente che posso. Il condotto è largo non più di sessanta centimetri e ogni
volta che avanzo devo chiudere gli occhi e ricordare a me stesso di respirare, che le pareti di metallo
che mi circondano non si stanno restringendo. Non devo fare molta strada, nessuno di questi condotti
porta al secondo piano. Devo solo allontanarmi quanto basta per sbucare in una delle trombe delle
scale dell’ospedale, lontano dalle guardie del primo piano. Continuo ad avanzare. Penso alla faccia
di Eden, alle medicine che serviranno a lui, a John e a mia madre, e all’insolita X con la linea in
mezzo.
Dopo diversi minuti il condotto diventa un vicolo cieco. Sbircio dalla grata e i fasci di luce mi
mostrano i segmenti di una scala circolare. Il pavimento è di un bianco immacolato, quasi stupendo e,
cosa più importante, sgombro. Conto fino a tre, poi tiro indietro le braccia e colpisco la griglia del
condotto con tutta la forza che ho. La grata vola via e riesco a vedere meglio le scale, una grossa
camera cilindrica con pareti alte e lisce intervallate da piccole finestrelle. Un’enorme spirale di
gradini.
Adesso mi muovo con la massima velocità e nessuna copertura. Presto! Esco a fatica dal condotto e
mi precipito su per la rampa. A metà della salita mi aggrappo alla balaustra e mi do lo slancio per
raggiungere la curva successiva.
Le telecamere di sorveglianza devono essere tutte su di me. Da un minuto all’altro scatterà l’allarme.
Primo piano, secondo piano. Sta per scadere il tempo.
Mentre mi avvicino alla porta del secondo piano, mi strappo il tesserino dal collo e mi fermo quanto
basta per passarlo sul lettore. Le telecamere di sicurezza non hanno fatto partire l’allarme in tempo
per isolare il pozzo delle scale. La maniglia scatta: sono dentro. Spalanco la porta.
Mi ritrovo in un’enorme stanza piena di barelle allineate e prodotti chimici che sobbollono sotto
cappe di metallo. Dottori e soldati mi fissano allibiti.
Afferro la prima persona che mi capita a tiro, un giovane medico in piedi vicino alla porta. Prima che
uno dei soldati abbia il tempo di puntarmi contro una pistola, estraggo alla svelta uno dei coltelli e lo
punto alla gola dell’uomo. Gli altri dottori e le infermiere si bloccano di colpo. Molti di loro
gridano.
«Se sparate, colpirete lui» urlo ai soldati da dietro il fazzoletto. Mi tengono sotto tiro e il dottore mi
trema tra le mani.
Premo di più il coltello, stando attento a non tagliarlo. «Non ti faccio niente» gli bisbiglio
all’orecchio. «Dimmi dove trovo le cure per il morbo.» Lui emette un mugolio strozzato e mi accorgo
che sta sudando. Fa un gesto verso APROLIBRO.COM
i frigoriferi. I soldati sono ancora titubanti, ma uno di loro mi
strilla un ordine.
«Libera il dottore!» mi grida.
«Metti le mani in alto.» Ho voglia di ridere. Il soldato deve essere una recluta. Attraverso la stanza
insieme al dottore e mi fermo davanti ai frigoriferi.
«Indicameli.» Il mio ostaggio solleva una mano tremolante e tira la porta del frigorifero. Una ventata
di aria gelida ci investe. Mi domando se il dottore riesca a sentire quanto mi batte forte il cuore.
«Eccoli» sussurra. Distolgo lo sguardo dai soldati il tempo che basta per vedere il dottore che punta
il ripiano più in alto. Metà delle fiale è contrassegnata dalla X a tre linee: VIRUS FILOVIRIDAE
MUTATI. L’altra metà è etichettata VACCINO 11.30. Ma le fiale sono tutte vuote. Hanno finito le
scorte.
Impreco a denti stretti. Passo in rassegna gli altri ripiani: solo soppressori del morbo e antidolorifici.
Impreco di nuovo.
Troppo tardi per fare marcia indietro.
«Adesso ti lascio» bisbiglio al dottore. «Stai giù.» Allento la presa e lo spingo così forte da farlo
cadere in ginocchio.
I soldati aprono il fuoco, ma io sono pronto. Mi riparo dietro la porta aperta del frigorifero mentre i
proiettili le rimbalzano contro.
Afferro diverse manciate di boccette di soppressori e me le infilo nella camicia. Mi lancio verso
l’uscita. Un colpo vagante mi prende di striscio e un dolore lancinante mi infiamma il braccio. Sono
quasi fuori.
Nell’istante in cui attraverso la porta s’innesca un allarme. Segue un coro di scatti metallici e tutte le
porte delle scale si chiudono dall’interno. Sono in trappola. I soldati possono ancora accedere da
qualsiasi porta, mentre io non posso uscire.
Nel laboratorio echeggiano urla e rumore di passi.
Una voce grida: «L’abbiamo colpito!».
I miei occhi corrono verso le minuscole finestrelle sulle pareti in cartongesso. Sono troppo distanti
perché io possa raggiungerle dai gradini. Stringo i denti e tiro fuori il secondo coltello, così adesso
ne ho uno per mano. Prego che i pannelli siano abbastanza morbidi, poi spicco un balzo e mi lancio
contro il muro.
Un coltello affonda completamente. Dal braccio ferito zampilla sangue e non riesco a trattenere un
grido di dolore. Sono sospeso a metà strada tra le scale e la finestra più vicina. Mi dondolo avanti e
indietro più che posso.
Il pannello sta per cedere.
Sento la porta del laboratorio spalancarsi alle mie spalle e i soldati che si riversano giù per le scale.
Tutt’intorno sibilano i proiettili. Mi giro verso la finestra e mollo la presa sul coltello conficcato nel
muro.
La finestra va in frantumi e di colpo sono di nuovo fuori nel buio della notte e sto cadendo, cadendo,
cadendo giù come una stella.
Strappo i bottoni della camicia e la lascio gonfiare dietro di me mentre i pensieri mi attraversano la
testa.
Ginocchia piegate. Prima i piedi.
Rilassa i muscoli. Atterra sulle punte. Rotola. Il terreno corre verso di me. Mi preparo all’impatto.
L’urto mi toglie il respiro. Rotolo quattro volte prima di schiantarmi contro il muro dall’altra parte
della strada. Per un attimo rimango lì, accecato, completamente impotente. Sopra di me, dalla finestra
del secondo piano, sento le voci APROLIBRO.COM
concitate dei soldati che hanno capito di dover tornare al
laboratorio per disattivare l’allarme.
Riacquisto gradualmente i sensi, adesso sono perfettamente consapevole del dolore al fianco e al
braccio. Uso il braccio buono per tirarmi su e ho un fremito. Mi pulsa il petto, credo di essermi rotto
una costola. Quando provo a rialzarmi mi accorgo di essermi anche slogato una caviglia. Non so dire
se sia l’adrenalina a impedirmi di accusare altri effetti della caduta.
Da dietro l’angolo del palazzo arrivano delle grida. Mi sforzo di pensare. Adesso sono sul retro
dell’edificio e da qui si diramano diverse stradine che si perdono nell’oscurità. Avanzo zoppicando
finché non sono al buio.
Quando mi guardo indietro, vedo un gruppetto di soldati che si precipita nel punto in cui sono caduto
e indica il vetro rotto e il sangue. Uno di loro è il capitano che ho visto prima, il giovane uomo di
nome Metias. È lui a ordinare agli uomini di sparpagliarsi. Affretto il passo e cerco di ignorare il
dolore.
Curvo le spalle in modo che il nero dei vestiti e dei capelli mi aiuti a fondermi con le ombre.
Mantengo gli occhi bassi. Devo trovare un tombino.
I margini del mio campo visivo iniziano a sfocarsi. Mi premo una mano sull’orecchio per sentire se
c’è sangue. Per adesso niente, buon segno.
Qualche attimo dopo intravedo un tombino al centro della strada. Sospiro, mi sistemo il fazzoletto
che mi copre la faccia e mi piego per sollevare il coperchio.
«Fermo. Rimani dove sei.» Mi giro di scatto e mi trovo di fronte Metias, il giovane capitano.
Ha una pistola puntata dritta al mio petto, ma con mio grande stupore non preme il grilletto. Stringo la
presa sull’unico coltello che mi rimane. Qualcosa nel suo sguardo cambia e capisco che ha
riconosciuto in me il ragazzo che aveva finto di arrancare dentro all’ospedale. Mi viene da sorridere,
adesso sì che ho un mucchio di ferite da farmi curare.
Metias strizza gli occhi. «Tieni su le mani. Sei in arresto per furto, atti vandalici e violazione di
proprietà.»
«Non mi porterai mai dentro vivo.»
«Sarò felice di portarti dentro morto, se preferisci.» Quello che accade dopo è sfocato. Vedo i
muscoli di Metias tendersi per fare fuoco. Gli lancio contro il coltello più forte che posso.
Prima che lui riesca a sparare, il coltello lo colpisce alla spalla con violenza e lo fa cadere
all’indietro con un tonfo. Non aspetto che si rialzi. Mi abbasso e scoperchio il tombino, poi mi calo
giù per la scaletta e mi immergo nell’oscurità.
Rimetto a posto il coperchio.
Adesso le ferite si fanno sentire.
Avanzo barcollando nei canali di scolo, con la vista che fatica a mettere a fuoco le cose e una mano
premuta forte sul fianco. Sto attento a non toccare le pareti.
Ogni respiro fa male. Devo per forza essermi rotto una costola.
Sono comunque abbastanza cosciente per rendermi conto della direzione in cui mi sto muovendo e
cercare di raggiungere il settore Lake. Lì c’è Tess. Lei mi troverà e mi aiuterà a mettermi in salvo.
Credo di riuscire a sentire il rumore sordo dei passi sopra la mia testa, le grida dei soldati. A
quest’ora avranno già trovato Metias e può darsi che siano anche scesi nelle fogne. Potrebbero essere
sulle mie tracce con una muta di cani, perciò sto attento a svoltare spesso e a camminare nell’acqua
putrida. Dietro di me uno sciabordio e un suono di voci che riecheggiano. Continuo a cambiare
direzione. Le voci si fanno più vicine, poi si allontanano. Tengo bene a mente la mia direzione
originaria.
Non sarebbe il colmo scappare dall’ospedale
solo per morire qui sotto, perso in un labirinto di
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cunicoli puzzolenti?
Tengo il conto dei minuti che passano per impedirmi di svenire.
Cinque minuti, dieci, trenta, un’ora.
Il rumore dei passi alle mie spalle è lontano, come se i soldati stessero seguendo un percorso diverso
dal mio. Ogni tanto sento dei suoni strani, tipo il gorgoglio di una provetta o lo sbuffo di un condotto
del vapore, un soffio d’aria. Va e viene. Due ore. Due ore e mezzo.
Quando vedo l’ennesima scala che porta in superficie, decido di correre il rischio e comincio a
risalire.
Adesso sono proprio sul punto di svenire. Devo fare appello all’ultimo briciolo di energia che mi
rimane per trascinarmi in strada. Mi ritrovo in un vicolo buio. Appena ho ripreso fiato, sbatto le
palpebre per schiarirmi la vista e studio l’ambiente che mi circonda.
Riesco a vedere Union Station a diversi isolati di distanza. Non sono molto lontano. Tess sarà lì ad
aspettarmi.
Altri tre isolati. Due isolati.
Ne resta soltanto uno, ma non ce la faccio più. Trovo un angolo appartato nel vicolo e crollo.
L’ultima cosa che vedo è la sagoma di una ragazza in lontananza. Forse sta venendo da questa parte.
Mi rannicchio e il mondo comincia a svanire.
Prima di perdere i sensi, mi accorgo che non ho più il mio ciondolo legato al collo.
JUNE
RICORDO ANCORA IL GIORNO in cui mio fratello saltò la cerimonia di insediamento
nell’esercito della Repubblica.
Era una domenica pomeriggio, calda e appiccicosa, il cielo coperto di nuvole marroni. Io avevo sette
anni, Metias diciannove. Il mio cucciolo di pastore tedesco bianco, Ollie, dormiva sul fresco
pavimento di marmo del nostro appartamento.
Ero a letto con la febbre e Metias mi sedeva accanto, la fronte aggrottata dalla preoccupazione.
Da fuori si sentivano gli altoparlanti che declamavano il giuramento nazionale alla Repubblica e,
quando arrivò la parte che parla del nostro presidente, Metias si alzò in piedi e fece il saluto in
direzione della capitale. Il nostro illustre Elector Primo aveva appena accettato altri quattro anni alla
presidenza, iniziando così il suo undicesimo mandato.
«Non devi startene qui seduto con me, lo sai» gli dissi a giuramento finito. «Vai alla tua cerimonia.
Starò male anche se rimani.» Metias mi ignorò e mi posò un altro panno bagnato sulla fronte.
«Sarò insediato anche se rimango» mi rispose, imboccandomi con una fetta d’arancia screziata di
viola.
Ricordo di averlo osservato pelare quel frutto per me: aveva inciso una linea lunga e decisa nella
buccia e poi l’aveva rimossa tutta insieme, in un unico pezzo.
«Ma è il comandante Jameson» dissi sbattendo le palpebre sugli occhi gonfi. «Ti ha fatto un favore a
non destinarti al fronte...
Si arrabbierà se non vai. E se lo annota sul tuo curriculum? Non vorrai mica essere buttato fuori
come uno straccione dei bassifondi.» Metias mi diede un colpetto sul naso con disapprovazione.
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«Non chiamare le persone in quel modo,
Junbruco. Non sta bene. E poi non può sbattermi fuori per
aver saltato la cerimonia. Se succedesse,» aggiunse strizzando l’occhio «posso sempre intrufolarmi
nel loro database e dare una ripulita al mio stato di servizio.» Gli feci una smorfia. Un giorno anch’io
volevo entrare nell’esercito, indossare il mantello scuro della Repubblica. Magari con un po’ di
fortuna sarei stata assegnata a un famoso comandante, come Metias.
Aprii la bocca per farmi imboccare con un altro spicchio. «Allora dovresti andare meno spesso a
Batalla. Forse avresti il tempo di trovarti una ragazza.» Metias scoppiò a ridere. «Non mi serve una
ragazza. Ho già una sorella mocciosa di cui occuparmi.»
«Dico sul serio. Prima o poi ti troverai una fidanzata.»
«Vedremo.
Ma sono molto esigente.» A quel punto smisi di guardare mio fratello negli occhi. «Metias, mamma
mi accudiva quando ero ammalata? Anche lei faceva queste cose?» Metias allungò la mano per
scostarmi dalla faccia delle ciocche bagnate di sudore. «Non essere sciocca, Junbruco.
Certo che mamma si prendeva cura di te. Ed era molto più brava di me.»
«No. Tu sei più bravo» mormorai.
Le palpebre si stavano facendo pesanti.
Mio fratello sorrise. «Sei gentile a dirlo.»
«Non mi lascerai anche tu, vero?
Resterai con me più tempo di mamma e papà?» Metias mi baciò sulla fronte. «Per sempre, sorellina,
finché non sopporterai più la mia faccia.»
ORE 00.01.
SETTORE RUBY.
TEMPERATURA INTERNA 22 °C.
Capisco che qualcosa è andato storto nell’istante in cui Thomas si presenta alla porta. Le luci di tutti
gli edifici residenziali si sono spente, proprio come aveva detto Metias, e l’appartamento è
illuminato soltanto dalle lampade a olio. Ollie abbaia come un ossesso.
Addosso ho la mia uniforme da allenamento e un giubbotto rosso e nero, con gli anfibi allacciati e i
capelli raccolti in una coda stretta.
A dire il vero, per un attimo sono contenta che non sia Metias quello che aspetta sulla soglia.
Avrebbe visto come sono vestita e scoperto che sto andando alla pista.
Disobbedendogli di nuovo.
Quando apro la porta Thomas tossisce nervosamente vedendo la mia espressione sorpresa e finge di
ridere. (Ha una striscia nera di grasso sulla fronte, probabilmente lo stesso che ha sull’indice. Il che
vuol dire che ha già finito di lucidare il fucile e che domani alla sua pattuglia tocca l’ispezione.)
Incrocio le braccia, lui si sfiora educatamente il bordo del cappello.
«Salve, signorina Iparis.» Faccio un respiro profondo. «Sto andando alla pista. Dov’è Metias?»
«Il comandante Jameson le chiede di venire con me all’ospedale, il prima possibile.» Poi ha un
attimo di esitazione. «È più un ordine che una richiesta.» Avverto una morsa alla bocca dello
stomaco. «Perché non mi ha chiamato lei?» domando.
«Preferisce che la scorti io.»
«Perché?» La mia voce sale di tono. «Dov’è mio fratello?» Adesso è Thomas a fare un respiro
profondo. So già quello che sta per dire. «Mi dispiace. Metias è stato ucciso.» È in quel momento
che il mondo intorno a me diventa muto.
Vedo Thomas che continua a parlare, fa dei gesti con le mani e mi tira a sé per abbracciarmi come se
lo osservassi da una grande distanza.APROLIBRO.COM
Lo abbraccio anch’io, senza capire veramente cosa sto facendo.
Non sento niente. Quando mi blocca con le mani e mi chiede di fare qualcosa, annuisco. Lo seguo. Mi
mette un braccio intorno alle spalle. Il naso umido di un cane mi dà un colpetto alla mano. Ollie mi
segue fuori dall’appartamento e gli dico di starmi vicino. Chiudo la porta, m’infilo la chiave in tasca
e lascio che Thomas ci guidi al buio fino alle scale. Non ha mai smesso di parlare, ma io non riesco a
sentirlo. Mantengo lo sguardo fisso sulle decorazioni di metallo lucido che fiancheggiano la scalinata
e sulle immagini distorte di Ollie e me riflesse.
Non riesco a distinguere la mia espressione. Non sono neanche sicura di averne una.
Metias avrebbe dovuto portarmi con sé. È questo il primo pensiero coerente che formulo mentre
raggiungiamo il pianterreno del palazzo e montiamo su una jeep che ci sta aspettando. Ollie salta sul
sedile posteriore e sporge la testa fuori dal finestrino. L’interno della macchina odora di bagnato
(come di gomma e metallo e sudore fresco; un gruppo di persone deve averci viaggiato da poco).
Thomas si siede al volante e si assicura che la mia cintura sia allacciata. Che gesto piccolo e
insignificante.
Metias avrebbe dovuto portarmi con sé.
Rigiro questo pensiero nella testa all’infinito. Thomas non dice altro.
Mi lascia fissare la città buia fuori dal finestrino mentre avanziamo per le strade, lanciandomi di
tanto in tanto uno sguardo incerto. Una parte di me prende nota di chiedergli scusa più tardi.
Osservo con occhi vitrei gli edifici familiari che mi sfilano accanto. Le persone (per lo più manovali
reclutati nei bassifondi) si accalcano nei chioschi anche se non c’è corrente, ricurve sopra scodelle
di cibo da due soldi nelle tavole calde al pianterreno. In lontananza si sollevano nuvole di vapore. I
jumbo-schermi, sempre accesi nonostante la mancanza di energia, mostrano gli ultimi bollettini su
inondazioni e quarantene. Alcuni sono sui Patrioti, stavolta per l’esplosione di un’altra bomba a
Sacramento che ha ucciso mezza dozzina di soldati. Un gruppetto di cadetti, undicenni con galloni
gialli sulle maniche, si attarda sui gradini fuori da un’accademia, le vecchie lettere consumate del
Walt Disney Concert Hall quasi del tutto sbiadite. Una colonna di jeep militari ci passa davanti a un
incrocio e vedo le facce inespressive dei soldati a bordo. Alcuni di loro indossano occhiali di
protezione scuri e non vedo affatto i loro occhi.
Il cielo sembra più cupo del solito, segno che è in arrivo una tempesta. Mi tiro il cappuccio sulla
testa in caso me ne dimentichi quando finalmente scenderemo dalla macchina.
Quando riporto l’attenzione fuori dal finestrino, vedo la parte del centro della città che rientra nel
settore Batalla. In questo settore militare tutte le luci sono accese. La torre dell’ospedale appare in
lontananza a pochi isolati da noi.
Thomas si accorge che sto allungando il collo per osservarla meglio. «Ci siamo quasi» mi dice.
Man mano che ci avviciniamo, vedo le strisce di nastro giallo che circondano la base dell’edificio,
gli assembramenti di soldati della pattuglia cittadina (galloni rossi sulle maniche, come Metias) e
anche qualche fotografo, i furgoni neri e i veicoli medici. Ollie emette un guaito.
«Immagino che non abbiano preso il colpevole» dico a Thomas.
«Come lo sa?» Faccio un cenno con il capo in direzione del palazzo. «Davvero impressionante»
continuo.
«Chiunque fosse, è sopravvissuto a un volo dal secondo piano e ha avuto anche la forza di scappare.»
Thomas guarda verso la torre e cerca di vedere quello che vedo io: la finestra delle scale rotta al
secondo piano, la zona transennata al di sotto, i poliziotti che perlustrano i vicoli, l’assenza di
ambulanze. «Non l’abbiamo preso» ammette dopo un attimo. Il grasso del fucile sulla fronte gli dà
un’aria perplessa. «Ma questo non significa che non ritroveremo il suo corpo.»
«Se ancora non l’avete fatto, allora APROLIBRO.COM
non succederà.» Thomas apre la bocca per replicare qualcosa,
ma poi cambia idea e torna a concentrarsi sulla strada. Quando finalmente la jeep si ferma, il
comandante Jameson si stacca dal gruppo di guardie che le stanno intorno e marcia fino alla portiera
dell’auto.
«Mi dispiace» mi dice Thomas d’un tratto. Provo un breve rimorso di coscienza per la mia freddezza
e decido di annuire. Prima che morisse, suo padre era stato il custode del nostro condominio e la sua
defunta madre lavorava come cuoca nella mensa della mia scuola elementare. Era stato Metias a
raccomandare che Thomas (punteggio alto alla Prova) fosse assegnato alle prestigiose pattuglie
cittadine nonostante le sue umili origini. Perciò immagino che si senta frastornato quanto me.
Il comandante Jameson si avvicina alla mia portiera e bussa due volte al vetro per richiamare la mia
attenzione. Le sue labbra sottili sono colorate da un tocco deciso di rosso e al buio i suoi capelli
ramati sembrano marrone scuro, quasi neri.
«Svelta, Iparis. Non c’è tempo da perdere.» I suoi occhi guizzano su Ollie sul sedile posteriore.
«Quello non è un cane poliziotto, ragazzina.» Perfino adesso, il suo modo di fare è risoluto.
Scendo dalla jeep e le porgo un rapido saluto. Ollie salta giù accanto a me. «Mi ha fatto chiamare,
comandante.» Lei non si preoccupa di ricambiare il saluto. Invece inizia ad allontanarsi e a me non
resta che andarle dietro svelta, cercando di tenere il passo. «Tuo fratello, Metias, è morto» mi
comunica. Il suo tono è immutato. «Mi sembra di capire che hai quasi terminato il tuo addestramento
da agente, è corretto? Che hai già completato i corsi di inseguimento?» Fatico a respirare. Una
seconda conferma della morte di Metias. «Sì, comandante» riesco in qualche modo a rispondere.
Ci dirigiamo all’interno dell’ospedale. (La sala d’aspetto è vuota, hanno fatto uscire tutti i pazienti;
le guardie sono radunate vicino alla porta delle scale, probabilmente è lì che inizia la scena del
crimine.) Il comandante Jameson tiene lo sguardo fisso in avanti e le mani dietro la schiena.
«Che punteggio hai preso alla Prova?»
«1500, comandante.» Tutti nell’esercito conoscono il mio punteggio, ma al comandante Jameson
piace far finta di non saperlo, che non le importi.
Infatti.
«Ah, molto bene» commenta, come se fosse la prima volta che lo sente. «Forse ci tornerai utile,
dopotutto. Ho già chiamato la Drake e li ho avvertiti che sei esonerata da un ulteriore addestramento.
Avevi quasi finito il corso comunque.»
«Comandante?» dico aggrottando le ciglia.
«Ho ricevuto il resoconto completo dei tuoi voti. Media perfetta e hai già terminato la maggior parte
dei corsi nella metà degli anni previsti, giusto? Dicono anche che sei una piantagrane.
Anche questo è vero?» Non capisco cosa voglia da me.
«Qualche volta, comandante. Per caso sono nei guai? Mi hanno espulso?» Il comandante Jameson
sorride.
«Al contrario. Ti hanno diplomata in anticipo. Seguimi, voglio che tu veda una cosa.» Vorrei
chiederle di Metias, di cos’è successo qui, ma il suo atteggiamento glaciale mi frena.
Percorriamo un lungo corridoio del pianterreno finché non raggiungiamo l’uscita di emergenza
all’estremità opposta.
Lì il comandante Jameson fa cenno ai soldati di guardia di scansarsi e mi precede.
Un ringhio profondo rimbomba nella gola di Ollie.
Usciamo all’aperto, stavolta sul retro dell’edificio. Mi accorgo che adesso siamo all’interno della
zona delimitata dai nastri gialli. Intorno a noi decine di soldati raccolti in piccoli gruppi.
«Sbrigati» mi dice il comandante in tono brusco. Affretto il passo.
Un attimo dopo capisco cosa vuoleAPROLIBRO.COM
mostrarmi e dove siamo dirette. Non lontano da noi c’è una
sagoma coperta da un lenzuolo bianco. (Alta un metro e ottanta, umana; piedi e arti sembrano intatti;
di sicuro non è caduta così naturalmente, perciò qualcuno deve averla disposta in quel modo.)
Comincio a tremare.
Quando abbasso gli occhi su Ollie, vedo che ha i peli sul dorso rizzati.
Lo chiamo più volte ma rifiuta di avvicinarsi, così sono costretta a seguire il comandante e a
lasciarlo indietro.
Metias mi baciò sulla fronte. «Per sempre, sorellina, finché non sopporterai più la mia faccia.» Il
comandante Jameson si ferma davanti al lenzuolo, poi si piega e lo tira via. Fisso il corpo esanime di
un soldato nella sua uniforme nera, con un coltello ancora piantato nel petto. La sua camicia, le
spalle, le mani, gli incavi del manico del coltello: tutto è macchiato di sangue scuro. Adesso i suoi
occhi sono chiusi. Mi inginocchio davanti a lui e gli scosto delle ciocche nere dal volto. È strano.
Non registro nessun dettaglio della scena.
Continuo a non provare altro che un profondo torpore.
«Dimmi cosa potrebbe essere accaduto, cadetto» mi ordina il comandante Jameson. «Consideralo un
quiz. L’identità di questo soldato non dovrebbe essere difficile da indovinare per te.» Le sue parole
pungenti non mi toccano neanche. Tutt’a un tratto arrivano i particolari e inizio a parlare. «Chiunque
lo abbia colpito, lo ha pugnalato da una distanza ravvicinata, oppure il braccio con cui lancia è
incredibilmente forte. Il destro.» Passo le dita sul manico incrostato di sangue. «Una mira
eccezionale. Il coltello fa parte di una coppia, corretto? Vede questo motivo dipinto alla base della
lama?
Si interrompe di netto.» Il comandante Jameson annuisce. «Il secondo coltello è conficcato nel muro
delle scale.» Guardo in direzione del vicolo buio verso cui sono puntati i piedi di mio fratello e noto
il coperchio del tombino a molti metri di distanza.
«È da lì che è fuggito» dico. Valuto l’angolazione con cui il coperchio è piegato verso l’interno. «È
anche mancino. Direi che è ambidestro.»
«Vai avanti.»
«Da qui, le fogne possono portarlo nel cuore della città o a ovest, verso l’oceano. Sceglierà la città,
probabilmente è troppo ferito per fare diversamente, ma al momento è impossibile seguire le sue
tracce con precisione. Se ha un minimo di cervello avrà svoltato una decina di volte, e lo avrà fatto
con i piedi nell’acqua. Non avrà toccato le pareti. Non ci avrà lasciato neanche una traccia da
seguire.»
«Adesso rimani qui per un po’, così puoi fare mente locale. Ti aspetto tra due minuti sulle scale del
secondo piano, i fotografi hanno bisogno di spazio.» Prima di voltarsi lancia un’occhiata al corpo di
Metias e, per un breve istante, la sua faccia si raddolcisce. «Un buon soldato sprecato.» Poi scuote la
testa e se ne va.
La osservo allontanarsi. Le altre persone che mi circondano si tengono a distanza, probabilmente per
evitare una conversazione imbarazzante. Abbasso di nuovo lo sguardo sul volto di mio fratello.
Con mia grande sorpresa, appare sereno. La pelle sembra colorita, non pallida come avevo
immaginato. Quasi mi aspetto che sbatta le palpebre e mi sorrida. Dei grumi di sangue rappreso mi
finiscono sulle mani. Quando provo a spazzarli via mi si attaccano alla pelle. Non so se è questo a
scatenarmi la rabbia, ma le mani iniziano a tremarmi così forte che devo premerle contro i vestiti di
Metias per cercare di fermarle.
Dovrei analizzare la scena del crimine... ma non riesco a concentrarmi.
«Dovevi portarmi con te» gli sussurro. Poi appoggio la testa sulla sua e scoppio a piangere. In cuor
mio, faccio una muta promessa all’assassino
di mio fratello.
APROLIBRO.COM
Ti darò la caccia. Batterò le strade di Los Angeles palmo a palmo. Perlustrerò ogni strada della
Repubblica se sarà necessario. Ti ingannerò e ti illuderò, mentirò, barerò e ruberò per trovarti, ti
spingerò a uscire dal tuo nascondiglio e ti inseguirò finché non ti rimarrà più neanche un buco per
nasconderti.
Ti prometto questo: ora la tua vita appartiene a me.
Arrivano i soldati per portare Metias all’obitorio, ma per me è troppo presto.
ORE 03.17.
INTERNO DEL MIO APPARTAMENTO.
STESSA NOTTE.
LA PIOGGIA HA INIZIATO A CADERE.
Sono stesa sul divano, con un braccio intorno a Ollie. Il posto in cui di solito si siede Metias è vuoto.
Il tavolino da caffè è ingombro di vecchi album di fotografie e diari di mio fratello. Gli erano sempre
piaciute le abitudini all’antica dei nostri genitori e aveva continuato a scrivere diari a mano proprio
come loro avevano conservato tutte quelle fotografie di carta. «Non si può rintracciarle o taggarle
online» diceva sempre. Buffo, detto da un hacker esperto come lui.
Era oggi pomeriggio che è venuto a prendermi alla Drake?
Prima di andare via voleva parlarmi di qualcosa di importante. E adesso non saprò mai cosa aveva
da dirmi.
Ho la pancia coperta da verbali e relazioni. In una mano stringo una collanina con un ciondolo, un
reperto che studio già da un po’. Ne osservo attentamente la superficie liscia, priva di qualsiasi
incisione.
Poi lascio ricadere la mano con un sospiro. Mi scoppia la testa.
Prima ho scoperto perché il comandante Jameson mi ha tirato fuori dall’università. Mi teneva
d’occhio da tempo e adesso improvvisamente le manca un uomo nella pattuglia di Metias, e vuole
aggiungere un agente. Il momento perfetto per accalappiarmi prima che lo facciano altri reclutatori. A
partire da domani, almeno per i primi tempi, Thomas ricoprirà il ruolo di Metias e io entrerò nella
pattuglia come detective in addestramento.
La mia prima missione: scovare Day.
«In passato abbiamo attuato diverse strategie per catturarlo, ma nessuna ha mai funzionato» mi ha
detto il comandante Jameson proprio prima di mandarmi a casa.
«Quindi. Ecco cosa faremo. Io porterò avanti le operazioni di routine. Tu, invece, vedremo come te
la caverai sul campo. Mostrami come inseguiresti Day.
Forse otterrai dei risultati. Forse no. Ma tu sei giovane e magari vedi le cose da una prospettiva
diversa. Se riesci a impressionarmi, ti promuoverò agente effettivo della mia pattuglia.
Ti renderò famosa, l’agente più giovane dell’intera Repubblica.» Chiudo gli occhi e cerco di
pensare.
Day ha ucciso mio fratello. Lo so perché sulla rampa delle scale che portano al secondo piano
abbiamo trovato un tesserino di riconoscimento rubato che ci ha permesso di risalire al soldato
ritratto nella foto, il quale ha fornito una mezza descrizione del ragazzo.
Il suo identikit non corrisponde a nessuno di quelli che abbiamo nel fascicolo di Day. La verità è che
sappiamo molto poco del suo aspetto, se non che è giovane, come il ragazzo di stanotte all’ospedale.
Le impronte digitali sul tesserino sono le stesse trovate il mese scorso su una scena del crimine
attribuita a Day, impronte che non appartengono a nessun civile schedato dalla Repubblica.
Day era lì, nell’ospedale. È stato anche abbastanza sbadato da lasciarsi dietro il tesserino.
Il che mi dà da pensare.
APROLIBRO.COM
L’irruzione di Day nel laboratorio in cerca di medicine fa parte di un piano disperato, dell’ultimo
minuto, mal congegnato. Deve aver rubato soppressori del morbo e antidolorifici perché non ha
trovato niente di più efficace. Di certo non è lui ad avere il morbo, considerando il modo in cui è
riuscito a scappare.
Però deve averlo qualcuno che conosce, qualcuno a cui tiene abbastanza da rischiare la propria vita.
Qualcuno che vive a Blueridge, a Lake, a Winter oppure ad Alta, tutti settori recentemente colpiti dal
morbo. Se è così, Day non lascerà la città tanto presto. Questo rapporto personale lo costringe a
rimanere, è spinto dalle emozioni.
Oppure Day potrebbe essere stato ingaggiato da qualcuno che lo ha pagato per mettere a segno il
colpo. Ma l’ospedale è un posto pericoloso e lo sponsor avrebbe dovuto sborsare parecchio. E se
c’erano in ballo tutti quei soldi, di sicuro Day avrebbe pianificato ogni minimo dettaglio e saputo
quand’era prevista la prossima consegna di medicinali contro il morbo. Inoltre Day non è mai stato
un mercenario, in nessuno dei suoi crimini precedenti. Ha attaccato le risorse dell’esercito della
Repubblica da solo, rallentato i rifornimenti alle truppe, e distrutto gli aeromobili e i jet in partenza
per il fronte. Il suo è un piano per impedirci di vincere contro le Colonie. Per un po’ abbiamo perfino
creduto che potesse lavorare per le Colonie, ma le sue missioni sono semplici, portate a termine
senza equipaggiamento tecnologico e senza copertura economica. Non proprio quello che ti
aspetteresti dal nostro nemico. Per quel che ne sappiamo non ha mai accettato incarichi su
commissione ed è poco probabile che abbia cominciato adesso. Chi altri assolderebbe un mercenario
mai testato prima? Un altro possibile sponsor sono i Patrioti ma, se Day avesse agito per loro, a
quest’ora uno dei Patrioti avrebbe già disegnato la loro bandiera su uno dei muri intorno alla scena
del crimine: tredici strisce rosse e bianche con cinquanta pallini bianchi su un rettangolo blu.
No, non si sarebbero fatti sfuggire l’occasione di reclamare la vittoria.
Ma più di ogni altra cosa, quella che torna meno è questa: Day non ha mai ucciso nessuno prima
d’ora.
Una ragione in più per cui non credo che sia legato ai Patrioti. In passato si è intrufolato in una zona
di quarantena legando un poliziotto di pattuglia per strada. Il poliziotto è stato ritrovato senza un
graffio, a parte un occhio nero. Un’altra volta è entrato nel caveau di una banca lasciando le quattro
guardie all’ingresso posteriore appena un po’ intontite. Ha persino dato fuoco a un intero squadrone
di caccia da combattimento su un campo d’aviazione deserto, nel cuore della notte, e in due diverse
occasioni ha atterrato delle aeronavi danneggiandone i motori. E ancora, ha deturpato la fiancata di
un edificio militare. Ha rubato soldi, viveri e altri beni. Ma non fa saltare bombe sul ciglio della
strada. Non spara ai soldati. Non pianifica omicidi mirati. In poche parole, non uccide.
Allora perché Metias?
Day avrebbe potuto scappare senza ucciderlo. Aveva del risentimento nei suoi confronti? Mio
fratello gli aveva fatto qualcosa in passato?
Non può essere stato un incidente, il coltello ha trapassato il cuore di mio fratello con precisione.
Dritto attraverso quel suo cuore intelligente, stupido, testardo e iperprotettivo.
Apro gli occhi, poi sollevo la mano e studio di nuovo il ciondolo.
Appartiene a Day, le impronte digitali ci hanno almeno detto questo. Si tratta di un dischetto rotondo
senza alcuna incisione, lo abbiamo ritrovato sul pavimento delle scale dell’ospedale insieme al
tesserino. Non è di alcuna religione che conosco. Non vale niente in termini economici, solo nichel e
rame e plastica. Il che significa che probabilmente non l’ha rubato e per lui ha un altro significato,
tanto da portarlo sempre con sé e rischiare di perderlo.
Magari è un portafortuna. Magari gli APROLIBRO.COM
è stato dato da qualcuno a cui è legato.
Magari è la stessa persona per la quale ha cercato di rubare la medicina. Il ciondolo racchiude un
segreto, ma non so quale.
Una volta le imprese di Day mi affascinavano. Adesso invece è il nemico con cui devo misurarmi, il
mio obiettivo. La mia prima missione.
Metto insieme i pensieri per due giorni e il terzo chiamo il comandante Jameson.
Ho un piano.
DAY
SOGNO DI ESSERE DI NUOVO ACASA.
Eden è seduto sul pavimento e sta disegnando dei cerchi sulle assi di legno. Ha quattro o cinque anni,
le guance paffute tipiche dei bambini. Si alza ogni pochi minuti e mi chiede di giudicare la sua arte.
John e io siamo rannicchiati sul divano e tentiamo invano di aggiustare la radio che abbiamo da anni.
Ricordo ancora quando papà la portò a casa. Ci dirà in quali quartieri c’è il morbo, aveva detto.
Però al momento tutte le sue viti e manopole giacciono consumate e senza vita sulle nostre ginocchia.
Chiedo aiuto a Eden, ma lui si limita a sghignazzare e ci dice di sbrigarcela da soli.
Mamma è da sola nel cucinino e cerca di preparare la cena. Questa è una scena che conosco bene. Ha
entrambe le mani avvolte da pesanti fasciature. Oggi, nel ripulire i bidoni dell’immondizia intorno a
Union Station, deve essersi tagliata con dei cocci di bottiglia o delle lattine vuote. Mentre divide dei
chicchi di mais congelato con la parte piatta del coltello, ha un sussulto. Le mani ferite le tremano.
Fermati, mamma. Ti aiuto io.
Provo ad alzarmi, ma i miei piedi sembrano incollati a terra.
Dopo un po’ sollevo la testa per vedere che cosa Eden stia disegnando. Non riesco a capire da subito
cosa siano quelle forme, sembrano scarabocchiate alla rinfusa, sparpagliate a casaccio sotto le sue
dita indaffarate.
Quando guardo con più attenzione, mi accorgo che sta disegnando dei soldati che irrompono in casa
nostra. Sta usando un pastello rosso sangue.
Mi sveglio di colpo. Da una finestra vicina filtrano dei deboli raggi di luce, grigi e calanti.
Sento il suono appena percettibile della pioggia. Sono in quella che assomiglia alla camera
APROLIBRO.COM
abbandonata di un bambino. La carta
da parati è blu e gialla e scollata agli angoli. Due candele
rischiarano la stanza. Mi accorgo che ho i piedi che spuntano dall’estremità del letto e un cuscino
sotto la testa. Quando cambio posizione, mi sfugge un lamento e chiudo gli occhi.
Vengo raggiunto dalla voce di Tess. «Riesci a sentirmi?» mi chiede.
«Parla più piano, cugina.» Le parole mi escono dalle labbra secche come un sussurro.
Un’emicrania lancinante mi fa scoppiare la testa. Tess riconosce la sofferenza sul mio viso e rimane
in silenzio mentre tengo chiusi gli occhi e aspetto che passi. Il dolore però continua, come un piccone
che non smette di martellarmi.
Dopo un’eternità, l’emicrania comincia finalmente a svanire. Apro gli occhi. «Dove sono? Tu stai
bene?» Metto a fuoco la faccia di Tess.
Ha i capelli tirati indietro in una treccia corta, le labbra rosa e sorridenti. «Se io sto bene?» dice.
«Sei rimasto K.O. per più di due giorni. Tu come ti senti?» Il dolore mi investe a ondate, stavolta
dalle ferite che devo avere ovunque. «Alla grande.» Il sorriso di Tess sparisce. «Ci sei andato
vicino, c’è mancato un pelo.
Se non avessi trovato qualcuno pronto a ospitarci, non credo che ce l’avresti fatta.» All’improvviso
ricordo ogni cosa.
L’entrata dell’ospedale, il tesserino rubato, le scale e il laboratorio, la lunga caduta, il coltello
lanciato al capitano, le fogne. La medicina.
La medicina. Provo a sedermi, ma mi muovo troppo in fretta e devo mordermi il labbro per non
gridare. Mi porto la mano al collo, nessun ciondolo da afferrare. Sento una stretta al petto. L’ho
perso.
Quel ciondolo me l’aveva dato mio padre e sono stato così sbadato da perderlo.
Tess prova a calmarmi. «Piano, non agitarti.»
«La mia famiglia sta bene?
Qualche fiala è sopravvissuta alla caduta?»
«Qualcuna.» Tess mi aiuta a rimettermi giù prima di appoggiarsi con i gomiti sul letto. «Meglio i
soppressori di niente. Li ho già portati a casa di tua madre, insieme al tuo fagotto di regali. Sono
passata dal retro e ho dato tutto a John. Mi ha chiesto di ringraziarti.»
«Non gli avrai per caso detto quello che è successo?» Tess alza gli occhi al cielo.
«Pensi che potessi tenerglielo nascosto? A quest’ora tutti sanno dell’incursione all’ospedale e John
sa che sei ferito. È piuttosto arrabbiato.»
«Ti ha detto chi è che sta male?
Eden? Mamma?» Tess si morde il labbro. «Eden.
John dice che per il momento lui e tua mamma stanno bene.
Comunque Eden riesce a parlare e sembra abbastanza cosciente. Ha provato ad alzarsi per aiutare tua
madre ad aggiustare una perdita sotto il lavandino, per dimostrare che è in forze, ma ovviamente lei
lo ha rispedito a letto. Tua madre ha usato due delle camicie di John per farne dei panni freschi, per
cercare di abbassare la febbre di Eden, perciò John ha detto che se trovi altri vestiti della sua misura
li accetterebbe volentieri.» Emetto un lungo sospiro. Eden. È proprio da lui, giocare al piccolo
ingegnere pur avendo il morbo.
Almeno sono riuscito a prendere delle medicine. Tutto si aggiusterà.
Per un po’ Eden starà bene e non m’importa di dovere affrontare le prediche di John. Invece per il
ciondolo, be’... per un attimo sono contento che mia madre non verrà a saperlo, perché le
spezzerebbe il cuore.
«Non sono riuscito a trovare nessun antidoto
e non ho avuto il tempo di cercare.»
APROLIBRO.COM
«Non fa niente» risponde Tess, mentre prepara un bendaggio pulito per il mio braccio. Vedo il mio
vecchio berretto consunto appeso allo schienale della sua sedia. «La tua famiglia ha un po’ di tempo.
Ci sarà un’altra occasione.»
«In casa di chi siamo?» Appena formulo la domanda sento una porta chiudersi, poi un rumore di
passi nella stanza accanto. Guardo Tess allarmato, ma lei mi fa un cenno con la testa e mi dice di
rilassarmi.
Entra un uomo, che scrolla gocce di pioggia sporca da un ombrello. In mano ha una busta di carta
marrone. «Sei sveglio» mi dice.
«Bene.» Studio la sua faccia. È molto pallido e pienotto, con sopracciglia cespugliose e occhi
amichevoli. «Ragazzina,» continua guardando Tess «pensi che ce la farà a muoversi per domani
sera?»
«Ce ne andremo prima di allora.» Tess prende una bottiglia con un liquido trasparente, forse alcol, e
bagna gli angoli della garza.
Quando l’appoggia sul punto in cui il proiettile mi ha colpito di striscio il braccio, mi ritraggo.
Sembra che mi abbia avvicinato alla pelle un fiammifero acceso.
«Grazie ancora, signore, per averci fatto stare qui.» L’uomo risponde con un grugnito, l’espressione
incerta, e imbarazzato fa un cenno con la testa. Si guarda intorno come se cercasse qualcosa.
«Mi dispiace, ma non posso tenervi di più. La pattuglia anti-morbo farà un altro rastrellamento molto
presto.» Ha un attimo di esitazione, poi estrae due lattine dalla busta di carta e le appoggia su un
cassettone. «Ti ho preso del chili di carne. Non è dei migliori, ma ti riempirà la pancia. Ti porto
anche del pane.» Prima che uno di noi possa dire qualcosa, esce di corsa dalla stanza con il resto
della spesa.
Mi guardo il corpo per la prima volta. Indosso un paio di pantaloni militari marroni e ho il torso
nudo e le braccia avvolte dalle bende.
Come pure una gamba. «Perché ci sta aiutando?» chiedo a Tess sottovoce.
Lei alza gli occhi, smettendo di arrotolare una garza pulita intorno al mio braccio. «Non essere
sospettoso. Aveva un figlio al fronte che è morto per il morbo qualche anno fa.» Tess fa un nodo
finale alla garza e mi scappa un urlo.
«Respira a fondo.» Obbedisco.
Mentre preme delicatamente le dita su parti diverse del mio torace, vengo pugnalato dalle fitte. Le si
arrossano le guance. «Forse hai una costola incrinata, ma niente di rotto. Dovresti riprenderti in
fretta.
Comunque, l’uomo non ha voluto che gli dicessi i nostri nomi e io non gli ho chiesto il suo. Meglio
non saperlo. Gli ho spiegato come hai fatto a ridurti così e forse gli ha ricordato il figlio.» Rimetto la
testa sul cuscino. Ho il corpo tutto indolenzito. «Ho perso tutti e due i coltelli» mormoro, in modo
che l’uomo non mi senta.
«Erano dei buoni coltelli.»
«Mi dispiace, Day» dice Tess. Si scansa una ciocca di capelli dalla faccia e si china su di me. In
mano ha una bustina di plastica trasparente con dentro tre bossoli argentati.
«Ho trovato questi impigliati nelle pieghe dei tuoi vestiti e ho pensato che forse li volevi per la tua
fionda.» M’infila la busta in una delle tasche.
Mi viene da sorridere. La prima volta che ho incontrato Tess tre anni fa era un’orfana di dieci anni
che rovistava tra i bidoni dell’immondizia nel settore Nima.
Allora aveva così tanto bisogno del mio aiuto che a volte mi dimentico di quanto adesso io faccia
affidamento su di lei.
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«Grazie, cugina» le dico. Lei bofonchia qualcosa che non capisco e guarda da un’altra parte.
Dopo un po’ mi addormento profondamente.
Quando mi risveglio, non so quanto tempo sia passato. Il mal di testa è sparito e fuori è buio.
Potrebbe essere lo stesso giorno, ma ho la sensazione di aver dormito troppo perché sia così. Niente
soldati, niente polizia.
Siamo ancora vivi. Resto immobile per un istante, perfettamente sveglio nell’oscurità. Sembra che il
nostro guardiano non ci abbia denunciato. Ancora.
Tess sonnecchia sul bordo del letto con la testa appoggiata sulle braccia. A volte vorrei poterle
trovare una casa come si deve, una famiglia disposta ad accoglierla. Ma ogni volta che ho questo
pensiero lo allontano dalla mente perché, se si unisse a una famiglia vera, tornerebbe nella rete della
Repubblica all’istante. E verrebbe costretta ad affrontare la Prova perché non l’ha mai sostenuta. O
peggio, scoprirebbero il suo legame con me e la interrogherebbero.
Scuoto la testa. Tess è troppo ingenua, troppo facile da manipolare. Non l’affiderei mai a nessun
altro. E poi... sentirei la sua mancanza. I primi due anni passati a vagabondare da solo sono stati
tristi.
Roteo lentamente la caviglia. È un po’ indolenzita, ma a parte quello nessun dolore, nessun muscolo
stirato e gonfiore preoccupante.
La ferita del proiettile brucia ancora e le costole mi fanno un male atroce, ma stavolta sono
abbastanza forte da mettermi a sedere senza troppi problemi. In un gesto automatico mi tocco i
capelli, sciolti e lunghi oltre le spalle. Con una mano li raccolgo in una coda disordinata e li
attorciglio su loro stessi. Quindi mi chino sopra Tess, prendo dalla sedia il mio berretto rovinato e
me lo infilo. Le braccia mi bruciano per lo sforzo.
Sento odore di chili e pane. Sul cassettone accanto al letto c’è una scodella fumante con un panino in
equilibrio sul bordo. Ripenso alle due lattine che il padrone di casa ha lasciato poco fa.
Lo stomaco brontola. Divoro fino all’ultima briciola.
Mentre lecco i resti del chili dalle dita, sento una porta che si chiude in qualche parte della casa e,
poco dopo, un rumore di passi che corrono verso la nostra stanza. Mi irrigidisco. Tess si sveglia di
soprassalto e mi afferra il braccio.
«Cos’è stato?» farfuglia. Mi porto un dito davanti alla bocca.
Il nostro benefattore si precipita nella stanza con addosso una vestaglia strappata sopra al pigiama.
«Dovete andarvene, adesso» sussurra. Ha la fronte imperlata di sudore. «Ho appena sentito che un
uomo vi sta cercando.» Lo fisso negli occhi. Tess mi guarda spaventata. «Come lo sai?» gli chiedo.
L’uomo comincia a sgomberare la stanza, prendendo la mia ciotola vuota e pulendo il cassettone. «Se
ne va in giro dicendo che ha quella cura per il morbo, che serve a qualcuno. Dice di sapere che sei
ferito. Non ha detto come si chiama, ma è chiaro che parla di te.» Mi tiro su di scatto e mi siedo sul
bordo del letto. Adesso non abbiamo scelta. «Parla di me» convengo con l’uomo. Tess arraffa in
fretta qualche benda pulita e se la infila sotto la maglia. «È una trappola.
Dobbiamo andarcene subito.» L’uomo annuisce senza un attimo di esitazione. «Potete uscire dalla
porta sul retro. Dritto in fondo al corridoio, sulla sinistra.» Mi prendo un attimo per incontrare il suo
sguardo. In quell’istante capisco che sa esattamente chi sono, ma non lo direbbe mai ad alta voce.
Come altre persone nel nostro settore che hanno capito chi sono e mi hanno dato una mano in passato,
anche lui non ha un granché da ridire sui problemi che causo alla Repubblica.
«Ti siamo molto riconoscenti» gli dico.
Lui non ribatte. Prendo Tess per mano e ci incamminiamo fuori dalla stanza, lungo il corridoio e
attraverso la porta sul retro. La notte
è densa di umidità. Il dolore delle ferite mi fa lacrimare gli
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occhi.
Avanziamo nel silenzio dei vicoli secondari per sei isolati prima di rallentare il passo. Ora le mie
ferite stanno urlando. Alzo una mano per consolarmi sfiorando il mio ciondolo, ma poi mi ricordo
che non è più intorno al collo. Una sensazione di malessere mi sale nello stomaco. E se la
Repubblica capisse cos’è? Lo distruggerebbero?
E se riuscissero a risalire alla mia famiglia?
Tess si accascia a terra e appoggia la testa al muro del vicolo. «Dobbiamo lasciare la città» mi dice.
«Qui è troppo pericoloso, Day. Lo sai anche tu. Saremmo più al sicuro in Arizona o nel Colorado,
ma anche Barstow andrebbe bene, al limite. La periferia non è poi così male.» Sì, certo. Lo so
benissimo.
Abbasso lo sguardo. «Anch’io vorrei andarmene.»
«Ma non lo farai. Te lo leggo negli occhi.» Rimaniamo in silenzio per un po’.
Se dipendesse da me attraverserei l’intero paese da solo e fuggirei nelle Colonie il prima possibile.
Non m’importa di rischiare la mia vita.
Ma ci sono decine di motivi per cui non posso andarmene e Tess lo sa.
Non è che John e mamma possono prendere e mollare i lavori a loro assegnati per scappare con me,
non senza far scattare un allarme. Non è che Eden può ritirarsi dalla scuola a cui è stato destinato. A
meno che non vogliano diventare dei fuggitivi come me.
«Vedremo» dico alla fine.
Tess mi rivolge un sorriso tristissimo. «Chi credi che ti stia cercando?» mi chiede dopo un po’.
«Come fanno a sapere che siamo nel settore Lake?»
«Non lo so. Potrebbe essere uno spacciatore che ha sentito dell’irruzione in ospedale. Magari pensa
che abbiamo un mucchio di soldi o roba del genere. Magari è un soldato, o una spia. In ospedale ho
perso il mio ciondolo, non so come potrebbero usarlo per scoprire qualcosa sul mio conto, ma c’è
sempre una possibilità.»
«Cos’hai deciso di fare?» Alzo le spalle. La ferita sul braccio ha preso a pulsare e uso il muro per
sostenermi. «Chiunque sia, di sicuro non ho intenzione di incontrarlo. Però devo ammetterlo, sarei
curioso di sentire cos’ha da dire. E se avesse davvero una cura per il morbo?» Tess mi fissa. È la
stessa espressione che aveva la prima sera che l’ho conosciuta: fiduciosa, curiosa e spaventata allo
stesso tempo. «Be’... non sarebbe più pericoloso della tua stupida irruzione in ospedale, non credi?»
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JUNE
NON SO SE È PERCHÉ HA COMPASSIONE DI ME o se davvero prova qualcosa per la perdita di
Metias, uno dei suoi soldati più valorosi, ma il comandante Jameson mi aiuta a organizzare il
funerale, e non l’ha mai fatto prima per nessuno dei suoi soldati. Si rifiuta di dire perché abbia
deciso così.
Le famiglie facoltose come la nostra organizzano sempre funerali elaborati e quello di Metias si
svolge dentro un edificio con arcate barocche che svettano verso il cielo e vetrate colorate. I
pavimenti nudi sono stati rivestiti di moquette bianca e la stanza è piena di tavoli da pranzo
traboccanti di lillà bianchi. Le uniche note di colore provengono dalle bandiere e dal sigillo d’oro
circolare della Repubblica appesi dietro l’altare centrale, con il ritratto del nostro glorioso Elector
Primo che sovrasta ogni cosa.
Tutti i presenti sono vestiti con i loro abiti bianchi migliori. Io ne indosso uno elaborato, dotato di
merletti e corsetto, con una sovragonna di seta a balze chiusa sul retro. Il bustino è tenuto insieme da
un fermaglio d’oro bianco con il sigillo della Repubblica. Il parrucchiere mi ha sistemato i capelli in
un’acconciatura alta, con alcuni riccioli lasciati liberi che ricadono su una spalla e una rosa bianca
appuntata dietro l’orecchio. La collana che mi avvolge la gola è un filo di perle. Ho le palpebre
ricoperte di ombretto bianco luccicante, le ciglia bagnate nella neve e le occhiaie nascoste da cipria
bianca brillante. A ogni cosa è stato strappato via il colore, proprio come Metias è stato strappato
dalla mia vita.
Una volta Metias mi ha detto che non è sempre stato così, che solo dopo le prime inondazioni ed
eruzioni vulcaniche, dopo che la Repubblica ha costruito una barriera lungo il fronte per impedire ai
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disertori delle Colonie di entrare illegalmente
nel nostro territorio, la gente ha cominciato a piangere
i propri morti vestendo di bianco.
«Dopo le prime eruzioni,» mi spiegò «cenere bianca è scesa dal cielo per mesi. I morti e i moribondi
ne erano ricoperti. Perciò adesso ci si veste di bianco per onorare i defunti.» Me lo aveva detto
perché gli avevo chiesto come si era svolto il funerale dei nostri genitori.
Adesso vago tra gli ospiti, smarrita e senza meta, rispondendo alle frasi di cordoglio di quelli che mi
circondano con parole appropriate, preparate. «Mi dispiace molto per la sua perdita» mi dicono.
Riconosco alcuni insegnanti, compagni d’armi e superiori di Metias. Ci sono anche un paio di miei
compagni. Sono sorpresa di vederli. Durante i miei tre anni di università non sono mai stata brava a
stringere amicizie, considerando la mia età e il pesante piano di studi. Eppure sono qui, alcuni dalle
esercitazioni pomeridiane e altri dal corso di Storia della Repubblica 421. Mi prendono la mano e
scuotono la testa. «Prima i tuoi genitori e adesso tuo fratello. Non riesco a immaginare quanto
dev’essere dura per te.» No, non puoi. Sorrido lo stesso cortesemente e saluto chinando il capo,
perché so che non lo fanno con cattiveria. «Grazie per essere venuto» dico a tutti. «Significa molto
per me. So che Metias sarebbe fiero di aver dato la vita per la patria.» Di tanto in tanto colgo lo
sguardo ammirato di qualche cascamorto dall’altra parte della sala, che ignoro sistematicamente.
Non so che farmene di certi sentimenti. Il mio vestito non è per loro. È solo per Metias che indosso
questo abito inutilmente raffinato, per mostrare quanto lo amo senza ricorrere alle parole.
Dopo un po’ mi siedo a un tavolo nella parte davanti della sala, rivolta verso l’altare addobbato di
fiori che presto vedrà sfilare una parata di persone ansiose di leggere il proprio elogio a mio fratello.
Chino il capo in segno di rispetto alle bandiere della Repubblica, poi i miei occhi si spostano sulla
bara bianca sistemata lì accanto. Da qui riesco a vedere solo una parte della persona che giace al suo
interno.
«È davvero incantevole, June.» Alzo lo sguardo per vedere Thomas che fa un inchino e poi occupa il
posto vicino al mio. Ha scambiato i suoi vestiti militari con un elegante abito con panciotto e si è
appena tagliato i capelli. Si vede che il completo è nuovo di zecca e dev’essergli costato una fortuna.
«Grazie, anche tu.»
«Cioè... quello che volevo dire è che è incantevole date le circostanze, visto tutto quello che è
capitato.»
«Lo so quello che volevi dire.» Allungo la mano e gli do un buffetto sulla sua per tranquillizzarlo.
Lui mi sorride e sembra che voglia aggiungere qualcos’altro, poi però cambia idea e distoglie lo
sguardo.
Ci vuole mezz’ora prima che tutti trovino il proprio posto e un’altra mezz’ora prima che i camerieri
comincino ad arrivare con le portate. Non mangio niente. Il comandante Jameson è seduto di fronte a
me all’estremità opposta del tavolo e tra lei e Thomas ci sono tre miei compagni di università, con i
quali scambio dei sorrisi forzati. Alla mia sinistra siede un uomo di nome Chian che organizza e
supervisiona tutte le Prove che si svolgono a Los Angeles. Anche la mia. Quello che non capisco è
perché sia qui, cosa gliene importi che Metias sia morto.
È una vecchia conoscenza dei nostri genitori, perciò la sua presenza non è del tutto inaspettata, ma
perché è seduto proprio accanto a me?
Poi mi torna in mente che Chian era stato il mentore di Metias prima che entrasse a far parte della
squadra del comandante Jameson.
Metias lo odiava.
Adesso l’uomo corruga le sopracciglia cespugliose e mi piazza una mano sulla spalla scoperta. La
lascia lì per un po’. «Come ti senti, mia
cara?» Le sue parole deformano le cicatrici che ha sul volto,
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un taglio sul ponte del naso e un altro segno frastagliato che dall’orecchio gli arriva fin sotto al
mento.
Riesco in qualche modo a sorridere. «Meglio del previsto.»
«Be’, avrei detto lo stesso.» Gli esce una risata che mi fa ritrarre. I suoi occhi mi squadrano dalla
testa ai piedi. «Con quel vestito addosso sembri proprio un fiorellino.» Ci vuole tutto il mio
autocontrollo per conservare il sorriso sulla faccia.
Stai calma, dico a me stessa. Chian non è un uomo da farsi nemico.
«Devi sapere che volevo molto bene a tuo fratello» continua con eccessiva partecipazione. «Me lo
ricordo ragazzino, avresti dovuto vederlo. Non faceva che correre per il salotto dei tuoi genitori con
le dita puntate come una pistola.
Destinato fin da piccolo a entrare nelle nostre squadre.»
«Grazie, signore» gli dico.
Chian taglia un grosso pezzo di bistecca e se lo ficca in bocca.
«Durante il periodo in cui l’ho avuto sotto la mia guida è sempre stato molto attento. Un leader nato.
Te ne ha mai parlato?» Un’immagine mi attraversa la mente. La notte di pioggia in cui Metias iniziò a
lavorare per Chian.
Quella sera mi portò fuori – insieme a Thomas, che andava ancora a scuola – nel settore Tanagashi,
dove mangiai la mia prima scodella di maiale edame con spaghetti e involtini di cipolle dolci.
Ricordo che indossavano tutti e due l’uniforme completa, Metias con la giacca sbottonata e la
camicia fuori dai pantaloni, Thomas impeccabile come al solito, i capelli accuratamente pettinati
all’indietro.
Thomas mi prendeva in giro per i codini spettinati, invece Metias era silenzioso. Poi, una settimana
dopo, il suo apprendistato con Chian cessò in modo brusco. Metias aveva presentato un ricorso e fu
riassegnato alla pattuglia del comandante Jameson.
«Mi ha detto che erano tutte informazioni riservate» mento.
Chian ride ancora. «Davvero un bravo ragazzo, quel Metias. Una gran recluta. Immagina la mia
delusione quando fu riassegnato alla pattuglia cittadina. Mi disse che non era abbastanza sveglio per
giudicare le Prove o i ragazzini che le avevano già affrontate. Che persona modesta. Sempre più
intelligente di quanto non pensasse, proprio come te.» A questo punto mi fa un largo sorriso e io
annuisco.
Chian mi ha fatto rifare la Prova una seconda volta perché avevo ottenuto il punteggio perfetto in
tempo record (un’ora e dieci minuti). Pensava che avessi imbrogliato. Non solo il mio è l’unico
punteggio perfetto in tutta la nazione, ma probabilmente sono l’unica che è stata sottoposta alla P r o
v a due volte. «Lei è molto gentile» rispondo. «Mio fratello era un leader migliore di quanto io non
sarò mai.» Chian mi zittisce con un gesto della mano. «Sciocchezze, mia cara.» Poi si piega verso di
me, avvicinandosi in modo fastidioso.
Ha un non so che di viscido e sgradevole che mi mette a disagio.
«Personalmente sono devastato dal modo in cui è morto» continua.
«Per mano di quel delinquente. Che vergogna!» Chian stringe gli occhi e le sue sopracciglia
sembrano ancora più folte. «Quando il comandante Jameson mi ha riferito che sarai tu a dargli la
caccia, mi sono sentito sollevato. La faccenda richiede un approccio nuovo e tu sei la bambolina
giusta per farlo. Che gioiellino di prima missione, eh?» Lo odio con tutta me stessa.
Thomas dev’essersi accorto di quello che provo, perché sento la sua mano posarsi sulla mia sotto al t
a v o l o. Non gli dia peso, sta cercando di dirmi.
Quando finalmente Chian si gira dall’altra
parte per rispondere alla domanda dell’uomo seduto
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accanto a lui, Thomas si piega verso di me.
«Chian nutre del rancore contro Day» mi sussurra.
«Dici sul serio?» bisbiglio a mia volta.
Lui annuisce. «Chi pensa sia stato a regalargli quella cicatrice?» È stato Day? Non riesco a tenere
lontana la sorpresa dalla faccia.
Chian è un uomo piuttosto corpulento e lavora per l’amministrazione della Prova da che io ricordi. È
un ufficiale addestrato. Un adolescente avrebbe potuto davvero ferirlo in quel modo? E passarla
liscia? Lancio uno sguardo a Chian e studio la cicatrice. È un taglio netto fatto con una lama liscia.
Deve anche essere successo in fretta, per essere una linea così dritta. Non riesco a immaginare Chian
che rimane fermo mentre qualcuno lo affetta in quel modo. Per un attimo, giusto una frazione di
secondo, sono dalla parte di Day. Alzo gli occhi sul comandante Jameson, che mi fissa come se
leggesse i miei pensieri. Mi mette a disagio.
La mano di Thomas tocca di nuovo la mia. «Ehi» mi dice. «Day non può nascondersi al Governo per
sempre, prima o poi staneremo quel teppistello e gli daremo una punizione esemplare. Non può
competere con lei, specialmente quando si mette in testa qualcosa.» Il sorriso gentile di Thomas mi fa
sentire fragile e d’un tratto mi sembra che sia Metias quello seduto accanto a me, a dirmi che andrà
tutto bene e a rassicurarmi che la Repubblica non mi trascurerà. Una volta mio fratello aveva giurato
di restare per sempre al mio fianco. Sposto gli occhi da Thomas all’altare, in modo che non veda le
mie lacrime. Non posso ricambiare il suo sorriso. Non credo che sorriderò mai più.
«Facciamola finita» dico sottovoce.
DAY
NONOSTANTE SIA QUASI SERA, fa ancora un caldo d’inferno. Cammino zoppicando per le strade
lungo il confine tra i settori Alta e Winter, seguo la curva del lago e poi esco allo scoperto,
perdendomi nella calca di persone che avanza a fatica. Le mie ferite si devono ancora rimarginare.
Indosso i pantaloni militari che mi ha dato il nostro benefattore insieme a una sottile camicia che
Tess ha trovato in un cassonetto e il berretto abbassato sulla fronte; ho aggiunto al mio travestimento
una benda sull’occhio sinistro.
Niente di insolito. Non in questo mare di operai infortunati sul lavoro. Oggi sono uscito per conto
mio, Tess è rimasta al sicuro diverse strade più giù, nascosta sul balcone di un primo piano. Non
vedo il motivo di rischiare in due se non ce n’è bisogno.
Rumori familiari mi circondano: venditori ambulanti di uova d’anatra bollite e frittelle e hot dog che
richiamano i passanti. Sulla porta delle drogherie e delle caffetterie gli inservienti cercano di
procurarsi dei clienti. Una macchina vecchia di decenni passa sferragliando. Gli operai del secondo
turno stanno lentamente tornando a casa. Alcune ragazze mi notano e arrossiscono quando le guardo.
Intorno al lago scoppiettano i motori delle barche, attente a evitare le enormi turbine idrauliche che
mulinano lungo le sponde, e sulla costa le sirene d’allarme alluvione sono mute e spente.
L’accesso ad alcune aree è bloccato. Da lì mi tengo alla larga, i soldati le hanno marcate come zone
di quarantena.
Gli altoparlanti allineati sui tetti dei palazzi crepitano e schioccano e i jumbo-schermi interrompono i
loro spot – o, in alcuni casi, i bollettini su un altro attacco dei Patrioti ribelli – per mostrare un
filmato della bandiera della Repubblica.
Tutti per strada si fermano e, quandoAPROLIBRO.COM
inizia il giuramento, si zittiscono.
Giuro fedeltà alla bandiera della grande Repubblica d’America, al nostro Elector Primo, ai nostri
gloriosi stati, all’unità contro le Colonie, alla nostra vittoria imminente!
Quando viene nominato l’Elector Primo, facciamo il saluto in direzione della capitale. Bofonchio il
giuramento sottovoce, ma rimango in silenzio durante gli ultimi due passaggi, quando i poliziotti non
guardano dalla mia parte. Mi domando quale fosse la formula prima che entrassimo in guerra con le
Colonie.
Quando il giuramento finisce, la vita ricomincia. Entro in un bar in stile orientale ricoperto di graffiti.
L’inserviente alla porta sfoggia un largo sorriso a cui mancano molti denti e subito mi fa strada
dentro.
«Oggi abbiamo vera birra Tsingao» mi bisbiglia. «Casse d’avanzo di un regalo d’importazione
spedito al nostro glorioso Elector Primo in persona. La diamo fino alle sei.» Mentre lo dice, i suoi
occhi guizzano intorno furtivi. Io mi limito a fissarlo. Birra Tsingao? Sì, come no.
Mio padre si sarebbe sbellicato. La Repubblica non ha firmato un accordo d’importazione con la
Cina (o, come piace dire ai portavoce della Repubblica: un piano per conquistare la Cina e assumere
il controllo dei loro affari) solo per spedire prodotti di qualità ai settori poveri. È più probabile che
il tizio che ho davanti sia in ritardo con i pagamenti delle tasse bimestrali.
Non vedo altro motivo per rischiare, piazzando false etichette Tsingao sulle sue bottiglie di birra
fatta in casa.
Ringrazio comunque l’uomo ed entro. Un posto vale l’altro per raccogliere informazioni.
Il locale è buio. L’aria puzza di fumo, carne fritta e lampade a gas.
Mi faccio strada tra il groviglio di tavoli e sedie – e mentre avanzo sgraffigno cibo da un paio di
piatti incustoditi e me lo infilo sotto la camicia – fino a raggiungere il bancone. Dietro di me, una
cerchia nutrita di clienti sta applaudendo un incontro di skiz. Immagino che questo bar tolleri le
scommesse clandestine. Se sono furbi, saranno anche pronti a corrompere la polizia in qualsiasi
momento con i ricavi delle vincite, a meno che non vogliano ammettere apertamente di guadagnare
soldi in nero.
La barista non si prende il disturbo di controllare la mia età.
Non mi guarda nemmeno. «Cosa bevi?» mi chiede.
Scuoto la testa. «Solo un po’ d’acqua, grazie» rispondo. Alle nostre spalle sento uno scroscio di
applausi e grida di esultanza per un combattente che è andato al tappeto.
La barista mi lancia un’occhiata sospettosa. Il suo sguardo cade subito sulla benda che ho all’occhio.
«Che ti è successo alla faccia, ragazzo?»
«Incidente su ai pascoli. Bado alle mucche.» Fa una smorfia disgustata, ma adesso sembra interessata
a me.
«Che peccato. Sicuro di non volere una birra per il dolore? Deve farti male.» Scuoto di nuovo la
testa.
«Grazie, cugina, ma non bevo. Mi piace stare all’erta.» La tipa mi sorride. Alla luce tremolante della
lampada sembra carina, con l’ombretto verde brillante sulle palpebre e i capelli neri corti a
caschetto. Il tatuaggio di una pianta rampicante le serpeggia giù per il collo e le sparisce nella
camicia, sotto al corsetto. Appesi intorno al collo ha un paio di occhialoni sporchi, forse per
proteggersi dalle risse da bar.
Quasi un peccato. Se non fossi occupato a raccogliere informazioni perderei un po’ più di tempo con
questa ragazza, magari scambiandoci due chiacchiere e cercando di strapparle un bacio o anche tre.
«Sei di Lake, giusto?» mi chiede. APROLIBRO.COM
«Hai deciso di fare un salto qui e spezzare il cuore a qualche ragazza? Oppure vuoi combattere?»
Indica l’incontro di skiz con un cenno della testa.
«Lo lascio fare a te.»
«Cosa ti fa pensare che io combatta?» dice.
Accenno con il mento alle cicatrici che ha sulle braccia e ai lividi sulle mani. Lei mi sorride.
Dopo un attimo alzo le spalle.
«Non metterei piede in uno di quei ring neanche morto. Mi sto soltanto prendendo una pausa dal sole.
Sembri di compagnia, lo sai? Voglio dire, a meno che tu non abbia il morbo.» La battuta è scontata,
ma lei ride lo stesso. Poi si china sul bancone.
«Vivo ai margini del settore. Per il momento è un posto sicuro.» Mi sporgo verso di lei. «Allora sei
fortunata.» Divento serio. «A una famiglia che conosco hanno appena marcato la porta.»
«Mi dispiace per loro.»
«Voglio chiederti una cosa, tanto per curiosità. Hai sentito niente su un uomo che negli ultimi giorni
se ne va in giro da queste parti, un tizio che dice di avere medicine per il morbo?» La ragazza solleva
un sopracciglio.
«Sì, ho sentito qualcosa. C’è un mucchio di gente che lo sta cercando.»
«E che cosa racconta?» La ragazza ha un momento di esitazione. Mi accorgo che ha delle piccole
lentiggini sul naso. «Ho sentito dire che vuole dare una cura per il morbo a qualcuno, una persona in
particolare. Che la persona in questione sa che sta parlando di lui.» Cerco di assumere un’aria
divertita. «Proprio una persona fortunata, eh?» Lei arriccia il naso. «Sul serio. Ha detto che vuole
incontrare questa persona a mezzanotte, stanotte, nel luogo dei “dieci secondi”.»
«Il luogo dei dieci secondi?» La barista alza le spalle. «Che il diavolo mi porti se so che significa.
Per quanto mi riguarda, nessuno lo sa.» Si china sul bancone e abbassa la voce. «Sai cosa penso?
Penso che questo tizio sia solo uno svitato.» Mi unisco a lei in una risata, ma la mia mente si è messa
a girare.
Adesso non ho dubbi che questa persona stia cercando proprio me.
Quasi un anno fa sono entrato nella banca Arcadia passando dal retro.
Una delle guardie di sicurezza ha tentato di uccidermi. Quando mi ha sputato addosso dicendomi che
il laser della cassaforte mi avrebbe fatto a pezzi, gli ho riso in faccia. Gli ho risposto che ci avrei
messo dieci secondi a entrare nella stanza blindata. Lui non mi ha creduto... ma tanto nessuno crede
mai a quello che dico finché non lo faccio.
Con quei soldi ho comprato un bel paio di stivali e perfino un’elettrobomba al mercato nero, un
ordigno che mette fuori uso tutte le armi da fuoco nelle sue vicinanze. Mi è tornata utile quando ho
attaccato la base aerea. A Tess invece è toccato un intero guardaroba, camicie nuove di zecca e
scarpe e pantaloni, bende, alcol disinfettante e anche una boccetta di aspirine. Tutti e due ci siamo
riforniti di cibo in quantità. Il resto l’ho dato alla mia famiglia e ad altra gente di Lake.
Dopo aver flirtato per una buona manciata di minuti, saluto la ragazza del bar e vado via. Il sole è
ancora alto nel cielo e sento il sudore imperlarmi la faccia. Adesso ne so abbastanza. Il Governo
deve aver trovato qualche indizio nell’ospedale e adesso vuole attirarmi in una trappola.
A mezzanotte invierà un suo uomo nel luogo dei dieci secondi e piazzerà soldati lungo tutto il vicolo.
Scommetto che pensano che io sia davvero disperato.
Probabilmente porteranno anche un po’ di medicine per il morbo, però, per tentarmi a uscire allo
scoperto.
Stringo le labbra, immerso nei miei pensieri. Quindi cambio direzione e m’incammino verso il
distretto finanziario.
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Ho un appuntamento da rispettare.
JUNE
ORE 23.29.
SETTORE BATALLA.
TEMPERATURA INTERNA 22 °C.
LE LUCI NEL PALAZZO GOVERNATIVO DI BATALLA sono fredde e fluorescenti.
Mi vesto in un bagno del reparto osservazione e analisi. Indosso una maglia nera a maniche lunghe
sotto una canottiera nera a strisce, pantaloni neri stretti infilati negli anfibi e un lungo mantello nero
con una banda bianca centrale che arriva fino a terra, che mi avvolge le spalle e mi copre come una
coperta. Ho il volto nascosto da una maschera nera e gli occhi schermati da occhiali protettivi a
infrarossi. A parte questo, ho con me soltanto un minuscolo microfono e un auricolare ancora più
piccolo. E una pistola. Per ogni evenienza.
Devo sembrare asessuata, anonima, non identificabile. Devo somigliare a uno spacciatore del
mercato nero, a qualcuno di abbastanza ricco da potersi permettere delle cure per il morbo.
Metias scuoterebbe la testa. Non puoi andare in missione segreta da sola, June, mi direbbe. Potresti
farti male. Com’è ironico.
Stringo la fibbia che tiene a posto il mantello (acciaio rivestito di bronzo, probabilmente importato
dal Texas Occidentale) e mi dirigo verso le scale che mi condurranno fuori dal Palazzo di Batalla e
giù verso la banca Arcadia, dove dovrei incontrare Day.
Mio fratello è morto solo da centoventi ore ma sembra passata un’eternità. Settanta ore fa ho ottenuto
l’autorizzazione per fare una ricerca in internet e ho trovato tutto quello che ho potuto su Day.
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Quaranta ore fa, ho presentato al comandante
Jameson un piano per stanare Day. Trentadue ore fa il
piano è stato approvato, ma dubito che il comandante ricordi in cosa consista. Trenta ore fa ho
inviato degli esploratori in ogni settore di Los Angeles infestato dal morbo: Winter, Blueridge, Lake
e Alta. Sono stati loro a spargere la voce: qualcuno ha la medicina per il morbo, vieni a prenderla
nel luogo dei dieci secondi. Ventinove ore fa ho partecipato al funerale di mio fratello.
Non prevedo di catturare Day stanotte. Non prevedo neanche di incontrarlo. Lui sa esattamente dove
si trova il luogo dei dieci secondi, e sa che sono un agente inviato dal Governo oppure dai trafficanti
del mercato nero che pagano le tasse al Governo. Non mostrerà certo la sua faccia. Anche il
comandante Jameson, che mi sta mettendo alla prova con questo primo incarico, sa che non lo
vedremo neppure di sfuggita.
Ma so che sarà lì. Ha un disperato bisogno di cure per il morbo e tutto ciò che spero di ottenere
stanotte è che lui si faccia vivo: un indizio, un punto di partenza, una direzione più precisa in cui
procedere, qualcosa di personale su questo giovane criminale.
Sto attenta a non camminare sotto ai lampioni. Infatti, se non fossi diretta nel settore finanziario dove
le guardie sono appostate sui tetti, avrei preferito muovermi passando dall’alto. Tutt’intorno a me i
jumbo-schermi diffondono le loro campagne variopinte a tutto volume, il suono degli spot distorto
dagli altoparlanti. Uno degli schermi mostra una foto aggiornata di Day, stavolta di un ragazzo coi
capelli neri e lunghi. Accanto ai jumboschermi ci sono le luci tremolanti della strada sotto cui
camminano orde di operai del turno di notte, poliziotti e commercianti. Di tanto in tanto un carro
armato fende la folla, seguito da diversi plotoni di soldati. (Sulle maniche hanno galloni blu: truppe
di ritorno dal fronte o in rotazione per il fronte.
Tengono i fucili sul fianco, con entrambe le mani sull’arma.) A me sembrano tutti uguali a Metias e
devo fare respiri più profondi, camminare più veloce, qualsiasi cosa pur di non perdere la
concentrazione.
Attraverso Batalla prendendo la via più lunga, passando per le strade secondarie del settore e gli
edifici abbandonati, senza mai fermarmi finché non ho messo una buona distanza tra me e la zona
militare.
I poliziotti di pattuglia non sanno che sono in missione. Se dovessero vedermi vestita così,
equipaggiata con maschera a infrarossi, di sicuro mi interrogherebbero.
La banca Arcadia è su una strada tranquilla. Giro intorno al palazzo e mi ritrovo davanti a un
parcheggio alla fine di un vicolo. Lì, aspetto nell’ombra. I miei occhiali a infrarossi cancellano dalla
scena gran parte dei colori. Mi guardo intorno e vedo file di altoparlanti sui tetti, un gatto randagio
che spazzola il coperchio di un bidone dell’immondizia con la coda, un chiosco abbandonato
tappezzato di vecchi comunicati anti-Colonie.
L’orologio sul mio visore segna le 23.53.
Trascorro il tempo sforzandomi di rivedere il passato di Day. Prima della rapina in questa banca,
Day era apparso nei nostri archivi altre tre volte. Mi riferisco solo ai casi in cui abbiamo trovato
delle impronte, posso solo immaginare il numero di altri crimini che ha commesso. Osservo con
maggiore attenzione il vicolo in cui mi trovo.
Come ha fatto a irrompere in questa banca in dieci secondi, con quattro guardie armate all’entrata sul
retro? Il vicolo è stretto. Forse si è servito dei numerosi appigli per arrampicarsi sulle pareti fino al
primo o al secondo piano, usando nel frattempo le stesse armi delle guardie contro di loro.
Probabilmente ha fatto in modo che si sparassero l’un l’altro. Forse si è lanciato dentro una finestra.
Il tutto avrebbe richiesto solo pochi secondi. Di cosa abbia fatto una volta dentro, non ne ho la più
pallida idea.
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So già quanto sia agile Day.
Sopravvivere a un volo dal secondo piano ne è la prova. Però stanotte non avrà l’opportunità di
farlo. Non importa quanto sappia muoversi veloce, nessuno salta giù da un palazzo e poi cammina
normalmente. Day non sarà in grado di sgattaiolare su per i muri o per le scale per almeno un’altra
settimana.
All’improvviso entro in tensione.
Sono passati due minuti dalla mezzanotte e un suono secco echeggia da qualche parte in lontananza. Il
gatto seduto sul bidone fila via. Potrebbe essere un accendino, il grilletto di una pistola, gli
altoparlanti o un lampione tremolante.
Potrebbe essere qualsiasi cosa. Scruto i tetti. Ancora niente.
Ho comunque i peli sulla nuca rizzati. So che è qui. So che mi sta osservando.
«Vieni fuori» dico. Il minuscolo microfono davanti alla mia bocca fa sembrare la mia voce quella di
un uomo.
Silenzio. Neanche gli strati di manifesti sul chiosco accennano a muoversi. Non tira un alito di vento.
Rimuovo una fiala da una fondina attaccata alla cintura. L’altra mano non si sposta dall’impugnatura
della pistola. «Ho quello che ti serve» continuo, agitando la fiala per una maggiore enfasi.
Ancora niente. Stavolta, però, sento come un leggerissimo soffio.
Un respiro. I miei occhi scattano sugli altoparlanti allineati sui tetti.
Ecco cos’era quel rumore. Si è allacciato alla rete degli altoparlanti così può parlare con me senza
rivelare la sua posizione. Dietro la maschera sto sorridendo. È quello che avrei fatto anch’io.
«Lo so che ti serve» incalzo, indicando di nuovo la fiala. Me la rigiro in mano e la sollevo più in
alto. «Completa di tutte le etichette ufficiali e del timbro di approvazione. Ti assicuro che è la cura
vera.» Un altro respiro.
«Qualcuno a cui tieni vorrebbe che venissi a salutarmi.» Controllo l’ora sulla maschera. «Mezzanotte
e cinque. Ti do altri due minuti, poi me ne vado.» Il vicolo piomba di nuovo nel silenzio. Di tanto in
tanto sento un altro debole respiro uscire dagli altoparlanti. Sposto lo sguardo dall’orario sul visore
alle ombre dei tetti. È furbo. Non so dire da dove stia trasmettendo. Potrebbe essere da questa stessa
strada, oppure a parecchi isolati di distanza, da una posizione elevata. Però so che è abbastanza
vicino da vedermi a occhio nudo.
L’orario sul visore è diventato 00.07. Mi giro, infilo la fiala nella cintura e comincio a camminare.
«Che cosa vuoi in cambio della fiala, cugina?» La voce è poco più di un sussurro e attraverso gli
altoparlanti arriva rotta e incerta, talmente crepitante che faccio fatica a capirlo. Nella testa mi
scorrono all’istante dei dettagli. Maschio. Ha un leggero accento... non è dell’Oregon, del Nevada,
dell’Arizona, del Nuovo Messico, del Texas Occidentale o di nessun altro stato della Repubblica.
Viene dalla California del Sud. Usa il termine colloquiale cugina, tipico dei civili del settore Lake. È
abbastanza vicino da avermi visto mettere via la fiala, ma non abbastanza perché gli altoparlanti
catturino la sua voce in modo chiaro. Dev’essere vicino, forse appena a un isolato di distanza, in una
buona posizione di vantaggio, un piano alto.
Dietro alle informazioni che mi balenano nella mente, viene a galla un odio nero, crescente. Questa è
la voce dell’assassino di mio fratello.
Questa potrebbe essere l’ultima voce che mio fratello ha ascoltato.
Aspetto due secondi prima di parlare ancora. Quando lo faccio, il mio tono è calmo e tranquillo e
non tradisce alcuna rabbia. «Che cosa voglio?» chiedo a lui. «Dipende.
Soldi ne hai?»
«Milleduecento banconote.» Banconote,
non oro della Repubblica. Ruba alle classi alte, ma non è in
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grado di colpire quelli davvero ricchi.
Probabilmente agisce da solo. Scoppio a ridere.
«Milleduecento banconote non bastano per comprare questa fiala.
Cos’altro hai? Oggetti di valore?
Gioielli?» Silenzio.
«O magari hai delle abilità da offrire...»
«Non lavoro per il Governo.» Il suo punto debole. Ovviamente.
«Senza offesa. Valeva la pena chiedere. E come sai che io non lavoro per qualcun altro? Non credi di
dare troppo merito al Governo?» Una breve pausa, poi la voce ritorna. «Il nodo del tuo mantello.
Non so cos’è, ma di sicuro non è roba da civili.» Questo mi sorprende un po’. In effetti ho fermato il
mantello con un nodo Canto, un’annodatura robusta che agli ufficiali piace usare. A quanto pare Day
ha una conoscenza dettagliata delle uniformi governative.
Occhio notevole. Sono svelta a coprire la mia esitazione.
«Fa piacere incontrare qualcuno che sa riconoscere un nodo Canto. Ma io viaggio molto, amico mio.
Vedo e conosco un sacco di gente, persone con le quali potrei anche non essere affiliato.» Silenzio.
Aspetto di sentire un altro respiro dagli altoparlanti.
Niente.
Nemmeno un clic. Non ho agito abbastanza in fretta e la breve esitazione nella mia voce è bastata a
convincerlo di non potersi fidare di me. Mi stringo nel mantello e mi accorgo che ho iniziato a sudare
nel caldo della notte. Il cuore mi batte contro il petto.
Un’altra voce mi risuona nella testa, ma stavolta arriva dall’auricolare. «Iparis, sei lì?» È il
comandante Jameson.
In sottofondo riesco a sentire il brusio delle altre persone nel suo ufficio.
«Se n’è andato» sussurro. «Ma mi ha fornito degli indizi.»
«Gli hai fatto capire per chi lavori, non è vero? Be’, è la prima volta che ti muovi da sola.
Comunque abbiamo la registrazione. Puoi rientrare.» Il suo commento brucia un po’, ma il
collegamento viene interrotto prima che possa replicare.
Aspetto ancora un minuto, solo per assicurarmi che non abbia interpretato male l’uscita di Day.
Silenzio. Mi giro e mi avvio giù per il vicolo.
Avrei voluto dire al comandante Jameson quale sarebbe la soluzione più sbrigativa, cioè radunare
tutti gli abitanti del settore Lake che hanno la porta segnata dalla X. Quello sì che attirerebbe Day
allo scoperto. Però posso già sentire le obiezioni del comandante. È fuori questione, Iparis. Troppo
costoso e i piani alti non approverebbero.
Dovrai escogitare qualcos’altro. Mi guardo indietro una volta, come se mi aspettassi di vedere una
sagoma nera che mi segue. Ma il vicolo è deserto.
Non mi permetteranno di costringere Day a venire da me, il che mi lascia solo un’alternativa.
Sarò io ad andare da lui.
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DAY
«MANGIA QUALCOSA, OKAY?» La voce di Tess mi scuote dal dormiveglia. Sposto lo sguardo
dal lago e la vedo che mi allunga un pezzo di pane e formaggio e mi fa segno di prenderlo. Dovrei
avere fame. Dalla scorsa notte ho mangiato soltanto mezza mela.
Eppure il panino ancora fresco che Tess ha barattato in un negozio con alcune preziose banconote non
sembra invitante.
Lo accetto lo stesso. Lungi da me sprecare del cibo commestibile, specialmente quando dovremmo
risparmiare tutto quello che abbiamo per le medicine contro il morbo.
Tess e io siamo seduti sulla sabbia sotto a un molo, nella parte del lago che taglia il nostro settore.
Ci premiamo il più possibile contro la sponda scoscesa, in modo che i soldati senza niente di meglio
da fare e gli operai ubriachi sopra di noi non riescano a vederci in mezzo alle rocce e all’erba alta.
Ci confondiamo con le ombre. Da dove siamo seduti si sente la salsedine nell’aria e si vedono le luci
del centro di Los Angeles riflesse sull’acqua. Il lago è punteggiato di edifici più vecchi, palazzi
abbandonati dai proprietari dei negozi e dai residenti quando salì la marea. Lungo la sponda, dietro
cortine di fumo, girano a ritmo continuo gigantesche ruote e turbine idrauliche. Forse è questa la mia
vista preferita dal nostro squallido e magnifico piccolo settore di Lake.
Come non detto. È la mia vista preferita e anche quella che mi piace di meno. Perché se le luci
elettriche del centro offrono uno spettacolo stupendo, si vede anche lo stadio della Prova che si
staglia minaccioso verso est.
«Hai ancora tempo» mi dice Tess, scivolando di lato finché non sento il suo braccio nudo contro il
mio. I suoi capelli hanno preso l’odore del pane e della cannella del negozio. «Un mese o forse di
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più.
Nel frattempo sono sicura che troveremo la medicina.» Per essere una ragazzina senza casa né
famiglia, Tess è sorprendentemente ottimista. Mi sforzo di sorriderle. «Può darsi» le concedo.
«Magari tra un paio di settimane l’ospedale abbasserà la guardia.» In cuor mio, ne dubito.
Prima ho osato dare una sbirciata a casa di mia madre. La strana X era ancora sulla porta. Mia madre
e John sembravano a posto, se non altro abbastanza in forze da stare in piedi e camminare. Ma
Eden... stavolta era steso a letto con un panno sulla fronte. Anche da lontano si vedeva che ha perso
peso. Sembrava pallido e la sua voce era debole e rauca. Quando poi ho incontrato John, sul retro,
mi ha detto che Eden non mangia dall’ultima volta che sono andato a trovarli. Ho ricordato a John di
tenersi lontano dalla stanza di Eden il più possibile. Chissà questo strano morbo come si propaga.
Lui invece si è raccomandato con me di non fare altre bravate, per paura che finisca ammazzato. Non
ho potuto trattenermi dal ridergli in faccia.
John non lo ammetterà mai apertamente, ma lo so che per Eden sono l’unica possibilità.
Il morbo potrebbe mettere fine alla sua vita ancora prima che possa affrontare la Prova.
Magari è una fortuna sotto mentite spoglie. Non dovrà mai aspettare fuori dalla porta di casa, il
giorno del suo decimo compleanno, che un autobus lo conduca allo stadio. Non dovrà mai seguire
decine di altri ragazzini su per le gradinate dello stadio e dentro gli anelli interni, o correre intorno
alla pista mentre degli impiegati del Governo studiano la sua postura e la respirazione, o rispondere
a pagine e pagine di stupidi test a scelta multipla, o sopravvivere a un colloquio davanti a un
semicerchio di ufficiali impazienti. Non dovrà mai aspettare insieme a uno dei tanti gruppi, senza
sapere quale tornerà a casa e quale invece verrà spedito nei cosiddetti “campi di lavoro”.
Non lo so. Se deve accadere il peggio, forse il morbo potrebbe essere un modo più umano di
andarsene.
«Eden si ammala sempre, sai?» dico dopo un po’. Stacco un grosso morso dal panino. «Quand’era
neonato una volta è quasi morto. Si è beccato una specie di morbillo e ha avuto la febbre e sfoghi e
ha pianto per una settimana. C’è mancato poco che i soldati segnassero la nostra porta. Ma
ovviamente non era il morbo e nessun altro sembrava averlo preso.» Scuoto la testa. «John e io non
ci siamo mai ammalati.» Stavolta Tess non ride. «Povero Eden.» Dopo una pausa, continua.
«Quando mi hai trovata anch’io non stavo tanto bene. Ti ricordi quanto ero sporca?» D’un tratto mi
sento in colpa per aver parlato così tanto dei miei problemi negli ultimi giorni. Almeno io una
famiglia di cui preoccuparmi ce l’ho. Le metto un braccio intorno alle spalle. «Già, facevi proprio
schifo.» Tess scoppia a ridere, ma il suo sguardo rimane concentrato sulle luci della città. China la
testa sulla mia spalla, nello stesso modo in cui si è sempre appoggiata a me fin dalla prima settimana
insieme, quando la notai in quel vicolo del settore Nima.
Ancora non so cosa mi fece fermare a parlare con lei quel pomeriggio. Forse il caldo mi aveva
ammorbidito, oppure ero soltanto di buonumore perché avevo trovato un ristorante che aveva buttato
via del pane vecchio.
Ciao, le dissi quel giorno.
Dal bidone dell’immondizia sbucarono altre due teste e io feci un passo indietro per la sorpresa.
Due di loro, una donna anziana e un ragazzo, strisciarono subito fuori dai rifiuti e scapparono giù per
il vicolo. La terza, una ragazzina di non più di dieci anni, rimase dov’era e quando mi vide cominciò
a tremare. Era secca come un chiodo, con una maglia e i pantaloni logori.
Aveva i capelli corti e smunti, tagliati di netto sotto al mento e rossi nella luce del sole.
Aspettai un momento, per non spaventarla come avevo fatto con gli altri. Ciao, le ripetei. Ti dispiace
se ti faccio compagnia?
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Lei continuò a fissarmi senza dire una parola. Riuscivo a malapena a vedere la sua faccia con tutta la
fuliggine che c’era sopra.
Visto che non rispondeva, alzai le spalle e presi a camminare verso di lei.
Magari potevo recuperare qualcosa di utile dalla pattumiera.
Appena le fui a tre metri, la ragazzina emise un grido strozzato e schizzò via, così veloce che cadde
sull’asfalto sulle mani e le ginocchia. Zoppicai fino a lei. Allora la mia vecchia ferita al ginocchio
era messa peggio e ricordo di essere inciampato per la fretta. Ehi! le dissi. Stai bene?
Lei scattò all’indietro e si coprì la faccia con le mani scorticate. Per favore, mi implorò. Per favore,
per favore.
Per favore cosa? Poi sospirai, imbarazzato dalla mia stessa irritazione. Avevo visto le lacrime
formarsi nei suoi occhi. Smettila di piangere. Non ti faccio niente. Mi inginocchiai accanto a lei.
All’inizio frignò e fece per strisciare via, ma quando si accorse che non mi ero mosso si fermò a
fissarmi. Aveva entrambe le ginocchia sbucciate e si vedeva la carne viva e rossa.
Vivi qui vicino?
Lei annuì. Poi, come se si fosse ricordata di qualcosa, scosse la testa. No, si corresse.
Posso aiutarti a tornare a casa?
Non ce l’ho una casa.
No? Dove sono i tuoi genitori?
Scosse ancora la testa. Sospirai di nuovo e lasciai cadere a terra la sacca, poi le porsi la mano.
Andiamo, le dissi. Non vorrai prenderti un’infezione? Ti aiuto a disinfettarti e poi sei libera di
andartene dove ti pare. Puoi avere anche un po’ del mio cibo. Un bell’affare, no?
Impiegò un sacco di tempo a mettere la sua mano nella mia.
Okay, sussurrò, così piano che a malapena la sentii.
Quella notte ci accampammo sul retro di un negozio di pegni che aveva buttato nel vicolo un paio di
vecchie sedie e un divano strappato.
Pulii le ginocchia della ragazzina con dell’alcol rubato in un bar, facendole mordere uno straccio per
non farla gridare e attirare attenzione. Non si lasciò avvicinare, se non per prendermi cura dei suoi
graffi. Ogni volta che la mia mano le sfiorava per sbaglio i capelli o le urtava il braccio, si ritraeva
come scottata dal vapore di un bollitore.
Alla fine mi arresi e smisi di provare a parlarle. Quella notte le lasciai il divano, mentre io sistemai
la camicia come un cuscino e cercai di accomodarmi per terra.
Se domani mattina vuoi andartene, fai pure, le dissi. Non devi svegliarmi o salutarmi o roba del
genere.
Sentii le palpebre diventare pesanti, ma lei rimase sveglia a fissarmi mentre mi addormentavo, senza
muovere un muscolo.
La mattina dopo era ancora lì. Mi seguì tutto il giorno mentre rovistavo nei bidoni, raccogliendo
vecchi vestiti e avanzi di cibo.
Provai a chiederle di andarsene.
Provai addirittura a urlarle addosso.
Un orfano può rivelarsi un grosso inconveniente. Ma pur avendola fatta piangere un paio di volte,
quando mi giravo era ancora lì che mi seguiva.
Due notti dopo, mentre ce ne stavamo seduti intorno a un fuoco, finalmente si decise a parlarmi. Mi
chiamo Tess, sussurrò con un filo di voce. Poi studiò la mia faccia, come se volesse prevedere la mia
reazione.
Io alzai soltanto le spalle. Buono a sapersi,
le dissi.
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È così che è andata.
Tess si sveglia di soprassalto. Mi dà una botta in testa con il braccio.
«Ahi!» bofonchio massaggiandomi la fronte. Il dolore si propaga per il braccio in via di guarigione e
sento i bossoli d’argento che Tess ha recuperato dai miei vestiti che mi tintinnano nella tasca. «Se
volevi svegliarmi, bastava un colpetto.» Tess tiene un dito davanti alla bocca. Adesso sono sveglio.
Siamo ancora seduti sotto al pontile, ma probabilmente mancano un paio d’ore all’alba. Le uniche
luci provengono da una serie di vecchi lampioni che costeggiano il lago.
Lancio un’occhiata a Tess. I suoi occhi brillano nel buio.
«Sentito niente?» bisbiglia.
Io aggrotto la fronte. Di solito sono il primo a sentire i rumori sospetti, ma stavolta non sento niente.
Rimaniamo entrambi immobili per un lungo momento.
Sento solo lo sporadico sciabordio delle onde. Il rumore del metallo rotante che spinge via l’acqua.
Ogni tanto una macchina di passaggio.
Guardo di nuovo Tess. «Cos’hai sentito la prima volta?»
«Era come... qualcosa che ribolliva» sussurra.
Prima che possa ragionarci su sento un rumore di passi, seguito da una voce che si avvicina al molo
sopra di noi. Arretriamo di più nell’ombra. È la voce di un uomo e i suoi passi risuonano con
un’insolita pesantezza. Capisco un attimo dopo che l’uomo sta camminando al passo con qualcun
altro. Una coppia di poliziotti di pattuglia.
Mi schiaccio più che posso contro la sponda e sento il terreno cedere.
Alcune pietre rotolano in silenzio nella sabbia.
Continuo a indietreggiare finché urto con la schiena una superficie liscia e dura.
Tess fa lo stesso.
«C’è qualcosa nell’aria» dice uno dei poliziotti. «Stavolta il morbo è scoppiato nel settore Zein.» I
loro passi rimbombano sulle nostre teste e vedo le loro sagome avanzare lungo l’inizio del pontile.
In lontananza, i primi segni del mattino hanno tinto il cielo di un grigio sporco.
«È la prima volta che sento del morbo in quel settore.»
«Dev’essere un ceppo più forte.»
«Cosa credi che faranno?» Cerco di sentire cos’ha da dire l’altro poliziotto, ma ormai i due si sono
allontanati così tanto che le loro voci sono diventate un mormorio.
Prendo un respiro profondo. Il settore Zein è a una buona cinquantina di chilometri da qui, e se lo
strano simbolo rosso sulla porta di mia madre significa che hanno preso questo nuovo ceppo?
Come affronterà la questione l’Elector?
«Day...» sussurra Tess.
La guardo. Si gira verso la sponda, con la schiena rivolta al lago. Indica la buca che abbiamo creato
e, quando anch’io mi giro, vedo cosa sta puntando.
La superficie dura contro cui ho sbattuto è in realtà una lastra di metallo. Scosto altra terra e altre
pietre e mi rendo conto che la lastra è piantata a fondo nella sponda, tanto che credo sia la lastra
stessa a sostenerla. Do un’occhiata alla sua superficie.
Tess mi guarda. «È vuota.»
«Vuota?» Appoggio l’orecchio contro il metallo freddo. Un’onda di rumore mi investe, il suono
sibilante e gorgogliante che Tess ha sentito prima. Non si tratta soltanto di una struttura di metallo per
arginare le sponde del lago.
Quando mi stacco e studio meglio la lastra, noto dei simboli incisi sopra.
Uno di questi è la bandiera della Repubblica,
impressa in modo leggero. L’altro è un piccolo numero
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rosso:
JUNE
«DOVREI ESSERE IO AD ANDARE LÌ FUORI.» Stringo i denti e cerco di non guardare Thomas.
Le sue parole potrebbero essere uscite dalla bocca di Metias. «Io darò meno nell’occhio» rispondo.
«Immagino che le persone si fideranno di me con più facilità.» Siamo davanti a una finestra nell’ala
nord del Palazzo Governativo di Batalla e osserviamo il comandante Jameson al lavoro dall’altra
parte del vetro.
Oggi hanno catturato una spia delle Colonie che stava segretamente diffondendo false informazioni su
c o m e la Repubblica nasconda la verità! Di solito le spie vengono spedite a Denver, ma se le
prendono in una città grande come Los Angeles le interroghiamo noi prima che lo faccia la capitale.
In questo momento l’uomo è appeso a testa in giù nella stanza degli interrogatori.
Il comandante Jameson ha un paio di forbici in mano.
Inclino un po’ la testa per guardare la spia. Lo odio già come odio ogni altra cosa che abbia a che
fare con le Colonie. Non è affiliato coi Patrioti, questo è sicuro, il che fa di lui ancora più un
codardo.
Finora ogni Patriota a cui abbiamo dato la caccia si è tolto la vita prima della cattura, ma questa spia
è giovane, probabilmente sotto i trenta. Più o meno la stessa età che aveva mio fratello.
Mi sto lentamente abituando a parlare di Metias al passato.
Con la coda dell’occhio riesco a vedere che Thomas mi sta ancora guardando. Il comandante
Jameson l’ha ufficialmente promosso a ricoprire il ruolo di mio fratello, ma ha comunque poco
potere su cosa decido di fare in questa missione e questo lo fa impazzire. Senza un paio di
energumeni di supporto e una squadra a seguirmi, non mi avrebbe mai lasciato andare a Lake sotto
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copertura per più giorni di fila.
Comunque è quello che accadrà da domani.
«Ascolta. Non preoccuparti per me.» Dal vetro vedo la spia inarcare la schiena dal dolore. «So
badare a me stessa. Se avessi una squadra che mi segue per tutta la città, Day se ne accorgerebbe
subito, non è uno stupido.» Thomas si volta di nuovo verso l’interrogatorio. «So che è brava in
quello che fa» risponde. Aspetto il però nella sua frase, ma non arriva.
«Tenga soltanto acceso il microfono. Qui mi occuperò io di tutto.» Gli sorrido. «Grazie.» Lui non si
gira a guardarmi, ma vedo che ha sollevato gli angoli della bocca.
Forse gli è tornato in mente quando mi accodavo a lui e a Metias, facendogli un mucchio di domande
sciocche su come funzionasse l’esercito.
Dall’altra parte del vetro, all’improvviso la spia urla qualcosa al comandante Jameson e si agita
violentemente nelle catene. Lei guarda verso di noi e ci fa segno con la mano di entrare. Non esito.
Thomas e io, insieme a un altro soldato in piedi accanto alla porta, ci precipitiamo nella stanza e ci
distribuiamo lungo la parete in fondo. Dentro fa caldo, manca l’aria. Continuo a osservare il
prigioniero che urla.
«Cosa gli ha detto?» chiedo al comandante Jameson.
Lei mi squadra. I suoi occhi sono di ghiaccio. «Gli ho detto che la sua città è il prossimo obiettivo
che le nostre aeronavi colpiranno.» Si volta di nuovo verso il prigioniero.
«Gli conviene iniziare a collaborare.» La spia ci scruta a turno. Il sangue che gli esce dalla bocca gli
cola sulla fronte e sui capelli e gocciola sul pavimento sotto di lui.
Ogni volta che si agita, il comandante Jameson pesta col piede la catena che gli stringe il collo e lo
strozza finché non si calma. Questo però ci insulta e sputa sangue sui nostri anfibi, costringendomi a
sfregare il mio contro il pavimento, disgustata.
Il comandante Jameson si china e gli sorride. «Cominciamo daccapo, che ne dici? Come ti chiami?»
La spia volta la faccia e tace.
Il comandante sospira e fa un cenno con la testa a Thomas. «Ho le mani stanche» gli dice. «Fai tu gli
onori.»
«Sissignore.» Thomas fa il saluto e avanza, serra la mascella, stringe il pugno e colpisce la spia allo
stomaco con forza. Il prigioniero strabuzza gli occhi e sputa altro sangue sul pavimento. Mi distraggo
studiando i particolari della sua divisa. Bottoni di ottone, anfibi militari, una spilla blu sulla manica.
Il che significa che si è fatto passare per un soldato e lo abbiamo catturato dalle parti di San Diego,
l’unica città che obbliga tutti a portare quelle spille blu. Lo so cosa ha tradito il suo travestimento.
Uno dei bottoni sembra leggermente più piatto di quelli prodotti nella Repubblica. Deve esserselo
cucito da solo, il bottone di una vecchia uniforme coloniale.
Stupido. Un errore che solo una spia delle Colonie commetterebbe.
«Come ti chiami?» gli chiede di nuovo il comandante Jameson.
Intanto Thomas fa scattare un coltello e gli afferra un dito.
La spia deglutisce a fatica.
«Emerson.»
«Emerson cosa? Sii più preciso.»
«Emerson Adam Graham.»
«Il signor Emerson Adam Graham, del Texas Orientale.» Il comandante Jameson lo scandisce con
tono leggero, persuasivo.
«Molto lieta di conoscerla. Mi dica, signor Graham, per quale motivo le Colonie l’hanno inviata
nella nostra eccellente Repubblica? APROLIBRO.COM
Per diffondere le loro menzogne?» La spia emette una debole risata. «Eccellente Repubblica...»
commenta in modo sarcastico. «La vostra Repubblica non durerà un altro decennio. Poco male, una
volta che le Colonie avranno conquistato le vostre terre ne faranno senz’altro un uso migliore.»
Thomas colpisce la spia al volto con il manico del coltello. Un dente schizza sul pavimento. Seguo la
traiettoria con lo sguardo, poi torno a osservare Thomas. I capelli gli sono caduti sulla faccia e la sua
solita gentilezza è stata rimpiazzata da un sadico piacere. Aggrotto le sopracciglia. Non mi è capitato
spesso di vedere Thomas con quell’espressione, mi dà i brividi.
Il comandante Jameson lo ferma prima che possa colpire di nuovo la spia. «Va bene così. Sentiamo
cos’ha da dire il nostro amico contro la Repubblica.» La faccia dell’uomo è paonazza per essere
rimasto appeso a testa in giù troppo a lungo. «Questa voi la chiamate una repubblica?
Uccidete la vostra stessa gente e torturate quelli che una volta erano vostri fratelli?» Alzo gli occhi al
cielo. Le Colonie vogliono farci credere che lasciar prendere a loro il controllo sia una cosa buona.
Come se ci stessero facendo un favore. È così che ci vedono, come una piccola e povera nazione di
poca importanza, come se fossero loro quelli più potenti. Hanno tutto l’interesse per sostenere questa
idea, dopotutto, visto che le inondazioni sembra abbiano portato via più terra a loro che a noi. In fin
dei conti è sempre di questo che si è trattato. Terra, terra, terra. Ma diventare una confederazione...
be’ non è mai accaduto e mai accadrà.
Li batteremo prima o moriremo provandoci.
«Non dirò niente.
Potete torturarmi finché vi pare, ma non dirò niente.» Il comandante Jameson sorride a Thomas, che
ricambia.
«Be’, hai sentito il signor Graham» gli dice. «Torturalo finché ti pare.» Thomas inizia a lavorarselo e
dopo un po’ le altre guardie nella stanza devono dargli una mano a tenere ferma la spia. Mi sforzo di
continuare a guardare mentre cercano di estorcergli delle informazioni. Devo imparare come si fa,
familiarizzare con la procedura. Le grida del prigioniero mi rimbombano nelle orecchie.
Ignoro il fatto che i suoi capelli siano neri e lisci come i miei, che la sua pelle sia chiara e la sua età
non faccia che ricordarmi Metias. Dico a me stessa che non è Metias quello che Thomas sta
torturando.
Sarebbe impossibile.
Metias non può essere torturato.
Lui è già morto.
Quella stessa sera Thomas mi scorta fino al mio appartamento e mi bacia sulla guancia prima di
andare via. Mi dice di stare attenta e che ascolterà qualsiasi cosa trasmessa dal mio microfono.
«Tutti gli occhi saranno su di lei» mi rassicura. «Lì fuori non sarà sola, a meno che non sia lei a
deciderlo.» Riesco a sorridergli, e a chiedergli di badare a Ollie mentre sarò via.
Quando finalmente entro in casa, mi raggomitolo sul divano e metto un braccio sul dorso di Ollie.
Dorme profondamente, ma schiacciato contro il bracciolo del divano. È probabile che senta la
mancanza di Metias tanto quanto me. Sul vetro del tavolino da caffè sono sparpagliati mucchi di
vecchie fotografie dei nostri genitori che ho tirato fuori dall’armadio di mio fratello. Così come i
diari che scriveva e un libretto in cui di solito annotava le cose che facevamo insieme: un teatro, cene
nel cuore della notte, corse mattutine. Li sto sfogliando da quando Thomas se n’è andato, sperando di
trovare ciò di cui voleva parlarmi Metias da qualche parte. Scorro velocemente le pagine scritte da
mio fratello e leggo per l’ennesima volta le brevi annotazioni che a mio padre piaceva lasciare in
fondo alle loro fotografie. In quella più recente si vedono i miei genitori con un giovane Metias
davanti al Palazzo Governativo di Batalla.
Hanno tutti e tre il pollice alzato. La futura carriera di
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Metias è qui! 12 marzo.
Fisso la data. Scattata molte settimane prima che morissero.
Il mio registratore è sul bordo del tavolino. Schiocco le dita due volte, quindi ascolto la voce di Day
ancora e ancora.
Quale faccia può accompagnarsi a questa voce?
Provo a immaginare che aspetto abbia Day. Giovane e atletico, probabilmente, e magro per gli anni
passati in strada. La voce è così crepitante e distorta dagli altoparlanti che alcune parti non riesco a
decifrarle.
«L’hai sentito, Ollie?» sussurro.
Ollie russa un po’ e strofina la testa contro la mia mano. «È il nostro uomo e io lo catturerò.» Mi
addormento con le parole di Day che mi riecheggiano nella testa.
ORE 06.25.
Mi trovo nel settore Lake, a guardare il sole che sorge e tinge d’oro le ruote e le turbine idrauliche
sempre in funzione. Uno strato di fumo si libra perennemente sopra i margini dello specchio d’acqua.
Dall’altra parte del lago riesco a vedere il centro di Los Angeles proprio accanto alla sponda. Un
poliziotto si avvicina e mi ordina di cambiare aria, io annuisco e proseguo lungo l’argine.
Da lontano mi mescolo a perfezione con quelli che mi camminano lì intorno. La camicia a mezze
maniche che porto viene da un emporio dell’usato al confine tra Lake e Winter. I pantaloni sono
strappati e imbrattati di fango e la pelle degli scarponi è tutta screpolata. Stavolta sto molto attenta al
tipo di nodo che uso per allacciare le scarpe. Ne ho scelto uno semplice, quello di un qualunque
operaio. Ho raccolto i capelli indietro in una coda alta e li ho coperti con un berretto.
Il ciondolo di Day se ne sta comodamente in tasca.
È incredibile quanto siano sporche le strade da queste parti, forse anche più che nella decrepita
periferia di Los Angeles. Il livello del terreno è così vicino a quello dell’acqua (come gli altri settori
poveri, che si assomigliano tutti) che, probabilmente, ogni volta che c’è una tempesta il lago inonda
le strade vicino alla sponda con le sue acque luride, contaminate dai liquami. Ogni edificio è
scolorito, fatiscente e butterato tranne, ovviamente, la centrale di polizia.
La gente cammina accanto ai rifiuti ammucchiati contro i muri come se neanche ci fossero.
Intorno all’immondizia girano mosche, cani randagi e anche qualche persona.
Arriccio il naso per il tanfo (lanterne fumose, grasso, fogna), ma poi mi trattengo, rendendomi conto
che se voglio essere presa per un’abitante di Lake devo fingere di essere abituata alla puzza.
Diversi uomini mi sorridono quando gli passo davanti. Uno addirittura mi chiama. Li ignoro e tiro
dritto. Solo un branco di criminali, uomini che hanno a stento superato la Prova. Anche se sono
vaccinata, mi domando se questa gente possa attaccarmi il morbo. Chissà da quale fogna saltano
fuori.
Devo smetterla. Metias mi ha detto di non giudicare i poveri così.
Era una persona migliore di me, penso amaramente.
Il piccolo microfono all’interno della guancia vibra appena, poi dal microfono esce un suono
impercettibile. «Signorina Iparis.» La voce di Thomas arriva come un leggero ronzio che posso
sentire solo io. «Tutto in ordine?»
«Sì» sussurro. Il microfono coglie le vibrazioni della mia gola. «Sono al centro di Lake. Entro in
silenzio radio per un po’.»
«Ricevuto» dice Thomas e chiude le trasmissioni.
Schiocco la lingua per spegnere il microfono.
Trascorro gran parte di questa primaAPROLIBRO.COM
mattina rovistando nei cassonetti. Dagli altri mendicanti ascolto
storie sulle vittime del morbo, su quali aree la polizia consideri più a rischio e quali invece abbiano
iniziato a risanarsi. Mi parlano dei posti migliori per trovare cibo e di quelli migliori per l’acqua
potabile. Mi consigliano dove nascondermi la notte. Alcuni di loro sembrano troppo giovani per aver
affrontato la Prova e quelli più piccoli parlano dei propri genitori o come sfilare il portafogli a un
soldato.
Però nessuno parla di Day.
Le ore scorrono lentamente finché non scende la sera e poi la notte. Quando trovo un vicolo
tranquillo in cui riposarmi, dove altri mendicanti già dormono nei cassonetti, mi accuccio in un
angolo buio e attivo il microfono. Quindi tiro fuori il ciondolo di Day dalla tasca e lo sollevo per
studiarne le protuberanze levigate.
«Mi ritiro per la notte» bisbiglio, facendo appena vibrare la gola.
Nel mio auricolare sento il leggero crepitio dei disturbi elettrostatici. «Signorina Iparis?» dice
Thomas. «Ha avuto fortuna oggi?»
«No. Domani proverò in qualche luogo pubblico.»
«Va bene. Qui ci sarà sempre qualcuno, ventiquattro ore su ventiquattro.» Lo so che invece è lui che
rimarrà lì ad ascoltarmi. «Grazie» bisbiglio.
«Passo e chiudo.» Spengo il microfono. Mi borbotta la pancia.
Tiro fuori una fetta di pollo che ho trovato nel retro della cucina di un ristorante e mi sforzo di
sgranocchiarla, ignorando il grasso freddo e gelatinoso. Se devo vivere come un’abitante di Lake,
devo mangiare come loro. Forse dovrei trovarmi un lavoro, penso. L’idea mi infastidisce.
Quando finalmente mi addormento, ho un incubo e Metias ne fa parte.
Il giorno dopo non trovo nulla di concreto, né quello seguente. Con il caldo e il fumo i miei capelli
sono diventati un groviglio e inizio ad avere la faccia coperta di sporcizia.
Guardo il mio riflesso nel lago e mi accorgo che adesso sembro proprio una stracciona.
Lo sporco me lo sento dentro. Il quarto giorno mi avventuro al confine tra Lake e Blueridge e decido
di passare il tempo vagando per i bar.
È allora che succede qualcosa.
M’imbatto in un incontro di skiz.
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DAY
LE REGOLE PER ASSISTERE A – e scommettere su – un incontro di skiz sono abbastanza semplici.
1. Decidi chi pensi che vincerà.
2. Punti i soldi su quella persona.
Non c’è altro. L’unico problema sorge quando la tua reputazione è talmente pessima da non poter
correre il rischio di piazzare una puntata di persona e magari essere beccato dalla polizia.
Per questo oggi pomeriggio me ne sto rannicchiato dietro la canna fumaria di un magazzino fatiscente.
Da qui riesco a vedere la folla radunata nell’edificio abbandonato accanto. Sono così vicino che
riesco addirittura a sentire dei brandelli di conversazione.
E Tess. Tess è laggiù con loro, una sagoma esile che quasi si perde nella calca, con i nostri soldi in
un borsello e un sorriso sulla faccia. La osservo mentre ascolta gli altri scommettitori che discutono
dei lottatori. Non esita a domandare e io non oso staccarle gli occhi di dosso. Ogni tanto i poliziotti
di pattuglia che non sono soddisfatti delle mazzette interrompono gli incontri di skiz e arrestano un
po’ di gente, perciò quando Tess e io assistiamo a un combattimento non mi unisco mai alla folla. Se
dovessero catturarmi e prendermi le impronte, sarebbe la fine per tutti e due. È lei la più snella e
scattante e ha maggiori possibilità di sfuggire a una retata. Ma questo non significa che la lasci sola.
«Continua a muoverti, cugina» dico sottovoce mentre Tess si ferma a ridere alla battuta di un giovane
scommettitore. Stalle alla larga, pagliaccio.
Dall’altra parte della folla si leva un boato. I miei occhi scattano lì per un secondo. Una delle
lottatrici sta fomentando gli spettatori agitando le braccia e urlando.
Stando ai loro cori, la ragazza si chiama Kaede. È la stessa barista che ho conosciuto giorni fa
passando per il settore Alta. Adesso APROLIBRO.COM
flette i polsi, salta sul posto e scioglie le braccia.
Kaede ha già vinto un incontro e secondo le regole non scritte dello skiz è tenuta a combattere finché
non perde, cioè finché la sua avversaria non l’atterra. Ogni volta che vince, le spetta una fetta delle
scommesse piazzate contro di lei.
Sposto lo sguardo sulla ragazza che ha appena scelto come prossima sfidante. Ha la pelle olivastra,
le sopracciglia aggrottate e un’espressione incerta. Alzo gli occhi al cielo. Di sicuro gli spettatori
sanno che quest’incontro sarà a senso unico. La sfidante sarà fortunata se Kaede la lascerà viva.
Quando nessuno la sta guardando, Tess si ferma un momento, poi mi lancia un’occhiata veloce. Io
alzo un dito. Lei sorride, mi strizza l’occhio e torna a guardare la folla. Allunga dei soldi
all’allibratore, un tipo grosso e corpulento. Abbiamo puntato mille banconote, quasi tutto quello che
abbiamo, su Kaede.
L’incontro dura meno di un minuto. Kaede picchia duro da subito, scagliandosi addosso alla ragazza
e colpendola in faccia con cattiveria. La sfidante barcolla.
Kaede gioca con lei come un gatto col topo prima di sferrare un ultimo pugno. La ragazza crolla al
tappeto sbattendo la testa sul cemento, dove rimane tramortita. K.O. La folla esulta, mentre alcuni
aiutano la ragazza a trascinarsi fuori dal ring. Scambio un rapido sorriso con Tess, che recupera la
nostra vincita e la infila nel borsello.
Millecinquecento banconote.
Deglutisco a fatica e ordino a me stesso di non emozionarmi troppo.
Sono solo un passo più vicino a una fiala di medicina.
Torno a concentrarmi sulla folla in festa. Kaede si butta i capelli da una parte e assume una posa
scherzosa per il pubblico, che va su di giri. «Chi è la prossima?» La folla scandisce ad alta voce.
«Scegli! Scegli!» Kaede si guarda intorno lentamente, scuotendo la testa e inclinandola di lato di
tanto in tanto. Tengo gli occhi su Tess, in punta di piedi dietro molte persone più alte di lei, che cerca
una visuale migliore.
La vedo bussare timidamente sulla spalla di quelle persone, dire qualcosa e farsi largo.
Stringo la mascella. La prossima volta andrò con lei, così potrà sedersi sulle mie spalle e finalmente
riuscirà a vedere gli incontri, invece di attirare l’attenzione su di sé.
Un attimo dopo scatto in piedi.
Tess si è fatta strada spingendo uno degli scommettitori più robusti.
Lui le urla qualcosa, sembra arrabbiato, e prima che Tess possa chiedere scusa vedo l’uomo
scaraventarla in malo modo al centro del ring. Lei inciampa e la folla scoppia a ridere.
La rabbia mi ribolle in petto.
Kaede invece sembra divertita.
«Vuoi sfidarmi, ragazzina?» grida e un sorriso le si allarga sulla faccia.
«Potresti farmi divertire.» Tess si guarda intorno, disorientata. Prova a fare un passo indietro, ma la
gente le blocca il passaggio.
Quando vedo Kaede fare un cenno con la testa verso di lei, esco dal mio nascondiglio. Quella
vigliacca sta per scegliere lei.
Oh, non credo proprio. Non sotto ai miei occhi. Non se Kaede vuole continuare a vivere.
All’improvviso una voce risuona dal basso. Mi fermo. Una ragazza si è fatta largo fino al bordo del
ring, da dove fissa Kaede alzando gli occhi. «Non mi sembra un incontro alla pari» dice a gran voce
la ragazza.
Kaede scoppia a ridere. Segue un breve silenzio.
«Chi diavolo ti credi di essere per parlarmi
in quel modo?» dice allora Kaede. «Pensi di fare meglio
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tu?» La folla esulta.
Vedo Tess sgattaiolare al sicuro.
Quella ragazza ha preso il suo posto sul ring, che fosse sua intenzione oppure no.
Adesso posso tornare a respirare.
Quando finalmente sono calmo, guardo con attenzione la nuova sfidante di Kaede.
Non è molto più alta di Tess e sicuramente più piccola di Kaede.
Per un attimo sembra che l’attenzione della folla l’abbia messa a disagio e non la considero una vera
sfidante, almeno finché non la studio di nuovo. No, mi sbagliavo.
Questa ragazza esita non perché ha paura di combattere, o perché ha paura di perdere, ma perché sta
pensando. Calcola. Ha i capelli neri legati in una coda e il fisico snello e atletico. Il suo
atteggiamento è deciso, con una mano appoggiata sul fianco come se niente al mondo possa coglierla
alla sprovvista.
Mi fermo ad ammirare la sua faccia e per un breve istante il mondo scompare.
La ragazza fa no con la testa a Kaede. Anche questo mi sorprende, non ho mai visto nessuno rifiutarsi
di combattere.
Le regole le conoscono tutti: se vieni scelta, devi combattere. Eppure questa ragazza non sembra
spaventata dall’ira della folla. Kaede le ride in faccia e dice qualcosa che non riesco a sentire. Però
Tess lo sente e mi lancia un rapido sguardo. È preoccupata.
Stavolta la ragazza annuisce. La folla è di nuovo esultante e Kaede sorridente. Mi sporgo un po’ di
più da dietro la canna fumaria. Questa ragazza ha un qualcosa... non so bene cosa. Ma i suoi occhi
sembrano ardere e, sebbene faccia caldo e potrebbe essere solo la mia immaginazione, sulla sua
faccia mi pare di vedere l’accenno di un sorriso.
Tess mi chiede con gli occhi cosa fare. Io ho un attimo di esitazione, ma poi alzo di nuovo un dito.
Sono grato alla misteriosa sconosciuta per aver aiutato Tess, ma con i miei soldi in ballo preferisco
puntare sul sicuro. Tess annuisce, quindi piazza la nostra puntata su Kaede.
Però, appena la nuova arrivata mette piede nel ring e vedo come si muove, so di aver commesso un
grosso errore. Kaede picchia come un toro, martella come un ariete.
La ragazza, invece, è una vipera.
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JUNE
NON SONO PREOCCUPATA DI PERDERE L’INCONTRO.
Sono più preoccupata di uccidere per sbaglio la mia avversaria.
Se scappo adesso, però, sono una ragazza morta.
Rimprovero me stessa in silenzio... in che razza di gioco mi sono cacciata? Appena ho visto questa
folla di scommettitori, il primo istinto è stato quello di defilarmi. Meglio non avere niente a che fare
con le risse da strada. Non è un bel posto per farsi beccare dalla polizia e trascinare in centrale per
essere interrogati. Ma poi mi sono detta che forse avrei potuto carpire qualche informazione utile da
una marmaglia del genere, molti abitanti del posto, qualcuno che potrebbe conoscere Day di persona.
Di sicuro Day non può essere un perfetto estraneo per tutti qui a Lake. E se qualcuno sa chi è,
scommetto che fa parte della gentaglia che guarda gli incontri illegali di skiz.
Però avrei dovuto tenere la bocca chiusa sulla ragazzina che hanno buttato nel ring. Avrei dovuto
lasciare che si difendesse da sola.
Ora è troppo tardi.
La ragazza di nome Kaede inclina la testa con un ghigno sulla faccia mentre ci fronteggiamo. Prendo
un respiro profondo. Ha già iniziato a girarmi intorno, puntandomi come una preda. Studio i suoi
movimenti.
Fa un passo in avanti con il piede destro. È mancina. Immagino che di solito sia un vantaggio per lei,
perché così sbilancia gli avversari, ma io sono addestrata anche per questo. Inverto il mio modo di
camminare. Le mie orecchie stanno annegando nel rumore.
Lascio che sia lei ad attaccare per prima. Digrigna i denti e si lancia in avanti a tutta velocità, con i
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pugni alzati. Vedo che prepara il colpo
perciò scatto di lato e il suo pugno mi passa accanto
sibilando.
Sfrutto il suo attacco contro di lei e la colpisco forte quando ha la schiena girata. Perde l’equilibrio e
per poco non finisce a terra. La folla si anima.
Kaede si volta di scatto per fronteggiarmi ancora. Il sorriso è sparito, sono riuscita a farla
arrabbiare. Mi si lancia addosso di nuovo, io le blocco i primi due pugni, ma il terzo mi colpisce
sulla mascella e mi fa girare la testa.
Ogni muscolo del mio corpo vorrebbe mettere fine a questa storia adesso, ma tengo a bada la collera.
Se mi batto troppo bene, qualcuno potrebbe insospettirsi. Il mio stile è troppo preciso per una
ragazza di strada.
Lascio che Kaede mi colpisca un’ultima volta. La folla strepita. La mia avversaria torna a sorridere,
sembra aver riacquistato sicurezza.
Aspetto che sia pronta a caricare, poi mi lancio in avanti, mi piego sulle gambe e le faccio lo
sgambetto. Lei neanche se ne accorge e si schianta a terra di schiena. Il pubblico urla divertito.
Anche se la maggior parte degli incontri di skiz sarebbe terminata con la sua caduta, Kaede si rimette
in piedi a fatica. Si pulisce del sangue dalla bocca. Prima che possa riprendere del tutto fiato, emette
un urlo di rabbia e mi si scaglia di nuovo contro. Avrei dovuto notare il piccolo bagliore vicino al
suo polso. Quando mi colpisce al fianco con un pugno e provo un dolore acuto, pungente, la spingo
via. Lei mi fa l’occhiolino e riprende a girarmi intorno. Io mi tengo il fianco ed è allora che mi sento
qualcosa di caldo e bagnato all’altezza della vita. Abbasso lo sguardo.
Una ferita da taglio. Solo un coltello seghettato avrebbe potuto lacerarmi così. Guardo Kaede a occhi
stretti.
Le armi non dovrebbero far parte di un incontro di skiz... ma questo non mi sembra un combattimento
in cui si rispettano tutte le regole.
Il dolore mi stordisce e mi rende furiosa. Niente regole? D’accordo.
Quando Kaede riparte alla carica, la schivo e le torco il braccio in una morsa serrata. Con un unico
movimento glielo rompo. Lei urla di dolore e prova a liberarsi, ma io continuo a stringere, girandole
il braccio rotto dietro la schiena finché non la vedo sbiancare. Un coltello le scivola da sotto la
canottiera e cade a terra sferragliando. (Seghettato, proprio come pensavo. Kaede non è una ragazza
di strada qualunque. Ha la capacità di procurarsi una bella arma come quella, il che vuol dire che
potrebbe essere impegnata nelle stesse attività di Day. Se non fossi sotto copertura, l’arresterei
immediatamente e la porterei dentro per interrogarla.) La ferita mi brucia, ma stringo i denti e
mantengo la presa sul suo braccio.
Alla fine Kaede muove in modo frenetico con l’altra mano per arrendersi. La lascio. Crolla a terra
sulle ginocchia e il braccio buono.
La folla impazzisce. Mi stringo il fianco sanguinante più forte che posso e quando mi giro vedo i
soldi che passano di mano. In due aiutano Kaede a lasciare il ring; prima di voltarsi mi lancia
un’occhiata carica di odio, mentre il resto degli spettatori inizia a gridare: «Scegli! Scegli! Scegli!».
Forse è il dolore da capogiro della ferita a rendermi sprezzante.
Non riesco più a contenere la rabbia. Mi volto senza dire una parola, arrotolo le maniche della
camicia fin sopra ai gomiti e tiro su il colletto. Quindi esco dal ring e inizio a spintonare la gente per
farmi strada fuori dal cerchio.
Il coro della folla cambia. Sento i fischi che cominciano. Sono tentata di attivare il microfono e dire
a Thomas di inviare dei soldati, invece rimango zitta. Mi sono ripromessa che non avrei chiamato per
ricevere copertura se non in caso APROLIBRO.COM
di assoluta necessità e di certo non intendo bruciare la mia
copertura per una rissa.
Quando riesco a uscire dall’edificio, azzardo un’occhiata alle mie spalle. Una mezza dozzina di
spettatori mi sta seguendo e ha l’aria piuttosto arrabbiata. Sono gli scommettitori, penso, quelli che ci
tengono di più. Li ignoro e continuo a camminare.
«Torna qui!» grida uno di loro.
«Non puoi andartene così!» Mi metto a correre. Al diavolo questa ferita. Raggiungo un grosso
cassonetto e mi ci arrampico sopra, pronta a saltare verso un davanzale del primo piano.
Se salgo abbastanza in alto, non riusciranno a prendermi. Mi do lo slancio più forte che posso e
riesco ad aggrapparmi al davanzale con una mano, ma la ferita mi ha rallentato.
Qualcuno mi afferra la caviglia e mi strattona. Perdo la presa, gratto contro il muro e mi schianto a
terra.
Sbatto la testa così forte che il mondo si mette a girare. Poi mi sono addosso, mi tirano su e mi
trascinano verso la folla che esulta.
Mi sforzo di schiarirmi la mente, ma delle macchioline mi esplodono nel campo visivo. Cerco di
attivare il microfono, ma ho la lingua impastata di sabbia. Thomas, bisbiglio, ma esce Metias.
Allungo una mano a occhi chiusi verso mio fratello e poi mi ricordo che non è più qui per afferrarla.
All’improvviso sento uno schiocco seguito da alcune grida e l’attimo dopo mi lasciano andare. Cado
a terra come un sacco. Provo a rimettermi in piedi, ma barcollo e ricado. Da dove arriva tutta questa
polvere? Stringo gli occhi, cercando di guardarci attraverso. Sento ancora il rumore e il caos degli
spettatori. Qualcuno deve aver fatto esplodere una bomba di polvere.
Poi una voce mi dice di alzarmi.
Quando guardo di lato, vedo un ragazzo che mi tende la mano. Ha gli occhi azzurri, la faccia sporca e
un vecchio berretto, e in questo momento penso che sia il ragazzo più bello che abbia mai visto.
«Andiamo» mi dice. Gli afferro la mano.
Tra la polvere e la confusione, ci precipitiamo in fondo alla strada e spariamo tra le ombre lunghe
della sera.
APROLIBRO.COM
DAY
NON VUOLE DIRMI IL SUO NOME.
Posso capirlo. Molti ragazzini per le strade di Lake vogliono tenere segreta la loro identità,
specialmente dopo aver partecipato a qualcosa di illegale come un incontro di skiz. E poi, non lo
voglio sapere il suo nome. Sono ancora arrabbiato per aver perso la scommessa. La sconfitta di
Kaede mi è costata mille banconote. Soldi destinati a una fiala di medicina. Il tempo sta per scadere
ed è tutta colpa di questa ragazza. Stupido me. Se non avesse il merito di aver tirato Tess fuori dal
ring, l’avrei lasciata a difendersi da sola.
Però so che Tess mi avrebbe guardato con gli occhi da cucciolo smarrito per il resto della giornata.
Perciò non l’ho fatto.
Tess continua a fare domande mentre aiuta la Ragazza – credo che è così che la chiamerò – a ripulirsi
al meglio la ferita sul fianco. Rimango in silenzio per la maggior parte del tempo. Sono di guardia.
Dopo l’incontro di skiz e la bomba di polvere siamo finiti ad accamparci sul balcone di una vecchia
biblioteca. (Conta ancora come balcone anche se l’intera parete è crollata, lasciando il pavimento
esposto all’aria?) In effetti, le pareti sono crollate sulla maggior parte dei piani.
La biblioteca fa parte di un vecchio edificio che adesso giace quasi interamente nell’acqua, a
centinaia di metri dalla sponda orientale del lago, completamente ricoperta di erbacce. Per gente
come noi è un buon posto per trovare riparo.
Sorveglio le strade lungo le sponde alla ricerca di scommettitori arrabbiati che potrebbero essere
ancora sulle tracce della Ragazza.
Dalla mia postazione sul bordo del balcone, mi guardo indietro da sopra la spalla. La Ragazza dice
qualcosa a Tess e lei ricambia con unAPROLIBRO.COM
sorriso timido.
«Mi chiamo Tess» le sento dire.
Lo sa che non deve far sapere il mio, ma continua a parlare. «Da che parte di Lake vieni? Sei di un
altro settore?» Studia la ferita della Ragazza. «È un brutto taglio, ma niente che non possa guarire.
Domani mattina proverò a trovarti del latte di capra. Ti farà bene. Fino ad allora dovrai sputarci
sopra.
Aiuterà a evitare che s’infetti.» Dall’espressione della Ragazza capisco che lo sa già.
«Grazie» dice a Tess sottovoce, poi lancia uno sguardo nella mia direzione. «Vi ringrazio per
l’aiuto.» Tess sorride di nuovo, ma si vede che anche lei è un po’ a disagio con la nuova arrivata.
«E io per il tuo.» Stringo la mascella. Tra circa un’ora calerà la notte e io ho un’estranea ferita che si
è aggiunta alle mie responsabilità.
Dopo un po’ mi alzo e raggiungo Tess e la Ragazza. Da qualche parte in lontananza gli altoparlanti
della città hanno iniziato a blaterare il giuramento alla Repubblica.
«Resteremo qui per la notte.» Guardo la Ragazza. «Come ti senti?»
«Sto bene» mi risponde, ma si vede che sta soffrendo. Non sa dove mettere le mani, così continua a
portarsele alla ferita e a fermarsi un secondo prima di toccarla. Provo un desiderio improvviso di
confortarla.
«Perché mi hai salvata?» mi chiede.
Io sbuffo. «Non ne ho la più pallida idea. Mi sei costata mille banconote.» La Ragazza sorride per la
prima volta, ma nei suoi occhi c’è una prudenza indelebile. Sembra che stia assorbendo e
analizzando ogni mia parola. Non si fida di me. «Ti piace scommettere forte, eh? Mi dispiace. Mi ha
fatto arrabbiare.» Cambia posizione. «Deduco che quella Kaede non fosse una tua amica.»
«Fa la barista al confine tra Alta e Winter. Una conoscenza recente.» Tess scoppia a ridere e mi
guarda in un modo che non so decifrare.
«Gli piace fare la conoscenza di ragazze carine.»
«Tieni a posto la lingua, cugina» la ammonisco. «Non hai già visto la morte abbastanza da vicino per
oggi?» Tess annuisce, un ghigno sulla faccia.
«Vado a prendere dell’acqua.» Salta in piedi e si dirige verso le scale completamente esposte.
Quando si è allontanata, mi metto a sedere accanto alla Ragazza e con la mano le urto
inavvertitamente il fianco. Lei fa un respiro corto e io mi allontano, temendo di averle fatto male.
«Dovrebbe rimarginarsi presto, se non s’infetta. Magari dovresti riposarti un paio di giorni. Se vuoi,
puoi restare con noi.» La Ragazza alza le spalle.
«Grazie. Appena mi rimetto, giuro che troverò quella Kaede.» Mi piego all’indietro e studio la sua
faccia. Ha la pelle più chiara delle altre ragazze che vedo nel settore e grandi occhi scuri in cui
brillano delle macchioline dorate nella luce calante. Si capisce la sua razza, che è abbastanza insolito
da queste parti. Nativa americana, forse, o caucasica. Qualcosa del genere. È carina in un modo che
mi confonde, proprio come ha fatto nel ring dello skiz. No, carina non è la parola adatta. Stupenda.
Ma non solo, mi ricorda qualcuno. Magari è l’espressione dei suoi occhi, un misto di fredda logica e
sfacciata fierezza... Sento le mie guance che si riscaldano e subito guardo da un’altra parte, contento
che sia quasi buio. Forse non avrei dovuto aiutarla. Una distrazione troppo forte. In questo momento
tutto ciò che penso è quello che darei per poterla baciare o passarle le dita tra i capelli.
«Allora, Ragazza,» dico dopo un po’ «grazie per l’aiuto di prima. Per Tess, voglio dire. Dove hai
imparato a combattere in quel modo? Hai rotto il braccio a Kaede senza il minimo sforzo.» La
Ragazza ha un attimo di esitazione. Con la coda dell’occhio vedo che mi sta osservando. Mi giro per
guardarla in faccia e invece lei fa finta
di rimirare l’acqua, come se essere scoperta a osservarmi la
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imbarazzasse. Si tocca il fianco soprappensiero e poi schiocca la lingua come fosse una sua
abitudine. «Passo un sacco di tempo al confine con Batalla. Mi piace vedere i cadetti che si
allenano.»
«Sei una che ama correre rischi.
Ma ti batti in modo impressionante.
Scommetto che non hai problemi a stare da sola.» La Ragazza scoppia a ridere.
«Non vedi oggi come me la sono cavata bene da sola?» Scuote la testa e la lunga coda ondeggia.
«Non avei dovuto nemmeno accostarmi all’incontro di skiz, ma che posso farci? Sembrava che la tua
amica avesse bisogno di una mano.» Poi sposta lo sguardo su di me. La sua espressione è ancora
velata dalla stessa diffidenza. «E tu? Eri anche tu tra la folla?»
«No. Tess era laggiù perché le piace gustarsi l’azione ed è leggermente miope. A me piace osservare
da lontano.»
«Tess. È la tua sorellina?» Esito. «Già, qualcosa del genere.
In effetti era Tess che volevo proteggere con la mia bomba di polvere.» La Ragazza solleva un
sopracciglio. «Come sei premuroso» dice. «Da queste parti la sanno costruire tutti una bomba di
polvere?» Faccio un gesto di sufficienza con la mano. «Certo, anche i bambini. È facile.» La guardo.
«Tu non sei di Lake, vero?» La Ragazza scuote la testa.
«Settore Tanagashi. Cioè, una volta vivevo lì.»
«Tanagashi è parecchio lontano.
Sei venuta fino a qui per vedere un incontro di skiz?»
«Certo che no.» La Ragazza si piega all’indietro e si stende con calma. Il centro della fasciatura si è
tinto di rosso scuro. «Vivo cercando materiale utilizzabile tra i rifiuti.
Finisco per viaggiare tanto.»
«In questo momento Lake non è un posto sicuro» le dico. Una macchia turchese nell’angolo del
balcone cattura il mio sguardo. C’è un ciuffo di margherite di mare che è cresciuto in una crepa del
pavimento. Le preferite di mia madre. «Potresti beccarti il morbo laggiù.» La Ragazza mi sorride,
come se sapesse qualcosa che io non so. Mi piacerebbe capire chi mi ricorda.
«Non preoccuparti» mi dice. «Sono una ragazza molto attenta, quando non sono arrabbiata.» Quando
finalmente scende la sera e la Ragazza è caduta in un sonno profondo, chiedo a Tess di restare con lei
così posso fare un salto a vedere come sta la mia famiglia. Tess è felice di farlo.
Andare nelle zone di Lake infestate dal morbo la rende nervosa e ogni volta che torniamo non fa che
grattarsi le braccia, come se sentisse l’infezione spandersi sulla pelle. M’infilo una manciata di
margherite nella manica della camicia e un paio di banconote in tasca per ogni evenienza. Prima di
andare Tess mi aiuta ad avvolgere entrambe le mani con un panno per evitare di lasciare impronte in
giro.
La notte è fredda più del solito.
Per strada non c’è nessuna pattuglia e gli unici rumori sono quelli delle macchine che passano ogni
tanto e degli spot sui jumboschermi in lontananza. La strana X sulla nostra porta è ancora lì, evidente
più che mai. Infatti, sono sicuro che i soldati siano tornati almeno una volta, perché il rosso è vivo e
la vernice fresca. Devono aver effettuato un secondo controllo dell’intera area. Qualunque sia il
motivo per cui hanno marcato la nostra porta la prima volta, non se n’è andato. Aspetto nell’ombra
vicino a casa di mia madre, così vicino che riesco a sbirciare attraverso le fessure della recinzione
traballante sul retro.
Quando sono sicuro che nessuno pattugli le strade, attraverso di corsa la strada e avanzo lentamente
fino a un’asse che porta sotto alla veranda.
Sposto la tavola di lato, striscio nell’intercapedine buia
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che sa di stantio e rimetto la tavola al suo posto dietro di me.
Dei piccoli fasci di luce s’insinuano tra le crepe del pavimento della stanza sopra di me. Riesco a
sentire la voce di mia madre dal retro, dove si trova l’unica camera da letto. Avanzo strisciando fino
a lì, poi mi accovaccio accanto alla grata di ventilazione e guardo dentro.
John è sul bordo del letto con le braccia incrociate. Da come sta seduto capisco che è sfinito. Ha le
scarpe incrostate di fango e lo so che mamma deve averlo sgridato per quello. John guarda verso
l’altro lato della stanza, dove immagino ci sia mia madre.
Sento di nuovo la sua voce, stavolta abbastanza forte da capire cosa dice. «Nessuno di noi due si è
ammalato, almeno per adesso.» John riporta lo sguardo sul letto.
«Non sembra che sia contagioso e la pelle di Eden sembra ancora a posto. Non sanguina.»
«Non ancora» risponde John.
«Dobbiamo prepararci al peggio, mamma. Nel caso in cui Eden...» Il tono di mamma è deciso. «Non
ti permetto di dire una cosa del genere in casa mia, John.»
«I soppressori non bastano.
Chiunque ce li abbia dati è molto gentile, ma non bastano.» John scuote la testa e si alza. Anche
adesso, specialmente adesso, deve proteggere mia madre dalla verità su di me. Quando si allontana
dal letto, vedo Eden disteso con una coperta tirata fin sotto il mento nonostante il caldo. Ha la pelle
bagnata di sudore e anche il colorito è strano, un verde chiaro malsano.
Non ricordo altre epidemie con sintomi del genere. Mi viene un groppo in gola.
La camera da letto è rimasta la stessa, con le poche cose al suo interno vecchie e malconce ma
ancora confortevoli.
C’è il materasso rattoppato dove giace Eden con accanto la cassettiera graffiata su cui un tempo
scarabocchiavo. C’è il nostro ritratto obbligatorio dell’Elector sulla parete, affiancato da un po’ di
foto nostre, come se anche lui fosse un membro della famiglia. Non c’è altro.
Quando Eden era un poppante, John e io gli tenevamo le mani e lo aiutavamo a camminare da un capo
all’altro della stanza.
Ogni volta che ci riusciva da solo, John gli batteva il cinque.
Adesso vedo l’ombra di mia madre ferma al centro della stanza.
Non dice niente. La immagino con le spalle curve, la testa tra le mani e la sua espressione coraggiosa
sparita per sempre.
John sospira. Sopra di me risuona il rumore dei suoi passi e so che deve aver attraversato la camera
per abbracciarla. «Vedrai che starà bene. Magari questo virus è meno pericoloso degli altri e si
riprenderà da solo.» Segue una pausa. «Vado a vedere che c’è da mangiare.» Lo sento uscire dalla
stanza.
Sono sicuro che John odiava lavorare nella centrale termoelettrica, ma almeno poteva uscire di casa
e staccare la testa da tutto per un po’. Ora è intrappolato qui, senza possibilità di aiutare Eden.
Scommetto che questa cosa lo sta uccidendo. Afferro una manciata di terra e stringo il pugno per la
rabbia.
Se solo l’ospedale avesse avuto delle medicine.
Qualche attimo dopo vedo mamma attraversare la stanza e sedersi sul bordo del letto di Eden.
Ha di nuovo le mani fasciate. Gli sussurra delle parole di conforto e poi si china su di lui per
spostargli i capelli dalla faccia. Chiudo gli occhi.
Richiamo alla mente un’immagine del suo volto, morbido e bello e preoccupato, i suoi occhi azzurri
luminosi e la bocca rosa e sorridente.
Mia madre mi rimboccava sempre APROLIBRO.COM
le coperte, lisciando per bene le pieghe e augurandomi sogni
d’oro.
Mi domando cosa stia sussurrando a Eden in questo momento.
Di colpo mi manca da morire.
Vorrei uscire di corsa da qui e bussare alla porta.
Spingo i pugni nella terra con tutta la forza che ho. No. Il rischio sarebbe troppo grande. Troverò un
modo di salvarti, Eden. Te lo prometto. Maledico me stesso per aver rischiato tutti quei soldi in una
scommessa di skiz invece di escogitare un sistema più affidabile di racimolarne altri.
Tiro fuori le margherite di mare che ho infilato nella manica della camicia. Alcune sono già
avvizzite, ma le sistemo lo stesso con la massima cura e appiattisco leggermente il terreno vicino.
Probabilmente mamma non le vedrà mai, ma io lo so che sono qui.
Servono a provare a me stesso che sono ancora vivo. Che ancora veglio su di loro.
Qualcosa di rosso accanto alle margherite attira il mio sguardo.
Aggrotto la fronte, poi sposto un po’ di terra per dare un’occhiata.
Scopro un simbolo, un’iscrizione al di sotto della terra e dei sassi.
Un numero, proprio come quello che Tess e io abbiamo visto sulla sponda del lago, soltanto che
questo è il 2544.
Quando ero più piccolo ogni tanto venivo a nascondermi qui sotto, quando con John giocavamo a
nascondino. Ma non ricordo di averlo mai visto prima. Mi abbasso e ci appoggio sopra l’orecchio.
All’inizio non sento niente. Poi colgo un suono debole, un sibilo, seguito dal gorgoglio come di un
liquido o di vapore. Probabilmente c’è un intero sistema di tubazioni lì sotto, un condotto che arriva
fino al lago. Magari fa il giro di tutto il settore. Spazzo via altra terra, ma non appare nessun’altra
parola, nessun simbolo. I numeri sembrano sbiaditi dal tempo e la vernice è scrostata.
Rimango lì per un po’, a studiarlo in silenzio. Poi guardo la stanza un’ultima volta attraverso la grata
di ventilazione, riemergo da sotto la veranda e mi tuffo nell’oscurità in direzione della città.
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JUNE
MI SVEGLIO ALL’ALBA. Tengo gli occhi socchiusi per via della luce (da dove arriva, da dietro?)
e per un attimo mi sento disorientata, incerta sul perché stia dormendo in un edificio abbandonato che
si affaccia sull’oceano, con delle margherite di mare che crescono ai miei piedi. Un dolore acuto allo
stomaco mi strappa un rantolo. Sono stata accoltellata, mi rendo conto. Sono nel panico per un
secondo, poi però mi torna alla mente l’incontro di skiz e il coltello e il ragazzo che mi ha salvata.
Quando vede che mi stiracchio, Tess corre subito da me. «Come ti senti?» È evidente che ancora non
si fida di me. «Dolorante» mormoro. Non voglio che pensi di aver bendato male la ferita, quindi
aggiungo: «Però molto meglio di ieri».
Mi ci vuole un minuto per accorgermi che il ragazzo che mi ha salvato se ne sta seduto in un angolo, a
dondolare le gambe dal balcone con lo sguardo perso sull’acqua. Devo nascondere il mio imbarazzo.
In un giorno normale, senza la ferita al fianco, non mi sarei mai lasciata sfuggire un dettaglio come
quello. La notte scorsa è andato da qualche parte.
Mentre ero nel dormiveglia ho preso mentalmente nota della direzione che ha imboccato (sud, verso
Union Station).
«Spero non ti dispiaccia aspettare qualche ora per mangiare» mi dice. Porta il vecchio berretto, ma
riesco comunque a vedere delle ciocche chiarissime.
«Abbiamo perso la scommessa, quindi adesso non abbiamo soldi per sfamarci.» Incolpa me per la
sua perdita. Mi limito ad annuire. Richiamo alla mente la voce crepitante di Day che usciva dagli
altoparlanti e la paragono a quella del ragazzo.
Rimane a fissarmi per un po’ senza sorridere, come se sapesse cosa sto facendo, poi torna di guardia.
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No, non posso essere sicura che la voce
appartenga a lui.
Potrebbe somigliare a quella di migliaia di persone qui a Lake.
Mi accorgo che il microfono che ho in bocca è ancora spento.
Thomas sarà furioso. «Tess» dico.
«Vado giù a rinfrescarmi. Torno tra un minuto.»
«Sicura di farcela da sola?»
«Sto bene.» Sorrido. «Se però mi vedi galleggiare a faccia in giù, ti prego, vieni a recuperarmi prima
che la corrente mi trascini via.» I gradini dell’edificio un tempo dovevano far parte di una scala
interna, ma adesso sono esposti alle intemperie. Mi alzo in piedi e li affronto uno alla volta
barcollando, stando attenta a non scivolare e precipitare di sotto. Qualunque cosa mi abbia fatto Tess
la notte scorsa, sembra che stia funzionando. Il fianco brucia lo stesso, ma il dolore è meno forte e
riesco a camminare con minor sforzo rispetto a ieri.
Raggiungo la parte inferiore dell’edificio più in fretta di quanto pensassi. Tess mi ricorda Metias,
come le sue cure mi fecero guarire il giorno del suo insediamento.
Ma in questo momento non posso gestire ricordi legati a Metias.
Mi schiarisco la gola e mi concentro sul percorso fino all’acqua.
Il sole nascente è ormai abbastanza alto da tingere l’intero lago d’oro opaco e riesco a vedere la
sottile striscia di terra che separa il bacino dall’oceano Pacifico.
Scendo giù fino al piano del palazzo al livello dell’acqua. Ogni parete è crollata, così posso
camminare fino al bordo del palazzo e immergere le gambe nell’acqua. Quando guardo verso il
fondo, vedo che questa vecchia biblioteca continua per molti piani. Forse quindici in tutto, a
giudicare dalla posizione degli altri edifici e dall’inclinazione del terreno dalla linea di costa. Più o
meno sei piani dovrebbero essere sommersi.
Tess e il ragazzo sono seduti sul tetto, molti piani più su, fuori portata d’orecchio.
Guardo l’orizzonte, schiocco la lingua e attivo il microfono.
L’auricolare si mette a ronzare e un secondo dopo sento una voce familiare. «Signorina Iparis?» dice
Thomas. «È lei?»
«Sono qui» mormoro.
«Sto bene.»
«Mi piacerebbe sapere cos’ha combinato, signorina Iparis. Sono ventiquattro ore che provo a
contattarla. Ero pronto a inviare dei soldati per recuperarla, e sappiamo entrambi quanto ne sarebbe
stata felice il comandante Jameson.»
«Sto bene» ripeto. Frugo nella tasca con la mano e tiro fuori il ciondolo di Day. «Sono rimasta ferita
in modo lieve in un incontro di skiz. Niente di serio.» Sento un sospiro dall’altra parte.
«Be’, non terrà il microfono spento così a lungo un’altra volta, mi ha capito?» continua Thomas.
«Ricevuto.»
«Ha trovato qualcosa?» Lancio un’occhiata in alto, dove il ragazzo sta dondolando le gambe.
«Non ne sono sicura. Un ragazzo e una ragazza mi hanno aiutato a venir fuori dal caos dello skiz. La
ragazza mi ha bendato la ferita.
Resterò con loro finché non camminerò meglio.»
«Camminare meglio?» Thomas alza la voce. «Di che razza di ferita lieve stiamo parlando?»
«È solo una ferita da taglio. Non facciamone un dramma.» Thomas emette un suono strozzato, ma lo
ignoro e continuo. «Comunque, non è questo il punto. Per sfuggire alla folla il ragazzo ha messo
insieme una bomba di polvere. Ci sa fare.
Non so chi sia, ma intendo raccogliere
maggiori informazioni.»
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«Pensa che si tratti di Day?» mi chiede Thomas. «Non sembra il tipo da andarsene in giro a salvare
la gente.» Salvare la gente è una caratteristica della maggior parte dei crimini di Day. Tutti, eccetto
Metias. Prendo un respiro profondo.
«No. Non sembra il tipo.» Abbasso la voce finché non è che un sussurro. Meglio non azzardare
ipotesi con Thomas, non vorrei che precipitasse le cose e m’inviasse dietro delle truppe. Se
avviassimo un’operazione così costosa senza prove, il comandante Jameson mi butterebbe fuori dalla
sua pattuglia a calci. E poi, quei due mi hanno tirato fuori da guai seri.
«Però potrebbero sapere qualcosa di Day.» Thomas rimane un momento in silenzio.
Sento confusione in sottofondo, un disturbo elettrostatico, e poi la sua voce distante è insieme a
quella del comandante Jameson. Le starà raccontando della mia ferita, chiedendo se è prudente
lasciarmi qui da sola. Sbuffo contrariata.
Come se non mi fossi mai ferita p r i m a. Dopo qualche minuto Thomas ritorna al microfono. «Be’,
faccia attenzione.» Poi fa una pausa. «Il comandante Jameson dice di proseguire la missione, se la
ferita non le dà troppo fastidio.
Adesso ha da fare con la pattuglia.
Ma la avverto. Se il suo microfono resterà spento per più di qualche ora, manderò dei soldati a
cercarla, a costo di far saltare la sua copertura. Intesi?» Mi sforzo di contenere l’irritazione. Il
comandante Jameson non crede che otterrò nulla con questa missione, la sua mancanza di interesse è
impressa in ogni parola della risposta di Thomas. E per quanto riguarda Thomas... raramente ha un
tono così deciso con me. Posso solo immaginare quanto sia stato stressato nelle ultime ore.
«Sissignore» dico.
Quando Thomas non risponde, alzo di nuovo lo sguardo sul ragazzo.
Ricordo a me stessa di osservarlo più da vicino quando tornerò di sopra e di non lasciare che la
ferita mi distragga.
Rimetto il ciondolo in tasca e mi tiro su.
Studio il mio soccorritore tutto il giorno mentre lo seguo per le strade del settore Alta di Los
Angeles. Prendo nota di ogni minimo dettaglio, anche quelli apparentemente insignificanti.
Per esempio, il ragazzo scarica il peso sulla gamba sinistra. La sua andatura zoppicante è così lieve
che quando cammina accanto a me e Tess neanche la noto. Me ne accorgo quando si siede e si alza:
una leggera esitazione nel flettere il ginocchio. Può essere un infortunio grave che non è mai guarito
del tutto o uno minore ma recente. Una brutta caduta, magari.
E non è il suo unico infortunio.
Ogni tanto stringe i denti quando muove il braccio. Dopo che lo fa un paio di volte, capisco che deve
avere una ferita che si fa sentire ogni volta che lo allunga o lo abbassa troppo.
Ha una faccia perfettamente simmetrica, un mix di tratti asiatici e caucasici, bella nonostante la
sporcizia e il sudiciume. L’occhio destro leggermente più chiaro del sinistro. All’inizio penso che si
tratti di un gioco di luce, ma lo noto di nuovo quando passiamo davanti a un forno e ammiriamo le
forme di pane. Mi domando se sia qualcosa che gli è capitato o se sia un difetto congenito.
Mi accorgo anche di altre cose: quanto conosca bene strade lontane dal settore Lake, come se potesse
percorrerle a occhi chiusi; quanto siano svelte le sue dita quando si stira le pieghe della camicia
all’altezza della vita; il modo in cui guarda gli edifici, come se li stesse memorizzando. Tess non lo
chiama mai per nome. Così come si rivolgono a me chiamandomi “Ragazza”, non usano niente che lo
identifichi. Quando inizio a sentirmi stanca per il troppo camminare e mi gira la testa, ci fa fermare e
va a cercarmi dell’acqua mentre riprendo fiato. Si accorge che sono esausta senza che dica una
parola.
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Il pomeriggio si avvicina.
Evitiamo il sole più forte bazzicando tra i venditori ambulanti nella parte più povera di Lake. Dalla
tenda sotto cui ci siamo riparati, Tess cerca di mettere a fuoco le bancarelle.
Saranno a una quindicina di metri e lei è miope, eppure in qualche modo riesce a cogliere le
differenze tra i venditori di frutta e i venditori di verdura, tra le facce dei diversi mercanti, tra chi ha
i soldi e chi no. Lo so perché vedo i leggeri movimenti del suo volto, la soddisfazione quando riesce
a mettere a fuoco qualcosa e la frustrazione nel non riuscirci.
«Come fai?» le chiedo.
Tess mi lancia uno sguardo, i suoi occhi si rifocalizzano. «Eh? A fare cosa?»
«Sei miope. Come fai a vedere così tanto di quello che hai attorno?» Per un attimo Tess sembra
sorpresa, poi colpita. Dietro di lei, noto che il ragazzo mi osserva.
«Riesco a distinguere piccole differenze nei colori, anche se sono un po’ sfocati» risponde Tess.
«Vedo le banconote argentate che sbucano dal borsello di quell’uomo, per esempio.» I suoi occhi
guizzano verso il cliente di uno dei venditori.
Annuisco. «Ingegnoso da parte tua.» Tess arrossisce e si guarda le scarpe. Per un attimo sembra così
tenera che non posso fare a meno di ridere. Mi sento in colpa all’istante. Come posso ridere così
presto dopo la morte di mio fratello? Questi due hanno un modo strano di farmi perdere il sangue
freddo.
«Sei molto acuta, Ragazza» osserva con calma lui. Tiene gli occhi fissi nei miei. «Adesso capisco
come hai fatto a sopravvivere per strada.» Io alzo le spalle. «È l’unico modo per sopravvivere, no?»
Il ragazzo sposta lo sguardo altrove. Posso espirare. Mi accorgo di aver trattenuto il fiato,
completamente paralizzata dai suoi occhi.
«Dovresti essere tu ad aiutarci a rubare del cibo al posto mio» continua. «I venditori si fidano
sempre di più delle ragazze, specialmente di una come te.»
«Che vuoi dire?»
«Vai dritta al punto.» Non riesco a trattenere un sorriso. «Anche tu.» Mentre ci mettiamo
comodamente seduti per guardare le bancarelle, prendo nota di alcune cose. Posso permettermi di
restare con questi due ancora per una notte, finché non mi sarò ristabilita abbastanza per rimettermi a
caccia di informazioni su Day. Chissà, magari saranno proprio loro a fornirmi qualche indizio.
Quando finalmente arriva la sera e il calore del sole comincia a diminuire, torniamo nei pressi del
lago e cerchiamo un posto per accamparci. Tutt’intorno vedo il tremolio delle candele che si
accendono di finestra in finestra, molte senza vetro, e qui e lì la gente del posto anima piccoli fuochi
lungo i bordi dei vicoli. I poliziotti del nuovo turno iniziano la loro ronda. Con questa sono alla
quinta notte sul campo. Ancora non riesco ad abituarmi alle pareti fatiscenti, ai fili di vestiti consunti
appesi fuori dai balconi, ai capannelli di piccoli mendicanti che sperano di rimediare qualcosa da
mangiare dai passanti... ma almeno il mio disprezzo è diminuito. Ricordo non senza vergogna la sera
del funerale di Metias, quando ho lasciato una grossa bistecca intatta nel piatto senza pensarci due
volte. Tess ci cammina davanti per niente disturbata da ciò che la circonda, il passo allegro e
spensierato. La sento canticchiare un motivetto a bocca chiusa.
«Il valzer dell’Elector» mormoro, riconoscendo la canzone.
Il ragazzo sta camminando al mio fianco e da lì mi osserva. Poi sogghigna. «Sembri un’ammiratrice
di Lincoln, è così?» Non posso dirgli che a casa ho le copie di tutte le sue canzoni e anche qualche
ricordo autografato, che l’ho vista cantare dal vivo degli inni politici a un banchetto organizzato dalla
città, né che una volta ha scritto una canzone in onore di tutti i generali repubblicani al fronte. Perciò
sorrido. «Direi di sì.» Lui ricambiaAPROLIBRO.COM
il mio sorriso. Ha dei denti stupendi, la miglior dentatura che
abbia visto per le strade finora.
«Tess adora la musica» risponde.
«Non fa che trascinarmi davanti ai bar del quartiere e obbligarmi ad aspettare che finisca di ascoltare
qualunque cosa stiano suonando dentro in quel momento. Non lo so.
Forse è una roba da ragazze.» Mezz’ora dopo il ragazzo si accorge di nuovo della mia stanchezza.
Richiama Tess e ci guida fino a un vicolo, dove una serie di enormi cassonetti di metallo sta
incastrata tra due muri.
Ne spinge uno in avanti per farci un po’ di spazio. Poi si accovaccia dietro uno di loro, con un gesto
dice a Tess e a me di sederci e inizia a sbottonarsi il giubbotto.
Io divento paonazza e ringrazio tutti gli dei del mondo per il buio che ci circonda. «Non ho freddo e
non sto sanguinando» gli dico. «Non serve che ti spogli.» Il ragazzo mi guarda. Mi sarei aspettata che
i suoi occhi fossero meno luminosi di notte e invece sembrano riflettere la luce delle finestre sopra di
noi. Ha l’aria divertita. «Cosa ti fa pensare che sia per te, tesoro?» Si sfila la giacca, la ripiega con
cura e la mette a terra accanto a una delle ruote del cassonetto. Tess si siede e senza fare complimenti
ci appoggia sopra la testa, come se fosse una vecchia abitudine.
Mi schiarisco la gola.
«Ovviamente» borbotto, ignorando la risatina del ragazzo.
Tess rimane sveglia a parlare con noi, ma subito le sue palpebre si appesantiscono e si addormenta
con la testa sulla giacca. Il ragazzo e io piombiamo nel silenzio. Mi attardo con lo sguardo su Tess.
«Sembra molto fragile» bisbiglio.
«Già... ma è più dura di quel che sembra.» Alzo gli occhi su di lui. «Sei fortunato ad averla al tuo
fianco.» Poi sposto l’attenzione sulle sue gambe, lui nota il mio gesto e si ricompone in fretta.
«Dev’esserti tornata utile quando ti ha curato la gamba.» Il ragazzo capisce che ho notato la sua
andatura zoppicante. «No.
Questa risale a tanto tempo fa.» Ha un momento di esitazione, poi decide di non aggiungere altro. «A
proposito, come va la tua ferita?»
«Non è niente» gli dico, accompagnandomi con un gesto della mano. Ma nel momento stesso in cui lo
dico, stringo i denti.
Andarsene a spasso tutto il giorno non ha giovato e il dolore sta tornando come fuoco liquido.
Il ragazzo vede la sofferenza sul mio volto. «Dovremmo cambiare quelle bende.» Si alza e, senza
svegliare Tess, sfila un rotolo di garza dalla sua tasca. «Non sono bravo quanto lei» mi avverte. «Ma
preferirei non disturbarla.» Si siede accanto a me e mi slaccia gli ultimi due bottoni della camicia,
quindi la solleva fino a scoprirmi l’addome fasciato. La sua pelle sfiora la mia. Cerco di tenere
l’attenzione sulle sue dita. Allunga una mano dietro a uno dei suoi anfibi e tira fuori un affare che
assomiglia a un coltello da cucina compatto (manico argentato liscio, lama consumata... deve averlo
usato tante volte e per tagliare cose molto più dure della stoffa).
L’altra mano è ancora sul mio stomaco. Anche se ha le dita callose per gli anni passati in strada, sono
così attente e delicate che sento un calore sulle guance.
«Stai ferma» mi sussurra. Poi appoggia la lama di piatto tra la pelle e le bende e taglia il tessuto.
Ho un sussulto. Il ragazzo solleva le garze dalla ferita.
Nel punto in cui Kaede mi ha pugnalato ancora sanguino un po’, ma per fortuna non ci sono segni di
infezione. Tess sa il fatto suo. Il ragazzo srotola il resto della vecchia fasciatura dalla vita, la getta
via e comincia a bendarmi.
«Staremo qui fino a tarda mattinata» mi dice mentre lavora.
«Oggi non avremmo dovuto viaggiare
così tanto, però non è stata una cattiva idea mettere un po’ di
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terreno tra te e quella gentaglia dello skiz.» Adesso non posso fare a meno di guardare il suo viso.
Questo ragazzo deve avere a malapena superato la Prova. Però non ha senso. Non si comporta come
un ragazzino di strada disperato. Ha così tante sfaccettature che mi chiedo se abbia sempre vissuto in
questi settori poveri. Mi lancia un’occhiata, si accorge che lo sto osservando e si ferma un secondo. I
suoi occhi sono attraversati da un’emozione segreta. Un meraviglioso mistero. Scommetto che ha
domande simili su di me, su come faccio a cogliere così tanti dettagli della sua vita. Magari si sta
addirittura domandando cos’altro scoprirò di lui. È così vicino alla mia faccia che sento il suo
respiro sulla guancia. Deglutisco. Lui si avvicina ancora.
Per un attimo penso che voglia baciarmi.
Invece torna a occuparsi della ferita e le sue mani mi sfiorano la pancia. Mi accorgo che anche lui ha
le guance arrossate. È agitato quanto me.
Alla fine stringe le bende, rimette la mia camicia a posto e si allontana. Si appoggia con la schiena al
muro accanto a me, con le mani sulle ginocchia. «Stanca?» Scuoto la testa. Il mio sguardo vaga sui
vestiti appesi sopra le nostre teste, molti piani più in alto. Se finiamo le bende, è lì che ne troverò di
pulite. «Credo che fra un giorno potrò lasciarvi in pace» dico dopo un po’. «Lo so che vi sto
rallentando.» Mentre le parole mi escono dalla bocca, sento un’ondata di dispiacere. Strano. Non
voglio staccarmi da loro così presto.
Starmene con Tess e questo ragazzo è in qualche modo confortante, come se l’assenza di Metias non
mi avesse privato di qualcuno che si prenda cura di me.
Che vado pensando? Il ragazzo viene dai bassifondi. Sono stata addestrata per trattare con tipi come
lui, per guardarli dall’altra parte del vetro.
«Dove andrai?» mi chiede il ragazzo.
Mi concentro di nuovo. La mia voce esce calma e misurata. «A est, forse. Sono più abituata ai settori
interni.» Il ragazzo tiene lo sguardo davanti a sé. «Se devi solo vagare per le strade, ma da qualche
altra parte, puoi restare con noi. Una combattente come te potrebbe farmi comodo. Possiamo fare
soldi in fretta con gli incontri di skiz e dividere le scorte di cibo. Sarebbe un beneficio per
entrambi.» Propone la sua idea con una tale sincerità che non posso non sorridere. Decido di non
chiedergli perché non combatte lui stesso.
«Grazie, ma preferisco lavorare da sola.»
«Capisco» dice senza un attimo di incertezza.
E con questo, appoggia la testa al muro, sospira e chiude gli occhi. Resto a guardarlo per un
momento, aspettando che mostri di nuovo al mondo quei suoi occhi luminosi. Ma non lo fa. Dopo
poco sento il suo respiro diventare regolare, la sua testa ricade sul petto e capisco che si è
addormentato.
Penso di contattare Thomas, ma in questo momento non sono dell’umore di sentire la sua voce.
Non so nemmeno bene perché.
Domani mattina, allora, come prima cosa. Appoggio anch’io la testa al muro e fisso i panni stesi
sopra di noi. A parte il suono lontano degli operai del turno di notte e le sporadiche trasmissioni dei
jumboschermi, è una serata tranquilla, proprio come a casa. Il silenzio mi fa pensare a Metias.
Sto attenta a non svegliare Tess e il ragazzo con il mio pianto.
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DAY
PER POCO IERI NOTTE NON BACIAVO LA RAGAZZA.
Ma innamorarsi di qualcuno quando vivi per strada non porta mai niente di buono. È la peggiore
debolezza che si possa avere, proprio come la famiglia bloccata in una zona di quarantena o
un’orfana al seguito che ha bisogno di te.
Eppure, per quanto possa essere una mossa sbagliata, una parte di me vuole comunque baciarla.
Questa ragazza è capace di individuare un particolare a un chilometro di distanza. Per esempio
quando ha detto: Le imposte del terzo piano di quel palazzo le hanno recuperate in un settore ricco.
Legno massello di ciliegio. Con un coltello, e in un solo lancio, riesce a infilzare un hot dog su una
bancarella non sorvegliata. Da ogni domanda e osservazione che fa affiora la sua intelligenza. Allo
stesso tempo, però, ha un’innocenza che la rende diversa dalla maggior parte delle persone che ho
incontrato finora. Non è cinica né rassegnata. La strada non l’ha spezzata, solo resa più forte.
Come me.
Per tutta la mattina cerchiamo dei modi per racimolare soldi – un poliziotto ingenuo da ripulire, roba
nei cassonetti da rivendere, casse lasciate incustodite sul molo da aprire – e poi la sera troviamo un
nuovo posto per accamparci. Cerco di tenere i pensieri fissi su Eden, sui soldi che devo mettere
insieme prima che sia troppo tardi, e invece inizio già a escogitare nuovi modi per rovinare la
campagna di guerra della Repubblica. Potrei farmi dare un passaggio da un’aeronave, succhiare via
tutta la sua preziosa benzina e rivenderla al mercato o ripartirla tra le persone che ne hanno bisogno.
L’aeronave potrei anche distruggerla prima che parta per il fronte.
Oppure potrei concentrarmi sulla rete elettrica di Batalla o sulle basi aeree, sabotandole. Sono questi
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pensieri a tenermi occupato.
Eppure, ogni tanto, quando lancio un’occhiata alla Ragazza o mi sento i suoi occhi addosso, mi
ritrovo a pensare a lei e non posso farci niente.
JUNE
ORE 20.00 CIRCA.
TEMPERATURA VICINA AI 26 °C.
IL RAGAZZO E IO SIAMO SEDUTI INSIEME in un altro vicolo, con Tess che dorme a poca
distanza da noi. Lui le ha dato di nuovo la sua giacca. Lo osservo mentre si accorcia le unghie,
grattandole con la lama del suo coltello. Per una volta si è tolto il berretto dalla testa e si è pettinato
il groviglio di capelli.
È di buonumore. «Vuoi un sorso?» mi chiede.
Tra noi due c’è una bottiglia di vino di nettare. È un intruglio scadente, probabilmente ricavato
dall’insipida uva di mare che cresce nell’oceano, ma lui si comporta come se fosse la cosa migliore
al mondo. Nel pomeriggio ne ha rubata una cassa da un negozio nel settore Winter e ha rivenduto tutte
le bottiglie tranne questa per un totale di seicentocinquanta banconote. Non smette di stupirmi quanto
si muova svelto nei settori.
La sua agilità è pari a quella dei migliori studenti della Drake.
«Solo se lo bevi anche tu» rispondo. «Non posso permettere che nemmeno un goccio di refurtiva
vada sprecata, giusto?» Mi sorride. Lo guardo infilzare il coltello nel tappo della bottiglia, tirarlo
fuori con uno strappo e reclinare la testa per una lunga sorsata. Quindi si passa un dito sulle labbra e
torna a sorridermi.
«Delizioso» dice. «Assaggia.» Accetto la bottiglia e bevo un minuscolo sorso prima di
restituirgliela. Retrogusto salino, come
immaginavo. Se non altro allevierà il dolore al fianco.
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Continuiamo a bere a turno – grandi sorsi per lui, piccolo assaggi per me – finché il ragazzo non
tappa la bottiglia: sembra metterla via nell’istante esatto in cui si accorge di perdere lucidità. Anche
se è così, i suoi occhi appaiono più languidi e le sue iridi azzurre acquistano una squisita lucentezza.
Può darsi che non voglia perdere la concentrazione, ma si vede che il vino l’ha rilassato. «Allora
dimmi,» decido di chiedergli «come mai ti servono così tanti soldi?» Il ragazzo scoppia a ridere.
«Dici sul serio? A chi non servono più soldi? Se ne possono mai avere abbastanza?»
«Ti piace rispondere alle mie domande con altre domande?» Ride di nuovo. Ma quando parla, la sua
voce ha una nota di tristezza.
«I soldi sono la cosa più importante al mondo, lo sai. Con i soldi puoi comprarti la felicità e non
m’importa quello che pensano gli altri. Ti ci puoi comprare aiuto, posizione sociale, amici,
sicurezza... tutto quello che ti pare.» Osservo i suoi occhi perdersi nel vuoto, e dico: «Sembra che tu
abbia fretta di metterne via più che puoi».
Mi guarda divertito. «Perché non dovrei?
Probabilmente tu hai vissuto per strada quanto me.
Dovresti conoscere la risposta, no?» Abbasso lo sguardo. Non voglio che veda la verità. «Immagino
di sì.» Rimaniamo seduti in silenzio per un po’.
Poi il ragazzo parla. Quando lo fa, c’è una tale dolcezza nella sua voce che non posso fare a meno di
guardarlo. «Non so se te l’ha mai detto nessuno» mi dice. Non arrossisce e non sposta neanche lo
sguardo. Mi ritrovo invece a specchiarmi dentro due oceani, uno perfetto, l’altro incrinato da quella
piccola increspatura. «Sei molto bella.» Ho ricevuto complimenti per il mio aspetto fisico altre
volte, ma mai con il suo tono di voce. Di tutte le cose che ha detto, non so perché sia proprio questa a
cogliermi di sorpresa, al punto che blatero senza pensare: «Potrei dire lo stesso di te». Faccio una
pausa.
«Nel caso tu non lo sapessi.» Sul suo viso si allarga lentamente un sorriso.
«Oh, credimi. Lo so.» Scoppio a ridere. «L’onestà fa sempre piacere.» Non riesco a staccarmi dal
suo sguardo. «Credo che tu abbia bevuto troppo vino, amico mio» aggiungo alla fine.
Tengo la voce bassa più che posso.
«Un po’ di riposo ti farà bene.» Le parole hanno a malapena lasciato la mia bocca che il ragazzo si
piega verso di me e mi posa una mano sulla guancia.
Il mio addestramento ordinerebbe di pararla e immobilizzarla a terra, invece tutto ciò che faccio è
rimanere seduta immobile. Mi tira a sé. Prendo un respiro prima che le mie labbra tocchino le sue.
Sento il sapore del vino sulla sua bocca.
All’inizio mi bacia dolcemente e poi, come se non gli bastasse, mi spinge contro al muro e mi bacia
più forte. Le sue labbra sono calde e tanto morbide e i suoi capelli mi solleticano la faccia.
Cerco di concentrarmi. (Non è la sua prima volta. Ha già baciato altre ragazze prima, sicuramente
più di qualcuna. Eppure sembra avere il respiro corto...) I particolari volano via. Tento di afferrarli,
invano. Mi ci vuole un momento per capire che lo sto baciando con la stessa avidità. Sento il coltello
che ha in vita contro la pelle e ho un fremito. Inizia a fare troppo caldo, la temperatura delle mie
guance è alle stelle.
È lui a staccarsi per primo.
Rimaniamo a fissarci in silenzio, come se nessuno di noi capisse bene cos’è appena successo.
Poi lui riacquista la sua compostezza e, mentre mi sforzo di fare altrettanto, si appoggia al muro
accanto a me e sospira.
«Scusa» mormora, rivolgendomi uno sguardo carico di malizia. «Non ho saputo resistere. Ma almeno
adesso mi sono tolto il pensiero.» LoAPROLIBRO.COM
fisso ancora un po’, senza parole. La mia mente mi sta urlando
di concentrarmi. Il ragazzo ricambia il mio sguardo, mi sorride come se sapesse dell’effetto che
riesce ad avere e si gira dall’altra parte. Io riprendo a respirare.
È allora che noto un gesto che riporta di colpo la mia mente al suo posto: prima di stendersi per
dormire, afferra qualcosa che ha al collo.
Un movimento così involontario che non credo si sia nemmeno accorto di averlo compiuto. Gli fisso
il collo, ma non vedo niente appeso. Ha tentato di afferrare il fantasma di una collanina, il fantasma
di un ciondolo o di un filo.
Ed è allora che mi torna alla memoria, con un senso di nausea, il ciondolo che ho in tasca. Il ciondolo
di Day.
DAY
QUANDO FINALMENTE LA RAGAZZA SI ADDORMENTA, la lascio con Tess e vado a trovare
di nuovo la mia famiglia. L’aria più fresca mi schiarisce la testa. Appena sono abbastanza lontano
dal vicolo, prendo un respiro profondo e accelero il passo. Non avrei dovuto farlo, dico a me stesso.
Non avrei dovuto baciarla. Soprattutto non dovrei essere felice di averlo fatto.
Invece lo sono. Riesco ancora a sentire le sue labbra contro le mie, la pelle soffice e liscia del suo
viso e delle sue braccia, il leggero tremore delle sue mani. Ho baciato un mucchio di belle ragazze,
ma mai come questa. Ne avrei voluto ancora. Non so neanche io come ho fatto a staccarmi.
Bel modo di ascoltare i miei stessi avvertimenti sul pericolo di innamorarsi di qualcuno quando si
vive in strada.
Mi sforzo di concentrarmi sull’incontro con John. Cerco di ignorare la strana X sulla porta e punto
dritto verso le assi che fiancheggiano il lato del portico.
Accanto alla finestra rotta della camera da letto tremolano alcune candele. Mia madre deve essere
ancora in piedi a vegliare Eden. Mi accovaccio al buio per un po’, guardo le strade deserte da sopra
la spalla e poi sposto la tavola e mi metto in ginocchio.
Dall’altra parte della strada qualcosa si muove tra le ombre. Mi arresto un secondo e scruto
l’oscurità. Niente. Abbasso la testa e striscio sotto al portico.
John è in cucina che riscalda una specie di zuppa. Emetto tre fischi bassi in sequenza che sembrano il
verso di un grillo, ma ci vuole qualche tentativo prima che John li senta e si volti. Quindi esco dal
portico e vado sul retro della casa, dove incontro mio fratello.
«Ho milleseicento banconote» sussurro,
mostrandogli il borsello.
APROLIBRO.COM
«Quasi abbastanza per le cure.
Eden come sta?» John scuote la testa. L’ansia sul suo volto mi snerva, perché mi aspetto sempre che
sia lui il più forte dei due. «Non bene» mi dice.
«Continua a dimagrire. Però è ancora cosciente e ci riconosce.
Credo che gli resti qualche settimana.» Annuisco in silenzio. Non voglio pensare alla possibilità di
perdere Eden. «Ti prometto che troverò presto i soldi. Mi serve solo un’altra buona occasione e tutto
si sistemerà.»
«Vedi di stare attento, capito?» mi dice. Al buio, potrebbero scambiarci per gemelli. Stessi capelli,
stessi occhi.
Stessa espressione. «Non voglio che tu corra dei rischi inutili. Se c’è un modo in cui posso aiutarti,
dimmelo. Magari potrei filarmela di nascosto e...» Lo guardo storto. «Non essere stupido. Se i
soldati ti beccano, morirete tutti. Lo sai benissimo.» L’espressione frustrata di John mi fa sentire in
colpa per aver rifiutato il suo aiuto su due piedi. «Mi muovo più in fretta da solo. Davvero. È meglio
che ci sia solo uno di noi lì fuori a caccia di soldi. Da morto non saresti di nessun aiuto alla
mamma.» John annuisce, anche se si vede che vorrebbe aggiungere altro.
Evito che lo faccia girandomi dall’altra parte. «Adesso devo andare» gli dico. «Ci vediamo presto.»
JUNE
DAY DEVE AVER CREDUTO che mi sia addormentata, invece lo vedo alzarsi e allontanarsi nel
cuore della notte, perciò lo seguo. Sconfina in una zona di quarantena, entra in una casa
contrassegnata da una X a tre linee e riappare dopo molti minuti.
Non ho bisogno di sapere altro.
Mi arrampico sul tetto di un palazzo vicino. Una volta lì, mi accovaccio all’ombra di una canna
fumaria e attivo il microfono. Sono così arrabbiata con me stessa che non riesco a impedire alla mia
voce di tremare. Mi sono lasciata coinvolgere dall’ultima persona che avrebbe mai dovuto piacermi.
Che avrei mai voluto desiderare.
Forse non è stato Day a uccidere Metias, mi dico. Forse è stato qualcun altro. Dio, mi sto davvero
inventando delle scuse per proteggere questo ragazzo?
Mi sono comportata come un’idiota davanti all’assassino di Metias. Le strade di Lake mi hanno forse
trasformata in un’ingenua? Ho appena disonorato il ricordo di mio fratello?
«Thomas» bisbiglio.
«L’ho trovato.» Passa un intero minuto di interferenze prima di sentire la risposta. Quando arriva, il
suo tono sembra stranamente distaccato.
«Può ripetere, signorina Iparis?» Mi salgono i nervi. «Ho detto che l’ho trovato. Day. Ha appena
fatto visita a una casa in una delle zone di quarantena di Lake, una casa con una X a tre linee sulla
porta. Angolo tra Figueroa e Watson.»
«Ne è sicura?» Adesso Thomas sembra più attento.
«Ne è assolutamente sicura?» Tiro fuori
il ciondolo dalla tasca.
APROLIBRO.COM
«Sì. Non c’è alcun dubbio.» Confusione dall’altra parte del microfono. Cresce l’eccitazione nella sua
voce. «Angolo tra Figueroa e Watson. È il caso speciale di morbo su cui avremmo dovuto investigare
domani mattina. È sicura che si tratti di Day?» mi chiede per l’ennesima volta.
«Sì.»
«Delle ambulanze andranno a quell’indirizzo domani. Dobbiamo trasferire i residenti al Central
Hospital.»
«Allora mandate delle truppe di appoggio. Voglio una copertura quando Day si farà vivo per
proteggere la sua famiglia.» Ricordo il modo in cui Day è strisciato sotto le tavole del portico. «Non
avrà il tempo di portarli via, quindi li nasconderà in casa da qualche parte. Dovremmo trasferirli
nell’ala medica del Palazzo Governativo di Batalla. A nessuno dev’essere fatto del male. Li voglio
interrogare.» Thomas sembra spiazzato dal mio tono. «Avrà le sue truppe» riesce a dire. «E spero
proprio che lei abbia ragione.» Il tocco delle labbra di Day, il nostro bacio appassionato e le sue
mani che scorrono sulla mia pelle... adesso non dovrebbero importarmi per niente. Meno di niente.
«Ho ragione.» Faccio ritorno al vicolo prima che Day si accorga della mia assenza.
DAY
DURANTE LE POCHE ORE CHE RIESCO A DORMIRE prima dell’alba, sogno casa mia.
Almeno assomiglia alla casa che ricordo. John è seduto con nostra madre a capotavola e legge un
vecchio libro di racconti della Repubblica. Mamma annuisce per incoraggiarlo ogni volta che arriva
in fondo a una pagina senza sbagliare le parole o le lettere.
Sorrido a tutti e due dalla porta. Tra noi è John il più forte, ma ha una vena gentile e paziente che io
non ho ereditato. Un tratto di nostro padre. Eden sta scarabocchiando su un pezzo di carta all’altro
capo del tavolo. Nei miei sogni Eden non fa che disegnare. Non alza mai lo sguardo, ma lo so che sta
ascoltando la storia di John e infatti ride nei punti giusti.
Poi mi accorgo che accanto a me c’è la Ragazza. La tengo per mano.
Lei mi sorride e tutta la stanza s’illumina. Anch’io le sorrido.
«Vorrei presentarti mia madre» le dico.
Lei scuote la testa. Quando guardo di nuovo il tavolo da pranzo, John e mia madre sono ancora lì, ma
Eden è sparito.
Anche il sorriso della Ragazza sparisce e adesso mi osserva con occhi tristi. «Eden è morto» mi
dice.
Una sirena in lontananza mi strappa al sonno.
Rimango steso in silenzio per un po’, con gli occhi aperti, cercando di riprendere fiato. Ho ancora il
sogno impresso nella testa. Per distrarmi mi concentro sul suono delle sirene.
Poi mi accorgo che non si tratta del solito lamento di una sirena della polizia. E non è neanche la
sirena di un’ambulanza. Il suono è quello
di un veicolo medico, quelli usati per trasportare i soldati
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feriti all’ospedale. È più forte e più acuto degli altri perché i mezzi militari hanno la precedenza.
A parte il fatto che non ci sono soldati feriti di ritorno a Los Angeles. Vengono curati al confine col
fronte. Da queste parti l’unico altro modo in cui questi mezzi vengono utilizzati è per trasportare i
casi speciali di morbo ai laboratori, perché sono meglio equipaggiati per le emergenze.
Perfino Tess riconosce il suono.
«Dove stanno andando?» mi chiede.
«Non lo so» rispondo a bassa voce. Mi metto a sedere e mi guardo intorno. La Ragazza ha l’aria di
essere sveglia già da un pezzo. È seduta a molti metri di distanza con la schiena appoggiata al muro,
gli occhi puntati sulla strada, la faccia seria e concentrata. Sembra tesa.
«’Giorno» le dico e gli occhi mi cadono sulle sue labbra. L’ho davvero baciata ieri notte?
Lei neanche mi guarda. La sua espressione non cambia. «La porta dei tuoi familiari era marcata,
vero?» Tess la guarda sorpresa. Io fisso la Ragazza in silenzio, senza sapere come rispondere. È la
prima volta che qualcuno all’infuori di Tess nomina la mia famiglia.
«Ieri notte mi hai seguito.» Mi dico che dovrei essere arrabbiato, ma non provo nient’altro che
confusione. Deve avermi seguito per curiosità. Sono sorpreso – sbalordito, a dire il vero – di quanto
riesca a spostarsi in silenzio.
Questa mattina, però, c’è qualcosa di diverso nella Ragazza.
La notte scorsa sembrava presa quanto me, invece oggi è fredda, lontana. Ho forse fatto qualcosa che
l’ha infastidita? Mi guarda dritto negli occhi. «È per quello che stai raccogliendo tutti quei soldi?
Una cura per il morbo?» Mi sta mettendo alla prova, ma non so il motivo. «Sì. Perché t’importa
tanto?»
«Troppo tardi» dice lei. «La pattuglia medica sta andando dalla tua famiglia proprio adesso. Li
porteranno via.»
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JUNE
NON DEVO AGGIUNGERE MOLTO ALTRO per convincere Day a muoversi. Le sirene delle
ambulanze, quasi sicuramente dirette a Figueroa e Watson, sono passate proprio come aveva
promesso Thomas.
«Che vuoi dire?» mi chiede Day.
Lo shock non lo ha ancora colpito.
«Che vuoi dire che stanno andando dalla mia famiglia? Come fai a saperlo?»
«Non fare domande. Non ne hai il tempo.» Ho un attimo di esitazione. Lo sguardo di Day è così
terrorizzato, così vulnerabile, che all’improvviso devo fare appello a tutta la mia forza per mentirgli.
Cerco di attingere alla rabbia che ho provato ieri notte. «Ti ho seguito dalla tua famiglia nella zona di
quarantena e ho sentito delle guardie che parlavano del rastrellamento di stamattina.
Parlavano della casa con la X di tre linee. Sbrigati. Sto cercando di aiutarti, e ti dico che devi andare
da loro adesso.» Ho approfittato della più grande debolezza di Day. Lui non esita, non si ferma a
mettere in dubbio ciò che dico, non si chiede neanche perché non gliel’abbia detto subito. Invece
scatta in piedi, individua la direzione da cui provengono le sirene e scappa via. Avverto uno strano
senso di colpa. Lui si fida di me, si fida veramente, stupidamente, con tutto il cuore.
Non credo che mai nessuno abbia preso così sul serio le mie parole prima d’ora. Forse neanche
Metias.
Tess lo guarda andare via con la paura che le cresce negli occhi.
«Andiamo, seguiamolo!» esclama.
Poi salta in piedi e mi afferra la mano.
«Potrebbe servirgli il nostro aiuto.»
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«No» rispondo in modo brusco.
«Tu aspetta qui. Lo seguo io.
Rimani buona e nascosta, qualcuno tornerà a prenderti.» Corro giù per la strada senza aspettare la
sua risposta e, quando mi volto a guardare, la vedo impalata nel vicolo, con gli occhi sbarrati, che mi
osserva svanire in lontananza. Mi giro e ricomincio a correre. Meglio tenerla fuori da questa storia.
Se oggi arrestiamo Day, che ne sarà di lei? Schiocco la lingua e attivo il microfono.
Per un attimo l’auricolare rimanda solo interferenze. Poi sento la voce di Thomas. «Che succede?
Dove si trova?»
«Day è diretto a Figueroa e Watson proprio adesso. Lo sto seguendo.» Thomas inspira
profondamente.
«Bene. Siamo già in posizione. A tra poco.»
«Aspettate il mio segnale... nessuno deve essere toccato...» inizio a dire, ma la comunicazione
s’interrompe.
Accelero il passo e la mia ferita pulsa in segno di protesta. Day non può essere lontano, ha meno di
un minuto di vantaggio. Punto nella direzione che ha preso ieri notte, sud verso Union Station.
Infatti dopo non molto scorgo il vecchio berretto che sbuca più avanti, tra la folla.
Tutta la mia rabbia e la mia paura e la mia apprensione adesso sono su di lui. Devo sforzarmi di
mantenermi a una certa distanza, in modo che non si accorga che lo sto seguendo. Una parte di me
ripensa al modo in cui mi ha salvato dall’incontro di skiz, a come mi ha aiutato a curare la ferita che
ancora brucia, a come le sue mani sono state delicate con me. Vorrei urlargli addosso. Vorrei odiarlo
per avermi confuso in questo modo.
Stupido ragazzo! Mi chiedo come tu abbia fatto a sfuggire al Governo così a lungo, ma adesso non
puoi nasconderti, non con la tua famiglia e i tuoi amici in pericolo. Non ho compassione per un
criminale, ricordo a me stessa con severità.
Solo un conto da saldare.
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DAY
DI SOLITO SONO FELICE che le strade di Lake siano piene di gente.
È facile sgattaiolare tra la folla, seminando chiunque mi stia seguendo, sperando di provocare una
rissa. Ho perso il conto di quante volte abbia usato le strade affollate a mio vantaggio. Oggi però mi
rallentano. Anche tagliando per la riva del lago ho soltanto un leggero vantaggio sulle sirene e non
avrò modo di aumentare il distacco prima di arrivare dalla mia famiglia.
Non avrò tempo di portarli via.
Eppure devo provarci.
Devo raggiungerli prima dei soldati.
Ogni tanto mi fermo per assicurarmi che i veicoli stiano andando proprio nella direzione che penso.
Non c’è dubbio, sono diretti al nostro quartiere. Corro più veloce. Non mi fermo neanche quando mi
scontro con un signore anziano, che finisce steso sul marciapiede. «Mi dispiace!» gli grido. Lo sento
che mi urla dietro, ma non perdo tempo a girarmi.
Quando arrivo nei pressi della casa sono sudato, ma il quartiere è ancora tranquillo e sigillato come
il resto della zona in quarantena.
Scivolo per i vicoli secondari finché non mi ritrovo sul retro della mia casa, di fronte alla recinzione
malandata del nostro giardinetto.
Poi m’infilo in una spaccatura dello steccato, sposto la tavola sconnessa e striscio sotto il portico.
Le margherite di mare che ho messo sotto la grata di ventilazione sono ancora lì, intatte, ma già
sfiorite e morte. Attraverso le fessure del pavimento vedo mia madre seduta accanto al letto di Eden.
John sta lavando una pezza nel lavandino.
Il mio sguardo corre da Eden. L’aspetto è peggiorato, come
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se gli avessero strappato tutto il colore dalla pelle. Il suo respiro è corto e così affannoso che riesco
a sentirlo da qui.
La mia mente grida per trovare una soluzione. Potrei aiutare John, Eden e mia madre a scappare
proprio in questo momento e rischiare di imbatterci nelle pattuglie mediche o nella polizia di strada.
Potremmo trovare rifugio nei soliti posti in cui ci nascondiamo Tess e io. Di sicuro John e mia madre
sono abbastanza forti per correre, ma come farà Eden? John potrà accollarselo solo per un tratto.
Forse potrei escogitare un modo per farli salire su un treno merci e aiutarli a fuggire verso l’interno...
da qualche parte, non lo so neanch’io. Tanto le pattuglie già vogliono Eden, quindi se John e mamma
mollassero i propri lavori e scappassero non peggiorerebbero di certo le cose. Comunque sono già
bloccati dalla quarantena. Potrei aiutarli ad arrivare in Arizona o nel Texas Occidentale e magari
dopo un po’ le pattuglie smetterebbero di cercarli. Forse mi sto preoccupando per niente, forse la
Ragazza si sbaglia e le pattuglie non vengono per la mia famiglia. Magari mi sto preoccupando per
niente.
Ma in lontananza sento le sirene diventare più forti.
Vengono per Eden.
Prendo una decisione. Striscio velocemente fuori da sotto il portico e vado alla porta sul retro. Da
qui il rumore delle sirene è molto più potente. Si stanno avvicinando.
Spalanco la porta e mi precipito su per i pochi gradini che portano in salotto.
Prendo un respiro profondo.
Poi apro la porta con un calcio e m’immergo nella luce della stanza.
Mia madre grida per lo spavento.
John si gira di scatto verso di me.
Rimaniamo per un attimo a fissarci a vicenda, indecisi sul da farsi.
«Che succede?» La faccia di John sbianca nel vedere la mia espressione. «Cosa ci fai qui? Che
succede?» Cerca di controllare la voce, ma sa che sta accadendo qualcosa di terribile, qualcosa di
così serio che mi ha spinto a rivelarmi all’intera famiglia.
Mi sfilo il berretto dalla testa. I capelli mi ricadono sulle spalle in un groviglio. Mamma si porta una
mano fasciata alla bocca. I suoi occhi sono sospettosi, poi si spalancano.
«Sono io, mamma» le dico.
«Sono Daniel.» Guardo diverse emozioni alternarsi sul suo volto – incredulità, gioia, confusione –
prima che faccia un passo in avanti.
I suoi occhi si spostano da John a me. Non so dire cosa la turbi di più... Il fatto che sia vivo o che
John sembri sapere tutto.
«Daniel?» bisbiglia.
È strano sentirla pronunciare di nuovo il mio vecchio nome. Corro a stringere le sue mani ferite tra le
mie. Stanno tremando. «Non c’è tempo per spiegare.» Provo a ignorare l’espressione nei suoi occhi.
Un tempo erano di un azzurro acceso e deciso, proprio come i miei, ma il dolore deve averglieli
spenti. Come faccio a guardare negli occhi una madre che per anni mi ha creduto morto? «Stanno
venendo per Eden.
Dovete nasconderlo.» Le sue dita mi scostano i capelli dalla faccia. Di colpo sono di nuovo il suo
bambino. «Il mio Daniel. Sei vivo. Deve essere un sogno.» L’afferro per le spalle. «Mamma,
ascoltami. Stanno arrivando le pattuglie e c’è anche un’ambulanza.
Qualunque virus abbia Eden... stanno venendo a prenderlo.
Dovete nascondervi tutti.» Mi studia per un attimo, poi annuisce. Mi porta al letto di Eden.
Da vicino noto che gli occhi scuri del
mio fratellino sono in qualche modo diventati neri. Non hanno
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alcun riflesso e mi accorgo con orrore che sono neri perché le sue iridi sanguinano. Mamma e io
aiutiamo Eden a sedersi, facendo molta attenzione. La sua pelle va a fuoco.
John se lo carica in spalla con delicatezza, sussurrandogli parole di conforto mentre lo solleva.
Eden emette un gridolino di dolore e la testa gli ciondola di lato, si appoggia al collo di John.
«Connetti i due circuiti» farnetica con un filo di voce.
Fuori, il lamento delle sirene prosegue. Devono essere a meno di due isolati. Scambio uno sguardo
disperato con mia madre.
«Sotto il portico» sussurra lei.
«Non c’è tempo per scappare.» Né John né io discutiamo. Mia madre mi stringe forte la mano e ci
dirigiamo verso la porta sul retro.
Appena usciti mi fermo un istante a valutare la distanza e la direzione delle pattuglie. Sono quasi
arrivate.
Raggiungo di corsa il portico e sposto la tavola di lato. «Prima Eden» dice mia madre. John si
sistema meglio Eden sulla spalla, si piega e comincia a strisciare dentro.
Poi aiuto mamma a entrare e alla fine mi tuffo dietro di loro, cancellando le tracce che abbiamo
lasciato nel terreno e rimettendo con cura la tavola al proprio posto.
Spero che basti.
Ci stringiamo nell’angolo più buio, dove riusciamo a malapena a vederci tra noi. Fisso i fasci di luce
che filtrano dalle bocchette di aerazione.
Riesco appena a intravedere le margherite avvizzite.
Per un attimo le sirene sembrano lontane – stanno svoltando da qualche parte – e poi all’improvviso
diventano assordanti, subito seguite dal pesante calpestio degli anfibi.
Maledette guardie.
Si sono fermate davanti alla casa e si preparano a fare irruzione.
«Restate qui» bisbiglio.
Mi attorciglio i capelli sopra la testa e li infilo nuovamente sotto al berretto. «Vado a sbarazzarmi di
loro.»
«No.» È la voce di John. «Non andare, è troppo pericoloso.» Scuoto la testa. «È troppo pericoloso
per voi se rimango.
Fidatevi di me.» I miei occhi si spostano su mamma, che si sta sforzando di tenere a bada la sua
paura mentre racconta una storia a Eden. Mi ricordo di come sembrasse sempre calma quand’ero
piccolo, con la sua voce suadente e il sorriso gentile. Faccio un cenno a John.
«Torno presto.» Sopra di noi si sente battere alla porta.
«Pattuglia anti-morbo» qualcuno dice a gran voce.
«Aprite!» Scatto verso la tavola sconnessa e la sposto di lato senza fare rumore, quel poco che basta
a strisciare fuori. La faccio scivolare con cura al suo posto. La recinzione mi tiene nascosto, ma
attraverso le fessure riesco a vedere i soldati che attendono accanto alla porta. Devo agire in fretta.
Non si aspettano che qualcuno li attacchi, specialmente qualcuno che non possono vedere.
Mi fiondo in silenzio sul retro della casa, punto bene il piede su un mattone traballante e mi do lo
slancio verso l’alto. Mi aggrappo al bordo del tetto e mi tiro su.
Da qui i soldati non possono vedermi, non con la grossa canna fumaria e le ombre proiettate dai
palazzi più alti che ci circondano.
Invece io li vedo bene. E la loro vista mi paralizza. C’è qualcosa che non va. Contro una pattuglia
antimorbo avremmo almeno una possibilità, ma davanti alla casa ci sono almeno una dozzina di
soldati.
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Forse di più, la maggior parte con mascherine bianche allacciate strette intorno alla bocca, alcuni
addirittura con maschere antigas.
Accanto all’ambulanza sono parcheggiate due jeep dell’esercito.
In attesa vedo un ufficiale, un comandante a giudicare dal cappello. Accanto a lei c’è un giovane dai
capelli scuri in uniforme da capitano.
E in piedi davanti a quest’ultimo, immobile e indifesa, c’è la Ragazza.
Aggrotto la fronte, confuso.
Devono averla arrestata e adesso la stanno usando, non so per quale scopo. Questo significa che
devono aver catturato anche Tess. Scruto la folla, ma non la vedo. Guardo di nuovo la Ragazza.
Sembra calma, per niente turbata dalla marea di soldati che la circondano. Anche lei ha una maschera
sulla bocca.
E poi, in una frazione di secondo, capisco perché la Ragazza aveva un’aria così familiare.
I suoi occhi.
Quegli occhi neri punteggiati d’oro. Il giovane capitano di nome Metias. Quello a cui sono sfuggito la
notte dell’irruzione al Los Angeles Central Hospital. Aveva gli stessi occhi.
Metias deve essere un suo parente e, proprio come lui, anche lei lavora per l’esercito. Non riesco a
credere alla mia stupidità. Avrei dovuto accorgermene prima. Studio velocemente le facce degli altri
soldati, domandandomi se anche Metias sia fra loro. Però vedo solo la Ragazza.
L’hanno mandata a stanarmi.
E adesso, per colpa della ma idiozia, è risalita alla mia famiglia.
Potrebbe già aver ucciso Tess.
Chiudo gli occhi. Mi sono fidato di lei, che mi ha abbindolato al punto da baciarla. Da farmi
innamorare di lei. Il solo pensiero mi rende cieco dalla rabbia.
Dall’interno della casa arriva un fracasso. Sento voci concitate, poi urla. I soldati li hanno trovati,
hanno rotto le assi del pavimento e li hanno tirati fuori. Vai lì sotto!
Perché ti nascondi su questo tetto!
Aiutali! Ma servirebbe solo a confermare la loro parentela con me e i loro destini sarebbero segnati.
Sento le braccia e le gambe paralizzate.
Poi due soldati con le maschere antigas emergono dal retro della casa, trascinando mia madre. Li
seguono a pochi passi altri soldati che trattengono John, che gli urla di lasciarla in pace. Alla fine
sbucano un paio di paramedici. Hanno legato Eden su una barella, la spingono verso l’ambulanza.
Devo fare qualcosa.
Tiro fuori dalla tasca i tre bossoli d’argento che mi ha dato Tess, quelli della sera dell’irruzione
all’ospedale. Ne infilo uno nella mia fionda. Un ricordo di me stesso a sette anni che lancia la palla
di neve infiammabile nella stazione di polizia mi attraversa la mente.
Quindi punto la fionda contro uno dei soldati che tiene fermo John, carico il colpo.
Il proiettile gli sfiora il collo, ma così veloce che vedo il sangue schizzare. Il soldato si accascia,
aggrappandosi in modo isterico alla mascherina. Subito gli altri soldati puntano le loro armi verso il
tetto.
Io rimango dietro la canna fumaria rannicchiato, immobile.
La Ragazza si fa avanti. «Day.» La sua voce riecheggia per la strada. Devo essere diventato matto,
perché mi sembra di sentire una nota di compassione nella sua voce. «Lo so che sei qui e so anche
perché.» Punta il dito su John e mia madre. Eden è già sparito dentro al furgone.
Adesso mia madre sa che sono io il criminale che vede ogni giorno sui bollettini dei jumbo-schermi.
Però non dico niente. Infilo un’altra pallottola
nella fionda e miro alla Ragazza.
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«Vuoi che la tua famiglia sia al sicuro. Questo lo capisco» continua.
«Anch’io volevo lo stesso per la mia famiglia.» Tiro indietro il braccio.
La voce della Ragazza diventa più supplichevole, quasi pressante.
«Adesso ti sto dando una possibilità per salvarla. Arrenditi. Ti prego.
Così nessuno si farà del male.» Uno dei soldati che le sta accanto alza la pistola. Sposto la fionda
verso di lui e d’istinto lascio partire il colpo. Lo colpisco dritto al ginocchio e quello cade in avanti.
I soldati mi scaricano addosso una raffica di colpi. Mi rannicchio dietro la canna fumaria. Le
scintille volano da ogni parte. Stringo i denti e chiudo gli occhi: non posso fare niente in questa
situazione. Sono impotente.
Appena gli spari smettono, mi affaccio e vedo la Ragazza in piedi dov’era prima. Il suo comandante
incrocia le braccia. Lei non si muove di un passo.
Poi vedo il comandante farsi avanti. Quando la ragazza inizia a protestare, lei la spinge via. «Non
puoi restare lì per sempre» mi urla il comandante. La sua voce è molto più fredda di quella della
Ragazza.
«E so che non lascerai che la tua famiglia muoia.» Posiziono l’ultimo bossolo nella fionda e gliela
punto contro.
Il comandante scuote la testa in risposta al mio silenzio. «Va bene, Iparis» dice alla Ragazza.
«Abbiamo provato la tua tattica. Adesso vediamo se funziona la mia.» Quindi si volta verso il
capitano coi capelli neri e annuisce.
«Sistemala.» Non ho il tempo di impedire quello che succede dopo.
Il capitano solleva la pistola e la punta contro mia madre. Poi le spara un colpo in testa.
JUNE
LA DONNA A CUI THOMAS HA SPARATO non si è nemmeno accasciata a terra che già vedo il
ragazzo lanciarsi dal tetto. Rimango bloccata. È tutto sbagliato. Non doveva farsi male nessuno. Il
comandante Jameson non mi aveva informato di voler uccidere qualcuno della famiglia di Day,
dovevamo portarli tutti al Palazzo di Batalla e interrogarli.
Lancio un’occhiata a Thomas, chiedendomi se anche lui provi lo stesso orrore. Invece lui rimane
inespressivo, con la pistola ancora sollevata.
«Prendetelo!» urla il comandante Jameson. Il ragazzo atterra addosso a uno dei soldati e lo stende in
una nuvola di polvere. «Lo voglio vivo!» Il ragazzo, che adesso so essere Day, emette un grido
straziante e si scaglia sul primo soldato che gli capita a tiro mentre gli altri lo accerchiano. Riesce in
qualche modo a impadronirsi della sua pistola, anche se un secondo militare gliela strappa subito
dalle mani.
Il comandante Jameson mi guarda ed estrae la pistola dalla sua fondina.
«Comandante, no!» sbotto senza pensarci, ma lei mi ignora.
Un’immagine di Metias mi attraversa la mente.
«Non aspetterò che uccida i miei uomini» mi risponde in tono brusco, poi mira alla gamba sinistra di
Day e spara. Io mi ritraggo. Il proiettile manca l’obiettivo (stava mirando al ginocchio), e colpisce la
coscia. Day grida dal dolore e crolla a terra in mezzo alla cerchia di soldati. Il berretto gli vola via
dalla testa e da sotto escono i suoi capelli biondi.
Un soldato lo colpisce con un calcio talmente forte da metterlo K.O.
Quindi lo ammanettano, lo legano e lo
imbavagliano, e lo trascinano a una delle jeep. Mi ci vuole un
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momento per rivolgere l’attenzione all’altro prigioniero che abbiamo estratto dalla casa, un ragazzo
che probabilmente è suo fratello. Ci sta gridando contro qualcosa di incomprensibile.
I soldati lo caricano sulla seconda jeep.
Thomas mi lancia un’occhiata di approvazione da sopra la maschera, e il comandante Jameson mi
guarda con le sopracciglia aggrottate.
«Adesso capisco perché alla Drake ti considerino una ribelle» mi dice.
«Qui però non siamo all’università.
Non devi azzardarti a mettere in discussione le mie azioni.» Una parte di me vorrebbe chiedere
scusa, ma sono sopraffatta da quello che è appena successo, troppo arrabbiata o angosciata o
sollevata. «Che ne è stato del piano? Comandante, con tutto il rispetto, non si era parlato di uccidere
dei civili.»
«Oh, Iparis» risponde il comandante Jameson con una risata affilata. «Saremmo rimasti qui tutta la
notte continuando a negoziare. Visto com’è stato più veloce?
Molto più persuasivo, considerando il nostro obiettivo.» Guarda da un’altra parte. «Non importa.
Adesso infilati in una jeep.
Si torna alla base.» Fa un gesto veloce con la mano e Thomas urla un ordine. Gli altri soldati si
rimettono di corsa in formazione, mentre lei monta sulla prima jeep.
Thomas si avvicina, poi si tocca il cappello in segno di saluto.
«Congratulazioni, June.» Mi sorride.
«Credo che lei ce l’abbia proprio fatta. Che situazione! Ha visto che faccia ha fatto Day?» Hai
appena ucciso una persona.
Non riesco a trovare il modo di guardarlo in faccia. Di chiedergli come riesca a eseguire gli ordini
così ciecamente. I miei occhi si spostano nel punto in cui la donna giace sull’asfalto. Il personale
sanitario ha già attorniato i tre soldati feriti e so che verranno sistemati sulle ambulanze e trasferiti
alla base. Invece il corpo della donna è trascurato e abbandonato. Dalle altre case lungo la strada
spuntano delle teste, ci osservano. Alcune di loro vedono il corpo a terra e si girano in fretta
dall’altra parte, mentre altri continuano a osservare timidamente Thomas e me. Una piccola parte di
me vorrebbe gioire a questa vista, gustarsi la gioia di aver vendicato la morte di mio fratello.
Aspetto, ma quella sensazione non arriva. Stringo e riapro i pugni. La pozza di sangue sotto il corpo
della donna comincia a darmi la nausea.
Ricorda, dico a me stessa, Day ha ucciso Metias. Day ha ucciso Metias. Day ha ucciso Metias.
Le parole mi risuonano nella testa vuote e incerte.
«Già» dico a Thomas. La mia voce sembra quella di un’estranea.
«Credo di avercela proprio fatta.»
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PARTESECONDA
LA RAGAZZA CHE INFRANGE IL MURO DI CRISTALLO
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DAY
IL MONDO È UNA MACCHIA SFOCATA. Ricordo spari e voci concitate e l’acqua gelida sulla
testa. Ogni tanto riconosco il suono di una chiave che gira nella serratura e l’odore metallico del
sangue.
Maschere antigas mi osservano dall’alto. Qualcuno non la smette di urlare e la sirena di
un’ambulanza ulula tutto il tempo.
Vorrei spegnerla e continuo a cercare l’interruttore, ma c’è qualcosa che non va con le mie braccia.
Non riesco a muoverle. Un terribile dolore alla coscia sinistra tiene costantemente i miei occhi e le
mie guance bagnati di lacrime.
Forse l’intera gamba è da buttare.
L’istante in cui il capitano ha sparato a mia madre si ripete all’infinito nella mia mente, come un film
fermo sulla stessa scena.
Non capisco perché lei non si tolga di mezzo. Le grido di spostarsi, di piegarsi, di fare qualunque
cosa.
Invece rimane lì finché il proiettile non la colpisce e lei si accascia a terra. La sua faccia è girata
verso di me, ma non è colpa mia. Non è colpa mia.
Dopo un’eternità, il mondo prende finalmente forma. Quanto è passato, quattro o cinque giorni? Un
mese, forse? Non ne ho idea.
Quando riapro gli occhi, mi ritrovo in una minuscola cella senza finestre e con quattro pareti di
metallo. Ci sono soldati di guardia su entrambi i lati della porta che assomiglia a una cassaforte. Mi
contorco per il dolore. Ho la linguaAPROLIBRO.COM
asciutta e spaccata, le lacrime mi si sono seccate sulla pelle.
Qualcosa che sembra metallo, forse un paio di manette, mi stringe forte i polsi legati allo schienale di
una sedia, e mi serve almeno un secondo per capire che sono seduto. I capelli mi ricadono davanti
alla faccia come stoppa. Ho il giubbotto macchiato di sangue. Poi un’improvvisa paura mi assale: il
mio berretto. Mi hanno smascherato.
Poi sento una fitta alla gamba sinistra ed è peggio di qualsiasi dolore abbia mai provato prima d’ora,
peggiore perfino della prima volta che mi hanno tagliato quel ginocchio. Mi ricopro di sudore freddo
e vedo delle macchioline davanti agli occhi. In questo momento darei qualsiasi cosa per un
antidolorifico, o del ghiaccio per spegnere l’incendio sulla coscia, o anche un altro proiettile che mi
liberi dalle mie sofferenze. Tess, ho bisogno di te. Dove sei?
Quando trovo il coraggio per guardarmi la gamba, però, vedo che è fasciata con una garza impregnata
di sangue.
Uno dei soldati si accorge che mi sto muovendo e si preme una mano sull’orecchio.
«Signora, si è svegliato.» Alcuni minuti dopo – o forse sono passate ore – la porta di metallo si apre
e il comandante che ha ordinato l’uccisione di mia madre entra a grandi passi. Indossa l’uniforme
completa, mantello e tutto il resto, e le tre frecce argentate che corrispondono ai suoi gradi brillano
sotto le lampade fluorescenti. Elettricità. Sono in un palazzo governativo. La donna dice qualcosa ai
soldati dall’altra parte della porta e quella si richiude, poi mi viene incontro sorridente.
Non so se il velo rosso che mi annebbia la vista sia dovuto al dolore che ho alla gamba o alla rabbia
per la sua presenza.
Il comandante si ferma davanti alla mia sedia, poi si abbassa e piazza la sua faccia a pochi centimetri
dalla mia. «Mio caro ragazzo» mi dice, con un certo divertimento nella voce. «Quando mi hanno
detto che eri sveglio non ho saputo resistere. Dovevo venire a trovarti di persona. I medici dicono
che non hai contratto il morbo neanche dopo aver passato il tuo tempo con quel branco di appestati
che chiami famiglia, quindi dovresti ritenerti fortunato.» Inclino la testa indietro e le sputo addosso.
Ma anche questo minimo movimento basta a farmi tremare la gamba per il dolore.
«Sei davvero un bel ragazzo.» Il suo sorriso trasuda veleno. «Un vero peccato che tu abbia scelto la
vita del criminale. Sai, con una faccia come la tua, saresti potuto diventare una celebrità. Vaccini
gratuiti per il morbo ogni anno. Non sarebbe stato bello?» Se non fossi legato potrei strapparle la
pelle dalla faccia in questo preciso istante. «Dove sono i miei fratelli?» La mia voce esce rauca
come il verso di una cornacchia. «Cosa avete fatto a Eden?» Il comandante si limita a sorridere di
nuovo e a schioccare le dita ai soldati alle sue spalle.
«Credimi quando ti dico che mi piacerebbe rimanere qui a chiacchierare con te, ma ho un
addestramento di cui occuparmi. E poi c’è una persona che freme per vederti anche più di me.
Lascerò che sia lei a occuparsi di te.» Il comandante esce senza aggiungere un’altra parola.
Al suo posto avanza nella cella una figura più piccola e delicata, incorniciata dallo sventolare del
mantello nero. Mi ci vuole un minuto per riconoscerla. Niente più pantaloni strappati o scarponi
incrostati, niente sporcizia sulla faccia. La Ragazza è pulita e sistemata, con i capelli raccolti in una
coda alta e lucente. L’uniforme è elaborata: spalline dorate che risplendono sulla cappa militare,
cordoncini bianchi che girano intorno alle spalle e insegne con una doppia freccia su entrambe le
maniche. Il mantello le scende fino ai piedi avvolgendola nei suoi ricami d’oro ed è tenuto fermo da
un elaborato nodo Canto. Sono sorpreso da quanto sembri giovane, più giovane di quando l’ho
conosciuta. La Repubblica non darebbe mai un grado così alto a una ragazza della mia età. Le guardo
la bocca: le labbra che ho baciato adesso sono coperte da una sottile lucentezza. Un pensiero
bizzarro mi colpisce e vorrei mettermi a ridere. Se non avesse provocato la morte di mia madre e la
mia cattura, se non desiderassi vederla
morta, la troverei assolutamente stupenda.
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Dalla mia espressione deve essersi accorta che l’ho riconosciuta. «Scommetto che sei emozionato
quanto me per questo nostro nuovo incontro. La gamba fasciata puoi considerarla un atto di estrema
gentilezza» mi dice in tono brusco. «Voglio che tu sia in grado di reggerti in piedi per essere
giustiziato e non ti lascerò morire di infezione prima di aver finito con te.»
«Grazie. Sei molto buona.» Lei ignora il mio sarcasmo. «E così sei tu il famoso Day.» Rimango zitto.
La Ragazza incrocia le braccia e mi fissa con uno sguardo penetrante. «Immagino che dovrei
chiamarti Daniel, però. Daniel Altan Wing. Almeno questo sono riuscito a strapparlo a tuo fratello
John.» Sentendo il nome di John mi piego in avanti e subito mi pento di averlo fatto, perché la gamba
mi scoppia di dolore. «Dimmi dove sono i miei fratelli.» La sua espressione non cambia.
Non batte nemmeno ciglio. «Non devi più preoccuparti di loro.» Avanza di qualche passo. Qui il suo
portamento è preciso, misurato, come quello che distingue i membri dell’élite repubblicana. Per
strada lo ha mascherato bene e la cosa mi fa soltanto arrabbiare di più.
«Ecco come funziona, Daniel Wing. Io ti faccio una domanda e tu mi dai una risposta. Iniziamo con
una facile. Quanti anni hai?» Incontro il suo sguardo. «Non avrei mai dovuto tirarti fuori da
quell’incontro di skiz. Avrei dovuto lasciarti lì a morire.» La Ragazza abbassa gli occhi, poi si sfila
la pistola dalla cintura e mi colpisce in faccia. Per un attimo vedo tutto bianco e il sapore del sangue
mi riempie la bocca. Poi sento un clic e il metallo freddo contro la tempia.
«Risposta sbagliata. Forse non sono stata chiara. Dammi un’altra risposta del genere e ti assicuro che
sentirai le urla di tuo fratello John da qui. Alla terza risposta sbagliata la stessa sorte toccherà al tuo
fratellino Eden.» John e Eden. Almeno sono ancora vivi. Dal suono sordo che ha fatto la pistola
capisco anche che è scarica. A quanto pare vuole soltanto usarla per ammorbidirmi un po’.
La Ragazza continua a puntarmi l’arma alla testa. «Quanti anni hai?»
«Quindici.»
«Molto meglio.» A questo punto abbassa leggermente l’arma. «È il momento di qualche confessione.
Sei tu il responsabile dell’irruzione nella banca Arcadia?» Il posto dei dieci secondi. «Sì.»
«Allora sei anche responsabile di aver rubato da lì sedicimilacinquecento banconote.»
«Esatto.»
«Sei responsabile degli atti vandalici di due anni fa al dipartimento della Difesa Interna e di aver
distrutto i motori di due aeronavi?»
«Sì.»
«Sei stato tu a incendiare una serie di dieci caccia da combattimento F-472, stazionati nella base
dell’aeronautica di Burbank, poco prima che fossero inviati al fronte?»
«Di questo un po’ ne vado fiero.»
«Sei stato tu ad aggredire un cadetto di guardia al confine con la zona di quarantena del settore
Alta?»
«L’ho legato e ho consegnato delle provviste alle famiglie in quarantena.
Non lo considero neanche un reato.» La Ragazza spara fuori qualche altro crimine passato, alcuni dei
quali nemmeno mi ricordo. Poi nomina un ultimo avvenimento, il più recente.
«Sei tu il responsabile dell’omicidio di un capitano della pattuglia cittadina durante un’irruzione al
Los Angeles Central Hospital? Sei responsabile di aver rubato forniture mediche ed esserti introdotto
con la forza nel laboratorio?» Sollevo il mento. «Il capitano di nome Metias.» Lei mi lancia
un’occhiata gelida.
«Esatto. Mio fratello.» Adesso capisco. Allora è per questo che mi ha dato la caccia.
Prendo un respiro profondo. «Tuo fratello. Non l’ho ucciso io, non avrei potuto. Al contrario di voi
bastardi dal grilletto facile, io non ammazzo
le persone.» Lei non risponde e rimaniamo a fissarci per
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un attimo. Avverto una strana empatia e subito la scaccio.
Non posso provare dispiacere per un agente della Repubblica.
La Ragazza fa un gesto a uno dei soldati di guardia alla porta. «Il prigioniero nella 6822. Tagliategli
le dita.» Mi lancio in avanti, ma la sedia e le manette mi trattengono. La gamba mi esplode di dolore.
Non sono abituato al fatto che qualcuno abbia così tanto potere su di me.
«Sì, sono responsabile dell’irruzione all’ospedale!» grido. «Ma non l’ho ucciso io, lo giuro.
Ammetto di averlo ferito, questo sì, ma dovevo scappare e lui ha cercato di fermarmi. Il mio coltello
non può avergli procurato più di una ferita alla spalla. Ti prego, risponderò alle tue domande. Finora
ho risposto a tutto quello che mi hai chiesto.» La Ragazza torna a guardarmi.
«Solo una ferita alla spalla? Forse avresti dovuto controllare meglio.» Nei suoi occhi c’è una rabbia
profonda che mi lascia sorpreso.
Cerco di ricordare la notte in cui ho affrontato Metias, il momento in cui lui aveva la pistola puntata
contro di me e io il coltello in pugno.
Gliel’ho lanciato, l’ho colpito alla spalla. Ne sono sicuro.
Lo sono davvero?
Dopo un momento la Ragazza ordina al soldato di aspettare.
«Secondo il database della Repubblica,» continua rivolgendosi a me «Daniel Altan Wing è morto
cinque anni fa di vaiolo in uno dei nostri campi di lavoro.» Rispondo sbuffando. Campi di lavoro.
Già, come no, e l’Elector viene rieletto ogni anno con delle regolari votazioni. O questa ragazza
crede veramente a tutte le balle che raccontano, oppure mi sta prendendo in giro. Un vecchio ricordo
lotta per venire a galla – un ago che mi entra nell’occhio, una fredda barella di metallo e una luce
puntata in faccia – ma appena arriva è già svanito.
«Daniel è morto» le dico. «Me lo sono lasciato alle spalle da un pezzo.»
«Da quando hai cominciato le tue scorribande per le strade, immagino. Cinque anni. Sembra che
ormai fossi abituato a farla franca.
Hai abbassato la guardia, non è cosi?
Hai mai lavorato per qualcuno?
Qualcuno ha mai lavorato per te? Sei mai stato affiliato ai Patrioti?» Scuoto la testa. Intanto nella
mente mi sorge una domanda terrificante, una domanda che ho troppa paura a sollevare. Cosa ne ha
fatto di Tess?
«No. Hanno cercato di reclutarmi qualche tempo fa, ma preferisco lavorare per conto mio.»
«Come sei riuscito a scappare dai campi di lavoro? Come sei finito a terrorizzare Los Angeles
quando avresti dovuto lavorare per la Repubblica?» Allora è questo che la Repubblica pensa dei
bambini che non superano la Prova. «Che importanza ha? Adesso sono qui.» Stavolta le faccio
saltare i nervi.
La Ragazza spinge a calci la sedia finché non può andare più indietro e mi sbatte la testa contro il
muro.
Vedo le stelle. «Te lo dico io che importanza ha» sibila lei. «Ha importanza perché, se non fossi
scappato, adesso mio fratello sarebbe ancora vivo. E voglio assicurarmi che nessun altro teppista
assegnato ai campi di lavoro sfugga al sistema, in modo che questo scenario non si ripeta mai più.»
Le rido in faccia. Il dolore alla gamba non fa che alimentare la mia rabbia. «Oh, allora è per questo
che sei preoccupata? Per un gruppo di ragazzini che è riuscito a scampare alla propria morte? Quei
mocciosi di dieci anni sono una minaccia, non è cosi? Secondo me dovresti rivedere come stanno le
cose. Non ho ucciso io tuo fratello. Però tu hai ucciso mia madre. Gliel’hai puntata tu quella pistola
alla testa!» L’espressione della ragazza
si indurisce, ma dietro vedo qualcosa che vacilla e, anche
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solo per un attimo, torna a essere la stessa persona che ho incontrato per strada. Si china su di me,
così vicina che le sue labbra mi sfiorano l’orecchio, e riesco a sentire il suo respiro sulla pelle. Un
brivido mi scorre lungo la schiena. La sua voce diventa un sussurro che posso sentire solo io. «Mi
dispiace per tua madre. Il mio comandante mi aveva promesso che a nessun civile sarebbe stato fatto
del male, ma si è rimangiata la parola. Io...» La sua voce trema. Sembra che voglia chiedermi scusa,
come se servisse a qualcosa.
«Vorrei aver potuto fermare Thomas. Io e te siamo nemici, non fraintendermi... ma non volevo che
accadesse una cosa del genere.» Poi si raddrizza e inizia a voltarsi. «Per adesso può bastare.»
«Aspetta.» Tengo a bada la rabbia con grande sforzo e mi schiarisco la gola. La domanda che avevo
paura di formulare mi scappa di bocca prima che possa fermarla.
«Lei è ancora viva? Che ne hai fatto?» La Ragazza mi lancia un’occhiata.
L’espressione del suo viso mi dice che sa esattamente di chi sto parlando. Tess. È ancora viva? Mi
preparo al peggio.
Invece scuote solo la testa. «Non lo so. Non sono interessata a lei.» Annuisce a uno dei soldati.
«Negategli l’acqua per il resto della giornata e spostatelo in una cella in fondo al corridoio. Magari
domani mattina sarà meno suscettibile.» È strano vedere i soldati salutare qualcuno così giovane.
Sta tenendo segreta Tess, capisco. Per il mio bene? Per quello di Tess?
Poi la Ragazza va via e io rimango da solo nella cella coi soldati. Mi sollevano dalla sedia e mi
trascinano per il pavimento e fuori dalla porta. La gamba ferita struscia sulle piastrelle e non riesco a
trattenere le lacrime che mi escono dagli occhi. Il dolore mi fa girare la testa, come se stessi
annegando in un lago senza fondo.
Mi scortano per un corridoio che sembra lungo un chilometro. Ci sono truppe ovunque, insieme a
dottori che indossano occhiali protettivi e guanti bianchi. Devo essere nell’ala medica. Forse per via
della gamba.
La testa mi si accascia in avanti, non riesco più a tenerla dritta. Nelle mia mente vedo l’immagine di
mia madre che giace a terra rannicchiata. Non sono stato io, vorrei urlare, ma non esce nessun suono.
Il dolore alla gamba mi reclama.
Almeno Tess è salva. Provo a mandarle un avvertimento con la forza del pensiero, dicendole di
andarsene dalla California e correre più lontano che può.
È allora che, a metà del corridoio, qualcosa richiama la mia attenzione. Un piccolo numero rosso –
uno zero – stampato con gli stessi caratteri che ho visto sotto il portico di casa nostra e sotto la
banchina del lago nel nostro settore. È qui. Mentre passiamo davanti alle doppie porte su cui è
impresso, giro la testa per guardare meglio. Le porte non hanno vetri, ma proprio in quel momento
una figura vestita di bianco con la maschera antigas sta entrando e intravedo di sfuggita cosa c’è
dentro. Non metto a fuoco molto, ma una cosa riesco a distinguerla.
Qualcosa in una sacca su una barella. Un corpo. Sulla sacca c’è una X.
Le porte si richiudono e noi proseguiamo.
Una serie di immagini inizia a scorrermi nella testa. I numeri rossi.
La X a tre linee sulla porta di casa mia. Il veicolo medico che ha portato via Eden. Gli occhi di Eden,
neri e sanguinanti.
Vogliono qualcosa dal mio fratellino. Qualcosa che ha a che fare con la sua malattia. Rivedo la X a
tre linee ancora una volta.
E se non fosse stato un caso che Eden si sia ammalato? E se non fosse mai un caso quando qualcuno
rimane contagiato?
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JUNE
QUELLA SERA STESSA, mi infilo controvoglia in un abito elegante per prendere parte a un ballo,
con Thomas a farmi da cavaliere. La serata di gala si tiene per festeggiare la cattura di un noto
criminale e per premiare noi stessi per averlo assicurato alla giustizia.
Al mio arrivo i soldati si fanno da parte per tenermi aperte le porte.
Altri mi salutano deferenti.
Gruppetti di ufficiali intenti a parlottare sorridono al mio passaggio e il mio nome viene pronunciato
in quasi tutte le conversazioni che mi capita di ascoltare per caso. Eccola, è quella Iparis... Sembra
così giovane... Solo quindici anni, ci pensi?... L’Elector in persona è rimasto sorpreso...
Alcune parole sono condite con maggior invidia delle altre. Tutto questo clamore per niente... In
realtà è il comandante Jameson che merita il riconoscimento... Solo una bambina...
Qualunque sia il loro tono, però, l’argomento di conversazione sono io.
Cerco di sentirmi soddisfatta. Ho perfino il coraggio di dire a Thomas, mentre vaghiamo per la
sfarzosa sala da ballo, con i suoi infiniti tavoli da banchetto e i lampadari, che arrestare Day ha
colmato il vuoto lasciato nella mia vita dalla morte di Metias. Lo dico, ma non lo credo affatto. Ogni
cosa qui sembra sbagliata, tutto quello che c’è in questa stanza, come se fosse solo un’illusione
destinata ad andare in frantumi se solo allungassi la mano per toccarla.
Mi sento sbagliata anch’io, quasi avessi commesso un’azione terribile tradendo un ragazzo che si
fidava di me.
«Sono contento che lei si senta sollevata» dice Thomas. «Almeno Day è servito a qualcosa.» Ha i
capelli meticolosamente pettinati all’indietro
e sembra più alto del solito, nella sua impeccabile
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uniforme da capitano guarnita di nappine. Mi tocca il braccio con una mano guantata. Prima della
morte della madre di Day gli avrei sorriso.
Adesso mi dà i brividi e mi ritraggo.
Day è servito a infilarmi a forza in questo vestito, vorrei dire, invece liscio la stoffa già perfetta della
mia gonna.
Sia Thomas che il comandante Jameson hanno tanto insistito affinché indossassi qualcosa di carino.
Nessuno dei due ha voluto dirmi perché. Quando l’ho chiesto al comandante, lei mi ha liquidato con
un gesto della mano.
«Per una volta, Iparis,» mi ha risposto «fai quello che ti viene detto senza fare domande.» Poi ha
aggiunto qualcosa riguardo a una sorpresa, all’apparizione inaspettata di qualcuno a cui tengo in
modo particolare.
Per un illogico momento ho pensato che potesse riferirsi a mio fratello. Che in qualche modo fosse
stato riportato in vita e l’avrei rivisto in questa serata di festeggiamenti.
Per ora lascio che Thomas regoli la mia rotta nel mare di generali e aristocratici.
Alla fine ho scelto un abito blu zaffiro con corsetto decorato da minuscoli diamanti. Ho una spalla
ricoperta di merletti e l’altra è nascosta da un lungo velo. I capelli sono dritti e sciolti, un disagio per
chi passa la maggior parte dei giorni di addestramento con i capelli raccolti, lontani dalla propria
faccia. Ogni tanto Thomas mi lancia uno sguardo e le sue guance si tingono di rosa. Non capisco cosa
ci sia di così eclatante, però. Ho indossato vestiti anche più belli e questo mi sembra troppo moderno
e asimmetrico. Un abito del genere avrebbe potuto sfamare un bambino dei bassifondi per mesi.
«Il comandante mi ha informato che emetteranno la sentenza di Day domani mattina» dice Thomas un
attimo più tardi, dopo che abbiamo terminato di salutare un capitano del settore Emerald.
Nel sentire nominare il comandante Jameson mi volto dall’altra parte, perché non so se voglio che
Thomas noti la mia reazione. Sembra che si sia già dimenticata quello che è successo alla madre di
Day, come se fossero passati vent’anni. Decido comunque di essere educata e alzo lo sguardo sul mio
accompagnatore. «Così presto?»
«Prima è, meglio è, non trova?» Il suo improvviso tono tagliente mi spaventa. «E pensare che ha
dovuto passare tutto quel tempo in sua compagnia. Mi sorprende che non l’abbia uccisa nel sonno.
Io...» Thomas fa una pausa, poi decide di non finire la frase.
Ripenso al calore del bacio di Day, al modo in cui mi ha fasciato la ferita. Da quando è stato
catturato, mi sono arrovellata cento volte su questa cosa. Il Day che ha ucciso Metias è un criminale
crudele e senza scrupoli. Ma il Day che ho incontrato per strada, chi è? Chi è il ragazzo che
rischierebbe la propria sicurezza per una persona che neanche conosce? Chi è il Day che si addolora
in quel modo per la madre? E suo fratello John, che gli assomiglia così tanto, quando l’ho interrogato
non mi è sembrato una cattiva persona. Ha cercato di barattare la sua vita con quella di Day, di
comprare con il denaro la libertà di Eden. Un criminale così spietato può far parte di una famiglia del
genere? Il ricordo di Day legato alla sedia, agonizzante per la ferita alla gamba, mi rende furiosa e
allo stesso tempo confusa.
Ieri avrei potuto ucciderlo. Avrei potuto caricare un paio di proiettili nella pistola e sparargli, e
sbarazzarmi di lui una volta per tutte.
Invece ho lasciato il caricatore vuoto.
«Quei teppisti di strada sono tutti uguali» continua Thomas, facendo eco a quello che ho detto a Day
nella sua cella. «Ha sentito che ieri il fratello di Day, quello malato, il piccolo, ha cercato di sputare
addosso al comandante Jameson?
Voleva infettarla con quel morbo mutato
che si porta dentro.» La questione del fratello minore di Day
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è un aspetto sul quale non ho investigato. «Dimmi,» gli chiedo, fermandomi a guardarlo «cosa vuole
di preciso la Repubblica dal ragazzino? Perché portarlo nel laboratorio dell’ospedale?» Thomas
abbassa la voce. «Non so dirglielo. La maggior parte delle informazioni è riservata. Però so che dal
fronte sono arrivati molti generali per vederlo.» Aggrotto la fronte. «Sono venuti apposta per lui?»
«Be’, molti di loro sono qui per una specie di riunione. Ma hanno fatto tutti in modo di passare per il
laboratorio.»
«Che nesso può esserci tra il fronte e il fratello di Day?» Thomas alza le spalle. «Se ci fosse
qualcosa che dobbiamo sapere, i generali ce lo direbbero.» Attimi dopo siamo intercettati da un
uomo robusto con una cicatrice dal mento all’orecchio. Chian. Nel vederci sfodera un largo sorriso e
mi appoggia una mano sulla spalla.
«Agente Iparis! Questa è la tua serata. Adesso sei una celebrità!
Devo dirtelo, mia cara, nelle alte sfere non si parla che del tuo sorprendente risultato.
Specialmente il comandante, che ti sta ricoprendo di lodi come fossi sua figlia. Congratulazioni per
la tua promozione ad agente e per la piccola ricompensa.
Con duecentomila banconote puoi senz’altro permetterti una decina di vestiti come questo.» Annuisco
educatamente.
«È molto gentile, signore.» Chian sorride, deformando la cicatrice, e batte tra loro le mani inguantate.
La sua uniforme ha abbastanza galloni e medaglie da farlo affondare negli abissi dell’oceano. Mi
sorprende che ne abbia una viola e dorata, perché significa che è stato un eroe di guerra e io fatico a
credere che abbia rischiato la propria vita per salvare i compagni. Ma significa anche che gli hanno
amputato un arto. Le mani sembrano intatte, perciò deve avere una protesi alla gamba. La sua leggera
inclinazione mi dice che favorisce la sinistra.
«Seguimi, agente Iparis. Anche lei, capitano» ci ordina Chian. «C’è qualcuno che vuole conoscerti.»
Deve trattarsi della stessa persona di cui parlava il comandante Jameson. Thomas mi rivolge un
sorriso.
Chian ci conduce attraverso la sala del banchetto e oltre la pista da ballo, verso una pesante tenda blu
che separa gran parte del salone. Su entrambi i lati della tenda ci sono le aste con la bandiera della
Repubblica e, man mano che ci avviciniamo, noto che anche la tenda ha un decoro che richiama la
bandiera.
Chian scosta la tenda per noi e appena passiamo la richiude dietro di sé.
Ci sono dodici sedie di velluto sistemate in cerchio e su ognuna siede un graduato in alta uniforme,
nera con le spalline d’oro lucenti.
Tutti bevono da calici raffinati. Ne riconosco qualcuno. Un paio sono generali del fronte, gli stessi
menzionati prima da Thomas. Uno di loro ci nota e si avvicina, seguito a poca distanza da un ufficiale
più giovane.
Quando escono dal cerchio, il resto del gruppo si alza e si inchina verso di loro.
L’ufficiale più anziano è alto, con i capelli ingrigiti alle tempie e la mascella ben disegnata. Però la
pelle ha un aspetto malaticcio.
All’occhio destro porta un monocolo con la montatura d’oro. Chian è sull’attenti e appena Thomas mi
lascia il braccio fa lo stesso. L’uomo muove appena la mano e tutti si mettono a riposo. Solo adesso
lo riconosco. Di persona è diverso da come appare nei jumbo-schermi della città, dove ha la pelle di
un colorito più sano e nessuna ruga.
Individuo anche delle guardie del corpo sparpagliate tra gli ufficiali.
Quello che ho davanti è il nostro Elector Primo.
«Lei deve essere l’agente Iparis.» LeAPROLIBRO.COM
sue labbra si sollevano alla mia espressione esterrefatta, ma nel
suo sorriso c’è poco calore.
Mi stringe la mano in una stretta rapida e decisa.
«Questi gentiluomini mi dicono grandi cose di lei. Che lei è un prodigio e, cosa ancor più importante,
che ha sbattuto dietro le sbarre uno dei nostri criminali più irritanti. Ho ritenuto opportuno
congratularmi con lei di persona. Se avessimo più giovani come lei, con menti acute come la sua,
avremmo già vinto da tempo la guerra contro le Colonie.
Non ne conviene anche lei?» Fa una pausa per guardarsi intorno e tutti gli altri mormorano la loro
approvazione. «Mi congratulo con lei, mia cara.» Chino la testa. «È un grande onore conoscerla,
signore. Sono felice, Elector, di fare quello che posso per il mio paese.» Sono sbalordita da quanto
sia calma la mia voce.
L’Elector fa un cenno al giovane ufficiale che gli sta accanto.
«Questo è mio figlio, Anden. Oggi è il suo ventesimo compleanno, così ho pensato di portarlo con me
a questa splendida celebrazione.» Mi volto verso Anden. Assomiglia molto al padre, è alto (un metro
e ottantotto) e ha un aspetto alquanto regale, coi capelli ricci e scuri. Come Day, anche in lui c’è
sangue asiatico. Ma al contrario di Day, i suoi occhi sono verdi e la sua espressione incerta. Indossa
guanti bianchi con elaborati ricami dorati, il che significa che ha già completato il corso di
addestramento come pilota da caccia. Mancino. Alle maniche della giacca dello smoking militare
porta una coppia di gemelli d’oro con lo stemma del Colorado inciso sopra.
Vuol dire che è nato lì. Panciotto viola, doppia fila di bottoni. Indossa prima il suo grado
dell’aeronautica, al contrario dell’Elector.
Anden sorride al mio sguardo che indugia, mi porge un inchino perfetto e poi mi prende la mano.
Invece di stringerla come ha fatto l’Elector, l’avvicina alle labbra e la bacia. Sono imbarazzata per
quanto mi batte il cuore. «Agente Iparis» mi dice. I suoi occhi mi fissano per un istante.
«È un piacere» rispondo, non sapendo cos’altro dire.
«In primavera mio figlio concorrerà alla carica di Elector.» L’Elector sorride ad Anden, che
s’inchina. «Eccitante, non crede?»
«Gli auguro buona fortuna, allora, anche se sono sicura che non ne avrà bisogno.» L’Elector
ridacchia. «Grazie, mia cara. È tutto. La prego, agente Iparis, si goda la serata. Spero che avremo
occasione di incontrarci di nuovo.» Quindi si gira e Anden lo segue. «Può andare» aggiunge l’Elector
mentre si allontana.
Chian ci scorta fuori dalla zona protetta dalla tenda e torniamo nella sala da ballo. Adesso posso
respirare.
ORE 01.00. SETTORE RUBY.
TEMPERATURA INTERNA 22 °C.
Finiti i festeggiamenti, Thomas mi scorta al mio appartamento senza dire una parola. Si trattiene un
momento fuori dalla mia porta.
Sono io la prima a rompere il silenzio. «Grazie,» gli dico «è stato divertente.» Thomas annuisce.
«Già. Non avevo mai visto il comandante Jameson così fiera di un suo soldato prima d’ora. La
ragazza d’oro della Repubblica.» Poi però ripiomba nel silenzio. Non è contento e in qualche modo
mi sento responsabile.
«Tutto bene?» gli chiedo.
«Mmm? Oh, no, sto bene.» Thomas si passa una mano tra i capelli e un po’ di gel gli rimane sul
guanto. «Non sapevo che sarebbe venuto anche il figlio dell’Elector.» Nei suoi occhi vedo
un’espressione misteriosa. Rabbia? Gelosia? Gli adombra la faccia e lo fa sembrare brutto.
Cerco di ignorarla. «Abbiamo conosciuto
l’Elector di persona. Ci credi? Direi che la serata è andata
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bene. Sono contenta che tu e il comandante Jameson mi abbiate convinto a mettere qualcosa di
carino.» Thomas mi studia. Non ha l’aria divertita. «June, è da un po’ che voglio chiederglielo...» Ha
un attimo di esitazione. «Quando era lì fuori con Day nel settore Lake, l’ha baciata?» Mi blocco. Il
microfono. Ecco come lo sa, il microfono deve essersi attivato quando ci siamo baciati, o magari non
l’avevo spento bene. Incontro lo sguardo di Thomas. «Sì,» rispondo con tono deciso «mi ha baciata.»
Ecco che ritorna la stessa espressione di prima. «Perché l’ha fatto?»
«Immagino che mi trovasse attraente. E di sicuro perché aveva bevuto del vino da due soldi. Sono
stata al gioco, non volevo rischiare di compromettere la missione dopo essere arrivata così lontana.»
Rimaniamo in silenzio per un momento. Poi, prima che possa protestare, Thomas mi sfiora il mento
con la mano guantata, piegandosi in avanti per baciarmi.
Mi tiro indietro prima che la sua bocca possa toccare la mia, ma adesso la sua mano si è spostata
dietro al mio collo. Sono sorpresa della repulsione che provo. Tutto ciò che vedo davanti a me è un
uomo con le mani macchiate di sangue.
Thomas mi rivolge una lunga occhiata e poi, finalmente, mi lascia e si allontana. Riesco a leggere il
dispiacere nei suoi occhi.
«Buonanotte, signorina Iparis.» Si affretta lungo il corridoio prima che possa rispondere. Deglutisco.
Di sicuro non posso finire nei guai per aver mantenuto la parte mentre ero in strada, ma non ci vuole
un genio per capire quanto sia arrabbiato Thomas. Mi chiedo se userà questa informazione contro di
me e, se sì, in che modo.
Lo guardo scomparire, quindi apro la porta ed entro lentamente in casa.
Ollie mi accoglie facendomi le feste. Lo accarezzo, lo lascio uscire sul terrazzo e poi mi tolgo il
vestito e m’infilo in doccia. Quando ho finito, indosso una canottiera nera e un paio di pantaloncini.
Cerco di prendere sonno, ma oggi sono successe troppe cose...
L’interrogatorio di Day, l’incontro con l’Elector Primo e suo figlio e infine Thomas. La scena del
crimine di Metias mi ritorna alla memoria, ma nel riavvolgere il nastro la sua faccia diventa quella
della madre di Day. Mi strofino gli occhi, pesanti per la stanchezza. Nella testa mi girano un mucchio
di informazioni che provo a decifrare e invece finisco ogni volta per rimanerci impigliata. Provo a
immaginare i miei pensieri come blocchi di dati organizzati all’interno di piccole scatole ordinate,
ognuna con la sua etichetta. Ma stanotte lo schema non ha senso e io sono troppo sfinita per trovarne
uno.
L’appartamento mi sembra vuoto ed estraneo. Quasi mi mancano le strade di Lake. Lo sguardo cade
su una cassetta sotto la scrivania, piena delle duecentomila banconote che ho ricevuto per la cattura
di Day. So che dovrei metterle in un posto più sicuro, ma non riesco a trovare la forza di toccarle.
Dopo un po’ mi alzo dal letto, mi verso un bicchiere d’acqua e raggiungo il computer. Visto che di
dormire non se ne parla, tanto vale continuare a passare al setaccio le informazioni e le prove
raccolte su Day.
Scorro un dito sul monitor, mando giù un sorso d’acqua e digito il numero della mia autorizzazione
per accedere a internet. Apro i file che mi ha inoltrato il comandante Jameson. Sono pieni di
documenti, fotografie e articoli di giornale. Ogni volta che esamino cose del genere sento la voce di
Metias nella testa.
Una volta la nostra tecnologia era più avanzata, mi direbbe. Prima delle inondazioni, prima che
migliaia di banche dati fossero spazzate via.
Poi emetterebbe un sospiro ironico e mi strizzerebbe l’occhio.
Per fortuna che i miei diari li scrivo a mano, giusto?
Scorro velocemente le informazioniAPROLIBRO.COM
che già conosco, iniziando dai documenti nuovi. La mia mente
seleziona i dettagli.
NOME: DANIEL ALTAN WING
ETÀ/SESSO: 15/M; PREC. CLASS.
DECEDUTO ALL’ETÀ DI 10 ANNI
ALTEZZA: 177 CM
PESO: 67 KG
GRUPPO SANGUIGNO: 0
CAPELLI: BIONDI, LUNGHI. FFFAD1
OCCHI: AZZURRI. 3A8EDB
CARNAGIONE: E2B279
ETNIA DOMINANTE: MONGOLA
Interessante.
Un quoziente elevato per essere un paese che, stando a quanto ci insegnano a scuola, non esiste più.
ETNIA SECONDARIA: CAUCASICA
SETTORE: LAKE
PADRE: TAYLOR ARSLAN WING. DECEDUTO
MADRE: GRACE WING. DECEDUTA.
La mia mente si sofferma su questo dato per un istante. Rivedo la donna stesa in mezzo alla strada nel
suo stesso sangue, ma scaccio in fretta l’immagine.
FRATELLI: JOHN SUREN WING, 19/M
EDEN BATAAR WING, 9/M
Seguono pagine e pagine di documenti che elencano nei dettagli i suoi crimini passati. Cerco di
sfogliarli più velocemente che posso, ma alla fine non riesco a non soffermarmi sull’ultimo.
VITTIMA: CAPITANO
METIAS IPARIS
Chiudo gli occhi. Ollie guaisce ai miei piedi come se sapesse cosa sto leggendo, poi mi preme il
naso contro la gamba. Gli poso una mano sulla testa in modo distratto.
Non ho ucciso io tuo fratello. Mi ha detto così. L’hai puntata tu la pistola alla testa di mia madre.
Mi obbligo a esaminare un altro documento.
Tanto ho già memorizzato quella relazione dall’inizio alla fine.
Poi qualcosa attira la mia attenzione. Mi raddrizzo sulla sedia.
Il documento che ho davanti mostra il punteggio della Prova di Day. La scansione di un foglio di
carta con un grosso timbro rosso sopra, assai diverso da quello blu che ho visto sul mio.
DANIEL ALTAN WING
PUNTEGGIO: 674/1500
RESPINTO
C’è qualcosa in quel numero che non mi torna... 674? Non ho mai sentito di nessuno che ha preso un
punteggio così basso. Conoscevo un tipo alle elementari che non è passato, ma il suo punteggio era
1000. La maggior parte dei voti insufficienti sono 890 o 825 circa.
Sempre più di 800. E sto parlando dei ragazzini che ci si aspetta non passino, quelli che non si
concentrano o non hanno la capacità di farlo.
Ma 674?
«È troppo intelligente per quel voto» mormoro. Lo leggo di nuovo in caso mi sia sfuggito qualcosa. Il
numero però è ancora lì.
Impossibile. Day ha una buona proprietà
di linguaggio e capacità logica, sa leggere e scrivere. I
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colloqui avrebbe dovuto superarli.
Considerando che è la persona più agile che abbia mai conosciuto, avrebbe dovuto superare con il
massimo dei voti anche le prove fisiche. Con punteggi alti in quelle sezioni è praticamente
impossibile totalizzare meno di 850 punti, sempre al di sotto della sufficienza, ma più di 674. E
avrebbe preso 850 anche se avesse lasciato la parte scritta in bianco.
Il comandante Jameson non sarà contenta di me, penso. Apro un motore di ricerca e lo indirizzo su
una URL classificata.
I risultati finali delle prove sono di dominio pubblico, però i documenti veri e propri non vengono
mai rivelati, neanche alla polizia giudiziaria. Con un fratello come Metias, però, non abbiamo mai
avuto problemi a intrufolarci nel database delle prove. Era decisamente un bravo hacker.
Chiudo gli occhi, ricordandomi i suoi insegnamenti.
Scopri l’SO e ottieni i privilegi dell’utente root. Vedi se è possibile raggiungere il sistema remoto.
Assicurati di conoscere l’obiettivo e metti la tua macchina in sicurezza.
Dopo un’ora di ricerca trovo una porta aperta nel sistema e acquisisco i privilegi dell’utente root. Il
sito emette un singolo bip prima di mostrare una barra di ricerca. Digito il nome di Day sulla
scrivania senza produrre alcun suono.
DANIEL ALTAN WING.
Viene fuori la prima pagina della documentazione della sua prova. Il punteggio è ancora 674/1500.
Vado alla pagina seguente. Le risposte di Day. Alcune domande sono a risposta multipla, mentre altre
richiedono una risposta più articolata. Sfoglio sullo schermo tutte le trentadue pagine prima di avere
la conferma di qualcosa di veramente strano.
Non ci sono segni rossi. Nessuna delle sue risposte è segnata. La sua prova sembra impeccabile
come la mia.
Torno alla prima pagina, leggo attentamente ogni domanda e rispondo a mente. Mi ci vuole un’ora
per finirle tutte.
Ogni risposta combacia.
Quando arrivo alla fine del documento, noto punteggi separati per il colloquio e le prove fisiche.
Sono entrambi perfetti. L’unica cosa insolita è un breve appunto segnato accanto al punteggio del
colloquio: Attenzione.
Day non ha fallito la prova. Al contrario. Ha totalizzato il mio stesso punteggio: 1500/1500. Non
sono più l’unico prodigio della Repubblica.
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DAY
«TIRATI SU. È ORA.» Il calcio di un fucile mi colpisce nelle costole. Vengo svegliato bruscamente
da un sonno carico di sogni, prima mia madre che mi accompagna a piedi a scuola, poi gli occhi
sanguinanti di Eden e i numeri rossi sotto al portico. Due paia di mani mi sollevano prima che possa
vederci bene e urlo non appena la gamba ferita cerca di sostenere un po’ del mio peso. Non credevo
che potesse farmi male più di ieri, eppure è così. Mi vengono le lacrime agli occhi. Quando la vista
si schiarisce, mi accorgo che sotto le bende la coscia si è gonfiata.
Vorrei gridare di nuovo, ma ho la bocca troppo asciutta.
I soldati mi trascinano fuori dalla cella. Il comandante che mi ha fatto visita ieri ci sta aspettando nel
corridoio e appena mi vede mi sorride. «Buongiorno, Day» mi dice.
«Come ti senti?» Non rispondo. Uno dei soldati si ferma per porgerle il saluto.
«Comandante Jameson,» le chiede «è pronta per condurre il prigioniero dinanzi alla giuria?» Il
comandante annuisce.
«Seguitemi.
E per favore imbavagliatelo, se non vi dispiace.
Non vorremmo che sbraiti oscenità tutto il tempo, dico bene?» Il soldato saluta un’altra volta e
m’infila uno straccio in bocca.
Avanziamo per i lunghi corridoi.
Passiamo ancora una volta davanti alle porte con i numeri rossi, poi a diverse porte sorvegliate e ad
altre dotate di alti pannelli di vetro. Mi gira la testa. Devo trovare un modo per confermare la mia
ipotesi, un modo per parlare con qualcuno.
La disidratazione mi ha reso debole e il dolore mi fa
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venire da vomitare.
Di tanto in tanto, in una delle stanze con le paretri di vetro, vedo una persona che urla ammanettata
alla parete. Dalle loro uniformi a brandelli capisco che sono prigionieri delle Colonie. E se John
fosse in una di queste stanze?
Cos’hanno intenzione di fargli?
Mi sembra che passi un’eternità prima di sbucare in un enorme atrio dal soffitto altissimo. Fuori la
folla canta in coro, ma non capisco le parole. Il comandante Jameson solleva una mano, poi si volta
alla sua sinistra mentre i soldati mi trascinano su un palco, all’aperto.
Finalmente adesso vedo dove mi trovo. Sono davanti a un edificio, nel cuore di Batalla, il settore
militare di Los Angeles. Una grande folla è qui per assistere, tenuta a bada e pattugliata da un plotone
altrettanto numeroso di soldati armati.
Non immaginavo che importasse a così tanta gente, al punto da venire a vedermi di persona. Sollevo
la testa più che posso e scorgo i jumbo-schermi incastonati nei palazzi circostanti.
Su ognuno c’è un primo piano della mia faccia accompagnato da frenetici titoli a caratteri cubitali.
NOTO CRIMINALE CONOSCIUTO COME DAY ARRESTATO. LA SENTENZA VERRÀ
EMESSA OGGI NELLA PIAZZA DEL PALAZZO GOVERNATIVO DI BATALLA. FINALMENTE
CATTURATA PERICOLOSA MINACCIA PER LA SOCIETÀ. GIOVANE TRADITORE MEGLIO
NOTO COME DAY, AFFERMA DI OPERARE AUTONOMAMENTE. NESSUN
COLLEGAMENTO CON I PATRIOTI.
Fisso la mia faccia sui jumboschermi. Sono tutto ammaccato, sanguinante ed esausto. Una ciocca di
capelli, ricoperta di sangue rappreso, si è tinta di un rosso scuro. Devo avere un taglio sulla testa.
Per un attimo sono felice che mia madre non sia viva e non possa vedermi in questo stato.
I soldati mi spintonano verso un blocco di cemento rialzato al centro del palco. Alla mia destra, un
giudice avvolto in una mantella viola dai bottoni dorati attende dietro un leggio. Accanto a lui c’è il
comandante Jameson, con la Ragazza accanto. È di nuovo in alta uniforme, stoica e sull’attenti.
Rivolge una faccia priva di espressione sulla folla, ma una volta, una soltanto, si gira verso di me
prima di distogliere in fretta lo sguardo.
«Ordine! Prego, ordine tra il pubblico.» La voce del giudice gracchia dagli altoparlanti, ma la gente
continua a gridare e i soldati devono spingerla indietro. La prima fila è interamente occupata dai
cronisti, con telecamere e microfoni puntati nella mia direzione.
Alla fine uno dei soldati abbaia un ordine. Lo guardo. È il giovane capitano che ha ucciso mia madre.
I suoi uomini sparano in aria diversi colpi. Questo sembra calmare la folla. Il giudice aspetta qualche
secondo per assicurarsi che il silenzio duri, poi si sistema gli occhiali.
«Vi ringrazio per la collaborazione» comincia. «Mi rendo conto che è una mattina piuttosto calda,
perciò emetteremo la sentenza in fretta. Come potete vedere sono presenti i nostri soldati, che
servono a ricordarvi di mantenere la calma durante il procedimento.
Iniziamo con l’annuncio ufficiale che il 21 dicembre, alle otto e trenta del mattino, Ora Standard
Oceanica, il criminale quindicenne noto con il nome di Day è stato arrestato e trattenuto in custodia
dall’esercito.» Scoppia una fragorosa ovazione.
Per quanto me lo aspettassi, sento anche qualcosa che mi sorprende.
Fischi. Alcuni – molti – tra la folla non hanno il pugno alzato in aria. I contestatori più rumorosi
vengono avvicinati dalle guardie, ammanettati e trascinati via.
Uno dei soldati della scorta mi sferza
la schiena con la canna del fucile. Cado in ginocchio. Appena
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la gamba ferita sfiora il cemento, grido con tutto il fiato che ho in gola. Il suono è smorzato dal
bavaglio. Il dolore mi acceca, la gamba trema per l’impatto e sento un fiotto di sangue che impregna
la fasciatura. Sto per accasciarmi su un fianco, ma i soldati mi sorreggono. Quando guardo la
Ragazza, la vedo trasalire alla mia vista e abbassare gli occhi.
Il giudice ignora l’agitazione della folla. Inizia invece a elencare i miei crimini e poi conclude: «Alla
luce dei precedenti dell’imputato, con particolare riferimento ai reati contro la gloriosa nazione della
Repubblica, la corte suprema della California ritiene equo il seguente verdetto e condanna il qui
presente Day alla pena capitale...».
Il pubblico esplode di nuovo. I soldati lo tengono indietro.
«...applicata con fucilazione, da svolgersi tra quattro giorni a partire da adesso, il 27 dicembre alle
sei del pomeriggio, Ora Standard Oceanica, in un luogo segreto...» Quattro giorni. Come farò a
salvare i miei fratelli in così poco tempo? Alzo gli occhi e fisso la folla.
«...l’esecuzione sarà trasmessa in diretta sugli schermi della città. Si invitano i civili a rimanere
all’erta per possibili attività criminali che potrebbero verificarsi prima o dopo l’evento...» Una
punizione esemplare.
«...e riferire con tempestività qualsiasi attività sospetta alle pattuglie cittadine o presso la centrale di
polizia più vicina.
Dichiaro ufficialmente chiusa la seduta.» Il giudice si raddrizza e si allontana dal leggio. La gente
continua a spingere contro il cordone di soldati. Grida, applaude, fischia. Vengo rimesso in piedi e,
prima che possano trascinarmi di nuovo dentro al Palazzo Governativo, di sfuggita vedo la Ragazza
che mi fissa un’ultima volta. La sua espressione sembra vacua, ma dietro si scorge un fremito. La
stessa espressione che ho visto sul suo viso prima che scoprisse la mia vera identità. Dura solo un
attimo e poi sparisce.
Dovrei odiarti per quello che hai fatto, penso. Ma i suoi occhi si soffermano su di me in un modo che
me lo impedisce.
Dopo la sentenza, il comandante Jameson non lascia che i suoi soldati mi riportino nella mia cella.
Entriamo invece in un ascensore sorretto da enormi ingranaggi e catene e saliamo di un piano, poi un
altro e un altro ancora.
L’ascensore ci porta sul tetto del Palazzo di Batalla, alto dodici piani, dove le ombre degli edifici
intorno non ci proteggono dal sole.
Il comandante Jameson guida i soldati fino a una piattaforma circolare rialzata al centro del tetto, un
podio con lo stemma della Repubblica stampato sopra e pesanti catene tutt’intorno al bordo.
La Ragazza chiude la fila. Riesco ancora a sentire i suoi occhi addosso. Raggiunto il centro del
cerchio, i soldati mi obbligano a stare in piedi mentre mi legano le mani già ammanettate e i piedi
alle catene.
«Tenetelo qui per due giorni» ordina il comandante Jameson. Il sole mi ha già sfocato la vista e il
mondo sembra immerso in un alone di diamanti scintillanti. I soldati mollano la presa e crollo a terra
sulle mani e il ginocchio buono in un clangore di ferraglia. «Agente Iparis, occupatene tu. Controllalo
di tanto in tanto e assicurati che non muoia prima della data dell’esecuzione.»
«Sissignora» risponde la Ragazza con voce squillante.
«Gli è concesso un bicchiere d’acqua al giorno. E una razione di cibo.» Il comandante sorride, poi
stringe i guanti. «Sii creativa quando gliela dai, se vuoi.
Scommetto che sai come farlo implorare.»
«Sissignora.»
«Bene.» Il comandante Jameson si rivolge
a me un’ultima volta.
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«Sembra che finalmente ti sia calmato. Meglio tardi che mai.» Detto questo si allontana e scompare
nell’ascensore insieme alla Ragazza, lasciando il resto dei soldati a fare la guardia.
Il pomeriggio è tranquillo.
Perdo e riacquisto i sensi diverse volte. La gamba ferita pulsa a tempo con il battito del mio cuore, a
volte piano e a volte veloce, a volte così forte che credo di morire.
Ogni volta che muovo la bocca, le labbra si spaccano. Provo a pensare a dove possa essere Eden: il
laboratorio del Central Hospital, l’ala medica del Palazzo di Batalla, oppure su un treno diretto al
fronte.
Lo terranno in vita, di questo sono sicuro. La Repubblica non lo ucciderà prima che lo faccia il
morbo.
John, invece... Cosa gli hanno fatto posso solo provare a indovinarlo. Può darsi che stiano tenendo in
vita anche lui, nel caso in cui vogliano strapparmi altre informazioni.
Magari ci giustizieranno lo stesso giorno, magari è già morto. Un nuovo dolore mi trafigge il petto.
Ripenso al giorno della mia Prova, quando John era venuto a riprendermi e aveva visto che mi
caricavano su un treno con gli altri che non l’avevano superata. Dopo essere scappato dal laboratorio
e aver preso l’abitudine di osservare da lontano la mia famiglia, ogni tanto lo vedevo seduto intorno
al tavolo con la testa tra le mani, in lacrime. Non l’ha mai detto, ma credo che incolpi se stesso per
quello che mi è capitato.
Pensa che avrebbe dovuto proteggermi. Aiutarmi a studiare di più. Fare qualcosa, qualunque cosa.
Se riuscissi a scappare sarei ancora in tempo per salvarli. Le braccia stanno bene e ho una gamba
intatta. Potrei farcela... se solo sapessi dove si trovano...
Il mondo scompare e riappare.
La testa si accascia sulla piattaforma di cemento e le braccia restano inermi contro le catene. Mi
passano davanti ricordi del giorno della Prova.
Lo stadio. Gli altri bambini. I soldati a sorvegliare ogni uscita. I cordoni viola che ci tenevano
separati dai ragazzini di famiglia ricca.
La prova fisica. L’esame scritto. Il colloquio.
Soprattutto il colloquio. Ricordo la commissione che mi ha interrogato – un gruppo di sei psichiatri –
e l’ufficiale che li dirigeva, un uomo di nome Chian, con l’uniforme piena di medaglie.
Fece lui la maggior parte delle domande. Qual è l’inno nazionale della Repubblica? Bene, molto
bene. C’è scritto sulla tua relazione scolastica che ti piace la storia. In che hanno è stata ufficialmente
fondata la Repubblica? Cos’altro ti piace fare a scuola? Leggere... sì, molto bene. Una volta un tuo
insegnante ti ha fatto rapporto per essere entrato di nascosto in una zona proibita della biblioteca, in
cerca di vecchi libri militari. Puoi dirmi perché l’hai fatto? Cosa pensi del nostro illustrissimo
Elector Primo? Sì, è davvero un brav’uomo, nonché un leader eccezionale. Ma ti sbagli a chiamarlo
in quel modo, ragazzo mio. Non è un uomo come te e me. Il modo corretto per riferirsi a lui è nostro
glorioso padre. Sì, accettiamo le tue scuse.
Le sue domande andarono avanti all’infinito, decine e decine, ognuna più impegnativa dell’altra
finché non ero neanche più sicuro delle mie risposte. Chian prese appunti sulla mia relazione per
tutto il tempo, mentre uno dei suoi assistenti registrava tutto con un piccolo microfono.
Credevo di aver risposto abbastanza bene. Almeno ero stato attento a dire le cose che pensavo gli
avrebbero fatto piacere.
E invece poi mi portarono al treno e il treno ci portò al laboratorio.
Il ricordo mi dà i brividi anche se il sole continua a picchiare, arrostendomi la pelle finché non mi fa
male. Devo salvare Eden, continuoAPROLIBRO.COM
a ripetermi. Eden compie dieci anni... tra un mese. Quando
guarirà dal morbo, dovrà superare la Prova...
La gamba ferita mi pulsa così tanto che sembra voglia liberarsi delle bende e gonfiarsi quanto il tetto.
Passano le ore.
Perdo la cognizione del tempo. I soldati ruotano a turno. Il sole cambia posizione.
Poi, proprio quando il sole decide di avere pietà e inizia a calare, vedo qualcuno emergere
dall’ascensore e avanzare verso di me.
JUNE
ANCHE SE SONO PASSATE SOLO SETTE ORE dalla sentenza, stento a riconoscere Day. È
rannicchiato a terra al centro dell’emblema della Repubblica. La sua pelle sembra più scura e ha i
capelli zuppi di sudore. Una ciocca è ancora sporca di sangue rappreso, come se l’avesse tinta di
proposito.
Sembra quasi nera. Mentre mi avvicino, gira la testa nella mia direzione. Non so se possa vedermi,
però, perché il sole non è calato del tutto e probabilmente lo sta accecando.
Un altro prodigio, sicuramente fuori dalla norma. Ho già incontrato altri prodigi prima d’ora ma di
certo non uno che la Repubblica ha deciso di nascondere. Specialmente non uno con un punteggio
perfetto.
Uno dei soldati di guardia intorno al perimetro della piattaforma mi saluta. È sudato e il casco che
indossa non gli protegge la pelle dal sole. «Agente Iparis» mi saluta. Il suo accento è del settore
Ruby e le file di bottoni della sua uniforme sono lucidate da poco. Ci tiene ai dettagli.
Lancio un’occhiata agli altri soldati prima di guardarlo di nuovo.
«Siete tutti congedati. Dica ai suoi uomini di idratarsi e ripararsi dal sole. E ordini alla squadra che
prende servizio dopo di voi di presentarsi in anticipo.»
«Sissignora.» Il soldato batte i tacchi prima di urlare agli altri di rompere le righe.
Quando lasciano il tetto e rimango da sola con Day, mi sfilo il mantello e mi inginocchio per vederlo
meglio in faccia. Lui mi guarda con gli occhi socchiusi, ma non dice niente. Ha le labbra talmente
screpolate che un po’ di sangue gli è colato sul mento. È troppo debole per parlare. Abbasso lo
sguardo sulla gamba ferita.
APROLIBRO.COM
Rispetto a questa mattina è peggiorata molto e la cosa non mi stupisce, è gonfia il doppio del
normale. Deve trattarsi di un principio d’infezione. Dal bordo della fasciatura cola sangue.
Mi tocco distrattamente la ferita al fianco. Non fa più tanto male.
Quella gamba va controllata.
Sospiro, quindi tolgo la borraccia legata alla cintura. «Ecco. Bevi un po’ d’acqua. Non mi è
permesso di lasciarti morire adesso.» Gli faccio gocciolare l’acqua sulle labbra.
All’inizio Day si ritrae, ma poi apre la bocca. Aspetto che deglutisca (ci mette una vita) e poi gli
faccio prendere un’altra bella sorsata.
«Grazie» bisbiglia prima di emettere una risata secca. «Adesso te ne puoi andare.» Lo studio per un
attimo. Ha la pelle bruciata dal sole e la faccia imperlata di sudore, ma i suoi occhi sono ancora vivi,
solo un tantino assenti. D’un tratto mi torna alla mente la prima volta che l’ho visto.
Polvere ovunque... e dalla nuvola è emerso questo bellissimo ragazzo con gli occhi più azzurri che
avessi mai visto, che mi tendeva la mano per aiutare a rialzarmi.
«Dove sono i miei fratelli?» mi chiede con un filo di voce. «Sono vivi tutti e due?» Annuisco. «Sì.»
«E Tess è al sicuro? Non l’ha arrestata nessuno?»
«Non che io sappia.»
«Che stanno facendo a Eden?» Ripenso a quello che mi ha detto Thomas, che i generali sono venuti
dal fronte per vederlo. «Non lo so.» Day gira la testa dall’altra parte e chiude gli occhi. Si concentra
sulla respirazione.
«Non uccideteli» mormora.
«Non hanno fatto niente... e Eden... non è una cavia da laboratorio.» Rimane in silenzio per un
minuto. «Non mi hai mai detto come ti chiami. Immagino che a questo punto non abbia più molta
importanza, giusto? Tu il mio già lo sai.» Lo fisso. «Mi chiamo June Iparis.»
«June...» mormora Day. Sento uno strano calore al suono del mio nome sulle sue labbra. Si gira verso
di me. «June, mi dispiace per tuo fratello. Non potevo sapere che gli sarebbe successo qualcosa.»
Sono stata addestrata a non credere alle parole di un prigioniero. So che sono pronti a mentire, che
direbbero qualunque cosa pur di renderti vulnerabile.
Questa volta però è diverso. Non so come... ma Day sembra così sincero, così serio. E se mi stesse
dicendo la verità? Se quella notte a Metias fosse successo qualcos’altro?
Prendo un respiro profondo e mi sforzo di abbassare gli occhi. La logica prima di tutto, mi dico. La
logica è l’unica cosa che può salvarti quando tutto il resto crolla.
«Ehi.» Mi viene in mente un altro dettaglio. «Apri gli occhi e guardami.» Day obbedisce. Mi piego in
avanti e lo esamino. Sì, è ancora lì.
Quella insolita macchiolina nell’occhio, un’increspatura nell’iride altrimenti azzurro come il mare.
«Da dove arriva quell’affare nel tuo occhio? Quell’imperfezione?» Devo aver detto qualcosa di
comico, perché Day scoppia a ridere prima di cedere a un attacco di tosse. «Quell’imperfezione,
come la chiami tu, è un regalo della Repubblica.»
«Che vuoi dire?» Tentenna. Si vede che ha difficoltà a organizzare i pensieri.
«Ero già stato nel laboratorio del Central Hospital. La notte in cui ho affrontato la Prova.» Cerca di
sollevare una mano per indicarsi l’occhio, ma le catene sferragliano e gli tirano di nuovo giù il
braccio.
«Hanno iniettato qualcosa.» Aggrotto la fronte. «La notte del tuo decimo compleanno? Che ci facevi
nel laboratorio? Avresti dovuto essere in viaggio per i campi di lavoro.» Day sorride come se stesse
per addormentarsi. «Pensavo fossi una ragazza sveglia...» A quanto pare il sole non ha ancora
prosciugato tutto il suo carattere. «E APROLIBRO.COM
che mi dici della tua vecchia ferita al ginocchio?»
«Anche quella un regalo della Repubblica. Ricevuto la stessa notte in cui mi hanno lasciato
l’imperfezione all’occhio.»
«Perché la Repubblica avrebbe dovuto ferirti, Day? Perché mai avrebbero voluto danneggiare
qualcuno con un punteggio perfetto?» Questo cattura la sua attenzione.
«Di che parli? La Prova non l’ho superata.» Neanche lui lo sa. Certo che no.
Abbasso la voce finché non è che un sussurro. «Sì che l’hai superata.
Punteggio pieno.»
«Che razza di giochetto è questo?» Day sposta appena la gamba e s’irrigidisce dal dolore.
«Punteggio pieno... ah ah. Non conosco nessuno che abbia mai preso 1500.» Incrocio le braccia.
«Io.» Day mi guarda inarcando un sopracciglio. «Tu? Sei tu il prodigio col punteggio perfetto?»
«Sì.» Gli faccio un cenno con il mento. «E a quanto pare lo sei anche tu.» Day alza gli occhi e guarda
di nuovo da un’altra parte.
«È ridicolo.» Io alzo le spalle. «Sei libero di credere quello che vuoi.»
«Non ha senso. Non dovrei trovarmi nella tua stessa situazione? Non è proprio questo lo scopo della
vostra preziosa Prova?» Day ha l’aria di volersi fermare, ha un attimo di esitazione e poi continua.
«Mi hanno iniettato qualcosa nell’occhio che bruciava come il veleno di una vespa. Mi hanno anche
tagliato il ginocchio.
Con un bisturi. Poi mi hanno fatto mandare giù con la forza una medicina e quando ho ripreso i
sensi... ero sdraiato nei sotterranei dell’ospedale insieme a un mucchio di cadaveri. Però non ero
morto.» Ride di nuovo. Sembra così debole.
«Gran bel compleanno.» Hanno condotto degli esperimenti su di lui. Probabilmente per l’esercito.
Adesso ne sono sicura e il solo pensiero mi fa stare male.
Gli hanno prelevato piccoli campioni di tessuto dal ginocchio, come anche dal cuore e dall’occhio. Il
ginocchio: devono aver voluto studiare le sue capacità motorie fuori dal comune, la sua velocità e la
sua agilità. L’occhio: magari non si è trattato di un’iniezione ma di un’estrazione, un modo per
verificare perché la sua vista fosse così acuta. Il cuore: gli hanno fatto assumere delle medicine per
metterne alla prova la resistenza e immagino che siano rimasti delusi quando si è temporaneamente
fermato. Devono aver pensato che fosse morto. Il motivo di tutto ciò appare evidente: volevano
sviluppare quei campioni di tessuto in qualcosa di diverso, non so bene cosa... pillole, lenti a
contatto, qualunque cosa potesse rendere migliori i nostri soldati, farli correre più veloci, vedere
meglio, ragionare più in fretta e sopportare condizioni più estreme.
Mi passa tutto nella testa in un secondo prima che riesca a fermarlo. Non può essere. Non combacia
con i valori della Repubblica. Perché sprecare così un prodigio?
A meno che non abbiano visto in lui qualcosa di potenzialmente pericoloso. Un barlume di disprezzo,
lo stesso spirito ribelle che ha adesso. Qualcosa che ha fatto ritenere più rischioso educarlo piuttosto
che sacrificare il suo possibile contributo alla società.
L’anno scorso trentanove ragazzini hanno preso più di 1400 punti.
Forse la Repubblica ha voluto che questo qui sparisse.
Ma Day non è un prodigio come gli altri, ha un punteggio perfetto.
Cos’ha potuto renderli nervosi a tal punto?
«Adesso posso farti io una domanda?» chiede Day. «Tocca a me?»
«Sì.» Guardo verso l’ascensore, dove le guardie del nuovo turno sono appena arrivate. Alzo una
mano per dire loro di rimanere dove sono. «Puoi chiedere.»
«Voglio sapere perché hanno portato via Eden. Il morbo. Lo so che per voi ricchi è facile, nuovi
vaccini ogni anno e medicine quando
servono. Ma non ti sei mai chiesta... non ti sei mai chiesta
APROLIBRO.COM
perché non scompare mai del tutto?
O perché si ripresenta con regolarità?» I miei occhi tornano su di lui.
«Cosa stai cercando di dire?» Day riesce a concentrare lo sguardo su di me. «Quello che sto
cercando di dire... ieri, quando mi hanno trascinato via dalla cella, ho visto quello zero rosso
stampato su una porta del Palazzo di Batalla. Ho visto dei numeri come quello a Lake. Perché erano
in un settore povero? Cosa combinano lì fuori, cosa stanno pompando in quei settori?» Stringo gli
occhi. «Pensi che la Repubblica stia avvelenando le persone di proposito? Day, sei su un terreno
pericoloso.» Lui però non si ferma e la sua voce assume un tono più urgente.
«Per questo volevano Eden, giusto?» sussurra. «Per osservare i risultati del loro virus mutato?
Perché sennò?»
«Per prevenire la diffusione di una nuova malattia.» Day ride, ma ancora una volta si mette a tossire.
«No. Lo stanno usando. Lo stanno usando.» La sua voce si affievolisce. «Lo stanno usando...» Le sue
palpebre si appesantiscono. Lo sforzo di parlare lo ha sfinito.
«Stai delirando» gli rispondo. E mentre il tocco di Thomas adesso mi disgusta, non provo alcuna
repulsione nei confronti di Day. So che dovrei, ma il sentimento proprio non arriva. «Una menzogna
come quella è tradimento alla Repubblica.
E poi, perché il Congresso dovrebbe autorizzare una cosa del genere?» Day non mi stacca gli occhi
di dosso e, proprio quando credo che abbia perso la forza di rispondere, la sua voce arriva più
insistente.
«Vedila così. Come fanno a sapere quale vaccino somministrare ogni anno? Funzionano sempre. Non
ti sembra strano che riescano a produrre vaccini che sconfiggono il nuovo morbo appena scoppiato?
Come fanno a prevedere quale vaccino servirà?» Mi appoggio sui talloni. Non mi sono mai
interrogata sulle vaccinazioni annuali che siamo tenuti a ricevere, non ho mai avuto nessun motivo
per dubitarne. E perché avrei dovuto? Mio padre lavorava dietro quelle stesse porte, sforzandosi di
trovare nuovi modi di combattere il morbo. No. Non posso più starmene qui ad ascoltare.
Raccolgo il mantello e me lo infilo sotto il braccio.
«Un’ultima cosa» sussurra Day mentre mi alzo. Abbasso gli occhi su di lui e il suo sguardo mi brucia
dentro. «Pensi che quando uno fallisce va a finire nei campi di lavoro? June, gli unici campi di
lavoro sono gli obitori nei sotterranei degli ospedali.» Non oso trattenermi oltre. Mi allontano dalla
piattaforma, mi allontano da Day. Però il cuore mi batte all’impazzata. Quando mi avvicino a loro, i
soldati in attesa accanto all’ascensore scattano ancora di più sull’attenti. Atteggio la faccia in
un’espressione di pura irritazione. «Slegatelo» ordino a uno dei soldati. «Portatelo giù in infermeria
e fategli sistemare quella gamba. Dategli acqua e cibo. In questo stato non supererà la notte.» Il
soldato mi saluta, ma io chiudo le porte dell’ascensore senza neanche degnarlo di un’occhiata.
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DAY
NUOVI INCUBI. STAVOLTA SU TESS.
Sto correndo per le strade di Lake. Da qualche parte davanti a me anche Tess sta correndo, ma non sa
dove sono. Si gira a destra e a sinistra cercando disperatamente la mia faccia, ma tutto ciò che
incontra sono estranei e poliziotti e soldati. La chiamo a gran voce e mi accorgo di riuscire a
muovere appena le gambe, come se stessi guadando una fanghiglia densa.
Tess! grido. Sono qui, dietro di te!
Non riesce a sentirmi. Continuo a guardarla senza poter fare niente finché non si scontra con un
soldato e, quando prova ad allontanarlo, quello l’afferra e la scaraventa a terra. Urlo qualcosa. Il
soldato solleva la pistola e gliela punta contro. Allora vedo che non si tratta di Tess, ma di mia
madre che giace in una pozza di sangue. Provo a correre da lei.
Invece resto nascosto su un tetto dietro a una canna fumaria, accovacciato come un codardo. È colpa
mia se è morta.
Poi d’un tratto mi ritrovo nel laboratorio dell’ospedale e sono circondato da dottori e infermiere.
Socchiudo gli occhi per la luce accecante. Il dolore mi attraversa la gamba. Mi stanno aprendo il
ginocchio un’altra volta, tirando indietro la pelle per scoprire le ossa e raschiarle con gli scalpelli.
Inarco la schiena e urlo. Una delle infermiere prova a immobilizzarmi.
Agitando il braccio rovescio una vaschetta da qualche parte.
«Fermo! Maledizione, ragazzo, non voglio farti del male.» Mi ci vuole un minuto per svegliarmi.
La scena sfocata dell’ospedale cambia e mi accorgo che sto fissando una luce altrettanto abbagliante
mentre un dottore mi osserva. Indossa
occhiali protettivi e una mascherina. Grido e provo ad alzarmi
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di scatto, ma due cinghie mi tengono legato a un tavolo operatorio.
Il dottore sospira e si abbassa la mascherina. «Ma tu guarda cosa mi tocca fare. Qui a medicare un
criminale come te invece di aiutare i soldati di ritorno dal fronte.» Mi guardo intorno confuso.
Soldati allineati lungo le pareti di questa stanza d’ospedale.
Un’infermiera sciacqua ferri insanguinati in un lavandino. «Dove sono?» Il dottore mi lancia
un’occhiata spazientita. «Nell’ala medica del Palazzo di Batalla. L’agente Iparis mi ha ordinato di
sistemarti la gamba. A quanto pare non ci è consentito lasciarti morire prima dell’esecuzione.»
Sollevo la testa più che posso e mi guardo la gamba. La ferita è coperta da bendaggi puliti. Quando
provo a muoverla un po’, noto con sorpresa che il dolore è molto diminuito. «Cosa mi ha fatto?»
chiedo al dottore.
Lui alza le spalle, poi si sfila i guanti e comincia a lavarsi le mani in uno dei lavandini.
«Ho accomodato un po’ la situazione.
Riuscirai a reggerti in piedi per essere fucilato.» Fa una pausa.
«Non so se è quello che volevi sentirti dire.» Crollo di nuovo sul tavolo operatorio e chiudo gli
occhi. Il dolore ridotto alla gamba è talmente un sollievo che cerco di assaporarlo, ma nella testa mi
aleggiano ancora frammenti dell’incubo, troppo fresco per poterlo ignorare.
Dov’è Tess adesso? Saprà cavarsela senza nessuno a guardarle le spalle? È miope. Chi l’aiuterà
quando la notte non riuscirà a distinguere le ombre?
Invece mia madre... in questo momento non sono abbastanza forte per pensare a lei.
Qualcuno bussa alla porta con forza. «Aprite» dice un uomo a voce alta. «Il comandante Jameson è
qui per vedere il prigioniero.» Il prigioniero. La cosa mi fa sorridere.
Ai soldati non piace neanche chiamarmi per nome.
Le guardie all’interno della stanza hanno a malapena il tempo di aprire la porta e scansarsi che il
comandante Jameson ha già fatto irruzione nella stanza, visibilmente infastidita.
Schiocca le dita.
«Toglietelo da lì e incatenatelo da qualche parte» abbaia. Poi mi punta un dito sul petto. «Tu. Tu sei
solo un ragazzino. Non sei mai andato a scuola, non hai nemmeno superato la Prova! Mi chiedo come
tu abbia mai fatto lì fuori ad avere la meglio sui soldati. Come fai a causare tanti problemi?» Scopre
i denti rabbiosa.
«Sapevo che saresti stato una seccatura più grande di ciò che vali.
Tieni occupati i miei soldati. Per non parlare dei soldati di molti altri comandanti.» Devo stringere i
denti per evitare di urlarle contro a mia volta. I soldati corrono da me e cominciano a slegare le
cinghie.
Accanto a me il dottore china il capo.
«Se non le spiace, comandante,» dice l’uomo «è successo qualcosa?» Il comandante Jameson fissa il
suo sguardo furioso sul dottore, che indietreggia. «Manifestanti davanti al Palazzo di Batalla»
risponde in tono brusco. «Stanno attaccando i poliziotti.» I soldati mi tirano via dal tavolo operatorio
e mi mettono in piedi.
Trasalgo quando il peso si trasferisce sulla gamba malridotta.
«Manifestanti?»
«Sì. Rivoltosi.» Il comandante Jameson mi afferra la faccia. «Sono dovuti intervenire i miei soldati
per dare una mano, il che significa che la mia tabella di marcia è completamente saltata. Uno dei miei
uomini migliori è già stato portato qui con lacerazioni al viso. I luridi teppisti come te non sanno
come vanno trattati i nostri ragazzi.» Mi lascia la faccia per voltarmi le spalle disgustata.
«Portatelo via» ordina ai soldati APROLIBRO.COM
che mi trattengono. «E alla svelta.» Usciamo dalla stanza
d’ospedale e nel corridoio ci sono soldati che corrono avanti e indietro.
Il comandante Jameson continua a tenere una mano premuta contro l’orecchio, intenta ad ascoltare e
poi a urlare ordini. Mentre vengo trascinato verso l’ascensore, noto diversi grossi monitor – che mi
fermo ad ammirare per un secondo perché a Lake non ne ho mai visti prima – su cui trasmettono
esattamente quello che il comandante ci ha appena detto.
Non riesco a sentire la voce del commentatore, ma le scritte che scorrono sono inequivocabili:
Disordini davanti al Palazzo di Batalla. Avviso a tutte le unità.
Attendere ulteriori ordini.
Capisco che non si tratta di una comunicazione pubblica. Il video mostra centinaia di persone nella
piazza di fronte al Palazzo Governativo. Si vede la fila di soldati in nero che tenta di contenere la
folla. Altri soldati corrono sui tetti e sui cornicioni e si posizionano in fretta imbracciando i fucili.
Passando davanti all’ultimo monitor, esamino attentamente i dimostranti, quelli accalcati sotto ai
lampioni.
Alcuni di loro si sono tinti una ciocca di capelli. Rosso sangue.
Poi arriviamo agli ascensori e i soldati mi spingono dentro. Stanno protestando a causa mia.
Il pensiero mi riempie di eccitazione e paura. L’esercito non lascerà mai correre una cosa come
questa.
Isoleranno i settori poveri e arresteranno fino all’ultimo rivoltoso.
Oppure li uccideranno tutti.
JUNE
OGNI TANTO, QUAND’ERO PICCOLA, Metias veniva inviato a sedare piccole ribellioni e
quando tornava mi raccontava ogni cosa. La storia era sempre la stessa: una decina di poveracci
arrabbiati per la quarantena o le tasse (di solito adolescenti, a volte più grandi) provocava disordini
in uno dei settori. Molte bombe di polvere dopo, venivano tutti arrestati e portati in tribunale.
Ma una rivolta come questa non l’avevo mai vista, con centinaia di persone pronte a rischiare la vita.
Non ho mai visto niente che gli andasse neppure vicino.
«Che gli prende a questa gente?» chiedo a Thomas. «Sono impazziti?» Siamo appostati sulla
piattaforma rialzata davanti al Palazzo di Batalla; la sua pattuglia fronteggia la folla sotto di noi
mentre un’altra squadra, agli ordini del comandante Jameson, la respinge con scudi e manganelli.
Prima ho dato un’occhiata di nascosto a Day mentre il dottore gli operava la gamba. Mi domando se
sia sveglio e stia vedendo questo caos sui monitor del corridoio.
Spero di no. Non c’è alcun bisogno che scopra che cosa ha scatenato.
Pensare a lui – e alle sue accuse contro la Repubblica che crea il morbo e ammazza i bambini che
non superano la Prova – mi riempie di rabbia. Estraggo la pistola dalla fondina. Meglio tenersi
pronti. «Mai visto niente di simile?» chiedo, cercando di mantenere un tono piatto.
Thomas scuote la testa. «Solo una volta. Molto tempo fa.» Alcune ciocche di capelli neri gli ricadono
sulla faccia.
Non sono perfettamente pettinati all’indietro come al solito, dev’essere già stato in mezzo alla folla.
Ha una mano sulla pistola attaccata alla cintura e l’altra sul fucile a tracolla. Non mi guarda. Non mi
ha guardato negli occhi da quando l’altra
sera ha provato a baciarmi. «Branco di idioti» continua.
APROLIBRO.COM
«Se non si ritirano subito, i comandanti li faranno pentire.» Alzo lo sguardo e vedo una schiera di
comandanti in piedi su uno dei balconi del palazzo. È troppo buio per esserne sicura, ma non mi
sembra che il comandante Jameson sia tra loro. So però che sta impartendo ordini al microfono,
perché Thomas ascolta attentamente, una mano premuta sull’orecchio. Qualunque cosa stia dicendo è
solo per Thomas e non ho idea di che si tratti. La folla sotto di noi continua a spingere. A giudicare
dai vestiti – maglie e pantaloni strappati, scarpe spaiate piene di buchi – provengono quasi tutti dai
settori poveri vicini al lago.
Dentro di me, desidero che si disperdano. Andate via prima che le cose peggiorino.
Thomas si piega verso di me e con la testa accenna verso la folla.
«Lo vede quel mucchio di miserabili?» Sì, l’avevo già notato, ma seguo comunque il suo sguardo per
non essere scortese. Un gruppo di dimostranti ha una striscia rossa tra i capelli, per imitare la ciocca
sporca di sangue che aveva Day quando gli è stata comunicata la sentenza. «Che pessima scelta per
un eroe» aggiunge Thomas. «Day sarà morto tra meno di una settimana.» Annuisco, ma non dico
niente.
Dalla folla si levano delle grida.
Una pattuglia ha aggirato la piazza e adesso i dimostranti vengono spinti verso il centro come in una
morsa. Aggrotto le sopracciglia. Non mi sembra che si stia seguendo il protocollo: non si dovrebbe
gestire così una banda di ribelli. A scuola ci hanno insegnato che bombe di polvere e gas lacrimogeni
sono più che sufficienti per placare gli animi.
Ma non vedo le une né gli altri e nessuno dei soldati indossa maschere antigas. In più un’altra
pattuglia ha cominciato a scacciare i vagabondi rimasti fuori dalla piazza, dove le strade sono troppo
strette e affollate per una manifestazione di protesta.
«Cosa ti sta dicendo il comandante Jameson?» chiedo a Thomas.
I capelli gli cadono davanti agli occhi, nascondendo la sua espressione. «Dice di tenersi pronti e
aspettare il suo comando.» Non facciamo niente per una buona mezz’ora. Tengo una mano in tasca,
lisciando distrattamente il ciondolo di Day. In un certo senso la folla mi ricorda lo skiz.
Scommetto che c’è anche parte della stessa gente.
È allora che vedo i soldati correre sopra agli edifici che circondano la piazza. Alcuni si affrettano
lungo i cornicioni, altri si allineano sui tetti.
Strano. Di solito i soldati hanno la nappa nera e una singola fila di bottoni argentati sulla giacca. Le
insegne sul braccio possono essere blu o rosse o argentate o dorate.
Questi soldati però non hanno bottoni sulle giacche. Hanno una fascia bianca che taglia il petto in
diagonale e insegne grigie sul braccio. Mi ci vuole un altro secondo per realizzare chi siano.
«Thomas.» Gli busso sulla spalla e indico i tetti.
«Plotone d’esecuzione.» Nessuna sorpresa sulla sua faccia, nessuna emozione negli occhi. Si
schiarisce la voce. «Lo vedo.»
«Cosa stanno facendo?» Il mio tono è più alto. Lancio uno sguardo ai dimostranti nella piazza, poi di
nuovo verso i tetti. Nessuno dei soldati è munito di bombe di polvere o gas lacrimogeno. In
compenso hanno tutti un fucile a tracolla.
«Non li stanno disperdendo, Thomas. Li stanno intrappolando.» Thomas mi scruta in modo severo.
«Rimanga in posizione, June. Presti attenzione alla folla.» Mentre tengo gli occhi fissi sulle cime dei
palazzi, noto il comandante Jameson uscire sul tetto del Palazzo di Batalla fiancheggiata dai suoi
soldati. Parla nel microfono.
Passano diversi secondi. Un terribile presentimento mi cresce nel petto, lo so come andrà a finire.
All’improvviso Thomas mormora qualcosa
nel microfono, la risposta a un comando.
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Gli lancio un’occhiata e lui incrocia il mio sguardo per un attimo, poi si rivolge al resto della
pattuglia in posizione sulla piattaforma insieme a noi.
«Fuoco a volontà!» grida.
«Thomas!» Vorrei aggiungere altro, ma in quell’istante iniziano a risuonare spari da ogni direzione.
Mi lancio in avanti. Non so cosa penso di fare – agitare le braccia davanti ai soldati? – ma Thomas
mi afferra per la spalla prima che possa fare un altro passo.
«June, indietro!»
«Di’ ai tuoi uomini di cessare il fuoco!» urlo, lottando per liberarmi dalla sua presa. «Di’...» A quel
punto Thomas mi scaraventa a terra con tale forza che sento la ferita al fianco riaprirsi.
«Dannazione, June! Indietro!» Il pavimento è inaspettatamente freddo.
Rimango stesa lì, disorientata, incapace di muovermi.
Non capisco bene che cosa sia appena successo. La pelle intorno alla ferita mi brucia. Sulla piazza
piovono proiettili. Le persone nella folla crollano come foglie spazzate via da un’inondazione.
Thomas, fermati. Ti prego. Vorrei alzarmi e gridarglielo in faccia, ferirlo in qualche modo. Metias ti
ucciderebbe per questo, se fosse vivo. Invece mi copro le orecchie.
Gli spari sono assordanti.
La sparatoria dura solo un minuto, al massimo, ma sembra eterna. Alla fine Thomas urla un cessate il
fuoco e quelli nella piazza che non sono stati colpiti si gettano in ginocchio, alzando le mani. I soldati
corrono verso di loro, li ammanettano dietro alla schiena e li riuniscono in gruppetti. Mi sforzo di
rialzarmi, nelle orecchie ancora mi rimbombano gli spari. Esamino la scena di sangue e corpi e
prigionieri. Ci sono novantasette, novantotto morti. No, almeno centoventi.
Altre centinaia in arresto. Non riesco neanche a concentrarmi abbastanza per contarli.
Thomas lancia un’occhiata nella mia direzione prima di scendere dalla piattaforma.
La sua espressione è seria, forse anche colpevole, ma un sentimento opprimente mi dice che si sente
in colpa soltanto per avermi gettato a terra. Non per il massacro che si sta lasciando alle spalle. Si
dirige verso il Palazzo di Batalla insieme ad altri soldati. Io mi volto per non doverlo guardare.
APROLIBRO.COM
DAY
SALIAMO PER MOLTI PIANI finché non sento le catene dell’ascensore che si fermano stridendo.
Due soldati mi trascinano fuori, riconosco il corridoio. Mi riportano alla mia cella, credo, almeno
per adesso. Per la prima volta da quando mi sono svegliato sul tavolo operatorio, mi accorgo di
essere esausto e lascio che la testa si accasci sul petto. Il dottore deve avermi iniettato qualcosa per
impedirmi di agitarmi durante l’operazione. Tutto ciò che mi circonda ha i contorni sfocati, come se
stessi correndo veloce.
Poi i soldati si fermano di colpo a metà del corridoio, ancora a una buona distanza dalla mia cella.
Siamo davanti a una delle stanze che ho notato prima, quelle con le finestre di vetro. Camere per gli
interrogatori. E così vogliono altre informazioni prima di giustiziarmi.
Un’interferenza, poi una voce esce dall’auricolare di uno dei soldati.
Il soldato annuisce.
«Portiamolo dentro» dice all’altro.
«Il capitano arriverà tra poco.» Resto in piedi nella stanza, ad aspettare mentre i minuti passano.
Guardie con facce impassibili sorvegliano la porta e altre due mi tengono per le braccia incatenate.
So che questa stanza dovrebbe essere più o meno insonorizzata... ma giuro di sentire un’eco di spari
e l’eco di grida lontane. Il cuore mi batte forte. Le truppe devono aver aperto il fuoco sulla folla nella
piazza. Stanno morendo per colpa mia?
Passa altro tempo. Aspetto. Le palpebre si fanno pesanti. Desidero solo rannicchiarmi in un angolo e
dormire.
Finalmente sento un rumore di passi.APROLIBRO.COM
La porta si apre per rivelare un giovane uomo vestito di nero,
con i capelli scuri che gli cadono davanti agli occhi. Sulle spalle ha i gradi argentati da ufficiale. Gli
altri soldati battono simultaneamente i tacchi.
L’uomo li manda fuori con un cenno della mano. Ora lo riconosco.
È il capitano che ha sparato a mia madre. June lo aveva nominato.
Thomas. Deve averlo mandato il comandante Jameson.
«Signor Wing» esordisce. Mi si avvicina e incrocia le braccia. «Che piacere conoscerla
formalmente.
Iniziavo a pensare che non ne avrei mai avuto occasione.» Mi impongo di rimanere zitto.
Sembra a disagio a stare nella stessa stanza in cui ci sono io e la sua espressione dice che mi odia
davvero.
«Il mio comandante vuole che le faccia qualche domanda di routine prima della sua esecuzione.
Cercheremo di mantenere un tono cordiale, anche se è chiaro che siamo partiti con il piede
sbagliato.» Non posso fare a meno di soffocare una risata. «Non mi dire.
Lo pensi veramente?» Thomas non risponde, ma lo vedo deglutire a fatica, sforzandosi di non
reagire. Infila una mano nel mantello e tira fuori un piccolo telecomando grigio. Lo punta verso la
parete spoglia della stanza.
Compare una proiezione.
Un rapporto della polizia, con le foto di qualcuno che non riconosco.
«Le farò vedere una serie di fotografie, signor Wing» continua.
«Le persone che vedrà sono sospettate di complicità con i Patrioti.» I Patrioti hanno tentato invano di
reclutarmi.
Messaggi criptici scarabocchiati sui muri dei vicoli in cui dormivo.
Una prostituta all’angolo di una strada che mi passa un biglietto. Una piccola busta di soldi con una
proposta.
Dopo che ho ignorato le loro offerte per un po’, hanno smesso di cercarmi. «Non ho mai lavorato con
i Patrioti» rispondo brusco.
«Semmai decidessi di uccidere, lo farei alle mie condizioni.»
«È libero di negare qualsiasi affiliazione con loro, ma può darsi che ne abbia incontrato qualcuno per
caso. E magari le piacerebbe aiutarci a trovarli.»
«Oh, certo. Tu hai ucciso mia madre. Come puoi immaginare, muoio dalla voglia di aiutarti.» Thomas
riesce a ignorarmi di nuovo. Dà un’occhiata alla prima foto proiettata sulla parete.
«Conosce questa persona?» Scuoto la testa. «Mai vista.» Thomas preme un tasto sul telecomando e
compare un’altra foto. «Che mi dice di questa?»
«No.» Un’altra foto. «E questa?»
«No.» Sulla parete appare l’ennesima foto di un’estranea. «Ha mai visto questa ragazza?»
«Mai vista in vita mia.» Altre foto di sconosciuti. Thomas le scorre tutte senza battere ciglio o
mettere in dubbio le mie risposte.
Che stupido pupazzo dello stato. Lo osservo mentre continuiamo e vorrei non essere in catene per
poterlo picchiare a sangue.
Altre foto. Altre facce estranee.
Thomas non mette in discussione neanche una delle mie risposte stringate. In effetti sembra che non
veda l’ora di andarsene dalla stanza, lontano da me il più possibile.
Poi appare la foto di una persona che riconosco. L’immagine sfocata mostra una ragazza con i capelli
lunghi, più lunghi del caschetto che ricordo. Ancora nessun tatuaggio rampicante. A quanto pare
Kaede è una Patriota.
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Non lascio che la mia faccia tradisca il fatto che l’ho riconosciuta. «Senti» dico. «Se conoscessi
qualcuna di queste persone, credi veramente che te lo direi?» Thomas si sta sforzando con tutto se
stesso di mantenere la sua compostezza. «Può bastare così, signor Wing.»
«Oh, andiamo, no che non basta.
Lo so che daresti qualsiasi cosa per colpirmi. Perciò fallo. Ti sfido.» Nei suoi occhi si accende una
vampa di rabbia, ma ancora si controlla. «I miei ordini erano di farle una serie di domande» dice
trattenendosi. «È tutto. Abbiamo finito.»
«Perché? Hai paura di me? Sei abbastanza coraggioso solo per sparare alle madri delle persone?»
Thomas strizza gli occhi, poi alza le spalle. «Una poveraccia in meno di cui preoccuparsi.» Serro i
pugni e gli sputo dritto in faccia.
Questo sembra stroncare i suoi buoni propositi. Mi colpisce duro alla mascella con il pugno sinistro
e la mia testa si gira di scatto. Mi esplodono macchie davanti agli occhi.
«Credi di essere una star, vero?» dice Thomas. «Solo perché hai messo a segno qualche bravata e hai
giocato a fare l’assistente sociale con la feccia come te? Be’, lascia che ti sveli un segreto. Anche io
vengo da un settore povero. Ma ho seguito le regole e mi sono fatto strada, guadagnandomi il rispetto
del mio paese. Quelli come voi non fanno che starsene seduti a lamentarsi e incolpare lo stato per le
loro sfortune. Ammasso di luridi parassiti.» Mi colpisce di nuovo. La testa dondola all’indietro e
sento il sapore del sangue in bocca. Il corpo mi trema dal dolore. Poi mi afferra per il collo e mi tira
a sé. Le catene sferragliano. «La signorina Iparis mi ha detto cosa le hai fatto in strada.
Come hai osato importi su qualcuno del suo rango?» Ah. Ecco cosa lo infastidisce veramente,
immagino che abbia scoperto del bacio. Non posso fare a meno di sfoderare un ghigno, anche se la
faccia mi fa male da morire. «Oooh. È questo che ti tormenta? Ho visto come la guardi.
La desideri tanto, eh? Anche lei è qualcosa verso cui cerchi di farti strada? Mi dispiace far scoppiare
la tua bolla di sapone, ma non ho dovuto impormi.» Il suo viso diventa paonazzo.
«Attende con ansia la tua esecuzione, te lo posso garantire.» Gli rido in faccia. «Non sai perdere, eh?
Aspetta, voglio consolarti.
Ti racconto com’è andata. Sentirne parlare è quasi come averla baciata, no?» Thomas mi afferra per
il collo. Le sue mani stanno tremando. «Se fossi in te starei molto attento, ragazzino» sibila. «Forse ti
sei dimenticato che hai ancora due fratelli. Entrambi in mano alla Repubblica. Cuciti la lingua, a
meno che non vuoi vederli sdraiati accanto al cadavere di tua madre.» Mi colpisce ancora, poi mi
pianta un ginocchio nello stomaco.
Boccheggio. Immagino Eden e John e mi sforzo di calmarmi, di ignorare il dolore. Sii forte. Non
dargliela vinta.
Thomas mi colpisce altre due volte. Adesso ha il fiatone. Abbassa le braccia con grande sforzo ed
espira. «È tutto, signor Wing» dice con voce calma. «Ci rivedremo il giorno dell’esecuzione.» Non
riesco a parlare per il dolore, ma almeno cerco di tenere gli occhi fissi su di lui. Ha una strana
espressione, come se fosse arrabbiato o scontento. Forse gli brucia il fatto che l’abbia costretto a
calare la sua maschera di uomo rispettoso della legge.
Si volta e lascia la stanza senza aggiungere altro.
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JUNE
QUELLA SERA THOMAS RESTA MEZZ’ORA IN PIEDI fuori dalla mia porta, provando una
decina di scuse diverse. Gli dispiace davvero. Non voleva che mi facessi male. Non voleva che
discutessi gli ordini del comandante Jameson. Non voleva che finissi nei guai. Stava solo cercando di
proteggermi.
Sono seduta sul divano insieme a Ollie, a fissare il vuoto. Non riesco a togliermi dalla testa il rumore
degli spari. Thomas è sempre stato disciplinato.
Oggi non ha fatto eccezione. Non ha esitato, neanche per un secondo, a ubbidire al nostro
comandante.
Ha compiuto lo sterminio come se stesse preparando un rastrellamento di routine o un turno di
guardia in una base aerea. È peggio che abbia eseguito gli ordini così ciecamente o che neanche si
renda conto che è per quello che vorrei chiedesse scusa?
«June, mi sta ascoltando?» Mi concentro sul grattare Ollie dietro le orecchie. I vecchi diari di Metias
sono ancora sparpagliati sul tavolino da caffè insieme agli album di foto dei nostri genitori. «Stai
perdendo tempo» gli rispondo da dentro casa.
«La prego, mi faccia entrare.
Voglio vederla.»
«Ci vediamo domani.»
«Non resto molto, promesso. Mi dispiace davvero.»
«Thomas, ci vediamo domani.»
«June...» Alzo la voce. «Ho detto cheAPROLIBRO.COM
ci vediamo domani.» Silenzio.
Aspetto un altro minuto, cercando di distrarmi carezzando Ollie. Dopo un po’ mi alzo e sbircio dallo
spioncino. Il corridoio è vuoto.
Quando sono finalmente convinta che se ne sia andato, resto stesa sul divano per un’altra ora. La mia
mente corre dagli eventi nella piazza all’apparizione di Day sul tetto e alle sue sconvolgenti
affermazioni sul morbo e la Prova, per poi tornare a Thomas. Il Thomas che obbedisce agli ordini del
comandante Jameson senza fare domande è un Thomas diverso da quello che si preoccupava per la
mia incolumità quand’ero in missione, a Lake. È sempre stato strano ma gentile, specialmente nei
miei confronti. O magari sono io a essere cambiata.
Quando ho rintracciato la famiglia di Day e ho visto Thomas sparare a sua madre, quando oggi ho
assistito alla fucilazione della folla... entrambe le volte sono rimasta a guardare senza muovere un
dito. Significa che sono come lui? Stiamo facendo la cosa giusta seguendo gli ordini che ci vengono
dati? È sicuro che la Repubblica sappia cosa sia più giusto?
Per quanto riguarda ciò che mi ha detto Day, al solo pensiero divento matta. Mio padre ha lavorato in
quei laboratori e Metias ha prestato servizio sotto Chian come ispettore durante le Prove.
Perché dovremmo avvelenare e uccidere la nostra gente?
Sospiro, mi metto a sedere e prendo uno dei diari di Metias.
Ci sono pagine su un’estenuante settimana passata a ripulire tutto dopo il passaggio dell’uragano Elia
su Los Angeles. Altre raccontano la prima settimana nella pattuglia del comandante Jameson. In una
terza annotazione breve, lunga solo un paragrafo, Metias si lamenta per aver prestato servizio di notte
per due turni di fila. Sorrido. Ricordo ancora le sue parole. Riesco a stento a tenere gli occhi aperti,
mi aveva detto dopo il primo turno.
Pensa davvero che possiamo fare la guardia a qualcosa dopo essere rimasti svegli tutta la notte? Oggi
ero così sfatto che il Cancelliere delle Colonie in persona sarebbe potuto entrare nel Palazzo di
Batalla e non me ne sarei accorto.
Sento una lacrima scorrermi sulla guancia e subito la asciugo. Ollie piagnucola accanto a me.
Allungo il braccio e lascio che la mano affondi nel pelo folto intorno al collo, mentre lui mi appoggia
la testa sulle gambe con un mugolio.
Metias si agitava per queste piccole cose.
Man mano che leggo, gli occhi si fanno pesanti. Le parole iniziano a mescolarsi tra loro sulla pagina
finché riesco a stento a comprendere il senso di ogni annotazione. Alla fine metto da parte il diario e
sprofondo nel sonno.
Day mi appare in sogno. Tiene la mia mano nella sua e il cuore mi batte forte. I capelli gli cascano
sulle spalle come un drappo di seta, con una ciocca rossa di sangue e gli occhi sofferenti. «Non ho
ucciso io tuo fratello.» Mi tira a sé. «Te lo giuro, non avrei mai potuto.» Quando mi sveglio rimango
stesa immobile per un momento e lascio che le parole di Day mi scorrano nella testa. Gli occhi
vagano verso il computer sulla scrivania. Come si è svolta quella notte fatale? Se Day ha colpito la
spalla, allora come ha fatto il coltello a finire nel petto di mio fratello?
Questo pensiero fugace mi stringe il cuore. Guardo Ollie.
«Chi avrebbe voluto fare del male a Metias?» gli chiedo. Ollie ricambia il mio sguardo con occhi
tristi. «E perché?» Diversi minuti dopo mi sollevo a fatica dal divano, mi trascino fino alla scrivania
e accendo il computer.
Torno sul rapporto del delitto al Central Hospital. Quattro pagine di testo, una di fotografie. È a
queste che decido di dare un’occhiata più accurata. Dopotutto il comandante Jameson mi ha dato solo
pochi minuti per studiare il corpo di Metias e io ho usato male il tempo a mia disposizione, ma come
avrei potuto concentrarmi? Non ho mai
dubitato che l’assassino fosse Day.
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Non ho esaminato le foto a fondo come avrei dovuto.
Adesso clicco due volte sulle prime immagini e le ingrandisco a tutto schermo. La vista mi dà il
capogiro. La faccia gelida e senza vita di Metias è rivolta al cielo e i capelli sono aperti come un
piccolo ventaglio intorno alla testa. Ha la camicia macchiata di sangue.
Respiro a fondo, chiudo gli occhi e dico a me stessa di concentrarmi, questa volta. Sono sempre
riuscita a leggere fino in fondo il testo della relazione, ma non ho mai trovato la forza di studiare le
foto. Adesso devo. Riapro gli occhi e mi concentro sul corpo di mio fratello.
Vorrei aver esaminato meglio le ferite quando ne avevo la possibilità di farlo da vicino.
Prima mi assicuro che il coltello nelle foto sia effettivamente conficcato nel petto. Il manico è
insanguinato. La lama non si vede.
Poi osservo la spalla di Metias.
Anche se è coperta dalla manica, noto che la stoffa è macchiata di sangue, tanto sangue. Non può
essere uscito tutto dal torace, deve esserci un’altra ferita. Ingrandisco ancora la foto. No, troppo
sfocata.
Anche se nella manica ci fosse lo squarcio di un coltello, da questa angolazione non riuscirei a
vederlo.
Chiudo l’immagine e clicco su un’altra.
È allora che mi accorgo di una cosa. Tutte le fotografie sono state scattate dalla stessa angolazione.
Riesco a stento a distinguere i particolari della spalla e perfino del coltello. Aggrotto la fronte.
Pessimi scatti della scena del crimine.
Perché non ci sono primi piani delle ferite? Scorro la relazione ancora una volta, alla ricerca di
pagine che potrei aver saltato, ma non c’è altro. Torno indietro e cerco di trovare una spiegazione.
Forse le altre immagini sono top secret. E se il comandante Jameson le avesse tolte di proposito per
risparmiarmi la sofferenza? Scuoto la testa. No, è stupido. Allora non avrebbe allegato nessuna foto
alla relazione. Fisso lo schermo, poi oso immaginare l’alternativa.
E se invece il comandante Jameson le avesse tolte per tenermi nascosto qualcosa?
No, non può essere. Mi appoggio allo schienale e guardo di nuovo la prima foto. Perché il
comandante Jameson dovrebbe tenermi nascosti i particolari della morte di mio fratello? Lei ama i
suoi soldati. Era indignata per la morte di Metias, ha persino organizzato il funerale. Lo voleva nella
sua pattuglia. È stata lei a promuoverlo capitano.
Però dubito che al fotografo sulla scena del crimine sia stato chiesto di andare talmente di fretta da
fare un lavoro così scadente.
Ragiono sulla faccenda da tutti i punti di vista, ma torno sempre alla stessa conclusione. La relazione
è incompleta. Mi passo una mano tra i capelli per la frustrazione. Non capisco.
D’un tratto osservo da vicino il coltello nella foto. È sgranato ed è quasi impossibile mettere a fuoco
il particolare, ma qualcosa riaccende un ricordo che mi fa torcere le budella. Il sangue sul manico è
scuro, ma poi noto delle altre macchie, qualcosa di più scuro del sangue. All’inizio penso che sia una
specie di decorazione incisa sul coltello, ma i segni sono sopra al sangue. Sembrano neri, compatti e
irregolari.
Provo a ricordare l’aspetto del coltello la notte che ho potuto vederlo di persona.
Questi segni neri assomigliano a del grasso per fucili. Quasi come la striscia di grasso che Thomas
aveva sulla fronte quando lo incontrai quella notte.
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DAY
QUANDO JUNE TORNA A FARMI VISITA la mattina seguente, anche lei sembra sconvolta – anche
se solo per un secondo – dal mio aspetto, accasciato come sono contro il muro della cella. Inclino la
testa verso di lei. Ha un attimo di esitazione, ma subito riacquista il controllo.
«Presumo che tu abbia fatto arrabbiare qualcuno» mi dice, prima di schioccare le dita verso i soldati.
«Tutti fuori. Voglio scambiare due parole in privato con il prigioniero.» Con un cenno della testa
indica le telecamere di sicurezza posizionate in ogni angolo. «E spegnete quelle.» Il soldato di
guardia saluta.
«Sissignora.» Mentre altri militari corrono a spegnere le telecamere, vedo June estrarre due coltelli
dalla sua cintura. Devo aver fatto arrabbiare anche lei. Una risata mi sale dalla gola e si trasforma in
un attacco di tosse. Be’, immagino che sia arrivato il momento di mettere fine a tutta questa storia.
Quando i soldati escono dalla stanza e la porta si chiude alle sue spalle, June avanza e si accovaccia
davanti a me. Mi preparo a sentire la lama fredda sulla pelle.
«Day.» Non si è mossa. Ripone i coltelli al loro posto e tira fuori una borraccia. Solo una messa in
scena per i soldati, credo. Mi schizza del liquido sul viso e io mi ritraggo, ma poi apro la bocca e
cerco di berne un po’. L’acqua non è mai stata così buona.
June me ne spruzza altra direttamente in bocca prima di mettere via la borraccia. «Hai una faccia
terribile.» Nella sua espressione c’è preoccupazione, ma non solo. «Chi ti ha ridotto così?»
«Sei gentile a chiederlo.» Sono sorpreso che gliene importi qualcosa. «Puoi ringraziare il tuo amico
capitano.»
«Thomas?»
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«Proprio lui. Non credo che sia molto felice del fatto che a me è toccato un bacio e a lui no. Così mi
ha fatto domande sui Patrioti. A quanto pare Kaede è una di loro.
Piccolo il mondo, eh?» Il volto di June si accende di rabbia. «A me non ha detto niente.
Ieri sera... be’, riferirò l’accaduto al comandante Jameson.»
«Grazie.» Sbatto le palpebre per togliermi l’acqua dagli occhi. «Mi chiedevo quando saresti venuta.»
Ho un secondo di esitazione. «Sei riuscita a sapere qualcosa di Tess?
Sai se è viva?» June abbassa lo sguardo.
«Scusa» risponde. «Non ho modo di sapere dove sia. Dovrebbe essere al sicuro, almeno finché
rimane nascosta. Non ho parlato di lei con nessuno. Il suo nome non compare tra gli arresti recenti...
o i decessi.» Sono frustrato per la mancanza di notizie, ma allo stesso tempo sollevato. «I miei
fratelli come stanno?» June stringe le labbra. «Non ho accesso alle informazioni che riguardano
Eden, anche se sono sicura che sia ancora vivo. John se la sta cavando bene, date le circostanze.»
Quando alza di nuovo lo sguardo, nei suoi occhi vedo tristezza e smarrimento.
«Mi dispiace che ieri hai dovuto vedertela con Thomas.»
«Grazie, almeno credo» bisbiglio.
«C’è qualche ragione particolare per cui oggi sei più gentile del solito?» Non mi aspetto che June
prenda seriamente questa domanda, invece lo fa. Mi fissa e si siede davanti a me con le gambe
incrociate. Oggi sembra diversa.
Sottomessa, quasi, perfino triste.
Dubbiosa. Ha un’espressione che non ho mai visto finora, neanche quando l’ho incontrata per le
strade la prima volta. «Qualcosa che non va?» le chiedo.
Rimane a lungo in silenzio, con gli occhi bassi. Alla fine, mi guarda.
Sta cercando qualcosa, capisco. Sta forse cercando un modo per fidarsi di me? «Ieri notte ho studiato
di nuovo la relazione sulla scena del crimine di mio fratello.» La sua voce cala in un sussurro, tanto
che devo chinarmi in avanti per sentirla.
«E?» dico io.
Gli occhi di June cercano i miei.
Esita ancora. «Day, puoi dire, in tutta onestà... di non aver ucciso Metias?» Deve aver trovato
qualcosa.
Vuole una confessione. La notte all’ospedale mi balena nella mente: il mio travestimento, Metias che
mi osserva mentre entro nell’ospedale, il giovane dottore che prendo in ostaggio, i proiettili che
rimbalzano sui frigoriferi. La lunga caduta al suolo. Poi il confronto con Metias, il modo in cui gli ho
scagliato contro il coltello. Ho visto che lo colpiva alla spalla, così lontano dal petto che non posso
averlo ucciso. Sostengo lo sguardo di June.
«Non ho ucciso io tuo fratello.» Allungo il braccio per prenderle la mano e sussulto per il dolore.
«Non so chi sia stato e mi dispiace di averlo ferito, ma dovevo salvare la mia vita. Vorrei aver avuto
più tempo per trovare un altro modo.» June annuisce in silenzio.
L’espressione sulla sua faccia è così straziante che per un attimo vorrei poterla abbracciare. Ha
bisogno dell’abbraccio di qualcuno. «Mi manca tanto» sussurra. «Pensavo che sarebbe stato con me
per molto tempo, sai, che avrei potuto sempre contare su di lui. Era tutta la mia famiglia. E ora non
c’è più e vorrei tanto sapere perché.» Scuote lentamente la testa, come sconfitta, poi lascia che i suoi
occhi incontrino di nuovo i miei. La tristezza la rende ancora più bella, come neve che ricopre un
paesaggio spoglio.
«Invece non lo so. È questa la parte peggiore, Day. Non so perché sia morto. Perché qualcuno
avrebbe voluto ucciderlo?» Le sue parole
assomigliano così tanto ai pensieri che ho su mia madre da
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togliermi il respiro. Non sapevo che June avesse perso i suoi genitori, anche se avrei dovuto
immaginarlo dal modo in cui si comporta. Non è stata June a sparare a mia madre. Non è stata lei a
portare il morbo in casa mia. È una ragazza che ha perso il fratello e qualcuno l’ha spinta a credere
che fossi stato io, e mi ha dato la caccia pazza di dolore. Se fossi stato al suo posto, mi sarei
comportato diversamente?
Adesso sta piangendo.
Le sorrido, poi mi raddrizzo e allungo la mano verso il suo volto. Le catene ai polsi sferragliano. Le
asciugo le lacrime sotto a un occhio. Nessuno di noi dice niente.
Non ce n’è bisogno. Sta pensando che... se ho ragione su suo fratello, su cos’altro potrei avere
ragione?
Dopo un attimo mi prende la mano e se la appoggia sulla guancia. Il suo tocco mi fa scorrere dentro
un... calore. È così bella. Ho una gran voglia di stringerla a me e premere le mie labbra sulle sue e
spazzare via la tristezza dal suo sguardo.
Vorrei poter tornare indietro a quella notte nel vicolo anche solo per un istante.
Sono io il primo a parlare. «Tu e io potremmo avere lo stesso nemico, ma ci hanno messi l’uno
contro l’altra.» June prende un respiro profondo.
«Ancora non ne sono sicura» dice, anche se dal suo tono capisco che è d’accordo con me. «È
pericoloso per noi parlare in questo modo.» Guarda da un’altra parte, allunga una mano nel mantello
e tira fuori qualcosa che credevo di aver perso nell’ospedale.
«Tieni.
Voglio restituirti questo. Non mi serve più.» Vorrei strapparglielo di mano, ma le catene mi
trattengono. Nel suo palmo c’è il mio ciondolo, con i suoi rilievi smussati, sporchi e graffiati, ma
ancora più o meno intatto.
«Ce l’avevi tu...» bisbiglio. «L’hai trovato nell’ospedale quella notte, giusto?
È così che mi hai riconosciuto alla fine, devo essermi portato una mano al collo per abitudine.» June
annuisce in silenzio, poi mi prende la mano e lascia cadere il ciondolo nel mio palmo. Lo guardo con
stupore.
Mio padre. Non riesco a tenere lontano il suo ricordo adesso che sto fissando di nuovo il ciondolo.
Ripenso al giorno in cui tornò a farci visita dopo sei mesi senza neanche una parola. Quando fu al
sicuro dentro casa e dopo aver tirato le tende, strinse mamma in un abbraccio e la baciò a lungo. Le
teneva una mano sul ventre in maniera protettiva. John aspettò pazientemente con le mani in tasca il
suo turno per salutarlo. Io ero ancora abbastanza piccolo per avvinghiarmi alla sua gamba. Eden non
era ancora nato, cresceva nella pancia della mamma.
Come stanno i miei ometti? disse mio padre quando finalmente lasciò andare mia madre. Mi diede un
buffetto sulla guancia e sorrise a John.
John gli sorrise a trentadue denti. Era riuscito a farsi crescere abbastanza i capelli per legarli.
Teneva in mano un certificato.
Guarda! gli disse. Ho passato la Prova!
Ce l’hai fatta! Mio padre gli diede una pacca sulla schiena e gli strinse la mano come fosse un uomo.
Ricordo ancora il sollievo nei suoi occhi, la gioia nelle sue parole.
Allora ci preoccupavamo tutti che fosse John quello che non avrebbe superato la Prova,
considerando la sua difficoltà a leggere. Sono fiero di te, Johnny. Ben fatto.
Infine guardò me. Ricordo di aver studiato la sua faccia. Ufficialmente il lavoro di mio padre era
quello di ripulire dopo il passaggio dei soldati al fronte, ovviamente, ma c’erano sempre degli indizi
che suggerivano che non fosse la sua
unica occupazione. Indizi come le storie che ogni tanto ci
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raccontava sulle Colonie e le loro città sfavillanti, la loro tecnologia avanzata e le loro festività.
Quella volta volevo chiedergli perché era sempre via anche dopo che il turno al fronte era terminato,
e perché mentre era via non veniva mai a trovarci.
Ma fui distratto da qualcos’altro.
Papà, hai qualcosa nella tasca della giacca, gli dissi. Una protuberanza rotonda premeva contro la
stoffa, si vedeva chiaramente.
Lui ridacchiò e tirò fuori l’oggetto. Eccolo qui, Daniel. Alzò lo sguardo su mia madre. È proprio
sveglio, eh?
Mamma mi sorrise.
Mio padre invece esitò un momento prima di portarci tutti in camera da letto. Grace, guarda cosa ho
trovato.
Lei studiò l’oggetto da vicino.
Che cos’è?
Un’altra prova. All’inizio mio padre cercò di farlo vedere solo a nostra madre, ma mentre se lo
rigirava tra le mani riuscii a dargli una bella occhiata. Un uccello su un lato, il profilo di un uomo
sull’altro.
STATI UNITI D’AMERICA, NOI CONFIDIAMO IN DIO, UN QUARTO DI DOLLARO inciso da
una parte e LIBERTÀ e 1990 dall’altra. Vedi?
Prove. Lo premette nel palmo di mia madre.
Dove l’hai trovato? chiese lei.
Nelle paludi meridionali tra i due fronti. Una moneta autentica del 1990. Vedi il nome? Stati Uniti.
Esistevano veramente.
Gli occhi di mia madre brillarono per l’eccitazione, ma guardò comunque papà in modo severo. È un
oggetto pericoloso da possedere, disse sottovoce. Non possiamo tenerlo in casa.
Mio padre annuì. Però non possiamo neanche distruggerlo.
Dobbiamo proteggerlo. Per quel che ne sappiamo questa moneta potrebbe essere l’ultima del suo tipo
al mondo. Chiuse le dita di mia madre intorno alla moneta.
Costruirò una custodia di metallo in cui metterlo, qualcosa che nasconda entrambi i lati. La salderò,
in modo che la moneta resti dentro al sicuro.
E poi? Cosa ne faremo?
La nasconderemo da qualche parte. Mio padre fece una pausa, poi guardò sia John che me. Il posto
migliore è uno sotto gli occhi di tutti. Dallo a uno dei ragazzi, magari come ciondolo. La gente
penserà che è solo un ornamento.
Se i soldati lo trovassero nascosto sotto le assi del pavimento, magari durante una perquisizione,
saprebbero con certezza che è qualcosa d’importante.
Rimasi in silenzio. Anche a quell’età riuscivo a cogliere la preoccupazione di mio padre. Casa nostra
era già stata perquisita dai soldati, proprio come ogni altra casa nella nostra strada. Se papà avesse
nascosto la moneta da qualche parte, di sicuro l’avrebbero trovata.
Nostro padre andò via presto la mattina seguente, prima ancora del sorgere del sole. Dopo quella
volta l’avremmo rivisto solo in un’altra occasione. Poi non tornò mai più.
Questo ricordo mi attraversa la mente in un istante. Alzo lo sguardo su June.
«Grazie per averlo ritrovato.» Mi chiedo se riesca a sentire la tristezza nella mia voce.
«Grazie per avermelo restituito.»
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JUNE
NON RIESCO A SMETTERE DI PENSARE A DAY.
Più tardi, nel pomeriggio, quando mi sdraio nel mio appartamento per un riposino, sogno Day. Sogno
che mi sta abbracciando e baciando, ancora e ancora, e le sue mani mi scivolano sulle braccia e tra i
capelli e intorno alla vita, il suo petto contro il mio, il suo respiro sulla guancia e sul collo e sulle
orecchie.
I suoi capelli lunghi mi sfiorano e mi sento annegare nella profondità dei suoi occhi. Quando mi
sveglio e mi ritrovo da sola, riesco a malapena a respirare.
Le sue parole mi scorrono nella testa finché non riesco neanche più a capirle. Qualcun altro ha ucciso
Metias. La Repubblica ha diffuso di proposito il morbo nei settori poveri. Ripenso a quando eravamo
sulle strade di Lake, a come mi ha protetto perché avevo bisogno di riposare. E a oggi, quando mi
asciugava le lacrime.
La rabbia che provavo per lui è sparita. E se avessi la prova che è stato qualcun altro a uccidere
Metias, per qualunque ragione, allora non avrei motivo di odiarlo affatto. Un tempo ero affascinata
dalla sua leggenda, da tutte le storie che avevo sentito prima di incontrarlo. Adesso sento quello
stesso incanto che ritorna.
Immagino la sua faccia, così bella anche dopo il dolore e la tortura e l’angoscia, i suoi occhi
luminosi e sinceri. Mi vergogno ad ammettere che mi è piaciuto quel po’ di tempo che ho trascorso
con lui, nella sua cella.
La sua voce riesce a farmi dimenticare tutti i dettagli che mi affollano la testa, portando con sé
emozioni legate al desiderio oppureAPROLIBRO.COM
alla paura, a volte anche alla rabbia, ma sempre suscitando in
me qualcosa. Qualcosa che prima non c’era.
ORE 19.12. SETTORE TANAGASHI.
25 °C.
«Ho sentito che questo pomeriggio ha avuto una conversazione privata con Day» mi dice Thomas,
seduti insieme in un caffè con una scodella di edame davanti. Il posto è lo stesso in cui venimmo
quando Metias era vivo.
La scelta del locale da parte di Thomas non allevia certo i miei pensieri. Non riesco a dimenticare il
grasso per fucili spalmato sul manico del coltello che ha ucciso mio fratello.
Può darsi che mi stia mettendo alla prova. Magari conosce i miei sospetti.
Addento un pezzo di maiale così non devo rispondergli. Meno male che sediamo a una certa distanza.
Thomas si è dato molto da fare per convincermi a “perdonarlo”, a lasciare che mi portasse fuori a
cena. Ma non sono affatto sicura che non esista un’altra ragione per il suo invito. Farmi uscire allo
scoperto? Spingermi a dire qualcosa per sbaglio? Riferire il mio rifiuto al comandante Jameson? Non
servono molte prove per avviare un’indagine contro qualcuno. Magari l’intera serata è solo una
trappola.
D’altro canto, forse sta davvero cercando di farsi perdonare.
Non so cosa pensare. Perciò procedo con cautela.
Thomas mi osserva mentre mangio. «Cosa gli ha detto?» Nella sua voce sento la gelosia, mentre le
mie parole escono calme e distaccate. «Non preoccuparti, Thomas.» Per distrarlo, allungo una mano
e gli tocco il braccio. «Se un ragazzo avesse ucciso qualcuno che ami, non cercheresti di capire
perché l’ha fatto? Pensavo che senza le guardie intorno avrebbe parlato. Ma ormai ci ho rinunciato.
Sarò più felice dopo che sarà morto.» Thomas si rilassa un po’, ma continua a studiare la mia faccia.
«Forse dovrebbe smettere di vederlo» suggerisce dopo un’altra lunga pausa. «Non mi sembra che le
sia d’aiuto. Posso chiedere al comandante Jameson di mandare qualcun altro a occuparsi di lui. Non
sopporto l’idea che lei debba portare da bere all’assassino di suo fratello.» Annuisco e prendo un
altro boccone di edame. Rimanere zitta adesso darebbe nell’occhio. Se stessi cenando con
l’assassino di mio fratello? Logica. Prudenza e logica. Con la coda dell’occhio sbircio le mani di
Thomas. Se fossero le mani che hanno pugnalato Metias, dritto al cuore?
«Hai ragione» dico. Faccio in modo di sembrare riconoscente, premurosa. «Finora non gli ho cavato
niente di utile. Comunque presto sarà morto.» Thomas alza le spalle. «Sono contento che lei la pensi
così.» Lascia cadere cinquanta banconote sul tavolo mentre la cameriera si avvicina. «Day è solo un
criminale nel braccio della morte. Le sue parole non dovrebbero avere peso per una ragazza del suo
rango.» Mando giù un altro boccone prima di rispondere. «Non ne hanno, infatti» dico. «Per quel che
mi riguarda è come parlare con un cane.» Se Day sta dicendo la verità, le sue parole avranno peso
eccome, penso invece tra me.
Molto dopo che Thomas mi ha scortato fino al mio appartamento e se n’è andato, e dopo che la
mezzanotte è passata da un pezzo, sono seduta al computer e sto studiando il rapporto sull’omicidio
di Metias. A questo punto ho visto le foto così tante volte che riesco a non girare la faccia, ma mi
lasciano comunque una sensazione nauseante allo stomaco. Ogni immagine è scattata da
un’angolazione che non inquadra direttamente le ferite. Più fisso le macchie nere sul manico, più mi
convinco che si tratti di grasso.
Quando non ne posso più di guardare le foto, torno sul divano e riprendo a sfogliare i diari di Metias.
Se mio fratello avesse avuto altri nemici, di certo ci sarebbe qualche indizio in quello che ha scritto.
Però non era uno stupido. Non avrebbe mai messo nero su bianco qualcosa che potesse essere usata
come prova. Leggo pagine e pagine delle
sue vecchie annotazioni, tutte incentrate su questioni banali,
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irrilevanti. Ogni tanto parla di noi.
Queste ho qualche problema a leggerle.
Una nota parla della notte della sua cerimonia d’insediamento nella squadra del comandante
Jameson, quando ero ammalata. Un’altra risale a quando abbiamo festeggiato insieme il mio
punteggio di 1500 alla Prova.
Ordinammo gelato e due polli interi e a un certo punto della serata sperimentai un panino combinando
i due ingredienti, forse non l’idea più brillante che abbia mai avuto.
Riesco ancora a sentire le nostre risate, l’aroma fragrante di pollo arrosto e pane caldo.
Mi premo i pugni sugli occhi chiusi e prendo un respiro profondo.
«Che sto facendo?» sussurro a Ollie, che solleva la testa dal divano al suono della mia voce. «Sto
facendo amicizia con un criminale e allontanando persone che conosco da sempre.» Ollie mi rivolge
quello sguardo pieno della saggezza universale tipica dei cani prima di tornare a dormire. Rimango a
fissarlo per un po’. Non molto tempo fa, Metias avrebbe sonnecchiato lì accanto a lui con un braccio
sulla sua schiena.
Mi chiedo se anche Ollie se lo stia immaginando.
Mi ci vuole un attimo per accorgermi di un dettaglio. Apro gli occhi e do un’altra occhiata all’ultima
pagina che ho letto del diario di Metias. Credo di aver visto qualcosa... Stringo gli occhi verso il
fondo della pagina.
Una parola con l’ortografia sbagliata. «Strano...» dico a voce alta. La parola è squadra, scritta senza
la q. Scuadra. Per quel che ne so, Metias non ha mai fatto errori di ortografia. La studio per un altro
secondo, scuoto la testa e decido di passare oltre. Tengo a mente la pagina.
Dieci minuti dopo, ne trovo un’altra. Stavolta la parola è elevazione, ma Metias ha scritto
elevasione.
Due parole sbagliate. Mio fratello non l’avrebbe mai fatto inconsapevolmente.
Mi guardo intorno, come se nella stanza possa esserci una telecamera di sorveglianza. Quindi mi
piego verso il tavolino da caffè e inizio a setacciare tutte le pagine dei diari di Metias.
Memorizzo le parole sbagliate.
Non c’è motivo di trascriverle su un foglio e rischiare che qualcun altro le legga.
Trovo una terza parola: conformista, scritta comformista.
Poi una quarta: aeroporto, scritta aereoporto.
Mi inizia a battere forte il cuore.
Quando finisco di sfogliare tutti e dodici i diari di Metias, ho incontrato ventisei errori di ortografia.
Tutti nei diari degli ultimi mesi.
Mi appoggio allo schienale del divano e chiudo gli occhi per visualizzare le lettere nella mia testa.
Tutte quelle parole sbagliate non possono che essere un messaggio indirizzato a me, la persona che
con tutta probabilità avrebbe letto i suoi diari. Un codice segreto. Dev’essere per questo che ha tirato
fuori tutte le scatole dall’armadio quel pomeriggio... potrebbe essere questa la cosa importante di cui
voleva parlarmi.
Mescolo tra loro le parole cercando di formare una frase di senso compiuto, ma siccome non ottengo
niente provo a invertire le lettere per vedere se ogni parola possa essere l’anagramma di un’altra.
No, niente.
Mi massaggio le tempie. Poi provo qualcosa di diverso. E se Metias avesse voluto che unissi le
lettere che mancano da ciascuna parola o che non dovrebbero esserci affatto? Stilo con calma un
elenco delle lettere a mente, iniziando dalla c di scuadra.
C I W M O P N I S W U G T U N R APROLIBRO.COM
B UWJ OMUC OE
Aggrotto la fronte. Non ha alcun senso. Mescolo le lettere nella testa più volte, cercando di ottenere
diverse combinazioni. Quand’ero piccola giocavamo con le parole.
Metias gettava sul tavolo un mucchietto di cubi di legno con le lettere dell’alfabeto e poi mi chiedeva
quali nomi riuscissi a formare. Adesso sto cercando di fare lo stesso gioco.
Mi ci vogliono vari tentativi prima di incappare in una combinazione che mi fa sbarrare gli occhi.
JUNBRUCO. È così che mi chiamava Metias. Deglutisco a fatica e cerco di restare calma.
Allineo le lettere che rimangono e provo a formare altre parole. Mi vengono in mente svariate
combinazioni, finché una in particolare non mi fa fermare.
SEGUIMI JUNBRUCO.
Dopodiché le uniche lettere che rimangono sono tre W e C M O P N U O T. Il che lascia una sola
opzione logica.
WWW SEGUIMI JUNBRUCO PUNTO COM
Un sito web. Faccio scorrere le lettere nella mia testa molte altre volte per assicurarmi che la mia
ipotesi sia corretta. Poi lancio un’occhiata al computer.
Come prima cosa inserisco il codice di Metias che mi permette di accedere a internet. Poi lancio il
programma d’interfaccia e i firewall come mi ha insegnato mio fratello (in rete ci sono occhi
dappertutto).
Quindi disabilito la cronologia del browser e digito l’URL con dita tremanti.
Si apre una pagina bianca. Sulla parte alta dello schermo compare una singola linea di testo.
Porgimi la tua mano e io ti darò la mia.
So esattamente cosa vuole che faccia Metias.
Senza esitare, allungo una mano e la premo contro il monitor.
All’inizio non succede niente. Poi sento un clic, vedo una luce debole scannerizzare la mia pelle e la
pagina bianca scompare. Al suo posto compare quello che sembra un blog. Trattengo il fiato in gola.
Ci sono sei post brevi. Mi piego in avanti sulla sedia e inizio a leggere.
Quello che vedo mi fa girare la testa dall’orrore.
12 luglio Per June: Strettamente confidenziale.
June, puoi cancellare facilmente ogni traccia di questo blog in qualsiasi momento premendo la mano
destra sullo schermo e digitando: Ctrl+Shift+F+F. Non ho un altro posto per scrivere quello che devo
dirti, perciò lo faccio qui. Per te.
Ieri era il tuo quindicesimo compleanno. Vorrei che tu fossi più grande, però, perché non trovo la
forza per dire a una ragazza di quindici anni cosa ho scoperto, specialmente quando dovresti solo
festeggiare.
Oggi ho trovato una foto scattata da nostro padre. Era l’ultima in ordine di tempo del loro ultimo
album e non l’ho mai notata prima perché papà l’aveva nascosta dietro a una più grande. Lo sai che
mi piace sfogliare le loro foto, leggere i commenti scritti a lato, mi sembra come se riescano ancora a
parlarmi. Ma stavolta mi sono accorto che l’ultima foto era stranamente spessa. Ho armeggiato un po’
e da dietro è caduta la foto segreta.
Papà l’aveva scattata nel suo posto di lavoro. Il laboratorio del Palazzo di Batalla. Lui non ci
parlava mai di quello che faceva, però aveva scattato questa foto. Era sfocata e troppo scura, ma
sono riuscito a distinguere la sagoma di un uomo su una barella, con lo stemma rosso del rischio
biologico impresso sul camice, che implorava per la sua vita.
Vuoi sapere papà cosa aveva scritto sul margine?
Dimissioni, 6 aprile.
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Nostro padre aveva cercato di rassegnare le dimissioni il giorno prima che lui e la mamma morissero
in un incidente d’auto.
15 settembre Cerco indizi da settimane. Ancora niente. Chi immaginava che introdursi nel database
del registro dei decessi fosse così difficile?
Però non intendo mollare. C’è qualcosa di poco chiaro dietro la morte dei nostri genitori e voglio
scoprire di che si tratta.
17 novembre Oggi mi hai chiesto come mai ero così assente. June, se stai leggendo, forse ti ricordi il
giorno di cui sto parlando e adesso saprai il perché.
Dall’ultima volta che ho aggiornato questo blog non ho smesso di cercare indizi. Negli ultimi mesi ho
provato a fare qualche domanda discreta agli altri dipendenti del laboratorio, ai vecchi amici di papà
e a fare ricerche online.
Be’, oggi ho scoperto qualcosa.
Sono finalmente riuscito ad accedere al registro dei decessi della città di Los Angeles. La cosa più
complicata che abbia mai fatto. La stavo affrontando nel modo sbagliato.
C’è un buco nei loro sistemi di sicurezza che non avevo notato prima perché l’avevano nascosto
dietro una serie di... lasciamo stare, alla fine sono entrato. E con mia grande sorpresa ho trovato una
relazione sull’incidente dei nostri genitori.
Solo che non è stato affatto un incidente. June, non riuscirò mai a dirti di persona quello che sto per
rivelarti, perciò spero con tutto me stesso che lo leggerai qui.
La relazione è stata presentata dal comandante Baccarin, un’altra vecchia recluta di Chian (te lo
ricordi Chian, no?). Nel documento c’è scritto che il dottor Michael Iparis ha insospettito i dirigenti
del laboratorio del Palazzo di Batalla quando ha cominciato a fare domande sul vero scopo delle sue
ricerche. Il suo lavoro è sempre stato quello di studiare i virus che provocano il morbo, ovviamente,
ma deve aver scoperto qualcosa che lo ha sconvolto al punto da chiedere un cambio di incarico. Te
lo ricordi, June? È successo poche settimane prima dell’incidente.
Il resto della relazione non accennava al morbo, ma mi ha detto quello che avevo bisogno di sapere.
June, i dirigenti del laboratorio hanno ordinato al comandante Baccarin di tenere d’occhio nostro
padre. Quando papà ha cercato di farsi licenziare, Baccarin ha capito che doveva aver scoperto la
natura delle sue ricerche.
Come puoi immaginare, la notizia non è stata accolta bene. A Baccarin fu ordinato di “trovare un
modo di sistemare l’intera faccenda”. La relazione si chiude dicendo che il problema è stato risolto,
senza perdite tra i militari.
Porta la data del giorno dopo l’incidente.
Li hanno uccisi loro.
18 novembre Hanno tappato il buco nel loro server. Dovrò trovare un altro modo per aggirarlo.
22 novembre È venuto fuori che il registro dei decessi tra i civili contiene più informazioni sul
morbo di quanto pensassi. Ovviamente avrei dovuto saperlo, viste le centinaia di persone che il
morbo uccide ogni anno. Ho sempre creduto che le epidemie fossero spontanee. Invece non lo sono.
June, devi saperlo. Non so quando troverai questi post, ma so che prima o poi li leggerai.
Ascoltami attentamente: quando avrai finito di leggerli, non farmi capire che ne conosci il contenuto.
Non voglio che tu faccia qualcosa di impulsivo.
Capito?
Pensa prima alla tua incolumità. Puoi trovare un modo per aiutare, so che puoi farlo. Se qualcuno
può, quella sei tu. Ma, per il mio bene, non fare niente che possa attirare l’attenzione su di te. Se la
Repubblica dovesse punirti per aver APROLIBRO.COM
reagito a delle verità che ti ho rivelato io, mi ucciderei.
Se vuoi ribellarti, ribellati dall’interno del sistema.
È molto più efficace che farlo dall’esterno. E se decidi di ribellarti, portami con te.
Papà ha scoperto che la Repubblica diffonde le epidemie annuali.
Si propagano nei posti più ovvi.
Quei terrazzamenti pieni di animali al pascolo: la maggior parte della carne che mangiamo non
proviene da lì, lo sapevi? Avrei dovuto immaginarlo. La Repubblica ha migliaia di allevamenti di
bestiame sotterranei. A decine di metri di profondità. All’inizio il Congresso non sapeva come
affrontare gli strani virus che continuavano a manifestarsi laggiù e a uccidere intere mandrie. Una
bella rogna, eh? Ma poi ci si è ricordati della guerra contro le Colonie e così, ogni volta che negli
allevamenti compare un nuovo virus interessante, gli scienziati ne prelevano dei campioni e li
modificano per ottenere un virus capace di infettare l’uomo.
Poi sviluppano un vaccino equivalente e una cura e inoculano vaccinazioni obbligatorie a tutti, a
eccezione di alcuni settori poveri. Corre voce che a Lake, Alta e Winter si stia diffondendo un nuovo
ceppo.
Immettono quel virus nei settori designati attraverso un sistema di condutture sotterranee. A volte
nelle riserve idriche, altre direttamente all’interno di alcune abitazioni specifiche per vedere come si
diffonde. È così che un nuovo ciclo del morbo inizia. Quando pensano di aver raccolto abbastanza
dati sugli effetti di quel particolare virus, iniettano la cura a tutti gli abitanti di quel settore (a quelli
ancora in vita, s’intende) durante un rastrellamento di routine e il morbo si placa fino al test
successivo. Compiono anche degli esperimenti individuali del morbo su alcuni dei bambini che non
superano la Prova. Non vanno nei campi di lavoro, June.
Nessuno di loro.
Muoiono tutti.
Capisci dove voglio arrivare? Usano il morbo per selezionare la popolazione eliminando i geni
deboli, nello stesso modo in cui scelgono gli individui più forti attraverso le Prove.
Ma stanno anche creando dei virus da usare contro le Colonie. Sono anni che impiegano armi
biologiche contro di loro. Non m’importa niente di quello che accadrà alle Colonie o di cosa
esattamente la Repubblica intenda fare con loro ma, June, la nostra stessa gente è usata come cavia da
laboratorio. Papà ha lavorato in quei laboratori e quando ha cercato di andarsene l’hanno ucciso. E
con lui mamma.
Hanno pensato che avrebbero raccontato tutto. Chi vuole una rivolta popolare? Di certo non il
Congresso.
June, se qualcuno non si fa avanti, moriremo tutti così. Uno di questi giorni un virus sfuggirà al
controllo e nessun vaccino o cura riuscirà a fermarlo.
26 novembre Thomas sa tutto. Conosce i miei sospetti, cioè che il Governo abbia assassinato i nostri
genitori.
Continuo a chiedermi come abbia fatto a sapere che mi sono inserito senza autorizzazione nel registro
dei decessi tra i civili e l’unica spiegazione che trovo è che ho lasciato una traccia. I tecnici che
hanno tappato la falla nel sistema di sicurezza l’avranno trovata e devono avergliela riferita. Perciò
oggi mi ha avvicinato e mi ha chiesto spiegazioni.
Gli ho detto che ero ancora addolorato per la morte dei nostri genitori e forse ero diventato
paranoico. Gli ho detto di non aver trovato niente e che preferivo tu restassi all’oscuro di tutto. Lui
mi ha promesso che avrebbe mantenuto il segreto e credo di potermi fidare. È un po’ snervante
sapere che qualcuno sia al corrente anche solo di una minima parte dei miei sospetti. Sai com’è
Thomas a volte.
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Ho deciso. Entro la fine della settimana dirò al comandante Jameson che intendo chiedere un
trasferimento. Non voglio più stare nella sua pattuglia. Mi lamenterò dei turni e del fatto che non ti
vedo abbastanza. Qualcosa del genere.
Aggiornerò il blog quando verrò riassegnato.
Seguo le istruzioni di Metias e cancello i suoi post fino all’ultima traccia.
Poi mi raggomitolo sul divano e dormo finché non chiama Thomas.
Premo un pulsante sul telefono e la voce dell’assassino di mio fratello riempie il salotto. Thomas, il
soldato che eseguirebbe con piacere qualsiasi ordine del comandante Jameson, anche se fosse di
uccidere un amico d’infanzia. Lo stesso soldato che ha usato Day come un conveniente capro
espiatorio.
«June?» dice. «Sta bene? Sono quasi le dieci e zero zero e non si è fatta ancora vedere. Il
comandante Jameson vuole sapere che fine ha fatto.»
«Non mi sento bene» riesco a rispondere. «Ho bisogno di dormire ancora un po’.»
«Oh.» Una pausa. «Che sintomi ha?»
«Niente di grave. Sono solo disidratata e febbricitante. Ieri sera al caffè credo di aver mangiato
qualcosa che mi ha fatto male. Di’ al comandante Jameson che dovrei stare meglio nel pomeriggio.»
«Va bene. Mi dispiace che non si senta bene. Si riguardi.» Un’altra pausa. «Se stasera sta ancora
male compilerò un rapporto e invierò una pattuglia anti-morbo a controllarla.
Sa, è il protocollo. E se vuole che venga lì, non ha che da chiamare.» Sei l’ultima persona che voglio
vedere. «Ti faccio sapere. Grazie.» Riaggancio.
Mi fa male la testa. Troppi ricordi, troppe rivelazioni. Non mi stupisco che il comandante Jameson
abbia fatto rimuovere il corpo di Metias così in fretta. Sono stata così stupida da pensare che il suo
fosse un gesto di solidarietà.
Non mi stupisco neanche che abbia organizzato il funerale. Anche la mia prima missione, volta a
rintracciare Day, dev’essere stata un diversivo per tenermi occupata mentre facevano sparire ogni
prova.
Ripenso alla sera in cui Metias decise di rassegnare le dimissioni da assistente di Chian e di
rinunciare a far parte dei suoi scagnozzi addetti al controllo delle Prove. Era venuto a prendermi a
scuola e sembrava silenzioso e riservato.
Stai bene? ricordo di avergli chiesto.
Lui non rispose. Si limitò a prendermi per mano e a dirigersi verso la stazione. Andiamo, June, mi
disse. Torniamo a casa.
Gli guardai i guanti e notai che erano punteggiati da tante macchioline di sangue.
Metias non toccò la cena, né mi chiese com’era andata la giornata (cosa che mi infastidì finché non
mi resi conto di quanto fosse turbato).
Alla fine, poco prima di andare a letto, mi accostai a lui sul divano e mi accoccolai sotto al suo
braccio.
Lui mi baciò la fronte.
Ti voglio bene, gli sussurrai, sperando che mi confidasse le sue preoccupazioni.
Si voltò a guardarmi. I suoi occhi erano così tristi.
June, disse, credo che domani farò richiesta per un nuovo mentore.
Non ti piace Chian?
Metias rimase in silenzio per un po’. Poi abbassò lo sguardo come se si vergognasse. Oggi allo
stadio ho sparato a qualcuno.
Ecco cosa lo tormentava. Rimasi in silenzio
e lo lasciai continuare.
APROLIBRO.COM
Metias si passò una mano tra i capelli. Ho sparato a una ragazzina.
Aveva fallito la Prova e stava cercando di scappare. Chian mi ha gridato di spararle... e io ho
obbedito.
All’epoca non lo sapevo, ma adesso mi rendo conto che Metias si sentiva come se avesse sparato a
me.
Mi dispiace, sussurrai.
Metias fissò lo sguardo nel vuoto.
Pochissime persone uccidono per le ragioni giuste, June, aggiunse dopo un lungo silenzio. La maggior
parte lo fa per quelle sbagliate. Spero soltanto che tu non debba mai trovarti in nessuna delle due
categorie.
Il ricordo sfuma e mi ritrovo ad aggrapparmi allo spettro delle sue parole.
Nelle ore che seguono rimango immobile. Quando fuori parte il giuramento alla Repubblica, sento la
gente per strada che canta in coro, ma io neppure mi alzo. Non faccio il saluto quando viene nominato
l’Elector Primo. Ollie siede accanto a me e mi fissa, lagnandosi di tanto in tanto. Anch’io lo guardo.
Sto pensando, calcolando. Devo fare qualcosa. Penso a Metias, ai miei genitori, poi alla madre di
Day e ai suoi fratelli. In un modo o nell’altro, il morbo ci ha stretti tutti tra i suoi artigli. Il morbo ha
ucciso i miei genitori. Il morbo ha infettato il fratello di Day. Ha assassinato Metias per aver
scoperto la verità sull’intera faccenda. Mi ha portato via le persone che amo. E dietro al morbo non
c’è altro che la Repubblica. La nazione di cui una volta andavo fiera. La stessa nazione che conduce
esperimenti sui bambini e li uccide se non superano la Prova. Campi di lavoro... siamo stati tutti
ingannati.
Che la Repubblica abbia ucciso anche i parenti dei miei compagni di università, tutte le persone
morte in combattimento o in incidenti o di malattia? Cos’altro ci tengono nascosto?
Mi alzo, cammino fino al computer e prendo un bicchiere d’acqua. Lo fisso senza alcuna espressione.
In un certo senso, l’immagine disarticolata delle mie dita oltre il vetro mi fa trasalire. Mi ricorda le
mani insanguinate di Day, il corpo infranto di Metias. Questo bicchiere antico è un regalo,
presumibilmente importato dalle isole della Repubblica del Sud America.
Vale duemilacentocinquanta banconote.
Con i soldi spesi per questo bicchiere che uso per bere della semplice acqua, qualcuno avrebbe
potuto comprarsi una cura per il morbo.
Magari la Repubblica neanche le possiede quelle isole.
Magari niente di quello che mi hanno insegnato è vero.
Colta da un improvviso accesso d’ira, sollevo il bicchiere e lo scaravento contro il muro. Si
frantuma in mille pezzi scintillanti.
Rimango lì immobile, tremante.
Se Metias e Day si fossero incontrati altrove, non nel vicolo sul retro dell’ospedale, sarebbero
diventati alleati?
Il sole cambia posizione. Arriva il pomeriggio. Ancora non mi muovo da dove sto.
Alla fine, quando il tramonto inonda l’appartamento di arancione e oro, esco dalla mia trance.
Raccolgo i lucenti frammenti di vetro. Indosso l’uniforme completa.
Mi assicuro di avere i capelli tirati indietro in modo impeccabile, che la mia faccia sia pulita e
calma e priva di emozioni. Nello specchio, sembro la stessa di sempre. Dentro però sono una
persona diversa. Sono un prodigio che conosce la verità e so esattamente cosa farò.
Aiuterò Day a scappare.
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DAY
STANOTTE PROVO A SCAPPARE DI PRIGIONE. SUCCEDE COSÌ.
Quando cala la sera del terz’ultimo giorno della mia vita, sento altre grida e un pandemonio che
proviene dai monitor fuori dalla mia cella. Le pattuglie anti-morbo hanno completamente sigillato i
settori Lake e Alta. Il rumore degli spari, che aumenta e diminuisce in modo costante, mi dice che gli
abitanti dei due settori si stanno opponendo alle truppe. Solo una delle due fazioni ha il vantaggio
delle armi.
Non è difficile immaginare chi stia vincendo.
I miei pensieri si rivolgono a June. Scuoto la testa, sorpreso da quanto mi sia lasciato andare con lei.
Mi chiedo cosa stia facendo in questo momento, a cosa stia pensando. Forse pensa a me. Vorrei che
fosse qui. Quando c’è lei mi sento sempre meglio. È come se riuscisse a condividere tutti i miei
pensieri e mi aiutasse a incanalarli, e il suo splendido viso mi è sempre di conforto.
La sua faccia potrebbe anche darmi coraggio. Senza Tess, o John, o mia madre, ho avuto problemi a
farmi coraggio.
Non ho fatto altro che pensarci, tutto il giorno. Se trovo un modo per uscire dalla cella e
impadronirmi delle armi e della divisa di un soldato, ho una possibilità di combattere per scappare
di qui. A questo punto ho visto l’esterno dell’edificio molte volte. I lati non sono lisci come quelli
del Central Hospital e, se riuscissi a trovare una via d’uscita da una finestra, potrei correre lungo una
delle sporgenze che girano intorno al palazzo, anche con la mia gamba ferita.
I soldati non sarebbero in grado di seguirmi.
Dovrebbero spararmi da terra o dall’alto,
ma quando trovo appigli sono veloce e sopporto bene il
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dolore alle mani. Dovrò escogitare un sistema per portare fuori anche John. Probabilmente Eden non
si trova più nel Palazzo di Batalla, ma ricordo chiaramente cosa mi disse June il primo giorno della
mia cattura. Il prigioniero nella 6822.
Dev’essere John... e lo troverò.
Prima però devo pensare a come uscire da questa cella.
Esamino i soldati allineati lungo la parete e accanto alla porta. Sono in quattro. Ognuno di loro
indossa l’uniforme standard: anfibi neri, camicia nera con una fila singola di bottoni argentati,
pantaloni grigio scuro, giubbotto antiproiettile e una fascia argentata al braccio. Hanno tutti un fucile
e una pistola nella fondina. La mia mente inizia a lavorare. In una stanza come questa, con quattro
pareti di acciaio su cui i proiettili potrebbero rimbalzare, probabilmente i fucili sono caricati con
qualcosa di diverso dai soliti proiettili. Gomma, può darsi, per stordirmi in caso di necessità. Magari
tranquillanti. Ma niente che possa uccidere me o loro. Sempre che non venga sparato da una distanza
molto ravvicinata.
Mi schiarisco la gola. I soldati si voltano. Aspetto qualche altro secondo, poi emetto un suono
strozzato e mi piego in avanti.
Scuoto la testa come per schiarirmi i pensieri, quindi mi appoggio alla parete e chiudo gli occhi.
Adesso i soldati sono in allerta.
Uno di loro mi punta contro il fucile.
Rimangono zitti.
Mando avanti la recita per qualche altro minuto, fingendo di soffocare ancora due volte mentre i
soldati continuano a osservarmi.
Poi, senza preavviso, faccio credere di avere i conati di vomito e mi abbandono a un attacco di tosse.
I soldati si guardano tra loro. Per la prima volta vedo nei loro occhi un barlume di incertezza.
«Cos’hai?» mi dice in tono brusco uno di loro, quello con il fucile alzato. Io non gli rispondo. Fingo
di essere concentrato a trattenere un altro attacco.
Un altro soldato mi lancia un’occhiata. «Potrebbe essere il morbo.»
«Sciocchezze. I dottori l’hanno già controllato.» Il soldato scuote la testa. «È stato a contatto con i
fratelli. Quello più piccolo è il Paziente Zero, no?
Magari i medici non se ne sono accorti, quando l’hanno visitato.» Paziente Zero.
Lo sapevo.
Soffoco di nuovo, cercando di girarmi dall’altra parte per far credere alle guardie che non voglio la
loro attenzione. Simulo un conato e sputo a terra.
Le guardie esitano. Alla fine quella con il fucile alzato fa un cenno con la testa a quella che gli sta
accanto. «Be’, non me ne starò qui dentro se si tratta davvero di un morbo mutato.
Chiama una squadra, digli che c’è il rischio di un contagio. Facciamolo trasferire in una cella
dell’ala medica.» L’altro soldato annuisce e bussa insistentemente sulla porta. Sento che la aprono da
fuori. Un soldato dal corridoio lo fa uscire e subito richiude la porta a chiave.
Il primo soldato cammina verso di me. «Voi, tenetegli i fucili puntati addosso» dice da sopra la
spalla. Mi offre un paio di manette. Fingo di non essermi accorto che si è avvicinato, troppo preso
dai conati e dalla tosse. «Alzati.» Mi afferra per un braccio e mi tira su senza troppi complimenti.
Grugnisco dal dolore.
La guardia allunga il braccio e mi libera una mano dalla catena, poi fa scattare le manette intorno al
polso. Non oppongo resistenza.
Quindi mi libera la seconda mano e si prepara ad ammanettarla.
Mi giro di scatto e per una frazione diAPROLIBRO.COM
secondo sono libero.
Prima che il soldato possa reagire, volteggio rapidamente, gli strappo la pistola dalla fondina e gliela
punto contro. Le altre due guardie mi tengono sotto tiro, ma non sparano. Non possono farlo senza
colpire prima il loro compagno.
«Di’ ai tuoi ragazzi là fuori di aprire la porta» ordino al soldato che ho preso in ostaggio.
Lui deglutisce a fatica. Gli altri non osano nemmeno battere le palpebre. «Aprite la porta!» grida.
Nel corridoio si sente un trambusto, seguito dagli scatti della serratura.
Il primo soldato digrigna i denti.
«Ce ne sono a decine lì fuori» sbotta. «Non ce la farai mai.» Gli rispondo facendogli l’occhiolino.
Appena la porta si apre di uno spiraglio, lo afferro per la camicia e lo sbatto contro al muro. Uno
degli altri prova a spararmi, ma mi abbasso a terra e rotolo sul pavimento.
Gli spari mi rimbombano intorno. Dal suono sembrano proiettili di gomma.
Termino la capriola giusto in tempo per sgambettare un soldato e atterrarlo di schiena. Perfino questo
mi fa digrignare i denti dal dolore.
Al diavolo questa gamba malconcia.
Mi getto nell’apertura prima che possano richiuderla.
Memorizzo tutti i particolari del corridoio in un batter d’occhio. Il passaggio è bloccato dai soldati.
Controsoffitto a pannelli. In fondo piega ad angolo retto. Le pareti dicono Quarto Piano. Il soldato
che ha aperto la porta ha iniziato a reagire, porta la mano alla pistola come al rallentatore. Salto in
piedi, mi do la spinta contro una parete e afferro la cornice superiore della porta. La gamba ferita mi
sbilancia completamente, per poco non ricado sul pavimento. Risuonano altri spari. Mi dondolo
verso il soffitto e mi aggrappo al reticolo di metallo che sostiene i pannelli.
Stanza 6822 – sesto piano. Dondolo in giù, sferrando un calcio in testa a un soldato con la gamba
buona. Va al tappeto e io rotolo insieme a lui.
Sento due proiettili di gomma che lo colpiscono alla spalla. Il soldato grida. Mi tengo basso e mi
lancio giù per il corridoio, schivando guardie e pistole, sfuggendo alle mani che si allungano per
afferrarmi.
Devo raggiungere John. Se riesco ad arrivare da lui, possiamo aiutarci a vicenda a scappare. Se
riesco a...
Qualcosa di pesante mi colpisce dritto in faccia. Vedo tutto nero. Mi sforzo di rimanere concentrato,
ma sento che sto precipitando. Provo a rimettermi in piedi, ma qualcuno mi atterra di nuovo e un
dolore acuto mi fa contorcere la schiena. Un soldato deve avermi colpito con il calcio del fucile.
Delle mani mi tengono braccia e gambe inchiodate al pavimento. Il respiro mi esce in un rantolo.
Succede tutto così in fretta che riesco a malapena a rendermene conto. Mi gira la testa. Sto per
svenire.
Una voce familiare risuona sopra di me. È il comandante Jameson.
«Che diavolo succede?!» continua a gridare ai suoi uomini. Riacquisto gradatamente la vista. Mi
accorgo che sto ancora cercando di divincolarmi dalla stretta del soldato.
Una mano mi afferra il mento.
All’improvviso, sto guardando il comandante Jameson dritta negli occhi. «Un tentativo ridicolo» mi
dice. Lancia un’occhiata a Thomas, che le fa il saluto militare.
«Thomas. Riportalo in cella. E, per una volta, metti delle guardie più sveglie a sorvegliarlo.» Mi
lascia il mento e si strofina le mani guantate. «Voglio che quelle di turno adesso siano congedate e
sbattute fuori dalla mia pattuglia.»
«Sissignora.» Thomas saluta di nuovo, poi prende ad abbaiare ordini. La mano libera mi viene stretta
nelle manette che penzolano ancoraAPROLIBRO.COM
dall’altro polso. Con la coda dell’occhio vedo un secondo
ufficiale vestito di nero, in piedi accanto a Thomas. June. Il cuore mi schizza in gola. Lei mi guarda
con gli occhi stretti. Nella sua mano vedo il fucile che ha usato per colpirmi.
Mi trascinano scalciante e urlante nella mia cella. June resta in disparte senza far niente, mentre i
soldati mi incatenano di nuovo al muro.
Poi, quando quelli indietreggiano, si piega in avanti avvicinando la sua faccia alla mia.
«Ti consiglio vivamente di non provarci di nuovo» mi dice in modo brusco.
Nei suoi occhi c’è solo collera.
Vedo il comandante Jameson vicino alla porta che sorride.
June si piega verso di me un’altra volta e mi sussurra all’orecchio.
«Non provarci di nuovo» ripete «perché non ce la farai mai da solo.
Ti serve il mio aiuto.» Di tutte le cose che mi sarei aspettato uscissero dalla sua bocca, questa non è
di sicuro una di quelle.
Cerco di mantenere la stessa espressione, ma il cuore si ferma per un secondo. Aiuto? June vuole
aiutarmi? Parliamo della stessa ragazza che mi ha appena tramortito nel corridoio. Che stia cercando
di attirarmi in una trappola? Oppure dice sul serio?
June si allontana da me nell’istante in cui pronuncia l’ultima parola. Fingo di arrabbiarmi, come se
mi avesse appena sussurrato un insulto. Il comandante Jameson solleva il mento. «Ben fatto, agente
Iparis.» June risponde con un breve saluto. «Segui Thomas nell’atrio e aspettatemi lì.» June e il
capitano vanno via.
Rimango da solo con il comandante Jameson e una nuova rotazione di soldati sull’attenti ai lati della
porta.
«Signor Wing» mi dice dopo un po’. «Un numero impressionante, quello di stanotte. È davvero così
agile come sosteneva l’agente Iparis. Detesto vedere delle doti naturali simili sprecate in un
criminale, ma la vita a volte è ingiusta, non trova?» Mi sorride.
«Povero ragazzo. Credeva davvero di poter scappare da una roccaforte dell’esercito, vero?» Il
comandante Jameson cammina verso di me, si piega e appoggia un gomito sul ginocchio. «Lasci che
le racconti una storiella» continua.
«Alcuni anni fa abbiamo catturato un giovane disertore che aveva molto in comune con lei. Audace e
sfacciato, stupidamente ardito, altrettanto impudente. Anche lui provò a scappare prima della data
della sua esecuzione. Vuole sapere cosa gli capitò, signor Wing?» Allunga una mano, me la posa
sulla fronte e mi spinge la testa indietro fino a premerla contro la parete.
«Quel ragazzino è riuscito a raggiungere le scale prima che lo riacciuffassimo. Quando arrivò la data
della sua esecuzione, invece di metterlo davanti al plotone d’esecuzione, la corte mi accordò il
permesso di ucciderlo personalmente.» La sua mano stringe la presa sulla fronte. «Penso che avrebbe
preferito la fucilazione.»
«Un giorno morirai in un modo peggiore del suo» rispondo.
Il comandante Jameson si abbandona a una risata. «Irascibile fino alla fine, eh?» Mi lascia la testa e
mi solleva il mento con un dito.
«Sei proprio uno spasso, mio bel ragazzo.» Socchiudo gli occhi. Prima che possa fermarmi, mi libero
dalla sua presa e le affondo i denti nella mano. Lei urla. Mordo più forte che posso, finché non sento
il sapore del sangue. Il comandante Jameson mi sbatte contro al muro, il colpo mi stordisce. Si tiene
stretta la mano, esibendosi in una danza agonizzante mentre apro e chiudo le palpebre per cercare di
restare cosciente. Un paio di soldati provano ad aiutarla, ma lei li allontana stizzita.
«Aspetto con ansia la tua esecuzione, Day» mi ringhia contro, abbandonando il suo contegno. Le
sanguina la mano. «Conterò i minuti!»
aggiunge, allontanandosi alla svelta e sbattendosi alle spalle la
APROLIBRO.COM
porta della cella.
Chiudo gli occhi e nascondo la testa tra le braccia, così che nessuno possa vedere la mia faccia.
Sulla lingua sento ancora il sangue, il sapore metallico mi dà i brividi.
Finora non ho avuto il coraggio di pensare alla data della mia esecuzione. Cosa si prova a stare
davanti a un plotone d’esecuzione, senza via d’uscita? I miei pensieri vagano e poi si focalizzano su
quello che mi ha sussurrato June.
Non ce la farai mai da solo. Ti serve il mio aiuto.
Deve aver scoperto qualcosa: chi ha ucciso veramente suo fratello o qualche altra verità sulla
Repubblica. Adesso non ha motivo di ingannarmi... io non ho niente da perdere e lei niente da
guadagnare.
Aspetto di digerire questa consapevolezza.
Un agente della Repubblica mi aiuterà a scappare. Mi aiuterà a salvare i miei fratelli.
Forse sto perdendo la testa.
JUNE
ALLA DRAKE HO IMPARATO che il modo migliore per spostarsi di notte senza essere notati è
passare dai tetti. Da questa altezza sono praticamente invisibile, la gente in basso tiene l’attenzione
sulla strada e poi, da quassù, ho una visuale migliore del posto in cui sono diretta.
Sto tornando al confine tra Lake e Alta, dove sono rimasta coinvolta nell’incontro di skiz con Kaede.
Devo trovarla adesso, prima di dover rientrare al Palazzo di Batalla domani mattina ed esaminare
col comandante Jameson i dettagli del tentativo di fuga malriuscito di Day.
Kaede sarà la mia alleata.
Poco dopo mezzanotte mi vesto di nero dalla testa ai piedi. Scarponi neri da escursione. Un sottile
giubbotto nero da aviatore. Coltelli alla cintura. Uno zainetto nero a tracolla. Non porto con me le
pistole, non voglio che qualcuno mi rintracci nei settori infestati dal morbo.
Raggiungo la cima del mio palazzo, finché mi ritrovo sul tetto con il vento che mi fischia intorno.
Riesco a sentire l’umidità nell’aria.
Su alcuni terrazzamenti ci sono ancora animali al pascolo.
Vedendoli mi domando se ho davvero vissuto sopra una fabbrica sotterranea di carne per tutto questo
tempo. Da qui si vede tutto il centro di Los Angeles, come pure molti dei settori che lo circondano e
la sottile striscia di terra che separa il gigantesco lago dall’oceano Pacifico. È facile riconoscere il
punto in cui i settori ricchi sfiorano quelli poveri, dove le luci stabili alimentate dall’elettricità
cedono il passo alle lanterne tremolanti, ai falò e al vapore delle centrali termoelettriche.
Sparo un cavo sottile tra due palazzi. Quindi scivolo di tetto in tetto finché non sono fuori dai settori
Batalla e Ruby. Da qui proseguire diventa
più complicato.
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Gli edifici non sono altrettanto alti e i tetti sono in rovina, alcuni rischiano di crollare. Scelgo gli
obiettivi con attenzione. Diverse volte sono costretta a mirare più in basso del tetto per poi
dondolarmi fino in cima una volta raggiunto il fianco del palazzo.
Quando finalmente arrivo a Lake, sento il sudore che mi scende giù per il collo e la schiena.
La sponda del lago è solo a pochi isolati di distanza. Vedo che ogni strada è sigillata da un nastro
rosso e a ogni incrocio ci sono soldati della pattuglia anti-morbo con maschere antigas e mantelli
neri.
L e X contrassegnano file e file di porte. Noto una pattuglia che va di casa in casa simulando un’altra
operazione di routine su vasta scala. Ho il sospetto che stiano distribuendo le cure proprio adesso,
come aveva detto Metias, e tra qualche settimana il morbo sarà svanito come per magia. Mi sforzo di
non guardare nella direzione della casa di Day, o almeno, quella che un tempo era casa sua. Come se
il corpo di sua madre potesse ancora essere steso lì sulla strada.
Mi ci vogliono altri dieci minuti per arrivare nel punto dove ho incontrato Day. Qui i tetti sono
troppo fragili per sperare che un cavo possa restare fissato, così procedo poco alla volta e con
estrema cautela verso il livello della strada: sono agile, ma non sono Day. Seguo i vicoli adombrati
fino al fronte del lago. La sabbia bagnata scricchiola sotto i miei piedi.
Avanzo mantenendomi contro i muri, sul retro dei palazzi, attenta a evitare i lampioni, i poliziotti e
l’infinita folla di gente in strada.
Una volta Day mi ha detto di aver incontrato Kaede in uno di questi bar, al confine tra Alta e Winter.
Scruto la zona mentre cammino.
Dall’alto avevo notato almeno una decina di bar che corrispondevano alla posizione indicata e alla
sua descrizione, ma adesso che sono a terra ne conto solo nove.
Mi fermo più volte per riorganizzare i pensieri. Se mi beccassero qui e qualcuno scoprisse cosa sto
facendo, probabilmente mi ucciderebbero.
Senza fare domande. Il pensiero mi accelera il battito del cuore.
Ma poi mi tornano in mente le parole di mio fratello. Questo basta a farmi venire le lacrime agli
occhi, a farmi stringere i denti. Mi sono spinta troppo oltre per tornare indietro.
Vago per molti bar senza fortuna.
Sembrano tutti uguali: luce fioca delle lanterne, fumo e caos, ogni tanto un incontro di skiz in un
angolo. Controllo ogni incontro, anche se ho imparato la lezione e mi tengo a debita distanza dai ring.
Chiedo a ogni barista se conosce una ragazza con un tatuaggio rampicante.
Niente, di Kaede neanche l’ombra.
Passa quasi un’ora.
Poi la trovo. (O meglio, è lei a trovare me.) Non faccio in tempo a mettere neppure un piede nel bar.
Sono diretta verso la porta laterale dell’ennesimo locale quando sento qualcosa che mi sfreccia a un
millimetro dalla spalla.
Un pugnale. Mi tolgo di torno all’istante e alzo gli occhi in alto.
Qualcuno salta giù dal primo piano, si lancia su di me e finiamo tutti e due nel buio del vicolo. Sbatto
con la schiena contro il muro. La mano si allunga d’istinto sul coltello che porto alla cintura, ma poi
vedo chi è il mio assalitore.
«Sei tu» dico.
La ragazza che ho davanti sembra furiosa. La luce della strada si riflette sulla pianta rampicante
tatuata sul collo e un pesante trucco nero le sottolinea gli occhi.
«Bene» risponde Kaede. «So che mi stai cercando. Hai così tanta voglia di vedermi che è un’ora che
te ne vai in giro per i bar di Alta. Cosa
vuoi? La rivincita?» Sto per risponderle, quando avverto un
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altro movimento tra le ombre dietro di lei. Mi immobilizzo.
C’è qualcun altro qui con noi.
Quando Kaede nota il mio sguardo che si sposta, alza la voce.
«Rimani lì, Tess» dice. «È meglio se non guardi.»
«Tess?» Mi sforzo di vedere nel buio. La sagoma in piedi alle spalle di Kaede è piccola, esile e con
i capelli che sembrano legati in una treccia disordinata.
Due occhi grandi e luminosi mi osservano.
Muoio dalla voglia di sorridere, immagino che Day sarà felicissimo di venirlo a sapere.
Tess fa un passo in avanti.
Sembra abbastanza in salute, anche se le sono comparsi due cerchi neri intorno agli occhi. L’aria
sospettosa sul suo volto mi solleva dentro un’ondata di vergogna.
«Ciao» dice lei. «Come sta Day?
Sta bene?» Annuisco. «Per ora. Mi fa piacere vedere che anche tu stai bene. Che ci fai qui?» Tess mi
sorride con prudenza, poi lancia uno sguardo nervoso a Kaede, la quale le rifila un’occhiataccia e mi
spinge più forte contro il muro. «Che ne dici di rispondere prima tu a quella domanda?» ribatte in
tono brusco.
Tess deve essersi unita ai Patrioti. Lascio cadere a terra il coltello e mostro a entrambe le mani nude.
«Sono qui per negoziare con te.» Sostengo il suo sguardo con occhi calmi. «Kaede, mi serve il tuo
aiuto. Devo parlare con i Patrioti.» Questo la spiazza. «Cosa ti fa pensare che sia una Patriota?»
«Lavoro per la Repubblica.
Sappiamo un sacco di cose, alcune delle quali ti sorprenderebbero.» Kaede mi fissa stringendo gli
occhi. «Non ti serve il mio aiuto.
Stai mentendo» risponde. «Sei un soldato della Repubblica e hai consegnato Day all’esercito. Perché
dovremmo fidarci di te?» Allungo una mano dietro, apro la cerniera dello zaino e tiro fuori un grosso
rotolo di banconote. Tess rimane un attimo senza fiato.
«Voglio darti questi» rispondo, consegnando i soldi a Kaede. «E da dove vengono questi ce ne sono
altri. Ma ho bisogno che tu mi ascolti e non ho molto tempo.» Kaede dà una scorsa alle banconote.
Poi, senza mollare la presa su di me ne controlla una appoggiandola sulla punta della lingua. Noto
che un braccio è fasciato. D’un tratto mi domando se sia stata Tess a fasciarglielo.
Scommetto che i Patrioti la trovano assai utile.
«A proposito, mi dispiace per quello» le dico indicando il suo braccio. «Sono sicura che sai perché
l’ho fatto. Ho ancora la ferita che mi hai provocato.» Kaede emette una risata secca.
«Capita» risponde lei. «Almeno adesso i Patrioti hanno un nuovo medico.» Si dà un colpetto sulla
fasciatura e strizza l’occhio a Tess.
«Mi fa piacere» continuo, guardando Tess con la coda dell’occhio. «Prenditi cura di lei. Se lo
merita.» Kaede studia la mia faccia ancora un po’. Poi finalmente molla la presa e fa un cenno con il
capo in direzione della mia cintura. «Butta le armi.» Non discuto.
Estraggo lentamente quattro coltelli in modo che possa vederli e li getto a terra.
Kaede li calcia lontano da me.
«Hai delle cimici addosso?» mi chiede. «Microfoni?» Lascio che Kaede mi ispezioni le orecchie e
la bocca. «Niente» la rassicuro.
«Se sento anche solo un rumore di passi che viene in questa direzione,» ci tiene a precisare «ti
ammazzo senza pensarci due volte.
Intese?» Annuisco.
Kaede ha un attimo di esitazione, poiAPROLIBRO.COM
abbassa il braccio e ci addentriamo di più nel buio del vicolo.
«Non ti porterò a incontrare altri Patrioti. Non mi fido. Ma puoi parlare con noi e poi deciderò se
vale la pena di passare la richiesta.» Mi domando quanto sia estesa l’organizzazione dei Patrioti.
«Mi sembra giusto.» Inizio a raccontare a Kaede e Tess tutto quello che ho scoperto.
Comincio con Metias e con la sua morte. Dico della mia caccia a Day e cos’è successo quando l’ho
consegnato. Quello che Thomas ha fatto a mio fratello. Non faccio parola del perché i miei genitori
siano morti o di ciò che Metias mi ha rivelato sul morbo. Mi vergogno troppo a dirlo dritto in faccia
a due persone che vivono nei settori poveri.
«Così è stato l’amico di tuo fratello a ucciderlo, eh?» Kaede emette un fischio basso. «Per aver
scoperto che la Repubblica ha ammazzato i vostri genitori? E Day è stato incastrato?» Il tono
noncurante di Kaede mi infastidisce, ma decido di ignorarlo.
«Esatto.»
«Caspita, che storia triste. Ora dimmi che diavolo c’entrano i Patrioti in tutta questa faccenda.»
«Voglio aiutare Day a fuggire prima dell’esecuzione. Ho sentito che i Patrioti vogliono reclutarlo da
tempo. Probabilmente neanche tu vuoi vederlo morto. Magari i Patrioti e io potremmo raggiungere un
accordo di qualche tipo.» La rabbia negli occhi di Kaede si è trasformata in scetticismo. «Vuoi
vendicare la morte di tuo fratello, o roba del genere? Volteresti le spalle alla Repubblica per il bene
di Day?»
«Voglio giustizia.
E voglio liberare il ragazzo che non ha ucciso mio fratello.» Kaede sbuffa. «La tua vita è tutta rose e
fiori. Al sicuro nel tuo comodo appartamento in qualche settore per ricconi. Lo sai che, se la
Repubblica scopre che hai parlato con me, ti metteranno davanti a un plotone d’esecuzione? Proprio
come Day.» A sentir nominare Day davanti a un plotone d’esecuzione mi vengono i brividi. Con la
coda dell’occhio vedo anche Tess trasalire. «Lo so» rispondo. «Mi aiuterai?»
«Ti piace Day, non è vero?» Spero che l’oscurità nasconda il rossore sulle mie guance. «Questo è
irrilevante.» Kaede scoppia a ridere. «Che spasso! La povera ragazzina ricca si è innamorata del
criminale più famoso della Repubblica. Ed è ancora peggio perché è per colpa tua che si trova
dov’è. Giusto?» Stai calma. «Mi aiuterai?» chiedo di nuovo.
Kaede alza le spalle. «Abbiamo sempre voluto Day. Sarebbe stato un ottimo corriere, sai? Ma noi
non facciamo beneficenza.
Siamo professionisti, abbiamo una lunga agenda che non prevede opere di carità.» Tess apre la
bocca per protestare, ma Kaede le fa segno di rimanere zitta. «Qui fuori per la strada può anche darsi
che sia un personaggio popolare, ma resta comunque una persona sola. A noi cosa ce ne viene? Solo
la gioia di averlo tra i nostri? I Patrioti non rischieranno mai una dozzina di vite per liberare un
criminale. Non è vantaggioso.» Tess sospira. Ci scambiamo un’occhiata e intuisco che lei stessa
deve aver provato invano a convincere Kaede a farlo da quando Day è stato arrestato. Potrebbe
addirittura essere il motivo per cui Tess si è unita ai Patrioti, per pregarli di salvare Day.
«Capisco.» Mi sfilo lo zaino e lo tiro verso Kaede. Lei non lo apre.
«Ecco perché ho portato questi. Lì dentro ci sono duecentomila banconote, meno quello che ti ho dato
prima. Una modesta fortuna. È la mia ricompensa per aver catturato Day e dovrebbe essere un
compenso adeguato per il vostro aiuto.» Abbasso il tono della voce.
«Ho incluso un’elettrobomba.
Livello tre. Vale seimila banconote.
Disattiverà le armi per due minuti in un raggio di mezzo miglio. Sono sicura che sai quanto sia
difficile procurarsene una al mercato nero.» Kaede apre la zip dello zaino ed esamina il contenuto.
Non dice niente, ma il linguaggio del
suo corpo tradisce un certo piacere, nel modo in cui si curva
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avidamente sopra le banconote e passa la mano sulla loro superficie nuova di zecca.
Quando tocca l’elettrobomba, emette un grugnito di gioia e i suoi occhi si spalancano quando solleva
la sfera metallica per ispezionarla.
Tess la osserva con occhi pieni di speranza.
«Per i Patrioti questi sono spiccioli, ma hai ragione, potrebbe essere abbastanza per convincere il
mio capo» dice alla fine. «Ma come facciamo a essere sicuri che non sia una trappola? Hai venduto
Day alla Repubblica. Se stessi mentendo anche a me?» Spiccioli? I Patrioti devono avere delle
tasche molto profonde. Però mi limito ad annuire. «Hai tutto il diritto di sospettare di me» le
rispondo. «Ma vedila in questo modo. Puoi andartene via in questo momento, con duecentomila
banconote e un’arma piuttosto utile, e non alzare un dito per aiutarmi. Io mi sto fidando di te e dei
Patrioti. Ti prego di fare lo stesso con me.» Kaede inspira a fondo. Non è ancora convinta. «Allora,
cos’avevi in mente?» Il mio cuore salta un battito. Le sorrido sinceramente. «Andiamo per ordine. Il
fratello di Day, John.
Pensavo di aiutarlo a scappare domani notte. Non prima delle undici, non più tardi delle undici e
trenta.» Kaede mi lancia uno sguardo incredulo, ma la ignoro.
«Una morte simulata, farò credere che John sia malato. Se riesco a farlo scappare dal Palazzo di
Batalla domani notte, avrò bisogno di te e di un paio di Patrioti per portarlo via e tenerlo al sicuro.»
«Se ce la fai, noi ci saremo.»
«Bene. Per Day sarà ovviamente più complicato. La sua esecuzione avverrà tra due sere da adesso,
alle sei in punto. Dieci minuti prima, sarò io la prima persona a scortarlo nel cortile dove lo attende
il plotone. Ho un tesserino che mi consente l’accesso a tutte le aree, dovrei essere in grado di fare
uscire Day da una delle sei porte posteriori nell’atrio est. Fai in modo che dei Patrioti ci aspettino lì.
Penso che ad assistere all’esecuzione verrà una folla di almeno duemila persone, il che significa una
squadra di circa ottanta guardie. Le uscite posteriori devono essere il meno sorvegliate possibile.
Fate qualcosa – qualsiasi cosa – per assicurarvi che la maggior parte dei soldati debba spostarsi
davanti. Se il primo isolato superato il Palazzo di Batalla non è molto sorvegliato, avrete un
vantaggio sufficiente per scappare.» Kaede alza un sopracciglio. «È un suicidio. Ti rendi conto di
quanto è irrealizzabile il tuo piano?»
«Sì.» Faccio una pausa. «Ma non ho molte altre alternative.»
«Vai avanti. Che mi dici della piazza?»
«Diversivo.» Fisso gli occhi in quelli di Kaede. «Create confusione, quanto più caos potete.
Abbastanza trambusto da costringere le guardie sul retro a entrare nella piazza di Batalla per aiutare
a contenere la folla, anche se solo per un paio di minuti. È allora che l’elettrobomba potrà tornarvi
utile.
Fatela esplodere e scuoterà il terreno all’interno del Palazzo e tutt’intorno.
Nessuno dovrebbe farsi male, ma di sicuro scatenerà il panico. E se le armi sono disattivate, nessuno
potrà sparare a Day, anche se lo vedessero scappare su un tetto.
Saranno costretti a inseguirlo o tentare la fortuna con pistole elettriche meno precise.»
«Okay, genio.» Kaede ride, con un po’ troppo sarcasmo. «Lascia che ti chieda una cosa, però. Come
diavolo pensi di portare Day fuori dall’edificio? Credi che sarai l’unico soldato a scortarlo fino al
plotone?
Sarai sicuramente affiancata da altri militari.
Maledizione, potrebbe affiancarti un’intera pattuglia.» Le sorrido. «Certo che ci saranno altri soldati.
Ma chi l’ha detto che non possano essere Patrioti travestiti?» Non mi risponde, non a parole.
Ma riesco a vedere il ghigno che le si
allarga sulla faccia e mi accorgo che, anche se mi crede pazza,
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ha appena accettato di aiutarmi.
DAY
DUE NOTTI PRIMA DELLA MIA ESECUZIONE, mentre cerco di dormire contro il muro della
cella, vengo assalito da una miriade di sogni. I primi non me li ricordo. Si mischiano tra loro in una
poltiglia confusa di facce familiari ed estranee, diventano un suono che sembra la risata di Tess e un
altro che assomiglia alla voce di June.
Ognuno cerca di dirmi qualcosa, ma non capisco niente.
Mi ricordo l’ultimo sogno che faccio prima di svegliarmi, però.
Un pomeriggio radioso a Lake.
Ho nove anni. John ne ha tredici ed è appena entrato nella pubertà.
Eden ne ha soltanto quattro e se ne sta seduto sui gradini davanti alla porta di casa, a guardare John e
me che giochiamo a hockey di strada.
Anche a quest’età Eden è il più intelligente tra noi e, invece di unirsi al gioco, preferisce stare lì ad
armeggiare con i pezzi di un vecchio motore.
John colpisce una palla di carta.
La prendo per un soffio con la spazzola della mia scopa. «L’hai tirata troppo lontano» protesto.
John sfoggia un ghigno. «Ti serviranno riflessi migliori di quelli se vuoi superare la Prova.»
Colpisco la palla più forte che posso. Sfreccia accanto a John sibilando e si schianta sul muro alle
sue spalle. «Se ci sei riuscito tu a passare la Prova...» dico. «...con quei riflessi.»
«L’ho mancata apposta.» John ride mentre si volta e corre a riprendere la palla. L’acchiappa prima
che la brezza possa spazzarla via. Diversi passanti quasi la calpestano. «Non volevo fare a pezzi la
tua autostima.» È una bella giornata.APROLIBRO.COM
John è stato da poco assegnato alla centrale termoelettrica del
quartiere. Per festeggiare, mamma ha venduto uno dei suoi due vestiti e un assortimento di vecchi
vasi, e ha passato tutta la settimana a sostituire le sue colleghe al lavoro. I soldi extra sono bastati per
comprare un pollo intero. Adesso è in casa a cucinarlo e l’odore di carne e brodo è così invitante che
abbiamo lasciato la porta socchiusa in modo che arrivi fino a noi. Di solito John non è mai così di
buonumore. Intendo approfittarne più che posso.
John tira di nuovo la palla. Io la prendo con la scopa e gliela rimando. Giochiamo per diversi minuti
in maniera sfrenata, senza che uno dei due sbagli, esibendoci di tanto in tanto in salti talmente ridicoli
che Eden si sganascia dalle risate. L’odore di pollo riempie l’aria. Non fa neanche tanto caldo, è
davvero una giornata perfetta. Mi fermo per un attimo mentre John corre a riprendere la palla. Cerco
di scattare una fotografia mentale di questo momento.
Ci passiamo la palla di carta un altro po’. Poi, commetto un errore.
Un poliziotto di ronda attraversa la nostra stradina proprio mentre mi preparo a passare a John. Con
la coda dell’occhio vedo Eden che si alza in piedi sui gradini. Anche John lo vede arrivare prima di
me e solleva una mano per fermarmi. Ma è troppo tardi. Sto già oscillando la scopa e lancio la palla
dritta in faccia al poliziotto.
Ovviamente rimbalza via, è carta innocua, ma sufficiente a far fermare di colpo l’uomo. I suoi occhi
si spostano su di me all’istante. Io rimango pietrificato.
Prima che chiunque di noi possa muoversi, il poliziotto estrae un coltello dallo stivale e marcia verso
di me. «Pensi di potertela cavare dopo una cosa del genere, ragazzino?» mi grida contro. Solleva il
coltello e si prepara a colpirmi in faccia con l’impugnatura. Invece di ritrarmi, lo guardo male e non
muovo un passo.
John raggiunge il poliziotto prima che lui raggiunga me. «Signore!
Signore!» John mi si para davanti e alza le mani. «Mi dispiace per quello che è successo» gli dice.
«Lui è Daniel, il mio fratellino. Non l’ha fatto apposta.» Il poliziotto spinge via John e mi sferza la
faccia con il manico del coltello. Crollo a terra. Eden grida e corre dentro. Tossisco, cercando di
sputare la polvere che mi riempie la bocca. Non riesco a parlare. Il poliziotto mi viene vicino e mi
tira un calcio nel fianco. Mi schizzano gli occhi fuori dalle orbite e mi rannicchio in posizione fetale.
«Basta, la prego!» John si precipita dal poliziotto e si piazza tra me e lui. Steso dove sono, intravedo
di sfuggita il portico di casa nostra. Mia madre è accorsa fuori, con Eden nascosto dietro la sua
gonna, e grida disperata al poliziotto.
John continua a supplicarlo. «Io... io posso pagarla.
Non abbiamo molto, ma può prendere quello che vuole. Per favore.» Con la mano mi afferra per un
braccio e mi tira su.
Il poliziotto si ferma a considerare l’offerta di John. Poi guarda mia madre. «Tu, laggiù» le urla da
lontano. «Dammi quello che avete. E vedi se riesci a tirare su un bastardo migliore.» John mi spinge
dietro di sé. «Non l’ha fatto apposta, signore» ripete.
«Mia mamma lo punirà per come si è comportato. È piccolo e ancora non si rende conto.» Mia madre
si precipita fuori qualche secondo dopo con un involto di stoffa. Il poliziotto lo apre e controlla ogni
banconota. Sono quasi tutti i nostri risparmi. John rimane zitto. Dopo un po’ l’uomo ripiega i soldi e
se l’infila nella tasca della giacca, poi guarda di nuovo mia madre. «È un pollo quello che stai
cucinando lì dentro?» dice.
«Roba di lusso per una famiglia come la vostra. Ti piace sprecare i soldi?»
«No, signore.»
«E allora vammi a prendere anche quel pollo» aggiunge lui.
Mia madre torna di corsa dentro. APROLIBRO.COM
Quando ricompare, ha con sé un sacchetto legato stretto con strisce di stoffa. L’uomo lo afferra, se lo
getta sulla spalla e mi lancia un’ultima occhiata disgustata.
«Feccia» mormora prima di allontanarsi.
La strada torna tranquilla.
John prova a dire qualcosa di confortante a nostra madre, ma lei vuole solo dimenticare l’accaduto e
si scusa con lui per il pranzo sfumato. Non mi guarda nemmeno.
Dopo un po’ si affretta a rientrare in casa per badare a Eden, che ha iniziato a piangere.
Quando mamma se n’è andata, John si gira di scatto verso di me.
Mi afferra per le spalle e mi scuote.
«Non farlo mai più, hai capito? Non azzardarti.»
«Non volevo colpirlo!» urlo a mia volta.
John va su tutte le furie. «Non quello. Il modo in cui l’hai guardato.
Non hai un briciolo di cervello? Non si guarda mai un agente in quel modo, hai capito? Vuoi farci
ammazzare tutti?» La guancia mi brucia ancora per via del colpo e ho le fitte allo stomaco per il
calcio che mi ha dato il poliziotto. Mi libero dalla presa di John. «Nessuno ti ha chiesto di
difendermi» sbotto. «Me la sarei cavata. E non me ne starò zitto e buono, mai!» John mi afferra di
nuovo. «Sei completamente matto. Ascoltami, e ascoltami bene. Okay? Non devi mai reagire. Mai.
Fai quello che ti dicono gli agenti e non discutere con loro.» Un po’ della rabbia è svanita dai suoi
occhi. «Preferirei morire che vederli farti del male. Mi capisci?» Mi sforzo di trovare qualcosa di
altrettanto intelligente con cui rispondere, ma con mio grande imbarazzo sento gli occhi gonfiarsi di
lacrime. «Be’, mi dispiace cha hai perso il tuo pollo» dico senza riflettere.
Le mie parole gli strappano un sorriso. «Vieni qua, fratellino.» Sospira e mi abbraccia. Le lacrime
mi scendono sulle guance. Mi vergogno un po’, perciò cerco di non singhiozzare.
Non sono una persona superstiziosa, e quando mi sveglio da questo sogno, questo doloroso ricordo
di John, ho la peggiore delle sensazioni nel petto.
Preferirei morire che vederli farti del male.
Improvvisamente ho paura che, in qualche modo, quello che ha detto possa avverarsi.
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JUNE
ORE 08.00. SETTORE RUBY.
TEMPERATURA ESTERNA 18 °C.
DAY VERRÀ GIUSTIZIATO DOMANI SERA. E Thomas bussa alla mia porta. Mi invita al primo
spettacolo di un film, prima di doverci presentare al Palazzo di Batalla. La Gloria della Bandiera, mi
dice. Ho sentito buone recensioni. Parla di una ragazza della Repubblica che cattura una spia delle
Colonie.
Accetto. Se stanotte devo aiutare John a scappare, farò meglio ad assicurarmi di tenere Thomas
tranquillo circa la nostra relazione.
Non c’è motivo di farlo insospettire.
L’uragano che sta arrivando (il quinto quest’anno) mostra i primi segni appena Thomas e io mettiamo
piede in strada. Una brezza minacciosa, una raffica di vento gelido e allarmante nell’aria altrimenti
umida. Gli uccelli sono inquieti. I cani randagi cercano riparo invece di andarsene a zonzo.
Passano meno auto e motociclette.
I camion consegnano razioni extra di acqua potabile e cibo in scatola ai residenti dei piani alti.
Vengono distribuiti anche sacchi di sabbia, lampade e radio portatili. Perfino gli stadi hanno
posticipato le Prove previste per il giorno in cui arriverà la tempesta.
«Immagino che sarà emozionata, con tutto quello che sta capitando» mi dice Thomas mentre
camminiamo in fila dentro al teatro.
«Ormai non manca molto.» AnnuiscoAPROLIBRO.COM
e sorrido. Oggi la gente riempie tutti i posti a sedere, nonostante
il vento e gli imminenti blackout. Sopra di noi incombe il gigantesco Cubo, uno schermo
quadrangolare con un lato orientato verso ciascuna zona di sedili.
Mentre aspettiamo, manda un flusso ininterrotto di spot e notizie dell’ultima ora.
«Non credo che “emozionata” sia la definizione migliore per come mi sento» rispondo. «Ma devo
dire che aspetto il momento con ansia.
Conosci già i dettagli di come si svolgerà?»
«Be’, so che sarò io a monitorare i soldati nella piazza.» Thomas rimane concentrato sugli spot in
rotazione (al momento lo schermo dalla nostra parte mostra uno sfavillante e sfarzoso MANCA
POCO ALLA PROVA DI TUO FIGLIO? VIENI DALL’ASSO DELLE PROVE PER UNA
CONSULTAZIONE PRIVATA GRATUITA!). «Chissà cosa potrebbe fare la folla. È probabile che
si stia già radunando. Per quel che la riguarda, probabilmente sarà all’interno. Accompagnerà Day in
cortile. Il comandante Jameson ci dirà di più quando sarà il momento.»
«Molto bene.» Rifletto sui miei piani ancora una volta: i dettagli continuano a ronzarmi in testa da
quando ho incontrato Kaede la scorsa notte. Mi serve tempo per consegnarle le uniformi prima
dell’esecuzione, tempo per aiutare i Patrioti a intrufolarsi all’interno.
Non dovrebbe volerci molto a convincere il comandante Jameson a lasciarmi accompagnare Day
fuori, perfino Thomas sembra capire che voglio farlo.
«June.» La voce di Thomas mi strappa ai miei pensieri.
«Sì?» Mi guarda in modo curioso e corruga la fronte, come se si fosse appena ricordato qualcosa.
«Ieri notte non era in casa.» Stai calma. Sorrido appena, poi sposto di nuovo gli occhi sullo schermo
con disinvoltura. «Perché lo chiedi?»
«Be’, mi sono fermato da lei sul tardi. Ho bussato a lungo, ma non ha risposto. Sembrava che Ollie
fosse dentro, perciò ho capito che non era andata a correre. Dove è stata?» Guardo Thomas con la
faccia seria. «Non riuscivo a dormire, così sono salita sul tetto per un po’ a osservare le strade.»
«Non si è portata dietro l’auricolare.
Ho provato a chiamarla, ma ho captato solo interferenze.»
«Davvero?» Scuoto la testa. «La ricezione doveva essere pessima, perché ce l’avevo. C’era molto
vento la notte scorsa.» Lui annuisce. «Deve essere esausta oggi. Farebbe meglio a dirlo al
comandante Jameson, se non vuole che la metta sotto torchio.» Stavolta sono io a guardare Thomas in
cagnesco. Rigiragli la domanda. «Che ci facevi alla mia porta nel cuore della notte?
Qualcosa di urgente? Non mi sarò per caso persa qualche novità dal comandante Jameson?»
«No, no. Niente del genere.» Thomas mi sorride imbarazzato e si passa una mano tra i capelli. Come
qualcuno con le mani sporche di sangue possa apparire così sereno continua a sfuggirmi. «A essere
sinceri, neanche io riuscivo a dormire. Continuavo a pensare a quanto doveva stare in ansia. Ho
pensato di farle una sorpresa.» Gli do una pacca sul braccio.
«Grazie. Ma presto starò bene.
Domani giustizieremo Day e dopo mi sentirò molto meglio. Come hai detto tu. Ormai non manca
molto.» Thomas schiocca le dita. «Oh, ecco l’altro motivo per cui volevo vederla ieri notte. Non
avrei dovuto dirlo comunque, dovrebbe essere una sorpresa.» In questo momento le sorprese non
suonano tanto divertenti. Ma fingo un minimo di eccitazione.
«Eh? Di che si tratta?»
«Il comandante Jameson l’ha suggerito e ha fatto in modo che la corte l’approvasse. Credo che sia
ancora fuori di sé per il morso che le ha dato Day quando ha provato a scappare.»
«Approvasse cosa?»
«Ah, lo stanno annunciando adesso.»APROLIBRO.COM
Thomas sposta lo sguardo sullo schermo e indica lo spot che sta
iniziando. «Anticiperemo l’ora dell’esecuzione.» Lo spot non è altro che un volantino digitale, una
singola immagine fissa. Ha un aspetto festoso, scritte blu e immagini su uno sfondo decorato di
bianco e di verde. Al centro vedo la foto di Day.
SOLO POSTI IN PIEDI DAVANTI AL PALAZZO DI BATALLA, GIOVEDÌ 26 DICEMBRE, ORE
17.00, PER L’ESECUZIONE DI DANIEL ALTAN WING. SPAZIO LIMITATO. IN
ONDA SOLO SUI JUMBO-SCHERMI.
I miei polmoni rimangono a corto d’aria. Mi giro verso Thomas.
«Oggi?» Thomas sorride. «Stasera. Non è grandioso? Non dovrà agonizzare per un altro giorno
intero.» Mantengo un tono allegro.
«Bene. Tanto meglio.» Però i miei pensieri si contorcono fino a prendere la forma del panico.
Questo potrebbe voler dire molte cose. Il comandante Jameson che convince la corte a spostare la
data dell’esecuzione di un giorno è strano di per sé. Adesso Day affronterà il plotone di esecuzione
soltanto tra otto ore, proprio quando il sole comincia a calare.
Non posso più portare fuori John, l’intera giornata passerà in preparativi per l’esecuzione. Anche
l’ora è cambiata. È probabile che i Patrioti non riescano a incontrarmi oggi. Non avrò il tempo di
procurare loro le uniformi. Non posso aiutare Day a scappare.
Ma non è tutto. Il comandante Jameson ha scelto di non mettermi al corrente. Se Thomas già lo
sapeva ieri notte, vuol dire che gliel’ha detto ieri pomeriggio al più tardi, prima di mandarlo a casa.
Perché non avrebbe dovuto dirmelo? Dovrebbe pensare che mi faccia piacere sentire che Day morirà
con ventiquattr’ore di anticipo. A meno che non sospetti qualcosa. Forse voleva cogliermi di
sorpresa solo per verificare la mia reazione. Che Thomas mi stia nascondendo dell’altro? Questo suo
non sapere i dettagli del piano è solo un modo di mascherare la verità, oppure il comandante Jameson
sta tenendo anche lui all’oscuro di tutto?
Il film comincia. È un sollievo non dover parlare più con Thomas e poter ragionare in silenzio.
Cambio di piano. Altrimenti il ragazzo che non ha ucciso mio fratello morirà stasera.
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DAY
LA NUOVA ORA DELLA MIA ESECUZIONE arriva senza fanfare, accompagnata solo dallo
schiocco dei tuoni che di tanto in tanto giunge da fuori. Non che dalla mia cella riesca a vedere la
tempesta, ovviamente, con le pareti di metallo e le telecamere e i soldati nervosi, perciò posso solo
immaginare che aspetto abbia il cielo.
Alle sei in punto le guardie rimuovono le catene e mi slegano dal muro. È una tradizione. Prima che
un criminale a cui si è fatta tanta pubblicità esca ad affrontare il plotone d’esecuzione, dal Palazzo di
Batalla vengono trasmesse le immagini del condannato a tutti i jumbo-schermi della piazza.
Vengono sciolte le catene in modo da permettere al prigioniero di fare qualcosa che diverta il
pubblico. In passato mi è capitato di vedere la diretta e la folla la adora. Di solito succede qualcosa:
la fermezza del criminale comincia a vacillare e quello si mette a pregare e implorare, oppure prova
a strappare un accordo o una proroga e qualche volta tenta addirittura di scappare.
Nessuno ci è mai riuscito. Lo spettacolo dal vivo prosegue nella piazza fino all’ora dell’esecuzione,
poi le immagini staccano sul cortile interno del Palazzo di Batalla in cui attende il plotone
d’esecuzione e infine mostrano la marcia del condannato verso i boia.
Al momento della fucilazione gli spettatori rimangono a bocca aperta e strillano, talvolta di piacere.
E la Repubblica è felice di aver inflitto una punizione esemplare all’ennesimo criminale.
La replica va in onda per diversi giorni.
Sono libero di andarmene in giro per la cella, invece me ne resto seduto con la schiena appoggiata al
muro e le braccia sulle ginocchia.
Non sono in vena di intrattenere nessuno.
La testa mi pulsa per l’agitazione e il terrore, per l’attesa e
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la preoccupazione. Sento il ciondolo nella mia tasca. Non riesco a smettere di pensare a John. Che
gli faranno? June ha promesso di aiutarmi, deve avere un piano anche per lui. Almeno spero.
Se June sta progettando la mia fuga, di sicuro sta forzando la mano alla fortuna fino al limite. Il
cambio della data dell’esecuzione non deve averla aiutata per niente. Mi fa male il petto al pensiero
del rischio a cui si sta esponendo. Mi piacerebbe sapere quali rivelazioni ha avuto. Cosa potrebbe
averla ferita al punto da rivoltarsi contro la Repubblica, con tutti i privilegi di cui gode? E se stava
mentendo... be’, perché avrebbe dovuto farmi credere che mi avrebbe salvato?
Forse ci tiene a me. Non posso non ridere di me stesso. Che razza di pensiero in un momento come
questo. Magari riuscirò a rubarle un bacio d’addio prima di mettere piede nel cortile.
Una cosa però la so. Anche se il piano di June fallisse, anche se dovessi restare solo e abbandonato
quando andrò ad affrontare il plotone d’esecuzione... combatterò.
Dovranno riempirmi di proiettili per riuscire a farmi stare fermo. Prendo un respiro e tremo. Un
pensiero coraggioso, ma sono pronto a farlo?
I soldati di guardia nella mia cella hanno più armi del solito, insieme a maschere antigas e giubbotti
di protezione. Nessuno osa togliermi gli occhi di dosso.
Credono sul serio che farò una pazzia. Fisso le telecamere di sicurezza e immagino l’aspetto della
folla. «Scommetto che vi state divertendo» dico dopo un po’. I soldati si agitano, alcuni sollevano le
armi. «Perdere un giorno della vostra vita a guardare me seduto in una cella. Che spasso.» Silenzio. I
soldati sono troppo spaventati per rispondere.
Immagino la gente fuori. Che starà facendo? Forse qualcuno prova ancora compassione per me,
sarebbe ancora pronto a protestare.
Forse qualcuno sta protestando, anche se non seriamente come l’ultima volta: in quel caso ne sentirei
gli echi dall’atrio.
Scommetto che molti mi odiano e adesso stanno esultando. Altri ancora vogliono solo soddisfare una
morbosa curiosità.
Il tempo scorre lento. Non vedo l’ora che arrivi il momento. Almeno vedrò qualcosa di diverso dalle
pareti grigie della cella, anche se per pochi attimi. Qualsiasi cosa pur di spezzare quest’attesa
logorante.
E poi, se June non dovesse riuscire a portare a termine qualunque cosa abbia in mente, smetterei di
immaginare John e mia madre e Tess e Eden e tutti gli altri che mi affollano la testa.
I soldati si alternano dentro e fuori dalla mia cella. So che non dovrebbe mancare molto alle cinque.
Adesso la piazza sarà sicuramente gremita. Tess. Forse c’è anche lei, troppo spaventata per vederlo
succedere e troppo spaventata per perderselo.
Rumore di passi nel corridoio.
Poi, una voce che riconosco. June.
Sollevo la testa e guardo verso la porta. Ci siamo? È l’ora della mia fuga, o della mia morte?
La porta si apre di colpo. Le guardie si fanno da parte e June entra in alta uniforme, affiancata dal
comandante Jameson e molti altri soldati. Trattengo il respiro.
Non ho mai visto June vestita così.
Spalline da ufficiale splendenti e sfarzose. Un mantello pesante lungo fino ai piedi, di velluto
costoso. Gilè scarlatto ed elaborati stivali con la fibbia. Berretto militare d’ordinanza. Ha il volto
leggermente truccato e i capelli raccolti in una coda alta e impeccabile. Dev’essere il codice
d’abbigliamento degli agenti per eventi speciali.
Si ferma a una certa distanza e, mentre fatico per tirarmi su, consulta l’orologio. «Quattro e
quarantacinque» annuncia, rialzando APROLIBRO.COM
lo sguardo su di me.
Provo a leggerle gli occhi, per vedere se riesco a indovinare il suo piano. «Hai un ultimo desiderio?
Se vuoi vedere tuo fratello per l’ultima volta o dire un’ultima preghiera, faresti meglio a dircelo
adesso. È l’unico privilegio che ti è concesso prima di morire.» Ma certo. L’ultimo desiderio. La
fisso, stando attento a rimanere inespressivo. Cosa vuole che dica?
Lo sguardo di June è profondo, ardente.
«Io...» comincio. Tutti gli occhi sono su di me.
Vedo le labbra di June muoversi in maniera impercettibile. John, dice senza suono.
Lancio un’occhiata al comandante Jameson.
«Voglio vedere mio fratello John» decido.
«Un’ultima volta.
Per favore.» Il comandante fa un cenno impaziente con la testa e schiocca le dita, quindi bisbiglia
qualcosa al soldato che le si avvicina. Lui saluta e se ne va. Il comandante torna a guardarmi.
«Accordato.» Il cuore batte più forte. June e io ci scambiamo il più breve degli sguardi, poi lei si
volta a chiedere qualcosa al comandante Jameson.
«Ogni cosa è pronta, Iparis» risponde il comandante. «Adesso smettila di tormentarmi.» Aspettiamo
in silenzio per diversi minuti, finché dal corridoio arriva un rumore di passi, questa volta però
mescolato al suono di qualcosa che viene trascinato. Deve trattarsi di John. Deglutisco a fatica. June
non mi guarda più.
Poi John è nella cella, affiancato da due guardie. Sembra più magro e pallido. I capelli chiarissimi
ricadono giù, come fili sporchi, e lui non pare neanche accorgersi di averne un bel po’ incollati alla
faccia. I miei capelli devono avere lo stesso aspetto. Mio fratello sorride nel vedermi, anche se dal
suo sorriso trapela poca gioia.
Cerco di ricambiare.
«Ciao» gli dico.
«Ciao» risponde lui.
June incrocia le braccia. «Cinque minuti. Ditevi quello che volete e facciamola finita.» Io annuisco
senza aprire bocca.
Il comandante Jameson mi lancia un’occhiata, ma non accenna ad andarsene. «Assicurati che siano
cinque minuti esatti, non un secondo di più.» Poi abbaia altri ordini, mentre i suoi occhi rimangono
inchiodati su di me.
Per diversi secondi John e io non facciamo che fissarci. Provo a parlare, ma ho qualcosa incastrato
in gola che impedisce alle parole di venire fuori.
Le cose non dovrebbero andare così per John.
Forse per me, ma non per lui. Io sono un bandito. Un criminale, un fuggitivo. Ho infranto la legge
ancora e ancora. Ma John non ha fatto niente di sbagliato. Ha superato la sua Prova onestamente.
È premuroso, responsabile.
L’opposto di me.
Finalmente John rompe il silenzio. «Sai dov’è Eden? È vivo?» Scuoto la testa. «Non lo so, ma credo
di sì.»
«Quando sarai lì fuori,» continua John con voce rauca «tieni la testa alta, capito? Non lasciare che
vincano loro.»
«D’accordo.»
«Falli sudare. Colpisci qualcuno, se devi.» John mi rivolge un sorriso storto, triste. «Sei un ragazzino
che fa paura. E allora spaventali. Okay?
Fino alla fine.» Per la prima volta inAPROLIBRO.COM
molto tempo, mi sento il fratellino minore.
Devo sforzarmi di deglutire per tenere asciutti gli occhi. «Va bene» sussurro.
Il nostro tempo scade troppo in fretta. Ci scambiamo gli addii e le guardie di John lo afferrano per le
braccia per riportarlo nella sua cella. Il comandante Jameson sembra rilassarsi un po’, chiaramente
sollevata che il desiderio sia sistemato. Fa un cenno agli altri soldati.
«In formazione» gli ordina. «Iparis, accompagna le guardie fino alla cella di questo ragazzo. Io torno
subito.» June saluta e segue John fuori, mentre i soldati si avvicinano a me e mi legano le mani dietro
alla schiena.
Il comandante Jameson sparisce fuori dalla porta.
Prendo un respiro profondo.
Adesso mi serve un miracolo.
Diversi minuti dopo, mi scortano fuori. Faccio come mi ha detto John e tengo la testa alta, lo sguardo
dritto davanti a me. Ora riesco a sentire il rumore della folla; cresce e aumenta, un’ondata di voci.
Sbircio gli schermi piatti allineati lungo il corridoio. Le persone nella piazza paiono irrequiete,
ondeggiano come il mare in un giorno di tempesta, mentre file di soldati le circondano. Di tanto in
tanto scorgo qualcuno con una striscia scarlatta tra i capelli. I soldati rastrellano la folla per
arrestarli, ma a loro non sembra importare.
A un certo punto June si unisce a noi e si mette al passo dei soldati, seguendoli da dietro.
Do un’occhiata alle mie spalle, ma non riesco a vedere la sua faccia. I secondi passano. Che
succederà quando raggiungeremo il cortile?
È allora che sento Thomas, il giovane capitano, dire: «Signorina Iparis».
«Cosa c’è?» risponde June.
Poi, parole che mi stringono il cuore. Dubito che questo rientri nei suoi piani.
«Signorina Iparis,» continua il capitano «le comunico che è sotto indagine. La prego di seguirmi.»
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JUNE
IL MIO PRIMO ISTINTO È DI ATTACCARE THOMAS. È quello che avrei fatto se non mi avesse
sorpresa con così tanti soldati intorno. Mi sarei scagliata su di lui con tutte le mie forze, l’avrei
tramortito e poi avrei preso Day e saremmo scappati verso le uscite. Ho già messo in salvo John. Da
qualche parte nei corridoi che portano alla sua cella ci sono due guardie svenute sul pavimento. Ho
indirizzato John verso i condotti di aerazione. Sta aspettando lì la mia prossima mossa. Libererò Day,
griderò il mio segnale, quindi John sbucherà dalla parete come un fantasma e scapperà con noi. Ma
non posso avere la meglio su Thomas e tutte queste guardie senza l’elemento sorpresa.
Perciò decido di assecondarlo.
«Indagine?» gli chiedo aggrottando la fronte. Lui si tocca la punta del cappello, come per scusarsi,
poi mi afferra per un braccio e mi allontana da Day.
«Il comandante Jameson mi ha chiesto di trattenerla.» Giriamo l’angolo e ci dirigiamo verso le scale.
Altri due soldati si uniscono a lui. «Devo farle alcune domande.» Assumo un’aria seccata.
«Ridicolo.
Il comandante non poteva scegliere un momento meno drammatico per questa assurdità?» Thomas non
risponde.
Mi fa strada giù per le scale, due piani più sotto, fino a raggiungere il sotterraneo dove si trovano le
stanze per le esecuzioni, i quadri elettrici e i magazzini. (Ora capisco perché siamo qui. Hanno
scoperto che manca l’elettrobomba che ho dato a Kaede. Di norma l’inventario si fa alla fine del
mese, ma Thomas deve averne ordinato uno stamattina.)
Tengo il panico lontano dalla faccia.APROLIBRO.COM
Concentrati, mi d i c o. Una persona in preda al panico è una
persona morta.
Thomas si ferma in fondo alle scale. Si porta una mano alla cintura e vedo il bagliore del calcio della
sua pistola. «È scomparsa un’elettrobomba.» Le luci che penzolano sulle nostre teste donano al suo
volto delle ombre minacciose. «Me ne sono accorto stamattina presto, dopo aver bussato alla porta
del suo appartamento. Ha detto che era sul tetto la notte scorsa, giusto? Sa niente di questa storia?»
Lo guardo dritto in faccia e incrocio le braccia. «Pensi davvero che sia stata io?»
«Non la sto accusando di niente, June.» La sua espressione si fa tragica, quasi supplichevole, ma la
sua mano non si sposta dalla pistola. «Però ho pensato che fosse una coincidenza piuttosto insolita. A
poche persone è consentito l’accesso quaggiù e più o meno tutti hanno un alibi per ieri notte.»
«Più o meno tutti?» dico in tono abbastanza sarcastico da farlo arrossire. «Suona un po’ vago. Sono
per caso apparsa nei video di sorveglianza? È stato il comandante Jameson a darti questo incarico?»
«Risponda alla domanda, June.» Lo fisso. Lui si ritrae, ma non chiede scusa per il cambio di tono.
«Non sono stata io» dico.
Thomas non sembra convinto.
«Non è stata lei» ripete.
«Che altro posso dirti? Almeno avete controllato l’inventario una seconda volta? Siete sicuri che
manca qualcosa?» Thomas si schiarisce la gola.
«Qualcuno ha manomesso le telecamere, perciò non abbiamo nessuna ripresa.» Tamburella con le
dita sulla pistola. «Un lavoro piuttosto preciso. E quando penso alla precisione, penso a una sola
persona. Lei.» Il cuore prende a battermi più forte.
«Non piace neanche a me questa situazione.» La voce di Thomas si addolcisce. «Ma ho trovato
strano che passasse tutto quel tempo a interrogare Day. Le dispiace per lui?
Ha organizzato qualcosa per...» Non riesce a finire la frase.
All’improvviso un’esplosione fa tremare l’intero corridoio, scaraventandoci contro al muro. Dal
soffitto piovono calcinacci e in aria scoppiettano scintille. (I Patrioti.
L’elettrobomba. Alla fine sono venuti, come da programma, prima che Day entri nel cortile
dell’esecuzione. Il che vuol dire che tutte le armi all’interno dell’edificio dovrebbero essere
disattivate per due minuti esatti. Grazie, Kaede.)
Spingo Thomas contro al muro con tutta la mia forza prima che possa riprendere l’equilibrio. Poi gli
sfilo il coltello dalla cintura, raggiungo il quadro elettrico e tiro via lo sportello. Dietro di me,
Thomas afferra la sua pistola come se si muovesse al rallentatore.
«Fermatela!» Taglio tutti i cavi sotto al quadro elettrico.
Uno scoppio. Una pioggia di scintille.
L’intero sotterraneo piomba nel buio. Sento Thomas che impreca. (Ha scoperto che la sua pistola è
inutilizzabile.)
I soldati inciampano uno addosso all’altro. A tentoni raggiungo in fretta le scale.
«June!» grida Thomas da qualche parte dietro di me. «Non capisce, è per il suo bene!» Le parole mi
escono di bocca con rabbia. «È quello che hai detto anche a Metias?» Non c’è molto tempo prima
che il sistema di emergenza entri in funzione. Non aspetto di sentire la risposta di Thomas. Raggiungo
le scale e le salgo tre alla volta, contando i secondi passati dall’esplosione dell’elettrobomba.
(Finora undici secondi. Centonove secondi prima che le armi tornino a funzionare.)
Spalanco di colpo la porta del primo piano su un mare di caos.
Soldati che si precipitano fuori nella piazza. Rumore di passi che riecheggia ovunque.
Mi faccio strada verso il cortile del plotone. I dettagli mi sfrecciano accanto come un fiume di
pensieri in piena.
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(Mancano novantasette secondi.
Trentatré soldati corrono nella direzione opposta alla mia – dodici nella mia –, alcuni monitor si
sono oscurati – deve essere l’interruzione di corrente –, altri mostrano il pandemonio tra la folla
all’esterno; qualcosa cade nella piazza dal cielo... soldi! I Patrioti stanno riversando denaro nella
piazza dai tetti. Metà della folla sta cercando di uscire dalla piazza, mentre l’altra metà si affanna per
afferrare le banconote.)
Settantadue secondi. Raggiungo il corridoio che porta al cortile e inquadro la scena in un istante: tre
soldati svenuti. John e Day (con una benda che penzola intorno al collo, che devono avergli messo
sugli occhi poco prima che la bomba esplodesse) combattono con un quarto soldato. Gli altri devono
essere stati chiamati a contenere la folla, ma ormai non dovrebbero metterci molto. Torneranno da un
momento all’altro. Arrivo di corsa alle loro spalle e spazzo le gambe del soldato con un calcio. Lui
rovina a terra e John lo colpisce in faccia.
Il soldato sviene.
Sessanta secondi. Day sembra instabile, come se stesse per svenire anche lui. Una guardia deve
averlo colpito alla testa, oppure la gamba gli fa male. Con l’aiuto di John lo sorreggiamo, mentre li
guido in un corridoio più stretto che si dirama dal cortile dell’esecuzione.
Di lì avanziamo verso le uscite. Un secondo dopo la voce del comandante Jameson squilla dagli
interfoni. Sembra furiosa.
«Giustiziatelo! Uccidetelo subito!
Assicuratevi che venga trasmesso in piazza!»
«Dannazione» dice Day a denti stretti. La sua testa oscilla da una parte, i suoi occhi azzurri e
luminosi sembrano spenti e persi nel vuoto.
Scambio uno sguardo con John e continuo ad andare. I soldati staranno tornando. Per trascinare Day
nel cortile.
Ventisette secondi.
Siamo a una settantina di metri dalle uscite. (Stiamo coprendo circa un metro e mezzo al secondo;
ventisette per uno virgola cinque è uguale a quaranta metri e mezzo.
Tra poco più di quaranta metri, le armi saranno riattivate. Riesco già a sentire gli scarponi dei
soldati che pestano sul pavimento nei corridoi più vicini al nostro. Ci servono almeno altri ventitré
secondi per arrivare alle uscite se non vogliamo che ci prendano in questo corridoio.
Ci spareranno molto prima di riuscire a mettere piede fuori.)
Odio i miei calcoli.
John mi lancia un’occhiata. «Non ce la faremo.» Day è caduto in uno stato di incoscienza. Se i fratelli
proseguissero e io tornassi indietro a battermi, probabilmente ne atterrerei un paio prima di essere
sopraffatta.
Ma riuscirebbero comunque a raggiungere John e Day.
John smette di camminare e sento il peso di Day che si sposta tutto su di me. «Cosa...» comincio a
dire, finché non vedo John che sfila la benda dal collo del fratello. Poi si volta. Io sbarro gli occhi.
Lo so cosa vuole fare. «No, rimani con noi!»
«Vi serve altro tempo» dice John.
«Vogliono un’esecuzione?
L’avranno.» Si mette a correre nella direzione da cui siamo venuti, lontano da noi.
Verso il cortile in cui attende il plotone d’esecuzione.
No. No, no, John. Dove stai andando?! Perdo un secondo per voltarmi a guardarlo, combattuta,
domandandomi se devo corrergli dietro.
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John ha deciso di farlo.
In quel momento la testa di Day si adagia sulla mia spalla. Sei secondi. Non ho altra scelta. Anche se
sento le voci dei soldati che gridano alle mie spalle, nel corridoio che porta al cortile, mi impongo di
girarmi e proseguire.
Zero secondi.
Le armi sono riattivate. Noi continuiamo ad andare. Passano altri secondi. Sento un trambusto nei
corridoi dietro di me. Dico a me stessa di non voltarmi a guardare.
Quindi raggiungiamo le uscite, ci precipitiamo in strada e una coppia di soldati ci piomba addosso.
Non ho più forza per battermi, ma ci provo lo stesso. Qualcuno lotta insieme a me e i soldati vanno
giù.
Kaede passa nel mio campo visivo.
«Stanno arrivando!» grida.
«Andiamo via da qui!» Si erano appostati vicino alle uscite posteriori. Proprio come avevamo
pattuito. I Patrioti sono venuti per noi. Vorrei dirgli di aspettare John, ma lo so che non servirebbe a
niente. Ci afferrano e ci conducono alle loro motociclette.
Mi sfilo la pistola dalla cintura e la lancio a terra.
Non posso permettermi che il rilevatore mi rintracci. Day sale su una moto, io su un’altra. Aspettate
John, vorrei dire.
Ma siamo già partiti. Il Palazzo di Batalla si allontana.
DAY
UN LAMPO DI LUCE, l’esplosione di un tuono, il suono della pioggia battente. Da qualche parte in
lontananza il lamento delle sirene anti-alluvione.
Apro gli occhi, e subito li strizzo per l’acqua che ci cade dentro. Per un attimo non riesco a ricordare
niente, neppure il mio nome. Dove sono? Cos’è successo? Sono seduto proprio accanto a una canna
fumaria, bagnato fradicio. Sono sul tetto di un palazzone. La pioggia nasconde il mondo che mi
circonda e il vento soffia attraverso la mia camicia zuppa, minacciando di sollevarmi in aria. Mi
stringo contro la canna fumaria. Quando alzo gli occhi verso il cielo, vedo una distesa infinita di
nuvole corvine che si agitano infuriate, illuminate dai lampi.
Di colpo ricordo. Il plotone d’esecuzione, il corridoio, i monitor.
John.
L’esplosione.
Soldati dappertutto. June. A quest’ora dovrei essere morto, pieno di pallottole.
«Sei sveglio.» Accanto a me, quasi invisibile contro la notte nella sua tenuta nera, c’è June. È seduta
in modo strano, stravaccata contro il muro, incurante della pioggia che le scende sulla faccia. Mi giro
verso di lei. Uno spasmo di dolore mi attraversa la gamba ferita. Le parole mi si attaccano alla lingua
e si rifiutano di uscire.
«Siamo a Valencia. In periferia. I
Patrioti ci hanno portato fin dove hanno potuto.
Loro hanno proseguito per Las Vegas.» Sbatte le palpebre per scrollarsi l’acqua dalle ciglia. «Sei
libero. Lascia la California finché seiAPROLIBRO.COM
in tempo.
Continueranno a cercarci.» Apro e chiudo la bocca. Sto sognando? Mi avvicino rapidamente a lei. Le
sfioro la faccia con la mano. «Cosa... cosa è successo? Tu stai bene? Come hai fatto a farmi uscire
dal Palazzo di Batalla? Lo sanno che mi hai aiutato?» June non fa che fissarmi, come per decidere se
rispondere o meno alle mie domande. Alla fine, lancia un’occhiata verso il bordo del tetto.
«Guarda da te.» Mi sforzo di tirarmi su. Adesso riesco a vedere i jumbo-schermi allineati sulle
pareti dei palazzi.
Avanzo zoppicando fino alla ringhiera e mi affaccio. Siamo sicuramente in periferia. L’edificio su
cui siamo appollaiati è abbandonato e chiuso con assi di legno, e in tutto l’isolato funzionano solo
due jumbo-schermi. Li osservo.
Il titolo che passa mi toglie il respiro.
DANIEL ALTAN WING
GIUSTIZIATO OGGI
Un filmato riepilogativo va in onda subito dopo. Vedo l’immagine di me stesso seduto nella cella.
Guardo la telecamera. Poi il filmato inquadra il cortile, dove il plotone si allinea. Diversi soldati
trascinano un ragazzo che cerca di divincolarsi.
Non ricordo niente di tutto ciò. Il ragazzo è bendato, con le mani legate dietro la schiena. Sembro
proprio io.
Se non fosse per alcuni dettagli che solo io posso notare. Le sue spalle sono leggermente più larghe
delle mie. Cammina fingendo di zoppicare e la sua bocca assomiglia più a quella di mio padre che a
quella di mia madre.
Socchiudo gli occhi a causa della pioggia. Non può essere...
Il ragazzo si ferma al centro del cortile. La sua scorta si volta e torna di corsa da dove è venuta.
Una fila di soldati solleva i fucili e li punta contro di lui. C’è un silenzio orribile, ma breve. Dai
fucili escono fumo e lampi. Vedo il ragazzo sussultare a ogni sparo. Poi torna il silenzio.
Il plotone d’esecuzione esce rapidamente, in fila. Due soldati raccolgono il cadavere del ragazzo e lo
portano via, al forno crematorio.
Mi iniziano a tremare le mani.
Quel ragazzo è John.
Mi volto di scatto verso June. Lei mi guarda in silenzio. «È John!» grido sopra la pioggia. «Quel
ragazzo è John! Che ci faceva lì?» June tace.
Non riesco a riprendere fiato.
Adesso capisco cos’ha fatto. «Non l’hai riportato indietro» trovo la forza di dire. «Ci hai scambiati.»
«Non sono stata io» mi risponde.
«È stato lui.» Torno da lei zoppicando, la afferro per le spalle e la sbatto con la schiena contro al
muro. «Dimmi cos’è successo. Perché l’ha fatto?» grido. «Toccava a me!» June urla di dolore e mi
rendo conto che è ferita. Ha uno squarcio profondo sulla spalla che le macchia la camicia di sangue.
Cosa sto facendo, perché le urlo addosso?
Strappo una striscia di stoffa dalla mia camicia e le fascio la ferita come farebbe Tess. Stringo la
stoffa e la annodo. June chiude gli occhi.
«Non è poi così grave» mente.
«Un proiettile di striscio.»
«Sei ferita da qualche altra parte?» Le passo la mano lungo l’altro braccio, poi le tocco
delicatamente la vita e le gambe. APROLIBRO.COM
Sta tremando.
«Credo di no» mi risponde. «Sto bene.» Quando le sistemo le ciocche bagnate dietro le orecchie,
alza gli occhi su di me. «Day... non è andata secondo il mio piano.
Volevo portare fuori tutti e due.
Avrei potuto farlo. Ma...» L’immagine del corpo senza vita di John mostrata sul jumboschermo mi fa
girare la testa.
Respiro a fondo. «Cos’è successo?»
«Non c’era abbastanza tempo.» June fa una pausa. «Così John è tornato indietro. Ci ha dato altro
tempo tornando nel corridoio.
Hanno creduto che fossi tu. Si è messo al collo la tua benda. Lo hanno preso e l’hanno riportato
davanti al plotone.» Scuote di nuovo la testa. «Ma a quest’ora la Repubblica si sarà accorta dello
sbaglio. Devi scappare, Day. Finché sei in tempo.» Mi scendono le lacrime sulle guance.
Non m’importa.
Mi inginocchio di fronte a June e mi afferro la testa con entrambe le mani, poi mi accascio a terra.
Niente ha più senso. Probabilmente mio fratello si stava preoccupando per me, mentre io me ne stavo
nella mia cella a compiangermi.
John mi ha sempre messo al primo posto.
«Non avrebbe dovuto farlo» sussurro. «Non lo merito.» June mi posa una mano sulla testa. «Sapeva
quello che stava facendo, Day.» Anche nei suoi occhi compaiono le lacrime. «Qualcuno deve salvare
Eden, perciò John ha salvato te. Come avrebbe fatto qualsiasi fratello.» I suoi occhi bruciano nei
miei.
Restiamo lì, immobili sotto la pioggia.
Sembra un’eternità.
Ricordo la notte in cui è iniziato tutto, la notte in cui ho visto i soldati marcare la porta di mia madre.
Se non fossi andato in quell’ospedale, se non avessi incrociato il cammino del fratello di June, se
avessi trovato una cura per il morbo da qualche altra parte... le cose sarebbero andate diversamente?
Mia madre e John sarebbero ancora vivi?
Eden sarebbe al sicuro?
Non lo so.
Sono troppo spaventato per soffermarmi su questo pensiero.
«Hai rinunciato a tutto.» Porto una mano verso il suo volto, per toglierle la pioggia dalle ciglia. «La
tua vita, quello in cui credi... Perché hai fatto tutto questo per me?» June non è mai stata più bella di
così, disadorna e onesta, vulnerabile eppure invincibile.
Quando i lampi illuminano il cielo, i suoi occhi brillano come oro.
«Perché avevi ragione» sussurra.
«Su tutto.» La tiro verso di me per abbracciarla e lei mi asciuga una lacrima dalla guancia e mi
bacia.
Poi affonda la testa sulla mia spalla e io mi abbandono al pianto.
APROLIBRO.COM
JUNE
TRE GIORNI DOPO.
BARSTOW, CALIFORNIA.
ORE 23.40. 11 °C.
L’URAGANO EVONIA FINALMENTE HA INIZIATO A PLACARSI, ma la pioggia, pesante e
fredda, continua a scendere a scrosci. Il cielo si agita infuriato. Al di sotto di tutto questo, il solitario
jumbo-schermo di Barstow trasmette le notizie che arrivano da Los Angeles.
ORDINATA EVACUAZIONE PER: ZEIN, GRIFFITH, WINTER, FOREST.
SI RICHIEDE A TUTTI I CITTADINI DI LOS ANGELES DI CERCARE RIPARO A UN’ALTEZZA
MINIMA DI CINQUE PIANI. QUARANTENA TERMINATA NEI SETTORI LAKE E WINTER.
REPUBBLICA VINCE BATTAGLIA DECISIVA CONTRO LE COLONIE A MADISON,
DAKOTA. LOS ANGELES DICHIARA CACCIA APERTA AI RIBELLI PATRIOTI. DANIEL
ALTAN WING GIUSTIZIATO DIC.26
Ovvio che la Repubblica abbia annunciato l’avvenuta esecuzione di Day. Anche se lui e io sappiamo
che non è così. Per le strade e nei vicoli già circolano le voci che Day sia scampato alla morte
ancora una volta. Con l’aiuto di un giovane soldato della Repubblica. Ma le voci rimangono voci,
perché nessuno vuole attirare l’attenzione del Governo. Eppure. Continuano a parlare.
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Barstow, assai più calma di Los Angeles,
è comunque piuttosto popolosa. E qui la polizia non ci
starà cercando come nella metropoli. Si tratta di una città ferroviaria, piena di edifici in rovina.
Il posto ideale in cui nasconderci.
Avrei voluto portare Ollie con noi, se solo il comandante Jameson non avesse anticipato di un giorno
l’esecuzione. Avrei voluto farlo uscire dall’appartamento, nasconderlo in un vicolo per poi tornarlo
a prendere. Adesso è troppo tardi. Che gli faranno? Il pensiero di Ollie, solo e spaventato, che
abbaia ai soldati che irrompono nell’appartamento mi fa venire un groppo in gola. È l’unica cosa che
mi resta di Metias.
Ora Day e io avanziamo a fatica sotto la pioggia fino al deposito locomotive in cui ci accamperemo.
Sto attenta a rimanere nell’ombra, anche in questa notte di tempesta.
Day ha un berretto calato sugli occhi. Io ho infilato i capelli nel colletto della camicia e avvolto una
sciarpa – ormai zuppa – intorno alla metà inferiore della faccia. Per il momento è tutto quello che
possiamo fare per camuffarci. Il deposito è pieno di vecchie locomotive arrugginite dal tempo.
Ce ne sono ventisei, contando il vagone di servizio di un treno merci senza mezza fiancata, tutte della
Union Pacific. Devo piegarmi in avanti per non farmi gettare a terra dal vento. La pioggia mi punge la
spalla ferita. Nessuno di noi dice una parola.
Quando finalmente raggiungiamo un vagone vuoto (un carro tramoggia di quaranta metri quadri con
due portelloni scorrevoli, uno bloccato dalla ruggine, l’altro aperto per metà; progettato per il
trasporto di materie prime), nascosto dietro altri tre in fondo al deposito, ci arrampichiamo dentro e
ci sistemiamo in un angolo.
Inaspettatamente pulito.
Abbastanza caldo.
Cosa più importante, asciutto.
Day si sfila il berretto e si strizza i capelli. Però si vede che la gamba gli fa male. «Le sirene
antialluvione sono ancora attive: buono a sapersi.» Annuisco.
«Sarà dura per qualsiasi pattuglia trovarci con questo tempo.» Mi fermo a guardarlo. Perfino adesso,
esausto e a pezzi e completamente bagnato, mantiene una specie di grazia indomita.
«Che c’è?» Smette di strizzarsi i capelli.
Alzo le spalle. «Hai un aspetto terribile.» Questo lo fa sorridere, ma subito torna serio. Il senso di
colpa torna a farsi sentire. Io mi cucio la bocca.
Non posso biasimarlo.
«Appena smette di piovere,» mi dice «voglio muovermi verso Las Vegas. Voglio trovare Tess e
assicurarmi che sia al sicuro con i Patrioti prima di avanzare verso il fronte e cercare Eden. Non
posso abbandonarla così. Ho bisogno di sapere che sta meglio con loro che con noi.» È come se
cercasse di convincermi che sia la cosa migliore da fare. «Non sei tenuta a venire.
Prendi un’altra strada e aspettami al fronte. Possiamo concordare un posto in cui trovarci. Meglio
non correre il rischio insieme.» Vorrei dire a Day che è una follia andare in una città militare come
Las Vegas, ma non lo faccio. Riesco solo a vedere le spallucce curve di Tess e i suoi occhioni
spalancati. Ha già perso sua madre. Suo fratello.
Non può perdere anche lei. «Devi andare a cercarla» gli dico. «E non devi convincermi di niente.
Però vengo con te.» Day aggrotta le sopracciglia.
«No, tu non vieni.»
«Ti serve qualcuno che ti copra le spalle. Ragiona. Se dovesse succederti qualcosa, come farei a
sapere che sei nei guai?» Day mi guarda. Anche al buio, non riesco a togliergli gli occhi di dosso. La
pioggia gli ha ripulito il viso. La ciocca sporca di sangue è sparita. Resta solo qualche livido.
Sembra un angelo, anche se uno caduto.
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Volto la faccia per l’imbarazzo.
«Non voglio che tu vada solo.» Day sospira. «Va bene. Andremo al fronte e scopriremo dove si trova
Eden, poi attraverseremo il confine.
Probabilmente le Colonie ci accoglieranno, potrebbero persino aiutarci.» Le Colonie. Fino a non
molto tempo fa sembravano il peggior nemico al mondo. «Okay.» Day si piega verso di me. Allunga
una mano e mi sfiora la faccia. Le dita devono fargli ancora male, visto che ha le unghie pestate. «Sei
eccezionale,» mi dice «ma sei anche pazza a rimanere con uno come me.» Chiudo gli occhi al tocco
della sua mano. «Allora siamo pazzi tutti e due.» Mi tira a sé. Mi bacia prima che possa dire altro.
La sua bocca è calda e morbida, e quando mi bacia più forte gli stringo le braccia intorno al collo e
lo bacio anch’io. In questo momento non m’importa del dolore alla spalla. Non m’importa se i soldati
dovessero trovarci e trascinarci via. Non voglio essere da nessun’altra parte. Voglio restare qui, al
sicuro, vicina al corpo di Day, stretta nel suo abbraccio.
«È strano...» dico dopo a Day, mentre siamo rannicchiati insieme sul pavimento. Fuori l’uragano
impazza. Tra qualche ora dovremo metterci in marcia. «È strano essere qui con te. Ti conosco
appena.
Eppure... a volte ho la sensazione che siamo la stessa persona nata in due mondi diversi.» Rimane in
silenzio per un momento, giocando distrattamente con i miei capelli. «Mi chiedo come saremmo stati
se io fossi nato in una vita come la tua e tu nella mia.
Saremmo esattamente come siamo adesso? Sarei uno dei soldati di punta della Repubblica? E tu
saresti comunque un famoso criminale?» Sollevo la testa dalla sua spalla e lo guardo. «Non ti ho mai
chiesto del tuo soprannome.
Perché “Day”?»
«Ogni giorno significa altre ventiquattro ore. Ogni giorno è tutto di nuovo possibile. Si vive alla
giornata, si muore in un momento, ogni cosa va presa un giorno alla volta.» Sposta lo sguardo verso
il portellone aperto del vagone, dove una coltre di acqua scura cela il mondo.
«Bisogna cercare di camminare nella luce.» Chiudo gli occhi e penso a Metias, a tutti i miei ricordi
preferiti e anche a quelli che preferirei dimenticare, e lo immagino immerso nella luce del sole.
Nella mia testa, mi giro verso mio fratello e gli rivolgo un ultimo saluto. Un giorno ci rivedremo e ci
racconteremo le nostre storie... ma per adesso lo metto al sicuro sotto chiave, in un posto da cui
posso attingere alla sua forza. Quando riapro gli occhi, Day mi sta fissando.
Non sa cosa sto pensando, ma so che riconosce l’emozione sul mio volto.
Rimaniamo stesi lì, a osservare i lampi e ascoltare i tuoni, in attesa dell’alba piovosa di un nuovo
giorno.
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RINGRAZIAMENTI
OGNI VOLTA CHE SFOGLIO LEGEND, mi torna in mente la versione quattordicenne di me stessa,
che scrive fino all’alba alla luce di una lampada, incurante che l’indomani c’è scuola e beatamente
ignara di quanto sarebbe stata lunga la strada per la pubblicazione. Adesso lo so quante persone
occorrono perché un libro veda la luce e l’enorme differenza che fa il loro duro lavoro. A voi tutti va
la mia più profonda gratitudine: Al mio agente letterario, Kristin Nelson, per essere stata la prima ad
avermi presa a bordo con un manoscritto che nessuno voleva e poi per non aver mai dubitato di me
mentre scrivevo, nonché per le sue brillanti intuizioni che hanno reso Legend quello che è adesso.
Non sarei qui senza di te.
Al meraviglioso staff della Nelson Literary Agency per non aver trascurato alcun dettaglio: Lindsay
Mergens, Anita Mumm, Angie Rasmussen e Sara Megibow.
Al mio editor straordinario, Jen Besser, per aver rifinito Legend donando alla storia una lucentezza
che non avrei potuto ottenere da sola. Sono così fortunata di averti al mio fianco!
All’incredibile squadra della Putnam Children’s e della Penguin Young Readers che ha abbracciato
Legend con estrema passione e mi ha trattato come una principessa: Don Weisberg, Jen Loja, Shauna
Fay, Ari Lewin, Cecilia Yung, Marikka Tamura, Cindy Howle, Rob Ferren, Linda McCarthy, Theresa
Evangelista, Emily Romero, Erin Dempsey, Shanta Newlin, Casey McIntyre, Erin Gallagher, Mia
Garcia, Lisa Kelly e Courtney Wood, e tutti gli editori stranieri che hanno preso Legend sotto la
propria ala protettrice.
Al mio incredibile agente dello spettacolo, Kassie Evashevski, per aver trovato a Legend la miglior
casa di produzione, e alla Temple Hill Entertainment e CBS Film per essere la casa di produzione
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appena citata. Isaac Klausner, Wyck
Godfrey, Marty Bowen, Grey Munford, Ally Mielnicki,
Wolfgang Hammer, Amy Baer, Jonathan Levine, Andrew Barrer e Gabe Ferrari: siete stupendi.
Un ringraziamento speciale a Wayne Alexander per aver prestato a Legend la sua favolosa esperienza
in materia di contratti.
A Kami Garcia e Sarah Rees Brenna per aver sottratto tempo alle loro vite incredibilmente
impegnate e di talento per offrire a una scrittrice agli esordi due straordinari soffietti editoriali. A JJ,
Cindy Pon, Malinda Lo e Ellen Oh per i vostri impagabili consigli, le parole di incoraggiamento e
l’intrattenimento su Twitter.
A Paul Gregory per aver avermi reso presentabile, con la sua magia, nella foto dell’autrice. Ai miei
compagni di deviantArt, che dal 2002 mi hanno aiutato a coltivare la mia creatività con il loro
incoraggiamento e supporto. Alla mia famiglia e ai miei amici per esserci sempre stati (e per tutto il
cibo delizioso).
E soprattutto a Primo Gallanosa, che ha visto Legend nella sua forma embrionale (due frasi
sconnesse), mi ha lasciato prendere in prestito la sua personalità per Day e il suo nome per il
malvagio dittatore della Repubblica, ha suggerito che June fosse una ragazza e mi ha ascoltato giorno
e notte, assecondando le mie paure, la mia eccitazione, la mia tristezza e la mia gioia. Ti amo.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo
ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni
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distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni
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acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di
consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata
e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.
www.edizpiemme.it Legend di Marie Lu Titolo originale dell’opera: Legend Copyright © 2011 by
Xiwei Lu. All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. This
edition published by arrangement with G.
P. Putnam’s Sons, a division of Penguin Young Readers Group, a member of Penguin Group (USA).
© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano Ebook ISBN 9788858510261
COPERTINA || COPERTINA: SILVIA
FUSETTI | ART DIRECTOR: CECILIA
FLEGENHEIMER
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