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RAINBOW SIX
Ex componente del reparti speciali della Marina USA, ispiratore di audaci
operazioni segrete, ex agente della CIA, amico del presidente degli Stati Uniti, John
Clark è "l'altra faccia di Jack Ryan", l'uomo che conduce le missioni più riservate,
quelle in cui Ryan non può ufficialmente comparire. Protagonista della caccia ai
signori della guerra in Giappone, ai boss della droga in Colombia, ai terroristi
nucleari negli Stati Uniti, è un uomo d'azione spietato e tuttavia è anche un essere
tormentato, continuamente ossessionato dai demoni che scaturiscono dal suo
passato: demoni che deve in qualche modo esorcizzare se non vuole esserne
sopraffatto. Tuttavia nulla è più demoniaco del pericolo che si trova ad affrontare in
Rainbow Six. Posto a capo di un'organizzazione antiterroristica supersegreta
chiamata Rainbow - una task force multinazionale - Clark, il cui nome in codice è
Rainbow Six, deve garantire che gli agenti a sua disposizione siano perfettamente
addestrati e pronti a intervenire in qualsiasi momento. Ma smania dal desiderio di
lanciarsi in una nuova missione. E l'opportunità gli si presenta ben presto, molto
prima di quanto lui stesso abbia previsto. Un fallito dirottamento su un volo per
Londra, un assalto a una banca svizzera, il rapimento di un finanziere internazionale
in Germania, un raid sanguinoso in un parco divertimenti spagnolo dove vengono
presi in ostaggio molti bambini: fiammate di violenza improvvise susseguitesi
rapidamente nello spazio di breve tempo, ognuna caratterizzata da modalità
differenti. John Clark è preoccupato. Possibile che non ci sia un legame tra queste
azioni? Qualcuno sta forse cercando di metterlo alla prova? Con l'aiuto dei suoi più
stretti collaboratori, Il vicecomandante Alistair Stanley e i leader dello strike team,
Domingo Chavez e Peter Covington, Clark cerca di indagare sui motivi dell'improvvisa recrudescenza terroristica. Ma all'inizio non c'è nessuno che gli fornisca
una spiegazione; poi, all'improvviso, la minaccia assume contorni precisi: un gruppo
di criminali armati quale non si era mai visto prima, uomini e donne feroci e
determinati che agiscono nel nome della Natura e il cui successo potrebbe
significare la distruzione totale dell'umanità, l'ultima, catastrofica apocalisse. Thriller
appassionante che a una trama condotta sul filo di un ritmo spasmodico unisce quel
realismo e quell'autenticità che sono il marchio di fabbrica di Tom Clancy, Rainbow
Six - best seller Numero Uno in America - anticipa con straordinaria efficacia eventi
e scenari più che probabili all'inizio del Terzo Millennio.
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TOM CLANCY
Tom Clancy è nato a Baltimora. È diventato celebre grazie a La grande fuga
dell'Ottobre Rosso, il suo primo romanzo scritto nel 1984 e divenuto un best seller
mondiale. In seguito ha pubblicato Uragano Rosso, Attentato alla corte
d'Inghilterra, Il Cardinale del Cremlino, Pericolo imminente, Paura senza limite,
Senza rimorso, Debito d'onore, Potere esecutivo e la serie Op-Center (in
collaborazione con Steve Pieczenik). Vive nel Maryland.
In sovraccoperta:
foto © Agenzia Granata Press Service
Titolo originale dell'opera:
RAINBOW SIX
Traduzione di:
Marian Wilson Croce,
Orietta Putignano e Paolo Valpolini
Questo romanzo è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi o avvenimenti
sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autore o, se reali, sono utilizzati in modo
fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone è del tutto casuale.
© 1998 by Rubicon Inc.
© 1999 RCS Libri S.p.A., Milano
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano su licenza RCS Libri S.p.A., Milano
Per Alexandra Maria
luce della mia vita.
Non c'è possibilità di accordo
fra leoni e uomini e c'è inimicizia
fra lupi e agnelli.
OMERO
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PROLOGO
LA PREPARAZIONE
John Clark aveva passato più ore sugli aerei della maggior parte dei
piloti professionisti e conosceva le statistiche quanto loro, ma non gli
andava ancora giù l'idea di attraversare l'oceano su un bireattore. Quattro
era, secondo lui, il numero giusto di motori, perché perderne uno
significava perdere solo il venticinque per cento della potenza
disponibile, mentre su questo Boeing 777 della United significava
perderne la metà. Forse era la presenza della moglie, di una figlia e di un
genero a renderlo un po' più teso del solito? No, non era teso, almeno
non per il fatto di volare. Vicino a lui, nel sedile accanto al finestrino,
Sandy era immersa nella lettura del libro giallo che aveva iniziato il
giorno prima, mentre lui cercava di concentrarsi sull'ultimo numero
dell'Economist e si chiedeva a che cosa fosse dovuta quella sensazione di
aria gelata che sentiva sulla nuca. Cominciò a guardarsi intorno nella
cabina alla ricerca di qualche segno di pericolo, ma non riuscì a trovare
niente di anomalo e si tranquillizzò; non voleva apparire agli occhi dell'equipaggio come un viaggiatore ansioso. Sorseggiò un po' di vino
bianco, scrollò le spalle e ritornò all'articolo che spiegava quanto
fosse pacifico il nuovo mondo.
Giusto. Fece una smorfia. Sì, era costretto ad ammetterlo, le cose
stavano andando maledettamente meglio di quanto non fosse accaduto in
tutta la sua vita. Non doveva più uscire a nuoto da un sottomarino per
effettuare un "prelevamento" su una spiaggia russa o volare a Teheran
per fare qualcosa che gli iraniani non gradivano granché o risalire a
nuoto un fiume puzzolente nel Vietnam del Nord per recuperare un
pilota abbattuto. Un giorno, forse, Bob Holtzman lo avrebbe
intervistato per scrivere un libro sulla sua vita. Il problema era: chi
avrebbe creduto a tutte quelle storie e la CIA gli avrebbe mai dato il
permesso di raccontarle se non sul letto di morte? Per quello non aveva
fretta, soprattutto non con un nipotino in arrivo. Patsy doveva essere
stata particolarmente ricettiva quella prima notte di nozze e Ding era al
settimo cielo. John guardò indietro verso la business class, dato che le
tendine non erano ancora state tirate; eccoli là, mano nella mano mentre la
hostess forniva le solite indicazioni sulle procedure di sicurezza. Se
l'aereo ammara a 400 nodi, afferrare sotto il sedile il salvagente e gonfiarlo
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tirando... l'aveva già sentito molte altre volte. Il giubbotto salvagente
era giallo brillante per rendere più facile ai mezzi di soccorso la
ricerca del punto d'impatto, ma in pratica non serviva ad altro.
Clark si guardò intorno ancora una volta. Continuava a sentire quel
soffio gelido sul collo. Perché? L'assistente di volo fece il suo giro, gli
portò via il bicchiere di vino mentre l'aereo rullava fino alla testata pista
e si fermò di fianco ad Alistair, sul lato sinistro del settore di prima classe.
Clark ne incrociò lo sguardo e notò un'espressione buffa mentre l'inglese
spostava lo schienale del sedile in posizione verticale. Anche lui? Non
voleva dire qualcosa? Nessuno dei due aveva mai stato accusato
nervosismo al decollo.
Alistair Stanley era stato maggiore nello Special Air Service (SAS)
prima di essere trasferito ai servizi segreti. La sua posizione era stata
molto simile a quella di John, gente che viene chiamata a occuparsi dei
problemi quando gentiluomini della divisione operativa diventano un po'
troppo nervosi. Al e John erano entrati subito in sintonia durante una
missione in Romania otto anni prima e l'americano era contento di
lavorare ancora con lui, anche se ormai erano entrambi troppo anziani per
i vecchi divertimenti. L'amministrazione non corrispondeva proprio
all'idea che John si era fatto dell'incarico che avrebbe dovuto svolgere,
ma doveva ammettere di non avere più vent'anni... o trenta... e nemmeno
quaranta. Non aveva più l'età per correre lungo i vicoli e saltare i muri...
Ding glielo aveva ribadito una settimana prima nel suo ufficio a Langley,
con un po' più di riguardo del solito, dato che cercava di dimostrarsi
premuroso verso il futuro nonno del suo primo figlio. Accidenti, si disse
Clark, era già tanto che fosse ancora vivo per lagnarsi di essere vecchio,
no, non vecchio, solo più vecchio. E poi adesso era una persona
rispettabile come direttore della nuova organizzazione. Direttore. Un
eufemismo per figlio di puttana. Ma non si dice "no" al presidente,
soprattutto se si tratta di un amico.
Il rumore dei motori aumentò. Il grosso bireattore iniziò a
muoversi. Sopraggiunse la solita sensazione di essere premuto indietro,
come contro il sedile di un'auto sportiva che scatta in avanti appena il
semaforo diventa verde, ma con ancora maggior forza. Sandy, che non
aveva quasi mai viaggiato, non sollevò lo sguardo dal libro; doveva avere
una trama avvincente, anche se a John non erano mai piaciuti i romanzi
polizieschi. Non riusciva a risolverli prima dell'ultima pagina, e questo lo
faceva sentire un po' stupido, anche se nella vita professionale aveva
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dovuto più di una volta risolvere veri e propri gialli. Una vocina in testa
diceva decollo e il pavimento gli si sollevò sotto i piedi. La fusoliera del
bireattore seguì la prua nel cielo e il volo iniziò in modo normale, con
il carrello che rientrava nel suo alloggiamento. Subito, tutti abbassarono i
sedili per dormire un po' durante la traversata dell'Atlantico fino
all'aeroporto londinese di Heathrow. Anche John abbassò il suo, ma non
del tutto; voleva prima cenare.
«Siamo in viaggio, caro», osservò Sandy interrompendo un attimo la
lettura.
«Spero ti piacerà laggiù.»
«Ho tre libri di cucina per quando avrò finito questo.»
John sorrise. «Chi è stato?»
«Non sono ancora sicura, ma probabilmente la moglie.»
«Certo, gli avvocati divorzisti costano un occhio.»
Sandy fece una risatina e ritornò alla sua storia mentre il personale di
bordo ricominciava a servire le bevande. Clark finì l'Economist e passò a
Sports Illustrated. Dannazione, si stava perdendo la fine del campionato
di football. Era una cosa che aveva sempre cercato di seguire anche in
missione. I Bears si stavano riprendendo e lui, che era cresciuto con
Papa Bear George Halas e i Monsters del Midway, sì era spesso
domandato se avrebbe potuto diventare un professionista. Era stato un
giocatore abbastanza bravo alle superiori e l'università dell'Indiana aveva
mostrato un certo interesse per lui (anche come nuotatore). Poi aveva
deciso di rinunciare al college e di entrare in marina, come aveva fatto suo
padre prima di lui, anche se Clark era diventato un SEAL, invece di un
marinaio su una vecchia tinozza...
«Signor Clark?» L'assistente di volo consegnò il menu per la cena.
«Signora Clark?»
Una cosa bella della prima classe era che l'equipaggio faceva finta di
riconoscerti. John aveva ottenuto automaticamente un passaggio di
classe, era un passeggero abituale e d'ora in poi avrebbe volato
soprattutto con British Airways, che aveva ottimi rapporti con il governo
di Londra.
Il menu era abbastanza buono, come sempre sui voli internazionali, e
altrettanto lo era la lista dei vini... ma decise di ordinare soltanto una
bottiglia di acqua minerale. Si mise comodo e si rimboccò le maniche
della camicia. Questi dannati voli gli sembravano sempre troppo caldi.
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Poi fece la sua comparsa il comandante Will Garnet, interrompendo i
film che ognuno guardava sul proprio minischermo. Stavano prendendo
una rotta a sud per approfittare delle correnti a getto in alta quota, il che,
spiegò, avrebbe accorciato il tempo di volo per Heathrow di quaranta
minuti. Non disse che ci sarebbe stato anche qualche scossone. Le
compagnie aeree cercano di risparmiare carburante e alcune decine di
minuti in meno avrebbero significato una stella d'oro nel suo rapporto
di fine anno... forse solo una stella d'argento.
Le solite sensazioni. L'aereo s'inclinò leggermente sulla destra quando
passò sopra l'oceano in corrispondenza di Sea Isle City nel New Jersey
per il volo di 4.500 chilometri fino al prossimo atterraggio, in qualche
punto della costa irlandese che, pensò John, avrebbero raggiunto in circa
cinque ore e mezzo. Doveva dormire, almeno un po'. Cominciarono a
servire la cena. Stavano facendo lo stesso là dietro, in classe turistica,
con i carrelli delle bevande e della cena che bloccavano i corridoi.
Tutto cominciò sul lato sinistro del velivolo. L'uomo era vestito in
modo normale, con la giacca. Fu questo particolare che attirò subito
l'attenzione di John: quasi tutti se la toglievano prima di sedersi. Subito
dopo vide una Browning Automatic nero opaca, caratteristica dei reparti
militari. Un istante dopo, altri due uomini fecero la loro comparsa sul
lato destro camminando proprio vicino al posto di Clark.
«Oh, merda», disse talmente adagio da farsi sentire soltanto da Sandy.
Lei si voltò a guardare, ma prima che potesse fare o dire qualcosa, lui le
afferrò la mano. Questo bastò a tenerla ferma, ma non a impedire alla
signora al di là del corridoio di volare, o quasi, dato che la donna al suo
fianco le coprì la bocca con la mano e soffocò quasi del tutto il grido. La
hostess guardò incredula i due uomini che aveva davanti. Non accadeva
da anni. Come poteva succedere ora?
Clark si poneva più o meno la stessa domanda, seguita da un'altra:
perché diavolo aveva messo l'arma nella borsa da viaggio che aveva
chiuso lassù nel vano portabagagli? A cosa serve avere una pistola su un
aereo, idiota che non sei altro, se non puoi prenderla? Uno stupido
errore da pivello! Non aveva che da guardare sulla sinistra per notare la
stessa espressione sul viso di Alistair. Due dei professionisti più esperti
in circolazione, con le pistole a meno di un metro di distanza, ma era
come averle in stiva.
«John...»
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«Stai tranquilla, Sandy», le rispose il marito con calma. Più facile a
dirsi che a farsi, lo sapeva bene.
John si tirò indietro, tenendo la testa immobile, ma ruotando lo
sguardo dal finestrino verso il corridoio. I suoi occhi si muovevano
velocemente. Erano tre. Uno, forse il capo, spingeva una hostess verso la
parte anteriore dell'aereo e le fece aprire la porta della cabina di
pilotaggio. John vide gli altri due seguirli e chiudere la porta dietro di
loro. Ora il comandante Garnet avrebbe scoperto che cosa stava
accadendo. Era auspicabile che fosse un professionista, addestrato a dire
signorsì, signornò, tutto-quello-che-vuole-signore a chiunque gli si
avvicinasse con una pistola. Meglio ancora se aveva prestato servizio in
aeronautica o in marina perché con ogni probabilità non avrebbe tentato
nessun gesto inutilmente eroico. Doveva solo portare il grosso bireattore a
terra, in qualche modo, da qualche parte.
Erano tre e uno di loro controllava la cabina di comando. Sarebbe
rimasto lì per tenere d'occhio i piloti e utilizzare la radio per
comunicare a qualcuno con cui voleva parlare quali erano le loro
richieste. Gli altri due in prima classe, lì in piedi, davanti, dove
potevano sorvegliare entrambi i corridoi del bireattore a fusoliera larga.
«Signore e signori, vi parla il comandante. Ho acceso il segnale di
allacciare le cinture. Ci sarà un po' di turbolenza. Vi prego di restare per il
momento seduti ai vostri posti. Ci sentiamo fra qualche minuto. Grazie.»
Tutto bene o quasi, pensò John, incrociando lo sguardo di Alistair.
Il comandante appariva calmo e, per ora, i cattivi non si comportavano da
folli. I passeggeri delle file verso la coda forse non sapevano ancora
quello che stava succedendo. Bene anche questo. Può diffondersi il
panico... magari no, non sempre, ma tanto meglio se nessuno si rende
conto della gravità della situazione.
Erano tre. Solo tre? Poteva esserci un altro uomo pronto a intervenire,
confuso tra i passeggeri? Era quello con la bomba che, se c'era,
rappresentava l'elemento più pericoloso? Una pallottola poteva fare un
buco nella fusoliera del velivolo, provocare un'improvvisa perdita di
pressurizzazione e una conseguente brusca picchiata, che avrebbe fatto
riempire alcuni sacchetti e sporcato qualche vestito, ma nessuno sarebbe
morto. Probabilmente una bomba avrebbe invece ucciso tutti, era una
scommessa più che scontata, pensò Clark, e lui non era invecchiato
correndo quel genere di rischi quando poteva farne a meno. Forse bastava
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lasciare che l'aereo andasse dove diavolo volevano quei tre e avviare le
trattative; solo allora i passeggeri avrebbero saputo di avere come
compagni di viaggio tre persone molto speciali. I cattivi si sarebbero
inseriti sulla frequenza radio della compagnia aerea e avrebbero
comunicato le brutte notizie del giorno; il responsabile della sicurezza
della United, Pete Fleming, ex viceassistente del direttore dell'FBI,
avrebbe chiamato la sua vecchia agenzia e avviato i contatti. Sarebbero
stati allertati la CIA, il governo, l'unità dell'FBI specializzata nella
liberazione di ostaggi (nota con la sigla HRT, Hostage Rescue Team) a
Quantico e la Delta Force del colonnello Little Willie Byron a Fort Bragg.
Fleming, vecchia conoscenza di Clark, avrebbe comunicato anche la
lista dei passeggeri, con tre di loro cerchiati in rosso, e ciò avrebbe reso
Willie un po' nervoso; inoltre avrebbe fatto chiedere al personale di
Langley e al dipartimento di Stato se c'era stata una fuga di notizie.
John scartò questa eventualità. Si trattava di un fatto casuale che avrebbe
solo creato un po' di scompiglio nella sala situazioni di Langley.
Forse.
Era il momento di cominciare a muoversi. Clark girò la testa molto
lentamente verso Domingo Chavez, lontano non più di sei metri.
Quando i loro sguardi si incrociarono, si toccò la punta del naso, come
per grattarselo. Chavez fece lo stesso... e Ding indossava ancora la
giacca. Era più abituato al caldo, pensò John, e forse sentiva freddo
sull'aereo. Bene. Aveva ancora a portata di mano la sua Beretta calibro
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scomodo per uno seduto con le cinture allacciate. In ogni caso, Chavez
sapeva che cosa stava accadendo ed ebbe il buon senso di non fare
nulla... per il momento. Come avrebbe potuto reagire Ding con la moglie
incinta seduta al suo fianco? Domingo era sveglio e freddo più di
quanto Clark avrebbe mai potuto desiderare, ma nelle vene aveva sangue
latino, un uomo di grandi passioni, e anche John Clark, con tutta la sua
esperienza, vedeva negli altri difetti che in se stesso trovava perfettamente
normali. Lui aveva sua moglie seduta vicino e Sandy era terrorizzata. Non
avrebbe dovuto essere preoccupata per la propria sicurezza... era uno dei
compiti del marito assicurare l'incolumità della moglie.
Uno dei cattivi stava passando in rassegna la lista dei passeggeri. John
avrebbe saputo se c'era stata qualche fuga di notizie, ma in ogni caso
non avrebbe potuto farci niente. Non ancora. Qualche volta si deve
solo restare seduti e aspettare.
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Il tipo all'inizio del corridoio di sinistra cominciò a spostarsi e dopo
poco più di quattro metri si mise a osservare la donna seduta vicino al
finestrino accanto ad Alistair.
«Chi è lei?» chiese in spagnolo.
La donna rispose con un nome che John non capì; un nome spagnolo,
ma da una distanza di sei metri non riuscì a sentirlo con sufficiente
chiarezza, soprattutto perché la risposta era stata tranquilla, gentile... da
persona colta, pensò. Forse la moglie di un diplomatico? Alistair era
appoggiato allo schienale e guardava con gli occhi blu spalancati verso
l'individuo con la pistola, cercando un po' troppo ostentatamente di non
mostrare paura.
Dal fondo dell'aereo esplose un urlo. «Una pistola, è una pistola!»
gridò la voce di un uomo.
Merda, pensò John. Ora l'avrebbero saputo tutti. Il tipo del corridoio di
destra picchiò alla porta della cabina di pilotaggio e infilò la testa per
annunciare la bella notizia.
«Signore e signori... è il comandante Garnet... ho avuto istruzioni di
comunicarvi che ci stiamo allontanando dal nostro piano di volo...
noi... abbiamo a bordo degli ospiti che mi hanno ordinato di far rotta
verso Lajes nelle Azzorre. Affermano di non aver nessuna intenzione di
far del male a qualcuno, ma sono armati e il primo ufficiale Renford e
io faremo esattamente ciò che dicono. Siete pregati di restare calmi e
rimanere ai vostri posti. Ci sentiremo più tardi.» Buona notizia. Doveva
aver ricevuto un addestramento militare; la sua voce era fredda come il
fumo del ghiaccio secco.
Lajes, nell'isola di Terceira, pensò Clark. Un'ex base della marina
americana... ancora operativa? Forse mantenuta in efficienza solo per i
lunghi voli transatlantici, come scalo e punto di rifornimento per
proseguire verso altre destinazioni? Il tipo di sinistra aveva parlato in
spagnolo e gli era stato risposto in spagnolo. Forse non si trattava di
mediorientali. Parlavano spagnolo... baschi? Rappresentavano ancora un
problema in Spagna. Chi era la donna? Clark si guardò in giro. Anche
gli altri adesso si guardavano attorno, ma per lui farlo voleva dire
sicurezza. Poco sopra i cinquanta, ben portati. L'ambasciatore
spagnolo a Washington era un uomo. Quella poteva essere sua moglie?
L'uomo di sinistra spostò il suo sguardo di un posto. «Chi sei?»
«Alistair Stanley», fu la risposta. Non c'era motivo perché Alistair
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mentisse, Clark lo sapeva bene. Viaggiavano allo scoperto, nessuno era a
conoscenza della loro organizzazione. Non avevano nemmeno ancora
cominciato. «Sono inglese», aggiunse con voce tremante. «Il mio
passaporto è nella borsa su nel...» e alzò la mano per farsela
schiaffeggiare da quel tipo con la pistola.
Bella mossa, pensò John, anche se non aveva funzionato. Avrebbe
potuto tirare giù il bagaglio, mostrare il passaporto e quindi trovarsi
l'arma in grembo. Peccato che quel tipo gli avesse creduto. Ma Alistair
stava in allerta. I tre lupi non sapevano che il gregge aveva al suo interno
tre cani. E di quelli grossi.
Willie probabilmente era al telefono adesso. La Delta Force teneva
sempre un distaccamento in allarme ventiquattr'ore su ventiquattro e ora
di certo si stavano preparando per un possibile intervento. Il colonnello
Byron sarebbe stato con loro. Little Willie era quel genere di soldato.
Aveva un vice e del personale per seguire le faccende mentre lui le
dirigeva dalla prima linea. Un sacco di rotelle stavano girando in quel
momento. Tutto quello che John e i suoi amici dovevano fare era non
muoversi... finché i cattivi si mantenevano freddi.
Ancora spagnolo dal lato sinistro. «Dov'è suo marito?» domandò.
Era abbastanza scocciato. Aveva un senso, pensò John. Gli ambasciatori
rappresentano dei buoni bersagli. Ma lo erano anche le loro mogli.
Lei aveva uno sguardo troppo penetrante per essere solo la moglie di
un diplomatico e Washington doveva essere un posto privilegiato.
Persona importante, probabilmente nobile. In Spagna ce n'erano
ancora. Un obiettivo di alto livello, niente di meglio per esercitare
pressioni sul governo di Madrid.
Missione fallita, fu il pensiero successivo. Volevano lui, non lei, e non
sarebbero stati molto contenti. Informazioni sbagliate, pensò Clark,
guardando i loro volti e scorgendone la rabbia. Succede anche a me
qualche volta. Sì, pensò, circa metà delle volte in una fottuta buona
annata. I due che poteva vedere parlavano tra loro con calma, ma il
linguaggio del corpo diceva tutto. Erano incazzati. Così, aveva tre (o
più?) terroristi furiosi, armati, a bordo di un bireattore, sull'Atlantico
settentrionale, di notte. Poteva andar peggio, si disse John. Come?
Avrebbero potuto avere dei giubbotti imbottiti di Semtex con inneschi a
miccia detonante Primacord.
Hanno meno di trent'anni, pensò Clark. Abbastanza per avere
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competenza tecnica ma non abbastanza per poter fare a meno della
supervisione di un adulto. Poca esperienza operativa e insufficiente
capacità di valutazione. Pensavano di sapere tutto, di essere abbastanza in
gamba. Ecco qual era il vero problema. I soldati addestrati conoscevano la
realtà meglio dei terroristi. Non volevano fallire e non prendevano in
considerazione nessuna alternativa reale. I separatisti baschi non
avevano mai coinvolto cittadini stranieri. Non americani comunque, e
quello era un aereo americano: una vera e propria linea di
demarcazione da oltrepassare. Era l'azione di un gruppo dissidente?
Forse. Brutta notizia.
In situazioni del genere si vorrebbe avere un certo grado di
prevedibilità. Anche il terrorismo ha le sue regole. Possiede quasi una
liturgia, passi che tutti devono compiere prima che accada davvero
qualcosa di brutto, per dare ai buoni la possibilità di parlare ai cattivi.
Ci vuole un negoziatore che stabilisca un rapporto con loro, che tratti
prima le piccole cose: liberate i bambini e le loro mamme, okay ? Non
perdiamo la testa o di voi e del vostro gruppo arriverà un'immagine
negativa in tv, d'accordo? Cominciare a farli cedere su qualcosa. Poi i
vecchi: chi vuole picchiare la nonna e il nonno? Poi il cibo, magari con
mescolato dentro un po' di Valium, mentre la sezione intelligente del
distaccamento operativo riempie l'aereo di microfoni e di obiettivi
miniaturizzati i cui cavi a fibra ottica mandano le immagini alle
telecamere.
Idioti, pensò Clark. Questo gioco non funziona proprio. È brutto quasi
come rapire un bambino per denaro. La polizia era fin troppo brava a
inseguire quei folli e di sicuro, in quel momento, Little Willie stava
salendo a bordo di un aereo dell'USAF, l'aeronautica militare degli Stati
Uniti, alla base di Pope. Se fossero davvero atterrati a Lajes la procedura
prevista sarebbe iniziata presto e l'unica variabile era quanti buoni
avrebbero perso la vita prima che i cattivi avessero fatto la stessa fine.
Clark aveva lavorato con i ragazzi e le ragazze del colonnello Byron. Se
fossero saliti sul velivolo, almeno tre persone non ne sarebbero scese
vive. Il problema era: quanti altri li avrebbero accompagnati nell'aldilà?
Continuavano a parlare, là davanti, non curandosi molto del resto
dell'aereo. In un certo senso, era logico. Era la cabina là in testa la
parte più importante, ma occorre sempre tenere d'occhio anche il resto.
Non si sa mai chi potrebbe esserci a bordo. Da tempo non c'erano più gli
sceriffi dell'aria, ma i poliziotti viaggiavano in aereo e alcuni di loro
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avevano pistole... forse non sui voli internazionali, ma un terrorista non
arriva alla pensione se si comporta da ingenuo. Era già abbastanza
difficile sopravvivere per tipi in gamba. Dilettanti. Cattive informazioni.
Rabbia e frustrazione. Le cose stavano peggiorando. Uno di loro chiuse la
mano sinistra a pugno e la sferrò contro il mondo nemico che avevano
trovato a bordo.
Ottimo, pensò John. Si girò cercando di nuovo lo sguardo di Ding e
muovendo leggermente la testa. La sua risposta fu un inarcare di
sopracciglio. Domingo, quando doveva, sapeva come parlare un
corretto inglese.
Poi all'improvviso la tensione aumentò. Uno dei dirottatori andò
di nuovo nella cabina di pilotaggio e vi rimase alcuni minuti, mentre
John e Alistair osservavano quello sulla sinistra, che controllava il
corridoio. Dopo un paio di minuti, cambiò posizione e guardò indietro,
sporgendo la testa come per accorciare la distanza, mentre il suo volto
passava da un'espressione risoluta a una d'impotenza. Poi, altrettanto
rapidamente, si diresse di nuovo a sinistra, fermandosi solo per
lanciare uno sguardo rabbioso alla porta della cabina.
Ce ne sono solo tre, si disse John, non appena il Numero 2 uscì dalla
cabina. Il Numero 3 era troppo eccitato. Potevano essere solo in tre? In
tal caso, erano davvero dei dilettanti. In un altro contesto pensare a una
simile situazione poteva anche far sorridere, ma non a 500 nodi e a
12.000 metri sull'Atlantico settentrionale. Se riuscivano a stare calmi, e
permettere al pilota di posare il bestione a terra, forse un po' di buon senso
sarebbe venuto fuori. Ma non erano molto calmi.
Invece di prendere il suo posto per coprire il corridoio di destra, il
Numero 2 andò dal 3 e bisbigliarono con voce stridula qualcosa che
Clark capì in generale ma non nel dettaglio. Fu quando il 2 si diresse
verso la porta della cabina che le cose peggiorarono.
Nessuno è davvero il capo, si convinse John. Andava di lusso, tre cani
sciolti armati in un maledetto aereo. Era il momento di cominciare ad
avere paura. Clark sapeva cosa fosse la paura, era stato in troppi posti
rischiosi per non saperlo, ma in tutti gli altri casi aveva avuto un
elemento di controllo sulla situazione, o almeno sulle proprie azioni,
come la possibilità di scappare via, un pensiero molto più confortante
ora di quanto avesse mai realizzato. Chiuse gli occhi e trasse un respiro
profondo.
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Il Numero 2 andò verso poppa per osservare la donna seduta di fianco
ad Alistair. Rimase lì alcuni secondi, fissandola, poi puntò gli occhi
su Alistair che lo guardava in modo sottomesso.
«Sì?» disse alla fine l'inglese, con il suo accento più raffinato.
«Chi sei?» chiese il Numero 2.
«L'ho detto al suo amico, Alistair Stanley. Ho il mio passaporto nel
bagaglio a mano se vuole vederlo.» La voce era abbastanza tremante da
simulare un uomo spaventato che si sforza di rimanere calmo.
«Sì, mostramelo!»
«Certo, signore.» Con movimenti studiatamente lenti l'ex maggiore del
SAS sganciò la cintura di sicurezza, si alzò, aprì il vano portabagagli e ne
estrasse una borsa nera. «Posso?» chiese. Il Numero 2 rispose con un
cenno affermativo.
Alistair aprì la lampo dello scomparto laterale, tirò fuori il passaporto,
lo consegnò, poi si sedette di nuovo, tenendo con le mani tremanti la
borsa sulle ginocchia.
Il Numero 2 esaminò il passaporto e lo ributtò in grembo all'inglese
mentre John osservava la scena. Poi disse in spagnolo alla signora seduta
al posto 4A qualcosa come: «Dov'è suo marito?» La donna rispose con
lo stesso tono educato di qualche minuto prima e il Numero 2 ritornò a
parlare con il 3. Alistair tirò un lungo sospiro e si guardò attorno,
incrociando lo sguardo di John.
Nessun movimento nelle sue mani o nel suo viso, ma anche così sapeva
quello che stava pensando. Nemmeno Al era contento di come si erano
messe le cose e, soprattutto, aveva visto sia il Numero 2 sia il 3 da
vicino, li aveva guardati dritto negli occhi. John doveva tenerne conto nei
suoi processi mentali. Alistair Stanley sollevò una mano come per
ravviarsi i capelli e si diede con il dito due colpetti alla testa sopra
l'orecchio. Erano segnali in codice.
Clark allungò una mano, abbastanza perché i due davanti alla cabina
non la vedessero e strinse tre dita nell'altra mano. Al fece un piccolo
cenno con il capo e si girò per alcuni istanti, lasciandogli il tempo di
recepire il messaggio. Anche lui era d'accordo: erano solo in tre. John
annuì soddisfatto della conferma.
Quanto sarebbe stato meglio se si fosse trattato di terroristi in gamba...
ma quelli non tentavano più roba del genere. Le probabilità erano
troppo a sfavore, come avevano dimostrato gli israeliani in Uganda e i
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tedeschi in Somalia. Nel fare queste cose si era sicuri solo finché l'aereo
era in volo, ma non avrebbero potuto restare in aria per sempre e
quando fossero atterrati si sarebbero trovati addosso tutto il mondo con
la velocità di un fulmine e la potenza di un tornado del Kansas. Il vero
problema era che non sono in molti a voler morire prima di passare la
trentina, e quelli che lo vogliono sono gli stessi che utilizzano le bombe.
Così, quelli in gamba facevano altre cose. Per questo erano avversari più
pericolosi, ma anche prevedibili. Non uccidevano la gente per gioco e
non andavano incontro a intoppi del genere perché pianificavano con
intelligenza ogni loro mossa.
Questi tre erano degli sprovveduti. Si erano mossi disponendo di dati
sbagliati, privi di un nucleo d'informatori sul posto in grado di fornire
loro un controllo completo sulla missione, e avvertirli che l'obiettivo
primario non era su quel volo. Così eccoli qui, impegnati in una missione
stupida che era già fallita, con la prospettiva di crepare o finire in galera
per tutta la vita... e tutto per niente.
Ma quelli non avevano alcuna intenzione di passare una vita dietro
le sbarre e nemmeno di essere spediti al creatore entro qualche ora,
così ben presto avrebbero cominciato a rendersi conto che non c'era una
terza alternativa. Le pistole che avevano in mano erano l'unico potere a
loro disposizione e avrebbero anche potuto cominciare a usarle per averla
vinta.
Per John Clark la scelta era se attendere o meno quel momento per
passare all'azione.
No. Non poteva starsene seduto lì ad aspettare che quelli cominciassero
ad ammazzare i passeggeri.
Mentre pensava al da farsi, scrutò i due per un altro minuto o poco
più, studiando come si guardavano cercando di tenere sotto controllo i
corridoi. Sia con quelli stupidi sia con quelli in gamba, i piani migliori
erano di solito i più semplici.
Ci vollero altri cinque minuti prima che il Numero 2 decidesse di dire
ancora qualcosa al 3. Quando lo fece, John si voltò quanto bastava per
cogliere lo sguardo di Ding, facendosi passare un dito sul labbro
superiore, come per lisciarsi un baffo che non aveva mai avuto.
Chavez sollevò la testa come per rispondere sei sicuro? ma colse il
segnale. Si sganciò la cintura e infilò la mano sinistra dietro la schiena,
portando la pistola davanti agli occhi allarmati di quella che era sua
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moglie da sole sei settimane. Domingo le toccò la mano destra con la
sua per rassicurarla, coprì la Beretta che teneva in grembo con un
tovagliolo, assunse un'espressione indifferente e attese che il capo desse il
segnale.
«Tu!» gridò il Numero 2.
«Sì?» rispose Clark, guardando in avanti con atteggiamento sollecito.
«Stai fermo!» Il suo inglese non era male. Evidentemente nelle scuole
europee si insegnavano bene le lingue.
«Ehi, ascolta, ho bevuto un po' e... be', sai com'è... avrei bisogno... Por
favor», aggiunse John con un gesto impacciato.
«No, rimani al tuo posto!»
«Ehi, non penserai di sparare a uno solo perché vuol fare una pisciatina!
Non so qual è il tuo problema, ma io vado, okay? Per favore!»
Il Numero 2 e il 3 ebbero un'espressione tipo oh merda! confermando
che si trattava di dilettanti. I due assistenti di volo, fermi sui loro
sedili là davanti apparivano molto preoccupati ma non dissero nulla.
John mostrò la sua intenzione sganciandosi la cintura e cominciando ad
alzarsi.
Il Numero 2 gli corse incontro, tenendo spianata la pistola e
fermandola quasi contro il petto di John. Ora gli occhi di Sandy erano
sgranati. Non aveva mai visto suo marito fare nulla di minimamente
pericoloso, ma sapeva che questo non era l'uomo che aveva dormito
accanto a lei per venticinque anni e, se non era quello, doveva essere
l'altro Clark, di cui era a conoscenza ma che non aveva mai osservato in
azione.
«Guarda, vado là, faccio una pisciatina e torno indietro, va bene?
Diavolo, vuoi guardare?» disse ora fingendo di farfugliare per il mezzo
bicchiere di vino che aveva bevuto al terminal. «D'accordo, ma per favore
non farmi bagnare i pantaloni.»
Quello che fece funzionare il trucco fu la mole di Clark. Era alto poco
meno di un metro e novanta e i suoi avambracci, in evidenza con le
maniche rimboccate, facevano una certa impressione. Il Numero 3 era
dieci centimetri più basso e pesava una quindicina di chili in meno, ma
aveva una pistola, e ai bulli è sempre piaciuto obbligare la gente grande e
grossa a fare quello che vogliono loro. Così il Numero 2 afferrò John per
il braccio sinistro, lo fece girare e lo spinse in malo modo indietro,
verso la toilette di destra. John piegò le spalle come per proteggersi e
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camminò con le mani sopra la testa.
«Ehi, gracias, amigo.» Clark aprì la porta. Il Numero 2 lasciò che si
chiudesse dentro. Da parte sua, John fece quello per cui aveva chiesto il
permesso, poi si lavò le mani e si guardò per un attimo allo specchio.
Ehi, Serpente, hai ancora le palle? si chiese, senza nemmeno tirare un
sospiro.
Okay, scopriamolo.
John sbloccò la serratura e aprì la porta con un'espressione riconoscente
e del tutto mite.
«Grazie.»
«Torna al tuo posto.»
«Aspetta, lascia che ti offra una tazza di caffè, io...» John fece un
passo indietro e il Numero 2 fu abbastanza stupido da seguirlo per tenerlo
sotto tiro, poi afferrò Clark per le spalle e lo fece girare.
«Buenas noces», disse con calma Ding da meno di tre metri di distanza,
con la pistola alzata e puntata alla tempia del Numero 2. Gli occhi
dell'uomo scorsero il blu dell'acciaio e la distrazione fu proprio quello che
ci voleva. La mano destra di John si alzò, il suo avambraccio scattò in
alto e con il dorso del pugno sferrò un colpo sulla tempia destra del
terrorista. La botta fu sufficiente a stordirlo.
«Che pallottole hai?»
«Bassa velocità», sussurrò Ding. «Siamo su un aereo, 'migo», ricordò al
suo direttore.
«Rimani rilassato», ordinò John con calma, ottenendo un cenno di
risposta.
«Miguel!» urlò il Numero 3.
Clark si spostò sulla sinistra, fermandosi per prendere una tazza di
caffè dalla macchinetta e un piattino. Quindi ricomparve nel corridoio di
sinistra e si spostò in avanti.
«Ha detto di portarle questo. E grazie per avermi lasciato andare alla
toilette», disse John, con voce tremante ma riconoscente. «Ecco il suo
caffè.»
«Miguel!» chiamò di nuovo il Numero 3.
«È tornato da quella parte. Ecco il suo caffè. Penso che andrò a
sedermi ora.» John fece alcuni passi avanti e si fermò, sperando che quel
dilettante continuasse ad agire come tale,
E fu così. Venne verso di lui. John si fece un po' più piccolo e lasciò
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che la tazza e il piattino gli tremassero in mano, poi, non appena il
Numero 3 lo raggiunse, guardando sul lato destro dell'aereo alla
ricerca del compagno, lasciò cadere a terra i due oggetti che teneva in
mano e si abbassò per raccoglierli, circa mezzo metro dietro il sedile di
Alistair. Automaticamente il Numero 3 si chinò anche lui. Sarebbe
stato il suo ultimo errore.
Clark gli afferrò la pistola, la girò e la rivolse contro lo stomaco del
proprietario. Sarebbe potuto partire un colpo, ma Alistair con la sua
Browning Hi-Power colpì sulla nuca l'uomo, proprio sotto il cranio e il
Numero 3 si accasciò come un pupazzetto di stoffa.
«Impaziente d'un bastardo», commentò Stanley. «Però una gran
bella mossa.» Poi si girò e si rivolse alla hostess più vicina facendo
schioccare le dita. La donna si fondò dal sedile, quasi correndo verso di
loro. «Corde, cinture, spago, qualsiasi cosa per legarli, subito!»
John raccolse la pistola e tolse subito il caricatore, poi fece scattare
indietro il carrello per espellere la pallottola rimasta in canna. In un
altro paio di secondi, aveva smontato l'arma e gettato i pezzi ai piedi
della compagna di viaggio di Alistair, i cui occhi marroni erano spalancati
e scioccati.
«Sceriffi dell'aria, signora. Si rilassi»; spiegò Clark.
Alcuni secondi dopo, apparve Ding, trascinando con sé il Numero 2. La
hostess ritornò con un rotolo di corda.
«Ding, la cabina di pilotaggio!» ordinò John.
«Ricevuto, Mr. C.» Chavez si mosse in avanti, tenendo con entrambe le
mani la Beretta, e rimase in piedi vicino alla porta della cabina. Sul
pavimento, Clark provvide a immobilizzarli. Le sue mani ricordavano
i nodi da marinaio di trent'anni prima. Sorprendente, pensò, legandoli
più stretti che poteva. Se le loro mani diventavano nere, tanto peggio per
loro.
«Ancora uno, John», sospirò Stanley.
«Ti dispiacerebbe dare un'occhiata ai nostri due amici?»
«Con piacere. Occorre fare attenzione, ci sono un sacco di apparecchiature elettroniche là dentro.»
«Ma davvero?»
John si spostò in avanti, ancora disarmato. Il suo subalterno era ancora
accanto all'ingresso della cabina, con la pistola puntata verso l'alto,
impugnata a due mani, lo sguardo fisso sulla porta.
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«Come va, Domingo?»
«Stavo pensando al vitello con insalata e alla lista dei vini che non è
male. Non è davvero il posto giusto per cominciare una battaglia a colpi
di pistola, John. Invitiamolo qui dietro.»
Era una buona scelta tattica. Il Numero 1 si sarebbe girato verso la
coda dell'aereo e se la sua pistola avesse sparato, era difficile che la
pallottola potesse danneggiare la fusoliera anche se i passeggeri della
prima fila non avrebbero gradito molto. John fece un salto indietro per
recuperare la tazza e il piattino.
«Lei!» Clark si rivolse all'altra hostess. «Chiami la cabina e dica al
pilota di riferire al nostro amico che Miguel ha bisogno di lui. Poi
rimanga qui in piedi. Quando la porta si apre, se chiede qualcosa, si
volti verso di me. D'accordo?»
Era graziosa, sulla quarantina, e sembrava un tipo abbastanza calmo.
Fece esattamente ciò che le era stato detto, sollevando il telefono e
trasmettendo il messaggio.
Dopo pochi secondi, la porta si aprì e il Numero 1 guardò fuori.
All'inizio la hostess fu l'unica persona che vide. Lei guardò verso John.
«Caffè?»
Servì solo a confonderlo. Fece un passo verso l'uomo grande e grosso
con la tazza, tenendo la pistola rivolta verso il pavimento.
«Come va?» chiese Ding dalla sua sinistra, puntandogli la pistola
contro la testa.
La confusione durò solo un istante. Il dirottatore Numero 1 non era
affatto preparato. Esitò, la sua mano non fece nemmeno cenno di
muoversi.
«Lascia la pistola!» gridò Chavez.
«Ti consiglio di fare come dice lui», aggiunse John, in un buon
spagnolo. «O il mio amico ti farà fuori.»
Il suo sguardo guizzò automaticamente in giro per la cabina cercando i
compagni, ma non riuscì a vederli da nessuna parte. Il suo viso apparve
solo più confuso. John fece un passo verso di lui e gli prese la pistola
senza che facesse resistenza. Se la mise nella cintola, poi fece stendere
l'uomo sul pavimento per perquisirlo mentre Ding teneva la sua pistola
puntata alla nuca del terrorista. Stanley cominciò a fare lo stesso con i
suoi due.
«Due caricatori... nient'altro.» John fece un cenno alla prima hostess che
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arrivò con la corda.
«Pazzi», ringhiò Chavez in spagnolo. Poi guardò il suo capo. «John,
pensi che siamo stati un po' precipitosi?»
«No.» Si rialzò e si spostò verso la cabina di pilotaggio. «Comandante?»
«Chi diavolo siete?» I piloti non avevano visto né sentito nulla dalla
zona passeggeri.
«Dov'è l'aeroporto militare più vicino?»
«È a Gander, Canada», rispose subito il copilota, Renford.
«Bene, andiamo lì. Comandante, l'aereo è di nuovo suo. Li abbiamo
legati tutti e tre.»
«Chi siete?» chiese di nuovo Will Garnet in modo piuttosto deciso, non
avendo potuto ancora sfogare la sua tensione.
«Solo qualcuno che voleva essere d'aiuto», replicò John, con uno
sguardo inespressivo, e il messaggio arrivò. Garnet era un ex pilota
dell'Air Force. «Posso usare la radio?»
Il comandante indicò il seggiolino ribaltabile e gli mostrò come
utilizzare l'apparecchio.
«Qui è United volo uno-due-uno», annunciò Clark, «con chi sto
parlando?»
«Qui è l'agente speciale Carney dell'FBI. Chi siete?»
«Carney, chiami il direttore e gli dica che è in linea Rainbow Six. La
situazione è sotto controllo. Perdite zero. Dirigiamo su Gander e abbiamo
bisogno della polizia. Passo.»
«Rainbow?»
«Così come si pronuncia, agente Carney. Ripeto, la situazione è sotto
controllo. I tre dirottatori sono immobilizzati. Rimango in attesa di parlare
al suo superiore.»
«Sissignore», replicò una voce sorpresa.
Clark si guardò le mani che tremavano un po' ora che tutto era passato.
Be', gli era già successo una o due volte. L'aereo virò a sinistra mentre il
pilota parlava alla radio, presumibilmente con Gander.
«Uno-due-uno, uno-due-uno, qui è di nuovo l'agente Carney.»
«Carney, qui è Rainbow.» Clark fece una pausa. «Comandante, questo
collegamento radio è protetto?»
«Sì, è criptato.»
John quasi imprecò contro se stesso per aver violato le regole della
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comunicazione radio. «Okay, Carney, che cosa sta succedendo?»
«Rimanga in attesa del direttore.» Si sentì un clic e la radio crepitò un
attimo. «John?» chiese una nuova voce.
«Sì, Dan.»
«Che succede?»
«Erano in tre, di lingua spagnola, non molto svegli. Li abbiamo
neutralizzati.»
«Vivi?»
«Affermativo», confermò Clark. «Ho detto al pilota di fare rotta su
Gander. Dovremmo arrivare entro...»
«Novanta minuti», disse il copilota.
«Un'ora e mezzo», proseguì John. «Provvedi tu a far venire la polizia
per prendere in consegna i tre pacchi? E chiama Andrews, dobbiamo
assolutamente proseguire per Londra.»
Non aveva bisogno di spiegare il perché. Quello che avrebbe dovuto
essere un normale viaggio di trasferimento di tre ufficiali con due mogli
aveva fatto svelare le loro identità, e non aveva assolutamente senso
andarsene in giro in modo che i passeggeri a bordo vedessero i loro
volti. Tutti gli sforzi che avevano fatto per organizzare la missione di
Rainbow e mantenerla segreta erano stati vanificati da quei tre stupidi
spagnoli... o qualunque altra cosa fossero. La polizia canadese l'avrebbe
scoperto prima di consegnarli all'FBI.
«D'accordo, John, ci penso io. Chiamo René e faccio organizzare
tutto. Hai bisogno d'altro?»
«Sì, mandami alcune ore di sonno, ti spiace?»
«Tutto quello che vuoi, amico mio», rispose il direttore
dell'FBI con una risatina e la comunicazione si interruppe. Clark si
tolse la cuffia e l'appese al gancio.
«Chi diavolo è lei?» chiese di nuovo il comandante. La prima
spiegazione non era stata del tutto soddisfacente.
«Comandante, i miei amici e io siamo sceriffi dell'aria capitati a
bordo per caso. È chiaro?»
«Penso di sì», rispose Garnet. «Sono contento che sia andata così.
Quello che stava qui era un po' troppo su di giri, se capisce quello che
voglio dire. Per un po' siamo stati terribilmente preoccupati.»
Clark annuì con un sorriso di comprensione. «Sì, lo ero anch'io.»
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Lo facevano da un po' di tempo. I furgoni azzurro chiaro, ce n'erano
quattro in giro per New York City, raccoglievano ubriachi e barboni e li
trasportavano nei centri di disintossicazione gestiti dal municipio. La
generosa opera di carità era stata ripresa dalle televisioni locali già l'anno
precedente e aveva fatto guadagnare all'amministrazione cittadina alcune
dozzine di lettere amichevoli, per poi scivolare nell'oblio come accade
di solito per questo tipo di cose. Era quasi mezzanotte e con le
temperature autunnali in discesa i furgoni erano fuori a raccogliere
barboni attraverso il centro e il sud di Manhattan ma non come era solita
fare una volta la polizia. Le persone che venivano aiutate non erano
obbligate a salire a bordo. I volontari del municipio chiedevano, con
cortesia, se desideravano per la notte un letto pulito, gratuito, e senza
quelle complicazioni di tipo morale tipiche della maggior parte delle
organizzazioni religiose. Chi declinava l'invito riceveva coperte donate
dai dipendenti municipali che in quel momento erano a casa a dormire
o a guardare la tv; anche per il personale la partecipazione al programma
era volontaria. Alcuni barboni preferivano restare all'aperto ritenendo
che fosse una specie di libertà. La maggior parte no. Anche agli
alcolizzati cronici piacevano i letti e le docce. Al momento nel furgone
ce n'erano dieci, il massimo che poteva essere trasportato. Venivano
aiutati a salire a bordo, si sedevano e, per sicurezza, venivano loro
allacciate le cinture.
Nessuno di loro sapeva che si trattava del quinto dei quattro furgoni che
operavano nella parte sud di Manhattan anche se, non appena iniziò a
muoversi, notarono che qualcosa era un po' diverso. L'addetto si sporse
dal sedile anteriore per allungare delle bottiglie di borgogna Gallo, un
rosso californiano a buon mercato, comunque migliore di quelli che
erano soliti bere, e al quale era stato aggiunto qualcosa.
Quando arrivarono a destinazione erano tutti addormentati o almeno in
uno stato di torpore. Quelli che erano in grado di muoversi furono aiutati
a scendere dal mezzo per salire subito sul retro di un altro, legati sui
loro lettini e lasciati cadere addormentati. Gli altri furono portati giù e
immobilizzati da due coppie di uomini. Poi il primo furgone fu portato
via per essere pulito, a vapore, affinché qualunque eventuale residuo
venisse sterilizzato ed eliminato. Il secondo mezzo si diresse verso la
periferia sulla West Side Highway, imboccò la rampa del ponte George
Washington e attraversò il fiume Hudson. Da lì si diresse a nord,
attraverso l'angolo nordorientale del New Jersey e quindi fece ritorno
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nello stato di New York.
Risultò che il colonnello William Lytle Byron era già in volo a bordo
di un'aviocisterna KG10 dell'USAF, su una rotta quasi identica a
quella dell'United 777, solo un'ora indietro. Modificò la rotta e puntò a
nord verso Gander. L'ex base dei quadriturbina P-3 per il
pattugliamento marittimo dovette svegliare qualcuno tra il personale che
si occupasse degli aerei in arrivo, ma questo fu il problema minore.
I tre dirottatori falliti, bendati e con le mani legate ai piedi vennero fatti
sdraiare sul pavimento proprio davanti alla prima fila di poltrone di prima
classe, di cui si impossessarono John, Ding e Alistair. Fu servito il caffè
e gli altri passeggeri vennero tenuti lontano da questa zona del velivolo.
«Ammiro il modo in cui in Etiopia hanno affrontato situazioni come
questa», osservò Stanley, sorseggiando un tè.
«Come hanno fatto?» chiese stancamente Chavez.
«Alcuni anni fa subirono un tentativo di dirottamento su un aereo della
loro compagnia di bandiera. A bordo c'erano quelli della sicurezza che
riuscirono ad assumere il controllo della situazione. Poi legarono quei
tipi alle poltrone di prima classe, avvolsero intorno al collo delle tovaglie
per proteggere le fodere e tagliarono loro la gola, proprio lì sull'aereo. E
sai...»
«Lo so», osservò Ding. Da allora su quella linea non ci aveva più
provato nessuno. «Semplice, ma efficace.»
«Decisamente.» Posò la tazza. «Spero che questo genere di cose non
avvenga troppo spesso.»
I tre di Rainbow guardarono fuori dai finestrini per vedere le luci
della pista poco prima che il Boeing 777 atterrasse nella base canadese di
Gander. Dalla zona passeggeri giunsero una serie di contenute
esclamazioni e uno scroscio di applausi. L'aereo rullò verso la zona
militare, dove si fermò. Venne aperto il portellone anteriore a cui fu
accostato uno speciale mezzo d'assistenza aero portuale.
John, Ding e Alistair sganciarono le cinture e si spostarono verso
l'uscita, tenendo d'occhio i tre terroristi. Il primo a salire a bordo fu un
ufficiale dell'aeronautica canadese che sfoggiava un cinturone con pistola
e un correggiolo bianco, seguito da tre uomini in abiti civili che
dovevano essere poliziotti.
«È lei il signor Clark?» chiese l'ufficiale.
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«Sono io», rispose John. «Ecco i vostri tre sospetti, penso si dica
così.»
«L'altro aereo è in viaggio, a circa un'ora», gli comunicò l'ufficiale
canadese.
«Grazie.» I tre si mossero per recuperare i loro bagagli a mano e, in due
casi, le mogli. Patsy si era addormentata e fu necessario svegliarla. Sandy
era tornata al suo libro. Dopo due minuti, tutti e cinque erano a terra e
caricati su un automezzo dell'aeronautica canadese. Non appena se ne
furono andati, l'aereo riprese a muoversi, portandosi verso il terminal
civile in modo che i passeggeri potessero sbarcare e sgranchirsi le gambe
mentre il 777 faceva rifornimento.
«Come andiamo in Inghilterra?» domandò Ding, dopo aver fatto
stendere la moglie sul divano di una sala inutilizzata.
«La vostra aeronautica sta inviando un VC-20. Ci saranno persone a
Heathrow a ritirare i vostri bagagli. Per i vostri tre prigionieri sta
arrivando un certo colonnello Byron», spiegò il poliziotto più anziano.
«Ecco le loro armi.» Stanley consegnò tre sacchetti con dentro le pistole
smontate. «Browning M-1935, con finiture militari. Nessun esplosivo.
Erano proprio dei terribili dilettanti, baschi, penso. Sembra che
cercassero l'ambasciatore spagnolo a Washington. Sua moglie era
seduta accanto a me. La signora Costanza de Monterosa, famiglia di
viticoltori. Imbottigliano dei magnifici bordeaux e Madeiras.
Probabilmente penserete che questa è stata un'operazione non
autorizzata.»
«E per la precisione voi chi siete?» domandò il poliziotto. Clark si
occupò della risposta.
«Non possiamo fornire nessuna spiegazione. Manderete subito indietro
i terroristi?»
«Ottawa ci ha dato istruzioni di farlo in base al trattato antiterrorismo.
Come mi comporto con la stampa?»
«Spieghi che sono capitati a bordo tre ufficiali di polizia americani che
hanno dato una mano a mettere fuori combattimento quegli idioti», gli
suggerì John.
«Sì, è abbastanza vicino alla verità», concordò Chavez con un sorriso.
«Il primo arresto che ho fatto, John. Dannazione, ho dimenticato di
informarli dei loro diritti.» Era così distrutto da ritenerla una battuta
fantastica.
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Agli occhi del gruppo che li accolse sembrarono più che repellenti. Non c'era da sorprendersi. Né sorprendente era il fatto che
puzzassero tanto da schifare una puzzola. Le barelle vennero scaricate dal
furgone e portate nell'edificio, una quindicina di chilometri a ovest di
Binghamton, nella regione collinare al centro dello stato di New York.
Nella sala d'accettazione, tutti e dieci furono bagnati in faccia con
uno spruzzatore come quelli utilizzati per pulire le finestre. Fu fatto a
tutti in una volta sola, quindi a una metà fu praticata nel braccio
un'iniezione. Entrambi i gruppi di cinque ricevettero braccialetti in
acciaio, numerati da 1 a 10. Solo a quelli con i numeri pari furono fatte
altre iniezioni. Poi dieci barboni alcolizzati furono portati nel dormitorio
per smaltire la sbornia e i narcotici. Il mezzo che li aveva trasportati era
già ripartito, diretto a ovest, in Illinois, per tornare ai suoi normali
compiti. L'autista non sapeva nemmeno che cosa aveva fatto, se non
guidare.
1
MEMO
Il volo del VC-20B non offrì molti diversivi; il pasto consistette in
panini e in un vino un po' anonimo, ma le poltrone erano comode e il
viaggio abbastanza tranquillo da permettere a ognuno di dormire fino
al momento dell'atterraggio alla base aerea della RAF di Northholt, a
ovest di Londra. Mentre il piccolo bireattore dell'aeronautica militare si
dirigeva verso l'area di parcheggio John notò l'età delle infrastrutture.
«Base degli Spitfire al tempo della battaglia d'Inghilterra», spiegò
Stanley stirandosi nella poltrona. «Ne permettiamo l'uso anche ai jet
dell'aviazione privata.»
«Andremo un sacco avanti e indietro da qui, allora», ipotizzò subito
Ding, fregandosi gli occhi e chiedendo un caffè. «Che ore sono?»
«Sono da poco passate le otto, ora locale, e anche ora Zulu, ossia
quella di Greenwich.»
«Giusto», confermò Alistair con un grugnito assonnato.
L'edificio arrivi distava un centinaio di metri; qui un funzionario
britannico timbrò i passaporti e diede loro ufficialmente il benvenuto
prima di tornarsene alla sua colazione e al suo giornale.
Fuori attendevano tre auto, tutte e tre limousine Daimler nere che
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lasciarono la base dirigendosi a ovest e poi a sud verso Hereford.
Questo confermava che ora era un burocrate civile, si disse Clark
nell'auto di testa. Altrimenti avrebbe effettuato lo spostamento a bordo di
elicotteri. Ma la Gran Bretagna non era del tutto priva di civiltà. Si
fermarono lungo la strada a un McDonalds per prendere uova, focaccine
e caffè. Sandy sbuffò per il contenuto di colesterolo. Erano mesi che
rimproverava John per questo. Poi ripensò alla notte precedente.
«John?»
«Sì, cara?»
«Chi erano?»
«Chi, quei tipi sull'aereo?» La guardò e ricevette un cenno di assenso.
«Non siamo sicuri, forse separatisti baschi, sembrava che cercassero
l'ambasciatore spagnolo, ma hanno fatto un grosso errore. Lui non era a
bordo, c'era solo la moglie.»
«Tentavano di dirottare l'aereo?»
«Sì, di sicuro.»
«Non è terribile?»
John annuì pensieroso. «Sì, lo è. O più esattamente poteva esserlo
davvero se fossero stati dei veri professionisti, ma non lo erano.» Sorrise
dentro di sé. Ragazzi, avevano proprio preso il volo sbagliato! Ma ora
non poteva riderne, non con sua moglie seduta di fianco a lui, sul lato
sinistro della strada, cosa che lo aveva fatto un po' irritare. Gli sembrava
un incredibile errore stare su quel lato, viaggiando a... 130 chilometri
l'ora? Dannazione, ma non hanno limiti di velocità da queste parti?
«Che cosa succederà a quei tipi?» insistette Sandy.
«C'è un trattato internazionale. I canadesi li rispediranno negli Stati
Uniti per il processo, Corte Federale. Verranno processati, condannati e
incarcerati per pirateria aerea. Resteranno a lungo dietro le sbarre», ed
erano già stati fortunati, evitò di aggiungere Clark. La Spagna avrebbe
potuto usare la mano un po' più pesante.
«Era da tempo che non succedeva qualcosa del genere.»
«È vero.» Il marito fu d'accordo. Bisognava proprio essere stupidi per
dirottare aerei, ma gli stupidi, così sembrava, non erano ancora una specie
in via d'estinzione. Ecco perché lui era Six, il numero 6, di
un'organizzazione chiamata Rainbow.
Vi sono buone e cattive notizie, così cominciava il memorandum che
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aveva scritto. Come al solito, non era indorato dal burocratese; era un
linguaggio che Clark non aveva mai imparato nonostante i trent'anni
passati alla CIA.
Con il crollo dell'Unione Sovietica e di altri stati con posizioni politiche
ostili agli interessi americani e occidentali, non è mai stata così bassa la
probabilità di un grande conflitto internazionale. Questa, di certo, è la
migliore delle buone notizie.
Ma oltre a ciò dobbiamo far fronte al fatto che rimangono in giro per
il mondo ancora molti terroristi internazionali di grande esperienza e
ben addestrati, alcuni con duraturi contatti con le agenzie d'intelligence nazionali, oltre al fatto che alcuni paesi, pur non volendo un confronto diretto con gli Stati Uniti o altre nazioni occidentali, potrebbero
ancora utilizzare i terroristi rimasti come "cani sciolti" per obiettivi politici più modesti.
E molto probabile che questo pericolo sia in crescita, dato che nel
precedente assetto mondiale i più importanti stati nazionali avevano posto
limiti precisi all'attività terroristica, e questi limiti venivano fatti osservare
attraverso un accesso controllato alle armi, ai finanziamenti, all'addestramento e ai rifugi.
Sembra anche probabile che l'attuale situazione mondiale invertirà il
precedente tacito "accordo" tra i paesi più importanti. Il prezzo dell'appoggio, delle armi, dell'addestramento e dei rifugi potrebbe facilmente diventare la reale attività dei terroristi al posto della "purezza" ideologica
prima richiesta dalle nazioni che li sostenevano.
La soluzione più ovvia a questo problema sarà una nuova squadra antiterrorismo multinazionale, per la quale propongo il nome in codice
Rainbow. Inoltre suggerisco che l'organizzazione abbia sede in Gran
Bretagna. Le ragioni sono semplici:
●La Gran Bretagna attualmente ha a disposizione lo Special
Air Service, la più nota organizzazione per operazioni
speciali al mondo, e anche quella con maggiore esperienza.
●Londra è la città più accessibile al mondo in termini di
collegamenti aerei commerciali, oltre al fatto che il SAS ha
rapporti molto cordiali con British Airways.
●La situazione giuridica è molto vantaggiosa, grazie alle
limitazioni poste alla stampa, possibili per la legge
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britannica ma non per quella americana.
●La consolidata collaborazione esistente tra le agenzie
governative americane e britanniche.
Per tutte queste ragioni, la nuova organizzazione per operazioni speciali proposta, costituita da americani, inglesi e personale NATO selezionato, con il pieno supporto dei servizi d'intelligence nazionali, coordinato
da...
E lui l'aveva venduta, Clark disse fra sé con un sorriso indefinibile. Ed e
Mary Pat Foley l'avevano sostenuto nell'Ufficio Ovale insieme con il
generale Mickey Moore e alcuni altri. La nuova organizzazione,
denominata Rainbow, era più nera del nero, con i fondi americani
incanalati attraverso il dipartimento degli Interni, quindi attraverso
l'ufficio Progetti speciali del Pentagono, senza alcun collegamento con
gli ambienti dell'intelligence. Meno di un centinaio di persone a
Washington erano al corrente dell'esistenza di Rainbow. Un numero
molto inferiore sarebbe stato meglio, ma fu fatto tutto quanto ci si
sarebbe potuti aspettare.
La catena di comando era piuttosto complicata, ma non fu possibile
farne a meno. Sarebbe stato difficile sottrarsi all'influenza britannica, con
una buona metà del personale operativo di nazionalità inglese e quasi
altrettanti nell'intelligence, ma Clark era il capo. Ciò costituiva una
grossa concessione da parte dei suoi padroni di casa e John se ne rendeva
conto. Alistair Stanley sarebbe stato il suo vice e da questo punto di vista
John non aveva problemi. Stanley era in gamba e soprattutto il più bravo
che avesse mai incontrato in fatto di operazioni speciali. Sapeva
quando mantenersi calmo, quando aspettare e quando giocare le sue
carte. In pratica l'unica cattiva notizia era che lui, Clark, era ora un
fottuto imboscato, o peggio, un colletto bianco. Avrebbe avuto un ufficio
e due segretarie invece di andare fuori a correre con i mastini. Bene,
dovette ammettere con se stesso, tutto ciò sarebbe dovuto capitare prima o
poi.
Merda. Non avrebbe più corso con i mastini ma avrebbe giocato con
loro. Doveva farlo per dimostrare a tutti che era degno del comando.
Sarebbe stato un colonnello, non un generale, si disse Clark. Sarebbe
stato con i suoi uomini il più possibile, correndo, sparando e valutando
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direttamente le situazioni.
Intanto, sono un capitano, si diceva Ding nell'auto che seguiva subito
dietro, gustandosi la campagna. Aveva passato solo qualche notte tra un
volo e l'altro in transito in Gran Bretagna a Heathrow o Gatwick e non
aveva mai visto la campagna, che era verde come una cartolina irlandese.
Sarebbe stato alle dipendenze di John, al comando di uno dei team
d'assalto, e il suo grado effettivo sarebbe stato quello di capitano, cioè
più o meno il grado più elevato che avrebbe potuto avere nell'esercito,
abbastanza alto da farsi rispettare dai sottufficiali e abbastanza basso per
non essere odiato dagli uomini e potersi muovere con loro. Guardò Patsy
appisolata di fianco a lui. La gravidanza la stremava in modo
imprevedibile. A volte sprizzava energia, altre volte era completamente
priva di forze. Portava in grembo un nuovo piccolo Chavez e ciò faceva
andare tutto bene, anzi più che bene. Un miracolo. Era ritornato a fare
ciò per cui era stato addestrato in origine: il soldato. Ancor meglio,
qualcosa tipo l'agente operativo. L'aspetto negativo era che dipendeva
da più di un governo, da colletti bianchi che parlavano più lingue, ma non
si poteva farne a meno e si era offerto volontario per restare con Mr. C.
Qualcuno doveva curarsi del capo.
Quello che era avvenuto sull'aereo lo aveva sorpreso. Mr. C. non
aveva avuto a portata di mano la sua pistola, pensò Ding; ti dai da fare
per avere il permesso di portare un'arma a bordo di un aereo civile
(forse la cosa più difficile da ottenere) e poi la nascondi dove non puoi
prenderla? Anche John Clark stava invecchiando. Doveva essere il primo
errore operativo da molto tempo, che poi aveva cercato di coprire facendo
il duro durante l'azione. Tutto era filato liscio. Ma troppo veloce, pensò
Ding, troppo alla svelta. Teneva la mano di Patsy. Dormiva
profondamente adesso. Il piccolino ne fiaccava le forze. Si chinò per
baciarla lievemente sulla guancia, con dolcezza perché non si svegliasse.
Colse lo sguardo dell'autista nello specchietto. Rispose con uno sguardo
impassibile da giocatore di poker. Quel tipo era solo un autista o faceva
parte dell'organizzazione? L'avrebbe scoperto presto.
Il comando di Rainbow era a Hereford, sede del 22° reggimento
dello Special Air Service dell'esercito britannico. E la sicurezza era ancora
più rigorosa di quanto apparisse. Osservando da lontano un uomo armato
non era possibile capire se si trattava di un pivello o di un esperto con
addestramento speciale. Guardandoli da vicino, Ding decise che questi
individui appartenevano alla seconda categoria. Avevano atteggiamenti
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molto diversi. L'uomo che guardò nella sua auto si guadagnò un cenno
di risposta, che fu debitamente restituito mentre faceva segno all'auto
di pro seguire. La base aveva l'aspetto di tutte le altre infrastrutture militari, la differenza nelle indicazioni segnaletiche riguardava solo alcuni
particolari, ma gli edifici avevano prati ben rasati e tutto appariva più
curato rispetto alle zone civili. La berlina terminò la corsa nel regno
degli ufficiali, vicino a una casa modesta ma ben tenuta, dotata di
parcheggio per un'auto che Ding e Patsy non avevano ancora. Notò
che la vettura di John proseguiva per un altro paio di isolati, verso una
casa più grande; i colonnelli vivevano meglio dei capitani, e non si
sarebbe potuto in alcun caso trovare un affitto migliore. Ding aprì la
portiera, scese e si diresse verso il baule per far portare dentro il
bagaglio. Poi arrivò la prima grossa sorpresa di quella giornata.
«Maggiore Chavez?» chiese una voce.
«Sì?» rispose Ding, voltandosi. Maggiore? si meravigliò.
«Sono il caporale Weldon e sono il suo attendente.» Il graduato era
molto più alto del metro e settanta di Ding. L'uomo aggirò l'ufficiale cui
era stato assegnato e afferrò i bagagli tirandoli fuori dal baule.
«Mi segua, signore.» Ding e Patsy ubbidirono.
A trecento metri, succedeva circa la stessa cosa a John e Sandy, anche
se il loro personale era costituito da un sergente e un caporale,
quest'ultimo di sesso femminile, bionda e graziosa con la tipica
carnagione chiara degli inglesi. La prima impressione di Sandy per
quanto riguardava la cucina era che i frigoriferi inglesi avevano poca
capienza, e che cucinare lì dentro sarebbe stato qualcosa di simile a
un esercizio di contorsionismo. Sandy era un po' lenta a capire, forse una
conseguenza del viaggio aereo, che avrebbe toccato un utensile in quella
stanza solo per gentile concessione del caporale Anne Fairway. La casa
non era grande come la loro in Virginia, ma sarebbe stata sufficiente.
«Dov'è l'ospedale locale?»
«A circa sei chilometri, signora.» La Fairway non era stata informata
che Sandy Clark era un'infermiera del pronto soccorso altamente
qualificata per le emergenze e che avrebbe lavorato nell'ospedale.
John ispezionò il suo studio. Lo colpì soprattutto il mobiletto degli
alcolici, ben fornito di whisky e gin. Avrebbe dovuto trovare il modo di
procurarsi qualche buon bourbon. Il computer era al suo posto,
adeguatamente schermato, ne era certo, per evitare che qualcuno
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potesse parcheggiare a qualche centinaio di metri e intercettare quello che
stava scrivendo. Naturalmente, avvicinarsi tanto sarebbe stata
un'impresa. Le guardie ai cancelli della base gli erano sembrate esperte.
Mentre i due graduati gli sistemavano gli indumenti, John si buttò sotto
la doccia. Quella sarebbe stata una giornata di lavoro per lui. Venti
minuti più tardi, vestito con un gessato blu, camicia bianca e cravatta a
righe, si presentò alla porta anteriore, dove un'auto di servizio lo
attendeva per trasportarlo al comando.
«Stammi bene, tesoro», esclamò Sandy con un bacio.
«Stai tranquilla.»
«Buongiorno, signore», disse l'autista. Clark gli strinse la mano e seppe
che era un sergente e si chiamava Ivor Rogers. Il rigonfiamento al suo
fianco destro indicava che probabilmente era un MP. Dannazione, pensò,
gli inglesi prendono la sicurezza in modo molto serio. Ma questa era la
sede dell'organizzazione forse meno amata dai terroristi dentro e fuori
della Gran Bretagna. E i veri professionisti, quelli davvero pericolosi,
erano persone attente, precise. Proprio come me, si disse John Clark.
«Dobbiamo stare attenti, molto attenti a ogni passo del nostro
percorso.» Ciò non destava particolare sorpresa per gli altri. Capivano
che cosa volesse dire precauzione. Per la maggior parte erano tecnici
specializzati e molti di loro trafficavano ogni giorno con sostanze
pericolose, livello 3 e superiore, e così la precauzione faceva parte del
loro modo di guardare il mondo. E questo, pensò, andava bene.
Andava anche bene che capissero, davvero, l'importanza del compito che
li attendeva. Si trattava di una missione sacra, pensavano, o meglio
sapevano, tutti. Avevano a che fare con la vita umana, o la perdita di essa,
e c'erano quelli che non capivano la vera sostanza della loro missione e
non l'avrebbero mai capita. C'era da aspettarselo, dato che erano le loro
vite a essere messe in gioco.
Con ciò, la riunione ebbe termine, con un po' di ritardo, e la gente
se ne andò, verso il parcheggio, dove alcuni - dei pazzi, pensò - sarebbero
tornati a casa in bicicletta, avrebbero dormito alcune ore e poi
sarebbero tornati in bicicletta in ufficio. Almeno erano Veri Credenti
nell'ecologia, anche se non molto coerenti considerando che per i lunghi
viaggi usavano gli aeroplani. Comunque, c'era posto per gente con punti
di vista diversi e la soluzione migliore era incrementare unità e
compattezza. Camminò verso l'auto, una Hummer molto comoda,
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versione civile del veicolo militare HMMWV, che aveva mandato in
pensione dopo tanti anni la classica jeep. Accese la radio, sentì I pini di
Roma di Respighi e si rese conto che gli sarebbe mancata la radio locale e
lo spazio che dedicava alla musica classica.
Fatta la doccia, sbarbato e vestito con un abito Brooks Brothers e una
cravatta di Armani acquistata due giorni prima, Clark uscì dalla sua
residenza ufficiale, verso l'auto di servizio, con l'autista che teneva la
portiera aperta. I britannici ci sapevano veramente fare con gli status
symbol e John si chiese se si sarebbe abituato in fretta.
Scoprì che l'ufficio era a circa tre chilometri da casa, in un edificio a
due piani in mattoni, circondato da operai. Un altro soldato si trovava
sulla porta anteriore, con la pistola infilata in una fondina di tela.
Quando Clark arrivò a tre metri, scattò sull'attenti e salutò. «Buongiorno,
signore!»
John fu abbastanza meravigliato da rispondere al saluto, quasi si
accingesse a salire a bordo di un'unità da guerra. «Buongiorno, soldato»,
disse, quasi impacciato e pensando che avrebbe dovuto imparare il nome
di quel ragazzo. La porta riuscì ad aprirla da so lo, per trovare all'interno
Stanley, che leggeva un documento e guardò in su con un sorriso.
«Ci vorrà un'altra settimana o poco più per finire i lavori, John.
L'edificio è rimasto inutilizzato per anni, è piuttosto vecchio e ci stanno
lavorando da appena sei settimane. Vieni, ti accompagno nel tuo
ufficio.»
E di nuovo Clark Io seguì, quasi imbarazzato, girando a destra e
dirigendosi lungo il corridoio fino all'ultima stanza, che si rivelò ormai a
posto.
«Il fabbricato risale al 1947», spiegò Alistair aprendo la porta. John vi
trovò due segretarie, entrambe sui quaranta, che probabilmente godevano
di più alti livelli di segretezza del suo. Si chiamavano Alice Foorgate ed
Helen Montgomery. Si alzarono quando entrò il boss e si presentarono
con un sorriso caldo e affascinante. L'ufficio da vice di Stanley era
accanto a quello di Clark, il quale conteneva una grande scrivania, una
comoda poltrona e lo stesso tipo di computer che aveva nella sua stanza
alla CIA, anche qui schermato, in modo che nessuno potesse controllarlo
elettronicamente. Vi era anche il classico mobiletto per gli alcolici nell'angolo di fronte a destra, senza dubbio un'usanza britannica.
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John trasse un sospiro prima di provare la poltrona girevole e decise di
togliersi la giacca. Sedersi indossando un abito completo era una cosa che
non gli aveva mai dato piacere. Solo un colletto bianco poteva
apprezzarlo e non era certamente la sua idea di comodità. Indicò ad
Alistair la sedia dall'altra parte della scrivania.
«A che punto siamo?»
«Due team completamente addestrati.»
«Chavez ne comanderà uno. L'altro sarà guidato da Peter Covington,
da poco nominato maggiore. Il padre era colonnello del 22° alcuni anni
fa, ed è andato in pensione con il grado di generale di brigata. Ragazzo
meraviglioso. Dieci uomini per team, come d'accordo. Lo staff tecnico
si sta componendo proprio bene. C'è anche un ragazzo israeliano, David
Peled. È un vero genio dell'elettronica e dei sistemi di sorveglianza.»
«E ogni giorno riferirà ad Avi ben Jakob.»
«Naturalmente.» Nessuno si faceva molte illusioni sulla totale lealtà
degli uomini assegnati a Rainbow. Ma la loro esperienza accumulata
operando per organizzazioni diverse era di primaria importanza. «Da una
decina d'anni David collabora saltuariamente con il SAS. È fenomenale,
mantiene contatti con tutte le società elettroniche da San José a Taiwan.»
«E i tiratori?»
«I migliori, John. Non ho mai lavorato con nessuno più abile di loro.»
«Intelligence?»
«Tutti eccellenti. Il capo della sezione è Bill Tawney, uomo di punta da
trent'anni, assistito dal dottor Paul Bellow, Temple University,
Philadelphia, dove è stato professore finché l'FBI non lo ha arruolato.
Persona straordinariamente sveglia. Lettore del pensiero, ha girato
tutto il mondo. I tuoi lo hanno prestato agli italiani per l'affare Moro,
ma l'anno successivo ha rifiutato di assumere un incarico in Argentina.
Ha dei principi, anche, o almeno così sembra. Arriva in volo domani.»
Proprio in quel momento la signora Foorgate entrò con un vassoio; tè
per Stanley, caffè per Clark. «La riunione di staff inizia fra dieci minuti,
signore», annunciò a John.
«Grazie, Alice.» Signore, pensò Clark. Non era abituato a sentirsi
chiamare così. Ecco un altro segnale che era un colletto bianco.
Dannazione. Attese che la pesante porta insonorizzata si chiudesse per
fare un'altra domanda.
«Qual è la mia posizione qui?»
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«Generale di brigata almeno, forse due stelle. Sembra che io sia un
colonnello, capo di stato maggiore», disse Stanley, sorseggiando il tè.
«John, sai che ci dev'essere il protocollo», proseguì con ragionevolezza.
«Al, sai che io di fatto sono... ero, voglio dire?»
«Eri aiutante del nostromo capo in marina, penso, con la croce di
guerra e una serie di stelle d'argento. Stella di bronzo al valore per tre
volte, e tre medaglie Purple Heart. E tutto ciò prima che la CIA ti
reclutasse e ti desse non meno di quattro Intelligence Stars.» Stanley
disse tutto ciò a memoria. «Generale di brigata è il meno che possiamo
fare, vecchio mio. Sappiamo qualcosa di te e del tuo giovane Chavez;
quel ragazzo ha un potenziale enorme, se è in gamba come ho sentito
dire. Di sicuro, ne avrà bisogno. Il suo team è composto da alcune stelle
di prima classe.»
«Tu, Ding!» esclamò una voce familiare. Chavez guardò a sinistra
sinceramente sorpreso.
«Oso! Figlio di puttana! Che diavolo ci fai qui?» I due uomini si
abbracciarono.
«I Ranger stavano diventando noiosi, così sono partito per Bragg
per un giro con la Delta e poi si è presentata questa occasione e l'ho
colta al volo. Sei il capo del team 2?» chiese il primo sergente Julio Vega.
«Più o meno», rispose Ding, stringendo la mano di un vecchio amico e
compagno. «Non hai perso chili, ragazzo, ma tu li mangi i pesi del
bilanciere?»
«Devo tenermi in forma, signore», replicò uno al quale un centinaio di
flessioni alla mattina non facevano venir fuori una goccia di sudore. Sulla
camicia dell'uniforme portava il distintivo del pattugliatore scelto e il
paracadute d'argento d'istruttore. «Hai un bell'aspetto, ragazzo, continui a
correre?»
«Scappare via di corsa è una capacità che intendo conservare, sai
quello che voglio dire.»
«Ricevuto.» Vega rise. «Vieni, ti presento agli altri. Abbiamo dei buoni
specialisti, Ding.»
Il team 2 di Rainbow disponeva del proprio edificio, in mattoni, su un
solo piano e piuttosto grande, con una scrivania per ciascuno e una
segretaria di nome Katherine Moony che doveva servire per tutti,
giovane e abbastanza carina, notò Ding, per attirare l'interesse di
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qualunque scapolo del suo distaccamento. Il team 2 era composto
soltanto di sottufficiali, quattro americani, quattro britannici, un tedesco
e un francese. Gli bastò un'occhiata per capire che erano tutti in gran
forma, tanto che Ding si preoccupò subito delle proprie condizioni.
Doveva guidarli e ciò significava essere altrettanto bravo o addirittura
migliore di chiunque di loro in tutto.
Il sergente Louis Loiselle era quello più vicino a lui. Basso e con i
capelli scuri, aveva fatto parte delle forze paracadutiste francesi ed era
stato distaccato alcuni anni prima alla DGSE, la Direction Genérale de la
Surveillance Extérieure. Loiselle era un giocatore a tutto campo,
esperto d'armi e, come dicevano le sue note caratteristiche, brillante
tiratore scelto con la pistola e il fucile. Dietro il suo sorriso rilassato c'era
una notevole dose di sicurezza personale.
Poi veniva il feldwebel Dieter Weber, anche lui paracadutista e uscito
dalla scuola per guide alpine dell'esercito tedesco, una delle più dure al
mondo. Lo si vedeva. Biondo e di carnagione chiara, sessant'anni
prima avrebbe potuto trovarsi su un manifesto per il reclutamento delle
SS. Ding si accorse subito che parlava un inglese migliore del suo.
Weber era arrivato a Rainbow dalla squadra GSG9 tedesca, che faceva
parte delle ex guardie di confine, il gruppo antiterroristico della
Repubblica Federale.
«Maggiore, abbiamo sentito molto parlare di lei», disse Weber dall'alto
del suo metro e novanta. Un po' troppo alto, pensò Ding. Un
bersaglio grosso. Stringeva la mano alla tedesca, una presa rapida, un
movimento verticale e via, con una stretta leggera nel mezzo. I suoi
occhi azzurri erano freddi come il ghiaccio. Occhi che di solito si
trovavano dietro un fucile. Weber era uno dei due tiratori scelti del team.
Homer Johnston era l'altro sergente. Montanaro dell'Idaho, aveva
abbattuto il suo primo cervo a nove anni. Lui e Weber erano in
amichevole concorrenza. Di aspetto normale sotto ogni punto di
vista, Johnston era un corridore piuttosto che un sollevatore di pesi,
con il suo metro e ottantatré per settantatré chili. Aveva cominciato nel
101° MOC Air Mobile a Fort Campbell, Kentucky, e si era fatto
rapidamente strada nel mondo sommerso dell'esercito. «Maggiore, lieto di
conoscerla, signore.» Era un ex Berretto Verde e membro della Delta
Force, come l'amico di Chavez, Oso Vega.
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I tiratori che, aveva notato Ding, avevano accesso agli edifici per fare
il loro lavoro, erano americani e britannici. Steve Lincoln, Paddy
Connolly, Scotty McTyler ed Eddie Price provenivano dal SAS. Erano
stati tutti nell'Irlanda del Nord. Mike Pierce, Hank Patterson e George
Tomlinson avevano accumulato minor esperienza, dato che la Delta Force
americana non aveva avuto le occasioni del SAS. Era pur vero, si ricordò
Ding, che Delta, SAS, GSG9 e altri corpi scelti internazionali svolgevano
un addestramento incrociato al punto che avrebbero potuto anche sposare
le sorelle l'uno dell'altro. Ciascuno di loro era più alto del maggiore
Chavez. Tutti erano efficienti e svegli e con questa consapevolezza gli
subentrò la strana e preoccupante sensazione che, nonostante la sua
esperienza sul campo, avrebbe dovuto guadagnarsi il rispetto del suo team
e avrebbe dovuto farlo in fretta.
«Chi è il più anziano?»
«Sono io, signore», fece notare Eddie Price. Era il più vecchio del
gruppo, 41 anni ed ex sergente decorato del 22° reggimento SAS, da
allora promosso sul campo a sergente maggiore. Come gli altri, non
vestiva l'uniforme regolare, nonostante portassero tutti le stesse cose
non-regolari senza i distintivi di grado.
«Price, abbiamo già fatto la ginnastica odierna?»
«No, maggiore, aspettavamo che ci guidasse lei», replicò Price con un
sorriso che era dieci per cento cortesia e novanta sfida.
Chavez rispose con un sorriso. «Sono ancora un po' irrigidito dal
volo, ma forse potete darmi una mano a sciogliermi un po' le giunture.
Dove mi cambio?» chiese Ding, sperando che le ultime due settimane
fatte di otto chilometri al giorno di corsa fossero state sufficienti.
«Mi segua, signore.»
«Mi chiamo Clark e suppongo di essere il comandante qui», disse
John dal posto di capotavola. «Tutti voi conoscete la missione e tutti
avete chiesto di far parte di Rainbow. Domande?»
Notò intorno a sé una certa sorpresa. Qualcuno continuò a fissarlo
mentre i più osservavano il bloc-notes posto davanti a ciascuno di
loro.
«Be', tanto per rispondere a quelle più ovvie, la nostra filosofia
operativa dovrebbe essere poco diversa da quella delle organizzazioni da
cui provenite. La vedremo nell'addestramento, che inizierà domani. E
prevista la completa capacità operativa fin da ora», li avvertì John. «Ciò
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significa che il telefono potrebbe squillare tra un minuto e dovremo
rispondere. Siamo in grado di farlo?»
«No», rispose Alistair Stanley, a nome degli altri di grado superiore.
«Non è realistico, John, ritengo che abbiamo bisogno di tre settimane.»
«Lo capisco, ma il mondo reale non corrisponde a quello che
vorremmo. Le cose che occorre fare facciamole e alla svelta. Cominceremo con le simulazioni lunedì prossimo. Ragazzi, non è difficile
lavorare con me. Sono stato sul campo anch'io. Non pretendo la
perfezione, ma mi aspetto molto da tutti voi. Se falliamo una missione,
questo comporterà che qualcuno meritevole di vivere non vivrà. E ciò
accadrà. Lo sapete voi. Lo so io. Ma eviteremo il più possibile di
commettere errori e impareremo da ognuno di essi. L'antiterrorismo è
un mondo darwiniano. Gli stupidi sono già morti. Forse noi siamo
avanti nella competizione, almeno da un punto di vista tattico, ma
dobbiamo mettercela tutta per conservare il vantaggio.»
«A ogni modo», proseguì, «per quanto riguarda l'intelligence, che
cosa c'è di pronto e cosa no?»
Bill Tawney aveva la sua stessa età, forse uno o due anni di più, stimò
John, capelli castani e radi, e in bocca una pipa spenta. Un "Six", il che
significava che era stato (ed era ancora) membro dei servizi segreti
britannici, era una spia rientrata dopo dieci anni passati a lavorare
dietro la Cortina di Ferro. «I nostri canali di comunicazione sono
attivati. Disponiamo di personale di collegamento con tutti i servizi
amici sia qui sia nelle capitali corrispondenti.»
«Il livello?»
«Buono», dichiarò Tawney. John si chiese quanto questa risposta
fosse dovuta al tipico understatement britannico. Uno dei suoi compiti più
importanti e anche più difficili sarebbe stato quello di decodificare ciò
che ogni membro del suo staff diceva quando parlava. Un compito
reso ancor più arduo dalle differenze linguistiche e culturali.
Osservandolo, Tawney aveva l'aria di un vero professionista, i suoi occhi
marroni comunicavano calma e sicurezza. Le sue note caratteristiche
dicevano che, negli ultimi cinque anni, aveva operato direttamente
con il SAS. Ottima esperienza.
«David?» chiese poi. David Peled, responsabile israeliano del settore
tecnico, assomigliava un po' a un personaggio di un dipinto di El
Greco, un domenicano, forse, del Quattrocento, alto, magro, con le
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guance scavate e scuro di capelli (corti), con una certa intensità nello
sguardo. Aveva lavorato a lungo per Avi ben Jakob, che Clark conosceva
abbastanza bene. Peled era lì per due motivi: primo per partecipare
come esperto a Rainbow, guadagnando così alleati e prestigio per il suo
servizio segreto originario, il Mossad israeliano, secondo per imparare ciò
che poteva e riferirlo al suo capo.
«Sto mettendo insieme un bel gruppo», disse David, posando la
tazza di tè. «Mi occorrono da tre a cinque settimane per avere tutte le
apparecchiature che mi servono.»
«Meno», rispose subito Clark.
David scosse la testa. «Non è possibile. Molti dei componenti
elettronici sono disponibili nei magazzini trattandosi di materiale
standard, ma alcuni dovranno essere realizzati su misura. Gli ordini
sono tutti partiti», garantì, «con la massima priorità, ai soliti fornitori.
TRW, IDI, Marconi, si sa chi sono. Ma non possono fare miracoli,
nemmeno per noi. Per alcuni componenti critici ci vogliono da tre a
cinque settimane.»
«Il SAS è disponibile a noleggiarci tutto ciò che serve», assicurò
Stanley a Clark.
«A scopo di addestramento?» domandò Clark, seccato del fatto di
non aver ancora ottenuto risposta alla sua domanda.
«Forse.»
Ding interruppe la corsa dopo quasi cinque chilometri, che
avevano percorso in venti minuti. Un buon tempo, pensò con il fiatone,
poi si girò e vide che i suoi dieci uomini erano freschi quasi come
quando erano partiti, uno o due con un sorrisetto malizioso
chiaramente all'indirizzo di quella pappamolla del loro nuovo
comandante.
Dannazione.
La corsa era terminata al poligono di tiro, dove erano pronti i bersagli e
le armi. Qui Chavez aveva apportato le sue modifiche nella selezione
del team. Da vecchio patito della Beretta, aveva deciso che i suoi uomini
usassero la nuova calibro 45 come arma personale, oltre alla pistola
mitragliatrice Hechler & Kock MP-10, versione aggiornata della
vecchia MP-5, camerata per le cartucce Smith & Wesson calibro 10
mm studiate negli anni Ottanta per l'FBI. Senza dir nulla, Ding prese la
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sua arma, si infilò la cuffia e si avviò alle sagome bersaglio, poste a
cinque metri di distanza. Ecco là, tutti e otto i fori nella testa. Ma Dieter
Weber, di fianco a lui, aveva concentrato i suoi colpi in un'unica rosata
con i bordi frastagliati, e Paddy Connolly era riuscito a fare quello che
aveva l'aspetto di un unico foro con i bordi meno frastagliati di diametro
inferiore a due centimetri e mezzo, tutti colpi messi fra gli occhi del
bersaglio, senza toccarli. Come molti tiratori americani, Chavez
pensava che gli europei non conoscessero affatto le pistole. Si rese conto
che l'addestramento era servito.
Poi, presero le loro H&K, che quasi tutti sapevano usare bene grazie ai
fantastici mirini a diottra. Ding camminava lungo la linea di tiro,
guardando i ragazzi che sparavano contro bersagli a scomparsa delle
dimensioni e della forma di teste umane. Azionate ad aria compressa,
cadevano all'indietro istantaneamente con un fragore metallico. Ding
terminò dietro il sergente maggiore Vega, che finì il caricatore e si girò.
«Te l'avevo detto che erano in gamba, Ding.»
«Da quanto si allenano?»
«Circa una settimana. Siamo abituati a correre otto chilometri»,
aggiunse Julio con un sorriso. «Ricordi il campo estivo che facemmo in
Colorado?»
La cosa più importante di tutte, pensò Ding, era la mira precisa
nonostante la corsa che doveva servire per caricare gli uomini fisicamente
e simulare lo stress di una situazione di combattimento reale. Ma questi
bastardi erano fermi come fottutissime statue di bronzo. Da ex
caposquadra nella 7a divisione di fanteria leggera, era stato un tempo
uno dei soldati più in forma ed efficienti a indossare l'uniforme del suo
paese, motivo per cui John Clark lo aveva scelto per far parte di
Rainbow. Era da molto tempo, di fatto, che Domingo Chavez non si
sentiva minimamente inadeguato per qualcosa. Ma ora una vocina gli
sussurrava nell'orecchio.
«Chi è il più forte?» chiese a Vega.
«Weber. Ho sentito delle storie sulla scuola alpina tedesca. Bene, sono
vere, 'migo. Dieter non è del tutto umano. Bravo nel corpo a corpo,
con la pistola, dannatamente bravo con un fucile; penso che, se
dovesse, riuscirebbe ad abbattere un cervo e farlo a brandelli a mani
nude.»
Chavez non poté fare a meno di ricordarsi che essere considerato
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bravo in una disciplina di combattimento da uno uscito dalla scuola dei
Ranger e da quelle per operazioni speciali di Fort Bragg non era proprio
come esserlo da uno al bar dell'angolo. In giro non ce n'erano molti
come Julio.
«E il più sveglio?»
«Connolly. Tutti quelli del SAS sono il massimo. Noi americani
dobbiamo recuperare un po'. Ma ce la faremo», lo rassicurò Vega. «Non
preoccuparti, Ding. Riuscirai a stare al nostro passo dopo circa una
settimana. Così come avvenne in Colorado.»
Chavez, in realtà, non voleva che gli venisse ricordato quell'episodio.
Troppi amici persi sulle montagne della Colombia, per una missione
che il loro paese non aveva mai riconosciuto. Adesso guardare i suoi
uomini che finivano le munizioni d'addestramento gli servì per capire
molto di loro. Se qualcuno aveva mancato un singolo colpo, lui non se
n'era accorto. Ciascuno sparava esattamente cento colpi, la razione
giornaliera standard per uomini che avevano una media di cinquecento
colpi ogni settimana lavorativa durante il normale addestramento, e non
nel corso di esercitazioni più specifiche. Quelle sarebbero iniziate
l'indomani.
«Va bene», concluse John, «avremo una riunione di staff ogni mattina
alle otto e un quarto per gli argomenti di routine e una più formale
ogni venerdì pomeriggio. La mia porta è sempre aperta, compresa
quella di casa. Ragazzi, se avete bisogno di me, ho un telefono vicino
alla doccia. Ora voglio andare dai tiratori. Qualcos'altro? Bene, allora per
oggi può bastare.» Tutti si alzarono e uscirono lentamente. Stanley
rimase.
«È andata bene», osservò Alistair, versandosi un'altra tazza di tè.
«Soprattutto per uno non abituato alla vita del burocrate.»
«Si vede?» chiese Clark con un sorriso.
«Si può imparare qualsiasi cosa, John.»
«Spero che sia così. A che ora si comincia la ginnastica da queste
parti?»
«Alle sei e quarantacinque. Pensi di correre e sudare con i ragazzi?»
«Vorrei provare», rispose Clark.
«Sei troppo vecchio, John. Alcuni di loro fanno le maratone per
divertimento, e tu sei più vicino ai sessanta che ai cinquanta.»
«Al, non posso comandare quei ragazzi senza provarci, e tu lo sai.»
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«È vero», ammise Stanley.
Si svegliarono tardi, uno alla volta, nel giro di un'ora. La maggior
parte rimase a letto, alcuni si trascinarono in bagno, dove trovarono anche
dell'aspirina e Tylenol per il mal di testa che avevano tutti, oltre alle
docce, che una metà di loro decise di fare e l'altra metà no. Nella stanza
accanto c'era un buffet per la colazione che non mancò di sorprenderli,
con teglie piene di uova strapazzate, frittelle, salsicce e pancetta
affumicata. Alcuni di loro si ricordavano persino di come si usano i
tovaglioli, come poterono constatare quelli che si trovavano nella sala
d'osservazione.
Dopo aver finito la colazione, incontrarono il loro rapitore, che offrì
vestiti puliti.
«Che posto è questo?» chiese quello conosciuto dal personale solo
come Numero 4, sicuro che non si trattasse di una delle missioni Bowery
che conosceva tanto bene.
«La mia società sta effettuando una ricerca», disse il padrone di casa da
dietro una mascherina allacciata stretta. «Voi signori farete parte di
questa ricerca. Resterete con noi per un po'. Avrete letti puliti, vestiti
puliti, buon cibo, buone cure mediche e...» aggiunse tirando indietro
un pannello, «tutto quello che vorrete bere.» In una nicchia nel muro,
che stranamente gli ospiti non avevano ancora scoperto, c'erano tre
scaffali con ogni tipo di vino, birra e liquori delle marche che si
potevano acquistare in un qualsiasi negozio di alcolici, con bicchieri,
acqua, bevande aggiuntive e ghiaccio.
«Vuol dire che non possiamo andarcene?» chiese il Numero 7.
«Preferiremmo che rimaneste», rispose il padrone di casa in modo
un po' evasivo. Indicò il mobile dei liquori, con gli occhi che gli
sorridevano attorno alla mascherina. «Qualcuno vuole un cicchetto per
svegliarsi?»
Risultò che per nessuno di loro era troppo presto e che i costosi
bourbon e whisky erano i primi a sparire.
L'aggiunta di droghe nell'alcool non dava alcun sapore particolare e
gli ospiti si diressero tutti ai loro letti. Accanto a ognuno c'era un
apparecchio tv. Altri due decisero di fare una doccia. Tre addirittura si
rasarono, uscendo dalla stanza da bagno con un aspetto del tutto
umano. Per ora.
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Nella sala d'osservazione distante metà edificio, la dottoressa Archer
azionava le varie telecamere per avere dei primi piani di ogni ospite.
«Sono tutti casi abbastanza rappresentativi», osservò. «Il loro sistema
ematico sarà disastroso.»
«Oh, sì, Barb», convenne il dottor Killgore. «Soprattutto il Numero 3
non ha un bell'aspetto. Pensi che potremo ripulirlo un po' prima?»
«Penso che dovremmo provare», dichiarò Barbara Archer, dottoressa in
medicina. «Non possiamo alterare troppo i criteri di prova.»
«Sì, e sarebbe deleterio per il morale se ne lasciassimo morire uno
troppo presto», proseguì Killgore.
«Che capolavoro può essere un uomo», affermò la Archer, sospirando.
«Non tutti, Barb.» Fece una risatina. «È sorprendente che non abbiano
trovato una donna o due per il gruppo.»
«Per me no», replicò la femminista dottoressa Archer, con gran
divertimento del più cinico Killgore. Ma non valeva la pena prendersela.
Distolse lo sguardo dalla serie di schermi televisivi e prese in mano il
promemoria proveniente dalla sede centrale della società. Gli ospiti
dovevano essere trattati in quanto tali, nutriti, puliti e lasciati bere
quanto volevano, compatibilmente con il proseguimento delle loro
funzioni corporali. Preoccupava un po' l'epidemiologo il fatto che i loro
ospiti, semplici cavie, fossero alcolisti di strada seriamente menomati.
Era ovvio che il vantaggio di utilizzarli era che non sarebbero stati
dati per dispersi, nemmeno da quelli che avrebbero potuto passare
per amici. Pochi avevano dei parenti che avrebbero saputo dove
cercarli. Un numero esiguo aveva qualcuno che poteva essere sorpreso
della lo- ro scomparsa. E nessuno, secondo Killgore, aveva voglia di
avvertire le autorità competenti e, anche se ciò fosse avvenuto, se ne sarebbe preoccupata la polizia della città di New York? Molto difficilmente.
Tutti i loro ospiti erano persone estromesse dalla società. Questi
esempi della specie umana autodefinitasi simile a Dio erano meno utili
degli animali da laboratorio che stavano ora sostituendo, ed erano anche
molto meno simpatici alla dottoressa Archer, che provava almeno dei
sentimenti per i conigli e anche per i topi.
Killgore lo trovava divertente. A lui non importava granché nemmeno
di loro, almeno non come singoli animali. Era la specie nel suo insieme
che contava. E per quanto riguardava gli ospiti, non erano nemmeno
buoni esempi della sottospecie umana di cui la specie non aveva
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bisogno. Killgore lo era. E anche Barbara, nonostante le sue sciocche
opinioni politico-sessuali. Killgore tornò alle sue carte e buttò giù
qualche appunto. L'indomani avrebbero effettuato le visite mediche.
Ci sarebbe stato da divertirsi, ne era sicuro.
2
IN SELLA
Le prime due settimane trascorsero in maniera abbastanza piacevole.
Chavez adesso correva per otto chilometri senza alcuna fatica, eseguendo
il numero richiesto di flessioni con il suo team e sparando con notevole
precisione, senza però riuscire a raggiungere il livello di Connolly e
dell'americano Hank Patterson. Quei due dovevano essere entrambi nati
con la pistola nella culla o qualcosa del genere, pensò Ding dopo aver
sparato trecento colpi al giorno per uguagliarli. Gli uomini del SAS gli
avevano riferito che al reggimento c'era uno specialista armiere che
avrebbe potuto essere un allievo di Sam Colt. Magari erano un po' più
morbidi sul grilletto, oppure era solo l'orgoglio che li faceva parlare così.
Le pistole erano armi secondarie. Con le loro H&K MP-10, tutti erano
in grado di piazzare in rapida successione tre colpi in una testa a
cinquanta metri, quasi alla velocità del pensiero. Era gente incredibile, i
migliori soldati che avesse mai incontrato o di cui avesse sentito parlare,
riconobbe Ding, sedendosi alla scrivania e sbrigando un po' dell'odiato
lavoro di ufficio. Fece un grugnito. C'era qualcuno al mondo che non
odiasse lavorare sulle scartoffie?
Il team passava buona parte della giornata seduto alle scrivanie a
leggere, soprattutto materiale dell'intelligence, su quale terrorista si
pensava fosse in un certo posto secondo una tale agenzia o reparto di
polizia o informatore. Di fatto i dati analizzati erano pressoché inutili,
ma dal momento che erano quanto di meglio avessero a disposizione, li
studiavano comunque, anche per interrompere la routine. C'erano pure
foto dei terroristi di tutto il mondo ancora in vita. Carlos lo Sciacallo,
ora sulla cinquantina e chiuso in una prigione di massima sicurezza
francese, era quello che tutti avrebbero voluto avere nel curriculum.
Le sue foto erano manipolate al computer per simularne l'aspetto alla
sua età attuale, poi venivano confrontate con le immagini ricevute dai
francesi. I membri del team passavano il tempo a memorizzarle tutte
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perché poteva capitare che una qualche notte oscura, in qualche posto
sconosciuto, un lampo di luce rivelasse una di quelle facce, e ci sarebbe
stato solo quell'attimo per decidere se mirare alla testa.
Se avevi l'occasione di catturare un altro Carlos Il'ych Ramirez
Sanchez, non volevi lasciartela scappare, perché avrebbe significato la
celebrità, rifletté Ding. Non saresti più riuscito a comprarti una birra in
un bar della polizia o dei corpi speciali in nessuna parte del mondo, tanto
saresti diventato famoso. La cosa davvero incredibile era che quelle
ammucchiate sulla sua scrivania dopotutto non erano scartoffie. Se mai
avessero catturato un nuovo Carlos, sarebbe stato perché qualche
poliziotto locale in Brasile o in Bosnia, o da qualche altra parte, aveva
sentito qualcosa da un informatore, era andato in una certa casa e aveva
dato un'occhiata. Poi qualcosa era scattato nel suo cervello grazie a tutti i
volantini che riempivano le stazioni di polizia di tutto il mondo e sarebbe dipeso dall'esperienza sul campo di quell'agente valutare se era
possibile arrestare il bastardo subito. Ma se la situazione appariva un po'
troppo complessa, magari un reparto speciale come il team 2 di Ding
sarebbe intervenuto in modo silenzioso e avrebbe abbattuto quel fottuto,
anche davanti a moglie o bambini eventualmente presenti, all'oscuro
della precedente carriera di papà, e poi la notizia sarebbe stata trasmessa
dalla CNN, con un indice d'ascolto da sballo.
Quello era il problema di lavorare dietro una scrivania. Si cominciava a
sognare a occhi aperti. Chavez, finto maggiore, dopo aver controllato
l'orologio, si alzò e, entrato nell'ufficio comune, consegnò la sua pila di
scartoffie alla signorina Moony. Stava per chiedere a tutti se erano pronti,
ma dovevano esserlo dato che l'unica altra persona cui chiederlo si era
già incamminata verso la porta. Per via, prese la pistola e il cinturone.
La fermata successiva era quello che i britannici chiamavano
vestibolo, tranne che non vi erano vestiti, bensì uniformi da lavoro color
carbone, complete di giubbotti antiproiettile.
Il team 2 era tutto lì, ormai pronto con alcuni minuti di anticipo per
l'esercitazione quotidiana. Gli uomini erano rilassati, sorridenti e
scherzosi. Dopo aver indossato l'equipaggiamento, raggiunsero l'armeria
per ritirare le pistole mitragliatrici. Ognuno passò la tracolla a doppio
giro dell'arma attorno alla testa, poi verificò che i caricatori fossero pieni,
li infilò nell'apposita sede nella parte inferiore e fece arretrare
l'otturatore per camerare il colpo e mise l'arma in sicura, infine regolò il
calciolo per far sì che si adattasse al proprio fisico.
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Le esercitazioni erano state senza fine, o almeno tali sembravano dopo
due settimane. C'erano sei scenari base, ognuno dei quali poteva essere
situato in ambienti diversi. Quello che detestavano di più era ambientato
all'interno della carlinga di un aereo passeggeri. In questo caso, l'unico
lato positivo era la limitazione imposta ai cattivi, che non sarebbero
potuti andare da nessuna parte. Il resto era del tutto negativo. Un sacco
di civili vicino ai settori di tiro, buone possibilità di nascondersi per i
cattivi e, se davvero uno di loro avesse avuto indosso una bomba, come
dicevano quasi sempre di avere, gli bastava avere il fegato di strappare la
sicura o chiudere il contatto e tutti a bordo sarebbero finiti arrosto. Per
fortuna, pochi sceglievano di morire in quel modo. Ma Ding e i suoi
non potevano rischiare. Il più delle volte i terroristi sembravano temere
più la cattura che la morte, di conseguenza i colpi dovevano essere
rapidi e perfetti, e il team doveva avventarsi sull'aereo come un tornado
del Kansas a mezzanotte. Qui giocavano un ruolo molto importante le
flash-bang, ordigni che generano un forte lampo e un rumore
assordante, per frastornare quei bastardi e renderli momentaneamente
inabili al combattimento. In tal modo era possibile doppiare i colpi su
teste praticamente immobili, sperando che i civili da salvare non si
alzassero e non si mettessero in mezzo a quel poligono di tiro che la
fusoliera del Boeing o dell'Airbus era di colpo diventata.
«Team 2, pronto?» chiese Chavez.
«Sissignore!» giunse la risposta in coro.
Ding li condusse fuori e fecero di corsa quasi un chilometro fino al
poligono di tiro, una corsa dura, non il jogging veloce degli esercizi
giornalieri. Johnston e Weber erano già sul luogo, agli angoli opposti
della struttura rettangolare.
«Comandante al tiratore Due-Due», disse Ding nel microfono montato
nell'elmetto. «Niente da riferire?» Ogni team, o distaccamento operativo,
aveva due tiratori scelti indicati con un doppio numero: la prima cifra
si riferisce al team di appartenenza, la seconda al tiratore.
«Negativo, comandante. Nulla di nulla», rispose Weber.
«Tiratore Due-Uno?»
«Comandante», comunicò Johnston, «ho visto muoversi una tenda,
ma nient'altro. Gli strumenti indicano da quattro a sei voci all'interno,
che parlano inglese. Nient'altro da segnalare.»
«Okay», rispose Ding, mentre il resto della squadra era nascosto
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dietro un autocarro. Lanciò un'ultima occhiata alla disposizione
dell'interno dell'edificio. L'assalto era stato studiato nei minimi
dettagli. I tiratori conoscevano così bene l'interno della struttura da
vederlo a occhi chiusi. Conscio di questo, Ding fece cenno ai suoi uomini
di muoversi.
Paddy Connolly si portò in testa, correndo verso la porta. Non appena
arrivato lì, mollò la sua H&K lasciandola penzolare dalla tracolla ed
estrasse la miccia a strappo dal marsupio appeso al giubbotto
antiproiettile. Fissò l'esplosivo all'intelaiatura della porta con il suo adesivo e
spinse la capsula detonante nell'angolo in alto a destra. Dopo un secondo, si
spostò sulla destra di tre metri, tenendo il comando del detonatore alto
nella mano sinistra mentre con la destra afferrò il calcio della pistola
mitragliatrice e lo alzò puntando al cielo.
Bene, pensò Ding. Era tempo di muoversi. «Andiamo!» gridò al suo
team.
Mentre il primo si fondava dietro l'autocarro, Connolly premette il
pulsante e l'intelaiatura della porta si disintegrò. Il primo tiratore, il
sergente Mike Pierce, arrivò dopo meno di un secondo, scomparendo nel
varco pieno di fumo mentre Chavez fu subito dietro di lui.
L'interno era buio, l'unica luce proveniva dall'apertura della porta
sventrata.
Pierce perlustrò la stanza, la trovò vuota e si piazzò presso la porta che
immetteva nel locale successivo. Ding si precipitò dentro per primo,
alla testa del team; eccoli dov'erano, quattro bersagli e quattro ostaggi.
Chavez sollevò la sua MP-10 ed esplose due colpi con silenziatore nella
testa del bersaglio più a sinistra. Osservò i colpi andare a segno, proprio
tra gli occhi dipinti di blu, poi si spostò a destra per vedere che Steve
Lincoln aveva colto il suo uomo proprio come programmato. Dopo
meno di un secondo, si accesero le luci. Era tutto finito, tempo trascorso
dall'esplosione della carica, sette secondi. Per l'esercitazione ne erano stati
programmati otto.
«Porca puttana, John!» disse al comandante di Rainbow.
Clark stava in piedi, sorridendo al bersaglio alla sua sinistra, a meno di
mezzo metro, con i due fori così ben fatti da garantire una morte certa
e istantanea. Non indossava alcun giubbotto antiproiettile. E nemmeno
l'indossava Stanley, dall'altra parte del locale, che cercava anche di fare il
gradasso a beneficio delle signorine Foorgate e Montgomery, sedute
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nei sedili centrali con addosso giubbotti protettivi. La presenza delle
donne sorprese Chavez, finché non si ricordò che facevano anch'esse
parte del distaccamento e con tutta probabilità erano desiderose di
dimostrarsi all'altezza dei ragazzi. Non poteva che ammirare il loro spirito, se non il loro buon senso.
«Sette secondi. Va bene, mi pare. Cinque andrebbero meglio», osservò
John, ma la dimensione dell'edificio aveva condizionato non poco la
velocità con cui il team aveva potuto coprire la distanza. Attraversò la
stanza, verificando tutti i bersagli. Quello di McTyler aveva un unico foro,
anche se la sua forma irregolare dimostrava che erano stati esplosi
entrambi i colpi secondo i parametri dell'esercitazione. Ciascuno di
questi uomini si sarebbe guadagnato un posto sicuro nel 3° SOG, lo
Special Operation Group dei Berretti Verdi, e ciascuno era in gamba
come lo era stato lui, si disse John Clark. I metodi d'addestramento erano
migliorati notevolmente dai suoi tempi in Vietnam. Aiutò Helen
Montgomery ad alzarsi. Sembrava solo un po' scossa. Non c'era da sorprendersi. Trovarsi dalla parte dove arrivavano le pallottole non era
proprio ciò per cui erano pagate le segretarie.
«Tutto bene?» chiese John.
«Oh, benissimo, grazie. È stato piuttosto emozionante. Sa, è la mia
prima volta.»
«Per me è la terza», affermò Alice Foorgate, alzandosi. «È sempre
emozionante», aggiunse con un sorriso.
Anche per me, pensò Clark. Nonostante la fiducia riposta in Ding e nei
suoi uomini, guardando la canna di una mitragliatrice leggera e
vedendo le fiammate uno si sentiva un po' gelare il sangue. Inoltre, non
indossare il giubbotto antiproiettile non era proprio igienico, benché lui
giustificasse l'imprudenza dicendosi che doveva vedere meglio per
poter osservare eventuali errori.
«Ottimo», sottolineò Stanley dall'altra estremità della pedana. Poi,
puntando il dito, disse: «Tu!»
«Patterson, signore», rispose il sergente. «Lo so, sono come inciampato
entrando.» Si girò e vide che un pezzo dell'intelaiatura della porta era
stato scagliato attraverso l'entrata nella stanza dove avevano sparato e
lui c'era quasi incespicato sopra.
«Ti sei ripreso bene, sergente Patterson. Mi sono accorto che la tua mira
non ne ha risentito affatto.»
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«No, signore», concordò Hank Patterson, con un'espressione seria.
Il comandante del team si diresse verso Clark, mettendo la sicura
alla sua arma.
«Segna che siamo pronti per la missione, Mr. C.», annunciò Chavez con
un sorriso fiducioso. «Di' ai cattivi che è meglio che si parino il culo.
Com'è andato il team 1?»
«Due decimi di secondo in meno», rispose John, contento di vedere il
piccolo comandante del team 2 restare un po' mortificato. «E grazie.»
«Di che?»
«Di non aver fatto fuori tuo suocero.» John gli diede una pacca sulla
spalla e uscì.
«Okay, ragazzi», comunicò Ding al team, «prepariamoci per le
critiche.» Non meno di sei telecamere avevano registrato l'esercitazione.
Stanley le avrebbe esaminate fotogramma per fotogramma. Tutto sarebbe
stato poi seguito da alcuni boccali nel club sottufficiali del 22°
reggimento. I britannici, Ding lo aveva imparato nelle due settimane
precedenti, prendevano la loro birra molto sul serio e lo scozzese
McTyler sapeva lanciare le freccette non meno bene di come Homer
Johnston sapeva sparare con un fucile. Costituiva uno strappo al
protocollo il fatto che Ding, falso maggiore, bevesse con i suoi uomini,
tutti sergenti. Giustificava il suo comportamento facendo notare che anche
lui era stato un sergente comandante di squadra prima di trasformarsi in
un uomo della Central Intelligence Agency, e poi li sommergeva di storie
della sua passata esperienza fra i Ninja, storie che gli altri ascoltavano con
un misto di rispetto e di divertimento. Ninja è il soprannome dato ai
membri delle squadre speciali che indossano tute operative simili a quelle
dei combattenti orientali. E nonostante l'efficienza della 7a divisione di
fanteria, questi erano ancora più bravi. Persino Domingo era costretto
ad ammetterlo, dopo alcuni boccali di John Courage.
«Bene, Al, che te ne pare?» chiese John. L'armadietto dei liquori
del suo ufficio era aperto, un puro malto scozzese per Stanley, mentre
Clark sorseggiava un bourbon.
«I ragazzi?» Alzò le spalle. «Dal punto di vista tecnico, molto
competenti. La precisione di tiro è quasi perfetta, la preparazione atletica
va bene. Reagiscono positivamente agli ostacoli e agli imprevisti, e non ci
hanno fatto fuori con pallottole vaganti.»
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«Ma?» domandò Clark con sguardo interrogativo.
«Ma non si sa mai finché non succede nella realtà. Oh, sì, sono bravi
come quelli del SAS, ma i migliori fra loro sono ex SAS...»
Pessimismo del vecchio mondo, pensò John Clark. Era il problema
degli europei. Nessun ottimismo, troppo spesso alla ricerca delle cose
che sarebbero andate storte invece che per il verso giusto.
«Chavez?»
«Ragazzo fantastico», riconobbe Stanley. «Bravo quasi quanto Peter
Covington.»
«Concordo», ammise Clark, nonostante il piccolo affronto per suo
genero. Ma Covington era a Hereford da sette anni. Un altro paio di
mesi e Ding gli sarebbe stato alla pari. C'era già molto vicino. Nel
complesso, si disse John, aveva la gente giusta, addestrata al punto
giusto. Ora, tutto quello che aveva da fare era mantenere il livello.
Addestramento. Addestramento. Addestramento.
E non sapeva che tutto era già iniziato.
«Allora, Dmitrij», disse l'uomo.
«Sì?» rispose Dmitrij Arkadeevič Popov, facendo girare la vodka nel
bicchiere.
«Dove e come cominciamo?»
Si erano incontrati per un caso fortunato, pensarono entrambi,
anche se per ragioni molto diverse. Era successo a Parigi, in un caffè sul
marciapiede, con i tavolini uno vicino all'altro, dove uno aveva notato che
l'altro era russo e voleva porgli alcune semplici domande sugli affari in
Russia. Popov, ex funzionario del KGB, mandato in pensione e alla
ricerca di occasioni per entrare nel mondo del capitalismo, aveva subito
compreso che questo americano possedeva una gran quantità di denaro e
che valeva la pena tenerselo buono. Aveva risposto alle domande in modo
aperto e chiaro, facendo subito capire all'americano la sua precedente occupazione. La conoscenza delle lingue (Popov parlava alla perfezione
inglese, francese e ceco) lo aveva tradito, così come la conoscenza di
Washington, DC. Popov non era certo un diplomatico, essendo troppo
aperto e schietto nelle sue opinioni, caratteristica che aveva bloccato la
sua carriera nell'ex KGB sovietico al grado di colonnello, anche se lui si
riteneva degno di quello di generale. Come al solito, una cosa aveva tirato
l'altra, lo scambio dei biglietti da visita, poi un viaggio negli Stati Uniti,
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prima classe con Air France, come consulente per la sicurezza, e una
serie d'incontri che avevano preso una piega tale da sorprendere più il
russo dell'americano. Popov aveva impressionato l'americano con la sua
conoscenza dei problemi della sicurezza nelle strade delle città
straniere, infine il discorso si era spostato su aree di esperienza molto
diverse.
«Come fa a sapere tutto questo?» aveva chiesto l'americano nel suo
ufficio di New York.
Dopo tre doppie vodke, aveva risposto con un largo sorriso. «Conosco
quella gente, è ovvio. Andiamo, deve sapere quello che facevo prima di
lasciare il servizio del mio paese.»
«Ha lavorato davvero con i terroristi?» aveva domandato, sorpreso già
allora da quella confidenza.
Popov aveva dovuto spiegarsi facendo riferimento al giusto contesto
ideologico: «Ricorderà che, per noi, non erano affatto terroristi. Erano
compagni di fede nella pace mondiale e nel marxismo-leninismo,
compagni nella lotta per la libertà dell'uomo e, per dire la verità,
strumenti utili, tutti fin troppo disposti a sacrificare la propria vita in
cambio di un piccolo supporto».
«Davvero?» si era stupito di nuovo l'americano. «Avrei pensato che
fossero motivati da qualcosa d'importante.»
«Oh, lo sono», aveva confermato Popov, «ma gli idealisti sono dei
pazzi.»
«Alcuni sì», aveva ammesso il suo interlocutore facendo un cenno
perché proseguisse.
«Credono a tutta la retorica, a tutte le promesse. Non vede? Anch'io ero
un membro del partito. Ho pronunciato le parole giuste, dato le
risposte giuste, partecipato alle riunioni, pagato le mie quote al partito. Ho
fatto tutto quello che dovevo, ma, in effetti, appartenevo al KGB. Ho
viaggiato all'estero. Ho visto com'era la vita in Occidente. Preferivo
viaggiare all'estero per... affari piuttosto che lavorare al numero 2 di
piazza Dzeržinskij. Cibo migliore, vestiti migliori, tutto migliore. A
differenza di questi giovani folli, sapevo qual era la verità», aveva
concluso, brindando con il bicchiere mezzo pieno.
«Così, che cosa fanno ora?»
«Si nascondono», aveva risposto Popov. «Quasi tutti si nascondono.
Alcuni magari hanno un lavoro, spesso umile, immagino, nonostante la
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maggior parte abbia un'istruzione di livello universitario.»
«Mi chiedo...» aveva detto l'uomo con uno sguardo che lasciava
trasparire pensieri lontani, esibito però con tale bravura che Popov
aveva messo in dubbio la sua autenticità.
«Si chiede che cosa?»
«Se è possibile entrare in contatto con loro...»
«Ma certo, se ce ne fosse il motivo. I miei contatti...» aveva continuato,
picchiettandosi la tempia. «Be', queste cose non svaniscono.» Dove si
andava a parare?
«Dmitrij, anche i cani da combattimento hanno i loro impieghi, e
ogni tanto», aveva aggiunto con un sorriso imbarazzato, «sa com'è...»
In quel momento, Popov si era chiesto se i film erano tutti veri.
Davvero gli uomini d'affari americani complottavano con gli assassini dei
loro concorrenti commerciali e cose del genere? Sembrava tutta una follia,
ma forse i film non erano del tutto privi di fondamento...
«Mi dica», aveva proseguito l'americano, «ha davvero lavorato con
quella gente, cioè, ha pianificato alcune delle azioni che hanno
compiuto?»
«Pianificato? No», aveva risposto il russo, scuotendo la testa. «Ho
fornito assistenza, questo sì, seguendo le direttive del mio governo. Il più
delle volte ho agito come una specie di corriere.» Co me incarico non era
un granché, in sostanza si trattava di fare il postino con il compito di
consegnare messaggi speciali a quei ragazzi perversi, ma era una funzione
che si era guadagnato grazie alla sua straordinaria abilità sul campo e alla
sua capacità di parlare, in pratica, con chiunque e di qualunque
argomento, dato che i contatti erano così difficili da gestire una volta che
avevano deciso di fare qualcosa. Popov era stato uno spione, per dirla nel
gergo occidentale, un ufficiale dell'intelligence davvero eccellente sul
campo, che non era mai stato, per quanto ne sapesse lui, identificato da
alcun servizio di controspionaggio occidentale. Altrimenti, il suo
ingresso negli Stati Uniti attraverso l'aeroporto internazionale Kennedy
non avrebbe mancato di riservare sorprese.
«Così, lei davvero sa come entrare in contatto con quella gente?»
«Sì», lo aveva rassicurato Popov.
«Notevole.» L'americano si era alzato. «Bene, che ne dice di mangiare
qualcosa?»
Al termine della cena, Popov stava guadagnando centomila dollari
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all'anno come consulente speciale e si chiedeva dove lo avrebbe portato
questo nuovo incarico sebbene, in realtà, non gliene importasse
nulla. Centomila dollari rappresentavano un bel po' di denaro per un
uomo i cui gusti erano di fatto piuttosto sofisticati e richiedevano un
adeguato supporto.
Adesso erano già passati dieci mesi e la vodka, nel bicchiere con due
cubetti di ghiaccio, era ancora buona. «Dove e come?» sussurrò Popov.
Lo divertiva il posto dove si trovavano ora e quello che stava facendo. La
vita era davvero molto strana, quali strade prendevi, e dove ti
conducevano. Dopotutto, era appena stato a Parigi nel pomeriggio,
passando il tempo in attesa d'incontrarsi con un ex collega del DGSE.
«Allora, per quando è stato deciso?»
«Sì, ha la data, Dmitrij.»
«So chi vedere e chi chiamare per organizzare l'incontro.»
«Lo deve fare faccia a faccia?» domandò l'americano, piuttosto
stupidamente, pensò Popov.
Un sorriso di circostanza. «Mio caro amico, sì, faccia a faccia. Queste
cose non si organizzano con un fax.»
«È un rischio.»
«Piccolo. L'incontro avverrà in un luogo sicuro. Nessuno mi scatterà
fotografie e mi conoscono solo con una password e un nome in codice e,
naturalmente, dai soldi.»
«Quanto?»
Popov scrollò le spalle. «Oh, diciamo cinquecentomila dollari? In
contanti, naturalmente, dollari americani, marchi tedeschi, franchi
svizzeri, dipende da quello che preferiscono i nostri amici», aggiunse
tanto per mettere in chiaro le cose.
L'ospite scarabocchiò velocemente una nota e gli porse il foglietto.
«Ecco quello che le serve per avere il denaro.» E con ciò tutto ebbe inizio.
La morale era sempre un fattore variabile, che dipendeva dalla cultura,
dalle esperienze e dai principi di singoli uomini e donne. Nel caso di
Dmitrij, la sua cultura di base aveva poche regole, semplici e ciniche, che
le sue esperienze avrebbero messo in pratica; il suo principio
fondamentale era guadagnarsi da vivere.
«Ciò comporta per me una certa dose di pericolo e, come sa, il mio
stipendio...»
«Il suo stipendio è appena raddoppiato, Dmitrij.»
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Un sorriso. «Ottimo.» Un buon inizio. Nemmeno la mafia russa
faceva fare carriera tanto alla svelta.
Tre volte alla settimana si esercitavano nella discesa con il canapone o
barbettone, una grossa fune fissata a una piattaforma posta a diciotto
metri da terra lungo la quale scivolavano tenendosi con le mani e i
piedi. Più o meno una volta alla settimana lo facevano nella realtà,
calandosi da un elicottero dell'esercito britannico. A Chavez non piaceva
molto. La scuola per le truppe aerotrasportate era stata una delle poche
cose che aveva evitato nel servizio militare, il che era piuttosto strano,
pensandoci bene. Aveva frequentato la scuola dei Ranger come
sottufficiale, ma per qualche ragione non era riuscito ad andare a Fort
Benning.
Così questa era, subito dopo, la cosa migliore o peggiore che poteva
fare, secondo il suo punto di vista. Rimase con il piede sul pattino mentre
l'elicottero si avvicinava al punto di discesa. Le mani con i guanti
tenevano la grossa fune, lunga una trentina di metri, nel caso il pilota
sbagliasse a valutare qualcosa. Tutti avevano poca fiducia nei piloti,
benché la loro vita dipendesse così spesso da loro, e questo sembrava
abbastanza bravo. Era un po' come fare i cowboy: la parte finale della
simulazione prevedeva d'inserirsi attraverso un varco fra gli alberi e le
fronde più alte sfregarono contro la sua uniforme. L'elicottero diminuì
bruscamente la velocità per posizionarsi in hovering, ossia a punto fisso.
Chavez strinse le gambe, con un salto si allontanò dal pattino e
cominciò la discesa. La parte più difficile era fermarsi poco prima del
suolo, arrivandoci abbastanza alla svelta da non presentarsi come un bersaglio penzolante... fatto, e con il piede toccò il terreno. Lasciò la fune
allontanandola da sé, afferrò la sua H&K con entrambe le mani e si
diresse verso l'obiettivo, dopo essere sopravvissuto alla sua
quattordicesima operazione di discesa con la fune, la terza da un
elicottero.
In tutto questo c'era un lato piacevole, si disse mentre correva. Era
tornato a essere fisicamente un soldato, qualcosa che aveva un tempo
imparato ad amare e che i suoi compiti nella CIA gli avevano spesso
negato. Chavez era uno che amava il sudore, le esercitazioni militari sul
campo e, soprattutto, stare con quelli che condividevano i suoi gusti.
Era duro. Era pericoloso: ciascun membro del team aveva subito
qualche piccola lesione o altro nell'ultimo mese, tranne Weber, che
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sembrava fatto d'acciaio, e prima o poi, secondo la statistica, qualcuno si
sarebbe fatto male sul serio, molto probabilmente una gamba fratturata
durante una discesa con la fune. A Fort Bragg era raro che la Delta Force
avesse una squadra al completo pronta alla missione, a causa di
incidenti e ferite durante l'addestramento. Ma un addestramento duro
preparava al combattimento. Così diceva il motto di tutti gli eserciti
efficienti del mondo. Un'esagerazione, ma non più di tanto. Guardandosi
indietro dalla sua postazione nascosta, Chavez vide il team 2 tutto giù e
in movimento, persino Vega, ed era notevole. Con la massa muscolare di
Oso, Chavez temeva sempre per le sue caviglie. Weber e Johnston si
stavano proiettando verso i punti programmati, trasportando ciascuno il
fucile con il mirino personalizzato. Gli auricolari montati negli elmetti
funzionavano, sibilando con il sistema di criptaggio digitalizzato in modo
che solo i membri del team potessero comprendere quello che veniva
detto. Ding si voltò e vide che tutti erano alle postazioni previste, pronti
per il successivo ordine.
Il centro comunicazioni si trovava al secondo piano dell'edificio i
cui lavori di ristrutturazione erano appena terminati. Disponeva del
solito numero di telescriventi per le varie agenzie stampa del mondo, più
televisori per CNN e Sky News e poche altre trasmittenti. Venivano
tenute sotto controllo da personale specializzato e la responsabilità era
affidata a turno a un ufficiale di carriera dell'intelligence. Adesso era di
servizio un americano della National Security Agency, un maggiore
dell'aeronautica che di solito vestiva abiti civili senza peraltro riuscire a
nascondere la sua nazionalità o il tipo di addestramento.
Il maggiore Sam Bennett si era adattato presto al nuovo ambiente.
Sua moglie e suo figlio non erano molto entusiasti della tv locale ma
trovavano il clima piacevole e c'erano alcuni buoni campi da golf a
portata di macchina. Ogni mattina faceva jogging per cinque chilometri
per far sapere al gruppo locale di pettegoli che non era del tutto un
imbranato e, entro poche settimane, si aspettava di entrare in azione.
Altrimenti, il suo lavoro qui era piuttosto facile. Il generale Clark, come
tutti sembravano considerarlo, era un buon comandante. Gli piacevano
le azioni pulite e veloci. E non era nemmeno uno che sbraitava.
Bennett aveva lavorato per alcuni urlatori nei suoi dodici anni di
servizio in uniforme. Bill Tawney, il responsabile della sezione
britannica d'intelligence, era forse il migliore che Bennett avesse mai
conosciuto, tranquillo, riflessivo e sveglio. Il maggiore aveva bevuto
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alcuni boccali di birra con lui nelle ultime settimane, parlando di lavoro al
club ufficiali di Hereford.
Gli incarichi come questo, però, il più delle volte erano noiosi. Aveva
lavorato nella sala operativa sotterranea della NSA [National Security
Agency, ossia l'agenzia per la sicurezza nazionale], uno stanzone con il
soffitto basso e le postazioni di lavoro con minitelevisori e stampanti che
riempivano il locale di un costante, leggero brusio in grado di farti
diventare matto nelle lunghe notti passate a tenere d'occhio l'intero
fottuto mondo. Almeno i britannici non credevano che servisse mettere in
gabbia tutte le api operaie. Poteva anche alzarsi e fare due passi. Qui il
personale era giovane. Solo Tawney superava i cinquanta, e a Bennett
anche questo non dispiaceva.
«Maggiore!» chiamò una voce da una delle telescriventi. «Abbiamo un
caso di sequestro in Svizzera.»
«Che agenzia?» chiese Bennett avvicinandosi.
«La France Press. Si tratta di una banca, una dannata banca», riferì il
caporale, mentre Bennett si avvicinava per leggere, senza riuscirvi visto
che non conosceva il francese. Il graduato invece sì, e tradusse al volo.
Bennett sollevò un telefono e premette un pulsante.
«Signor Tawney, abbiamo un incidente a Berna, un numero
imprecisato di criminali si è impadronito dell'agenzia centrale della
Banca Commerciale di Berna. Ci sono alcuni civili tenuti in ostaggio
all'interno.»
«C'è altro, maggiore?»
«Nulla, per il momento. La polizia è già sul posto.»
«Molto bene, grazie, maggiore Bennett.» Tawney interruppe la
conversazione e aprì un cassetto, estraendone un libro molto speciale. Poi
chiamò l'ambasciata britannica a Ginevra. «Il signor Gordon, per favore»,
chiese al centralinista.
«Gordon», rispose una voce dopo pochi secondi.
«Dennis, sono Bill Tawney.»
«Bill, è un po' che non ci sentiamo. Che cosa posso fare per te?»
«Banca Commerciale di Berna, agenzia centrale. Sembra che abbiano
preso degli ostaggi. Voglio che valuti la situazione e mi riferisca.»
«Come mai ti interessa, Bill?» domandò Gordon.
«Abbiamo un... accordo con il governo svizzero. Se la loro polizia ha
difficoltà a gestire la situazione, potremmo essere chiamati a fornire assistenza
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tecnica. Chi è che tiene in ambasciata i rapporti con la polizia?»
«Tony Armitage, lavorava a Scotland Yard. Esperto in crimini finanziari e
roba simile.»
«Portatelo dietro», ordinò Tawney. «Richiamami non appena sai
qualcosa.»
«Benissimo.» A Ginevra era un pomeriggio grigio. «Ci vorrà qualche ora
di tempo.»
Ed è probabile che finisca tutto in niente, erano convinti entrambi.
«Sarò qui. Grazie, Dennis.» Tawney lasciò l'ufficio e salì di sopra a guardare
la tv.
Dietro l'edificio del comando di Rainbow c'erano quattro grandi antenne
collegate a satelliti per comunicazioni. Con una semplice verifica potevano
sapere su quale canale di quale piattaforma spaziale andavano in onda le
trasmissioni della televisione svizzera; come in quasi tutti i paesi era più
facile ottenere informazioni da un satellite piuttosto che utilizzare i cavi
coassiali terrestri. In breve furono in grado di ricevere direttamente il notiziario dall'emittente locale. Al momento era in funzione una sola
telecamera. Si vedeva l'esterno di un edificio di tipo istituzionale. Gli
svizzeri tendevano a progettare le banche come fossero dei castelli urbani,
con una netta impronta tedesca per farli apparire solidi e austeri. La voce era
quella di un cronista che parlava con gli studi e non al pubblico. Era
presente un traduttore.
«"No, non ho alcuna idea. La polizia non ci ha ancora detto nulla"»,
disse il traduttore con cadenza monotona. Poi intervenne una voce nuova.
«Cameraman», esclamò il traduttore. «Sembra un cameraman, c'è
qualcosa.» La telecamera riprese una forma umana con in testa una specie
di maschera.
«Che tipo di arma è?» chiese Bennett.
«Modello 58 cecoslovacco», rispose subito Tawney. «Davvero bravo quello
alla telecamera.»
«"Che cosa ha detto?" Era lo studio al cronista», proseguì il traduttore,
dando solo un'occhiata alle immagini sullo schermo. «"Non so, non si
sente con tutto il rumore che c'è qui. Ha gridato qualcosa, non l'ho
sentito."Ah, bene. "Quanti sono?" "Non è sicuro, il Wachtmeister ha detto
oltre venti all'interno, clienti e impiegati della banca. Solo io e il mio
cameraman qui fuori, e riesco a vedere una quindicina di poliziotti." "Altri in
arrivo, immagino", risposta dallo studio.» Detto questo, l'audio cessò. La
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telecamera si spense e un fruscio indicò che il cameraman si stava spostando
in un'altra posizione. Dopo un minuto le immagini ritornarono, ma da una
diversa angolazione.
«Che succede, Bill?» Tawney e Bennett si girarono e videro Clark in
piedi dietro di loro. «Sono venuto per parlarvi ma la segretaria mi ha detto
che si sta muovendo qualcosa da queste parti.»
«Può darsi», replicò il capo della sezione intelligence.
«Ho appena fatto mandare dalla stazione Six di Ginevra due uomini per
valutare la situazione. Abbiamo quell'accordo con il governo svizzero,
dovessero decidere di servirsene. Bennett, lo stanno già mandando sulla tv
commerciale?»
Il maggiore scosse la testa. «No, signore. Per il momento non se ne parla
ancora.»
Bene, pensò Tawney. «Che team è di turno ora, John?»
«Il team 2, Chavez e Price. Stanno terminando una piccola esercitazione. Quanto tempo prima pensi che dobbiamo metterli in allerta?»
«Potremmo partire ora», rispose Bill, anche se probabilmente si trattava
soltanto di una rapina in banca andata male.
Clark estrasse dalla tasca una radio miniaturizzata. «Chavez, sono Clark. Tu
e Price venite al centro comunicazioni, subito.»
«Arriviamo, Six», fu la risposta.
«Mi chiedo di che cosa si tratti», disse Ding al suo sergente maggiore. Eddie
Price, l'aveva imparato nelle ultime tre settimane, era il miglior soldato che si
potesse mai incontrare: freddo, sveglio, tranquillo, con un sacco di
esperienza sul campo.
«Penso che lo scopriremo, signore», rispose Price. Sapeva che gli ufficiali
sentono il bisogno di parlare molto e ne ebbe subito la conferma.
«Da quanto sei qui, Eddie?»
«Quasi trent'anni, signore. Mi arruolai da ragazzino a quindici anni.
Reggimento paracadutisti», proseguì, proprio per evitare la domanda
successiva. «Venni al SAS quando ne avevo ventiquattro e da allora sono
rimasto qui.»
«Bene, sergente, sono contento di averti con me», disse Chavez, salendo
in macchina per andare al comando.
«Grazie, signore», replicò il sottufficiale. Un brav'uomo, questo Chavez,
pensò, forse anche un buon comandante. Avrebbe potuto fare le sue di
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domande, ma c'era il protocollo da rispettare. Per quanto bravo, Price non
sapeva ancora molto dei militari americani.
Dovresti essere ufficiale, Eddie. Ding non lo disse ma negli Stati Uniti
sarebbe stato strappato dalla sua unità, volente o nolente, e spedito alla
scuola ufficiali, magari con un diploma di un college acquistato lungo la
strada dall'esercito. Cultura diversa, regole diverse, disse Chavez tra sé.
Bene, così aveva come supporto un sergente maledettamente in gamba.
Dieci minuti dopo, parcheggiata l'auto sul retro dell'edificio,
entrarono e salirono, seguendo i cartelli fino al centro comunicazioni.
«Mr. C, che succede?»
«Domingo, forse abbiamo un lavoro per te e il tuo team. Berna,
Svizzera. Rapina in banca andata male, cattura di ostaggi. Tutto quello
che sappiamo per ora.» Clark indicò a entrambi gli schermi tv. Chavez e
Price presero due sedie girevoli e si avvicinarono.
Se non altro, andava bene per allenarsi allo stato d'allerta. Si mettevano
in movimento i meccanismi già pianificati. Al primo piano, erano già
stati presi i biglietti su non meno di quattro voli da Gatwick alla
Svizzera mentre due elicotteri erano in arrivo a Hereford per trasportare i
suoi uomini all'aeroporto con il loro equipaggiamento. La British Airways
era stata allentata di accettare un carico sigillato, dato che eventuali
controlli per il volo internazionale non avrebbero fatto altro che mettere la
gente in agitazione. Se lo stato d'allerta fosse proseguito, i membri del
team 2 avrebbero indossato abiti civili, comprese giacche e cravatte. Clark
lo considerava un po' eccessivo. Secondo lui non era facile dare a un
soldato l'aspetto di un impiegato di banca.
«Non succede un granché ora», osservò Tawney. «Sam, puoi mostrare i
nastri dall'inizio?»
«Sissignore.» Il maggiore Bennett ne riavvolse uno e premette il
pulsante play sul telecomando.
«Modello 58 cecoslovacco», indicò subito Price. «Nessuna faccia?»
«No, questa è l'unica cosa che abbiamo su quei tipi», rispose Bennett.
«Strana arma per dei rapinatori», osservò il sergente. Chavez girò la
testa. Questo era qualcosa che doveva ancora imparare sull'Europa. Qui i
rapinatori non usavano fucili d'assalto.
«E quello che ho pensato io», disse Tawney.
«Arma da terroristi?» chiese Chavez al vice del suo team.
«Sissignore. I cechi ne hanno vendute un sacco. Vede, è molto
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compatta. È lunga solo poco più di sessanta centimetri ed è costruita
dalle fabbriche Uhersky Broad. Cartuccia camerata per il 7.62x39
sovietico. Completamente automatica, dotata di sicura. Strano aggeggio
da usare per un bandito svizzero», ripeté con enfasi Price.
«Perché?» domandò Clark.
«Costruiscono armi molto migliori in Svizzera, signore, per le loro
milizie territoriali e i loro cittadini soldati le tengono negli armadi. Non
dovrebbe essere poi così difficile rubarne qualcuna.»
L'edificio rimbombò per il rumore degli elicotteri che atterravano a
poca distanza. Clark controllò l'orologio e fece un cenno di
approvazione per la puntualità.
«Che cosa sappiamo dei dintorni?» chiese Chavez.
«Ci stiamo lavorando ora», rispose Tawney. «Finora, solo quello che si
è visto in tv.»
Lo schermo televisivo mostrava una strada normale, priva di traffico
veicolare al momento poiché la polizia locale aveva deviato le auto e gli
autobus lontano dalla banca. Per il resto, i soliti edifici in muratura
allineati lungo una normale via cittadina. Chavez guardò Price, i cui
occhi erano incollati alle immagini sugli schermi, che adesso erano
due, poiché un'altra emittente svizzera aveva inviato lì una squadra per
fare la telecronaca, e dal satellite si ricevevano entrambi i segnali. Il
traduttore continuava a riferire le osservazioni degli operatori e dei
cronisti che erano sul posto ai rispettivi studi. Dicevano molto poco,
circa la metà erano chiacchiere che si sarebbero potute scambiare da una
scrivania all'altra in ufficio. Una telecamera o l'altra coglieva ogni tanto lo
spostamento di una tenda.
«È probabile che la polizia stia cercando di stabilire un contatto
telefonico con i nostri amici, parlare con loro, ragionare con loro, la
solita procedura», disse Price, rendendosi conto di avere in questo tipo di
cose più esperienza pratica di chiunque altro presente nel locale.
Conoscevano la teoria, ma non sempre bastava. «Nel giro di mezz'ora
sapremo se questa è una missione per noi oppure no.»
«Sono in gamba i poliziotti svizzeri?» domandò Chavez a Price.
«Molto, signore, ma non hanno una grande esperienza con un caso serio
di cattura di ostaggi.»
«Ecco perché abbiamo un accordo con loro», intervenne Tawney.
«Sissignore.» Price si piegò all'indietro, mise una mano in tasca e tirò
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fuori la pipa. «Qualcuno ha da obiettare?»
Clark scosse la testa. «Qui non c'è nessun salutista fanatico, sergente.
Che cosa intendi dicendo un "caso serio" di cattura di ostaggi?»
«Intendo criminali accaniti, terroristi», precisò Price. «Gente abbastanza
stupida da mettere la vita a repentaglio come su un tavolo da gioco. Tipi
che uccidono gli ostaggi per dimostrare di essere decisi.» Tipi cui noi
diamo la caccia e uccidiamo, non ci fu bisogno che aggiungesse Price.
C'era un'incredibile potenziale cerebrale lì intorno, in attesa di
essere utilizzato, pensò John Clark, soprattutto riguardo a Bill Tawney.
Ma senza informazioni, era difficile pontificare. Tutti gli occhi erano fissi
sugli schermi tv, sui quali si vedeva ben poco, e Clark si accorse di
sentire la mancanza di quelle inutili sciocchezze che ci si aspettava dai
telecronisti, abituati a riempire il silenzio con parole vuote. Forse l'unica
cosa interessante fu quando annunciarono un'intervista con la polizia
locale, la quale però si limitava a menzionare il tentativo di stabilire un
contatto con quei delinquenti, ma fino a quel momento senza successo.
Doveva essere una bugia, ma in casi come questo la polizia mentiva ai
media e al pubblico, poiché anche un terrorista di modesto livello avrebbe
avuto con sé un televisore e avrebbe avuto qualcuno che lo guardava per
riferire cosa facevano all'esterno. Si riuscivano a capire un sacco di cose
guardando la tv, altrimenti perché Clark e i suoi esperti colleghi
sarebbero stati anche loro lì a guardarla?
Rainbow aveva un accordo con il governo svizzero. Se la polizia locale
avesse avuto dei problemi, avrebbero passato la palla al Cantone, che
avrebbe a sua volta deciso se portarla o meno all'attenzione del governo
centrale, il cui personale a livello ministeriale avrebbe poi contattato
Rainbow. Tutto questo meccanismo era stato stabilito mesi prima,
come parte del mandato all'organizzazione diretta da Clark. La richiesta
d'aiuto sarebbe giunta attraverso il Foreign Office britannico a
Whitehall, sulle rive del Tamigi, nel cuore di Londra. Per John tutto ciò
sapeva di burocrazia, ma non c'era modo di evitarla e gli andava
ancora bene che non ci fossero altri livelli. Una volta inoltrata la
richiesta, le cose andavano più lisce, almeno in senso amministrativo. Ma
fino a quel momento, dagli svizzeri non avrebbero saputo nulla.
Dopo un'ora passata a vegliare la tv, Chavez se ne andò per mettere in
stato d'allerta il team 2. Vide che gli uomini la presero con calma,
preparando l'equipaggiamento che richiedeva sempre un controllo. Le
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notizie tv furono fatte arrivare agli apparecchi sulle loro scrivanie
personali e gli uomini si accomodarono nelle loro poltroncine girevoli per
guardare con calma, mentre il loro capo ritornava al centro
comunicazioni e gli elicotteri restavano in attesa sulle piazzole
all'esterno dell'edificio del team 2. Anche il team 1 fu posto in allerta
come riserva, nel caso gli elicotteri che trasportavano il 2 a Gatwick
precipitassero. Le procedure erano state studiate nei dettagli.
Sullo schermo tv, i poliziotti giravano in tondo, alcuni pronti a
muoversi, altri più semplicemente in piedi a guardare. Polizia addestrata
o no, non lo era comunque abbastanza per una situazione come questa,
e gli svizzeri, se avevano preso in considerazione una simile eventualità,
come chiunque nel mondo civile, non l'avevano fatto più seriamente
rispetto agli agenti di Boulder, Colo- rado. A Berna un fatto simile non
era mai successo prima e, fino a quel momento, non aveva fatto parte
della cultura del dipartimento di Polizia locale. I tedeschi, competenti
come nessun'altra polizia al mondo, avevano fallito in pieno il salvataggio
degli ostaggi a Fürstenfeldbrück, non perché fossero agenti incapaci, ma
perché per loro era la prima volta, e il risultato era stato che alcuni
atleti israeliani non avevano fatto ritorno a casa dalle Olimpiadi di
Monaco del 1972. Da allora tutto il mondo aveva imparato la lezione,
ma fino a che punto? Clark e gli altri se lo chiedevano.
Per un'altra mezz'ora sugli schermi si vide assai poco se non una via
cittadina deserta, poi un ufficiale superiore della polizia venne all'aperto,
con in mano un telefono cellulare. Dapprima tranquillo, all'improvviso
cominciò a cambiare atteggiamento. Si portò il cellulare all'orecchio
tenendolo incollato. Con la mano libera faceva dei gesti come per
calmare, quasi stesse parlando faccia a faccia con qualcuno.
«Qualcosa va storto», osservò il dottor Paul Bellow, il che non fu
affatto una sorpresa per gli altri, soprattutto per Eddie Price, che si
irrigidì nella poltrona, ma non disse nulla mentre continuava a tirare
boccate dalla pipa. Negoziare con gente come quella che controllava la
banca era quasi un'arte, ed era una cosa che questo sovrintendente di
polizia, o qualunque fosse il suo grado, doveva ancora imparare.
«"È stato uno sparo?"» tradusse l'interprete, riferendo le parole di
uno dei cronisti sul posto.
«Merda!» esclamò Chavez. La situazione aveva appena subito un
brusco cambiamento.
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Dopo meno di un minuto, si aprì una delle porte a vetri della banca
e un uomo in abiti civili trascinò un corpo sul marciapiede. Sembrava
quello di un uomo, ma la testa, mentre le telecamere riprendevano la
scena da diverse angolazioni, era una massa rossastra. L'uomo portò il
corpo completamente fuori e si bloccò nel momento in cui lo depositò a
terra.
Spostati a destra, va' a destra, pensò Chavez più intensamente che
poté. In qualche modo il pensiero doveva essere arrivato fin là,
poiché l'uomo senza nome, nel suo soprabito grigio, rimase in piedi
immobile per alcuni secondi, guardando in basso e poi, furtivamente,
secondo Chavez, andò a destra.
«"Qualcuno grida dall'interno della banca"», riferì il traduttore.
L'uomo si buttò a destra, lontano dalla doppia porta a vetri e al di
sotto del livello dei finestroni della banca. Si trovava ora sul marciapiede,
con un metro di blocchi di granito sopra la testa, invisibile dall'interno
dell'edificio.
«Bella mossa, vecchio mio», osservò con calma Tawney. «Ora,
vedremo se la polizia riesce a portarti al sicuro.»
Una delle telecamere inquadrò il sovrintendente, che si era portato
in mezzo alla strada con il suo cellulare e faceva ora frenetici cenni
perché quell'uomo stesse giù. Coraggioso o folle, impossibile a dirsi, il
poliziotto camminò lentamente ritornando verso la fila di auto della
polizia e, fatto straordinario, senza essere preso di mira da pallottole. Le
telecamere inquadrarono il fuggitivo. La polizia aveva creato un
cordone sul lato dell'edificio della banca, facendo cenno all'uomo di
strisciare, tenendosi basso, fino a dove si trovavano loro. Gli agenti in
uniforme avevano puntato le armi. Il loro atteggiamento denotava
tensione e frustrazione. Un poliziotto osservò il corpo sul marciapiede e
gli uomini a Hereford poterono facilmente interpretarne i pensieri.
«Signor Tawney, una chiamata per lei sulla linea quattro», annunciò
l'interfono. Il capo dell'intelligence andò al telefono e premette il
tasto indicato.
«Tawney... ah, sì, Dennis...»
«Chiunque siano, hanno appena assassinato un uomo.»
«Lo abbiamo visto. Riceviamo le immagini via cavo.» Questo significava che il viaggio a Berna di Gordon era una perdita di tempo... ma
no, non lo era. «È con te Armitage?»
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«Sì, Bill, sta andando ora a parlare con la polizia svizzera.»
«Ottimo. Rimango in attesa.»
Come se ci fosse un suggeritore, una telecamera mostrò un uomo in
abiti civili che camminava verso il sovrintendente. Estrasse un
documento di riconoscimento, parlò brevemente con l'ufficiale di
polizia e si allontanò, scomparendo dietro l'angolo.
«Qui parla Tony Armitage, con chi parlo?»
«Bill Tawney.»
«Bene, se conosce Dennis, suppongo che lei sia un Six. Che cosa posso
fare, signore?»
«Che cosa le ha detto la polizia?» Tawney premette il pulsante del
vivavoce.
«È già molto al di là della sua competenza. Ha detto che sta mandando
a chiedere consiglio al Cantone.»
«Mr. C?» disse Chavez dalla sua postazione.
«Ding, comunica agli elicotteri di mettere in moto, andate a Gatwick.
Aspettate lì per ulteriori istruzioni.»
«D'accordo, Mr. C. Team 2 in movimento.»
Chavez scese le scale seguito da Price, saltarono in macchina, e in
meno di tre minuti giunsero all'edificio del team 2.
«Ragazzi, se state guardando la tv, sapete quello che succede. In sella,
si va in elicottero a Gatwick.» Erano appena usciti dalla porta quando un
coraggioso poliziotto svizzero riuscì a portare in salvo il fuggitivo. La tv
lo mostrò mentre veniva caricato su un'auto, che partì immediatamente.
Ancora una volta era importante il linguaggio del corpo. I poliziotti che
prima erano sparsi in giro in maniera casuale, ora avevano assunto un
atteggiamento diverso, e se ne stavano accovacciati dietro le loro auto,
con le mani strette sulle armi, tesi ma ancora incerti sul da farsi.
«Si va in diretta tv adesso», riferì Bennett. «Sky News va in onda tra
poco.»
«C'era da aspettarselo», osservò Clark. «Dov'è Stanley?»
«È a Gatwick ora», rispose Tawney. Clark fece un cenno. Stanley
sarebbe andato con il team 2 come responsabile sul campo. Era andato
anche il dottor Paul Bellow. Sarebbe volato in elicottero con Chavez e
lo avrebbe consigliato insieme a Stanley sugli aspetti psicologici della
situazione tattica. Non c'era nient'altro da fare per il momento se non
ordinare un caffè e qualcosa da mangiare, cosa che Clark fece,
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prendendo una poltroncina e mettendosi a sedere davanti ai televisori.
3
GNOMI E FUCILI
Il volo in elicottero durò esattamente venticinque minuti e depositò il
team 2 e il suo equipaggiamento nella zona dell'aeroporto
internazionale destinata all'aviazione generale. C'erano in attesa due
pulmini e Chavez osservò i suoi uomini caricare la loro attrezzatura in
uno di essi per il trasporto al terminal della British Airways. Qui alcuni
poliziotti sorvegliarono lo stivaggio del materiale in un container, che
sarebbe stato scaricato per primo dopo l'arrivo dell'aereo a Berna.
Ma prima dovevano attendere l'ordine di partire per la missione.
Chavez tirò fuori il cellulare, lo aprì e premette il numero 1 di chiamata
rapida.
«Clark», disse la voce dopo un clic di via libera del software di
criptaggio.
«Sono Ding, John. Non è ancora arrivata la chiamata da Whitehall?»
«Siamo ancora in attesa, Domingo. L'aspettiamo a breve. Il Cantone ha
passato la palla più in alto. Ora è all'esame del ministro della
Giustizia.»
«Bene, di' a quell'esimio signore che questo volo parte entro venti
minuti e quello successivo tra novanta minuti, altrimenti dobbiamo
viaggiare con Swissair che ha un volo tra quaranta minuti e un altro tra
un'ora e un quarto.»
«Ti capisco, Ding, ma dobbiamo attendere.»
Chavez imprecò in spagnolo. Lo sapeva. Non era indispensabile che
gli piacesse. «Roger, Six, il team 2 resta in attesa a Gatwick.»
«Roger, team 2, qui Rainbow Six, chiudo.»
Chavez chiuse il cellulare e lo infilò nel taschino della camicia. «Bene,
gente», comunicò ai suoi uomini sopra il rumore dei motori,
«aspettiamo qui il via.» Gli uomini annuirono, ansiosi di partire come il
loro comandante ma altrettanto impotenti perché ciò avvenisse. I
britannici del team c'erano passati prima e la presero meglio degli
americani e degli altri.
«Bill, avverti Whitehall che abbiamo venti minuti per farli partire,
altrimenti dovremo aspettare oltre un'ora.»
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Tawney annuì e andò al telefono per chiamare il suo contatto al
ministero degli Esteri. Da lì arrivò all'ambasciatore britannico a Ginevra,
cui era stato comunicato che il SAS offriva una speciale assistenza di
natura tecnica. Era un caso strano in cui il ministro degli Esteri svizzero
ne sapeva di più di chi faceva l'offerta. Ma fu notevole il fatto che la
risposta arrivasse entro quindici minuti: Ja».
«Abbiamo luce verde per la missione, John», riferì Tawney, anche lui
alquanto sorpreso.
«Bene.» Clark aprì il cellulare e premette il numero 2. «Chavez»,
rispose una voce con un forte rumore di fondo. «Abbiamo il via alla
missione», comunicò Clark. «Confermate.» «Il team 2 conferma il via alla
missione. Team 2 in movimento.» «Affermativo. Buona fortuna,
Domingo.»
«Grazie, Mr. C.»
Chavez si rivolse ai suoi facendo con il braccio un movimento dall'alto
in basso, nel tipico gesto che indicava la necessità di accelerare i tempi
noto agli eserciti di tutto il mondo. Per attraversare il piazzale interno
dell'aeroporto di Gatwick, salirono sul pulmino assegnato che si fermò in
corrispondenza del settore bagagli, dove Chavez fece cenno a un
poliziotto di avvicinarsi e fece intervenire Eddie Price per far stivare il
carico speciale a bordo del Boeing 757. Poi il pulmino percorse altri
cinquanta metri fino alla base del corridoio telescopico di collegamento
tra l'aerostazione e il velivolo. Il team 2 scese e si diresse verso la
scaletta. In cima, la porta di servizio era tenuta aperta da un altro
funzionario di polizia; da lì salirono a bordo del velivolo e consegnarono
i biglietti alla hostess che indicò loro i posti di prima classe.
L'ultimo a salire fu Tim Noonan, il mago della tecnica, che non era
affatto un secchione avvizzito, anzi aveva giocato da difensore a Stanford
prima di entrare nell'FBI. Oltre un metro e ottanta per novanta chili, era
più grosso della maggior parte dei tiratori scelti di Ding ma, ed era il
primo ad ammetterlo, non era altrettanto abile. Eppure, sapeva sparare
più che bene con la pistola e l'MP10. Il dottor Bellow si accomodò nel
posto vicino al finestrino con un libro che estrasse dalla borsa. Era un
volume sulla sociopatia, di un professore di Harvard di cui aveva
seguito i corsi alcuni anni prima. Il resto del team si rilassò, sfogliando le
riviste di bordo. Chavez si guardò attorno e vide che i suoi uomini non
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apparivano affatto tesi, vergognandosi un po' di essere così eccitato. Il
comandante fece i suoi soliti annunci mentre il Boeing si allontanava
dal gate e rullava verso la testa della pista. Cinque minuti più tardi, il
velivolo staccava le ruote da terra e il team 2 era in viaggio per la sua
prima missione.
«La compagnia prevede un volo tranquillo e un arrivo in orario tra...
un'ora e quindici minuti», riferì Tawney.
«Bene», osservò Clark. Entrambe le stazioni svizzere garantivano ora una
copertura continua, integrata con le opinioni dei cronisti presenti sul posto.
Tutto ciò serviva quanto uno spettacolo pre-partita della National Football
League, anche se ora i portavoce della polizia parlavano alla stampa. No, non
sapevano chi c'era all'interno. Sì, avevano parlato con loro. Sì, i negoziati
erano in corso. No, non potevano dire nulla di più. Sì, avrebbero tenuto la
stampa al corrente degli sviluppi.
Col cazzo lo faranno, pensò John. La stessa copertura c'era su Sky News e
ben presto anche la CNN e la Fox mandarono in onda brevi servizi
sull'argomento.
«Brutto affare, John», disse Tawney con davanti il suo tè.
Clark annuì. «Penso che siano sempre così, Bill.»
«Già.»
Entrò Peter Covington e sedette su una poltroncina girevole vicino ai due
superiori. Aveva un'espressione indifferente, anche se doveva essere
incazzato, pensò Clark, per il fatto che ad andare non fosse stato il suo team.
Ma qui la disponibilità a rotazione era una regola scolpita nella pietra,
com'era giusto che fosse.
«Che ne pensi, Peter?» domandò Clark.
«Non sono poi così furbi. Hanno ucciso quel poveraccio troppo presto.»
«Continua», aggiunse John, ricordando a tutti che era nuovo di queste cose.
«Quando si uccide l'ostaggio, si attraversa una linea di demarcazione ben
definita, signore. Una volta che la si è oltrepassata, non si può tornare
indietro.»
«Così, si cerca di evitarlo?»
«Direi di sì. Rende troppo difficile per la controparte fare concessioni, e si
ha un terribile bisogno di concessioni se uno vuole cavarsela, a meno che non
si sappia qualcosa che l'avversario non conosce. Improbabile in una
situazione come questa.»
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«Chiederanno una via d'uscita... un elicottero?»
«È probabile.» Covington annuì. Per un aeroporto, con un velivolo
commerciale in attesa e un equipaggio internazionale, ma per dove? Libia,
forse, ma li lascerà entrare Gheddafi? Dove altro potrebbero andare? Russia?
Non penso. La valle della Bekaa in Libano è ancora praticabile, ma gli aerei
commerciali non ci atterrano. L'unica cosa sensata che hanno fatto è quella di
non svelare la loro identità alla polizia. Scommetterebbe che l'ostaggio che è
scappato non ha visto le loro facce?» Covington scosse la testa.
«Non sono dilettanti», obiettò Clark. «Le loro armi indicano in qualche
misura addestramento e professionalità.»
Covington fece un cenno di assenso. «Vero, signore, ma non così svegli.
Non sarei troppo sorpreso di apprendere che hanno davvero rubato un po'
di denaro, come normali rapinatori. Terroristi addestrati, forse, ma non in
gamba.»
E qual è un terrorista in gamba? si chiese John. Senza dubbio una
definizione che avrebbe dovuto imparare.
Il volo BA atterrò con due minuti d'anticipo e l'aereo rullò verso il gate.
Ding aveva passato il tempo a parlare con il dottor Bellow. La psicologia di
questo affare era il più grosso punto interrogativo per lui, ed era qualcosa
che avrebbe dovuto imparare, e alla svelta. Non era come fare il soldato,
dove la psicologia riguardava gli ufficiali, che dovevano capire come
l'avversario avrebbe manovrato i suoi battaglioni. Qui si trattava di un combattimento a livello di un piccolo distaccamento, ma con tutta una serie di
nuovi elementi interessanti, pensò Ding, sganciando la cintura di sicurezza
prima che l'aereo fosse completamente fermo. Ma di nuovo si tornava allo
stesso comune denominatore: tirare al bersaglio.
Chavez si alzò e si stiracchiò, poi si avviò all'uscita, con in viso
un'espressione decisa. Camminò lungo il corridoio d'uscita in mezzo a due
normali funzionari che probabilmente lo presero per un uomo d'affari, in
giacca e cravatta. Magari a Londra si sarebbe comprato un vestito che si
adeguasse meglio al travestimento che lui e i suoi uomini dovevano
adottare quand'erano in viaggio. C'era una specie di autista che teneva un
cartello con su scritto il nome prestabilito. Chavez si diresse verso di lui.
«Ci sta aspettando?»
«Sì, signore. Venite con me?»
Il team 2 lo seguì in un atrio anonimo, poi svoltò in quella che sembrava
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una sala conferenze che aveva un'altra porta. Dentro c'era un ufficiale di
polizia in uniforme, un ufficiale superiore, 'a giudicare dai gradi
sull'uniforme blu.
«Lei è...» disse.
«Chavez», rispose Ding tendendo la mano. «Domingo Chavez.»
«Spagnolo?» chiese il poliziotto con una certa sorpresa.
«Americano. E lei, signore?»
«Roebling, Marius», disse l'uomo, quando tutto il team fu nella stanza
e la porta era stata chiusa. «Venite con me, prego.» Roebling aprì l'altra
porta, che conduceva a delle scale esterne. Dopo un minuto, si trovarono
su un minibus diretto oltre i velivoli parcheggiati, poi fuori su
un'autostrada. Ding guardò indietro e vide un altro pulmino, senza
dubbio quello che trasportava il loro equipaggiamento.
«Che cosa è in grado di dirmi?»
«Niente di nuovo dal primo assassinio. Parliamo con loro al telefono.
Nessun nome, nessuna identità. Hanno chiesto un mezzo di trasporto
per questo aeroporto e un volo per lasciare il paese; per ora non hanno
indicato alcuna destinazione.»
«Che cosa vi ha detto il tipo che è scappato?»
«Sono in quattro, parlano tedesco, dice che lo parlano come se fosse la
loro lingua madre, idiomi, pronuncia eccetera. Dispongono di armi
cecoslovacche e sembra che non siano restii a utilizzarle.»
«Quanto ci vuole per arrivare là, dove potranno cambiarsi d'abito i
miei uomini?»
Roebling annuì. «È tutto organizzato, maggiore Chavez.»
«Grazie.»
«È possibile parlare con l'uomo che è scappato?» s'informò il dottor
Bellow.
«Ho ricevuto ordini di fornirvi tutta la collaborazione, entro limiti
ragionevoli, naturalmente.»
Chavez si chiese che cosa volesse dire, ma decise che l'avrebbe
scoperto a tempo debito. Non poteva biasimare quell'uomo se era
scontento di avere una squadra di stranieri venuta nel suo paese per far
rispettare la legge. Ma si trattava dei famosi professionisti di Dover e
questo era tutto, così gli aveva detto il suo governo. Per Ding si
aggiungeva anche il fatto che la credibilità di Rainbow poggiava sulle sue
spalle. Era fuori discussione mettere in imbarazzo suo suocero, il suo
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reparto e il suo paese. Si voltò a guardare gli uomini alle sue
dipendenze. Eddie Price, forse leggendogli nel pensiero, alzò i pollici
in maniera discreta. Bene, pensò Chavez, almeno uno di noi è convinto
che siamo pronti. Sul campo era diverso, qualcosa che aveva imparato
nelle giungle e sulle montagne della Colombia anni prima, e più ti
avvicinavi alla linea di fuoco, più vario diventava. Qui non c'erano sistemi
laser per indicare chi era stato ucciso. Qui sarebbe stato vero sangue a
dirlo, ma i suoi erano addestrati e avevano esperienza, soprattutto il
sergente maggiore Edward Price.
Tutto quello che Ding doveva fare era condurli in battaglia.
A un isolato dalla banca c'era una scuola. Il minibus e il furgone vi si
fermarono davanti, poi il team 2 si recò a piedi nella zona della palestra,
sorvegliata da una decina di poliziotti in uniforme. Gli uomini si
cambiarono in uno spogliatoio e ritornarono nella palestra dove
trovarono Roebling con un altro capo d'abbigliamento da indossare.
Erano maglioni, neri come le loro uniformi d'assalto, con sopra stampata
la parola POLIZEI, davanti e dietro, in lettere d'oro invece del solito giallo
brillante. Una ricercatezza svizzera? si chiese Domingo, senza il sorriso
che avrebbe dovuto accompagnare la domanda.
«Grazie», gli disse Chavez. Era un utile stratagemma. Indossatolo, gli
uomini risalirono sul minibus per completare il percorso. Furono
depositati appena girato l'angolo della banca, invisibili sia ai terroristi
sia alle telecamere. I tiratori scelti, Johnston e Weber, si erano portati
nelle postazioni stabilite, uno con vista sul retro della banca, l'altro di
fronte in diagonale rispetto alla facciata. I due si sistemarono, aprirono i
bipiede fissati al copricanna e iniziarono a sorvegliare l'edificio.
Ogni tiratore aveva a disposizione il suo fucile preferito. Weber
disponeva di un Walther WA2000, camerato per una pallottola
Winchester Magnum .300. Quello di Johnston era costruito apposta,
camerato per una 7 mm Remington Magnum leggermente più piccola
ma più veloce. In entrambi i casi, i tiratori scelti stabilirono prima di tutto
la distanza dal bersaglio e la impostarono nei loro mirini telescopici, poi
si sdraiarono sui materassini di gommapiuma che si erano portati con
l'equipaggiamento. Il loro primo compito consisteva nell'osservare,
raccogliere informazioni e riferire.
Nella sua uniforme nera completa di giubbotto antiproiettile e maglione
POLIZEI, il dottor Bellow provava una sensazione molto strana, ma
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grazie a essa avrebbe evitato di farsi identificare da qualche collega
medico che avesse seguito l'avvenimento in tv. Noonan, vestito allo
stesso modo, attivò il suo computer, un portatile Apple PowerBook, e
cominciò a esaminare i disegni dell'edificio in modo da poterli inserire
nel suo sistema. La polizia locale era stata molto efficiente. Nel giro di
trenta minuti, Noonan disponeva di una completa pianta elettronica
dell'edificio. Sorridendo pensò che aveva tutto, tranne la combinazione
del caveau. Poi alzò un'antenna e trasmise l'immagine agli altri tre
computer che il team si era portato dietro.
Chavez, Price e Bellow raggiunsero il sovrintendente. Si salutarono
stringendosi la mano. Price prese il suo computer e vi inserì un CD
ROM con le foto di tutti i terroristi conosciuti al mondo e fotografati.
L'uomo che aveva trascinato fuori il corpo era di nazionalità tedesca, un
certo Hans Richter, di Bonn, che utilizzava quella banca per la sua
attività commerciale in Svizzera.
«Li ha visti in faccia?» domandò Price.
«Sì», annuì scuotendo la testa. Fino a quel momento, per Richter
era stata una giornataccia. Price selezionò dei noti terroristi tedeschi e
cominciò a visualizzarne le foto.
«Ja, ja, quello. È il capo.»
«E proprio sicuro?»
«Sì, ne sono certo.»
«Ernst Model, ex appartenente alla Baader-Meinhof, sparito nel
1989.» Price fece avanzare l'immagine. «A tutt'oggi è sospettato di
quattro operazioni. Tre sono stati completi fallimenti. Quasi catturato ad
Amburgo nel 1987, uccise due poliziotti per aprirsi una via di fuga.
Addestrato nell'ideologia comunista, sospettato in tempi recenti di
trovarsi in Libano, ma il rapporto d'avvistamento sembrerebbe molto
vago. I sequestri erano la sua specialità.» Price cambiò immagine.
«Quello... forse.»
«Erwin Guttenach, anche lui appartenente alla BaaderMeinhof, ultima segnalazione nel 1992 a Colonia. Ha rapinato una
banca; come precedenti, sequestro e omicidio; è quello che, nel 1986,
ha sequestrato e ucciso un membro del consiglio d'amministrazione della
BMW. Si è tenuto il riscatto... quattro milioni di marchi tedeschi. Un
delinquente avido», aggiunse Price.
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Bellow si guardò dietro le spalle, pensando il più rapidamente possibile.
«Che cosa le ha detto al telefono?»
«Abbiamo il nastro», rispose il poliziotto.
«Ottimo! Ma ho bisogno di un traduttore.»
«Dottore, un profilo di Ernst Model, più presto che può.» Chavez si
girò. «Noonan, possiamo ottenere un po' d'informazioni sulla banca?»
«Nessun problema», replicò il tecnico.
«Roebling?» disse poi Chavez.
«Sì, maggiore?»
«Potremmo avere la collaborazione dei cronisti? Dobbiamo presumere
che quelli là dentro abbiano con loro un televisore.»
«Ci daranno una mano», replicò fiducioso il funzionario svizzero.
«Muoviamoci», ordinò Chavez. Noonan raggiunse il suo sacco da
illusionista. Bellow andò dietro l'angolo con Richter e un altro poliziotto
svizzero per occuparsi della traduzione. Chavez e Price rimasero soli.
«Eddie, mi sfugge qualcosa?»
«No, maggiore», replicò il sergente Price.
«Primo, il mio nome è Ding. Secondo, tu hai più esperienza di me. Se
hai qualcosa da dire, voglio sentirla adesso, capito? Qui non siamo al
circolo ufficiali. Ho bisogno del tuo cervello, Eddie.»
«Molto bene, signore... Ding.» Price abbozzò un sorriso. Il suo
comandante si stava comportando in modo eccellente. «Finora, tutto
bene. Abbiamo i criminali confinati, un buon cordone. Ci servono
le piante dell'edificio e informazioni su ciò che avviene all'interno. È
lavoro per Noonan e mi sembra uno competente. Dobbiamo avere
un'idea di quello che stanno pensando gli avversari; è lavoro per il
dottor Bellow, il migliore nel suo campo. Qual è il piano se quelli
iniziano a sparare all'impazzata?»
«Dillo a Louis, due bombe flash-bang contro la porta anteriore, altre
quattro lanciate all'interno e poi piombiamo dentro come un tornado.»
«I nostri giubbotti antiproiettile...»
«Non fermano un sette e sessantadue russo. Lo so», concordò Chavez.
«Nessuno ha mai detto che era una missione senza rischi, Eddie. Quando
ne sapremo un po' di più, potremo studiare un vero piano d'assalto.»
Chavez gli diede un colpetto sulla spalla. «Andiamo, Eddie.»
«Sì, signore.» Price si mosse per raggiungere il resto del team.
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Popov non sapeva che la polizia svizzera disponesse di una squadra
antiterrorismo così ben addestrata. Mentre era lì a osservare, il
comandante se ne stava rannicchiato vicino alla facciata della banca e un
altro, quasi certamente il suo vice, si dirigeva dietro l'angolo verso il
resto della squadra. Parlavano con l'ostaggio fuggito, che qualcuno
aveva condotto fuori dalla vista. Sì, questa polizia svizzera era ben
addestrata e ben equipaggiata. Sì, sembravano pistole mitragliatrici
H&K Normali per questo tipo di cose. Da parte sua, Dmitrij Arkadeevič
Popov restava tra la folla dei curiosi. La sua prima impressione di Model
e della sua piccola squadra composta di altri tre elementi era stata
confermata. Il QI del tedesco era più o meno al livello della temperatura
ambientale in una stanza... aveva addirittura voluto una discussione sul
marxismo-leninismo con il suo visitatore! Che idiota. E nemmeno tanto
giovane. Model era sulla quarantina e non poteva invocare l'esuberanza
giovanile come scusa per la sua fissazione ideologica. Però non del tutto
fuori dal mondo. Ernst aveva voluto vedere i soldi, seicentomila dollari
in marchi tedeschi. Popov sorrise, ricordando dove erano stati
nascosti. Era improbabile che Ernst li avrebbe mai rivisti. Uccidere
l'ostaggio così presto era stata una sciocchezza, ma non inattesa. Era uno
di quelli che vogliono dimostrare la propria decisione e purezza
ideologica, come se oggi importasse ancora a qualcuno! Popov si accese
un sigaro, appoggiando le spalle contro l'edificio di un'altra banca per
rilassarsi e osservare l'evolversi della situazione, con il cappello tirato
giù e il bavero rialzato, oltre che per proteggersi dal freddo della sera
anche per coprirsi il viso. La prudenza non era mai troppa, qualcosa che
Ernst Model e i suoi tre Komraden non avevano capito.
Il dottor Bellow terminò l'esame delle conversazioni telefoniche e
dei precedenti noti di Ernst Johannes Model. Quell'individuo era un
sociopatico con una marcata tendenza per la violenza. Sospettato di sette
omicidi commessi personalmente e di altri in compagnia di varie
persone. Guttenach, un po' meno brillante ma della stessa risma, e gli
altri due, sconosciuti. Richter, il fuggitivo, aveva riferito che Model aveva
ucciso personalmente la prima vittima, sparandogli alla nuca da distanza
ravvicinata, e ordinando poi a Richter di trascinarlo fuori. Tutto
corrispondeva allo stesso inquietante profilo. Bellow digitò il codice sulla
radio.
«Bellow per Chavez.»
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«Sì, dottore, qui è Ding.»
«Ho un primo profilo dei criminali.»
«Racconti. Team, state ascoltando?» Seguì un'immediata cacofonia di
risposte sovrapposte. «Sì, Ding.» «In ascolto, comandante.» «Ja.» E così
via. «Bene, dottore, ci dia i fatti», ordinò Chavez.
«Primo, questa non è un'operazione ben pianificata. Corrisponde
al profilo del presunto capo, Ernst Model, nazionalità tedesca,
quarantuno anni, ex membro dell'organizzazione Baader-Meinhof. Tende
a essere impetuoso, repentino nel ricorrere alla violenza quando è stretto
nell'angolo o si sente braccato. Se minaccia di uccidere qualcuno,
dobbiamo credere che non stia scherzando. Il suo attuale stato mentale
è molto, ripeto, molto pericoloso. Sa che l'operazione è fallita. Sa che le
probabilità di successo sono scarse. Gli ostaggi sono il suo unico capitale
e li considera come un elemento spendibile. Ragazzi, questa volta non
aspettatevi la sindrome di Stoccolma. Model è troppo sociopatico per
questo tipo di cose. Nemmeno mi aspetterei che siano molto utili i
negoziati. Penso che molto probabilmente sarà necessario, stasera o
domani, effettuare un assalto.»
«Nient'altro?» domandò Chavez.
«Non per ora», replicò il dottor Bellow. «Seguirò gli ulteriori sviluppi
con la polizia locale.»
Noonan aveva passato il tempo a scegliere quello che gli serviva e ora
strisciava lungo il muro esterno della banca, sotto il livello delle finestre.
In corrispondenza di ognuna di esse, sollevava in modo lento e guardingo
la testa per vedere se le tende permettevano di vedere all'interno. Era il
caso della seconda finestra e lì Noonan fissò un sistema d'osservazione
miniaturizzato. Si trattava di un obiettivo più o meno della forma della
testa di un cobra, ma avente un diametro di soli pochi millimetri,
collegato attraverso un cavo a fibre ottiche con una telecamera posta nel
suo sacco nero dietro l'angolo. Ne piazzò un altro in corrispondenza dello
spigolo inferiore della porta a vetri della banca, poi fece ritorno,
strisciando all'indietro fin dove poté alzarsi in piedi. Dopo di ciò, fece il
giro dell'isolato per ripetere la procedura dall'altro lato del palazzo,
dove poté effettuare tre piazzamenti, uno ancora sulla porta e due sulle
finestre le cui tende erano leggermente più corte di quello che avrebbero
dovuto essere. Inoltre posizionò alcuni microfoni per poter captare
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qualunque tipo di rumore. I grandi finestroni avrebbero rimbombato
abbastanza, pensò, anche se ciò sarebbe valso sia per i rumori esterni sia
per quelli originati all'interno dell'edificio.
Nel frattempo, i giornalisti stavano intervistando il sovrintendente, che
passò molto tempo a spiegare che i terroristi erano temibili... era stato
istruito dal dottor Bellow a parlarne con rispetto. Era probabile che
all'interno guardassero la televisione e, al momento, serviva agli scopi del
gruppo d'intervento speciale far crescere la loro autostima. In ogni caso,
evitava che i terroristi si accorgessero di quello che Tim Noonan aveva
fatto all'esterno.
«Okay», disse il tecnico nella sua postazione in una via laterale. Tutti
gli schermi erano accesi e funzionavano. Si vedeva poco. La dimensione
degli obiettivi forniva un'immagine poco definita nonostante la
rielaborazione al computer. «Qui c'è un terrorista... e qui un altro.» Si
trovavano a meno di dieci metri dalla facciata dell'edificio. Le altre
persone visibili erano sedute sul pavimento di marmo bianco, al centro,
per poter essere facilmente tenute sotto controllo. «Quel tipo ha detto
quattro, vero?»
«Sì», confermò Chavez. «Ma non quanti ostaggi, almeno non con
precisione.»
«Questo è un terrorista, penso, dietro lo sportello dei versamenti...
sembra che stia controllando la cassa... e quello è una specie di sacco.
Pensi che siano entrati nel caveau?»
Chavez si voltò. «Eddie?»
«Avidità», concordò Price. «Dopotutto è una banca.»
Noonan cambiò immagine sullo schermo del computer. «Ho dei
disegni dell'edificio e questa è la pianta.»
«Sportelli, caveau, toilette.» Price fece passare il dito sullo schermo.
«Porta posteriore. Sembra abbastanza semplice. L'accesso ai piani
superiori?»
«Qui», disse Noonan. «Di fatto all'esterno della banca, ma hanno
accesso al seminterrato da qui, ecco le scale per scendere, con un'uscita
separata per il vicolo sul retro.»
«Struttura del soffitto?» domandò Chavez.
«Lastroni in cemento armato, spessi quaranta centimetri.
Maledettamente robusti. Lo stesso per le pareti e il pavimento. E un
edificio costruito per durare. Quindi, non è possibile farsi strada con
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gli esplosivi attraverso pareti, pavimento o soffitto.»
«Così, è possibile entrare dalla porta anteriore o da quella posteriore, e
basta. E questo colloca il cattivo numero 4 presso la porta posteriore.»
Chavez digitò sulla radio. «Chavez a tiratore Due-Due.»
«Ja, qui Weber.»
«Qualche finestra sul retro, qualcosa nella porta, occhio magico,
qualcosa del genere, Dieter?»
«Negativo. Sembra trattarsi di una pesante porta d'acciaio, non ci si
vede nulla», rispose il tiratore, facendo scorrere nuovamente il suo
mirino telescopico sull'obiettivo, senza trovare nulla se non un blocco
d'acciaio verniciato.
«Okay, Eddie, facciamo saltare la porta posteriore con una carica, tre
uomini da quella parte. Un secondo più tardi, facciamo esplodere le porte
a vetri sul davanti, lanciamo le flash-bang ed entriamo mentre loro
guardano dalla parte sbagliata. Due più due attraverso il lato anteriore.
Tu e io andiamo a sinistra. Louis e George vanno a destra.»
«Indossano giubbotti antiproiettile?» chiese Price.
«Richter non ha notato nulla del genere», rispose Noonan, «e da qui
non si vede niente... e comunque non hanno nulla che gli protegga la testa,
no?» Si trattava di far fuoco da non più di dieci metri, una distanza facile
per le H&K.
Price annuì. «Chi guida il nucleo che entra da dietro?»
«Scotty, penso. Paddy si occupa degli esplosivi.» Connolly era il
migliore del team in quel campo, e lo sapevano entrambi. Chavez prese
nota mentalmente che si dovevano stabilire in maniera più precisa i nuclei
del distaccamento. Finora aveva tenuto tutti i suoi uomini sullo stesso
piano. Una cosa che avrebbe dovuto cambiare non appena ritornati a
Hereford.
«Vega?»
«Oso ci copre, ma non penso che lo utilizzeremo molto in questo
caso.» Julio Vega era diventato il loro mitragliere. Portava a tracolla una
M-60 da 7,62 mm, dotata di mirino laser, un'arma per lavori veramente
seri, ma ora non se ne prevedeva l'impiego.
«Noonan, invia questa immagine a Scotty.»
«Va bene.» Spostò il mouse e iniziò a trasmettere tutto ai diversi
computer del team.
«Il problema adesso è quando.» Ding controllò l'orologio. «Torniamo
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dal dottore.»
«Sissignore.»
Bellow aveva trascorso il tempo con Herr Richter. Tre bicchierini senza
ghiaccio lo avevano abbastanza tranquillizzato. Anche il suo inglese era
migliorato notevolmente. Bellow stava facendo ripercorrere gli
avvenimenti per la sesta volta quando riapparvero Chavez e Price.
«I suoi occhi, sono azzurri, come ghiaccio. Come ghiaccio», ripeteva
Richter. «Non è un uomo comune. Dovrebbe stare in una gabbia con le
bestie al Tiergarten.» L'uomo d'affari ebbe un tremito involontario.
«Ha un accento?» chiese Price.
«Misto. Qualcosa di Amburgo, ma anche qualcosa di bavarese. Gli altri,
hanno tutti accenti bavaresi.»
«Questo servirà al BKA, l'ufficio criminale federale, Ding», osservò
Price. Il BKA era l'equivalente tedesco dell'FBI americana. «Perché non
facciamo verificare dalla polizia locale se qua attorno c'è un'auto con
targa tedesca, magari bavarese? Può darsi che ci sia anche un autista.»
«Buona idea.» Chavez andò di corsa dai poliziotti svizzeri, il cui capo si
mise subito a chiamare via radio. Probabilmente un buco nell'acqua,
pensò Chavez. Ma era impossibile saperlo finché non si provava.
Dovevano ben essere arrivati in un modo o nell'altro. Un'altra nota a
mente. Ogni volta fare questa verifica.
Poi arrivò Roebling, con il suo cellulare. «È ora di riparlare con loro.»
«Tim», comunicò Chavez per radio. «Vieni al punto di ritrovo.»
Noonan arrivò in meno di un minuto. Chavez gli indicò il telefonino di
Roebling. Noonan lo prese, staccò il fondo e fissò un piccolo circuito
verde da cui pendeva un filo sottile. Poi estrasse un cellulare da una
tasca sulla coscia e lo porse a Chavez. «Ecco. Potrai sentire tutto quello
che dicono.»
«Sta succedendo qualcosa all'interno?»
«Si muovono un po' di più, forse sono agitati. Due di loro si stavano
parlando faccia a faccia alcuni minuti fa. Dai loro gesti non sembravano
molto contenti di come si sono messe le cose.» «Avete memorizzato tutti
la disposizione all'interno?»
«E per quanto riguarda l'audio?»
Il tecnico scosse la testa. «Troppo rumore di fondo. L'edificio possiede
un sistema di riscaldamento rumoroso, caldaia a gasolio... rimbomba
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maledettamente con i microfoni sulle finestre. Non si sente niente di
utile, Ding.»
«Tienici informati.»
«Puoi scommetterci.» Noonan fece ritorno alle sue apparecchiature.
«Eddie?»
«Se dovessi fare una scommessa, direi che dobbiamo prendere d'assalto
quel posto prima dell'alba. Presto il nostro amico comincerà a perdere
il controllo.»
«Dottore?» chiese Ding.
«È probabile», annuì Bellow, tenendo conto dell'esperienza pratica
di Price.
Chavez aggrottò le sopracciglia. Nonostante fosse addestrato, non era
davvero così ansioso di affrontare questo caso. Aveva visto l'immagine
dell'interno. Ci dovevano essere venti, forse trenta persone là dentro,
con tre individui nelle loro immediate vicinanze che avevano armi
completamente automatiche. Se uno di loro decideva vaffa'n culo e
cominciava il rock'n'roll con la sua arma cecoslovacca, molta di quella
gente non avrebbe fatto ritorno a casa da consorte e figli. Si chiamava
responsabilità di comando e anche se non era la prima volta che Chavez
la sperimentava, il peso non diventava davvero mai più leggero, perché il
prezzo del fallimento non diminuiva mai.
«Chavez!» Era il dottor Bellow.
«Sì, dottore?» rispose Ding, dirigendosi verso di lui con Price al
seguito.
«Model sta diventando aggressivo. Dice che ucciderà un ostaggio fra
trenta minuti a meno che non gli procuriamo un'auto per un eliporto a
pochi isolati da qui e da lì a un aeroporto. Dopo di che, uccide un
ostaggio ogni quarto d'ora. Adesso sta leggendo un elenco di persone
importanti. Un chirurgo professore nella locale scuola medica, un
poliziotto fuori servizio, un famoso avvocato, be'... non scherza, Ding.
Trenta minuti da... sparerà al primo alle otto e mezzo.»
«Che cosa hanno risposto i poliziotti?»
«Quello che ho detto di dire, che ci occorre tempo per organizzare
tutto, che deve consegnarci uno o due ostaggi per dimostrare la sua
buona fede... ma è questo che ha scatenato la minaccia delle otto e
mezzo. Ernst si sta agitando un po'.»
«Fa sul serio?» domandò Chavez, tanto per essere sicuro di aver capito.
77
«Sì, sembra maledettamente serio. Sta perdendo il controllo, non gli
va come si sono messe le cose. Non scherza sul fatto di uccidere
qualcuno. È come un bambino deluso perché non ha niente sotto
l'albero la mattina di Natale, Ding. Laggiù non c'è alcun elemento
stabilizzante che lo faccia uscire da quella condizione. Si sente molto
solo.»
«Che meraviglia.» Ding prese la radio. Come spesso accadeva, gli era
appena stata tolta la responsabilità della difficile decisione. «Team, qui è
Chavez. Tenersi pronti. Ripeto, tenersi pronti.»
L'addestramento gli aveva insegnato cosa aspettarsi. Uno stratagemma
consisteva nel consegnare l'auto... sarebbe stata troppo piccola per tutti gli
ostaggi e si sarebbe potuto eliminare i criminali all'uscita con i fucili. Ma
aveva solo due tiratori e le loro pallottole speciali avrebbero attraversato la
testa di un terrorista con sufficiente energia residua da colpire due o tre
persone dietro di lui. Sparare con una pistola mitragliatrice o con le
pistole era più o meno lo stesso. Quattro delinquenti erano troppi per
questo tipo di soluzione. No, doveva portare dentro il team, mentre gli
ostaggi erano ancora seduti sul pavimento, sotto la linea di tiro. Questi
bastardi non chiedevano nemmeno del cibo che lui avrebbe potuto
drogare, o forse erano abbastanza scaltri da conoscere la pizza al Valium.
Ci vollero alcuni minuti. Chavez e Price strisciarono fino alla porta da
sinistra. Louis Loiselle e George Tomlinson fecero lo stesso dall'altro
lato. Da dietro, Paddy Connolly fissò un doppio strato di Primacord al
telaio della porta, inserì il detonatore e rimase a distanza, con vicini
Scotty McTyler e Hank Patterson.
«Nucleo posteriore a posto, comandante», annunciò Scotty alla radio.
«Ricevuto. Nucleo posteriore a posto», rispose con calma Chavez nella
sua radiotrasmittente.
«Okay, Ding», giunse la voce di Noonan attraverso la maglia radio di
comando, «Tv One mostra un tipo che brandisce un fucile e cammina
attorno agli ostaggi sul pavimento. Scommetto che è il nostro amico
Ernst. Ce n'è un altro dietro di lui e un terzo sulla destra vicino al
secondo bancone di legno. Aspetta, è al telefono ora... parla con i
poliziotti, dice che è pronto a prendere un ostaggio da far fuori. Sta per
annunciarne prima il nome. Troppo gentile», concluse Noonan.
«Bene, ragazzi, dobbiamo fare proprio come durante le esercitazioni»,
comunicò Ding ai suoi uomini. «Togliere la sicura, ora. Attendere.»
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Guardò in su e vide Loiselle e Tomlinson scambiarsi uno sguardo e un
gesto. Sarebbe andato avanti Louis, con George dietro. Sarebbe stato lo
stesso per Chavez, facendo prendere la testa a Price con il suo
comandante subito dietro.
«Ding, ha appena afferrato uno, lo fa alzare in piedi... di nuovo al
telefono, stanno per ammazzare per primo il dottore, professor Mario
Donatello. Vedo tutto sulla telecamera due, ha fatto alzare la persona.
Penso sia il momento di intervenire.»
«Siamo pronti? Verifica nucleo posteriore.»
«Pronti», rispose alla radio Connolly. Chavez poteva vedere Loiselle e
Tomlinson. Entrambi fecero un rapido cenno e impugnarono le loro MP10.
«Chavez al team, siamo pronti a ballare. Attendere. Attendere. Paddy,
vai!» ordinò forte Ding. L'ultima cosa da fare era acquattarsi nell'attesa
del boato assordante che sarebbe seguito.
Il secondo seguente sembrò durare ore, anche se la mole dell'edificio
attenuò il fracasso. Lo sentirono comunque, un fortissimo fragore
metallico che scosse il mondo intero. Price e Loiselle avevano piazzato le
cariche in corrispondenza del rivestimento inferiore d'ottone della porta e
le fecero esplodere non appena udirono la prima detonazione. Subito le
porte di cristallo si disintegrarono in migliaia di frammenti che finirono
nell'atrio in granito e marmo della banca insieme con una luce bianca
accecante e un rumore da fine del mondo. Price, già sulla porta, si fiondò
dentro, con Chavez subito dietro, spostandosi poi a sinistra.
Ernst Model era proprio lì, con la bocca dell'arma premuta contro
la nuca del professor Donatello. Si era girato per guardare verso il retro
del locale quando era avvenuta la prima esplosione e, come previsto, la
seconda, con l'enorme rumore e il lampo accecante della polvere di
magnesio, l'aveva disorientato. Il medico prigioniero aveva reagito
abbassandosi davanti al bandito dietro di lui, con le mani sopra la
testa, fornendo così agli attaccanti il varco che ci voleva. Price aveva
sollevato e puntato la sua MP-10 e premette il grilletto sparando una
raffica rapida di tre colpi nel centro della faccia di Ernst Model.
Chavez, subito dietro di lui, individuò un altro terrorista; in piedi, che
scuoteva la testa come per schiarirsi la vista. Guardava dall'altra parte,
ma impugnava ancora l'arma e le regole erano regole. Chavez conficcò
due pallottole anche nella sua testa. Grazie ai soppressori integrati nelle
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canne delle armi e allo stordimento provocato dalle flash-bang, il rumore
degli spari risultò quasi nullo. Poi puntò l'arma a destra e vide che il
terzo terrorista era già sul pavimento, un fiotto di sangue che usciva da
quella che, meno di due secondi prima, era stata una testa.
«Stanza libera!» gridò Chavez.
«Stanza libera!» «Stanza libera!» «Stanza libera!» confermarono gli
altri. Loiselle corse verso il retro dell'edificio, con dietro Tomlinson.
Prima di arrivarci, apparvero le figure vestite di nero di McTyler e
Patterson, che alzarono subito le armi al soffitto: «Stanza libera!»
Chavez si spostò ancora a sinistra, verso i gabbiotti della cassa, saltando
oltre il bancone per verificare se c'erano altre persone. Nessuno. «Libero
qui! Assicurare la zona!»
Uno degli ostaggi fece per alzarsi, ma venne spinto giù verso il
pavimento da George Tomlinson. Uno a uno, furono perquisiti
mentre un altro li teneva sotto tiro con le armi cariche... a questo punto
non potevano essere sicuri chi fosse una pecora e chi una capra.
Ormai stavano entrando in banca alcuni poliziotti svizzeri. Gli ostaggi
perquisiti furono spinti in quella direzione, scioccati e sconvolti, ancora
disorientati da quello che era successo; alcuni perdevano sangue dalla
testa o dalle orecchie a causa delle flash-bang e dei frammenti di vetro.
Loiselle e Tomlinson raccolsero le armi cadute alle loro vittime, le
scaricarono e se le appesero alle spalle. Soltanto dopo, e so lo in modo
graduale, cominciarono a rilassarsi.
«Che ne è della porta posteriore?» chiese Ding a Connolly.
«Venga a vedere», suggerì l'ex membro del SAS, portando Ding
verso la stanza posteriore. Era una scena raccapricciante. Forse il
terrorista aveva appoggiato la testa contro il telaio della porta.
Sembrava una spiegazione logica del fatto che, subito, non si vedeva la
testa, e c'era solo una spalla sul cadavere, che era stato proiettato contro
un divisorio interno, con PM-58 ancora stretta nella mano rimasta. La
doppia carica di esplosivo era stata un po' troppo potente.
«Perfetto, Paddy. Ben fatto.»
«Grazie, signore.» Sorrise come un professionista che aveva capito il
compito affidatogli e l'aveva eseguito alla perfezione.
Fuori, nella strada, ci si congratulava man mano che uscivano gli
ostaggi. Così, pensò Popov, i terroristi che aveva reclutato erano ora dei
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pazzi defunti. Non c'era da sorprendersi. La squadra antiterrorismo
svizzera aveva fatto un buon lavoro, come c'era da aspettarsi da poliziotti
svizzeri. Uno di loro uscì e accese la pipa. Da perfetto svizzero! pensò
Popov. Magari lo stronzo scala pure le montagne per divertimento
personale. Forse era il capo. Un ostaggio lo raggiunse.
«Danke schön, danke schön!» esclamò il direttore della banca a Eddie
Price.
«Bitte sehr, Herr Direktor», rispose il britannico, esaurendo così le sue
nozioni di lingua tedesca. Con un gesto indicò all'uomo il punto in
cui la polizia di Berna aveva raccolto gli altri ostaggi. Era probabile che
avessero bisogno, più di qualunque altra cosa, di un gabinetto, pensò,
mentre Chavez usciva.
«Come siamo andati, Eddie?»
«Piuttosto bene, direi.» Uno sbuffo dalla pipa. «In effetti un lavoro
facile. Erano dei veri e propri "canguri", scegliendo questa banca e agendo
come hanno fatto.» Scosse la testa e fece un altro sbuffo. «L'IRA era
molto più competente di loro. Maledetti tedeschi.»
Ding non chiese che cosa volesse dire l'inglese chiamandoli "canguri",
tantomeno "veri e propri canguri". Rimandato il quesito, tirò fuori il
cellulare e premette il tasto di chiamata rapida.
«Clark.»
«Chavez. L'hai visto in tv, Mr. C.?»
«Sto vedendo il replay ora, Domingo.»
«Li abbiamo presi tutti e quattro, non si alzeranno più. Nessun ostaggio
colpito, tranne quello che hanno fatto fuori oggi. Nessuna perdita da
parte nostra. Così, capo, che facciamo ora?»
«Volate a casa a relazionare. Chiudo.»
«Molto bene», replicò il maggiore Peter Covington. Per i successivi
trenta minuti o poco più, la tv mostrò una squadra d'intervento che
raccoglieva il proprio equipaggiamento, poi scomparve dietro l'angolo.
«Chavez sembra sapere il fatto suo.»
Guardarono l'immagine creata al computer che Noonan aveva inviato
attraverso il sistema telefonico cellulare. Covington aveva previsto come
sarebbe andata l'operazione e non si sbagliò.
«Dovrei essere a conoscenza di qualche tradizione?» domandò John,
mettendosi comodo, sollevato perché non avevano avuto perdite.
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«Li portiamo al club a bere qualche boccale, naturalmente.» Covington
fu sorpreso che Clark non conoscesse quest'usanza.
Popov era in auto e cercava di percorrere le strade di Berna prima che i
mezzi della polizia bloccassero il traffico sulla via del ritorno alle loro
sedi. Lì a sinistra... due semafori, a destra, poi attraversare la piazza e... là!
Ottimo, persino un posto per parcheggiare. Lasciò la sua Audi a noleggio
nella via davanti al rifugio messo su da Model. Aprire la serratura fu un
gioco da ragazzi. Su, verso il retro, dove fu altrettanto facile forzare anche
l'altra serratura.
«Wer sind sie?» chiese una voce.
«Dmitrij», rispose Popov, tenendo una mano nella tasca del cappotto.
«Hai guardato la televisione?»
«Sì, cos'è andato storto?» domandò la voce in tedesco, davvero
abbacchiata.
«Non conta ora. È il momento di andarcene via, mio giovane amico.»
«Ma i miei amici...»
«Sono morti, e non ci puoi fare nulla.» Vide il ragazzo nell'oscurità,
aveva forse vent'anni, un amico devoto del defunto, Ernst Model. Forse
un rapporto omosessuale? Se era così, avrebbe reso la cosa più facile a
Popov, che non amava gli uomini con quella tendenza. «Vieni, prendi le
tue cose. Dobbiamo andarcene, e alla svelta.» Là, era là, la valigetta
rivestita in pelle nera con dentro i marchi. Il ragazzo... qual era il suo
nome? Fabian qualcosa? Voltò la schiena e andò a prendere il suo
giubbetto, che i tedeschi chiamavano Joppe. Non si voltò più indietro. La
pistola con silenziatore di Popov sparò una volta, poi di nuovo senza che
ce ne fosse bisogno, da una distanza di tre metri. Sinceratosi che il
ragazzo fosse proprio morto, prese la valigetta e l'aprì per verificarne il
contenuto; poi uscì dalla porta, attraversò la strada e con l'auto arrivò
all'albergo in centro. Aveva un volo a mezzogiorno per tornare a New
York. Prima, però, doveva aprire un conto in banca in una città che
fosse adatta allo scopo.
Il team 2 fece un tranquillo viaggio di ritorno, dopo essere riuscito a
prendere l'ultimo volo per l'Inghilterra... questa volta diretto a
Heathrow invece che a Gatwick. Chavez si servì un bicchiere di vino
bianco, seduto anche questa volta vicino al dottor Bellow, che fece lo
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stesso.
«Come siamo andati, dottore?»
«Perché non me lo dice lei, signor Chavez», rispose Bellow.
«Mi sta passando lo stress. Questa volta nessun tremito», replicò
Ding, sorpreso del fatto che la sua mano fosse ferma.
«I tremiti sono del tutto normali, si espelle energia da stress. Il corpo ha
difficoltà a liberarsene e a ritornare alla normalità. Ma l'addestramento
l'attenua. Così come un bicchiere», osservò il medico, sorseggiando
buon vino francese.
«Qualcosa che avremmo potuto fare in maniera diversa?» «Non penso.
Forse avremmo dovuto essere coinvolti prima, avremmo potuto evitare o
almeno rinviare l'assassinio del primo ostaggio, ma ciò in effetti non è mai
sotto il nostro controllo.» Bellow scrollò le spalle. «No, ciò che
m'incuriosisce è la motivazione che in questo caso ha spinto i terroristi.»
«In che senso?»
«Hanno agito per questioni ideologiche, ma le loro richieste non
erano ideologiche. Mi sembra che intanto abbiano rapinato la banca.»
«Esatto.» Lui e Loiselle avevano guardato nei sacchi di tela sul
pavimento della banca. Erano stati riempiti di banconote, forse più di
dieci chili di denaro. A Chavez sembrava un modo strano di contare il
denaro, ma non poteva fare altro. Il lavoro successivo della polizia
svizzera avrebbe portato a un conteggio. Le attività dopo l'azione erano
compito dell'intelligence, sotto il controllo di Bill Tawney. «Così...
erano solo rapinatori?»
«Ne sono sicuro.» Bellow finì il suo bicchiere, tenendolo poi sollevato
in modo che la hostess potesse vederlo e riempirlo. «Non sembra avere
molto senso al momento, ma non sarebbe la prima volta in casi come
questo. Model non era un terrorista molto in gamba. Troppo spettacolo e
poca azione. Cattiva pianificazione, cattiva esecuzione.»
«Maledetto bastardo», osservò Chavez.
«Personalità sociopatica, più da criminale che da terrorista. Quelli
in gamba sono di solito più giudiziosi.»
«Chi diavolo è un bravo terrorista?»
«È come un uomo i cui affari consistono nell'uccidere la gente per
raggiungere un obiettivo politico... quasi come fare pubblicità.
Servono una causa più grande, almeno nelle loro teste. Credono in
qualcosa, ma non come i bambini nella scuola di catechismo, più come
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adulti raziocinanti nello studio della Bibbia. Un paragone poco adatto,
credo, ma è quanto di meglio ho al momento. Giornata lunga, signor
Chavez», concluse il dottor Bellow, mentre la hostess gli riempiva di
nuovo il bicchiere.
Ding guardò l'orologio. «Proprio così, dottore.» E la parte successiva,
non ci fu bisogno che Bellow glielo dicesse, era l'assoluto bisogno di un
po' di sonno. Chavez premette il pulsante per abbassare lo schienale e
dopo due minuti era profondamente addormentato.
4
DEBRIEFING
Chavez e quasi tutti gli altri uomini del team 2 si svegliarono quando
l'aereo toccò la pista di Heathrow. Il tragitto fino al gate sembrò
durare un'eternità e lì c'era ad aspettarli la polizia, che li scortò
all'eliporto per il volo di ritorno a Hereford. Durante il percorso
attraverso il terminal, Chavez adocchiò il titolo di un quotidiano della
sera che riferiva come la polizia svizzera avesse liquidato un incidente di
rapinatori-terroristi nella Banca Commerciale di Berna. Non era granché
giusto che altri si prendessero il merito del successo della missione
ma, ricordò, era questa la natura di Rainbow, e loro avrebbero
probabilmente ricevuto una gentile lettera di ringraziamento da parte
del governo, che sarebbe finita nell'armadietto della corrispondenza
riservata. I due elicotteri militari atterrarono sulla loro piazzola e i
pulmini riportarono gli uomini alla loro sede. Erano ormai passate le
undici di sera, e tutti erano stanchi dopo una giornata iniziata con il
normale allenamento e terminata con lo stress di una vera missione.
Non era però ancora tempo di riposo. Entrando, trovarono tutte le
poltroncine girevoli dell'ufficio disposte in circolo, con un grande
schermo tv su un lato. C'erano Clark, Stanley e Covington. Era il
momento del debriefing, l'analisi dell'operazione.
«Bene, ragazzi», esordì Clark, non appena si furono seduti. «Bel
lavoro. Tutti i cattivi sono stati eliminati e durante l'azione non ci sono
state perdite fra i buoni. Che cosa abbiamo sbagliato?»
Paddy Connolly si alzò. «Ho utilizzato troppo esplosivo sulla porta
posteriore. Se ci fosse stato un ostaggio subito dietro, sarebbe rimasto
ucciso», ammise in tutta onestà il sergente. «Pensavo che il telaio della
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porta fosse più robusto.» Poi alzò le spalle. «Non so che cosa si possa fare
per evitarlo.»
John ci pensò su. Connolly aveva un attacco di onestà superscrupolosa. Fece cenno di sì con la testa e lasciò cadere l'argomento.
«Nemmeno io. Cos'altro?»
Prese poi la parola Tomlinson, senza alzarsi. «Signore, dobbiamo
lavorare meglio per abituarci alle flash-bang. Ero abbastanza stordito
quando ho attraversato la porta. È andata bene che Louis, una volta
dentro, abbia centrato il primo colpo. Non sono sicuro che ci sarei
riuscito.»
«E per quanto riguarda l'interno?»
«Hanno funzionato piuttosto bene sugli obiettivi. Quello che ho
visto io», sottolineò Tomlinson, «era fuori uso.»
«Avremmo potuto prenderlo vivo?» chiese Clark.
«No, mon general.» Era il sergente Louis Loiselle, che parlò con enfasi.
«Impugnava un'arma e la stava puntando in direzione degli ostaggi.»
Non ci si poneva il problema di togliere con un colpo la pistola
mitragliatrice dalle mani di un terrorista. L'ipotesi era che il terrorista
disponesse di più di un'arma e spesso la riserva era costituita da una
bomba a mano a frammentazione. La raffica di tre colpi di Loiselle nella
testa dell'obiettivo era esattamente in linea con la politica di Rainbow.
«D'accordo. Louis, come ti sei trovato con le flash-bang? Tu eri più
vicino di George.»
«Ho una moglie», rispose sorridendo il francese. «Mi grida dietro in
continuazione. Di fatto», continuò, quando le stanche risatine
cessarono, «ho tenuto una mano su un orecchio, l'altra premuta contro
la spalla e gli occhi chiusi. Ho anche atteso la detonazione.» A differenza
di Tomlinson e degli altri poteva prevedere il rumore e il lampo, un
vantaggio minimo in apparenza, ma che si era rivelato decisivo.
«Altri problemi?» chiese John.
«I soliti», replicò Price. «Un sacco di vetri sul pavimento, è difficile
camminare... forse ci vorrebbero suole più morbide per le nostre
calzature. Così i nostri passi sarebbero anche più felpati.»
Clark annuì e vide che Stanley prendeva nota.
«Problemi di tiro?»
«No.» A rispondere fu Chavez. «L'interno era illuminato e così non
abbiamo avuto bisogno dei nostri occhiali per la visione notturna. I
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terroristi stavano in piedi come bravi bersagli. Sparare è stato facile.»
Price e Loiselle fecero un cenno di assenso.
«I tiratori?» chiese Clark.
«Non ho potuto vedere un cazzo dalla mia postazione», sottolineò
Johnston.
«Nemmeno io», aggiunse Weber. Il suo inglese era stranamente
perfetto.
«Ding, hai mandato dentro prima Price. Perché?» A chiederlo fu
Stanley.
«Eddie spara meglio e ha più esperienza. Ho in lui più fiducia di
quanto non ne abbia in me stesso... per ora», aggiunse Chavez.
«Sembrava una missione semplice in tutto e per tutto. Ognuno aveva
la mappa dell'interno, che si presentava senza problemi. Ho diviso
l'obiettivo in tre aree di responsabilità. Due le potevo vedere. La terza
conteneva un solo terrorista... era una supposizione da parte mia, ma
suffragata da tutte le nostre informazioni. Dovevamo entrare alla svelta
perché il capo, Model, stava per uccidere un ostaggio. Non vedevo alcuna
ragione per lasciarglielo fare», concluse il maggiore.
«Qualcuno ha da dire altro a tale riguardo?» domandò John al gruppo
riunito.
«Ci sono delle circostanze in cui si potrebbe permettere a un terrorista
di uccidere un ostaggio», disse con calma il dottor Bellow. «Non sarà
piacevole, ma talora è necessario.»
«Bene, dottore, qualche altra osservazione?»
«John, dobbiamo seguire le indagini della polizia su questi individui.
Erano terroristi o rapinatori? Non sappiamo. Penso che dovremo
scoprirlo. Non siamo stati in grado di condurre alcuna trattativa. Forse in
questo caso non era importante, ma in futuro lo sarà. Dobbiamo
lavorare con più traduttori. Le mie conoscenze linguistiche non sono
all'altezza, e ho bisogno di interpreti che parlino la mia lingua, in grado di
comprendere le sfumature e la sostanza.» Clark vide che Stanley
prendeva nota anche di questo. Poi guardò l'orologio.
«I nastri registrati li guardiamo domani mattina. Per ora, buon lavoro,
ragazzi. Liberi.»
Il team 2 uscì nella notte mentre cominciava a calare la nebbia.
Qualcuno guardò nella direzione del circolo sottufficiali, ma nessuno vi si
diresse. Chavez si incamminò verso casa. Aprendo la porta, trovò Patsy
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seduta davanti alla tv.
«Ehi, tesoro», disse Ding alla moglie.
«Tutto bene?»
Chavez abbozzò un sorriso, sollevando le mani e girando su se stesso.
«Nessun buco o graffio da nessuna parte.»
«Eri tu alla tv... in Svizzera, voglio dire?»
«Sai che non posso parlare.»
«Ding, so quello che fa papà da quando avevo dodici anni», fece
osservare la dottoressa in medicina Patricia Chavez. «Un grande agente
segreto, esattamente come te.»
Non aveva senso nasconderlo. «Be', Patsy, sì, ero io con la mia
squadra.»
«Loro chi erano... i cattivi, voglio dire?»
«Forse terroristi, forse rapinatori di banche. Non è sicuro», replicò
Domingo, togliendosi la camicia mentre andava in camera da letto.
Patsy lo seguì. «La tv ha detto che sono stati tutti uccisi.»
«Sì.» Si levò i pantaloni e li appese nell'armadio. «Non avevamo
scelta. Stavano per ammazzare un ostaggio quando la situazione è
precipitata. Così... siamo dovuti entrare per impedire che ciò avvenisse.»
«Non sono sicura che questo mi piaccia.»
Alzò lo sguardo verso sua moglie. «Io sono sicuro. Non mi piace.
Ricordi quel tale quando studiavi medicina, la gamba che fu amputata e tu
hai assistito in sala operatoria? Non ti sei certo divertita.»
«No, affatto. Si era trattato di un incidente d'auto e la gamba era
troppo maciullata per essere salvata.»
«È la vita, Patsy. Non tutte le cose che devi fare ti piacciono.» Detto
ciò, Chavez si sedette sul letto e lanciò i calzini dentro la cesta aperta.
Agente segreto, pensò. Ora dovrebbe bere una vodka-martini, agitata non
mescolata, ma i film non hanno mai mostrato l'eroe che va a letto a
dormire. Chi ha voglia di fare sesso subito dopo aver ucciso qualcuno? Si
sdraiò sopra le coperte. Bond. James Bond. Sicuro. Non appena chiuse gli
occhi, rivide l'immagine della banca attraverso il mirino e rivisse il
momento, portando la sua MP-10 in posizione, allineando i mirini su
chiunque diavolo fosse... Il suo nome era Guttenach? Si rese conto che
non aveva verificato. Vedendo la testa proprio lì dentro il mirino e
sparando così, normalmente, come si tira su la lampo dei pantaloni dopo
aver pisciato. Bum, bum, bum. Così veloce, così ovattato con il
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silenziatore, e zac, chiunque diavolo fosse, era morto stecchito. Lui e i
suoi tre amici non avevano avuto molta fortuna... anzi, non ne avevano
avuta affatto.
Ma quel tizio che loro avevano assassinato prima, nemmeno lui aveva
avuto fortuna, ricordò Chavez. Un povero disgraziato che aveva avuto la
disavventura di trovarsi nella banca per fare un deposito o parlare con
l'addetto ai prestiti o forse per cambiare i soldi per andare dal barbiere.
Conserva la tua simpatia per quello, si disse Ding. E il dottore che Model
stava per uccidere ora probabilmente era a casa sua con la famiglia,
probabilmente mezzo rintronato dall'alcool o magari da un sedativo,
probabilmente soffrendo di terribili tremiti, probabilmente pensando di
passare un po' di tempo con un amico strizzacervelli che l'aiutasse a
superare lo stress del giorno dopo. Probabilmente sentendosi a pezzi.
Ma dovevi essere vivo per sentirti in qualche modo ed era sempre meglio
che avere moglie e figli seduti nel soggiorno della loro casa fuori Berna, a
versare le loro ultime lacrime e chiedersi perché papà non era più con
loro.
Aveva stroncato una vita, ma ne aveva salvata un'altra. Con quel
pensiero, rivide l'immagine nel mirino, ricordando il primo colpo che
aveva raggiunto quel porco proprio davanti all'orecchio, sapendo che era
morto anche prima di piazzare il secondo e il terzo colpo in un cerchio
inferiore ai cinque centimetri di diametro, facendogli saltare il cervello a
tre metri di distanza dalla parte opposta, mentre il corpo cadeva come un
sacco di patate. Il modo in cui l'arma dell'uomo era caduta sul
pavimento, con la canna rivolta verso l'alto. Grazie al cielo non era
partito un colpo che po teva ferire qualcuno, e i proiettili in testa non gli
avevano fatto chiudere, nello spasmo, le dita e tirare il grilletto dalla
tomba... un rischio reale, l'aveva imparato durante le esercitazioni.
Eppure non era ancora abbastanza. Era meglio tenerli in vita e
prendere dai loro cervelli quello che sapevano e la ragione per cui
avevano agito in quel modo. Così si potevano imparare cose da
utilizzare la volta dopo... o forse... per dare la caccia a qualcun altro, al
bastardo che aveva impartito gli ordini, e riempirgli il culo di pallottole a
punta cava da dieci millimetri.
La missione non era stata perfetta, Chavez doveva ammetterlo, ma era
riuscito a salvare almeno una vita. Un attimo dopo sentì il letto muoversi
quando sua moglie si sdraiò accanto a lui. Cercò la sua mano e la portò
subito sul ventre. Ecco, il piccolo Chavez stava scalciando da vero
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campione. Quello, decise Ding, valeva un bacio.
Anche Popov era a letto, dopo aver mandato giù quattro vodke forti
guardando il telegiornale locale, seguito dal panegirico di un editorialista
all'efficienza della polizia svizzera. Non avevano ancora reso nota
l'identità dei rapinatori, con un certo disappunto di Popov, anche se,
riflettendoci, non sapeva perché. Si era dimostrato affidabile nei
confronti del suo committente... e aveva intascato nell'affare una
notevole somma di denaro. Ancora alcune operazioni così e avrebbe
potuto vivere come un re in Russia, o come un principe in molti altri
paesi. Avrebbe potuto sperimentare le comodità che così spesso aveva
osservato e invidiato mentre era un agente segreto e lavorava nel KGB,
chiedendosi allora come diavolo l'Unione Sovietica avrebbe mai potuto
sconfiggere nazioni che spendevano miliardi in divertimenti e ancor
più in armamenti, tutti migliori di qualunque cosa la sua nazione avesse
mai prodotto, altrimenti perché veniva così spesso incaricato di scoprirne i segreti tecnologici? Era così che aveva lavorato negli ultimi anni
della guerra fredda, sapendo anche allora chi avrebbe vinto e chi
avrebbe perso.
Ma non era mai stato possibile optare per la defezione. A che serviva
svendere la sua patria per un misero stipendio e un normale impiego
nei paradisi del capitalismo? Libertà? Questa era la parola che l'Occidente
fingeva ancora di venerare. Che c'era di affascinante nel poter
girovagare in libertà se non potevi farlo su una bella automobile? O
non potevi dormire in un albergo di lusso quando arrivavi? O non avevi
il denaro per comprarti il cibo e le bevande necessari per godersi davvero
la vita? No, il suo primo viaggio a Ovest come ufficiale "illegale" senza
copertura diplomatica era stato a Londra, dove aveva passato quasi tutto il
tempo a contare le auto di lusso, e gli efficienti taxi neri che si prendevano
allorché si era troppo pigri per camminare. Quasi tutti gli spostamenti li
aveva fatti in metropolitana, che era comoda, anonima ed economica. Ma
quest'ultima era una caratteristica per la quale non aveva molta
simpatia. No, il capitalismo aveva la singolare prerogativa di
ricompensare coloro che avevano scelto i genitori giusti o erano stati
fortunati negli affari. E li ricompensava con lussi e comodità nemmeno
sognati dagli stessi zar. Quello era ciò che Popov aveva subito desiderato
ardentemente e fin da allora si era chiesto come poterlo ottenere.
Un'auto bella e costosa... una Mercedes, un appartamento grande ed
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elegante vicino ai buoni ristoranti e denaro per viaggiare in posti dove la
sabbia era calda e il cielo azzurro, le cose migliori per conquistare le
donne, come doveva aver fatto Henry Ford, ne era sicuro. A che serviva
avere quel tipo di potere senza la volontà di utilizzarlo?
Bene, si disse Popov, era vicino come non mai a realizzare i suoi sogni.
Tutto quello che doveva fare era organizzare ancora alcune operazioni
tipo Berna. Se il suo committente desiderava pagare tutto quel denaro
per dei pazzi, be', un pazzo e il suo denaro vengono ben presto separati;
un aforisma occidentale che trovava deliziosamente appropriato. E
Dmitrij Arkadeevič non era un pazzo. Con quel pensiero appagante,
sollevò il telecomando e spense la tv. Domani, sveglia, colazione,
deposito in banca e quindi taxi per andare all'aeroporto a prendere il volo
Swissair per New York. Prima classe. Naturalmente.
«Allora, Al?» chiese Clark davanti a un boccale di birra britannica
scura. Erano seduti in un separé d'angolo in fondo alla sala.
«Il tuo Chavez corrisponde in pieno a ciò che si dice di lui. Saggio da
parte sua lasciare l'iniziativa a Price. Non ha permesso al suo ego di
avere il sopravvento. Mi piacciono queste cose in un giovane ufficiale. I
suoi tempi erano giusti. La sua suddivisione del primo piano era corretta,
e i suoi colpi sono stati azzeccati. Va benissimo. Così come il team. Tanto
meglio che la prima uscita sia stata facile. Questo Model non era uno
scienziato missilistico, come dici tu.»
«Sporco bastardo.»
Stanley annuì. «Proprio così. I terroristi tedeschi lo sono stati spesso.
Dovremmo anche ricevere una gentile lettera su di lui dal BKA.»
«Imparate le lezioni?»
«Quella del dottor Bellow è stata la migliore. Ci servono altri e migliori
traduttori se vogliamo che lui venga coinvolto nelle trattative. Domani mi
metto al lavoro su questo problema. Century House dovrebbe avere
persone che fanno al caso nostro. Oh, sì, quel giovane Noonan...»
«Un acquisto recente. Era un tecnico dell'FBI. Lo utilizzavano come
supporto tecnico nell'HRT, l'unità specializzata nella liberazione di
ostaggi. Sa sparare e ha qualche esperienza di tipo investigativo», spiegò
Clark. «Un ragazzo bravo e versatile.»
«Bel lavoro quello d'installare la sua attrezzatura di sorveglianza video.
Ho già visionato i nastri. Non male. Nel complesso, John, pieni voti al
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team 2.» Stanley sollevò il suo boccale di John Courage.
«È bello vedere che tutto funziona, Al.»
«Fino alla prossima.»
Un lungo respiro. «Sì.» La maggior parte del successo, Clark lo sapeva,
era dovuto ai britannici. Aveva utilizzato i loro sistemi di supporto e i loro
uomini avevano di fatto condotto l'operazione... almeno per due terzi.
Louis Loiselle era in gamba come avevano dichiarato i francesi. Quel
piccolo bastardo riusciva a sparare come David Crockett, con un suo
stile, e si emozionava come un sasso. I francesi possedevano una propria
esperienza sui terroristi e una volta Clark era uscito in missione con
loro. Così, questa sarebbe stata ricordata come un'azione di successo.
Rainbow adesso aveva ricevuto la sua legittimazione.
Il circolo di Cincinnatus possedeva una grande casa sulla Massachusetts
Avenue, utilizzata spesso per cene semiufficiali che costituivano una parte
così importante della vita sociale di Washington e permetteva ai potenti
d'incontrarsi e godere del loro benessere bevendo e chiacchierando. Il
nuovo presidente rendeva tutto ciò un po' difficile, naturalmente, con
il suo approccio... eccentrico al governo, ma nessuno poteva in realtà
cambiare poi molto in questa città e il nuovo gruppo al Congresso aveva
bisogno d'imparare come Washington funzionava davvero. Non era
diversa da altri luoghi d'America, e per molti di loro i raduni in
questo edificio un tempo appartenuto a qualcuno ricco e importante
costituivano semplice-mente la nuova versione delle cene al country club
dove avevano imparato le regole della società che esibiva un potere
raffinato.
Carol Brightling era una nuova vip. Divorziata da oltre dieci anni, non
si era mai risposata e possedeva non meno di tre dottorati, conseguiti a
Harvard, CalTech e all'università dell'Illinois, coprendo così le due coste
e tre importanti stati; nella capitale federale era un risultato importante
che le aveva procurato l'attenzione, se non l'affetto automatico, di sei
senatori e di un numero maggiore di congressisti, che avevano tutti voti
e comitati.
«Hai sentito le ultime notizie?» le domandò il fresco senatore
dell'Illinois con in mano un bicchiere di vino bianco.
«Che cosa vuoi dire?»
«Svizzera. Un affare di terrorismo o una rapina in banca. Bella
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operazione da parte della polizia svizzera.»
«Ragazzi e fucili», osservò la Brightling con espressione sprezzante.
«Un buon spettacolo per la tv.»
«Come il football», aggiunse lei, con un sorriso gentile e maligno.
«Vero. Perché il presidente non ti sostiene sull'effetto serra?» s'informò
poi il senatore, chiedendosi come fare ad abbattere le sue difese.
«Be', non è che non mi sostenga. Il presidente ritiene che abbiamo
bisogno di saperne un po' di più su questo problema.»
«E tu no?»
«Onestamente, no, penso che disponiamo di tutte le informazioni
che ci servono. I dati provenienti dall'alto e quelli provenienti dal
basso sono piuttosto chiari. Ma il presidente non è convinto, e non si
sente a suo agio nel decidere misure che influenzano l'economia finché
non è personalmente sicuro.» Devo ancora lavorarmelo un po', evitò di
aggiungere.
«Ne sei contenta?»
«Capisco il suo punto di vista», rispose la consulente scientifica,
sorprendendo il senatore della terra di Lincoln. Così, pensò lui, tutti
quelli che lavoravano alla Casa Bianca filavano diritto con questo
presidente. La nomina di Carol Brightling nello staff della Casa Bianca
aveva sorpreso un po' tutti, dato che le sue idee politiche erano molto
diverse da quelle del presidente, rispettata com'era nella comunità
scientifica per le sue idee ambientaliste.
Era stata una mossa indovinata, probabilmente studiata dal capo di
gabinetto Arnold van Damm, forse il funzionario più abile in questa città
di compromessi e manovre, e aveva assicurato al presidente il supporto
(qualificato) del movimento ambientalista, che a Washington si era
trasformato in una forza politica di dimensioni ragguardevoli.
«Ti dà fastidio che il presidente si trovi nel South Dakota a massacrare
oche?» chiese il senatore ridacchiando, mentre un cameriere gli
sostituiva il bicchiere vuoto.
«L'Homo sapiens è un predatore», replicò Carol, esplorando con lo
sguardo la sala alla ricerca di altre persone.
«Ma solo gli uomini?»
Un sorriso. «Sì, noi donne siamo molto più pacifiche.»
«Oh, laggiù nell'angolo non c'è il tuo ex marito?» domandò il senatore,
sorpreso del cambiamento nella sua espressione quando glielo fece
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notare.
«Sì», ammise con voce imperturbabile, senza mostrare emozioni,
voltando la faccia in un'altra direzione. Avendolo individuato, non doveva
fare altro. Entrambi conoscevano le regole. Non avvicinarsi a più di dieci
metri, non fissarsi a lungo e, di certo, non scambiarsi parole.
«Due anni fa ho avuto la possibilità d'investire denaro nella Horizon
Corporation. Da allora mi sono morso parecchie volte le dita.»
«Sì, John ha fatto un sacco di soldi.»
E molto tempo dopo il loro divorzio, cosicché a lei non spettava neanche
un centesimo. Forse non era un buon argomento di conversazione, pensò
d'improvviso il senatore. Era nuovo del mestiere e non era un granché
come conversatore politico.
«Sì, ha fatto bene, manipolando la scienza come ha fatto lui.»
«Tu non approvi?»
«Ristrutturare il DNA nelle piante e negli animali... no. La natura si è
evoluta senza il nostro intervento per almeno due miliardi di anni.
Dubito che abbia bisogno del nostro aiuto.»
«Vi sono cose che all'uomo non è dato conoscere?» chiese il senatore
sorridendo. Le sue conoscenze professionali riguardavano appalti, scavare
buchi nel suolo e costruire qualcosa che la natura non voleva lì. La sua
sensibilità per i problemi ecologici, pensò la dottoressa Brightling, si
era sviluppata dal suo amore per Washington e dal suo desiderio di
rimanervi in una posizione di po tere. Si chiamava febbre del Potomac,
una malattia più facile da prendere che da curare.
«Il problema, mio caro Hawking, è che la natura è tanto complessa
quanto delicata. Quando noi cambiamo Ie cose, non possiamo
facilmente prevedere le ramificazioni di tali cambiamenti. Si chiama
legge delle conseguenze non previste, qualcosa di ben noto al Congresso,
se non erro.»
«Vuoi dire...»
«Voglio dire che, disponendo di una legge federale sulle dichiarazioni
d'impatto ambientale, è più facile pasticciare le cose che non metterle
in ordine. Nel caso del DNA, è più facile riuscire a mutare il codice
genetico piuttosto che valutare gli effetti provocati da quelle modifiche tra
un secolo. Questo tipo di potere dovrebbe essere utilizzato con la
massima prudenza possibile. Non tutti sembrano afferrare un concetto
così semplice.»
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Era difficile controbattere queste argomentazioni, dovette ammettere
amabilmente il senatore. Brightling avrebbe sostenuto questo caso
davanti al suo comitato tra una settimana. Era stata quella la causa
della rottura del matrimonio tra John e Carol Brightling? Che tristezza.
Con quest'osservazione, il senatore salutò e andò a raggiungere la
moglie.
«Non c'è nulla di nuovo in quel punto di vista.» Il dottorato in biologia
molecolare di John Brightling veniva dall'università della Virginia,
insieme con la sua laurea in medicina. «Iniziò con un tale di nome Ned
Ludd alcuni secoli fa. Temeva che la rivoluzione industriale avrebbe
messo fine in Inghilterra all'economia basata sul lavoro artigianale. E
aveva ragione. Quel modello economico era in pezzi. Ma ciò che lo
sostituì fu più vantaggioso per il consumatore ed ecco perché lo
chiamiamo progresso!» Non c'era da sorprendersi che John Brightling,
un miliardario in procinto di arrivare al suo secondo miliardo di dollari,
tenesse banco davanti a una piccola folla di ammiratori.
«Ma la complessità...» obiettò uno degli astanti.
«Succede ogni giorno... ogni secondo. E così fanno le cose che stiamo
cercando di conquistare. Il cancro, per esempio. No, signora, lei è
disposta mettere fine al nostro lavoro se ciò significa rinunciare a una
cura per il tumore al seno? Questa malattia colpisce il cinque per cento
della popolazione umana nel mondo. Il cancro è una malattia genetica. La
chiave per curarlo è nel genoma umano. E la mia società sta per scoprire
questa chiave! Lo stesso dicasi per l'invecchiamento. Oltre quindici anni
fa, a Salk, l'équipe di La Jolla trovò il gene assassino. Se riusciamo a
trovare un modo per disinnescarlo, l'immortalità umana può diventare
realtà. Signora, non l'affascina l'idea di vivere per sempre nel corpo di
una venticinquenne?»
«Ma che ne sarà della sovrappopolazione?» L'obiezione della
congressista questa volta fu un po' più calma della prima. Si trattava di
un problema troppo vasto, posto troppo di sorpresa, per consentire una
replica immediata.
«Una cosa alla volta. L'invenzione del DDT ha sterminato enormi
quantità di insetti portatori di malattie e ciò fece aumentare la
popolazione mondiale. Certo, ora il mondo è un po' più affollato, ma
chi rivorrebbe la zanzara anofele? La malaria è un metodo ragionevole di
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controllo demografico? Nessuno vuole far scoppiare nuove guerre.
Utilizzavamo anche questo sistema per controllare le popolazioni, ma
ormai è superato. Il controllo demografico non è un grosso problema. C'è
un'altra soluzione e si chiama controllo delle nascite; i paesi sviluppati
hanno già imparato come fare e quelli in via di sviluppo li possono
imitare, se hanno una buona ragione per farlo. Potrebbe occorrere più o
meno una generazione», rifletté Brightling, «ma c'è qualcuno qui che non
vorrebbe tornare ad avere venticinque anni... con tutto quello che ha
imparato lungo la strada, è ovvio. Personalmente mi affascina
moltissimo!» proseguì con un rincuorante sorriso. Con stipendi
stratosferici e la promessa di opzioni sulle azioni, la sua società aveva
radunato un gruppo incredibile di talenti per ricercare quel particolare
gene. I profitti che si sarebbero accumulati dal suo controllo era difficile
stimarli, e il brevetto negli Stati Uniti valeva per diciassette anni!
L'immortalità dell'uomo, il nuovo Santo Graal per la comunità medica...
e per la prima volta, era qualcosa da indagare seriamente, non un
argomento per racconti di fantascienza.
«Pensa di riuscirci?» chiese un'altra congressista. Donne di ogni
tipo si trovavano attratte da quest'uomo. Denaro, potere, bell'aspetto e
buone maniere rendevano l'attrazione inevitabile.
John Brightling fece un largo sorriso. «Me lo chieda tra cinque anni.
Conosciamo il gene. Dobbiamo imparare come disinnescarlo. Vi sono
dei meccanismi di base che dobbiamo svelare e lungo la strada speriamo
di scoprire un sacco di cose utilissime. È come partire con Magellano.
Non siamo sicuri di quello che troveremo, ma sappiamo che sarà tutto
interessante.» Nessuno fece notare che Magellano non fece ritorno a
casa da quel viaggio.
«È redditizio?» chiese un nuovo senatore del Wyoming.
«È così che lavora la nostra società. Paghiamo la gente per fare un
lavoro utile. Questo settore è abbastanza utile?»
«Se si riesce a concluderlo, penso che lo sia.» Il senatore era un medico
di famiglia. Possedeva le nozioni di base, ma l'aspetto strettamente
scientifico era molto al di là delle sue possibilità. Il concetto, l'obiettivo
di quelli della Horizon Corporation, era molto più che mozzafiato, ma
lui non avrebbe scommesso contro di loro. Erano riusciti troppo bene
nello sviluppo di medicinali contro il cancro e di antibiotici sintetici ed
era l'azienda privata leader nel progetto del genoma umano, uno sforzo
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globale per decodificare le basi della vita umana. John Brightling aveva
trovato facile attirare altri come lui nella sua azienda. Aveva più
carisma di cento politici e, a differenza di questi ultimi, il senatore doveva
ammetterlo, possedeva oltre all'arte d'intrattenere il pubblico anche una
conoscenza specifica per avvalorare i suoi concetti. Quello che una volta
si chiamava il "manico" per i piloti. Con il suo aspetto da star del cinema,
sorriso spontaneo, enorme capacità d'ascolto e fulminea capacità
d'analisi, il dottor John Brightling aveva quel quid. Era capace di far
sentire interessante chiunque fosse vicino a lui, e quel bastardo sapeva
insegnare, sapeva calibrare le sue lezioni su chiunque fosse nelle
vicinanze. Semplici per gli illetterati ed estremamente sofisticate per gli
specialisti del settore, ai vertici dei quali regnava sovrano. Aveva
concorrenti dello stesso livello. Pat Reily della Harvard-Mass General.
Aaron Bernstein della Johns Hopkins. Jacques Elisé del Pasteur. Forse
Paul Ging dell'U.C. Berkeley. Ma erano tutti qui. Che splendido clinico
avrebbe potuto essere Brightling, pensò il medico senatore; no, era troppo
in gamba per sprecarsi su malati con l'ultima forma d'influenza.
Forse l'unica cosa in cui aveva fallito era il matrimonio. Anche Carol
Brightling era piuttosto sveglia, ma più politica che scienziata, e forse
il suo ego, sconfinato come sapeva bene chiunque in questa città, aveva
avuto paura davanti alle superiori doti intellettuali del marito. In città c'è
posto soltanto per uno di noi, pensò il senatore del Wyoming, sorridendo
dentro di sé. Ciò succedeva abbastanza spesso nella vita reale, non solo
nei vecchi film. E, da questo punto di vista, Brightling John sembrava far
meglio di Brightling Carol. Al fianco del primo c'era una rossa
piuttosto carina che beveva ogni sua parola, mentre la seconda era venuta
sola e se ne sarebbe tornata da sola al suo appartamento di Georgetown.
Ebbene, così era la vita.
L'immortalità. Dannazione, chissà quante polverine di corna tritate
poteva procurarsi lui, rifletté il senatore di Cody, dirigendosi verso la
moglie.
Il Valium era servito. Non era proprio Valium, Killgore lo sapeva.
Quel medicinale era diventato una denominazione generica per
indicare i blandi sedativi, e questo era stato sviluppato dalla SmithKline,
con un nome commerciale diverso, e offriva anche il vantaggio di
combinarsi bene con l'alcool. Per essere gente di strada, spesso litigiosa e
territoriale come cani da immondezzaio, questo gruppo di dieci era molto
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calmo. Aiutava in questo la grande quantità di liquore a disposizione. Il
bourbon di buona marca sembrava la bevanda più richiesta, bevuto
con ghiaccio in bicchieri a buon mercato, oppure accompagnato a
diverse bibite per chi non voleva berlo liscio, come preferiva la
maggior parte di loro, con grande sorpresa di Killgore.
Le visite mediche andarono bene. Erano tutte persone esternamente
abbastanza vigorose, ma affette internamente da problemi fisici che
andavano dal diabete all'insufficienza epatica. Uno era senza dubbio
affetto da cancro alla prostata, il suo PSA oltrepassava il bordo
superiore del diagramma, ma questo non avrebbe contato in questo
particolare test. Un altro era HIV positivo, ma non ancora sintomatico e
nemmeno in questo caso aveva importanza. Forse l'aveva contratto
dall'uso di droga, ma stranamente gli alcolici sembravano tutto ciò di cui
avesse bisogno per tenerlo regolato. Interessante.
Killgore non doveva stare qui e osservarli così intensamente turbava la
sua coscienza, ma loro erano i suoi topi di laboratorio; si presumeva che li
tenesse d'occhio e così faceva, dietro lo specchio, mentre lavorava sulle
sue carte e ascoltava Bach sul suo lettore CD portatile. C'erano, così
dicevano, veterani del Vietnam, che avevano ucciso la loro quota di
asiatici, "musi gialli" era il termine che avevano utilizzato nell'intervista,
prima di andare in pezzi e finire alcolizzati in mezzo a una strada.
Senzatetto era il termine che la società utilizzava per loro, un po' più
dignitoso di barboni, la parola che Killgore ricordava vagamente
utilizzata da sua madre. Non il miglior esempio d'umanità che avesse mai
visto. Eppure, il progetto era riuscito a cambiarli un po'. Tutti ora
facevano regolarmente il bagno, indossavano abiti puliti e guardavano la
tv. Qualcuno addirittura leggeva qualche libro ogni tanto... e pensare che
Killgore aveva creduto che fornire una biblioteca, anche se costava
poco, fosse uno spreco di tempo e denaro. Ma bevevano sempre, e il bere
relegava ciascuno dei dieci a non più di sei ore di piena coscienza al
giorno. Poi li intontiva ulteriormente il Valium, limitando eventuali litigi
che gli uomini della sicurezza avrebbero dovuto sedare. Due di questi
erano sempre di turno nella stanza accanto, anche lo ro a osservare i
dieci. Microfoni nascosti nel soffitto permettevano di ascoltarne le
conversazioni, spesso strampalate. Uno del gruppo sembrava un'autorità
nel baseball e parlava tutto il tempo di Man-de e Maris a chiunque
volesse ascoltarlo. Buona parte di loro aveva il pallino del sesso, tanto che
Killgore si chiedeva se inviare di nuovo fuori la squadra di prelievo per
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catturare alcune "barbone" da sottoporre all'esperimento... ne avrebbe
parlato a Barb Archer. Dovevano pur verificare se la differenza di sesso
aveva un effetto sull'esperimento. Ci sarebbe cascata con una
giustificazione come quella. E non ci sarebbe stata alcuna solidarietà
femminile con loro. Non avrebbe potuto esserci, nemmeno da parte
della nazista che lo affiancava nel condurre questo esperimento. Killgore
si voltò quando sentì bussare alla porta.
«Ehi, dottore.» Era Benny, uno degli uomini della sicurezza.
«Come va?»
«Muoio dal sonno», rispose Benjamin Farmer. «I ragazzi si comportano
abbastanza bene.»
«Sì, è vero.» Era così facile. La maggior parte doveva essere un po'
sollecitata a lasciare la stanza e uscire nel cortile per un'ora di passeggio
ogni pomeriggio. Ma dovevano essere tenuti in forma, il che significava
simulare la quantità di esercizio che facevano in una normale giornata a
Manhattan, barcollando da una panchina all'altra.
«Dannazione, dottore, non ho mai visto nessuno bere come fanno
questi tipi! Voglio dire, oggi ho dovuto portare un'intera cassa di GrandDad e ne sono rimaste solo due bottiglie.»
«È il loro preferito?» chiese Killgore. Non ci aveva fatto caso.
«Sembra di sì, signore. Io personalmente preferisco il Jack Daniel's, ma
per me, forse due per sera, diciamo, per il Night Football del lunedì
sera se è stata una buona partita. Non bevo tanta acqua come quelli lì
bevono superalcolici.» Una risatina dall'ex Marine responsabile del turno
di sicurezza notturno. Un brav'uomo, Farmer. Svolgeva un sacco di
mansioni per gli animali feriti nel rifugio in campagna dell'azienda. Era
anche quello che aveva cominciato a chiamare ragazzi i soggetti del test.
Il termine aveva preso piede tra il personale della sicurezza e poi tra gli
altri. Killgore sorrise. Li si doveva chiamare in qualche modo e topi da
laboratorio non era davvero abbastanza rispettoso. Erano esseri umani, in
qualche modo, tanto più preziosi per il loro ruolo. Si voltò a guardarne
uno, il numero 6, versarsi un altro bicchiere, ritornare a letto per
coricarsi e guardare un po' di tv prima di addormentarsi. Si chiese che
cosa quel poveraccio avrebbe sognato. Qualcuno lo faceva e parlava ad
alta voce nel sonno. Qualcosa d'interessante per uno psichiatra, o forse,
per qualcuno che faceva studi sul sonno. Tutti russavano, al punto che
quando erano addormentati sembrava di essere in un vecchio scalo
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delle ferrovie a vapore.
Ciuf ciuf, pensò Killgore, guardando le ultime carte da sistemare.
Ancora dieci minuti e sarebbe andato a casa. Troppo tardi per mettere a
letto i bambini. Che peccato. A tempo debito si sarebbero svegliati in
un nuovo giorno e in un nuovo mondo.
«Il futuro non è mai stato così radioso come ora», disse John Brightling
al suo uditorio, compiendo gesti ancora più carismatici dopo due
bicchieri di uno Chardonnay californiano selezionato. «Le bioscienze
stanno facendo scoprire orizzonti che quindici anni fa non sapevamo
nemmeno che esistessero. Cent'anni di ricerca di base stanno per
sbocciare nel momento stesso in cui parliamo. Stiamo costruendo sul
lavoro di Pasteur, Ehrlich, Salk, Sabin e di tanti altri. Oggi vediamo così
lontano perché poggiamo sulle spalle di giganti.
«Bene», proseguì John Brightling, «è stata una lunga salita, ma manca
poco alla vetta della montagna e tra pochi anni ci arriveremo.»
«È scaltro», fece notare Liz Murray al marito.
«Molto», le sussurrò Dan Murray, direttore dell'FBI. «Anche sveglio.
Jimmy Hicks dice che è il più esperto al mondo.»
«Chi aspira a diventare?»
«Dio, da quello che ha appena detto.»
«Allora deve farsi crescere la barba.»
Il direttore Murray quasi soffocò alla battuta, poi fu salvato dalla
vibrazione del suo cellulare. Con discrezione, lasciò il suo posto per
andare nel grande atrio di marmo del palazzo. Attivato l'apparecchio, ci
vollero quindici secondi perché il sistema in codice si sincronizzasse
con la stazione base che aveva chiamato: era il quartier generale dell'FBI.
«Murray.»
«Direttore, parla Gordon Sinclair dal centro operativo. Finora gli
svizzeri sono riusciti a identificare gli altri due. Stanno inviando le
impronte digitali al BKA in modo che possano dargli un'occhiata. Ma se
non sono stati fotografati prima da qualche parte, sarebbe un buco
nell'acqua e ci vorrebbe un bel po' per identificare i due compari di
Model.»
«Nessun'altra perdita nell'azione?»
«No, signore, tutti e quattro i terroristi non si alzeranno più. Tutti
gli ostaggi salvi ed evacuati. Ormai dovrebbero aver fatto ritorno a casa.
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In quest'operazione è stato impiegato Tin Noolan, un mago
dell'elettronica per uno dei team.»
«Così, Rainbow funziona.»
«Questa volta sì, direttore», commentò Sinclair.
«Chiedi che ci mandino la descrizione di come si è svolta l'operazione.»
«Sissignore. Ho già mandato loro un'e-mail al riguardo. Meno di
trenta persone nell'agenzia sapevano di Rainbow, anche se molti
nutrivano sospetti. Specialmente quelli dell'HRT che avevano notato la
scomparsa dalla faccia della terra di Tim Noolan, agente di terza
generazione. Come sta andando la cena?»
«Preferisco Wendy. Nient'altro?»
«Il caso di New Orleans è vicino alla conclusione, secondo Bill Betz.
Ancora tre o quattro giorni. A parte questo, non sta succedendo nulla
d'importante.»
«Grazie, Gordy.» Murray premette il tasto END sul suo telefonino che
s'infilò in tasca, poi rientrò nella sala da pranzo dopo aver fatto un cenno
ai due uomini della scorta. Dopo trenta secondi, si riaccomodò, dando un
colpo sordo contro il tavolo con la fondina della sua Smith & Wesson
automatica.
«Qualcosa d'importante?» s'informò Liz.
Scosse la testa. «Routine.»
La riunione finì meno di quaranta minuti dopo che Brightling aveva
terminato il suo discorso e ricevuto il premio. Tenne ancora banco,
questa volta con un gruppo più piccolo di ammiratori, mentre si dirigeva
verso la porta, fuori dalla quale lo aspettava la sua auto. Ci vollero solo
cinque minuti per arrivare all'Hay-Adams Hotel, al di là del parco
Lafayette di fronte alla Casa Bianca. Aveva una suite d'angolo all'ultimo
piano, e il personale dell'albergo, previdente, gli aveva lasciato una
bottiglia di vino bianco in un secchiello con ghiaccio vicino al letto,
poiché era venuta anche la sua compagna. Era un peccato, pensò il
dottor John Brightling, togliendo il tappo. Gli sarebbero mancate cose
come questa, gli sarebbero mancate davvero, ma aveva preso la decisione
molto tempo prima, non sapendo, quando era partito, che avrebbe potuto
funzionare. Ora pensava che tutto sarebbe andato bene e le cose di cui
avrebbe sentito la mancanza erano, in definitiva, molto meno
importanti di quelle che avrebbe avuto. Per il momento, pensò,
guardando la pelle bianca e vellutata di Jessica e il suo splendido corpo,
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avrebbe avuto qualcos'altro di piuttosto piacevole.
Fu diverso per la dottoressa Carol Brightling. Nonostante il suo lavoro
alla Casa Bianca, guidò personalmente l'auto senza nemmeno una
guardia del corpo fino al suo appartamento dalle parti di Wisconsin
Avenue in Georgetown. Come unico compagno aveva un gatto bianco di
nome Jiggs, che venne alla porta per riceverla, strofinandosi lungo il
collant della sua gamba e facendo le fusa per mostrare quanto fosse
contento del suo arrivo. La seguì nella stanza da letto, guardandola come
fanno i gatti, interessati e distaccati allo stesso tempo e sapendo quello
che sarebbe successo. Vestita solo di una corta vestaglia, Carol
Brightling andò in cucina, aprì un armadietto, prese una scatoletta di
Frisky e si chinò per darla a Jiggs dalle sue mani. Poi si versò un
bicchiere d'acqua e la mandò giù con due aspirine. Era stata tutta una sua
idea. Lo sapeva fin troppo bene. Ma dopo tanti anni, era ancora
difficile come lo era stato all'inizio. Aveva rinunciato a molte cose.
Aveva ottenuto il lavoro che voleva, e lei stessa era rimasta abbastanza
sorpresa da come si erano messe le cose, ma aveva l'ufficio nel po sto
giusto, e ora svolgeva un ruolo nel definire le politiche sugli argomenti
che le stavano a cuore. Politiche importanti su argomenti importanti.
Ma il prezzo che doveva pagare per tutto questo era alto, molto alto.
Si chinò per sollevare Jiggs, cullandolo come il bambino che non aveva
mai avuto e andando nella camera da letto che, ancora una volta, sarebbe
stato lui l'unico a dividere con lei. Un gatto era molto più fedele di
quanto potesse mai essere un uomo. Con gli anni aveva imparato la
lezione. In pochi secondi, la vestaglia era sulla sedia di fianco al letto e lei
sotto le coperte, con Jiggs sopra, fra le sue gambe. Sperava che il sonno
sarebbe giunto un po' prima del solito. Ma sapeva che non sarebbe stato
così, perché la sua mente non avrebbe cessato di pensare a quello che
stava succedendo, a meno di cinque chilometri di distanza, in un altro
letto.
5
RAMIFICAZIONI
L'esercizio fisico giornaliero iniziava alle 06.30 e terminava con la
corsa di oltre otto chilometri, a un ritmo tale da durare esattamente
quaranta minuti. Quella mattina ne durò trentotto e Chavez si chiese
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se lui e il suo team avevano corso con una spinta in più grazie al
successo della missione. Se era così, era un bene o un male? Uccidere
esseri umani non avrebbe dovuto farli sentire particolarmente bene. Un
pensiero profondo per una nebbiosa mattina inglese.
Alla fine della corsa, erano tutti madidi di sudore, che una bella
doccia calda provvide a portar via. Stranamente l'igiene era un po' più
complicata per la sua squadra che non per i soldati in uniforme.
Quasi tutti portavano i capelli più lunghi di quanto non consentissero i
loro rispettivi eserciti, così da poter sembrare uomini d'affari maturi,
anche se un po' trasandati, quando indossavano giacca e cravatta per i
loro voli di prima classe diretti chissà dove. Ding era quello che aveva i
capelli più corti dato che nella CIA aveva cercato di tenerli in modo non
troppo diverso da come li portava quando era sergente nei Ninja.
Avrebbero dovuto crescere almeno per un altro mese prima di essere
abbastanza arruffati. Al pensiero emise un borbottio, poi uscì dalla
doccia. Quale capo del team 2, aveva un suo bagno privato e per un po'
si fermò ad ammirare il proprio corpo, pur sempre un motivo
d'orgoglio per Domingo Chavez. L'esercizio era stato duro la prima
settimana, ma stava dando i suoi frutti. Non era stato molto più in
forma di così nella scuola dei Ranger a Fort Benning, e quanti anni
aveva, allora? Ventuno, un pivello e uno degli uomini più bassi del corso.
Lo disturbava il fatto che Patsy, alta e slanciata come sua madre, lo
superasse di quasi due centimetri. Ma portava solo tacchi bassi, il che
rendeva la cosa più accettabile, e nessuno si prendeva gioco di lui. Come
il suo capo, aveva l'aspetto di uno che chiunque avrebbe evitato di
prendere in giro. Soprattutto quella mattina, pensò, asciugandosi. Aveva
fatto fuori un uomo la notte precedente, in modo veloce e semplice come
chiudersi la lampo.
Di ritorno a casa, Patsy aveva già indossato il camice da sala operatoria.
Al momento faceva il turno in ostetricia/ginecologia, ed era previsto
che dovesse eseguire, o meglio assistere, a un parto cesareo quella
mattina nell'ospedale locale dove stava completando quello che negli
Stati Uniti sarebbe stato il suo anno d'internato. Il prossimo sarebbe
stato il suo turno in pediatria, che sembrava proprio fare al caso loro. Per
lui sulla tavola c'erano già uova e pancetta; aveva notato che le uova in
Inghilterra sembravano avere tuorli più brillanti. Si chiese se qui davano
da mangiare qualcosa di diverso alle galline.
«Vorrei che mangiassi meglio», osservò ancora una volta Patsy.
102
Domingo rise, prendendo il giornale del mattino, il Daily Telegraph.
«Tesoro, il mio colesterolo è a centotrenta, i battiti del mio cuore a riposo
sono cinquantasei. Sono una snella, fenomenale macchina da guerra, cara
dottoressa!»
«Ma che sarà fra dieci anni?» chiese Patricia Chavez, dottoressa in
medicina.
«Prima d'allora mi sarò sottoposto a dieci visite complete e regolerò il
mio stile di vita in funzione di quello che verrà fuori», rispose,
imburrando il suo pane tostato, Domingo Chavez, con un master in
scienze (relazioni internazionali) . In questo paese il pane, l'aveva
imparato nelle ultime sei settimane, era davvero favoloso. Perché la
gente parlava male del cibo inglese? «Diavolo, Patsy, guarda tuo padre.
Quella vecchia canaglia è ancora in gran forma.» Anche se non aveva
corso questa mattina, nonostante la sua forma, faceva fatica a portare a
termine gli otto chilometri al passo tenuto dai suoi uomini. D'altronde,
aveva superato di un bel po' i cinquanta. La sua mira, però, non ne
aveva sofferto. John aveva fatto di tutto per dimostrarlo. Uno dei
migliori tiratori con la pistola che Chavez avesse mai visto e ancor
meglio con un fucile di precisione. Era allo stesso livello di Weber e
Johnston dalla distanza di 400 metri. Malgrado l'abito che indossava
per lavorare, tutti potevano leggere chiaramente le parole invisibili, "non
tentate di fottermi", che aveva scritto in fronte Rainbow Six.
La prima pagina riportava la storia dei fatti di Berna del giorno
precedente. Ding la lesse rapidamente e riscontrò che quasi tutti i
dettagli erano giusti. Notevole. Il corrispondente del Telegraph doveva
avere buoni contatti con i poliziotti... a cui aveva dato il merito
dell'operazione. Bene, tutto okay. Era previsto che Rainbow rimanesse
nell'ombra. Nessun commento del ministro della Difesa sul fatto che il
SAS avesse fornito supporto alla polizia svizzera. Questo era un punto
un po' debole. Un "no" tondo sarebbe stato meglio... ma se fosse stato
pronunciato, allora un "no comment" espresso in qualche altro momento
sarebbe stato interpretato come un "sì". Forse era meglio così. La politica
non era ancora una capacità acquisita, almeno non a livello istintivo. Trattare
con i media lo spaventava più che fronteggiare armi cariche; per queste era
stato addestrato, per quello no. Fece una smorfia quando si rese conto che
mentre la CIA disponeva di un ufficio di pubbliche relazioni, di sicuro come
l'oro Rainbow non l'aveva. In questo campo probabilmente era meglio non
fare pubblicità. A questo punto, Patsy si mise la giacca e si diresse verso la
103
porta. Ding la seguì per darle un bacio, osservò la moglie andare verso l'auto
di famiglia e sperò che nella guida a sinistra riuscisse meglio di lui. Quel fatto
lo innervosiva e gli richiedeva una continua concentrazione. La parte più folle
era che il cambio si trovava al centro, sul lato sbagliato, ma i pedali erano gli
stessi delle auto americane. Ciò rendeva Chavez un po' schizofrenico:
guidare a sinistra ma con il piede destro. La parte più difficile erano le
rotonde che ai britannici piacevano più degli incroci. Ding continuava a
voler girare a destra invece che a sinistra. Sarebbe stato un modo davvero
stupido per farsi ammazzare. Passati dieci minuti, indossò l'uniforme diurna e
si avviò verso l'edificio del team 2 per il secondo debriefing.
Popov s'infilò nella tasca del soprabito il libretto di risparmio. Il
funzionario di banca svizzero non aveva fatto una piega vedendo la valigetta
piena di contante. Una strana macchina aveva contato le banconote, come
dita meccaniche che maneggiavano un mazzo di carte da gioco, verificando
nello stesso tempo il taglio. Erano stati necessari quarantacinque minuti per
sistemare il tutto. Il numero del conto era quello vecchio usato durante il
servizio nel KGB e, infilato nel libretto di risparmio, c'era il biglietto da visita
dell'impiegato, compreso l'indirizzo Internet per effettuare trasferimenti
telematici, mentre la corretta frase in codice era stata concordata e scritta
nella sua pratica bancaria. Non era venuto fuori l'argomento dell'avventura
fallita di Model il giorno prima.
Popov contava di leggere gli articoli dell'International Herald Tribune, che avrebbe acquistato una volta arrivato in aeroporto.
Il suo passaporto era americano. La società gli aveva fatto ottenere lo stato
di residente-straniero ed era in procinto di acquisire la cittadinanza; tutto
questo lo divertiva, dato che aveva ancora il suo passaporto della federazione
russa, più altri due provenienti dalla sua precedente carriera, con nomi
diversi ma la stessa foto, che in caso di necessità avrebbe potuto ancora
utilizzare. Quelli erano nascosti nella sua borsa da viaggio, in un piccolo
scomparto che solo un doganiere molto coscienzioso avrebbe potuto trovare,
e soltanto se fosse stato preavvertito che c'era qualcosa di sospetto nel
viaggiatore.
Due ore prima dell'ora prevista per la partenza del suo volo, restituì l'auto a
noleggio, prese il bus per il terminal internazionale, superò le solite formalità
del check-in e si diresse verso la sala d'aspetto di prima classe per un caffè e
un croissant.
104
Bill Henriksen era un patito dei notiziari televisivi. Svegliandosi, presto come
sempre, si sintonizzò subito sulla CNN, passando di frequente su Fox News
con il telecomando mentre faceva la solita passeggiata mattutina sul tapis
roulant, spesso anche con un giornale sul leggìo. La prima pagina del New
York Times era dedicata ai fatti di Berna. Stranamente la CNN ne parlava, ma
senza mostrare molte immagini. La Fox invece usava materiale della
televisione svizzera, da cui riuscì a osservare tutto ciò che si poteva dell'azione.
Flash-bang sulle porte anteriori, che fecero fare un salto all'operatore e gli
fecero perdere un po' l'inquadratura, com'era normale quando si trovavano
così vicini, con i tiratori subito dietro. Nessun rumore di spari; utilizzavano armi
con silenziatore. Dopo cinque secondi, tutto era finito. Così, gli svizzeri
disponevano di una squadra speciale molto ben addestrata. Non c'era da
sorprendersi, anche se non ne aveva mai sentito parlare. Dopo alcuni minuti,
un tale veniva fuori e accendeva una pipa. Chiunque fosse, probabilmente il comandante della squadra, aveva un certo stile, pensò Henriksen, verificando il
chilometraggio sul tapis roulant. La squadra vestiva come normalmente si
vestono quelle persone, con tute color carbone e giubbotti antiproiettile in
Kevlar. I poliziotti in uniforme entravano a prendere gli ostaggi al momento
giusto. Sì, un bel lavoro, un altro modo per dire che i criminali/terroristi (le
notizie non chiarivano se si trattasse solo di rapinatori o di individui con un
movente politico) non erano poi così svegli. Chi l'aveva mai pensato? La
prossima volta avrebbero dovuto sceglierne di migliori se questa cosa doveva
funzionare. In pochi minuti avrebbe squillato il telefono, ne era sicuro, per
chiedergli di fare una breve comparsa in televisione. Una scocciatura
necessaria.
La chiamata arrivò mentre si trovava sotto la doccia. Da tempo aveva fatto
installare un telefono proprio fuori dalla porta.
«Sì.»
«Signor Henriksen?»
«Sì, chi parla?» La voce non era familiare.
«Bob Smith della Fox News New York. Ha visto il servizio sull'incidente in
Svizzera?»
«Sì, l'ho appena seguito sul vostro canale.»
«Potrebbe venire qui a farci un commento?»
«A che ora?» chiese Henriksen, conoscendo già la risposta e quale
sarebbe stata la sua.
105
«Subito dopo le otto, se può.»
Guardò l'orologio, un gesto automatico e inutile che nessuno vide. «Sì,
posso farcela. Quanto tempo ho questa volta?» «Direi circa quattro
minuti.»
«Va bene, ci vediamo tra un'ora.» Il ragazzo doveva essere nuovo, pensò
Henriksen, per non sapere che lui era un commentatore fisso, altrimenti
perché il suo nome avrebbe dovuto essere nell'agenda telefonica Rolodex
della Fox? Una veloce tazza di caffè con una ciambellina e fuori, sulla sua
Porsche 911, attraverso il ponte George Washington verso Manhattan.
La dottoressa Carol Brightling si svegliò, accarezzò la testa di Jiggs ed
entrò nella doccia. Dopo dieci minuti, con un asciugamano avvolto intorno
alla testa, aprì la porta e prese il giornale del mattino. La macchina del caffè
aveva già preparato due tazze di Mountain-Grown Folger e nel frigorifero
c'era il contenitore di plastica pieno di fette di melone. Poi accese la radio
per sentire l'edizione del mattino di All Things Considered, iniziando la sua
do se giornaliera di notizie, che cominciava ora e sarebbe proseguita per quasi
tutta la giornata. Il suo lavoro alla Casa Bianca consisteva soprattutto nel
leggere e oggi doveva incontrarsi con quel buzzurro del ministero
dell'Energia che riteneva ancora importante costruire bombe H; avrebbe
consigliato il presidente di opporsi, ma lui avrebbe probabilmente respinto
il suggerimento senza nemmeno spiegarle il motivo.
Perché diavolo era stata assunta da questa amministrazione? si chiese Carol.
La risposta era semplice e ovvia: la politica. L'attuale presidente ce l'aveva
messa tutta per evitare di restare coinvolto in tali questioni nel suo anno e
mezzo di presidenza. Inoltre lei era una donna, mentre la squadra dei suoi
esperti era quasi completamente maschile; questo aveva provocato alcuni
commenti nei media e anche altrove, confondendo il presidente nella sua innocenza politica, il che aveva divertito ancor più i giornalisti e dato loro
un'ulteriore arma da usare. Il meccanismo aveva funzionato. Così le era stato
offerto l'incarico, e lei l'aveva accettato, con un ufficio nell'ala vecchia invece
che direttamente alla Casa Bianca, con una segretaria e un assistente, e un
posto macchina nel West Executive Drive per la sua Honda di sei anni a
basso consumo, la sola auto giapponese in quell'isolato; nessuno aveva
detto nulla, naturalmente, dato che era una donna e aveva dimenticato della
politica di Washington più di quanto il presidente avesse mai imparato.
Quando ci pensava, trovava la cosa sorprendente, benché sapesse che il
106
presidente notoriamente imparava alla svelta, pur non essendo un grande
ascoltatore, almeno per quanto la riguardava.
I media lasciavano che se la passasse liscia. I media non erano amici di
nessuno. Non avendo convinzioni proprie, pubblicavano soltanto ciò che
diceva la gente e così lei doveva parlare, ufficiosamente, su basi approfondite
o soltanto in maniera informale, a diversi cronisti. Alcuni, quelli che si
occupavano normalmente di ambiente, almeno comprendevano il
linguaggio, e perlopiù ci si poteva fidare che scrivessero i loro pezzi in modo
corretto, sebbene vi infilassero sempre la pseudoscienza della controparte: sì,
forse la sua posizione è valida, ma la scienza non ha preso ancora una
posizione netta e i modelli al computer non sono abbastanza precisi per
giustificare questo tipo d'azione. Il risultato era che la pubblica opinione,
misurata con i sondaggi, aveva ristagnato o addirittura aveva cambiato
atteggiamento. Il presidente era tutt'altro che ambientalista, ma il bastardo la
passava liscia, nello stesso tempo utilizzando Carol Brightling come
camuffamento politico o addirittura come copertura politica! Questo la
inorridiva... o l'avrebbe fatto in altre circostanze. Ma lei era pur sempre, pensò
la dottoressa Brightling tirandosi su la lampo della gonna prima d'indossare la
giacca, consigliere del presidente degli Stati Uniti. Ciò significava vederlo un
paio di volte la settimana. Significava che lui leggeva le sue relazioni sulla
posizione da tenere e le sue raccomandazioni di politica ambientale.
Significava anche aver accesso ai personaggi più in vista dei media, libera
d'inseguire i suoi obiettivi... entro limiti ragionevoli.
Ma lei era quella che ne pagava il prezzo. Era sempre lei, pensò Carol,
chinandosi a grattare le orecchie di Jiggs mentre andava verso la porta. Il
gatto avrebbe trascorso una giornata facendo quello che voleva, soprattutto
dormendo al sole sul davanzale della finestra, forse aspettando che la
padrona tornasse a casa e gli desse la sua porzione di Frisky. Non era la
prima volta che pensava di fermarsi in un negozio di animali e acquistare un
topolino vivo per Jiggs, per giocarci e mangiarselo. Un processo affascinante da osservare, predatore e preda, ciascuno che recitava la sua parte...
così come si suppone che vada il mondo; così come avveniva da innumerevoli
secoli fino agli ultimi due, più o meno. Finché l'uomo non aveva iniziato a
cambiare ogni cosa, pensò, avviando l'auto e guardando la strada
acciottolata, ancora veri ciottoli in quella via tradizionale di Georgetown,
ancora con i binari del tram, ed edifici in mattoni che avevano ricoperto
quella che, probabilmente, meno di duecento anni prima, era stata una
bella foresta di latifoglie. Oltre il fiume, era ancora peggio, dove solo
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l'isola di Theodore Roosevelt si trovava ancora nel suo stato originale,
benché fosse anch'essa sottoposta al frastuono dei motori. Dopo un
minuto, si trovò oltre la rotonda sulla Pennsylvania Avenue. Come al
solito era in anticipo rispetto all'ora di punta giornaliera, e doveva
percorrere all'incirca un chilometro e mezzo lungo l'ampia e dritta
strada prima di poter girare a destra e trovare il suo parcheggio. Non
erano riservati a nominativo, ma ciascuno aveva adottato il suo e quello
della dottoressa Brightling si trovava a una quarantina di metri
dall'ingresso ovest. Come al solito, non dovette sottoporsi all'ispezione
del cane. Il servizio segreto utilizzava cani belgi di Malines, simili a
pastori tedeschi marrone, con buon fiuto e svegli, per annusare le auto alla
ricerca di esplosivi. Il suo lasciapassare per la Casa Bianca la fece
proseguire nell'ala vecchia, poi su per la scala e diritto nel suo ufficio. Era
un bugigattolo, in realtà, ma più grande di quelli della sua segretaria e
del suo assistente. Sulla scrivania c'era l'Early Bird, con i ritagli degli
articoli di diversi giornali nazionali considerati importanti per coloro
che lavoravano in quell'edificio, insieme con la sua copia di Science
Weekly, Science, e, oggi, Scientific American, oltre ad alcune riviste
mediche. Le pubblicazioni sull'ambiente sarebbero arrivate due giorni
più tardi. Non si era ancora seduta quando la sua segretaria, Margot
Evans, entrò con il fascicolo segreto sulla politica delle armi nucleari,
che avrebbe dovuto esaminare prima di fornire al presidente il consiglio
che lui avrebbe rifiutato. Le dava molto fastidio scrivere la relazione
ufficiale interna che il presidente non avrebbe pensato due volte a
respingere. Ma lei non poteva fornirgli una scusa per accettare, con grande
pubblica riluttanza, le sue dimissioni; raramente qualcuno, a questo
livello, aveva chiesto di lasciare per decisione personale, anche se i media
locali lo capivano benissimo. Perché non compiere un passo ulteriore
rispetto al solito e raccomandare la chiusura del reattore inquinante di
Hanford, Washington? L'unico reattore americano costruito come quello
di Cernobyl, più che un reattore di potenza un reattore progettato per
produrre plutonio, Pu 239 , per armi nucleari, il prodotto peggiore che
la mente di uomini guerrafondai avesse mai partorito. Vi erano nuovi
problemi per Hanford, nuove fughe dalle vasche di stoccaggio, scoperte
prima che potessero inquinare le falde acquifere, ma ancora una minaccia
per l'ambiente, costose da sistemare. La miscela chimica in quelle vasche
era terribilmente corrosiva e mortalmente tossica e radioattiva... e il
presidente non avrebbe nemmeno ascoltato un briciolo dei suoi consigli.
108
La scienza alla base delle sue obiezioni a Hanford era reale, persino
Red Lowell era preoccupato, ma lui voleva che venisse costruita una
nuova Hanford! Persino questo presidente non avrebbe appoggiato una
simile proposta!
Con quel pensiero rassicurante, la dottoressa Brightling si versò una
tazza di caffè e cominciò a leggere l'Early Bird, mentre con la mente
pensava a come metter giù la sua inutile raccomandazione per il
presidente.
«Allora, signor Henriksen, chi erano?» chiese il conduttore del mattino.
«Non sappiamo molto di più oltre al nome del sospetto capo, Ernst
Model. Costui un tempo faceva parte della banda Baader-Meinhof, il
famoso gruppo di terroristi comunisti tedeschi degli anni Settanta e
Ottanta. Se ne erano perse le tracce circa dieci anni fa. Sarà interessante
sapere dove si era nascosto.»
«Aveva un dossier su di lui mentre lavorava con la squadra recupero
ostaggi dell'FBI?»
Un sorriso accompagnò la concisa risposta. «Oh, sì. Conosco la
faccia, ma ora il signor Model verrà trasferito nei dossier superati.»
«Così, è stata un'azione terroristica o solo una rapina in banca?»
«Non si può ancora capire da quanto riferisce la stampa, ma non
escluderei del tutto, come motivo, la rapina. Una delle cose che spesso
si dimenticano sui terroristi è che devono anche mangiare, e per farlo
occorrono soldi. Vi sono non pochi precedenti che hanno visto
criminali considerati politici infrangere la legge solo per procurarsi
denaro per sopravvivere. La Baader-Meinhof in Germania utilizzò il
rapimento per estorcere denaro alle aziende e ai parenti delle vittime.»
«Così, secondo lei sono solo criminali?»
«Il terrorismo è un crimine. È un dogma all'FBI, dove sono cresciuto. E
questi quattro che sono stati uccisi ieri in Svizzera erano criminali.
Purtroppo per loro, la polizia elvetica ha messo insieme e addestrato
quella che sembra essere una squadra operazioni speciali
professionale ed eccellente.»
«Come giudica l'operazione?»
«Direi buona. I filmati non evidenziano alcun errore. Tutti gli ostaggi
sono stati salvati e i criminali tutti uccisi. È un punto a favore in una
vicenda come questa. In astratto, si vorrebbero catturare i criminali vivi,
109
se possibile, ma non sempre lo è; le vite degli ostaggi hanno priorità
assoluta in casi come questo.»
«Ma i terroristi, non hanno diritti...»
«In linea di principio, sì, hanno gli stessi diritti di altri criminali. Lo
insegniamo anche all'FBI, e la cosa migliore che possa fare un membro
delle forze dell'ordine, in casi come questo, è di arrestarli, mandarli
davanti a un giudice e una giuria per farli condannare, ma ricordi che gli
ostaggi sono vittime innocenti e le loro vite sono a rischio a causa
delle azioni dei criminali. Pertanto, si cerca di dar loro la possibilità di
arrendersi... davvero, se possibile si cerca di disarmarli.
«Ma molto spesso non ce lo possiamo permettere», proseguì Henriksen.
«Sulla base di quello che ho visto alla tv, la squadra della polizia svizzera
ha agito in modo non diverso da come siamo stati addestrati noi a
Quantico. Si ricorre a un'azione di forza solo quando necessario, ma
quando lo è, si va fino in fondo.»
«Ma chi decide quando è necessario?»
«Il comandante sul posto prende quella decisione, sulla base del
proprio addestramento, della propria esperienza e dei precedenti.» E
in seguito, ma Henriksen non lo disse, persone come te lo giudicano col
senno di poi per altre due settimane.
«La sua società addestra le forze di polizia locali nelle tattiche
speciali?»
«Sì. Disponiamo di numerosi veterani della squadra recupero
ostaggi dell'FBI, della Delta Force e di altre organizzazioni
"speciali" e potremmo utilizzare questa operazione svizzera quale
esempio di come si agisce», spiegò Henriksen; la sua era una società
internazionale, che addestrava anche forze di polizia straniere ed
essere gentili con gli svizzeri poteva solo portare vantaggi.
«Grazie signor Henriksen per essere stato qui con noi stamattina.
L'esperto di terrorismo internazionale William Henriksen, presidente della
Global Security Inc., società di consulenza internazionale. Sono le otto e
ventiquattro minuti.» Nello studio, Henriksen mantenne la sua espressione
calma e professionale fino a cinque secondi dopo che si spense la luce
sulla telecamera più vicina. Nella sede centrale della sua società, avevano
di sicuro già registrato quest'intervista da aggiungere alla grande raccolta
di trasmissioni radiotelevisive. La GSI era nota in tutto il mondo e il loro
video di presentazione comprendeva brani di molte interviste come
110
questa. Il direttore dello studio televisivo l'accompagnò fuori dal set
fino alla sala trucco, dove gli fu tolta la cipria, poi lo lasciò uscire da
solo.
Era andata bene, pensò, passando in rassegna le opinioni
espresse. Avrebbe dovuto scoprire chi aveva addestrato gli svizzeri.
Prese mentalmente nota di incaricare uno dei suoi contatti di scoprirlo. Se
si trattava di un'azienda privata, era una temibile concorrente, anche se
probabilmente era l'esercito svizzero, forse persino una formazione
militare con divise da poliziotti, magari con qualche assistenza tecnica
del GSG9 tedesco. Un paio di telefonate lo avrebbero chiarito.
Il quadrigetto Airbus A-340 di Popov atterrò in orario all'aeroporto
Kennedy di New York. Ci si poteva sempre fidare della puntualità degli
svizzeri. La sua poltrona di prima classe era vicino alla porta, il che gli
permise di essere il terzo passeggero a scendere, poi via, a ritirare i
bagagli e superare il controllo della dogana. In America, l'aveva
imparato da tempo, era più difficile entrare per uno straniero anche se
con il suo minimo bagaglio e senza nulla da dichiarare fu un po' più
facile. I funzionari della dogana furono cortesi e lo fecero passare
direttamente nel posteggio dei taxi, dove, per la solita esorbitante
tariffa, scelse un autista pakistano per farsi portare in città,
insinuandogli il sospetto che i taxisti fossero in combutta con quelli
della dogana. Ma lui era sulla nota spese, il che significava che doveva
avere la ricevuta... e poi non si era garantito il giorno in cui avrebbe
potuto permettersi queste cose facendone a meno? Sorrise, osservando i
quartieri cresciuti in modo disordinato, che diventavano sempre più
fitti man mano che si avvicinava a Manhattan.
Il taxi lo lasciò davanti al suo palazzo. L'appartamento era pagato dal
suo committente, che lo deduceva dalle tasse; Popov stava imparando
come funzionavano le leggi fiscali americane, e per lui era gratis. Passò
alcuni minuti a depositare la biancheria sporca e ad appendere gli abiti
buoni prima di scendere le scale e farsi chiamare un taxi dal portiere.
Da lì ci vollero altri quindici minuti per l'ufficio.
«Com'è andata?» chiese il capo. C'era uno strano brusio nell'ufficio,
creato appositamente per interferire con eventuali dispositivi
d'ascolto, magari piazzati da una società rivale. Lo spionaggio industriale
era un fattore importante nella vita dell'azienda di quest'uomo e le
111
difese erano almeno altrettanto efficienti di quelle che aveva utilizzato il
KGB. Popov un tempo aveva creduto che i governi disponessero del
meglio di tutto. Ciò non era certamente vero negli Stati Uniti.
«È andata più o meno come mi aspettavo. Erano dei pazzi, in effetti
piuttosto dilettanti, nonostante tutto l'addestramento che gli abbiamo
fornito negli anni Ottanta. Avevo detto loro di sentirsi liberi di rapinare la
banca come copertura della missione reale...»
«Che era?»
«Farsi uccidere», rispose subito Dmitrij Arkadeevič. «Almeno, questo
ritenevo fossero le sue intenzioni, signore.» Le sue parole provocarono un
sorrisetto cui Popov non era abituato. Prese nota di verificare il valore
azionario della banca. Lo scopo di questa missione era d'influenzare la
situazione in Borsa della banca? Non sembrava molto probabile, ma anche
se lui non aveva la necessità di sapere per chi faceva queste cose, era stata
sollecitata la sua naturale curiosità. Quest'uomo lo trattava come un mercenario e anche se Popov sapeva che era esattamente così da quando aveva
lasciato i servizi del suo paese, tutto questo lo metteva in contrasto con la sua
professionalità. «Avrà ancora bisogno di tali servizi?»
«Che ne è stato del denaro?» volle sapere il boss.
Una risposta ambigua: «Sono sicuro che gli svizzeri sapranno cosa farne».
Certamente l'avrebbe saputo la sua banca. «Di sicuro lei non s'aspetta che io
lo recuperi!»
Il capo scosse la testa. «No, non proprio, e comunque era una somma da
poco.»
Popov confermò con un cenno di aver capito. Somma da poco? Nessun
agente impiegato dai sovietici aveva mai avuto così tanto in una volta sola. Il
KGB era stato sempre avaro nei suoi pagamenti, indipendentemente
dall'importanza delle informazioni ottenute, né era mai stato così distratto
nel gettare via denaro, qualunque somma fosse. Ogni singolo rublo doveva
essere giustificato, altrimenti quel contabile pignolo al numero 2 di piazza
Dzeržinskij avrebbe fatto discendere l'ira di Dio sull'agente che era stato
così sbadato nelle sue operazioni! Poi si domandò come il suo datore di lavoro
avesse riciclato quel denaro. In America, se si depositavano o ritiravano
anche solo diecimila dollari in contanti, la banca doveva eseguire una
registrazione scritta. Si pensava che ciò rendesse difficile la vita ai mercanti di
droga, ma questi riuscivano comunque a svolgere il loro mestiere. In altri paesi
avevano regole simili? Popov non lo sapeva. La Svizzera no, ne era sicuro, ma
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tutte quelle banconote non dovevano proprio essersi materializzate nel
caveau della banca. In qualche modo il suo capo c'era riuscito, e bene,
riconobbe Popov. Forse Ernst Model era stato un dilettante, ma quest'uomo
non lo era. Qualcosa da tenere a mente, l'ex spia disse fra sé, imprimendoselo
nel cervello con grandi lettere in rosso.
Seguirono alcuni secondi di silenzio. Poi: «Sì, mi serve un'altra
operazione».
«Quale, esattamente?» chiese Popov, ed ebbe subito la risposta. «Ah.» Un
cenno con la testa. Utilizzò anche la parola corretta: operazione. Molto
strano. Dmitrij si chiese se sarebbe stato saggio effettuare ricerche sul suo
committente, per scoprirne qualcosa di più. Dopotutto, la sua stessa vita era
ormai intrecciata a quell'uomo, ed era anche vero il contrario, naturalmente,
ma la vita degli altri non era per lui una preoccupazione immediata.
Quanto sarebbe stato complicato? Per qualcuno che possedeva un computer
e un modem, non era più così difficile... se uno aveva il tempo. Per ora, era
chiaro che avrebbe avuto a disposizione soltanto una sera nel suo
appartamento prima di riattraversare l'Atlantico. Era un'ottima cura per il jet
lag.
Sembravano robot, pensò Chavez, scrutando dietro un angolo generato dal
computer. Anche gli ostaggi, ma in questo caso erano creati dal computer,
tutte ragazzine con vestiti o maglioni a strisce rosse e bianche... Ding non
riuscì a decidere cosa fossero. Era chiaramente un effetto psicologico
programmato nel sistema da chi aveva impostato i parametri del programma,
chiamato SWAT 6.3.2. Qualche gruppo di base in California l'aveva
prodotto prima per la Delta Force con un contratto del ministero della Difesa
sotto il controllo della RAND Corporation.
Era costoso utilizzarlo, soprattutto a causa del completo elettronico che
indossava. Pesava come il solito completo di missione nero, grazie alle
lamine di piombo cucite nel tessuto, e tutto, guanti compresi, era pieno di
fili di rame e sensori che comunicavano al computer, un vecchio Cray YMP,
esattamente ciò che il suo corpo stava facendo; a sua volta un'immagine
generata dal computer veniva proiettata nei suoi occhiali. Il dottor Bellow, in
questo particolare gioco, faceva il commento, interpretando i ruoli di capo dei
cattivi e di consigliere dei buoni. Ding voltò la testa e vide Eddie Price subito
dietro di lui e Hank Patterson di fronte nell'altro angolo simulato, figure
robotizzate con indosso i numeri per fargli sapere chi erano.
113
Chavez sollevò e abbassò il braccio destro tre volte, chiedendo le flashbang, poi scrutò dietro l'angolo ancora una volta... mentre dalla sua sedia,
Clark vide apparire la linea nera sull'angolo bianco, poi premette il 7 sulla
tastiera del computer... il cattivo n. 4 puntò l'arma sul gruppo di
studentesse...
«Steve! Ora!» ordinò Chavez.
Lincoln tirò la sicura della flash-bang. Si trattava di un simulatore di
granata computerizzato che riproduceva gli effetti delle bombe a mano
speciali. L'esplosione, anche se non forte come quelle reali, giunse
attraverso le cuffie contemporaneamente al biancore nei loro occhiali per
la realtà virtuale e li fece sobbalzare.
L'eco non aveva ancora cominciato a svanire quando Chavez si tuffò
nella stanza, arma in pugno, mirando al terrorista n. 1, considerato il capo
nemico. Qui il sistema computerizzato era in difetto, pensò Chavez. I
membri europei del suo team non sparavano come gli americani.
Spingevano in avanti le armi mandando in tensione la cinghia,
protendendo le loro MP-10 prima di far fuoco. Chavez e gli americani
invece premevano il calcio contro la spalla. Ding esplose la prima raffica
prima di cadere a terra, ma il computer non sempre lo contava come un
centro, il che lo fece incazzare non poco. Lui non sbagliava mai, come un
tale di nome Guttenach aveva scoperto trovandosi di fronte san Pietro
senza un minimo di preavviso. Una volta a terra, Chavez rotolò di lato,
ripeté la raffica e puntò l'MP-10 verso un altro bersaglio. La cuffia
produsse l'effetto sonoro dei colpi (il programma SWAT 6.3.2. per
qualche ragione non ammetteva le armi silenziate). Alla sua destra, Steve
Lincoln e Hank Patterson erano nella stanza e sparavano ai sei terroristi.
Le loro raffiche brevi, controllate, gli risuonarono nelle orecchie e nei
suoi occhiali, per la realtà virtuale, le teste esplosero in nuvole rosse
procurandogli grande soddisfazione. Ma il cattivo n. 5 premette il
grilletto, non contro i nostri ma contro gli ostaggi, che cominciarono ad
andar giù finché almeno tre dei tiratori di Rainbow non lo fecero fuori.
«Stanza libera!» urlò Chavez, saltando in piedi e andando verso le
sagome dei cattivi. Uno, diceva il computer, era ancora vivo nonostante
sanguinasse dalla testa. Ding con un calcio ne allontanò l'arma, ma in
quell'istante l'ombra del n. 4 aveva cessato di muoversi.
«Stanza libera! Stanza libera!» urlarono i membri del team.
«Esercitazione conclusa», annunciò Clark. Ding e i suoi uomini si
114
tolsero gli occhiali e trovarono una stanza di dimensioni circa doppie
rispetto a un campo di pallacanestro e completamente priva di
oggetti, vuota come una palestra di liceo a mezzanotte. Ci volle un po'
per abituarsi. La simulazione prevedeva che alcuni terroristi avessero
occupato una scuola frequentata da ragazze, evidentemente per
creare un maggior effetto psicologico.
«Quanti morti?» chiese Chavez con la testa rivolta verso il soffitto.
«Sei uccisi e tre feriti, dice il computer.» Clark entrò nel locale.
«Cos'è andato storto?» domandò Ding, sospettando di sapere quale
sarebbe stata la risposta.
«Ti ho visto guardare dietro l'angolo, ragazzo», rispose Rainbow
Six. «Questo ha messo in allarme i cattivi.»
«Cazzo», replicò Chavez. «È un difetto del programma. Nella realtà
avrei utilizzato una sbarra con lo specchio o mi sarei tolto questo elmetto
in Kevlar, ma il programma non lo consente. Le flash-bang sarebbero
state lanciate e basta.
«Forse», sottolineò John Clark. «Ma il tuo voto in questa azione è
basso.»
«Accidenti, grazie, Mr. C», mugugnò il comandante del team 2.
«Adesso dirai che i nostri tiri sono andati a vuoto?»
«Il tuo sì, lo dice la macchina.»
«Dannazione, John! Il programma non simula bene la precisione di
tiro e io non addestrerò i miei a sparare in un modo che piace alla
macchina invece di farlo per colpire il bersaglio!»
«Calmati, Domingo. So che i tuoi sanno sparare. Va bene, seguimi.
Vediamo la registrazione.»
«Chavez, perché sei entrato da quella parte?» chiese Stanley quando
furono tutti seduti.
«Quest'ingresso è più largo e fornisce un miglior campo di tiro...»
«Per entrambe le parti», osservò Stanley.
«I campi di battaglia sono così», replicò Ding. «Ma quando hai dalla tua
parte sorpresa e velocità, anche quel vantaggio colpisce. Ho messo il mio
nucleo di rincalzo sulla porta posteriore, ma la configurazione dell'edificio
non permetteva loro di partecipare all'azione. Noonan aveva costellato
l'edificio di telecamere miniaturizzate. Avevamo una buona copertura
dei cattivi e ho pianificato l'assalto in modo da prenderli tutti nella
palestra...»
115
«Con tutte e sei le armi piazzate insieme con gli ostaggi.»
«Meglio così che dover andare a cercarle. Magari uno di loro poteva
lanciare una granata dietro l'angolo e uccidere una manciata di
bambole. Nossignore, ho pensato di entrare da dietro odi condurre
l'azione da due direzioni, ma le distanze e il fattore tempo non mi sono
sembrati favorevoli. Sta dicendo che mi sbaglio, signore?»
«In questo caso, sì.»
Merda, pensò Chavez. «Okay, mi chiarisca il suo pensiero.»
Era più una questione di stile personale che di giusto o sbagliato;
Alistair Stanley c'era passato e aveva più esperienza di qualunque altro al
mondo, e Ding lo sapeva. Pertanto guardò, ascoltò e vide che Clark
faceva lo stesso.
«Non mi va», ribadì Noonan, dopo che Stanley ebbe concluso la sua
presentazione. «È troppo facile piazzare un generatore di rumore sul
pomo della porta. Questa roba costa solo una decina di dollari. Si può
comprare in qualunque negozio di regali negli aeroporti, la gente l'usa
sulle porte degli alberghi nel caso qualcuno cerchi di entrare senza
essere invitato. Abbiamo avuto un caso nel Bureau quando un criminale
se ne servì; fece quasi saltare l'intera missione, ma la flash-bang sulla
finestra esterna coprì il rumore piuttosto bene.»
«E che succede se le tue telecamere non ci forniscono le posizioni di
tutti i bersagli?»
«Ma l'hanno fatto, signore», ribatté Noonan. «Abbiamo avuto il tempo
di localizzarli. In realtà l'esercitazione d'addestramento aveva compresso
il tempo di un fattore dieci ma ciò era normale per le simulazioni al
computer. Questo programma è ottimo per pianificare le azioni, ma per
il resto lascia un po' a desiderare. Penso che abbiamo agito piuttosto
bene.» La sua frase conclusiva annunciava anche il fatto che Noonan
desiderava essere un membro a pieno titolo del team 2, non solo un
tecnico, pensò Ding. Tim aveva passato molto tempo nel poligono di tiro
e ora era allo stesso livello degli altri. Aveva operato nella squadra
recupero ostaggi dell'FBI sotto Gus Werner. Aveva le credenziali per
unirsi al team. Werner era stato preso in considerazione per l'incarico di
Six in Rainbow. Ma d'altronde, anche Stanley.
«D'accordo», intervenne Clark, «vediamo la cassetta.»
Questa fu la peggiore sorpresa di tutte. Il terrorista n. 2, diceva il
computer, era stato colpito alla testa e si era girato con il dito premuto sul
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grilletto del suo AK 74: uno dei colpi aveva trafitto in pieno la testa di
Chavez. Ding era morto, secondo il computer Cray, dato che la
pallottola virtuale era passata sotto il bordo del suo elmetto in Kevlar e
aveva perforato il cervello. La cosa impressionò molto Chavez. Un fatto
casuale generato dal programma del computer e anche del tutto
verosimile, dato che la vita reale comprendeva eventi fortuiti come
quello. Avevano parlato di adottare per i loro elmetti visiere di Lexan, che
avrebbero forse potuto fermare una pallottola, ma avevano deciso di
no, a causa della distorsione che avrebbe comportato per la loro vista e
quindi per la loro mira. Forse dobbiamo ripensarci, disse tra sé Chavez.
Alla base della valutazione del computer c'era un concetto semplice: se
era possibile, sarebbe potuto avvenire, e se poteva avvenire, presto o tardi
sarebbe avvenuto e qualcuno avrebbe dovuto andare in una casa della
base e comunicare a una moglie che era appena diventata vedova. Per un
evento casuale... sfortuna. Una cosa terribile dire a una donna che ha
appena perso il marito. Fatalità, sfortuna. Chavez tremò al solo
pensiero. Come l'avrebbe presa Patsy? Poi se lo scacciò dalla testa. La
probabilità era bassissima, matematicamente era come essere colpito
da un fulmine su un campo da golfo lasciarci la pelle in un incidente
aereo. Girò la testa per guardare Eddie Price.
«Cose inesorabili, come giocare ai dadi», osservò il sergente con un
sorriso beffardo. «Ma io ho preso quel tizio che ti ha ucciso, Ding.»
«Grazie, Eddie. Mi fa sentire molto meglio. Colpisci più svelto la
prossima volta?»
«Farò del mio meglio», promise Price.
«Su con la vita, Ding», osservò Stanley, ascoltando le battute. «Poteva
andare peggio. Non ho ancora visto nessuno seriamente ferito da un
elettrone.»
E si dovrebbe imparare dagli esercizi d'addestramento, aggiunse per sé
Chavez. Ma che cosa s'imparava da questo? Che eri sempre nella merda?
Qualcosa cui ripensare, e in ogni caso, il team 2 era ora in standby, con il
team 1 di Peter Covington pronto all'azione. Domani avrebbero sparato
ancora un po', magari per aumentare ancora la velocità. Il problema era
che non c'era spazio per il miglioramento, non molto comunque, e
spingere troppo a fondo avrebbe potuto avere l'effetto di peggiorare
anziché migliorare. Ding si sentì come se fosse stato l'allenatore di
una squadra di football molto valida. I giocatori erano tutti eccellenti e
117
grandi lavoratori... eppure non del tutto perfetti. Ma quanto avrebbe
potuto essere corretto con l'allenamento e quanto semplicemente rifletteva
il fatto che l'altra parte giocava anch'essa per vincere? La prima azione era
stata troppo facile. Era come se Model e la sua banda avessero chiesto di
essere uccisi. Non sarebbe sempre stato così facile.
6
VERI CREDENTI
Il problema era la resistenza ai fattori ambientali. Sapevano che
l'organismo di base era efficiente, ma troppo delicato. Esposto all'aria,
moriva troppo facilmente. Non capivano perché. Poteva essere la
temperatura o l'umidità, o una dose eccessiva di ossigeno, elemento così
essenziale per la vita e terribile sterminatore di vita a livello molecolare.
L'incertezza aveva costituito un grosso problema finché un membro
dell'équipe non aveva trovato la soluzione. Avevano utilizzato le
tecniche dell'ingegneria genetica per trapiantare i geni del cancro in
quell'organismo. In particolare, avevano impiegato materiale genetico
proveniente dal cancro del colon, uno dei ceppi più resistenti, e i
risultati erano stati strabilianti. Il nuovo organismo era più grande
solo di un terzo di micron e molto più resistente. La prova la si vedeva
sullo schermo del microscopio elettronico. I sottili filamenti erano stati
esposti all'aria e alla luce ambiente per dieci ore prima di essere
reintrodotti nel piatto di coltura, e il tecnico si accorse che i filamenti erano già attivi, utilizzando il loro RNA per moltiplicarsi dopo aver
mangiato, replicandosi in milioni di filamenti più piccoli, che avevano un
solo obiettivo: divorare tessuto. In questo caso si trattava di tessuto
renale, anche se il fegato era altrettanto vulnerabile. Il tecnico, una
dottoressa laureata a Yale, prese nota di tutto e poi, dato che era il suo
progetto, dovette dargli un nome. Benedisse il corso di religione
comparata seguito vent'anni prima. Non gli si poteva dare un nome
qualunque.
Shiva, pensò. Sì, la più complessa e affascinante delle divinità Hindu,
principio di morte ma anche di rinascita, che deteneva il controllo del
veleno destinato a distruggere l'umanità, e una delle cui consorti era
Kali, la dea della morte. Shiva. Perfetto. Il tecnico prese le sue
annotazioni, incluso il nome che lei raccomandava per
118
quell'organismo. Ci sarebbe stato un altro test, un altro ostacolo da
superare prima che tutto fosse pronto per l'esecuzione. Esecuzione,
pensò, una parola adatta per il progetto. Su scala piuttosto grande.
Prese un campione di Shiva, lo sigillò in un contenitore di acciaio
inossidabile e uscì dal suo laboratorio, quindi percorse circa duecento
metri di corridoio ed entrò in un altro locale.
«Ciao, Maggie», la salutò il responsabile di quel settore. «Hai qualcosa
per me?»
«Ciao, Steve.» Gli porse il contenitore. «Eccolo.»
«Come lo chiamiamo?» Steve prese il piccolo cilindro e lo appoggiò su
un ripiano.
«Shiva, pensavo.»
«Suona sinistro», osservò sorridendo Steve.
«Oh, lo è», confermò Maggie. Steve era un altro medico, con laurea e
specializzazione conseguite entrambe alla Duke University e massimo
esperto dell'azienda per quanto riguardava i vaccini. Per questo
progetto era stato trasferito dalle ricerche sull'AIDS che avevano
cominciato a mostrare qualcosa di promettente.
«Così, i geni del cancro del colon hanno funzionato come tu avevi
previsto?»
«Mostra una buona resistenza agli UV. Non sono però altrettanto
sicura per quanto riguarda la luce diretta del sole.»
«Due ore così è tutto ciò che ci serve», le ricordò Steve. In realtà
un'ora era più che sufficiente, lo sapevano entrambi. «E per il sistema di
atomizzazione?»
«Devo ancora provarlo», ammise lei, «ma non sarà un problema.»
Sapevano entrambi che era vero. L'organismo avrebbe tollerato facilmente
il passaggio attraverso gli ugelli dell'atomizzatore per il sistema di
nebulizzazione, che sarebbe stato verificato in una delle grandi
camere ambientali. Farlo all'esterno sarebbe stato ancora meglio, era
ovvio, ma se Shiva era resistente come Maggie sembrava ritenere, era un
rischio da non correre.
«Bene, allora. Grazie, Maggie.» Steve si girò e, per aprirlo, infilò il
contenitore in una delle speciali cabine a tenuta stagna munite di
guanti. Poteva cominciare il suo lavoro sul vaccino. Molto era già
stato fatto. L'agente base qui era ben conosciuto e il governo aveva
finanziato l'azienda per le sue ricerche sul vaccino, dopo la grande
119
paura dell'anno precedente, e Steve era noto dappertutto come uno
dei migliori nel campo della generazione, cattura e riproduzione di
anticorpi per stimolare il sistema immunitario dell'uomo. Un po' gli
dispiaceva di aver interrotto il suo lavoro sull'AIDS. Steve pensava
che avrebbe potuto imbattersi in un metodo di generazione di
anticorpi ad ampio spettro per combattere quel piccolo agile
bastardo, con un successo di circa il venti per cento, forse, oltre al
beneficio supplementare di aprire una nuova prospettiva scientifica,
quel tipo di cose che rendono un uomo famoso... forse persino
sufficiente per un volo a Stoccolma fra una decina d'anni. Ma fra
dieci anni non avrebbe avuto più molta importanza. Anzi, minima
importanza, pensò tra sé lo scienziato. Si voltò a guardare fuori dalle
finestre del laboratorio. Un bel tramonto. Presto le creature della
notte sarebbero uscite fuori. I pipistrelli avrebbero cacciato gli insetti.
I gufi avrebbero cacciato topi e arvicole. I gatti avrebbero lasciato le
loro case alla ricerca di prede. Aveva un paio d'occhiali per la visione
notturna che utilizzava spesso per osservare creature che facevano un
lavoro non molto diverso dal suo. Poi ritornò al suo tavolo da lavoro,
estrasse la tastiera del computer e digitò alcune annotazioni. Molti
utilizzavano dei semplici taccuini, ma il Progetto consentiva solo
registrazioni al computer, e tutte le note venivano criptate
elettronicamente. Se andava bene per Bill Gates, andava bene
anche per lui. I sistemi semplici non erano sempre i migliori. Ciò non
spiegava forse perché lui era lì, parte del Progetto da poco battezzato
Shiva?
Avevano bisogno di uomini esperti nel maneggiare le armi, ma erano
difficili da trovare, almeno quelli giusti, e il compito era reso più
complicato dalle attività governative con scopi simili ma divergenti. Li
aiutava però a tenersi lontani da quelli più palesemente matti.
«È dannatamente bello qui», osservò Mark.
Il suo ospite sbuffò. «C'è una nuova casa proprio al di là di quella
cresta. Nelle giornate senza vento, si riesce a vedere il fumo del loro
camino.»
Mark non poté fare a meno di ridere. «Così si è rovinata la zona. Tu e
Daniel Boone.»
Foster assunse un'espressione un po' imbarazzata. «Ci sono più di otto
120
chilometri.»
«Forse hai ragione. Prova a immaginare come doveva essere prima che
arrivasse l'uomo bianco. Niente strade a parte le rive dei fiumi e le piste
dei cervi, e la caccia doveva essere spettacolare.»
«Abbastanza da non dover faticare per mangiare, immagino.» Foster
indicò la parete del camino della sua capanna di tronchi, coperta di trofei
di caccia, non tutti legali, ma qui sulle Bitterroot
Mountains del Montana non c'erano molti poliziotti, e Foster preferiva
isolarsi.
«È la nostra eredità.»
«Dovrebbe esserlo», lo corresse Foster. «Qualcosa per cui valeva la
pena combattere.»
«E stato difficile?» domandò Mark, ammirando i trofei. Faceva
soprattutto impressione la pelle dell'orso grizzly, quasi certamente
illegale.
Foster versò al suo ospite ancora un po' di bourbon. «Non so come sia
più a est, ma qui, se combatti, combatti. Fino in fondo. Sparandogli in
mezzo agli occhi, di solito il tuo avversario si calma.»
«Ma poi ci si deve disfare del cadavere», osservò Mark, sorseggiando il
suo whisky. Quell'uomo comprava solo marche a buon mercato. Forse
non poteva permettersi di meglio.
Una risata. «Mai sentito parlare di zappe? O di un bel fuoco?»
Qualcuno sosteneva in questa parte dello stato che Foster avesse
ucciso una guardia forestale; di conseguenza lui non si fidava della polizia
locale, e alle pattuglie della stradale non andava che superasse di un
chilometro il limite di velocità. Ma anche se l'auto era stata trovata,
completamente bruciata, a sessanta chilometri di distanza, il corpo
della guardia era sparito e la cosa finì lì. Non vi erano molti testimoni
da quelle parti, anche se c'era una nuova casa a otto chilometri di distanza.
Mark sorseggiò il suo bourbon e si allungò nella poltrona di pelle. «È
bello far parte della natura.»
«Sissignore. Davvero. Qualche volta penso di riuscire a capire gli
indiani.»
«Ne conosci?»
«Certo. Charlie Grayson, è un Naso Forato, guida venatoria, ho avuto
da lui il mio cavallo. Lo faccio anch'io a volte; per fare qualche soldo
porto un cavallo in collina, per incontrare altre perso ne appassionate
121
di caccia. E là gli alci sono piuttosto frequenti.»
«E gli orsi?»
«A sufficienza», rispose Foster. «Soprattutto bruni, ma anche qualche
grizzly.»
«Che cosa usi? L'arco?»
Scosse la testa bonariamente. «No, ammiro gli indiani, ma non sono
uno di loro. Dipende da ciò che caccio e dove mi trovo. Di solito armi a
ripetizione ordinaria calibro 300 Winchester Mag, ma nelle aree
ristrette, fucile a pompa semiautomatico con palla asciutta. Non c'è niente
di meglio che fare buchi da tre quarti di pollice quando serve.»
«Caricati a mano?»
«Naturalmente. Rende la cosa più personale. Bisogna avere rispetto per
la selvaggina, e far contenti gli dei delle montagne.»
Foster notò che Mark lo disse sorridendo, in modo disinvolto. In ogni
uomo civilizzato si nascondeva un'anima pagana, che credeva davvero nelle
divinità dei monti e nella necessità di placare gli spiriti degli animali morti. E
anche in lui, nonostante la sua formazione di tipo tecnico.
«Allora, che cosa fai, Mark?»
«Biochimica molecolare.»
«Cosa significa?»
«Oh, scoprire come avviene la vita. Come fa, ad esempio, un orso a fiutare
così bene», proseguì, mentendo. «Può essere interessante, ma per me la vita
reale significa venire in posti come questo, cacciare, incontrare persone che
davvero capiscono gli animali meglio di me. Persone come te», concluse
Mark, alzando il bicchiere. «E tu?»
«Pensionato, ora. Ho fatto qualcosa per conto mio. Ci crederesti, geologo
per una società petrolifera?»
«Dove hai lavorato?»
«In tutto il mondo. Avevo fiuto, e i petrolieri mi pagavano per trovare la
roba buona. Ho dovuto smettere. Sono arrivato al punto... tu voli molto,
giusto?»
«Vado in giro», confermò Mark con un cenno.
«La macchia marrone», aggiunse Foster.
«Che cosa?»
«La vedi dappertutto in questo dannato mondo. Lassù, a circa diecimila
metri, quella macchia marrone. Idrocarburi complessi, soprattutto dagli aerei
passeggeri. Un giorno tornavo da Parigi, ero partito dal Brunei e facevo il
122
giro più lungo perché volevo fare una sosta in Europa e incontrare un amico.
A ogni modo, ero lì, in un fottuto Jumbo 747, in mezzo a quel fottutissimo
oceano Atlantico, qualcosa come quattro ore da terra. Poltrona di prima
classe, vicino al finestrino, seduto lì bevendo un drink, guardavo fuori ed
eccola là, la macchia, quella schifosa porcheria marrone, e mi resi conto che
io davo una mano a crearla, a insudiciare tutta l'atmosfera.
«Comunque», proseguì Foster, «quello fu il momento della mia
conversione, penso si chiami così. Una settimana dopo rassegnai le
dimissioni, vendetti il mio pacchetto azionario, incassai mezzo milione di
dollari e comprai questo posto. Così, adesso, caccio e pesco, faccio un po' la
guida in autunno, leggo molto, ho scritto un libretto sui danni che i prodotti
petroliferi recano all'ambiente, e questo è tutto.»
Naturalmente, era il libro che aveva attirato l'attenzione di Mark. La
storia della macchia marrone era nella prefazione scritta malamente. Foster
era un credente, ma non uno svitato. La sua casa aveva l'elettricità e il telefono.
Sul pavimento vicino alla scrivania, Mark notò un computer Gateway.
Persino la tv satellitare, oltre al solito pick-up Chevrolet con una rastrelliera
per fucili contro il lunotto posteriore... e una zappatrice con motore diesel. Sì,
credeva nella causa, ma non era troppo fanatico. Andava bene così, pensò
Mark. Doveva essere fanatico al punto giusto. Foster lo era. Prova ne era
l'uccisione della guardia forestale.
Foster restituì lo sguardo amichevole. Aveva incontrato persone del genere
durante il periodo trascorso alla Exxon. Un colletto bianco, ma abile, quel
tipo di persona cui non rincresceva sporcarsi le mani. Biochimica molecolare.
Non avevano studiato quella disciplina alla scuola mineraria del Colorado, ma
Foster era anche abbonato a Science News e sapeva di che cosa si trattava.
Uno che si incasinava con la vita... ma, stranamente, ne capiva di cervi e di
alci. Il mondo era un posto complesso. Proprio in quel momento, il suo
ospite vide sul tavolino il blocco di lucite. Mark lo prese.
«Che cos'è?»
Foster fece una smorfia con il bicchiere in mano. «Che cosa sembra?»
«Be', è pirite di ferro o è...»
«Non è ferro. Conosco i miei sassi.»
«Oro? Da dove viene?»
«L'ho trovato nel mio torrente, a circa trecento metri laggiù.» Foster fece
un gesto vago.
«È una pepita di notevoli dimensioni.»
123
«Cinque once e mezzo. Circa duemila dollari. C'è gente, dei bianchi, che
è vissuta proprio qui in questo ranch per oltre cento anni, ma nessuno l'ha
mai vista in quel corso d'acqua. Un giorno dovrò tornare più in su, vedere se
è un buon filone. Dovrebbe esserlo, è quarzo quello sul fondo di quella
grossa. Le formazioni di quarzo e oro sono di solito abbastanza ricche, grazie a
come il materiale sgorga dal cuore della terra. L'area è perlopiù vulcanica,
con tutte queste sorgenti termali e roba simile», ricordò al suo ospite.
«Qualche volta, addirittura, la terra trema.»
«Così, potresti possedere la tua miniera d'oro?»
Foster rise di gusto. «Sì. E grossa. Ho pagato l'affitto a prezzo di mercato
come terra da pascolo, neppure tanto perché ci sono le colline. L'ultimo
allevatore da queste parti si lamentava perché il bestiame perdeva ogni chilo
che guadagnava pascolando per salire dove c'era l'erba.»
«Quant'è ricco il giacimento?»
Un'alzata di spalle. «Non saprei, ma se lo mostrassi a qualcuno con cui
sono andato a scuola, potrebbe investire dieci o venti milioni per
scoprirlo. Come ho detto, è un filone quarzifero. Per queste cose la
gente rischia grosso. Il prezzo dell'oro è sceso, ma se viene fuori dal
terreno piuttosto puro vale un casino più del carbone.»
«Allora, perché non...»
«Perché non ne ho bisogno, e il ciclo di lavorazione provoca gravi
conseguenze. Ancor peggio che perforare petrolio. Là puoi almeno
rimettere abbastanza a posto le cose. Ma una miniera no. Non se ne va
mai. I residui non se ne vanno. L'arsenico penetra nella falda e impiega
un tempo praticamente infinito a dissolversi. Comunque, nel sacchetto
di plastica ci sono un bel paio di sassi e se avessi mai bisogno di soldi so
che cosa fare.»
«Ogni quanto controlli il torrente?»
«Quando pesco, ci sono le trote qui.» Ne indicò una grossa appesa alla
parete di tronchi. «Ogni tre o quattro volte, ne trovo un'altra. Penso
che il deposito sia venuto alla luce da poco, altrimenti l'avrebbero
localizzato molto tempo fa. Forse dovrei seguirne le tracce, vedere
dove comincia, ma potrei cadere in tentazione. Perché preoccuparsi?»
concluse Foster. «Potrei avere un cedimento e andare contro i miei
principi. A ogni modo, rimane lì, no?»
Mark mugolò. «Penso di sì. Ne hai altre di queste?»
«Certo.» Foster si alzò e aprì un cassetto del tavolo. Ci gettò sopra un
124
sacchetto di cuoio. Mark lo sollevò e si meravigliò del peso, quasi
cinque chili. Aprì il legaccio e ne estrasse una pepita. Più o meno le
dimensioni di mezzo dollaro, metà oro, metà quarzo, ancor più bella per
la sua imperfezione.
«Sei sposato?» chiese Foster.
«Sì. Moglie e due figli.»
«Tienila, allora. Ne fai un ciondolo, glielo regali per il compleanno o
qualcos'altro.»
«Non posso. Vale un paio di migliaia di dollari.»
Foster fece un gesto con la mano. «Cazzo, occupa solo spazio nel
tavolo. Perché non usarla per rendere felice qualcuno? Inoltre, tu sei
uno che capisce le cose, Mark. Penso che tu comprenda veramente quello
che dico.»
Sì, pensò Mark, questo era un candidato. «E se ti dicessi che c'è un
modo per cancellare quella macchia marrone?»
Uno sguardo tra l'interrogativo e il divertito. «Parli di qualche
organismo che la mangi o qualcosa di simile?»
Mark alzò lo sguardo. «No, non proprio...» Quanto avrebbe potuto
dirgli ora? Doveva stare molto attento. Era soltanto il loro primo incontro.
«Prendere l'aereo è affar vostro. Riguardo la destinazione, lì vi
possiamo aiutare», assicurò Popov al suo ospite.
«Dove?» chiese questi.
«Il trucco è scomparire dai radar di controllo del traffico aereo e
volare abbastanza lontano in modo che i caccia non possano inseguirvi.
Poi, se riuscite ad atterrare in un paese amico e a disfarvi
dell'equipaggio una volta giunti a destinazione, per ridipingere l'aereo non
ci vuole molto. In seguito può essere distrutto, persino smontato per
venderne i componenti principali, motori ed equipaggiamento. Possono
facilmente sparire nel mercato nero internazionale, basta cambiare i
numeri di matricola», spiegò Popov. «È stato fatto più di una volta, come
sapete. I servizi e le polizie occidentali non lo sbandierano, naturalmente.»
«Il mondo è pieno di sistemi radar», obiettò l'ospite.
«Vero», ammise Popov, «ma i radar del traffico aereo non vedono gli
aerei. Rilevano i segnali di ritorno dai transponder del velivolo. Solo i
radar militari vedono proprio gli aerei e quale paese africano dispone
di un sistema di difesa aerea efficiente? Inoltre, con l'aggiunta di un
125
semplice dispositivo di blocco all'impianto radio di bordo, è possibile
ridurre ulteriormente le possibilità di rintracciarvi. La vostra fuga
non è un problema, amico mio, se arrivate fino a un aeroporto
internazionale. Questa», ricordò loro, «è la parte più difficile. Una volta
scomparsi sopra l'Africa, be', dipende da voi. Il paese di destinazione
può essere scelto per motivi ideologici oppure economici. Scegliete voi.
Consiglio il primo, ma anche il secondo è possibile», concluse Popov.
L'Africa non era ancora una culla della legge internazionale, ma
disponeva di centinaia di aeroporti in grado di accogliere jet di linea.
«Che peccato per Ernst», osservò con calma l'ospite.
«Ernst era un pazzo!» obiettò con un gesto rabbioso la sua compagna.
«Avrebbe dovuto rapinare una banca più piccola. Addirittura nel centro
di Berna. Voleva fare una dimostrazione», osservò sarcastica Petra
Dortmund. Prima di allora Popov l'aveva conosciuta solo di fama.
Doveva essere stata carina, forse anche bella, una volta, ma ora i suoi
capelli, un tempo biondi, erano castani tinti e la sua faccia sottile era
severa, le guance incavate, gli occhi cerchiati. Era quasi irriconoscibile,
il che spiegava perché le polizie europee non l'avevano ancora scovata,
insieme con il suo vecchio amante, Hans Fürchtner.
Fürchtner era l'opposto. Di una buona trentina di chili sovrappeso i folti
capelli scuri caduti o rasati, la barba sparita. Ora sembrava un banchiere,
grasso e felice, non più il comunista convinto, serio, impegnato che era
stato negli anni Settanta e Ottanta ― almeno dall'esterno non appariva più
così. Vivevano in una casa decorosa sui monti a sud di Monaco. I pochi
vicini pensavano che fossero artisti, entrambi dipingevano, un hobby
sconosciuto alla polizia del loro paese. Vendevano persino il loro
lavoro occasionale in piccole gallerie, ricavandone abbastanza per
mangiare, ma non per mantenere il loro stile di vita.
Dovevano sentire la mancanza dei rifugi nella vecchia DDR e nella ex
Cecoslovacchia, pensò Dmitrij Arkadeevič. Non appena scesi
dall'aereo, venivano portati via in auto in alloggi confortevoli se
non proprio eleganti, avevano il permesso di uscire per fare acquisti
nei magazzini "speciali" destinati ai dirigenti del partito locale,
ricevevano frequenti visite da parte di seri e tranquilli ufficiali dei
servizi che fornivano loro informazioni con cui pianificare l'azione
successiva. Fürchtner e la Dortmund avevano portato a termine con
successo varie operazioni, la migliore delle quali era stato il
rapimento e l'interrogatorio di un sergente americano addetto agli
126
armamenti nucleari, missione assegnata loro dal GRU, il servizio
segreto militare sovietico. Erano state ricavate interessanti
informazioni, per la maggior parte ancora utili, dato che il sergente
era un esperto dei sistemi di sicurezza americani PAL (Permissible
Action Link). Il suo corpo era stato scoperto in seguito, a metà inverno, sui monti coperti di neve nel sud della Baviera, in apparenza
vittima di un incidente stradale. O così ritenne il GRU, sulla base
dei rapporti dei suoi agenti infiltrati nell'alto comando NATO.
«Allora, che cosa vuole sapere?» chiese lei.
«I codici d'accesso al sistema commerciale internazionale.»
«Allora, lei, adesso è un ladro comune?» domandò Hans, e la battuta
fece sorridere Petra.
«Un ladro molto poco comune è il mio committente. Se vogliamo
restaurare un'alternativa socialista al capitalismo, dobbiamo sia
finanziarci sia creare una certa mancanza di fiducia nel sistema nervoso
capitalista.» Popov fece un secondo di pausa. «Sapete chi sono. Sapete
dove lavoravo. Pensate che abbia dimenticato la mia patria? Pensate che
abbia abbandonato le cose in cui credevo? Mio padre combatté a
Stalingrado e a Kursk. Conobbe ciò che significava essere cacciato
indietro, patire la sconfitta... eppure non si arrese, mai!» disse con enfasi.
«Perché pensate che rischi qui la mia vita? I controrivoluzionari a Mosca
non vedrebbero di buon occhio la mia missione... ma loro non sono
l'unica forza politica della madre Russia!»
«Molto bene», replicò Petra. La sua faccia si fece seria. «Così, pensa
che non tutto sia perduto?»
«Pensavate davvero che il progresso dell'umanità sarebbe stato immune
da passi falsi? È vero che abbiamo smarrito la strada. Ho visto io stesso,
nel KGB, la corruzione ai piani alti. È questo che ci ha sconfitto, non
l'Occidente! Ho visto io stesso, da capitano, la figlia di Brezhnev
saccheggiare il Palazzo d'Inverno per la sua festa di nozze. Come se fosse
stata la granduchessa Anastasia in personal Nel KGB la mia funzione
era imparare dall'Occidente, carpire i loro piani e segreti, ma la nostra
nomenklatura imparò solo la loro corruzione. Ma abbiamo imparato la
lezione, e non solo una, amici miei. Si è comunisti o non lo si è. Si crede
oppure no. Si agisce secondo questi principi oppure no.»
«Ci chiede di rinunciare a molto», osservò Hans Fürchtner.
«Sarete ben ricompensati. Il mio committente...»
127
«Chi è?» chiese Petra.
«Questo non potete saperlo», rispose con calma Popov. «Voi ritenete di
correre dei rischi in questa missione? E io allora? Per quanto riguarda il
mio committente, non potete conoscere la sua identità. La sicurezza
operativa è suprema. E previsto che voi sappiate queste cose», ricordò
loro. Come preventivato, presero bene il blando rimprovero. Questi due
pazzi erano veri credenti, come lo era stato Ernst Model, anche se loro
erano un po' più svegli e molto più crudeli, come aveva imparato
quello sfortunato sergente americano, probabilmente fissando incredulo
gli ancora affascinanti occhi azzurri di Petra Dortmund mentre lo
prendeva a martellate.
«Così, Iosef Andreevič», disse Hans, che conosceva Popov con uno dei
suoi tanti pseudonimi, in questo caso I.A. Serov, «quando vuole che
entriamo in azione?»
«Il più presto possibile. Vi chiamerò tra una settimana, per vedere se
siete davvero intenzionati a compiere questa missione e...»
«Lo siamo», gli assicurò Petra. «Ci lasci il tempo di fare i nostri piani.»
«Allora vi chiamerò entro una settimana per conoscere il
programma. Mi serviranno quattro giorni per avviare la mia parte dell'operazione. Un'altra preoccupazione: la missione dipende dalla posizione
della portaerei americana nel Mediterraneo. Non dovrete eseguire la
missione se si trova nel Mediterraneo occidentale, perché in tal caso i loro
aerei potrebbero intercettare il vostro volo. Vogliamo che questa missione
sia un successo, amici miei.» Poi trattarono il prezzo. Non si rivelò una
cosa difficile. Hans e Petra conoscevano Popov dai vecchi tempi e si
fidavano di lui per la consegna.
Dopo dieci minuti, Popov strinse loro le mani e prese congedo, questa
volta guidando una BMW presa a noleggio e dirigendosi verso il
confine austriaco. La strada era libera e scorrevole, il panorama splendido
e Dmitrij Arkadeevič stava ancora riflettendo sull'incontro. L'unico
pezzetto di verità che aveva detto loro era che suo padre era stato
effettivamente un veterano della campagna di Stalingrado e Kursk e
aveva raccontato a suo figlio molto della sua vita come comandante di
un carro armato nella Grande Guerra Patriottica. Vi era qualcosa di strano
nei tedeschi, l'aveva imparato dalla sua esperienza professionale nel
comitato per la sicurezza dello stato. Date loro un uomo a cavallo e lo
seguiranno fino alla morte. Sembrava che i tedeschi avessero bisogno di
128
qualcuno o qualcosa da seguire. Che strano. Ma serviva ai suoi scopi e a
quelli del suo committente, e se questi tedeschi volevano seguire un
cavallo rosso, un cavallo rosso morto, rifletté Popov con un sorriso e un
mugolio, era un problema loro. Le uniche persone davvero innocenti
coinvolte erano i banchieri che avrebbero tentato di rapire, ma almeno
non sarebbero stati sottoposti a tortura come quel sergente nero
americano. Popov pensò che Hans e Petra non sarebbero arrivati tanto in
là, anche se le capacità della polizia e dei militari austriaci gli erano in
gran parte sconosciute. L'avrebbe scoperto, ne era sicuro, in una maniera o
nell'altra.
Era strano il modo in cui funzionava. Il team 1 era ora di turno,
pronto a lasciare Hereford non appena fosse arrivata una chiamata
mentre il team 2 di Chavez rimaneva in riserva, ma era quest'ultimo che
effettuava esercitazioni complesse mentre il primo non faceva altro che
la ginnastica mattutina e il normale addestramento al tiro.
Tecnicamente, erano preoccupati da un possibile incidente in
allenamento che avrebbe potuto colpire o addirittura menomare
qualcuno, compromettendo così l'efficienza del nucleo di specialisti in
un momento delicato.
Miguel Chin, primo capo macchinista, apparteneva al team di Peter
Covington. Ex SEAL della marina americana, era stato prelevato dal
distaccamento 6 di base a Norkfolk per unirsi a Rainbow. Figlio di
madre latino-americana e padre cinese, era cresciuto, come Chavez,
nella parte est di Los Angeles. Ding lo vide fumare un sigaro fuori
dall'edificio del team 1 e lo avvicinò.
«Ehi, capo», gli disse Chavez da tre metri di distanza.
«Mi chiamo Ding, 'migo.»
«Mike.» Chin porse la mano. La faccia di Chin non lasciava capire
nulla. Era un forzuto come Oso Vega e aveva l'atteggiamento di uno che
la sapeva lunga. Esperto di tutti i tipi di armi, la sua stretta di mano
lasciava presagire la sua ulteriore capacità di staccare dalle spalle la testa
di un uomo.
«Da dove vieni?»
Ding glielo disse.
«Stai scherzando? Diavolo, sono cresciuto a un chilometro da lì.
Eravate dei Banditos.»
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«Non dirmelo...»
Chin annuì. «Piscadores, finché non ne sono uscito. Un giudice suggerì
che avrei fatto meglio ad arruolarmi piuttosto che finire in prigione e
così ho provato a entrare nei Marines, ma non mi hanno voluto.
Conigli», commentò Chin, sputando un po' di tabacco del suo sigaro.
«Così, ho attraversato i Grandi Laghi e hanno fatto di me un
macchinista; poi ho sentito parlare dei SEAL, non era una brutta vita.
Tu sei dell'Agenzia, ho sentito.»
«Sono partito dalla gavetta. Ho fatto un viaggetto in Sudamerica che è
andato completamente a puttane, ma ho incontrato il nostro Six e lui mi
ha per così dire reclutato. Non ho mai avuto rimpianti.»
«L'Agenzia ti ha mandato a scuola?»
«George Mason, ho preso il master. Relazioni internazionali», rispose
Chavez annuendo. «Tu?»
«Sì, si vede, penso. Psicologia, solo un primo livello all'università Old
Dominion. Lo psicologo della squadra, Bellow. Intelligente quel figlio
di puttana. Legge nella testa della gente. Ho tre dei suoi libri a casa.»
«Com'è Covington?»
«In gamba. Un tipo esperto, efficiente. È un buon team questo ma,
come al solito, non c'è molto da fare. Mi è piaciuta la tua azione alla
banca, Chavez. Rapida e pulita.» Chin soffiò del fumo verso il cielo.
«Grazie, Chin.»
«Chavez!» Proprio in quel momento usciva dalla porta Peter Covington.
«Cerchi di portarmi via il mio uomo migliore?»
«Abbiamo appena scoperto che siamo cresciuti a pochi isolati di
distanza, Peter.»
«Davvero? Incredibile», disse il comandante del team 1.
«Stamattina la caviglia di Harry è peggiorata. Non è grave, sta
prendendo dell'aspirina», riferì Chin al suo comandante. «Ha preso
una botta due settimane fa scendendo con la fune dall'elicottero»,
aggiunse a beneficio di Ding.
Dannati incidenti d'allenamento, non ci fu bisogno che il capo
aggiungesse quest'imprecazione. Era il problema di questo tipo di lavoro, lo
sapevano tutti. I membri di Rainbow erano stati scelti per molte ragioni, non
ultima quella della loro natura brutalmente competitiva. Ogni uomo si
considerava in gara con tutti gli altri e ciascuno di loro si spingeva al limite in
tutto. Il risultato erano le lesioni e gli incidenti in allenamento, e il
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miracolo era che non avevano ancora mandato nessuno di loro all'ospedale
della base. Ma di certo sarebbe successo presto. Per i membri di Rainbow
cambiare quest'aspetto della loro personalità sarebbe stato come smettere di
respirare. Gli atleti olimpionici difficilmente avrebbero potuto essere più
competitivi in quello che facevano. O eri il migliore o non eri nessuno. E così
tutti riuscivano a correre un miglio in trenta o quaranta secondi dal record
del mondo, indossando stivali invece che scarpette da corsa. In teoria aveva
un senso. In combattimento, mezzo secondo poteva spesso costituire la differenza tra la vita e la morte, e non solo la morte di uno di loro, ma di un
gruppo d'innocenti, di un ostaggio, della persona che loro avevano giurato di
proteggere e salvare. Ma l'ironia della sorte era che il team d'allarme non
poteva fare addestramento pesante per paura d'incidenti e così le sue
potenzialità subivano un leggero calo con il tempo, in questo caso per le due
settimane in cui era di turno. Ancora tre giorni per il team 1 di Covington e
poi, Chavez lo sapeva, sarebbe stato il suo turno.
«Ho sentito che non ti va il programma virtuale SWAT», disse poi Chin.
«Non tanto. Va bene per esercitarsi negli spostamenti e robe simili, ma non
altrettanto per le operazioni vere e proprie.»
«L'utilizziamo da anni», disse Covington. «È molto meglio di com'era una
volta.»
«Preferirei bersagli vivi e un sistema di simulazione MILES», insistette
Chavez. Si riferiva al sistema d'addestramento utilizzato spesso dai militari
americani, in cui ogni soldato aveva addosso ricevitori laser.
«Non vanno altrettanto bene da vicino come da lontano», precisò Peter al
suo collega.
«Non li ho mai utilizzati in quel modo», dovette ammettere Ding. «Ma
in pratica, una volta avvicinati, la decisione è presa. I nostri non mancano
molti bersagli.»
«Vero», ammise Covington. Proprio in quel momento giunse l'eco di uno
sparo. I tiratori scelti di Rainbow si stavano allenando sulla distanza dei
mille metri, gareggiando per vedere chi riusciva a ottenere la rosa più
piccola. In testa al momento c'era Homer Johnston, tiratore Due-Uno di
Ding, tre millimetri meglio di Sam Houston, miglior tiratore di Covington,
dai cinquecento metri; da questa distanza entrambi erano in grado di
piazzare dieci colpi consecutivi all'interno di un cerchio di cinque
centimetri, molto più piccolo della testa di un uomo, che si allenavano a far
esplodere con le loro munizioni a punta cava. In effetti, ci sarebbe stato da
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meravigliarsi se uno qualunque dei tiratori di Rainbow avesse sbagliato due
volte in una settimana di esercitazioni e, di solito, la spiegazione era che aveva
inciampato in qualcosa nell'edificio trasformato in poligono. Naturalmente
i tiratori non avevano ancora mancato nulla. Il problema della loro
missione non era sparare ma quello di avvicinarsi abbastanza, e più ancora,
prendere una decisione al momento giusto; per questo, il più delle volte,
dipendevano dal dottor Paul Bellow. L'esercitazione al tiro, che praticavano
giornalmente, era quella più impegnativa, certo, ma anche la più facile dal
punto di vista tecnico e operativo. Detto così sembrava un discorso perverso,
ma la loro era un'attività perversa.
«Novità sulle minacce?» domandò Covington.
«Stavo andando nella sala situazioni, ma ne dubito, Peter.» Se qualche
cattivo soggetto aveva in mente di combinare un grosso casino in Europa e
aveva visto in tv il servizio sulla banca di Berna, si sarebbe calmato per un po',
così pensavano i due comandanti.
«Molto bene, Ding. Ho un po' di carte su cui lavorare», annunciò
Covington, rientrando nel suo edificio. Chin gettò il sigaro nell'apposito
secchiello e lo seguì.
Chavez continuò a camminare fino alla sede del comando ed entrando
rispose al saluto del soldato di guardia all'ingresso. I britannici di sicuro
salutavano in modo buffo, pensò. Una volta dentro, trovò alla sua scrivania
il maggiore Bennett.
«Ciao, Sam.»
«Buongiorno, Ding. Caffè?» L'ufficiale dell'USAF fece un gesto indicando
il distributore automatico.
«No, grazie. Sta succedendo qualcosa da qualche parte?» L'altro scosse la
testa. «Giornata tranquilla. Non c'è un granché nemmeno sul fronte della
microcriminalità.»
Le principali fonti di Bennett per la normale attività criminale erano le
telescriventi delle diverse agenzie d'informazione europee. L'esperienza
diceva che fornivano indicazioni molto utili a chi era interessato all'attività
criminale più rapidamente dei canali ufficiali, che di solito inviavano le
informazioni attraverso fax protetti dalle ambasciate americane o
britanniche di tutta Europa. Essendo tranquilla quella fonte d'informazione,
Bennett stava lavorando al computer sui suoi elenchi di terroristi conosciuti,
facendo passare le foto e gli schedari su ciò che si conosceva per certo di
queste persone (in generale non molto) e ciò che si sospettava (non
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molto di più).
«Cos'è questo? Chi è quello?» chiese Ding, indicando lo schermo.
«Un nuovo giocattolo che stiamo utilizzando. L'abbiamo avuto dall'FBI.
Invecchia le foto dei soggetti. Questa è Petra Dortmund. Di lei abbiamo
solo due foto, entrambe di quasi quindici anni fa. Così, sto invecchiandola
di quindici anni, modificando anche il colore dei capelli. Facile con le
donne... non hanno barba», osservò con una risatina Bennett. «E sono
di solito troppo vanitose per ingrassare, come ha fatto il nostro amico
Carlos. Eccola, guarda che occhi.»
«Non è una ragazza che cercherei di rimorchiare in un bar», osservò
Chavez.
«Probabilmente nemmeno buona a letto, Domingo», aggiunse Clark da
dietro. «Questa roba fa un certo effetto, Sam.»
«Sissignore. Abbiamo avviato il programma proprio stamattina.
Noonan l'ha avuto per me dai servizi tecnici di divisione del comando
centrale. L'hanno inventato per aiutare a identificare le vittime dei
rapimenti anni dopo che sono sparite e in questo si è rivelato molto utile.
Allora qualcuno ha pensato che, se funzionava sui bambini che
crescevano, perché non tentare con l'invecchiamento dei criminali?
All'inizio dell'anno, li ha aiutati a trovare un rapinatore tra i più
pericolosi. Comunque, ecco come probabilmente appare oggi la signorina
Dortmund.»
«Come si chiama il suo amico?»
«Hans Fürchtner.» Con il mouse Bennett ne fece comparire la foto.
«Accidenti, questa dev'essere la sua foto nell'album del liceo.» Poi
lesse le parole che accompagnavano la foto. «Gli piace la birra... così,
diamogli un'altra decina di chili.» Nel giro di pochi secondi, la foto
cambiò. Baffi... barba... Da una, le foto erano diventate quattro.
«Tra questi due deve esserci un'intesa perfetta», osservò Chavez,
ricordando il suo file sulla coppia. «Sempre che siano ancora insieme.»
Chavez si recò nell'ufficio del dottor Bellow per rivolgergli alcune
domande.
«Dottore.»
Bellow sollevò lo sguardo dal computer. «Buongiorno, Ding. Che
cosa posso fare per lei?»
«Stavamo guardando le foto di due terroristi, Petra von Dortmund e
Hans Fürchtner. Ho una domanda da farle.»
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«Spari», rispose Bellow.
«Che probabilità c'è che gente come quella stia ancora insieme?»
Bellow sbatté un po' le palpebre, poi si allungò sulla poltrona. «Non è
affatto una domanda sbagliata. Quei due... ho fatto la valutazione dei
loro archivi... È probabile che stiano ancora insieme. La loro
ideologia politica è probabilmente un fattore unificante, una parte
importante del loro impegno l'uno verso l'altra. La loro tede è quella
che, in primo luogo, li ha portati a stare insieme e, in un senso
psicologico, hanno fatto i loro voti nuziali quando hanno agito in suo
nome, ovvero hanno compiuto le loro azioni terroristiche. Se ricordo
bene, sono sospettati di aver rapito e ucciso un soldato, fra le altre cose,
e attività come quella creano un forte legame interpersonale.»
«Ma la maggior parte di queste persone, lei afferma, sono sociopatiche», obiettò Ding. «E i sociopatici non...»
«Sta leggendo i miei libri?» chiese sorridendo Bellow. «Ha mai sentito
che quando due si sposano diventano una cosa sola?»
«Sì. E allora?»
«Allora in un caso come questo, avviene davvero. Sono sociopatici, ma
l'ideologia fornisce alla loro devianza un'etica... ed è questa che la
rende importante. È questo il motivo per cui condividere la medesima
ideologia li rende una cosa sola, e le loro tendenze sociopatiche si
fondono. Per quei due, penserei a un rapporto matrimoniale abbastanza
stabile. Non sarei sorpreso di venire a sapere che si sono, di fatto,
formalmente sposati, ma non in chiesa», aggiunse sorridendo.
«Matrimonio stabile... figli?»
Bellow annuì. «Possibile. L'aborto è illegale in Germania... nella
parte occidentale penso lo sia ancora. Avrebbero scelto di avere dei
figli? Bella domanda.»
«Devo saperne di più su questi due. Come la pensano, come vedono il
mondo, questo genere di cose.»
Bellow sorrise di nuovo, si alzò dalla poltrona e andò alla sua libreria.
Prese uno dei suoi volumi e lo lanciò a Chavez. «Provi con questo, tanto
per cominciare. È un testo usato all'accademia dell'FBI, e mi ha
portato qui alcuni anni fa per tenere una conferenza al SAS. Penso che
mi abbia introdotto a questa attività.»
«Grazie, dottore.» Chavez soppesò il libro e uscì dalla porta. Il titolo
era The Enraged Outlook: Inside the Terrorist Mind. Non avrebbe fatto
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male capirne un po' di più anche se riteneva che il servizio migliore
per la psiche di un terrorista fosse farci entrare ad alta velocità una palla
a punta cava, calibro 10 mm da 185 grani.
Popov non poté fornire loro un numero telefonico da chiamare.
Sarebbe stato troppo poco professionale. Anche un telefono cellulare la
cui proprietà fosse stata nascosta con cura avrebbe fornito alle agenzie
investigative una traccia cartacea, anzi oggi ancor più mortale perché
elettronica, che avrebbero potuto seguire, con il rischio di metterlo in
grave imbarazzo. E così li chiamava lui, ogni tanti giorni, al loro
numero. Non sapevano come funzionasse, anche se c'erano modi per far
passare una chiamata da lunga distanza attraverso sofisticati dispositivi.
«Ho il denaro. Siete pronti?»
«Hans è là ora, a verificare ogni cosa», rispose Petra. «Penso che
saremo pronti in quarantotto ore. E da parte sua?»
«Tutto pronto. Vi chiamerò fra due giorni», replicò, interrompendo la comunicazione. Uscì dalla cabina telefonica dell'aeroporto
internazionale Charles De Gaulle e si diresse verso la stazione dei taxi,
portando la sua valigetta quasi piena di banconote da cento marchi.
Non vedeva l'ora che avvenisse il cambio della moneta in Europa.
L'ammontare equivalente in euro sarebbe stato molto più facile da
ottenere rispetto alle diverse valute europee.
7
FINANZA
Era insolito per un europeo, ma per Ostermann era invece normale
lavorare a casa sua, in realtà un grande schloss (che vuol dire "castello"
ma in questo caso il termine più appropriato sarebbe stato "palazzo"),
un tempo baronale, a trenta chilometri da Vienna. Erwin Ostermann
amava lo schloss, era perfettamente in linea con la sua posizione nel
mondo della finanza. Era una residenza di seimila metri quadri divisa su
tre piani, con intorno un migliaio di ettari di terreno, esteso sul fianco di
una montagna abbastanza ripida da consentirgli di avere le sue piste di sci
personali. D'estate, permetteva agli allevatori del luogo di farvi pascolare
pecore e capre... così come avevano fatto per il graf i contadini un
tempo vincolati allo schloss, per mantenere l'erba a un'altezza
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ragionevole. Ora tutto era molto più democratico. Aveva anche la
possibilità di pagare meno tasse decise dal governo di sinistra del suo
paese.
Come auto personale aveva una Mercedes limousine, anzi, in realtà ne
aveva due, una Porsche per quando voleva provare il piacere di guidare
lui stesso fino al vicino villaggio per bere e cenare nell'elegante
Gasthaus locale. Di alta statura, un metro e ottantasei, aveva capelli
grigi sempre perfettamente pettinati e una corporatura snella e atletica,
che ben figurava in groppa a uno dei suoi cavalli arabi... era ovvio che
non si poteva abitare in un posto così senza cavalli. O quando teneva una
conferenza d'affari vestito con un abito confezionato in Italia o nella
Savile Row a Londra. Il suo ufficio, al secondo piano, era stato la spaziosa
biblioteca del primo proprietario e dei suoi otto discendenti, ma era
adesso illuminato dagli schermi dei computer collegati con i mercati
finanziari di tutto il mondo e disposti su una imponente credenza
dietro una scrivania.
Dopo una colazione leggera, salì in ufficio al piano superiore, dove tre
impiegati, due donne e un uomo, continuarono a rifornirlo di caffè,
pasticcini e dati. La sala era grande e poteva contenere una ventina di
persone. Le pareti, rivestite con pannelli in noce, erano ricoperte di
scaffali pieni di libri acquisiti insieme con lo schloss e i cui titoli
Ostermann non si era mai dato la pena di esaminare. Più che la letteratura,
leggeva i giornali finanziari e, nel tempo libero, guardava i film in una sala
di proiezione ricavata nel seminterrato da una vecchia cantina. Nel
complesso, era un uomo che conduceva una vita comoda e privata nel più
comodo e privato degli ambienti. Sulla scrivania c'era una lista di persone
che gli avrebbero fatto visita quel giorno. Tre banchieri e due finanzieri
come lui, i primi per discutere i prestiti per una nuova iniziativa che stava
intraprendendo e i secondi per chiedergli consigli sugli andamenti del
mercato. Essere consultato su queste cose appagava il suo ego già
considerevole, ragion per cui accoglieva volentieri ogni genere di ospiti.
Popov scese dall'aereo e s'incamminò verso l'atrio da solo, come
un qualsiasi uomo d'affari, con la sua ventiquattrore dotata di serratura
a combinazione e senza alcunché di metallico all'interno, per paura
che qualche addetto al metal detector gli chiedesse di aprirla, e
scoprisse all'interno le banconote... i terroristi avevano rovinato i viaggi
aerei a tutti quanti, pensò fra sé l'ex ufficiale del KGB. Se qualcuno, per
esempio, avesse reso più sofisticati i sistemi di controllo, tanto da riuscire
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a contare il denaro dentro i bagagli a mano, avrebbe complicato
ulteriormente la vita di molte persone, lui compreso. Ma viaggiare in
treno era così noioso.
Facevano bene il loro mestiere. Hans stava seduto là, nel posto previsto,
a leggere Der Spiegel, con indosso la giacca di pelle marrone come
concordato; vide Dmitrij Arkadeevič portare con la sinistra la
ventiquattrore e procedere con tutti gli altri viaggiatori lungo l'atrio.
Fürchtner finì il caffè e si alzò per seguirlo, tenendosi a una ventina di
metri da Popov, svoltando a sinistra in modo da prendere uscite diverse
per arrivare al garage lungo percorsi differenti. Popov girò la testa a destra
e a sinistra, localizzò Hans al primo sguardo e l'osservò muoversi. Doveva
essere teso. Il tradimento era uno dei motivi più comuni per cui individui
come Fürchtner e la sua compagna venivano catturati, e per quanto si
fidassero di Dmitrij, si poteva essere traditi solo da qualcuno di cui ci si
fidava; questo lo sapevano tutti gli agenti segreti del mondo. E benché di
Popov conoscessero sia l'aspetto sia la reputazione, non potevano leggere
nella sua mente, ma in questo caso la situazione giocava a favore di
Popov. Si concesse un sorriso disteso mentre si avviava verso il garage;
svoltò a sinistra, si fermò come se avesse perso l'orientamento, poi si
guardò attorno per vedere se era pedinato prima di proseguire. L'auto di
Fürchtner, una Volkswagen Golf azzurra, si trovava in un angolo lontano
al primo livello.
«Grüss Gott», disse, sedendosi sul sedile anteriore destro.
«Buongiorno, Herr Popov», rispose Fürchtner in inglese. La cadenza
era americana e quasi priva d'accento. Deve aver guardato molta
televisione, pensò Dmitrij.
Il russo compose la combinazione della serratura della valigetta,
l'aprì e la mise sulle ginocchia dell'altro. «Dovrebbe essere tutto a posto.»
«Ingombrante», osservò l'uomo.
«E una bella somma», aggiunse Popov.
Fu in quell'istante che il sospetto balenò negli occhi di Fürchtner e
ciò sorprese il russo, finché questi non ci rifletté sopra un momento. Il
KGB non era mai stato prodigo nel pagare gli agenti, ma in questa
ventiquattrore c'era abbastanza contante da permettere a due
persone di vivere bene per alcuni anni in un qualunque stato africano.
Dmitrij capì che Hans stava semplicemente pensando a questo, e mentre
una parte del tedesco era contenta di prendere il denaro, la parte
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intelligente del suo cervello si chiese di colpo da dove provenissero
quei soldi. Meglio non attendere la domanda, pensò il russo.
«Sì», confermò Popov con calma. «Come sa, per poter sopravvivere
nella nuova situazione politica del mio paese, molti miei colleghi sono
diventati esteriormente capitalisti. Ma siamo ancora la spada e lo scudo
del partito, mio giovane amico. In questo non c'è stato cambiamento.
Ora per noi è più facile compensare i nostri amici per i loro servigi.
Risulta meno costoso che mantenere i rifugi che avevate a disposizione
una volta. Personalmente, lo ritengo divertente. A ogni modo, qui c'è il
vostro compenso, in contanti, in anticipo; la cifra è quella richiesta.»
«Danke», rispose Fürchtner, fissando i dieci centimetri di spessore
dentro la ventiquattrore. Sollevò la valigetta. «È pesante.»
«Già», convenne Arkadeevič. «Ma avrebbe potuto essere peggio.
Avrei potuto pagarvi in oro», esclamò con un sorriso, per alleggerire
l'atmosfera, poi decise di fare il proprio gioco. «Forse pesa troppo per
portarla durante l'operazione?»
«È una complicazione, Iosef Andreevič.»
«Posso conservare il denaro per voi e consegnarvelo al termine
dell'operazione. A lei la scelta, anche se non lo consiglio.»
«Perché?» chiese Hans.
«A dire il vero, mi rende nervoso viaggiare con tanto contante in
Occidente. E se mi rapinano? Sono responsabile di questo denaro»,
replicò facendo un po' di scena.
Fürchtner lo trovò molto divertente. «Qui, in Austria, rapinato per
strada? Amico mio, queste pecore capitaliste sono controllate molto da
vicino.»
«Poi, non so nemmeno dove andrete, e non ho nemmeno bisogno di
saperlo, per ora, almeno.»
«La nostra ultima destinazione è la Repubblica Centrafricana. Là abbiamo
un amico che si è laureato negli anni Sessanta all'università Patrice
Lumumba. Vende armi a elementi progressisti. Ci ospiterà per un po', finché
Petra e io non troviamo un alloggio adatto.»
Per andare in quel paese o erano molto coraggiosi o molto stupidi, pensò
Popov. Fino a non molto tempo prima si chiamava Impero Centrafricano ed
era governato dall'"imperatore Bokassa I", un ex colonnello dell'esercito
coloniale francese, che aveva un tempo presidiato quella piccola, povera
nazione. Al potere Bokassa era arrivato spargendo molto sangue, così come
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tanti altri capi africani, prima di morire, cosa piuttosto strana, per cause
naturali... almeno così avevano riferito i giornali; non si poteva mai essere
sicuri. Si era lasciato alle spalle un paese piccolo, produttore di diamanti,
economicamente un po' migliore della media del continente nero, anche se
non di molto. Ma poi, chi aveva detto che Hans e Petra ci sarebbero mai
arrivati?
«Bene, amico mio, decida lei», disse Popov, dando una botta alla
valigetta ancora aperta sulle ginocchia di Fürchtner.
Il tedesco ci pensò su una trentina di secondi. «I soldi li ho visti», concluse,
con grande gioia del suo interlocutore. Fürchtner prese una mazzetta di
banconote da mille e la fece scorrere come un mano di carte prima di
rimetterla a posto. Poi scarabocchiò una nota e la infilò nella valigetta.
«Ecco il nome. Saremo da lui a partire da... domani nel tardo pomeriggio,
penso. È tutto pronto da parte sua?»
«La portaerei americana si trova nel Mediterraneo orientale. La Libia
lascerà passare il vostro aereo senza interferire, ma non permetterà il volo di
nessun velivolo NATO al vostro inseguimento. Invece, la loro aviazione
fornirà una copertura e vi perderà a causa delle condizioni atmosferiche
avverse. Vi consiglio di non fare ricorso più del necessario alla violenza. Oggi
la stampa e le pressioni diplomatiche sono più forti di un tempo.»
«Ci abbiamo già pensato in ogni dettaglio», lo rassicurò Hans.
Per un attimo Popov pensò incredulo a questa risposta. Ma sarebbe già
rimasto sorpreso se fossero riusciti a imbarcarsi sull'aereo, figurarsi arrivare
in Africa. Il problema delle "operazioni" di quel tipo era che, a prescindere
dalla cura con cui erano stati studiati quasi tutti i suoi elementi, si trattava di
una catena non certo più forte del suo anello più debole e la robustezza di
quell'anello era troppo spesso determinata da altri o, ancor peggio, dal caso.
Hans e Petra credevano nella loro filosofia politica e, come altri in passato
che avevano creduto così tanto nella loro fede religiosa da correre i rischi più
assurdi, fingevano di pianificare questa "operazione" dall'inizio alla fine con
le loro limitate risorse, e quando si trovavano in ballo, la loro unica risorsa era
la voglia di esercitare la violenza sul mondo; e moltissimi ce l'avevano, quella
voglia, e sostituivano la speranza alle aspettative, la fede alla conoscenza.
Avrebbero accettato il caso fortuito, uno dei loro nemici più mortali, come
elemento neutrale, mentre un vero professionista avrebbe cercato di
eliminarlo completamente.
E così la loro fede aveva davvero gli occhi bendati o, forse, una serie di
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paraocchi, che impedivano ai due tedeschi di guardare con obiettività un
mondo che li aveva tagliati fuori e al quale non volevano adattarsi. Ma per
Popov il vero significato di tutto ciò era la loro volontà di lasciargli tenere i
soldi. Dmitrij Arkadeevič si adattava piuttosto bene alle mutevoli
circostanze.
«È sicuro, mio giovane amico?»
«Ja. Sono sicuro.» Fürchtner chiuse la valigetta, resettò le serrature e la
rimise in grembo a Popov. Il russo accettò la responsabilità con
un'espressione doverosamente seria.
«La custodirò con cura.» Di filato fino alla mia banca di Berna, pensò.
Tese la mano. «Buona fortuna e siate prudenti.»
«Danke. Le faremo avere le informazioni che ci ha chiesto.»
«Il mio committente ne ha assolutamente bisogno, Hans. Dipendiamo da
voi.» Il russo lasciò l'auto e ritornò in direzione del terminal, dove avrebbe
preso un taxi per l'albergo. Si chiese quando Hans e Petra si sarebbero
mossi. Forse oggi? Erano così precipitosi? No, pensò, dicevano di essere
così professionali. Giovani pazzi.
Il sergente Homer Johnston estrasse l'otturatore dal fucile, che sollevò per
esaminarne la canna. I dieci colpi non l'avevano sporcata molto e non vi erano
segni di erosione nella camera di scoppio. Non avrebbero dovuto essercene fino
a che non avesse sparato un migliaio di colpi, e fino a quel momento era arrivato
a cinquecento. Eppure, tra una settimana o poco più, per fare il controllo,
avrebbe dovuto cominciare a usare uno strumento a fibre ottiche, perché le
cartucce Remington Magnum da 7 mm, al momento dello sparo,
sviluppavano alte temperature e consumavano le canne un po' prima del
normale. Entro alcuni mesi, sarebbe stato costretto a sostituire la canna, un
lavoro noioso e piuttosto complesso anche per un armaiolo esperto come lui.
La difficoltà consisteva nell'accoppiare con precisione la canna all'otturatore.
Ci sarebbero poi voluti una cinquantina di colpi da una distanza nota per
essere certi che la precisione fosse quella prevista. Ma questo sarebbe
avvenuto in futuro. Johnston spruzzò il tampone con un po' di lubrificante
Break Free e lo passò nella canna. Il tampone venne fuori sporco. Lo tolse
dallo scovolino, poi ne piazzò uno nuovo e ripeté il movimento sei volte
finché l'ultimo non venne fuori pulito. Con un ultimo tampone asciugò
l'anima della canna Hart di precisione, anche se il Break Free lasciò sull'acciaio
un velo di silicone, dello spessore di una molecola, che proteggeva dalla
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corrosione senza alterare le micrometriche tolleranze. Finita l'operazione,
soddisfatto, rimise a posto l'otturatore, chiudendolo sulla camera vuota e premette il grilletto, disarmando così il fucile.
Amava il suo fucile, benché, cosa abbastanza strana, non gli avesse dato
un nome. Costruito dagli stessi tecnici che fabbricavano le armi di
precisione per il servizio segreto americano, era un Remington da 7 mm
calibro Magnum, con una cassa adatta per le gare, una canna Hart di alta
qualità e un mirino telescopico Gold Ring da 10X della Leupold, il tutto
accoppiato a un mostruoso calcio in Kevlar dato che il legno, pur essendo
molto più bello a vedersi, con il tempo si deformava, mentre il Kevlar era
inerte, insensibile all'umidità o al tempo. Johnston aveva appena dimostrato,
ancora una volta, che il suo fucile poteva sparare con una precisione tale da
piazzare tre colpi consecutivi all'interno di un cerchio grande quanto una
moneta da cinque cent da una distanza di cento metri. Un giorno,
qualcuno avrebbe potuto progettare un'arma laser, pensò Johnston, che
forse avrebbe avuto una precisione superiore a questo fucile fatto a mano.
Ma niente oggi era altrettanto preciso. Dalla distanza di mille metri, era in
grado di piazzare tre colpi consecutivi dentro un cerchio di dieci centimetri,
ma qui non era solo questione di fucile. Ciò significava misurare la velocità e la
direzione del vento per compensare la deriva e la deflessione. Significava
anche controllare il respiro e il modo in cui il dito toccava il grilletto a doppia
corsa da due libbre e mezzo. Terminato il lavoro di pulizia, Johnston prese il
fucile e lo mise al suo posto nel caveau climatizzato adagiandolo nel suo
alloggiamento prima di tornare in ufficio. Il bersaglio che aveva colpito era
sulla sua scrivania.
Homer Johnston lo prese in mano. Aveva esploso tre colpi da 400 metri, 3
da 500, due da 700 e gli ultimi due da 900. Tutti e dieci si trovavano
all'interno della testa della sagoma del bersaglio, il che significava che tutti e
dieci sarebbero stati mortali. Sparava solo cartucce che aveva caricato lui
stesso: le palle da gara a punta cava Sierra da 175 grani e 63,5 grani di polvere
infume IMR 4350 sembravano essere la miglior combinazione per quel
particolare fucile, impiegando 1,7 secondi per raggiungere un bersaglio a
mille metri di distanza. Un tempo estremamente lungo, soprattutto avendo a
che fare con un bersaglio mobile, pensò il sergente Johnston. Una mano si
posò sulla sua spalla.
«Homer!» esclamò una voce familiare.
«Sì, Dieter?» replicò Johnston, senza sollevare lo sguardo dal bersaglio.
141
«Oggi hai fatto meglio di me. Il vento era a tuo favore.» Era la scusa
preferita di Weber. Per essere un europeo conosceva i fucili piuttosto bene,
pensò Homer, ma le armi erano cose per americani, e basta.
«Continuo a dirtelo, quell'azionamento semiautomatico non permette
una precisione ottimale.» Entrambi i colpi da 900 metri di Weber erano
marginali. Avrebbero messo fuori combattimento il bersaglio, ma non
l'avrebbero ucciso, benché venissero conteggiati come centri. Johnston, e
l'ammetteva lui stesso, aveva la mira migliore tra gli uomini di Rainbow,
persino migliore di Houston, di circa la metà di un pelo di figa in una buona
giornata.
«Mi va di sparare il mio secondo colpo più rapidamente di te», fece notare
Weber. E ciò mise fine alla disputa. Per i soldati le armi erano come una
religione. Il tedesco era migliore come volume di fuoco con il suo fucile di
precisione Walther, ma quell'arma non aveva l'intrinseca precisione di
un'arma a ripetizione ordinaria e inoltre sparava cartucce meno veloci. I due
tiratori discutevano su questo punto da molti boccali di birra, e nessuno dei
due aveva mai convinto l'altro.
In ogni caso, Weber diede una pacca alla sua fondina. «Un po' di pistola,
Homer?»
«Sì.» Johnston si alzò. «Perché no?» Le pistole non erano armi serie per
lavori seri, ma erano divertenti e qui i colpi erano gratis. Con la pistola Weber
l'aveva superato di circa l'un per cento. Recandosi al poligono, incrociarono
Chavez, Price e gli altri, che uscivano con le loro MP-10. Evidentemente
avevano avuto tutti una buona mattinata al tiro a segno.
«Ach», sbuffò Weber, «tutti possono sparare da cinque metri!»
«'Giorno, Robert», disse Homer al responsabile del poligono. «Ci vuoi
mettere alcuni Q?»
«Subito, sergente Johnston», rispose Dave Woods, afferrando due bersagli
americani, fatti a forma di tronco umano. Poi ne prese un terzo per sé.
Sergente di colore con maestosi baffi, appartenente al reggimento di
polizia militare dell'esercito britannico, era davvero bravo con la Browning
da 9 mm. Il motore portò i bersagli sulla linea dei dieci metri dove si
girarono di lato mentre i tre sergenti indossarono le cuffie di
protezione antirumore. Dal punto di vista tecnico, Woods era istruttore
di pistola, ma la qualità degli uomini a Hereford rendeva il suo un lavoro
noioso e allora lui, per perfezionarsi, sparava un migliaio di colpi alla
settimana. Si addestrava con gli uomini di Rainbow e li sfidava in gare
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amichevoli che, con disappunto dei tiratori, finivano quasi sempre alla
pari. Woods era un tradizionalista e teneva la pistola con una mano, come
faceva Weber, mentre Johnston preferiva la posizione Weaver con due
mani. I bersagli si girarono senza preavviso e tre pistole si alzarono
puntate contro di loro.
La casa di Erwin Ostermann era magnifica, pensò Hans Fürchtner per
la decima volta, proprio quel tipo di cose adatte a un arrogante nemico di
classe. Le ricerche che avevano effettuato sull'obiettivo non avevano
rivelato nessun antico lignaggio aristocratico dell'attuale proprietario di
questo schloss ma, senza dubbio, egli pensava di se stesso in questi
termini. Ancora per poco, pensò Hans, mentre svoltava nel viale
d'accesso di ghiaietto marrone lungo due chilometri e attraversava i
giardini curatissimi e le siepi disposte con precisione geometrica da
invisibili giardinieri. Avvicinandosi all'edificio, rallentò la sua Mercedes
presa a noleggio e svoltò a destra, come per cercare un posteggio.
Girando dietro l'imponente costruzione, vide l'elicottero Sikorsky S-76B
che avrebbero utilizzato dopo, fermò sulla solita piazzola asfaltata, con
sopra dipinto un cerchio giallo. Fürchtner continuò il giro attorno
allo schloss e parcheggiò a una cinquantina di metri dall'ingresso
principale.
«Sei pronta, Petra?»
«Ja», fu la sua chiara, nervosa risposta. Erano anni che entrambi
non effettuavano un'operazione e la sua immediata realtà era diversa dal
piano che avevano impiegato una settimana a preparare, esaminando
piante e disegni. Vi erano cose che non conoscevano ancora esattamente,
come il numero di persone di servizio. Cominciarono a camminare verso
la porta anteriore quando apparve un furgone per le consegne, che
arrivò insieme a loro. Gli sportelli del veicolo si aprirono e ne uscirono
due uomini, trasportando fra le braccia grandi scatole. Uno fece segno a
Hans e Petra di salire i gradini di pietra, cosa che essi fecero. Hans
premette il campanello e dopo un istante la porta si aprì.
«Guten Tag», disse Hans. «Abbiamo un appuntamento con Herr
Ostermann.»
«Il vostro nome?»
«Bauer», rispose Fürchtner. «Hans Bauer.»
«Consegna di fiori», intervenne uno degli altri due uomini. «Entrate
143
pure. Vado a chiamare Herr Ostermann», replicò il maggiordomo.
«Danke», aggiunse Fürchtner, facendo segno a Petra di precederlo
attraverso la porta decorata. I fattorini li seguirono, trasportando le loro
scatole. Il maggiordomo chiuse la porta e si girò per andare verso un
telefono. Alzò il ricevitore e fece per premere un tasto. Poi si bloccò.
«Perché non ci accompagna di sopra?» chiese Petra. In mano teneva
una pistola puntata proprio contro la sua faccia.
«Che cos'è?»
«Questo», rispose Petra Dortmund con un caldo sorriso, «è il mio
appuntamento.» Era una pistola automatica P-38.
Il maggiordomo deglutì quando vide i fattorini aprire le scatole e
tirarne fuori pistole mitragliatrici compatte, mettendo il colpo in
canna davanti a lui. Poi uno di loro aprì la porta anteriore e fece un
cenno. In pochi secondi, altri due giovani entrarono, entrambi armati allo
stesso modo.
Fürchtner ignorò i nuovi arrivati, e fece alcuni passi per guardarsi
attorno. Si trovavano nel grande atrio d'ingresso, con le pareti alte
quattro metri, tappezzate di opere d'arte: tardo Rinascimento, pensò,
artisti famosi, ma non veri maestri, grandi dipinti di scene domestiche
con cornici dorate, che a modo loro erano più imponenti degli stessi
quadri. Il pavimento era in marmo bianco con inserti neri a forma
di diamante nei punti di giunzione, anche i mobili erano perlopiù dorati
e sembravano in stile francese. Ma, soprattutto, non vi era altro personale
di servizio in vista, anche se si sentiva in lontananza il rumore di un
aspirapolvere. Fürchtner si rivolse agli ultimi due arrivati e fece loro
cenno di andare a ovest. La cucina era da quella parte e lì ci sarebbero
state di certo persone da tenere sotto controllo.
«Dov'è Herr Ostermann?» domandò Petra.
«Non è qui, lui...»
La risposta provocò un movimento della pistola, proprio contro la
sua bocca. «Auto ed elicottero sono qui. Te lo ripeto, dov'è?»
«Nella biblioteca, di sopra.»
«Gut. Portaci lì», ordinò. Il maggiordomo la guardò per la prima
volta negli occhi e li trovò molto più intimidatori della pistola che
teneva in mano. Annuì e si voltò verso la grande scala principale..
Anche questa era dorata, con un ricco tappeto rosso tenuto in posizione
da barrette d'ottone, e descriveva una curva elegante verso destra mentre
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salivano al primo piano. Ostermann era un uomo ricco, la quintessenza
del capitalista che aveva fatto fortuna comprando e vendendo azioni di
diverse società industriali, senza acquisirne mai la proprietà, uno
sempre dietro le quinte, pensò Petra Dortmund, uno Spinne, un
ragno, e questo era il centro della sua tela; vi erano entrati
spontaneamente, e qui il ragno avrebbe imparato alcune cose nuove.
Altri quadri sulla scala, molto più grandi di quelli che lei avesse mai
dipinto, ritratti di uomini, forse quelli che avevano costruito e abitato
questo enorme edificio, questo monumento all'ingordigia e allo
sfruttamento... lei già odiava il suo proprietario che viveva in modo
così opulento, proclamando pubblicamente di essere meglio di
chiunque altro mentre accumulava la sua ricchezza e sfruttava la gente.
In cima alla grande scala c'era un grande ritratto a olio dell'imperatore
Francesco Giuseppe, l'ultimo della sua mise-rabile stirpe, morto solo
alcuni anni prima degli ancora più odiati Romanov. Il maggiordomo,
questo servo del male in persona, girò a destra, conducendoli attraverso
un'ampia anticamera dentro una stanza senza porte. Vi si trovavano tre
persone, un uomo e due donne, vestiti meglio del maggiordomo, tutti al
lavoro ai computer.
«Questo è Herr Bauer», disse il maggiordomo con voce tremante.
«Desidera vedere Herr Ostermann.»
«Avete un appuntamento?» chiese il segretario.
«Ci porti dentro subito», intimò Petra. Poi fece la sua comparsa la
pistola, e i tre nell'anticamera smisero di fare quello che stavano facendo e
guardarono gli intrusi a bocca aperta e pallidi in volto.
La casa di Ostermann aveva alcune centinaia di anni, ma aveva
acquisito alcuni elementi del tutto moderni. Il segretario, che in America
sarebbe stato chiamato assistente esecutivo, si chiamava Gerhardt
Dengler. Sotto il bordo della sua scrivania c'era un pulsante. Lo premette
forte e a lungo mentre fissava i visitatori. Il filo conduceva al pannello
d'allarme centrale dello schloss e da lì alla società di vigilanza. A venti
chilometri di distanza, nel centro di controllo, gli impiegati risposero al
cicalino e alla spia lampeggiante chiamando subito l'ufficio della
Staatspolizei. Poi una di loro chiamò per conferma lo schloss.
«Posso rispondere?» chiese Gerhardt a Petra, che gli sembrava il capo.
Ottenne un cenno d'assenso e sollevò il ricevitore. «Ufficio di Herr
Ostermann.»
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«Hier ist Traudl», disse la segretaria della società di vigilanza. «Guten
tag, Traudl. Hier ist Gerhardt», replicò l'assistente esecutivo. «Avete
chiamato per il cavallo?» Era la frase per i guai seri, chiamata codice sotto
minaccia.
«Sì, quando dovrebbe nascere il puledro?» chiese lei, continuando per
proteggere l'uomo all'altro capo del filo, caso mai qualcuno fosse stato in
ascolto.
«Ancora alcune settimane. L'avvertiremo quando è il momento»,
le disse in modo brusco, guardando Petra e la sua pistola.
«Danke, Gerhardt. Wiederseh'n.» L'impiegata riappese e fece un cenno
al suo superiore di turno.
«Un problema con i cavalli», spiegò a Petra. «Abbiamo una giumenta
che sta per partorire e...»
«Silenzio», ordinò lei con calma, facendo segno a Hans di avvicinarsi
alla doppia porta che immetteva nell'ufficio di Ostermann. Finora,
pensò, tutto bene. C'era persino di che divertirsi. Ostermann si trovava
proprio al di là di quella porta, lavorando come se tutto fosse normale,
mentre non lo era affatto. Petra si rivolse all'assistente esecutivo. «Il suo
nome è?...»
«Dengler», rispose l'uomo. «Gerhardt Dengler.»
«Ci faccia entrare, Herr Dengler», gli disse, con una voce stranamente
infantile.
Gerhardt si alzò dalla scrivania e lentamente si avviò verso la doppia
porta, a capo chino, con movimenti legnosi, come se le sue ginocchia
fossero artificiali. Era questo l'effetto delle armi sulla gente, Petra e
Hans lo sapevano. Il segretario girò i pannelli e spinse, rivelando
l'ufficio di Ostermann.
La scrivania era molto grande, dorata come tutto il resto dell'edificio e
posta su un enorme tappeto rosso di lana. Erwin Ostermann dava loro le
spalle, la testa abbassata sullo schermo del computer o qualcos'altro.
«Herr Ostermann?» disse Dengler.
«Sì, Gerhardt?» fu la risposta, pronunciata con voce uniforme. L'uomo
si voltò sulla poltrona girevole...
«Che succede?» domandò, mentre i suoi occhi azzurri si spalancarono
vedendo i visitatori e ancor più quando si accorse delle pistole. «Chi...»
«Siamo un commando della fazione dei Lavoratori Rossi», lo informò
Fürchtner. «E lei è nostro prigioniero.»
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«Ma... che cos'è?»
«Lei e noi faremo un viaggio. Se si comporta bene, non le verrà fatto
alcun male, altrimenti, lei e altri verranno uccisi. È chiaro?» sottolineò
Petra. Per essere certa che lo fosse, puntò di nuovo la pistola alla testa di
Dengler.
Ciò che seguì avrebbe potuto essere la sceneggiatura di un film. La testa
di Ostermann si muoveva a scatti a sinistra e a destra, cercando qualcosa,
probabilmente un aiuto di qualche tipo, senza trovarlo. Poi guardò di
nuovo Hans e Petra e il suo viso fece una smorfia di sbigottimento e
incredulità. Questo non poteva succedere a lui. Non qui, non nel suo
ufficio. Sopraggiunse il rifiuto sdegnato di ciò che stava accadendo
dinanzi a lui... e poi, finalmente, venne la paura. Il processo durò cinque o
sei secondi. Era sempre così. Le mani di Ostermann si chiusero a
pugno sul ripiano in pelle della scrivania, poi si rilassarono quando il
suo corpo si rese conto di quanto fosse impotente. Presto sarebbe
iniziato il tremore, a seconda di quanto coraggio poteva avere. Petra non
se ne aspettava molto. Quell'uomo appariva alto, anche da seduto, magro, persino regale, nella sua camicia bianca con il colletto inamidato e la
cravatta a righe. L'abito era certamente costoso, seta italiana, molto
probabilmente confezionato su misura. Sotto la scrivania ci saranno state
scarpe fatte a mano, lucidate da un cameriere. Dietro di lui si
vedevano diagrammi in salita sugli schermi dei computer. Ecco
Ostermann, al centro della sua tela, e nemmeno un minuto prima era
del tutto a proprio agio, sentendosi invincibile, padrone del proprio
destino, spostando denaro attorno al mondo, accumulando fortune.
Bene, niente più di tutto questo per un po'... forse per sempre, anche
se Petra non aveva intenzione di dirglielo fino all'ultimo secondo; era
più appagante leggere sul suo volto regale lo choc e il terrore prima che
gli occhi diventassero spenti e vuoti.
Petra si rese conto di aver dimenticato com'era la sottile gioia di
avere il potere nelle proprie mani. Come aveva potuto restare tanto
tempo senza esercitarlo?
La prima auto della polizia ad arrivare sulla scena si trovava a soli
cinque chilometri di distanza quando ricevette la chiamata via radio. Per
invertire la direzione e raggiungere lo schloss aveva impiegato solo tre
minuti e aveva parcheggiato dietro a un albero, quasi del tutto
147
invisibile dalla casa.
«Vedo un'auto e un furgone», riferì il poliziotto al responsabile della
stazione, un capitano. «Nessun movimento. Non si vede nient'altro al
momento.»
«Molto bene», rispose il capitano. «Non fare nulla, e riferiscimi subito
qualsiasi nuovo sviluppo. Sarò lì tra cinque minuti.»
«D'accordo. Ende.»
Il capitano rimise a posto il microfono. Si recò sul posto guidando
lui stesso, da solo, nella sua Audi munita di radio. Aveva incontrato
Ostermann una volta, in occasione di qualche evento ufficiale a Vienna.
Solo una stretta di mano e alcune parole di circostanza, ma conosceva
l'aspetto di quell'uomo e la sua fama di persona ricca, dotata di senso
civico, sostenitore particolarmente fedele dell'opera... e dell'ospedale
pediatrico... sì, era stata quella la ragione del ricevimento in municipio.
Ostermann era vedovo da cinque anni, aveva perso la prima moglie
per un cancro alle ovaie. Ora, si diceva, aveva un nuovo interesse nella
vita di nome Ursel von Prinze, un'incantevole donna dai capelli scuri, di
un antico casato. Questo era strano in Ostermann. Viveva come un
membro della nobiltà, ma aveva umili origini. Suo padre era stato...
un macchinista, sì, un macchinista delle ferrovie. E così alcune delle
vecchie nobili famiglie lo avevano guardato dall'alto in basso e lui, per
porre rimedio, aveva acquistato il rispetto sociale con le sue opere di
carità e la sua presenza al teatro lirico. Nonostante lo splendore della sua
dimora, conduceva una vita piuttosto modesta. Poco mondane. Un
uomo tranquillo, semplice e dignitoso, e molto intelligente, così dicevano.
Ma ora, la società di vigilanza diceva che aveva degli intrusi in casa, così
rifletteva fra sé il capitano Willi Altmark, facendo l'ultima curva e
vedendo lo schloss. Per quanto avesse notato spesso l'imponente edificio
passando di lì, dovette ricordarsi ora delle caratteristiche architettotiche.
Una grossa struttura... forse 400 metri di prato libero fra la casa e gli
alberi più vicini. Non andava bene. Sarebbe stato estremamente difficile
avvicinarsi all'edificio senza essere visti. Fermò la sua Audi vicino
all'auto della polizia munita di contrassegni già sul posto e uscì portando
con sé un binocolo.
«Capitano», disse il poliziotto come saluto.
«Hai visto nulla?»
«Nessun movimento di nessun genere. Nemmeno una tenda.»
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Altmark passò un minuto a osservare l'edificio con il binocolo, poi
attivò la radio per comunicare a tutte le auto per strada di arrivare
silenziosamente e lentamente, per non allarmare i criminali
all'interno. Poco dopo ricevette una chiamata dal suo superiore, che
chiedeva una valutazione della situazione.
«Potrebbe essere un lavoro per militari», rispose il capitano Altmark.
«Al momento non sappiamo nulla. Riesco a scorgere un'auto e un
furgone. Nient'altro. Non ci sono giardinieri fuori. Nulla. Ma posso
vedere solo due lati e nulla dietro l'edificio principale. Farò preparare un
cordone di sicurezza non appena arrivano le altre unità.»
«Ja. Si accerti che nessuno possa vederci», ordinò il commissario al
capitano, senza che ce ne fosse alcun bisogno.
«Sì, naturalmente.»
All'interno, Ostermann non si era ancora alzato dalla poltrona. Per un
momento chiuse gli occhi, ringraziando Dio che Ursel fosse volata a
Londra con il jet privato a fare compere e incontrare degli amici inglesi.
Aveva promesso di raggiungerla il giorno seguente e ora si chiese se avrebbe
mai più rivisto la sua fidanzata. Due volte era stato avvicinato da consulenti
della sicurezza, un austriaco e un britannico. Entrambi gli avevano illustrato i pericoli dell'essere così notoriamente ricco, spiegandogli come, per
una cifra annuale abbastanza modesta, poteva migliorare notevolmente la
sua sicurezza personale. Il britannico aveva spiegato che i suoi uomini erano
tutti veterani del SAS; l'austriaco aveva utilizzato tedeschi già appartenenti al
GSG9. Ma lui non aveva ritenuto necessario impiegare specialisti armati
che avrebbero vegliato su di lui dovunque andasse, come se fosse stato un
capo di stato, occupando spazio e standosene seduti come... come guardie del
corpo, pensava Ostermann. Trattando azioni, merci e valute internazionali
aveva avuto la sua parte di rischi scampati, ma questo...
«Che cosa volete da me?»
«Vogliamo i suoi codici d'accesso personali alla rete commerciale
internazionale», gli disse Fürchtner. Hans rimase sorpreso vedendo
l'espressione perplessa sul volto di Ostermann.
«Che cosa vuol dire?»
«I codici d'accesso informatici che le permettono di sapere sempre cosa
sta succedendo.»
«Ma sono già pubblici. Chiunque può averli», obiettò Ostermann.
«Sì, lo sono di sicuro. Ecco perché tutti hanno una casa come questa»,
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osservò Petra tra il sarcastico e il divertito.
«Herr Ostermann», precisò con pazienza Fürchtner. «Sappiamo che
esiste una rete speciale per gente come lei, che le consente di trarre vantaggio
da speciali condizioni di mercato e ricavarne profitto. Ci prende per idioti?»
La paura che trasformò il viso del finanziere fece divertire i suoi due
ospiti. Sì, sapevano quello che non avrebbero dovuto sapere, e capivano che
avrebbero potuto obbligarlo a dar loro le informazioni. I pensieri
trasparivano dal suo volto.
Mio Dio, pensano che io abbia accesso a qualcosa che non esiste e non
sarò mai in grado di persuaderli del contrario.
«Sappiamo come opera la gente come lei», aggiunse Petra, confermando
subito i suoi timori. «Come voi capitalisti vi passate le informazioni e
manipolate i vostri mercati "liberi" per i vostri ingordi scopi. Lei
condividerà tutto ciò con noi... o morirà, insieme con i suoi lacchè.» La
donna puntò la pistola verso l'ufficio esterno.
«Capisco.» Il volto di Ostermann era pallido come la sua camicia bianca
Turnbull and Asser. Guardò fuori, verso l'anticamera. Riusciva a vedere
Gerhardt Dengler, con le mani sopra la scrivania. Non era lì il sistema
d'allarme? Ostermann non riusciva a ricordarlo ora, tanto rapidamente la
sua mente scorreva la valanga di dati che avevano, in modo così brutale,
interrotto la sua giornata.
Il primo passo della polizia fu di verificare i numeri di targa dei veicoli
parcheggiati vicino all'edificio. Videro subito che l'auto era a noleggio. Le targhe
del furgone erano state rubate due giorni prima. Alcuni investigatori sarebbero
andati subito all'autonoleggio per vedere che cosa si riusciva a sapere. La
successiva chiamata fu fatta a uno dei soci d'affari di Ostermann. La polizia aveva
la necessità di sapere quanti dipendenti tra domestici e impiegati potevano
trovarsi nell'edificio insieme con il proprietario. Ciò, pensò il capitano
Altmark, avrebbe richiesto circa un'ora. Disponeva di altre tre auto della polizia ai
suoi ordini. Una di queste girò attorno alla proprietà e altri due poliziotti
poterono parcheggiare e avvicinarsi a piedi da dietro. Venti minuti dopo l'arrivo
sul posto, aveva creato un cordone di sicurezza. La prima cosa che venne a
sapere fu che Ostermann disponeva di un elicottero, parcheggiato dietro alla
casa. Era un Sikorsky S-76B di costruzione americana, in grado di trasportare
due uomini di equipaggio e fino a tredici passeggeri; quest'informazione gli fornì
il numero massimo di ostaggi da spostare e di criminali che li avrebbero
150
spostati. La piazzola di atterraggio si trovava a duecento metri dall'edificio.
Altmark si concentrò su di essa. I criminali avrebbero quasi certamente
utilizzato l'elicottero come mezzo di fuga. Purtroppo, la piazzola si trovava
almeno a trecento metri dal fronte degli alberi. Ciò significava che era necessario
qualche tiratore scelto veramente in gamba, ma la squadra di pronto impiego li
aveva.
Subito dopo aver avuto le informazioni sull'elicottero, uno dei suoi uomini
trovò i membri dell'equipaggio, uno a casa, l'altro all'aeroporto
internazionale di Schwechat dove stava discutendo con il rappresentante
del costruttore per una modifica del Sikorsky. Bene, pensò Altmark,
l'elicottero per ora non andava da nessuna parte. Ma ormai la notizia che la
casa di Ostermann era stata attaccata era giunta ai livelli più alti del governo, e
ricevette via radio una chiamata molto sorprendente dal capo della
Staatspolizei.
Fecero appena in tempo a prendere il volo, che non era stato ritardato per
causa loro. Chavez allacciò la sua cintura quando il bireattore 737 si mosse
verso la testa della pista e passò in rassegna con Eddie Price i
documenti preliminari del briefing. Subito dopo il decollo Price
collegò il suo computer portatile con il sistema telefonico dell'aereo.
Sullo schermo apparve un disegno, con la didascalia "Schloss
Ostermann".
«Chi è?» chiese Chavez.
«La risposta sta arrivando ora, signore», rispose Price. «Un finanziere,
sembrerebbe, uno piuttosto ricco, amico del primo ministro del suo
paese. Penso che ciò spieghi tutto, almeno per quanto ci riguarda.»
«Sì», concordò Chavez. Due di fila per il team 2. Poco più di
un'ora di volo per Vienna, pensò, guardando l'orologio. Un singolo
incidente così era un caso, ma non era normale che due episodi
terroristici avvenissero così ravvicinati. Non che ci fosse una regola,
naturalmente, e anche se ci fosse stata, quella gente l'avrebbe violata.
Eppure... ma non ci fu tempo per tali congetture. Invece, Chavez
esaminò le informazioni che arrivavano sul computer di Price e
cominciò a chiedersi come avrebbe affrontato questa nuova situazione.
Un po' più indietro, i suoi uomini occupavano un settore della classe
economica e passavano il tempo leggendo libri tascabili, quasi senza
parlare della nuova missione, dato che non ne sapevano nulla tranne
151
la destinazione.
«Un perimetro terribilmente grande da coprire», osservò Price,
dopo alcuni minuti.
«Nessuna informazione sugli avversari?» chiese Ding, domandandosi
come mai stesse adottando termini britannici. Avversari? Avrebbe dovuto
dire criminali.
«Nessuna», rispose Eddie. «Nessuna identificazione, nessuna parola sul
loro numero.»
«Benone», commentò il comandante del team 2, continuando a
fissare di traverso lo schermo.
I telefoni erano sotto controllo. Altmark vi aveva provveduto subito. Le
chiamate in entrata ricevevano un segnale di occupato e quelle in uscita
sarebbero state registrate presso il centralino telefonico, ma non ce n'era
stata nessuna, suggerendo al capitano come i criminali fossero tutti
all'interno, dato che non cercavano aiuti dall'esterno. Ciò poteva anche
significare che stessero utilizzando telefoni cellulari, e lui non disponeva
degli apparecchi per intercettarli, sebbene ne avesse sui tre numeri di
cellulare conosciuti di Ostermann.
La Staatspolizei aveva ora trenta uomini sul posto e un cordone di
sicurezza completamente chiuso e intervallato da autoblindo nascoste fra
gli alberi. Avevano fermato un furgone per le consegne della posta, ma
altre vetture avevano cercato di entrare nella proprietà. Per una persona
così ricca, Ostermann conduceva però una vita tranquilla e ritirata,
pensò il capitano. Si sarebbe aspettato una continua sfilata di veicoli.
«Hans?»
«Sì, Petra?»
«I telefoni non hanno suonato. Siamo qui da un po' di tempo, ma i
telefoni non hanno suonato.»
«Lavoro di solito al computer», spiegò Ostermann, avendo notato la
stessa stranezza. Gerhardt aveva comunicato con l'esterno? Se l'aveva
fatto, era un bene? Non aveva modo di saperlo. Ostermann scherzava da
tempo su quanto tagliagole fosse la sua professione, come ogni passo
che faceva fosse rischioso, perché gli altri fuori avrebbero cercato di
fregargli tutto se mai ne avessero avuto la possibilità... ma nessuno di
loro aveva mai minacciato la sua vita, e nessuno aveva mai puntato una
152
pistola carica contro di lui o qualcuno del suo staff. Ostermann
realizzò che questo era per il mondo un nuovo pericolo, che non aveva
mai preso in seria considerazione; che conosceva molto poco e contro cui
non aveva mezzi per difendersi. Al momento, la sua unica possibilità
era quella di leggere i volti e i pensieri dietro di essi e, anche se non
aveva mai incontrato qualcuno nemmeno vagamente simile ai due
che erano entrati nel suo ufficio, aveva visto abbastanza per essere più
impaurito di quanto non fosse mai stato in vita sua. L'uomo, e ancor
più la donna, avevano intenzione di ucciderlo senza alcuno scrupolo,
senza una maggiore emozione di quella che lui mostrava acquistando
un milione di dollari in buoni del tesoro americani. Non sapevano che la
sua vita aveva un valore? Non sapevano che...
No, Erwin Ostermann se ne rese conto, no, non lo sapevano, e non
gliene importava. Ma quello che pensavano di sapere non era vero, e
sarebbe stato per lui maledettamente difficile persuaderli del contrario.
Poi, finalmente, suonò un telefono. La donna gli fece cenno di
rispondere.
«Hier ist Ostermann», disse sollevando il ricevitore. Il suo visitatore
maschio fece lo stesso su un altro apparecchio.
«Herr Ostermann, sono il capitano Wilhelm Altmark della
Staatspolizei. Ha degli ospiti, mi sembra.»
«Sì, capitano», rispose Ostermann.
«Potrei parlare con loro, per favore?» Ostermann si limitò a guardare
Hans Fürchtner.
«Ce ne ha messo di tempo, Altmark», osservò Hans. «Mi dica, come
l'ha scoperto?»
«Non le chiederò di svelarmi i suoi segreti se lei farà altrettanto tanto», rispose freddamente il capitano. «Vorrei sapere chi siete e che cosa
volete.»
«Sono il comandante Wolfgang della fazione dei Lavoratori Rossi.»
«Quali sono le vostre richieste?»
«Vogliamo il rilascio di alcuni nostri amici detenuti in diverse prigioni
e il trasporto a Schwechat International. Chiediamo un aereo di linea
con un'autonomia di oltre cinquemila chilometri e un equipaggio per
una destinazione che vi faremo conoscere una volta a bordo del velivolo.
Se non ci darete queste cose entro mezzanotte, cominceremo a uccidere
qualcuno dei nostri... ospiti qui nello Schloss Ostermann.»
153
«Capisco. Ha un elenco dei prigionieri di cui chiedete il rilascio?»
Hans mise una mano sul ricevitore e tese l'altra. «Petra, l'elenco.»
Lei si avvicinò e glielo porse. Nessuno dei due si aspettava seriamente
alcuna collaborazione su questo punto, ma faceva parte del gioco e le
regole dovevano essere rispettate. Avevano deciso che avrebbero dovuto
uccidere di sicuro un ostaggio, più probabilmente due, prima di
raggiungere l'aeroporto. L'uomo, Gerhardt Dengler, sarebbe stato
ucciso per primo, pensò Hans, poi una delle due segretarie. Né lui né
Petra volevano davvero uccidere qualcuno dei domestici dato che erano
veri lavoratori, non lacchè capitalisti come gli impiegati dell'ufficio.
«Sì, ecco l'elenco, capitano Altmark...»
«Bene», disse Price, «abbiamo l'elenco delle persone che dovremmo
liberare per i nostri amici.» Girò il computer in modo che Chavez
potesse vederlo.
«I soliti sospetti. Ci dice qualcosa, Eddie?»
Price scosse la testa. «Forse no. Si possono avere questi nomi da un
giornale.»
«Allora, perché lo fanno?»
«Il dottor Bellow spiegherà che devono farlo, per mostrare solidarietà
con i loro compatrioti, quando di fatto sono tutti sociopatici, cui non
frega nulla di nessuno a parte se stessi.» Price scrollò le spalle. «Il
cricket ha le sue regole. Così il terrorismo e...» In quel momento il
comandante del velivolo interruppe il discorso filosofico e disse a tutti di
sollevare lo schienale dei sedili e di chiudere i tavolini in vista
dell'atterraggio.
«Lo spettacolo sta per cominciare, Eddie.»
«Proprio così, Ding.»
«Così, sono tutte stronzate di solidarietà?» chiese Ding picchiettando
sullo schermo.
«Molto probabile.» Price tolse il cavetto di collegamento con la
linea telefonica, salvò i suoi file e chiuse il computer. Dodici file
indietro, Tim Noonan fece lo stesso. Tutti i membri del team 2
cominciarono a prepararsi mentalmente all'azione mentre il British
Airways 737 si apprestava ad atterrare a Vienna. Qualcuno aveva già
provveduto ad avvertire del loro arrivo. L'aereo rullò molto
rapidamente verso la sua passerella telescopica e fuori dal finestrino
Chavez riuscì a vedere un furgone portabagagli con vicini alcuni
154
poliziotti che aspettavano di fianco al terminal.
Non passarono inosservati. Un controllore della torre notò
l'arrivo, avendo già osservato alcuni minuti prima che un volo Sabena
previsto in uno slot precedente l'aereo della British aveva ricevuto un
ordine non necessario d'attesa, e che un ufficiale di polizia di grado
elevato si trovava nella torre, molto interessato al volo della British
Airways. Poi c'era un secondo furgone per i bagagli, anch'esso superfluo,
con due auto della polizia vicine alla passerella A-4. Di che si trattava? si
chiese. Non ci volle un grande sforzo da parte sua per continuare a
guardare e saperne di più. Disponeva anche di un potente binocolo Zeiss.
La hostess non aveva ricevuto istruzioni di far scendere per primi i
passeggeri del team 2, ma le venne il sospetto che ci fosse in loro
qualcosa di strano. Non comparivano nella sua lista d'imbarco
computerizzata ed erano più gentili della media dei viaggiatori
d'affari. Il loro aspetto non aveva nulla di speciale, solo apparivano tutti
molto in forma, erano arrivati tutti insieme in un unico gruppo e si
erano diretti ai loro posti in modo insolitamente ordinato. Lei
aveva dei compiti da svolgere, però, e quando aprì il portellone che
dava sulla passerella vide in attesa un agente in divisa. Questi non
sorrise o disse qualcosa quando lei lasciò passare i passeggeri che
stavano aspettando. Tre della prima classe si fermarono subito fuori dal
velivolo, parlarono con il poliziotto, poi si diressero verso la porta che
dava sulle scalette di servizio, che portavano direttamente alla pista.
Essendo una patita di gialli e racconti polizieschi, valeva la pena
dare un'occhiata, pensò, per vedere chi altro andava da quella parte. In
totale erano tredici e il numero comprendeva i passeggeri arrivati in
ritardo. Li guardò in viso. Uscendo, la maggior parte di loro le sorrise. Bei
volti... ma più ancora, facce virili, con espressioni che emanavano fiducia
e qualcos'altro, qualcosa di prudente e guardingo.
«Au revoir, signora», disse l'ultimo del gruppo con uno sguardo
tipicamente francese di apprezzamento e un sorriso affascinante.
«Accidenti, Louis», osservò una voce con accento americano uscendo
dalla porta laterale. «Tu non spegni mai l'interruttore!»
«È un crimine guardare una bella donna, George?» chiese Loiselle
strizzando l'occhio.
«Penso di no. Forse la ritroveremo sul volo di ritorno», disse il sergente
Tomlinson. Era carina, ma lui era sposato con quattro figli. Louis
155
Loiselle non se ne lasciava mai scappare una. Forse dipendeva dal fatto
che era francese, pensò. In basso, il resto del team era in attesa.
Noonan e Steve Lincoln stavano controllando lo scarico dei bagagli.
Dopo tre minuti, il team 2 si trovava in due pulmini che si allontanarono dalla pista con una scorta di polizia. Il fatto non sfuggì
al controllore del traffico aereo, il cui fratello era cronista di nera in un
giornale locale. Il poliziotto che era salito in torre se ne andò rivolgendo
appena un danke ai tecnici presenti.
Venti minuti più tardi, i pulmini si fermarono all'esterno dell'ingresso
principale dello Schloss Ostermann. Chavez s'incamminò verso il
capitano.
«Buongiorno, sono il maggiore Chavez e questi sono il dottor Bellow e
il sergente maggiore Price», disse, sorpreso di ricevere il saluto da...
«Capitano Wilhelm Altmark», disse l'uomo.
«Che cosa sappiamo?»
«Sappiamo che vi sono all'interno due criminali, forse di più, ma il
numero è sconosciuto. Sapete quali sono le loro richieste?»
«Un aereo per qualche posto era l'ultima che ho sentito. Ultimatum a
mezzanotte?»
«Corretto, nessun cambiamento nell'ultima ora.»
«Nient'altro. Come li porteremo all'aeroporto?» chiese Ding.
«Ostermann possiede un elicottero privato e una piazzola circa
duecento metri dietro la casa.»
«E l'equipaggio?»
«È là», indicò Altmark. «I nostri amici non hanno ancora chiesto il
volo, ma sembra che sia il sistema più probabile di effettuare il
trasferimento.»
«Chi ha parlato con loro?» chiese il dottor Bellow alle spalle di Chavez,
che era più basso di statura.
«Io», rispose Altmark.
«Okay, dobbiamo parlare, capitano.»
Chavez si diresse verso un pulmino in cui poteva cambiarsi con il resto
del team. Per questa missione notturna, dato che il sole stava proprio
allora tramontando, sopra i giubbotti antiproiettile non indossarono le
tute nere ma quelle verde mimetico. Le armi vennero distribuite e
caricate, poi messe in sicura. Dopo dieci minuti, il team era fuori e sul
limitare del fronte degli alberi, tutti con i binocoli, per controllare
156
l'edificio.
«Penso che questo qui sia il lato giusto dello scenario», osservò Homer
Johnston. «Un sacco di finestre, Dieter.»
«Ja», concordò il tiratore scelto tedesco.
«Dove ci mettiamo, comandante?» chiese Homer a Chavez. «Sul lato
esterno, entrambi gli angoli, fuoco incrociato sulla piazzola dell'elicottero.
Subito, ragazzi, e quando siete sistemati, chiamatemi via radio per il
controllo. Conoscete la procedura.» «Qualunque cosa vediamo, ti
chiamiamo, Herr Major», confermò Weber. Entrambi i tiratori scelti
presero le custodie chiuse a chiave dei fucili e si diressero dove la polizia
locale aveva le sue auto.
«Disponiamo di un layout della casa?» chiese Chavez ad Alt-mark.
«Layout?» chiese il poliziotto austriaco.
«Pianta, mappa, disegni», spiegò Ding.
«Ach, sì, ecco.» Altmark lo accompagnò alla sua vettura. I disegni erano
sparsi sul cofano. «Ecco, vede; quarantasei stanze, senza contare gli
scantinati.»
«Accidenti», fu l'immediata reazione di Chavez. «Più di uno
scantinato?»
«Tre. Sotto il lato ovest... cantina e deposito frigorifero. Lo scantinato
dell'ala est non è utilizzato. Le porte che conducono lì possono essere
chiuse. Nessuno scantinato sotto la parte centrale. Lo schloss fu costruito
alla fine del Diciottesimo secolo. Le pareti esterne e alcune di quelle
interne sono in pietra.»
«Dannazione, è un fottuto castello», osservò Ding.
«Questo è proprio ciò che significa la parola schloss, Herr
Major», lo informò Altmark.
«Dottore?»
Bellow si avvicinò. «Da quello che mi dice il capitano Altmark, finora
si sono comportati in maniera piuttosto professionale. Nessuna minaccia
isterica. Hanno dato un ultimatum a mezzanotte per il trasferimento
all'aeroporto, altrimenti dicono che cominceranno a uccidere gli ostaggi.
Parlano tedesco, con accento tedesco, giusto, capitano?»
Altmark annuì. «Ja, sono tedeschi, non austriaci. Abbiamo solo un nome,
Herr Wolfgang, che nella nostra lingua è generalmente un nome proprio, non
un cognome, e non abbiamo alcun criminale terrorista conosciuto con quel
nome o pseudonimo. Inoltre, ha detto che appartengono alla fazione dei
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Lavoratori Rossi, ma nemmeno su quest'organizzazione abbiamo alcun
dato.»
Neanche Rainbow ce l'aveva. «Così, non sappiamo granché?» Chavez
chiese a Bellow.
«Non molto, Ding», proseguì lo psichiatra, «significa che il loro piano è
sopravvivere a questa impresa. Significa che in questo gioco sono
professionisti seri. Se minacciano di fare qualcosa, cercheranno di farla. Non
hanno ancora ucciso nessuno e ciò vuol anche dire che sono piuttosto
furbi. Nessun'altra richiesta fatta fino a ora. Verranno, probabilmente
presto...»
«Come fa a saperlo?» chiese Altmark. L'assenza di richieste fino a questo
momento lo aveva sorpreso.
«Quando farà buio, parleranno ancora con noi. Ha visto che non hanno
acceso alcuna luce all'interno dell'edificio?»
«Sì, e cosa significa?»
«Significa che considerano l'oscurità loro alleata e che cercheranno di
farne uso. Inoltre, l'ultimatum è a mezzanotte. Quando fa buio, saremo più
vicini.»
«Luna piena stanotte», osservò Price. «E cielo poco coperto.»
«Già», confermò Ding, guardando un po' sconfortato il cielo.
«Capitano, avete delle fotoelettriche che possiamo utilizzare?»
«Le hanno i vigili del fuoco», precisò Altmark.
«Potrebbe, per favore, ordinare loro di portarle qui?»
«Ja... Herr Doktor?»
«Sì?» rispose Bellow.
«Hanno detto che se noi non facciamo quello che ci hanno ordinato entro
mezzanotte, cominceranno a uccidere gli ostaggi. Lei...»
«Sì, capitano, dobbiamo prendere molto sul serio la minaccia. Come ho
detto, quelli agiscono come persone determinate, ben addestrate e molto
disciplinate. Possiamo sfruttare tale situazione a nostro vantaggio.»
«Come?» chiese Altmark.
Rispose Ding.
«Diamo loro quello che vogliono, gli facciamo credere di tenere la
situazione in pugno... finché non viene il nostro momento di assumere il
controllo. Alimentiamo il loro orgoglio e il loro ego fino a quando siamo
obbligati a farlo e poi, più tardi, smettiamo nel momento in cui ci
conviene.»
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Il personale di servizio di Ostermann nutriva il corpo dei terroristi e il
loro ego. Erano stati preparati dei tramezzini sotto il controllo della squadra
di Fürchtner e alcuni domestici molto spaventati li avevano distribuiti.
Com'era facile prevedere, i dipendenti di Ostermann non avevano molto
appetito, che invece non mancava ai loro ospiti.
Fino a questo punto le cose erano andate bene, pensarono Hans e Petra.
Tenevano il loro ostaggio principale sotto stretto controllo e i suoi tirapiedi
si trovavano ora nella medesima stanza, con facilità d'accesso al bagno
personale di Ostermann; gli ostaggi avevano bisogno di questo sfogo e non
c'era nessun motivo per negarglielo. Altrimenti, li avrebbero privati della loro
dignità e resi disperati, il che era sconsigliabile. Le persone disperate
compiono gesti imprevedibili e, al momento, ciò di cui avevano bisogno
Hans e Petra era poter controllare ogni loro azione.
Gerhardt Dengler sedeva in una poltrona, proprio di fronte alla scrivania
del suo principale. Sapeva di aver fatto chiamare la polizia e, come il suo
capo, si chiedeva ora se ciò fosse un bene o un male. Entro un paio d'anni,
sarebbe stato pronto a mettersi in proprio, magari con la benedizione di
Ostermann. Dal suo principale aveva imparato molto, come un aiutante di
campo dal suo generale. Ma lui aveva potuto seguire il proprio destino molto
più rapidamente di un ufficiale subalterno... che cosa doveva a quest'uomo?
Che cosa occorreva fare in tali condizioni? Dengler non sapeva destreggiarsi
in questa situazione meglio di Herr Ostermann, ma Dengler era più
giovane, più in forma...
Una delle segretarie piangeva in silenzio, le lacrime le rigavano le guance per
la paura e la rabbia di vedere sconvolta in maniera così crudele la sua
tranquilla esistenza. Con che diritto questi due pensavano di poter irrompere
nelle vite di persone normali e minacciarle di morte? E che cosa poteva
farci? La risposta era... niente. Era brava nell'inoltrare le telefonate, nel
verificare e catalogare pacchi di carte, nel seguire le tracce del denaro di
Ostermann in modo così abile che era probabilmente la segretaria meglio
pagata del paese, poiché Ostermann era un capo generoso, sempre con una
parola gentile per il suo personale. Aveva aiutato lei e suo marito, un
muratore, nei loro investimenti, al punto che sarebbero stati presto milionari.
Era con lui da molto prima che la sua prima moglie morisse di cancro, l'aveva
visto soffrire, incapace di aiutarlo a fare qualcosa che ne alleviasse l'atroce
dolore, e poi si era rallegrata quando lui aveva incontrato Ursel von Prinze,
la donna che era riuscita a far sorridere di nuovo il suo capo...
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Chi erano queste persone che li fissavano come se fossero stati oggetti, con
in mano le pistole come fossero in un film... in cui lei, Gerhard e gli altri
avevano solo una particina? Non potevano andare tutti a prendersi una birra e
dei salatini. Potevano solo vivere il dramma fino alla fine. E così pianse in
silenzio, davanti alla sua impotenza, guadagnandosi il disprezzo di Petra
Dortmund.
Homer indossava un completo mimetico da tiratore scelto, costituito da
una tuta sulla quale erano fissati ritagli cuciti su una specie di rete, il cui
scopo era di farlo apparire un cespuglio o un mucchio di foglie o letame,
tutto tranne che una persona con un fucile. L'arma era appoggiata sul suo
bipiede, e i coperchi incernierati sulle lenti anteriore e posteriore del suo
mirino telescopico erano sollevati. Aveva scelto una buona postazione a
est della piazzola dell'elicottero, che gli avrebbe consentito di coprire
l'intera distanza tra l'aeromobile e l'edificio. Il suo telemetro laser indicava
che c'erano 216 metri tra lui e una porta sul retro, e 147 metri tra lui e la
portiera anteriore sinistra dell'elicottero. Giaceva disteso in un punto
asciutto del bellissimo prato, tra le ombre che si allungavano vicino al fronte
degli alberi, e l'aria portava fino a lui l'odore dei cavalli, che gli
ricordavano la sua fanciullezza nel nordovest dell'America. Afferrò il
microfono della radio.
«Tiratore Due-Uno a comandante. A posto e pronto. Non vedo movimenti
nella casa in questo momento.»
«Tiratore Due-Due a posto e pronto, neanch'io vedo movimenti», riferì
dal suo punto d'osservazione il sergente Weber, a 256 metri da Johnston,
che si girò per vedere la posizione di Dieter. Il suo collega tedesco aveva
scelto una buona postazione.
«Achtung», risuonò una voce dietro di lui. Homer si voltò e vide che, quasi
strisciando nell'erba, c'era un poliziotto austriaco che si avvicinava. «Hier»,
disse l'uomo, consegnando alcune foto e ritirandosi rapidamente. Johnston le
guardò. Erano fotografie degli ostaggi... ma nessuna dei terroristi. Almeno
sapeva a chi non sparare. Poi, si ritrasse leggermente dal fucile e sollevò il
binocolo militare verniciato di verde iniziando a osservare la casa con lentezza
e regolarità, da sinistra a destra e ricominciando. «Dieter?» chiamò tramite il
suo collegamento radio diretto.
«Sì, Homer?»
«Ti hanno dato le foto?»
160
«Sì, le ho.»
«Nessuna luce all'interno...»
«Ja, i nostri amici sono furbi.»
«Penso che tra mezz'ora dovremo utilizzare i visori notturni.»
«Sono d'accordo, Homer.»
Johnston emise un grugnito e si voltò per verificare il sacco che si era
portato dietro con la custodia del suo fucile e l'arma di precisione da
10.000 dollari. Poi riprese a controllare l'edificio, con pazienza, come se
inseguisse le tracce di un cervo in montagna... un pensiero piacevole per
un cacciatore di vecchia data... il gusto della carne di cervo, soprattutto
cucinata al campo su un fuoco vivo a legna... un po' di caffè dal pentolino
in acciaio smaltato blu... e le chiacchiere che seguivano alla battuta andata
bene... Be', non puoi mangiare quello che prendi qui, Homer, disse tra sé
il sergente, ritornando alla sua paziente attesa. S'infilò una mano in tasca
per prendere una striscia di carne secca da masticare.
Eddie Price si accese la pipa dall'altra parte della tenuta. Non grande come
Kensington Palace, ma più bella, pensò. Il pensiero lo disturbò. Era qualcosa
di cui avevano parlato durante il periodo trascorso nel SAS. Che cosa
sarebbe successo se alcuni terroristi, e di solito si riferivano al PIRA
(Provisional Irish Republican Army) o all'INLA (Irish National Liberation
Army) due organizzazioni terroristiche nord-irlandesi, avessero attaccato
una delle residenze reali... o il palazzo di Westminster. In diverse occasioni il
SAS aveva percorso tutti quegli edifici, proprio per farsi un'idea della loro
pianta, dei sistemi di sicurezza e dei problemi connessi, soprattutto dopo
che quel folle era riuscito a intrufolarsi in Buckingham Palace negli anni
Ottanta, spingendosi fino alla camera da letto della regina. A pensarci gli
venivano ancora i brividi!
Il breve sogno a occhi aperti svanì. Doveva preoccuparsi dello Schloss
Ostermann, si ricordò Price, esaminando di nuovo i disegni.
«Terribile incubo all'interno, Ding», esclamò infine Price.
«Proprio così. Tutti i pavimenti in legno, che probabilmente
scricchiolano, un sacco di posti dove i criminali possono nascondersi e
spararci. Per farcela ci vuole un elicottero.» Ma loro non lo avevano. Era
qualcosa di cui parlare con Clark. Rainbow non era stato progettato in tutti i
dettagli. Troppa fretta su troppe cose. In realtà non avevano bisogno soltanto
di elicotteri, ma soprattutto di buoni equipaggi addestrati su vari tipi di mezzi
ad ala rotante, perché quando operavano sul campo, era impossibile sapere
161
quali mezzi venivano utilizzati dalla nazione ospitante. Chavez si voltò:
«Dottore?»
Bellow arrivò. «Sì, Ding?»
«Comincio a pensare che sia meglio farli uscire e camminare fino
all'elicottero dietro l'edificio ed eliminarli così piuttosto che entrare di
forza.»
«Un po' presto, non trova?»
Chavez annuì. «Sì, lo è, ma non vogliamo perdere un ostaggio, e se
arriva la mezzanotte, ha detto, dobbiamo prendere quella minaccia
seriamente.»
«Possiamo rimandare di un po', forse. È proprio quello il mio lavoro, al
telefono.»
«Capisco, ma se facciamo una mossa, voglio che sia nell'oscurità. Il che
significa stanotte. Non posso fare un piano basato sul fatto che lei li
convinca a parole ad arrendersi, a meno che non la pensi in modo
diverso...»
«Possibile, ma improbabile», dovette ammettere Bellow. Non poteva
nemmeno dire con certezza di riuscire a rinviare la minacciata uccisione a
mezzanotte.
«Poi, dobbiamo vedere se riusciamo a piazzare delle telecamere
sull'edificio.»
«Eccomi», intervenne Noonan. «Non sarà cosa da poco, amico.»
«Ce la fai?»
«Forse riesco ad avvicinarmi senza essere osservato, ma ci sono oltre
cento finestre, e come diavolo faccio a raggiungere quelle al secondo e al
terzo piano? A meno di lasciarmi penzolare da un elicottero e calarmi sul
tetto...» E ciò significava essere sicuri che gli operatori della tv locale,
pronti a intervenire come avvoltoi su una mucca agonizzante, spegnessero
le loro telecamere e le tenessero spente, ma l'interruzione delle immagini
avrebbe rischiato di allarmare i terroristi. E del resto, come avrebbero
potuto non notare un elicottero che volava a dieci metri sopra il tetto
dell'edificio? E poi avrebbe potuto esserci un terrorista sul tetto, già in osservazione.
«L'affare sta diventando complicato», osservò con calma Chavez.
«È abbastanza buio e freddo perché i visori a infrarossi comincino a
lavorare», aggiunse con tono collaborativo Noonan.
«Sì.» Chavez afferrò il microfono della radio. «Team, qui è il
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comandante, passare ai visori termici. Ripeto, mettere in funzione i visori
termici.» Poi si girò. «E i telefoni cellulari?»
Noonan scrollò le spalle. C'erano ormai qualcosa come trecento
civili radunati attorno, ben lontani dalla proprietà Ostermann e tenuti
sotto controllo dalla polizia locale, ma la maggior parte di essi poteva
vedere la casa e il parco e se uno di loro possedeva un telefono cellulare,
e ce l'aveva anche qualcuno all'interno, quella persona sconosciuta
all'esterno doveva soltanto chiamare i suoi amici per raccontare loro
che cosa stava succedendo. I miracoli della comunicazione moderna
lavoravano in entrambi i sensi. Erano oltre 500 le frequenze dei cellulari,
e l'apparecchiatura per tenerle tutte sotto controllo non faceva parte
dell'equipaggiamento normale di Rainbow. Nessuna operazione
terroristica o criminale si era finora avvalsa di quella tecnica, per quanto
ne sapessero, ma non tutti gli stupidi dovevano continuare a esserlo.
Chavez guardò lo schloss e pensò di nuovo che la soluzione ottimale
era quella di far uscire i criminali. Ma non conosceva il loro numero e
non aveva modo di scoprirlo senza riuscire a piazzare le telecamere
sull'edificio, un'impresa problematica per tutte le ragioni appena
considerate.
«Tim, prendi nota per quando torniamo di come gestire i telefoni
cellulari e le radio all'esterno dell'obiettivo. Capitano Altmark!»
«Sì, maggiore Chavez?»
«Le fotoelettriche, sono arrivate?»
«Proprio ora, ja, ne abbiamo tre complete.» Altmark indicò una
direzione. Price e Chavez andarono a vedere. Trovarono tre autocarri con
sopra dei normalissimi fari come quelli che si potevano vedere attorno a
un campo di calcio di una scuola. Destinati ad aiutare a spegnere un
grande incendio, potevano essere messi in posizione e alimentati dai
mezzi che li trasportavano. Chavez disse ad Altmark dove li voleva e
tornò al punto di ritrovo del team.
Per creare un'immagine i visori a infrarossi funzionavano in base
alla differenza di temperatura. La sera si stava rinfrescando rapidamente e
con essa i muri in pietra della casa. Già le finestre apparivano più
luminose delle pareti, poiché l'edificio era riscaldato e le grandi finestre
poco isolate, nonostante i tendaggi che pendevano all'interno di
ciascuna di esse. Dieter Weber fece il primo avvistamento.
«Comandante, qui tiratore Due-Due, ho un bersaglio termico al
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primo piano, quarta finestra da ovest, che sbircia verso l'esterno.»
«Okay! Quello si trova nella cucina.» Era la voce di Hank Patterson,
che stava verificando sui disegni. «E uno! Riesci a dirmi qualcos'altro,
Dieter?»
«Negativo, solo una sagoma», rispose il tiratore tedesco. «No, aspetta...
è alto, probabilmente un uomo.»
«Qui Pierce, ne ho uno, primo piano, lato est, seconda finestra dalla
parete est.»
«Capitano Altmark?»
«Ja.»
«Per favore, potrebbe chiamare l'ufficio di Ostermann? Vogliamo
sapere se lui è lì.» Perché se ci fosse stato, ci sarebbero stati uno o due
terroristi con lui.
«Ufficio di Ostermann», rispose una voce di donna.
«Parla il capitano Altmark. Chi è all'apparecchio?»
«È il comandante Gertrude della fazione Lavoratori Rossi.»
«Mi scusi, pensavo di parlare con il comandante Wolfgang.»
«Aspetti», gli disse la voce di Petra.
«Hier ist Wolfgang.»
«Hier ist Altmark. Non vi sentiamo da molto tempo.»
«Che notizie ha per noi?»
«Nessuna notizia, ma abbiamo una richiesta, comandante.»
«Sì, qual è?»
«In segno di buona volontà», annunciò Altmark, con il dottor Bellow
all'ascolto, e un traduttore vicino a lui. «Chiediamo che rilasciate due
degli ostaggi, magari dei domestici.»
«Wafür? Così vi aiutano a identificarci?»
«Comandante, qui Lincoln, ho un bersaglio, finestra d'angolo nordovest,
alto, probabilmente uomo.»
«Sono tre più due», osservò Chavez, mentre Patterson collocava
un'etichetta circolare gialla su quella parte dei disegni.
La donna che aveva risposto al telefono era rimasta in linea. «Avete tre
ore prima che vi mandiamo un ostaggio, todt», annunciò con enfasi.
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«Avete altre richieste? Chiediamo un pilota per l'elicottero di Herr
Ostermann prima di mezzanotte, e un aereo in attesa all'aeroporto.
Altrimenti, uccideremo un ostaggio per dimostrare che facciamo sul serio
e poi gli altri, a intervalli regolari. Chiaro?»
«Per favore, abbiamo capito che fate sul serio», le assicurò Altmark.
«Stiamo cercando l'equipaggio e stiamo trattando con l'Austrian Airlines
per il velivo-lo. Sono cose che richiedono tempo, come sapete.»
«Dicono sempre così, quelli come lei. Le abbiamo detto quali sono le
nostre richieste. Se non acconsentite, il loro sangue ricadrà sulle
vostre mani. Ende», disse la voce, e la linea si interruppe.
Il capitano Altmark rimase sorpreso e sconfortato dalla fredda
determina-zione all'altro capo del telefono e dalla brusca interruzione
della conversazione. Guardò Paul Bellow riattaccando il ricevitore. «Herr
Doctor?»
«La donna è l'elemento pericoloso. Sono entrambi svegli. Hanno
fatto di sicuro un piano dettagliato e uccideranno un ostaggio per
affermare la loro posizione, sicuro come l'oro.»
«Gruppo di uomo e donna», stava dicendo Price al telefono. «Tedeschi,
età... sulla quarantina, come ipotesi. Forse più anziani. Maledettamente
determinati», aggiunse per Bili Tawney.
«Grazie, Eddie, resta in attesa», fu la risposta. Price poté sentire le dita
che battevano sulla tastiera.
«Bene, ragazzo, ho tre gruppi possibili per te. Sto caricando i dati.»
«Grazie, signore.» Price riaprì il suo computer portatile. «Ding?»
«Sì?»
«Informazioni in arrivo.»
«Abbiamo almeno cinque terroristi qui dentro, capo», comunicò
Patterson, muovendo il dito attorno ai disegni. Non possono essersi
spostati altrove così rapidamente. Qui, qui, qui e due qui al piano di
sopra. Le posizioni hanno un senso. Forse dispongono anche di radio
portatili. L'edificio è troppo grande perché possano comunicare
gridando tra loro.»
Noonan sentì queste parole e si portò verso la sua apparecchiatura
d'intercettazione radio. Se gli amici stavano usando radio portatili, il
loro campo di frequenze era ben conosciuto, stabilito di fatto dal
trattato internazionale, probabilmente non gli apparati militari che
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utilizzava il team e quasi di certo non criptati. Nel giro di pochi secondi
aveva fatto partire il suo scanner computerizzato e scandagliava tramite
antenne multiple, che avrebbero consentito di triangolare sulle
sorgenti all'interno della casa. Queste erano accoppiate nel suo
computer portatile, con già sovrapposta una pianta dello schloss. Tre
guerriglieri probabilmente, pensò Noonan. Due erano troppo pochi.
Tre gli sembrava il numero giusto, anche se il furgone di fronte
all'edificio poteva facilmente contenerne di più. Due più tre, due più
quattro, due più cinque? Ma loro dovevano aver programmato d'andarsene tutti e l'elicottero non era tanto grande. Ciò portava il
numero totale dei terroristi tra cinque e sette. Un'ipotesi, e non potevano
basarsi su un'ipotesi... E se non avessero utilizzato radio portatili? Se
avessero telefoni cellulari? Quanti se, pensò Noonan. Si doveva partire
da qualcosa, raccogliere tutte le informazioni disponibili e poi agire di
conseguenza. Il problema con gente come quella era che menavano
sempre loro le danze. Nonostante la loro stupidità e il loro intento
criminale, che Noonan considerava un punto debole, erano loro a
stabilire il ritmo, loro a decidere la successione dei fatti. Il team
poteva modificarla un po' con la persuasione, era il lavoro del dottor
Bellow, ma quando si arrivava al dunque erano i criminali gli unici a
volere il morto e quella era una carta che faceva un gran rumore
quando veniva calata sul tavolo. All'interno c'erano dieci ostaggi,
Ostermann, i suoi tre assistenti e sei persone di servizio che si
occupavano della casa e del parco. Ciascuno di loro aveva una vita e una
famiglia e l'aspettativa di conservarle entrambe. Il compito del team 2
era di far sì che ciò avvenisse. Ma i criminali detenevano ancora un
completo controllo e questo all'agente speciale del Federal Bureau
non piaceva molto. Non era la prima volta che desiderava di essere uno
dei tiratori, in grado, a tempo debito, di partecipare all'azione. Ma, per
quanto bravo con le armi e sul piano fisico, era più addestrato per gli
aspetti tecnici della missione. Questo era il settore della sua esperienza
personale e lui era più utile restando attaccato ai suoi strumenti. Non
era detto, comunque, che dovesse per forza piacergli.
«Allora, come andiamo, Ding?»
«Non troppo bene, Mr. C.» Chavez si voltò a osservare di nuovo
l'edificio. «Molto difficile avvicinarsi alla casa a causa del terreno aperto,
quindi difficile piazzare telecamere e ottenere informazioni di tipo
tattico. Abbiamo due obiettivi principali e forse tre secondari che
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sembrano professionali e determinati. Penso di lasciarli uscire e
andare all'elicottero, e stenderli allora. Tiratori in posizione. Ma con il
numero di obiettivi, potrebbe non essere proprio simpatico, John.»
Clark guardò lo schermo nella postazione comando. Disponeva di
collegamenti continui con il team 2, compresi gli schermi dei loro
computer. Come sempre, Peter Covington era al suo fianco.
Avrebbe anche potuto essere un dannato castello con fossato, aveva
osservato in precedenza l'ufficiale britannico. Anche lui aveva annotato
la necessità di avere piloti di elicottero come membri permanenti del
team.
«Un'altra cosa», disse Chavez. «Noonan dice che abbiamo bisogno di
dispositivi per bloccare i fanatici dei cellulari. Abbiamo qua
attorno alcune centinaia di persone e se qualcuno ha un telefono che
fa da palo, può parlare con i nostri amici all'interno e dire loro cosa stiamo
facendo. Non c'è assolutamente modo per impedirlo senza questi
dispositivi. Prenditi un appunto, Mr. C.»
«Fatto, Domingo», rispose Clark, guardando verso David Peled, il
suo responsabile tecnico.
«Posso occuparmene nel giro di pochi giorni», disse l'israeliano. Il
Mossad disponeva di questo tipo di apparecchiature. Forse anche
alcune agenzie americane. Lo poteva scoprire velocemente. Noonan,
pensò David, era molto in gamba per essere un ex poliziotto.
«D'accordo, Ding, sei autorizzato ad agire in totale autonomia. Buona
fortuna, ragazzo mio.»
«Caspita, grazie, papà», fu la risposta ironica. «Team, chiudo.» Chavez
ripose il microfono dentro la sua sede. «Price!» chiamò.
«Sì, signore.» Il sergente maggiore si materializzò al suo fianco.
«Possiamo agire in totale autonomia», disse il capo al suo secondo.
«Meraviglioso, maggiore Chavez. Che cosa propone, signore?» La
situazione doveva essere davvero critica, pensò Ding, se Price aveva
risposto dandogli del signore.
«Vediamo che cosa abbiamo a disposizione, Eddie.»
Klaus era il capo giardiniere di Ostermann, e a settantuno anni era il più
anziano membro della servitù. Sua moglie era a casa, ne era sicuro, nel
suo letto con un'infermiera che l'accudiva e la curava; era senz'altro
preoccupata per il marito e tale preoccupazione avrebbe potuto essere
167
pericolosa per lei. Hilda Rosenthal soffriva di una malattia cardiaca
progressiva che l'aveva resa invalida negli ultimi tre anni. Il servizio
sanitario pubblico aveva fornito le cure necessarie e Herr Ostermann
era intervenuto mandando un amico, professore all'Algemeine
Krankenhaus di Vienna, per esaminare il caso. Un nuovo trattamento
chemioterapico aveva in realtà migliorato un po' le condizioni di Hilda,
ma l'apprensione che stava provando per lui certamente non le
avrebbe giovato e quel pensiero faceva impazzire Klaus. Lui era in cucina
insieme con il resto della servitù. Si era trovato all'interno a bere un
bicchiere d'acqua quando erano arrivati, se fosse stato all'esterno avrebbe
potuto facilmente fuggire e dare l'allarme, aiutando così il suo
principale, che era stato tanto premuroso verso tutti i suoi dipendenti, e
Hilda! Ma la fortuna gli aveva voltato le spalle quando questi tedeschi
avevano preso d'assalto la cucina con le armi in pugno. Giovani, sotto i
trenta, quello vicino a lui, il cui nome Rosenthal non conosceva, era di
Berlino o della Prussia occidentale, a giudicare dall'accento, ed era stato di
recente uno skinhead o almeno così pareva da quei capelli come stoppia stile
militare che spuntavano dalla sua testa senza copricapo. Un prodotto della
DDR, l'ora defunta Germania orientale. Uno dei neo nazisti cresciuti in quella
nazione comunista ormai crollata. Da ragazzo, Rosenthal aveva conosciuto i
loro predecessori nel campo di concentramento di Belzec e, anche se era riuscito
a sopravvivere a quell'esperienza, era di nuovo sopraffatto dal terrore di
avere la propria vita alla mercé del capriccio di un pazzo con occhi crudeli da
porco... Rosenthal chiuse gli occhi. Aveva ancora gli incubi che
s'accompagnavano al numero di cinque cifre tatuato sul suo avambraccio. Una
volta al mese, si svegliava ancora fradicio di sudore dopo aver rivisto le
immagini di quelle persone che entravano marciando dentro un edificio da cui
nessuno era mai uscito vivo... e sempre nell'incubo qualcuno con il volto
crudele di una giovane SS che gli fa cenno di seguirli là dentro, perché ha
bisogno di una doccia. Oh, no, protesta nel sogno, Brandt ha bisogno di
me nel laboratorio metallurgico. Non oggi, giudeo, dice il giovane
sottufficiale delle SS, con quel sorriso spettrale, Komm jetzt zu dem
Braüserbad.
Ogni volta cammina come comandato, che altro può fare, diritto verso la
porta, e poi ogni volta si sveglia, bagnato di sudore e sicuro che, se non si fosse
risvegliato... proprio come tutta quella gente che aveva visto marciare in
quel modo...
Vi sono molti tipi di paura e Klaus Rosenthal era in preda al peggiore di
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tutti. La sua era la certezza che sarebbe morto per mano di uno di loro, i
tedeschi cattivi, quelli che semplicemente non riconoscevano o non si
preoccupavano dell'umanità degli altri, e non c'era alcun conforto in questa
certezza.
Quella gentaglia non se n'era andata del tutto, non erano ancora tutti
morti. Uno era proprio sotto i suoi occhi, con in mano una pistola
mitragliatrice, che guardava Rosenthal e gli altri nella cucina come Objekte,
semplici oggetti. Gli altri domestici, tutti cristiani, non avevano mai fatto
quest'esperienza, ma Klaus Rosenthal sì, e lui sapeva che cosa aspettarsi e
sapeva che era una certezza. Il suo incubo era reale, sorto dal passato per
compiere il suo destino e poi uccidere anche Hilda, perché il suo cuore non ce
l'avrebbe fatta. Un tempo era stato un orfanello apprendista presso un
gioielliere, dove aveva imparato a fabbricare oggetti fini di metallo, un
mestiere che gli aveva salvato la vita, un mestiere che non aveva mai più fatto
dopo, così orribili erano le memorie associate a esso. Invece aveva trovato la
pace nel lavorare la terra, far crescere cose viventi belle e robuste. Aveva quel
dono; Ostermann l'aveva riconosciuto offrendogli un impiego a vita nel suo
schloss. Ma quel dono non importava a questo nazista con la stoppia sulla
testa e un'arma nelle mani.
Ding sorvegliò il posizionamento delle fotoelettriche. Il capitano Altmark
camminò con lui verso ogni autocarro, poi dissero entrambi all'autista
esattamente dove andare. Quando i mezzi furono a posto e vennero sollevate
le strutture telescopiche con i riflettori, Chavez ritornò dal suo team e tracciò
il piano. Erano passate le 11. Era incredibile come volasse il tempo quando
era indispensabile averne molto a disposizione.
L'equipaggio dell'elicottero era là, seduto tranquillamente, bevendo
caffè come bravi aviatori e chiedendosi che diavolo sarebbe successo poi.
Risultò che il copilota aveva una certa rassomiglianza con Eddie Price, un
fatto che Ding decise di sfruttare come elemento finale di supporto al suo
piano.
Alle 11.20, ordinò di accendere i riflettori. La facciata e i due lati dello
schloss furono illuminati con una luce giallo-bianca, ma non il retro, che
proiettava un'ombra triangolare fino all'elicottero e oltre, tra gli alberi.
«Oso», disse Chavez, «va' da Dieter e appostati da quelle parti.»
«D'accordo, 'migo.» Il sergente Vega si mise la sua mitragliatrice M-60 sulle
spalle e s'inoltrò nel bosco.
169
Louis Loiselle e George Tomlinson avevano la parte più difficile.
Indossavano le loro tute verde scuro; sopra l'uniforme operativa nera
assomigliavano a carta millimetrata, uno sfondo verde un po' più chiaro
attraversato da righe verdi più scure, formando riquadri di circa tre centimetri
di lato. Alcuni dei riquadri erano riempiti a caso con lo stesso verde scuro,
formando un disegno a scacchi senza schema. L'idea risaliva ai caccia
notturni della Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale, i cui
progettisti avevano deciso che la notte di per sé era abbastanza scura e che i
caccia dipinti di nero erano più facili da vedere perché erano ancora più
scuri. Queste tute funzionavano nelle esercitazioni. Ora avrebbero visto se
funzionavano nella realtà. Le luci intense sarebbero state d'aiuto; dirette
verso lo schloss e un po' sopra di esso, sarebbero servite a creare un pozzo
artificiale di oscurità nel quale le uniformi verdi sarebbero scomparse.
L'avevano provato a Hereford abbastanza spesso, ma mai con vite umane a
rischio. Nonostante questo fatto, Tomlinson e Loiselle si mossero da direzioni differenti, tenendosi per tutto il percorso all'interno dell'ombra
triangolare. Dovettero strisciare per venti minuti.
«Allora, Altmark», disse Hans Fürchtner alle 11.45, «è tutto sistemato, o
dobbiamo uccidere uno degli ostaggi tra pochi minuti?»
«Per favore, non lo faccia, Herr Wolfgang. Abbiamo l'equipaggio
dell'elicottero per strada e stiamo discutendo con la compagnia aerea
per farci consegnare il velivolo pronto per il volo. È più difficile di quanto
lei immagini organizzare queste cose.»
«Tra quindici minuti vedremo quanto è difficile, Herr Altmark.»
E la linea si interruppe.
Bellow non ebbe bisogno di un traduttore. Bastava il tono. «Lo
farà», disse lo psichiatra ad Altmark e Chavez. «L'ultimatum è reale.»
«Tirate fuori l'equipaggio», ordinò subito Ding. Dopo tre minuti,
un'auto della polizia si avvicinò all'elicottero. Ne uscirono due uomini
ed entrarono nel Sikorsky mentre la macchina ripartiva. Dopo due
minuti, il rotore cominciò a girare. Poi Chavez prese il microfono.
«Team, qui è il comandante. Tenersi pronti. Ripeto, tenersi
pronti.»
«Ottimo!» esclamò Fürchtner. Vedeva appena il rotore girare, ma le luci
di posizione lampeggianti furono abbastanza eloquenti. «Allora,
cominciamo. Herr Ostermann, si alzi!»
170
Petra Dortmund si avviò giù per le scale seguita dagli ostaggi. Aveva
l'espressione accigliata, domandandosi se doveva sentirsi delusa del fatto
che non avevano ucciso questo Dengler per dimostrare la loro
determinazione. Quel momento sarebbe potuto arrivare più tardi
quando avessero iniziato gli interrogatori seri a bordo del velivolo, e
forse Dengler sapeva tutto quello che faceva Ostermann. In tal caso,
ucciderlo sarebbe stato forse un errore tattico. La terrorista attivò la
radio e chiamò il resto dei suoi. Si stavano raccogliendo nell'ingresso
mentre lei scendeva per la scala principale, insieme con i sei ostaggi
dalla cucina. No, decise una volta sulla porta, sarebbe stato meglio
uccidere un ostaggio donna. Avrebbe avuto un impatto maggiore sulle
forze di polizia all'esterno, tanto più se fosse stata uccisa da un'altra
donna...
«Siete pronti?» chiese Petra, ricevendo un cenno dagli altri quattro
della sua banda. «Tutto come abbiamo programmato.» Questa gente era
deludente dal punto di vista ideologico, nonostante fossero cresciuti e
fossero stati educati in un paese realmente socialista; tre di loro
avevano avuto persino un addestramento militare, che aveva
compreso un indottrinamento politico. Ma conoscevano i loro compiti,
e li avevano svolti fino a questo punto. Non poteva chiedere di più. La
servitù stava arrivando dalla zona della cucina.
Uno dei cuochi aveva problemi a camminare e Rosenthal, quando
si fermò vicino al grande tavolo di preparazione dei pasti, si accorse che
questo dava fastidio al porco con i capelli come stoppia. Lo stavano
portando a morire, e come nel suo incubo lui non faceva nulla. Questa
percezione lo assalì così all'improvviso da causargli una tremenda
ondata di dolore fisico. Si voltò di colpo a sinistra, notando un
coltello da frutta sopra il tavolo. La sua testa scattò in avanti, e vide il
terrorista che guardava Maria, una cuoca. In quel momento, prese la
decisione, e con un gesto fulmineo afferrò il coltello, infilandoselo
nella manica destra. Forse il destino gli avrebbe dato una possibilità. In
tal caso, Klaus Rosenthal promise a se stesso, questa volta non se la
sarebbe lasciata scappare.
«Team 2, qui il comandante», comunicò Chavez per radio. «Dovremmo
iniziare a farli uscire tra breve. Controllo per tutti.» Ascoltò prima di
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tutto il doppio clic, da Loiselle e Tomlinson vicini allo schloss, poi i
nomi.
«Tiratore Due-Uno», disse Homer Johnston. Il sistema di visione
notturna era collegato al suo mirino telescopico e si orientava sulle
porte posteriori principali dell'edificio, mentre il tiratore controllava il
proprio respiro in modo da stabilizzarlo.
«Tiratore Due-Due», chiamò Weber un secondo dopo.
«Oso», riferì Vega. Si inumidì le labbra mentre posizionava il calcio
dell'arma contro la spalla, il viso coperto di crema speciale per
mimetizzarsi.
«Connolly.»
«Lincoln.»
«McTyler.»
«Patterson.»
«Pierce.» Tutti erano pronti nelle loro postazioni sull'erba.
«Price», rispose il sergente maggiore dal sedile anteriore sinistro
della cabina di pilotaggio dell'elicottero.
«Okay, al team, togliere la sicura alle armi. In vigore le normali egole
d'ingaggio. Tenetevi pronti, ragazzi», aggiunse Chavez senza che
fosse necessario. In un caso come quello, era difficile per il
comandante smettere di parlare. Si trovava a un'ottantina di metri
dall'elicottero, a una distanza limite per la sua MP-10, con il visore
notturno puntato sull'edificio.
«Si apre la porta», riferì Weber una frazione prima di Johnston.
«Vedo movimento», confermò il tiratore Due-Uno.
«Capitano Altmark, qui è Chavez, far spegnere le tv ora», ordinò
Ding sulla sua radio secondaria.
«Ja, capisco», rispose il capitano di polizia. Si voltò e gridò un ordine al
direttore della tv. Le telecamere sarebbero rimaste in funzione ma non
avrebbero trasmesso, e i nastri da quel punto in poi sarebbero stati
considerati informazioni classificate. Il segnale in uscita ora
mostrava soltanto alcune persone che parlavano.
«Porta aperta ora», comunicò Johnston dal suo punto d'osservazione.
«Vedo un ostaggio, sembra un cuoco, e un obiettivo, donna, capelli
scuri, impugna una pistola.» Il sergente Johnston ordinò a se stesso di
rilassarsi, tenendo il dito staccato dal grilletto a doppia corsa del suo
fucile. Ora non poteva sparare senza un ordine diretto di Ding e
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quell'ordine non sarebbe arrivato in una situazione simile. «Secondo
ostaggio in vista, è il Piccolo», trasmise, per indicare Dengler.
Ostermann era il Grande, e le segretarie erano Biondina e Moretta,
chiamate così dal colore dei capelli. Non avevano foto dei domestici,
pertanto loro non avevano nomi. I terroristi conosciuti erano "obiettivi".
Johnston li vide esitare sulla porta. Doveva essere un momento terribile
per loro, anche se quanto terribile non lo avrebbero mai saputo né potuto
sapere. Cazzi tuoi, pensò, centrando il reticolo del mirino sul viso di lei
da oltre duecento metri, distanza che era equivalente a tre metri per il
tiratore. «Vieni fuori, tesoro», disse con un sospiro. «Abbiamo qualcosa
di davvero speciale per te e i tuoi amici. Dieter?» chiese, attivando la
radio.
«Sul bersaglio, Homer», rispose il tiratore Due-Due. «Conosciamo
questa faccia, mi sembra... non riesco a ricordare il nome. Comandante,
qui tiratore Due-Due...»
«Parla, tiratore Due.»
«L'obiettivo donna, abbiamo visto la sua faccia di recente. È più
vecchia ora, ma la conosco. Baader-Meinhof, fazione Armata Rossa,
una di quelli, penso, agisce con un uomo. Marxista, terrorista esperta,
assassina... ha ucciso un soldato americano, mi sembra.» Nessuna di tali
notizie era particolar-mente risolutiva, ma una faccia nota era una
faccia nota.
Price intervenne, pensando al programma fisionomico al computer con
cui avevano giocato nei primi giorni della settimana. «Petra Dortmund,
forse?»
«Ja! È lei! E il suo compagno è Hans Fürchtner», rispose Weber.
«Komm 'raus, Petra», proseguì nella sua lingua madre. «Komm mir,
Liebschen.»
Qualcosa la disturbava. Si rivelò difficile anche solo camminare fuori
dallo schloss sul prato aperto sul retro, anche se riusciva a vedere
chiaramente l'elicottero con le sue luci di posizione lampeggianti e il
rotore in movimento. Fece un passo o fu sul punto di farlo, il suo
piede non voleva fare il movimento in fuori e in giù sui gradini di
granito, i suoi occhi azzurri socchiusi poiché gli alberi a est e a ovest
dello schloss erano intensamente illuminati dalle luci sull'altro lato
della casa, con l'ombra che si allungava fino all'elicottero come un
dito nero; forse quello che le dava fastidio era quell'immagine simile
173
alla morte che le si parava davanti. Poi scosse la testa, come per
scacciare quel pensiero, quasi si trattasse di qualche superstizione poco
dignitosa. Diede uno strattone ai suoi due ostaggi e scese i sei gradini fino
all'erba, poi fuori, verso il velivolo in attesa.
«Sei sicuro dell'identificazione, Dieter?» domandò Chavez.
«Ja, sì, signore. Petra Dortmund.»
Vicino a Chavez, il dottor Bellow cercò il nome sul suo computer
portatile. «Età quarantaquattro anni, ex Baader-Meinhof, molto
ideologizzata, e si dice che sia senza pietà. Sono informazioni vecchie
di dieci anni. Non sembra che siano cambiate di molto. Il compagno
era un certo Hans Fürchtner. Si suppone che siano sposati, innamorati,
qualcosa di simile, personalità molto compatibili... sono assassini, Ding.»
«Per il momento, lo sono», rispose Chavez, osservando le tre figure
attraversare il prato.
«Lei ha una bomba a mano, sembra del tipo a frammentazione»,
precisò Homer Johnston. «Mano sinistra, ripeto, sinistra.»
«Confermato», intervenne Weber. «Vedo la bomba a mano. La sicura è
inserita. Ripeto, la sicura è inserita.»
«Perfetto!» ringhiò alla radio Eddie Price. Fottuto Fürstenfeldbrück
di nuovo, pensò, legato dentro l'elicottero, che avrebbe ospitato la
bomba a mano e la folle che avrebbe potuto tirare quella maledetta sicura.
«Qui Price. Solo una bomba?»
«Ne vedo solo una», rispose Johnston, «nessun rigonfiamento nelle sue
tasche o altro, Eddie. Pistola nella mano destra, granata in quella
sinistra.»
«Confermo», aggiunse Weber.
«Non è mancina», comunicò sul circuito radio Bellow, dopo aver
verificato i dati conosciuti su Petra Dortmund. «L'obiettivo Dortmund non
è mancina.»
Il che spiega perché la pistola è là e la bomba a mano è nella sinistra,
rifletté Price. Significava anche che, se decideva di lanciare la granata
bene, avrebbe dovuto cambiare mano. Almeno una buona notizia,
pensò. Forse era da tanto tempo che non giocava con una di quelle
dannate cose. Forse aveva persino paura di cose che facevano un botto,
aggiunse speranzosa la sua mente. Alcuni portavano quei maledetti
174
ordigni solo per fare più effetto. Ora poteva vederla che camminava con
passo regolare verso l'elicottero.
«Obiettivo uomo in vista... Fürchtner», annunciò per radio Johnston.
«Ha il Grande con sé... e anche Moretta, mi pare.»
«Confermo», intervenne Weber, osservando attraverso il mirino a
dieci ingrandimenti. «L'obiettivo Fürchtner, il Grande e Moretta sono in
vista. Fürchtner appare armato solo di pistola. Ora comincia a scendere
i gradini. Un altro obiettivo sulla porta, armato con pistola mitragliatrice,
due ostaggi con lui.»
«Sono furbi», osservò Chavez, «vengono fuori in gruppi. Il nostro
amico ha cominciato a scendere quando la sua amica era a metà
strada... vedremo se il resto fa lo stesso...» Quattro, forse cinque gruppi in
campo aperto. Bastardi astuti, ma non abbastanza... forse.
Mentre si avvicinavano all'elicottero, Price uscì e aprì i portelli su
entrambi i lati per farli salire. Aveva già nascosto la pistola nel vano
portacarte del sedile sinistro riservato al copilota. Lanciò uno sguardo
al pilota.
«Comportati normalmente, la situazione è sotto controllo.»
«Se lo dici tu, inglese», rispose il pilota, con voce rauca, tesa.
«L'elicottero non lascia il suolo in nessun caso. Capito?» Ne avevano
già parlato prima, ma ripetere le istruzioni era il modo migliore per
sopravvivere in una situazione come questa.
«Sì. Se mi costringono, lo metto giù dalla tua parte e grido al guasto.»
Maledettamente gentile da parte tua, pensò Price. Indossava una
camicia azzurra e il distintivo con le ali di pilota sopra il taschino, oltre
alla targhetta con il nome che lo identificava come Tony. Una capsula
miniaturizzata senza fili inserita nell'orecchio gli permetteva il
collegamento radio con il resto del team, insieme con un chip
microfonico dentro il colletto.
«Da sessanta metri, una donna non molto attraente», fece notare ai
suoi compagni di squadra.
«Sfiorati i capelli se riesci a sentirmi», gli ordinò Chavez dalla sua
posizione. Un attimo dopo, vide la mano sinistra di Price sollevarsi
nervosamente per portare indietro i capelli. «Okay, Eddie. Sta' calmo,
ragazzo.»
«Obiettivo armato sulla porta con i tre ostaggi», avvertì Weber.
«No, no, due obiettivi armati con tre ostaggi. L'ostaggio Biondina è
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con questo gruppo. Uomo anziano e donna di mezz'età, tutti vestiti
come domestici.»
«Manca ancora almeno un terrorista», sospirò Ding, «e almeno tre
ostaggi. L'elicottero non può portarli tutti...» Che cosa pensavano di fare
con gli altri? si chiese. Ucciderli?
«Vedo altri due obiettivi armati e tre ostaggi all'interno della porta
posteriore», riferì Johnston.
«Ecco tutti gli ostaggi», annunciò Noonan. «Sei obiettivi in tutto,
allora. Come sono armati, tiratore Uno?»
«Pistole mitragliatrici, sembrano Uzi o la sua copia ceca. Ora si
spostano verso la porta.»
«Perfetto, li vedo», confermò Chavez, guardando nel binocolo.
«Tiratori, mirate all'obiettivo Dortmund.»
«Sul bersaglio», riuscì a dire per primo Weber. Johnston si girò per
prendere la mira una frazione di secondo più tardi e poi rimase
immobile.
Di notte, l'occhio umano è particolarmente sensibile al movimento.
Quando Johnston si mosse in senso orario per prendere la mira, Petra
Dortmund pensò di aver visto qualcosa. Si bloccò di colpo, anche se non
sapeva che cosa l'avesse fatta fermare. Fissò lo sguardo verso Johnston,
ma la tuta mimetica sembrava un mucchio di qualcosa, erba, foglie o
terra, non riusciva a capire nella semioscurità della luce verde che veniva
riflessa dai pini. Non aveva una forma umana e la sagoma del fucile si
perdeva nel garbuglio ben oltre un centinaio di metri da lei. Anche
così, continuò a guardare, senza muovere la mano con la pistola, sul suo
volto un'espressione di curiosità, nessuna traccia d'allarme. Attraverso il
mirino, l'occhio sinistro aperto del sergente Johnston riuscì a vedere le
luci di posizione rosse dell'elicottero che lampeggiavano sul campo
attorno a lui, mentre l'occhio destro vide il reticolo del mirino centrato
poco sopra e tra gli occhi di Petra Dortmund. Ora aveva il dito sul
grilletto. Il momento durò alcuni secondi e la sua visione periferica
osservò soprattutto la mano armata di lei. Se si muoveva troppo, allora...
Ma non lo fece. Lei riprese a camminare verso l'elicottero, con sollievo
di Johnston, ignara che due fucili di precisione seguivano la sua testa ogni
centimetro del percorso. La fase successiva iniziò quando giunse
all'elicottero. Se avesse girato attorno al lato destro, Johnston l'avrebbe
persa, lasciandola al fucile di Weber. Se fosse andata a sinistra, l'avrebbe
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persa Dieter lasciandola solo al suo fucile. Sembrò favorire... sì, la
Dortmund si portò sul lato sinistro.
«Tiratore Due-Due fuori bersaglio», riferì subito Weber. «In questo
momento non ho nessuno nella mira.»
«Sul bersaglio, tiratore Due-Uno sul bersaglio», assicurò Johnston a
Chavez. Hmm, fa' salire per primo il Piccolo, tesoro, pensò con tutta la
sua forza.
Petra Dortmund fece proprio quello, spingendo Dengler attraverso il
portello di sinistra davanti a lei, forse pensando di sedersi lei stessa nel
mezzo, in modo da essere meno vulnerabile a un colpo sparato
dall'esterno. Un bel pensiero tattico, pensò Homer Johnston, ma in questo
caso sbagliato. Una disdetta, puttana.
Per il momento, il conforto dell'ambiente familiare dato dall'elicottero
sfuggiva a Gerhardt Dengler. Si allacciò la cintura sotto la mira della
pistola di Petra, ordinando a se stesso di rilassarsi e di avere coraggio,
come dovrebbero fare gli uomini in casi del genere. Poi guardò avanti e
subentrò in lui una speranza. Il pilota era il solito, ma il copilota no.
Chiunque fosse, stava agendo sugli strumenti come facevano gli
equipaggi, ma non era lui, anche se la forma della testa e il colore dei
capelli erano quasi gli stessi ed entrambi indossavano le camicie bianche
con le spalline azzurre che i piloti privati sono soliti adottare come
divisa. I loro occhi si incrociarono e Dengler guardò in basso e fuori
per timore di lasciar capire qualcosa.
Brav'uomo, pensò Eddie Price. La sua pistola si trovava nella tasca
portadocumenti sul lato sinistro, ben nascosta sotto una pila di carte di
volo, ma facile da prendere con la mano sinistra. L'avrebbe
impugnata, poi si sarebbe girato rapidamente, l'avrebbe sollevata e
avrebbe fatto fuoco se si fosse arrivati a quel punto. Nascosto
nell'orecchio sinistro, il ricevitore radio, che sembrava un apparecchio
acustico se qualcuno l'avesse visto, lo teneva informato, anche se era
un po' difficile sentire con i rumori dei propulsori e del rotore del
Sikorsky. La pistola di Petra oscillava alternativamente contro di lui o
contro il pilota.
«Tiratori, avete i bersagli?» chiese Chavez.
«Tiratore Due-Uno, affermativo, bersaglio nel mirino.»
«Tiratore Due-Due, negativo, ho qualcosa in mezzo. Suggerisco di
portarmi sull'obiettivo Fürchtner.»
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«Bene, tiratore Due-Due, portarsi su Fürchtner. Tiratore Due-Uno,
Dortmund è tutta tua.»
«D'accordo, comandante», confermò Johnston. «Tiratore Due-Uno ha
l'obiettivo Dortmund completamente nel mirino.» Il sergente rimisurò
la distanza con il laser. 144 metri. La traiettoria della sua palla si
sarebbe abbassata di circa due centimetri e impostare il mirino sui 250
metri era un po' eccessivo. Modificò la mira tenendo il centro del reticolo
poco sotto l'occhio sinistro del bersaglio. La fisica avrebbe fatto il resto. Il
suo fucile disponeva di grilletto a doppia corsa come quelli da tiro al
bersaglio. All'elicottero non sarebbe stato consentito il decollo. La
preoccupazione più immediata però era quella di non permettere agli
obiettivi di chiudere il portello di sinistra. La sua pallottola da 7 mm
avrebbe probabilmente perforato il finestrino in policarbonato, ma la
traiettoria sarebbe stata deviata in modo imprevedibile, forse causando un
centro mancato, o magari provocando la morte o il ferimento
dell'ostaggio. Non poteva permettere che ciò avvenisse.
Chavez adesso era al di fuori dell'azione, a comandare invece che a
guidare, qualcosa in cui si era esercitato ma che non gli andava molto a
genio. Era più facile essere là, con una pistola tra le mani, piuttosto che
restare indietro e dire agli altri che cosa fare comandandoli a distanza. Ma
non aveva scelta. Bene, pensò, abbiamo il Numero Uno nell'elicottero e
un fucile puntato su di lei. Il Numero Due era all'aperto, a due terzi del
cammino verso l'elicottero e un fucile lo teneva sotto mira. Altri due
terroristi stavano arrivando a metà del percorso, con Mike Pierce e Steve
Lincoln a 40 metri di distanza e gli ultimi due obiettivi ancora nella casa,
con Louis Loiselle e George Tomlinson tra i cespugli alla loro destra e
alla loro sinistra. A meno che i terroristi non avessero lasciato qualcuno
come retroguardia nell'edificio uno o più obiettivi che sarebbero usciti
solo dopo che il resto era arrivato all'elicottero... molto improbabile,
giudicò Chavez, e in ogni caso, tutti gli ostaggi erano o all'aperto o ben
presto lo sarebbero stati; ricordò a se stesso che la missione era
salvare loro, non necessariamente uccidere i criminali. Non era un gioco e
nemmeno uno sport, e il suo piano, già spiegato ai membri del team 2,
stava funzionando. La chiave di tutto era il gruppo finale di obiettivi.
Rosenthal vide i tiratori. Era prevedibile, sebbene a nessuno fosse venuto
in mente. Era il capo giardiniere. Il prato era suo e le strane pile di
materiale a sinistra e a destra dell'elicottero indicavano che qualcosa era
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cambiato. Aveva visto programmi e film alla tv. Si trattava di un attacco
terroristico e la polizia avrebbe risposto in qualche modo. Là fuori erano
appostati degli uomini armati, e quelle due cose sul prato non c'erano alla
mattina. I suoi occhi indugiarono sulla postazione di Weber. Là c'era la sua
salvezza o la sua morte. Chi poteva dirlo ora... e quel fatto gli fece
contrarre lo stomaco.
«Ecco che arrivano», annunciò George Tomlinson, quando vide
due gambe spuntare dalla casa... gambe di donna, seguite da un uomo,
poi ancora due paia di gambe di donna... e poi di un uomo. «Un
obiettivo e due ostaggi fuori. Devono venire ancora due ostaggi...»
Fürchtner era quasi là, diretto verso il lato destro dell'elicottero,
con grande sollievo di Dieter Weber. Ma poi si fermò, guardando
attraverso il portello di destra aperto dove era seduto Gerhardt
Dengler e decise di andare dalla parte opposta.
«Bene, team, in attesa», ordinò Chavez, cercando di tenere i quattro
gruppi sotto lo stesso controllo e facendo scorrere il binocolo sul
campo. Non appena l'ultimo fu all'aperto...
«Tu, va' dentro, rivolta all'indietro.» Fürchtner spinse Moretta verso
l'elicottero.
«Tiratore Due-Due fuori bersaglio, non vedo l'obiettivo», annunciò
Weber piuttosto forte alla radio.
«Cambiare bersaglio sul gruppo successivo», ordinò Chavez.
«Fatto», confermò Weber. «Sono sull'obiettivo alla guida del gruppo
tre.»
«Tiratore Due-Uno, comunicare.»
«Tiratore Due-Uno sull'obiettivo Dortmund», rispose subito Homer
Johnston.
«Qui pronti!» annunciò poi Loiselle dai cespugli sul retro della casa.
«Ora vediamo il quarto gruppo.»
Chavez trasse un sospiro profondo. Tutti i terroristi erano all'aperto, era
il momento:
«Comandante al team, esecuzione, esecuzione, esecuzione!»
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Loiselle e Tomlinson erano già in posizione pronti ad alzarsi in piedi,
ed entrambi quasi saltarono su senza essere visti, sette metri dietro i
loro bersagli, che guardavano dalla parte sbagliata e non avevano
alcun sentore di quello che stava succedendo alle loro spalle.
Entrambi i militari allinearono sui loro bersagli i mirini illuminati al
tritio. Tutti e due stavano spingendo e tirando le donne e ambedue erano
più alti dei loro ostaggi, il che rendeva le cose facili. Le due pistole
mitragliatrici MP-10 avevano il selettore sulla raffica da tre colpi e i
due sergenti spararono nello stesso istante. Non ci fu un rumore
immediato. Le loro armi erano completamente silenziate con una
soluzione che prevedeva che la canna e il silenziatore fossero
integrati, e la distanza era troppo breve per mancare i bersagli. Due
diverse teste furono spaccate a metà da impatti multipli di grosse
pallottole a punta cava e i due corpi si afflosciarono nell'erba verde
lussureggiante quasi nello stesso istante in cui venivano espulsi i bossoli
dalle armi che li avevano uccisi.
«Qui George. Due obiettivi eliminati!» confermò per radio Tomlinson,
mentre correva per raggiungere gli ostaggi che stavano ancora
camminando verso l'elicottero.
Homer stava cominciando a farsi piccolo quando una sagoma entrò nel
suo campo visivo. Sembrava un corpo femminile dalla blusa di seta
chiara, ma la sua immagine nel mirino non era ancora oscurata e con
il reticolo centrato proprio sotto l'occhio sinistro di Petra Dortmund,
il suo indice destro tirò delicatamente indietro il grilletto. Il fucile
emise un ruggito, emettendo dalla bocca un lampo lungo un metro
nell'aria tranquilla della notte... lei riuscì appena a scorgere due
pallidi bagliori in direzione della casa, ma non ebbe il tempo di
reagire quando la pallottola la colpì nell'orbita, proprio sopra
l'occhio sinistro. Attraversò la parte più spessa del cranio, proseguì
per pochi centimetri e si frammentò in oltre un centinaio di
schegge, riducendo in poltiglia i tessuti del suo cervello. Poi
esplosero uscendo dalla parte posteriore del cranio in una nuvola
rossastra che si dilatò e schizzò sul volto di Gerhardt Dengler... Johnston azionò l'otturatore, ruotando il fucile in cerca di un altro
bersaglio; aveva visto la pallottola spedire il primo terrorista all'altro
mondo.
Eddie Price vide il lampo, e le sue mani si stavano già muovendo
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dall'istante del comando esecuzione ricevuto mezzo secondo prima. Tirò
fuori la pistola dalla tasca portadocumenti e si fondò fuori dall'elicottero,
puntando con una mano l'arma alla testa di Hans Fürchtner ed
esplodendo un colpo subito sotto il suo occhio sinistro, che si dilatò ed
esplose fuori dalla sommità della testa. Seguì un secondo colpo, più alto,
in realtà non ben mirato, ma Fürchtner era già morto; cadde a terra, con
la mano ancora aggrappata all'omero di Ostermann, tirandolo giù
un po' finché la stretta delle sue dita non si allentò.
Ne rimanevano due. Steve Lincoln prese bene la mira stando in
ginocchio, poi si fermò quando il suo bersaglio passò dietro la testa di un
uomo anziano che indossava un gilet. «Merda», imprecò.
Weber prese l'altro, la cui testa, all'impatto della pallottola,
esplose come un melone.
Rosenthal vide il cranio spaccarsi come accadeva nei film dell'orrore, ma il
bersaglio con i capelli come stoppia era ancora lì, con gli occhi di colpo
spalancati e una pistola mitragliatrice ancora in mano... e nessuno gli stava
sparando, mentre era in piedi vicino a lui. In quell'istante gli occhi di Testa
di Stoppia incontrarono i suoi e fu un momento di terrore-odio-choc; lo
stomaco di Rosenthal si trasformò d'improvviso in ghiaccio e tutto il
tempo si fermò attorno a lui. Il coltello da frutta uscì dalla sua manica e gli
finì nella mano, che sollevò con violenza, colpendo il dorso della mano
sinistra di Testa di Stoppia. Questi sgranò ancor più gli occhi mentre il
vecchio si spostava di lato. Questa mossa aprì la strada a Steve Lincoln,
che sparò una seconda raffica di tre colpi, simultaneamente a una seconda
pallottola del fucile di precisione di Weber, e la testa del terrorista sembrò
scomparire.
«Libero!» gridò Price. «Elicottero libero!»
«Casa libera!» annunciò Tomlinson.
«Strada libera!» comunicò per ultimo Lincoln.
Loiselle e Tomlinson corsero verso il loro gruppo di ostaggi e li
trascinarono verso est, lontano dalla casa, per paura che ci fosse all'interno
qualche terrorista sopravvissuto che potesse sparare.
Mike Pierce fece lo stesso, con Steve Lincoln di copertura e appoggio.
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Fu più facile per Eddie Price, che per prima cosa con un calcio allontanò la
pistola dalla mano esanime di Fürchtner e fece un rapido controllo della testa
fracassata del suo bersaglio. Poi saltò sull'elicottero per accertarsi che la prima
raffica di Johnston fosse andata a segno. Gli bastò vedere la grande chiazza
rossa sulla paratia posteriore per capire che Petra Dortmund era nel luogo
dove andavano a finire i terroristi. Poi, con cura, tolse la granata dalla sua
mano sinistra irrigidita, verificando che la sicura fosse ancora al suo posto e
la mise in tasca. Infine prese la pistola dalla mano destra di lei, mise la sicura
e la buttò lontano.
«Mein Herr Gott!» esclamò senza fiato il pilota, guardandosi indietro.
Gerhardt Dengler sembrava morto anche lui, con il volto coperto sul lato
sinistro da una maschera rossa gocciolante e gli occhi aperti. Vedendolo Price
rimase per un attimo interdetto, finché non si accorse che le palpebre
battevano, ma la bocca era spalancata e l'uomo sembrava non respirare. Si
chinò per sganciargli la cintura di sicurezza, poi lo fece tirare giù dal
velivolo a John-ston. Il Piccolo fece un unico passo prima di cadere sulle
ginocchia. Johnston versò il contenuto della sua borraccia sul viso dell'uomo
per lavarlo dal sangue. Poi scaricò il suo fucile e lo appoggiò a terra.
«Bel lavoro, Eddie», disse a Price.
«E quello è stato un colpo davvero bello, Homer.»
Il sergente Johnston scrollò le spalle. «Avevo paura che la ragazza si
mettesse in mezzo. Un altro paio di secondi e non avrei avuto la possibilità. A
ogni modo, Eddie, un bel lavoro, uscire dall'elicottero ed eliminarlo prima
che io riuscissi a metter fuori combattimento il Numero Due.»
«Gli hai sparato?» chiese Price, mettendo la sicura alla sua pistola e
infilandola nella fondina.
«Perdita di tempo. Ho visto il suo cervello schizzare fuori al tuo primo
colpo.»
Arrivò un nugolo di poliziotti, oltre a un gruppo di ambulanze a sirene
spiegate. Il capitano Altmark si avvicinò all'elicottero, con Chavez al
fianco. Sebbene non fosse certo un novellino, lo spettacolo all'interno
dell'elicottero lo fece indietreggiare in silenzio.
«Non è mai bello», osservò Homer Johnston. Lui aveva già dato un'occhiata.
Il fucile e la pallottola si erano comportati come previsto. A parte ciò, era la
sua quarta eliminazione come tiratore, e se la gente voleva violare le leggi e
colpire gli innocenti, era un problema loro, non suo. Un altro trofeo che
non poteva appendere alla parete con le teste di cervo e di alce che aveva
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collezionato negli anni.
Price si diresse verso il gruppo, pescando dalla tasca la sua pipa ricurva di
erica bianca, che accese con un fiammifero da cucina, il suo immutabile
rituale per una missione compiuta.
Mike Pierce stava assistendo gli ostaggi, tutti per il momento seduti
mentre Steve Lincoln era in piedi accanto a loro, con la sua MP-10 in vista e
pronto per un altro bersaglio. Poi un gruppo di poliziotti austriaci corse
fuori dalla porta posteriore, comunicando che all'interno dell'edificio non
era rimasto alcun terrorista. Subito dopo, mise la sicura all'arma e se la pose
in spalla. Lincoln si avvicinò all'uomo anziano.
«Ben fatto», disse a Klaus Rosenthal.
«Che cosa?»
«Piantare il coltello nella sua mano. Ben fatto.»
«Oh, sì», osservò Pierce, guardando il cadavere sull'erba. «Sul dorso della
mano sinistra di quell'uomo c'era un profondo taglio. L'ha fatto lei?»
«Ja», fu tutto quello che Rosenthal riuscì a dire.
«Bene, buon per lei.» Pierce si chinò per stringergli la mano. Non
aveva in realtà avuto una grande importanza, ma la resistenza da parte di
un ostaggio era abbastanza rara ed era stata una mossa molto coraggiosa
per un vecchio.
«Amerikaner?»
«Sssst.» Il sergente Pierce si portò un dito sulle labbra. «La prego, non lo
dica a nessuno.»
Arrivò Price, tirando dalla sua pipa. Tra il fucile di precisione di Weber
e la raffica di MP-10 di qualcuno, la testa di questo obiettivo era
praticamente sparita. «Cazzo», osservò il sottufficiale.
«Beccato da Steve», riferì Pierce. «Questa volta non avevo la mira
libera. Bel colpo, Steve», aggiunse.
«Grazie, Mike», rispose il sergente Lincoln, sorvegliando l'area. «Sei
in totale?»
«Esatto», rispose Eddie, dirigendosi verso la casa. «Aspetta qui.»
«Colpi facili, entrambi», osservò a sua volta Tomlinson, circondato dai
poliziotti austriaci.
«Troppo alti per nascondersi», confermò Loiselle. Ebbe voglia di
fumare una sigaretta, anche se aveva smesso due anni prima. Ora i suoi
ostaggi stavano per essere evacuati, lasciando i due terroristi sull'erba
verde, che il loro sangue, pensò, avrebbe fertilizzato. Il sangue è un
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buon concime. Una così bella casa. Peccato non aver avuto la
possibilità di visitarla.
Dopo venti minuti, il team 2 era tornato nel punto di ritrovo. Si
cambiarono e impacchettarono le armi con il resto dell'equipaggiamento
per il viaggio di ritorno all'aeroporto. Le luci della tv e le telecamere
erano in funzione, ma abbastanza lontano. Ora il distaccamento speciale
si stava rilassando, lo stress si scioglieva con il riuscito compimento della
missione. Price tirò una boccata dalla sua pipa fuori dal pulmino, poi la
picchiò contro il tacco dello stivale prima di salire a bordo.
8
COPERTURA
Il servizio televisivo fu mandato in onda prima che il team 2 arrivasse a
Heathrow. Per fortuna, il filmato fu ostacolato dalla grande mole
dello schloss e dal fatto che la Staatspolizei aveva tenuto le telecamere
ben distanti dagli eventi, e sul lato sbagliato all'edificio. In pratica,
l'unica ripresa decente fu quella del membro del nucleo d'intervento
che si accendeva la pipa, seguito dal riassunto dei fatti da parte del
capitano Wilhelm Altmark per il gruppo dei cronisti. Una squadra
speciale e, fino a quel momento, segreta della polizia federale del
paese aveva gestito in modo efficiente l'assalto allo Schloss Ostermann
salvando tutti gli ostaggi... no, nessun criminale era stato arrestato.
Tutto il materiale sarebbe stato utilizzato in seguito dallo staff di Bill
Tawney dopo averlo registrato dalla televisione di stato austriaca, da Sky
News e da ogni altro notiziario europeo che aveva seguito l'evento.
Benché la British Sky News fosse riuscita a portare le proprie
telecamere a Vienna, l'unica differenza tra i suoi servizi e quelli delle
tv locali fu l'angolazione. Anche i vari commenti di addetti ai lavori
furono molto simili: unità di polizia appositamente addestrata ed
equipaggiata, probabilmente con uomini dell'esercito austriaco; azione
decisiva per risolvere l'incidente senza danni per gli ostaggi liberati;
ancora un punto per i buoni. l'identità dei criminali non fu resa nota con i
primi notiziari. Scoprirla sarebbe stato compito della polizia e i risultati
sarebbero arrivati alla sezione intelligente di Tawney, insieme con le
deposizioni degli ostaggi.
Era stata una giornata molto lunga per il team 2 e, al rientro a
184
Hereford, tutti andarono a dormire con l'annuncio da parte di Chavez
che sarebbero stati dispensati, il giorno successivo, dagli esercizi fisici
mattutini. Non ci fu nemmeno il tempo per brindare con qualche boccale
di birra al circolo sottufficiali, che d'altra parte all'ora in cui tornarono a
casa era chiuso. Nel volo di rientro, Chavez fece osservare al dottor
Bellow che, nonostante la forma dei suoi uomini, il fattore fatica si
faceva sentire, più che non durante le loro esercitazioni notturne. Bellow
rispose che lo stress era il maggiore generatore di fatica, e che i membri
del team non ne erano immuni, indipendentemente dal loro addestramento
o dalla loro forma fisica. Includeva se stesso, dato che dopo aver fatto
questa osservazione, Bellow si girò e cadde addormentato, lasciando che
Chavez facesse lo stesso dopo un bicchiere di vino rosso spagnolo.
Naturalmente in Austria fu la notizia principale. Popov ne sentì il
primo pezzo in una Gasthaus, poi un altro nella sua camera d'albergo.
Sorseggiò uno schnapps all'arancia mentre seguiva lo schermo con
occhio attento e professionale. Questi nuclei antiterrorismo
funzionavano più o meno tutti allo stesso modo, ma c'era da
aspettarselo, dato che venivano tutti addestrati a fare le stesse cose e
seguivano lo stesso manuale internazionale ― messo a punto per primo
dagli inglesi con i loro Special Air Service, seguiti dal GSG-9 tedesco,
poi dal resto d'Europa e infine dagli americani ― fino al particolare
degli indumenti neri, che Popov riteneva un po' teatrali. Ma d'altra
parte dovevano ben indossare qualcosa, e vestirsi di nero aveva più
senso che non di bianco. D'interesse più immediato era la valigetta di
cuoio piena di marchi tedeschi, che avrebbe portato a Berna il giorno
dopo, per depositarli sul suo conto prima di ritornare in volo a New York.
Notevole, pensò spegnendo la tv e tirandosi su le coperte, due lavori
semplici e ora aveva oltre un milione di dollari americani sul suo conto
numerato e anonimo. Qualunque cosa i suoi datori di lavoro
volevano che eseguisse per loro, veniva ben compensato e non
sembravano preoccupati delle spese. Tanto meglio che il denaro
andasse per una buona causa, pensò il russo.
«Grazie a Dio», osservò George Winston. «Perbacco, lo conosco.
Erwin è un brav'uomo», disse il segretario al Tesoro uscendo dalla Casa
Bianca, dove la riunione di gabinetto era durata più del solito.
185
«Chi ha compiuto l'azione?»
«Be'...» Quella domanda lo colse di sorpresa. Non avrebbe dovuto dirlo
e non avrebbe dovuto saperlo. «Che cosa dicevano i notiziari?»
«Polizia locale, squadra SWAT della polizia di Vienna, penso.»
«Suppongo che abbiano imparato come fare», commentò il segretario.
«Gli austriaci? Da chi hanno imparato?»
«Qualcuno che sa come si fa, ritengo», rispose Winston, salendo
sull'auto.
«Allora, che cos'è tutto questo clamore per la vicenda?» domandò
Carol Brightling al segretario agli Interni. A lei sembrava un altro caso
di ragazzi con i loro giocattoli.
«Nulla, in fondo», rispose il segretario, mentre la sua guardia del corpo la
guidava verso la portiera dell'auto di servizio. «Solo quello che hanno
mostrato in tv; un intervento piuttosto ben fatto che ha salvato parecchie
persone. Sono stata alcune volte in Austria, e i poliziotti non mi sono
sembrati così eccezionali. Forse mi sbaglio. Ma George si comporta come
se sapesse più di quello che dice.»
«Oh, è vero, Jean, lui è del "gabinetto interno"», osservò la dottoressa
Brightling. Era qualcosa che quelli del "gabinetto esterno" non gradivano.
Certo, Carol Brightling tecnicamente non faceva nemmeno parte del
gruppo. Aveva una poltrona contro la parete e non attorno al tavolo, dove
trovava posto solo se gli argomenti della riunione richiedevano un
parere scientifico, e oggi non era successo. Buone notizie e cattive
notizie. Doveva ascoltare tutto, e prendere nota di tutto ciò che avveniva
nella stanza decorata, senz'aria, che dominava il Giardino delle Rose,
mentre il presidente teneva sotto controllo l'agenda e la situazione...
male, nel caso di oggi, pensò lei. La politica fiscale aveva occupato
oltre un'ora e non erano mai arrivati alla discussione sull'uso delle foreste
nazionali, che dipendeva dal dipartimento dell'Interno; tale argomento
era stato rinviato alla riunione successiva, tra una settimana.
Lei non disponeva di una scorta, nemmeno di un ufficio nella stessa
Casa Bianca. I precedenti consiglieri scientifici del presidente avevano
il loro posto nell'ala ovest, ma lei era stata spostata nella vecchia ala
dell'esecutivo. Ora aveva un ufficio più grande e più confortevole, con
una finestra, che un ufficio nel seminterrato della Casa Bianca non
avrebbe avuto, ma anche se l'ala vecchia era considerata come facente
parte della Casa Bianca dal punto di vista amministrativo e della
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sicurezza, non ne aveva affatto il prestigio, e il prestigio era tutto se si
faceva parte dello staff della Casa Bianca. Anche con l'attuale presidente,
che si sforzava di trattare tutti allo stesso modo e non era influenzato da
tutte le cazzate sul rango dei suoi collaboratori, non c'era modo di evitare
condizionamenti a questo livello di potere. E così, Carol Brightling si
aggrappava al suo diritto di pranzare nella mensa della Casa Bianca
con i vip e le vip dell'amministrazione, lamentandosi che per vedere il
presidente, se non era lui a chiederlo, doveva passare attraverso il capo
di gabinetto e il segretario agli appuntamenti per ottenere alcuni minuti
del suo prezioso tempo. Come se lei l'avesse mai sprecato.
Un agente del servizio segreto le aprì la porta con un cenno rispettoso e
un sorriso e lei entrò nel palazzo piuttosto brutto, poi girò a destra
verso il suo ufficio, che almeno guardava sulla Casa Bianca. Passando,
consegnò le sue note al segretario (naturalmente aveva voluto un
uomo in quella posizione) per essere trascritte, poi si sedette alla
scrivania, trovandovi una nuova pila di carte da leggere.
Aprì il cassetto e ne trasse una caramella alla menta da succhiare
mentre partiva all'attacco della pila. Poi, riflettendovi, prese il
telecomando e sintonizzò il televisore del suo ufficio sulla CNN per
vedere che cosa stava succedendo nel mondo. Era il momento del
notiziario e il servizio principale riguardava i fatti di Vienna.
Dio mio, che casa, fu il suo primo pensiero. Come un palazzo reale,
un enorme spreco di risorse per un solo uomo, o anche una grande
famiglia, utilizzarlo come residenza privata. Che cosa aveva detto
Winston del proprietario? Brav'uomo? Certo. Tutti i bravi uomini
vivevano come spreconi, sciupando risorse preziose. Un altro dannato
plutocrate, operatore di Borsa, speculatore, comunque avesse
guadagnato il denaro per comprare un posto come quello... e poi, i
terroristi avevano invaso la sua privacy. Accidenti, pensò, mi chiedo
perché abbiano scelto proprio lui. Non aveva senso sequestrare un
pecoraio o un camionista. I terroristi andavano a caccia di gente
danarosa, o di quelli che venivano ritenuti importanti, perché occuparsi
della gente comune aveva poco a che fare con le idee politiche e
questi erano, dopotutto, atti politici. Ma non erano stati in gamba come
avrebbero dovuto essere. Chiunque li aveva scelti... lo aveva fatto perché
fallissero? Era possibile? Pensò che lo fosse. Era un atto politico, e cose
del genere potevano avere ogni tipo di scopo reale. Ciò la fece
sorridere, mentre il cronista descriveva l'attacco della squadra SWAT
187
della polizia locale, purtroppo non ripresa, perché i poliziotti non avevano voluto tra i piedi né telecamere né giornalisti, poi il rilascio degli
ostaggi, ripreso in primo piano perché la gente potesse seguirlo.
Erano stati così vicini alla morte, per poi essere liberati, salvati dai
poliziotti, che di fatto avevano solo restituito loro il tempo
programmato della morte, perché tutto moriva, presto o tardi. Il
cronista proseguì dicendo che questo era il secondo attacco
terroristico in Europa negli ultimi due mesi, ed entrambi erano falliti
per l'abile intervento della polizia. Carol ricordò la tentata rapina di
Berna, un altro pasticcio... creato apposta? Forse avrebbe potuto
scoprirlo, anche se in questo caso un fallimento era utile come, anzi
no, più utile di un successo, per il regista, forse unico, di entrambi gli
episodi. Quel pensiero la fece sorridere. Sì. Era più utile di un successo.
Posò lo sguardo su un fax degli Amici della Terra, che avevano il suo
numero diretto e spesso le inviavano ciò che ritenevano fossero
informazioni importanti.
Si allungò nella sua comoda poltrona con lo schienale alto per leggerlo
due volte. Un bel gruppo di persone con le idee giuste, anche se pochi
le ascoltavano.
«Dottoressa Brightling?» Era il suo segretario.
«Sì, Roy?»
«Vuole ancora che continui a mostrarle quei fax, come quello che sta
leggendo, voglio dire?» chiese Roy Gibbons.
«Oh, sì.»
«Ma quelli sono matti tesserati.»
«Non proprio. Mi piacciono alcune delle cose che fanno», rispose
Carol, gettando il fax nel cestino. Avrebbe riservato le loro proposte per
qualche occasione futura.
«Come vuole, dottoressa.» La testa si ritrasse nell'ufficio attiguo.
Il secondo foglio della sua pila era piuttosto importante, una relazione
sulle procedure per la chiusura dei reattori nucleari per l'energia e la
successiva messa in sicurezza dei sistemi dell'impianto chiuso:
quanto tempo passava prima che i fattori ambientali potessero attaccare
e corrodere i componenti interni e quale danno ambientale ne sarebbe
potuto derivare. Erano cose molto importanti, e per fortuna gli allegati
riportavano i dati sui singoli reattori del paese. S'infilò un'altra caramella
in bocca e si piegò in avanti, sistemando le carte sulla scrivania in modo
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da poterle leggere dall'alto.
«Sembra che funzioni», disse con calma Steve.
«Quanti filamenti ci sono all'interno?» chiese Maggie.
«Da tre a dieci.»
«E quanto è grande in tutto l'involucro?»
«Sei micron. Lo crederesti? L'involucro è bianco, così riflette piuttosto
bene la luce, soprattutto le radiazioni UV, e in un ambiente con acqua
nebulizzata, è praticamente invisibile.» Le singole capsule non erano
visibili a occhio nudo e a malapena con un microscopio ottico. Inoltre,
il loro peso era tale che sarebbero rimaste sospese nell'aria più o meno
come le particelle di polvere, respirabili facilmente come il fumo
passivo in un bar per single. Una volta dentro il corpo, l'involucro si
sarebbe dissolto e avrebbe rilasciato i filamenti di Shiva nei polmoni o
nel tratto gastrointestinale superiore, dove sarebbero potuti entrare in
azione.
«Solubile in acqua?» domandò Maggie.
«Lentamente, ma più velocemente se nell'acqua c'è qualcosa di attivo
dal punto di vista biologico, come le tracce di acido cloridrico della
saliva, per esempio. Accidenti, con questo avremmo davvero potuto fare i
soldi con gli iracheni, cara... o con chiunque al mondo voglia giocare alla
guerra biologica.»
La loro società aveva inventato la tecnologia, utilizzando un sussidio
dell'Istituto Nazionale per la Sanità destinato a sviluppare un metodo più
semplice delle siringhe per somministrare i vaccini. Le siringhe
richiedevano un utilizzo semiprofessionale. La nuova tecnica impiegava
l'elettroforesi per avvolgere quantità estremamente piccole di gel
protettivo attorno a quantità ancora più piccole di agenti bioattivi portati
dall'aria. Ciò avrebbe fatto sì che le persone ingerissero i vaccini con una
semplice bevanda invece del più comune metodo utilizzato
dell'inoculazione. Se avessero mai messo in circolazione un vaccino
efficace contro l'AIDS, questo metodo sarebbe stato scelto per
somministrarlo in Africa, dove mancavano le infrastrutture per fare
qualsiasi cosa. Steve aveva appena dimostrato che la stessa tecnologia
poteva essere utilizzata per diffondere virus attivi con lo stesso grado di
sicurezza e affidabilità. O l'aveva quasi dimostrato.
«Come lo collaudiamo?» domandò Maggie.
189
«Scimmie. Come stiamo a scimmie in laboratorio?»
«Un sacco», lo rassicurò lei. Sarebbe stato un passo importante.
L'avrebbero somministrato ad alcuni animali, poi avrebbero visto come si
diffondeva attraverso la popolazione del laboratorio. Avrebbero utilizzato
dei macachi. Il loro sangue era molto simile a quello umano.
Il soggetto Quattro fu il primo, come previsto. Aveva cinquantatré anni
e le sue funzioni epatiche erano così fuori scala da assicurargli uno dei
primi posti nella graduatoria per un trapianto all'università di Pittsburgh.
Aveva la pelle giallognola anche nei giorni migliori, ma ciò non
l'aveva trattenuto dal bere in misura ben maggiore rispetto a tutti gli
altri soggetti dell'esperimento. Aveva detto di chiamarsi Chester
qualcosa, ricordò il dottor John Killgore. Anche le funzioni cerebrali di
Chester erano le più basse del gruppo. Guardava moltissimo la tv, di rado
parlava con qualcuno, non leggeva nemmeno i fumetti, tanto diffusi tra
gli altri, così come i cartoni animati: di fatto guardare il Cartoon
Channel era tra i passatempi più gettonati.
Erano tutti nel paradiso dei ghiotti, aveva osservato John Killgore.
Tutto l'alcool e il fast food e il caldo che potevano desiderare, e la
maggior parte di loro aveva persino imparato a frequentare le docce.
Di tanto in tanto, alcuni chiedevano perché si trovassero lì, senza però
insistere oltre alla risposta formale che ricevevano dai dottori e dai
sorveglianti.
Ma nel caso di Chester, dovevano passare all'azione adesso. Killgore
entrò nella stanza e lo chiamò per nome. Il soggetto Quattro si levò
dal suo letto e si avvicinò, sentendosi proprio uno straccio.
«Non ti senti bene, Chester?» chiese Killgore da dietro la maschera.
«Lo stomaco, non riesco a tener dentro niente, mi sento tutto uno
schifo», replicò Quattro.
«Bene, vieni con me e vediamo che cosa possiamo fare.»
«Se lo dice lei, dottore», rispose Chester, sottolineando il suo consenso
con un rutto rumoroso.
Fuori dalla porta, lo misero su una sedia a rotelle. Si trattava di
percorrere solo cinquanta metri fino all'ala di degenza dell'impianto.
Due inservienti lo sollevarono, lo misero a letto e ve lo legarono con lacci
con velcro. Poi, uno di loro prelevò un campione di sangue. Dopo dieci
minuti, Killgore effettuò la prova degli anticorpi di Shiva, e il campione
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divenne blu, come previsto. Chester, soggetto numero Quattro, aveva
meno di una settimana da vivere, non i sei, dodici mesi a cui l'aveva già
limitato il suo alcolismo. Killgore tornò dentro per inserire un ago nel
braccio di Chester, e appese una flebo di morfina che gli fece ben presto
perdere conoscenza. Il Quattro sarebbe morto presto, ma lo avrebbe fatto
relativamente in pace. Più di ogni altra cosa, il dottor Killgore voleva
eseguire correttamente la procedura.
Quando tornò nel suo ufficio-stanza d'osservazione, lanciò un'occhiata
all'orologio. I suoi orari erano lunghi. Era quasi come essere di nuovo un
vero medico. Non aveva praticato la medicina clinica dal suo periodo
d'internato, ma leggeva tutte le riviste specializzate e conosceva le
tecniche; inoltre, il suo attuale gruppo di pazienti-vittime non avrebbe
comunque notato la differenza. Destino crudele, Chester, ma là fuori
c'è un mondo crudele, pensò, tornando ai suoi appunti. L'immediata
risposta di Chester al virus era stata un po' sconcertante, solo la metà
del tempo previsto, ma la causa era stata la sua funzione epatica
notevolmente ridotta. Era inevitabile. Alcune persone sarebbero state
colpite prima di altre a causa della diversa vulnerabilità fisica. Così
l'esplosione del virus sarebbe iniziata in modo non omogeneo. Non
avrebbe avuto importanza per gli effetti finali, anche se avrebbe
messo in allarme la gente prima di quanto loro desiderassero. Ciò
avrebbe provocato una corsa ai vaccini che Steve Berg e il suo laboratorio
stavano sviluppando. Il vaccino "A" sarebbe stato distribuito in modo
diffuso dopo la corsa per produrlo. Il vaccino "B" sarebbe stato tenuto
come meno accessibile, supponendo che lui e la sua squadra potessero in
effetti renderlo disponibile per l'uso. "A" sarebbe stato dato a tutti, mentre
"B" sarebbe andato solo a quelle persone di cui era prevista la
sopravvivenza, persone che capivano di che si trattava o che avrebbero
accettato di sopravvivere e si sarebbero date da fare come loro.
Killgore scosse la testa. C'erano ancora molte cose da fare e, come al
solito, non c'era abbastanza tempo per farle.
Clark e Stanley esaminarono l'operazione subito dopo il loro arrivo, la
mattina, insieme con Peter Covington, ancora sudato per l'esercizio
mattutino con il team 1. Chavez e i suoi dovevano ancora svegliarsi dopo
la loro lunga giornata nel continente.
«È stata una situazione tattica terribile. E Chavez ha ragione», proseguì
191
il maggiore Covington. «Abbiamo bisogno di un nostro equipaggio
elicotterista. La missione di ieri l'ha dimostrato, e non avevamo ciò di cui
necessitavamo. Ecco perché abbiamo dovuto eseguire un piano modesto e
affidarci alla fortuna per portarlo a termine.»
«Avrebbe potuto chiedere aiuto al loro esercito», osservò Stanley.
«Signore, sappiamo entrambi che non ci si affida per un'importante
operazione tattica a elicotteristi che non si conoscono e con i quali non
si è mai lavorato», ribatté Covington, nella sua migliore dizione da
accademia militare. «Dobbiamo prendere subito in considerazione questo
problema.»
«Vero», concordò Stanley, rivolto a Clark.
«Non fa parte dell'organico previsto, ma mi rendo conto del problema»,
ammise Rainbow Six. Come diavolo avevano fatto a trascurare questa
necessità? si domandò. «D'accordo, vediamo prima tutti i tipi di
elicotteri adatti e poi vediamo se riusciamo a trovare qualcuno che sia in
grado di pilotarne la maggior parte.»
«In una situazione ideale, mi piacerebbe avere un Night Stalker,
ma dovremmo portarcelo dietro dovunque andiamo e ciò significa... un
aereo da trasporto C-5 o C-17 assegnato permanentemente a noi», osservò
Stanley.
Clark annuì. La versione Night Stalker del McDonnell-Douglas AH-6
Loach era stata creata per la Task Force 160, ora rinominata SOAR
(Special Operations Aviation Regiment ossia reggimento dell'aviazione
per le operazioni speciali) di base a Fort Campbell, nel Kentucky. Si
trattava probabilmente del gruppo di aviatori più sconclusionato e pazzo
del mondo, che lavoravano in segreto con colleghi di altri paesi
selezionati; Gran Bretagna e Israele erano quelli più spesso ammessi
nella base di Campbell. In realtà, ottenere elicotteri ed equipaggi
assegnati a Rainbow sarebbe stata la parte più facile. Il difficile sarebbe
stato ottenere l'aereo da trasporto necessario per trasferire l'elicottero
dove serviva. Sarebbe stato difficile quasi quanto nascondere un
elefante nel cortile di una scuola. Con il Night Stalker avrebbero avuto
ogni tipo di sistema di sorveglianza, uno speciale rotore silenzioso e...
Babbo Natale sulla sua fottuta slitta con otto piccole renne, proseguì la
fantasia di Clark. Non sarebbe mai successo, nonostante tutti gli agganci
che aveva a Washington e Londra.
«Chiamerò Washington per ottenere l'autorizzazione a far entrare in
192
squadra alcuni aviatori. Problemi ad avere qui un velivolo perché ci
giochino?»
«Non ce ne dovrebbero essere», rispose Stanley.
John guardò l'orologio. Avrebbe dovuto aspettare fino alle 9 del
mattino, ora di Washington, 2 del pomeriggio in Gran Bretagna, per
lanciare la richiesta tramite il direttore della CIA, che era l'ente attraverso
il quale passavano i fondi americani di Rainbow. Si chiese come l'avrebbe
presa Ed Foley, o meglio, aveva bisogno che Ed ne fosse un sostenitore
entusiasta. Ma questo non sarebbe stato troppo difficile. Ed conosceva le
operazioni sul campo, fino a un certo punto, ed era leale verso le
persone in prima linea. Clark avanzava la richiesta dopo che avevano
ottenuto un successo importante e ciò di solito funzionava molto
meglio di un'invocazione d'aiuto dopo una missione fallita.
«Bene, riprenderemo questo argomento durante il rapporto del
team.» Clark si alzò e andò in ufficio. Helen Montgomery aveva
messo la solita pila di carte sulla sua scrivania, un po' più alta del solito,
dato che comprendeva i previsti telegrammi di ringraziamento degli
austriaci. Quello del ministro della Giustizia era particolarmente fiorito.
«Grazie, signore», sospirò John, mettendolo da parte.
Il lato meno piacevole del suo incarico riguardava il lavoro amministrativo. In qualità di comandante di Rainbow, Clark doveva tenere
registrato quando e come il denaro arrivava e veniva speso, e doveva
giustificare cose quali il numero di colpi che i suoi sparavano ogni
settimana. Faceva del suo meglio per smistarne molto a Stanley e alla
signora Montgomery, ma ne rimaneva ancora un sacco sulla sua scrivania.
Aveva una lunga esperienza di lavoro (l'ufficio e quando era alla CIA
doveva riferire in dettaglio ogni operazione sul campo effettuata per far
felici i burocrati da scrivania. Ma qui era molto peggio ed era il motivo
per cui lui passava parecchio tempo al poligono di tiro, avendo scoperto
che sparare era un ottimo sistema per scaricare la tensione, soprattutto se
immaginava le figure dei suoi burocratici torturatori al centro dei Q che
per lui bucava con le pallottole calibro 45. Giustificare un budget era
per lui qualcosa di nuovo. Se non era importante, perché finanziarlo, e
se lo era, perché cavillare su alcune migliaia di dollari di pallottole? Era
la mentalità burocratica, naturalmente, tutta quella gente che sedeva alle
scrivanie e pensava che il mondo sarebbe loro crollato addosso se non
avessero avuto le loro carte siglate, firmate, timbrate e correttamente
193
archiviate, e se ciò creava problemi agli altri, che importava? Così lui,
John Terrence Clark, ufficiale sul campo della CIA per più di trent'anni,
una segreta leggenda nella sua agenzia, era incollato a questa costosa
scrivania, dietro una porta chiusa, lavorando su carte che qualsiasi
ragioniere avrebbe respinto, e oltre a ciò doveva sovrintendere ed
emettere giudizi su questioni reali, cose più interessanti e molto più
pertinenti.
Il suo budget non era poi così ampio da creare problemi. Meno di
cinquanta persone, in totale, nemmeno tre milioni di dollari di spesa per
gli stipendi, dato che ognuno riceveva la solita paga militare, più il fatto
che Rainbow, con il suo fondo multinazionale, si caricava delle spese
d'alloggio di ciascuno. Un'ingiustizia era che i soldati americani venivano
pagati meglio delle loro controparti europee, e questo dava un po' fastidio
a John, ma non c'era nulla che lui potesse fare, e con i costi d'alloggio
coperti, anche se le case a Hereford non erano lussuose ma confortevoli,
nessuno aveva problemi di sopravvivenza. Il morale era eccellente.
L'aveva previsto. Erano soldati d'élite e quel tipo di persone
invariabilmente era ben disposto, soprattutto dal momento che si
allenavano quasi tutti i giorni per svolgere al meglio le missioni loro
affidate.
Il team 2 di Chavez aveva effettuato entrambe le missioni, e il risultato
era che si sarebbero vantati un po' di più, provocando qualche
gelosia nel team 1 di Peter Covington, che era leggermente avanti
nella gara fra squadre di esercizio fisico e di tiro. Quel livello di
competizione era salutare per il distaccamento nel suo complesso. E
decisamente poco salutare per quelli contro i quali venivano impiegati i
suoi uomini.
Anche Bill Tawney era alla scrivania, passando in rassegna le
informazioni disponibili sui terroristi della notte precedente. Gli austriaci
avevano iniziato le loro ricerche con l'ufficio della polizia federale
tedesca, il Bundes Kriminal Amt, ancor prima che fosse conclusa
l'operazione. Le identità di Hans Fürchtner e di Petra Dortmund erano
state confermate dalle impronte digitali. Gli investigatori del BKA
sarebbero saltati addosso al caso quel giorno stesso. Tanto per cominciare,
avrebbero indagato sull'identità di quelli che avevano noleggiato l'auto
servita per raggiungere la residenza di Ostermann e ricercato la casa in
Germania... probabilmente in Germania, rifletté... dove avevano vissuto.
194
Per gli altri quattro sarebbe stato forse più difficile. Erano già state prese
le impronte digitali e venivano confrontate sui sistemi scanner del
computer che ora avevano tutti. Tawney concordava con la valutazione
iniziale degli austriaci secondo cui i quattro terroristi venivano
probabilmente dalla ex Germania Est, gran calderone per ogni tipo di
aberrazione politica: convertiti dal comunismo che stavano ora
scoprendo le gioie del nazismo, continuando a credere nel precedente
modello politico-economico e delinquenti comuni che costituivano un
grave problema per la polizia tedesca.
Ma questo caso doveva essere politico. Fürchtner e Dortmund erano,
anzi erano stati, si corresse Bill, comunisti veri, convinti per tutta la vita.
Erano stati allevati nell'ex Germania Ovest da famiglie della classe
media, così come un'intera generazione di terroristi, battendosi tutta la
vita per la perfezione socialista o per qualche illusione del genere. E così
avevano attaccato la casa di un capitalista d'alto bordo... in cerca di che
cosa?
Tawney sollevò una pigna di fax da Vienna. Durante il suo resoconto di
tre ore, Erwin Ostermann aveva detto alla polizia che avevano cercato i
suoi "codici interni speciali" del sistema delle operazioni di Borsa
internazionali. Esistevano cose simili? Probabilmente no, pensò Tawney,
ma perché non accertarsene? Sollevò il telefono e compose il numero di
un vecchio amico, Martin Cooper, ex uomo Six che ora lavorava
nell'orribile edificio dei Lloyd's, nel distretto finanziario di Londra.
«Cooper», rispose una voce.
«Martin, qui è Bill Tawney. Come te la passi in questa mattinata
piovosa?»
«Abbastanza bene, Bill, e tu, che cosa fai ora?»
«Prendo ancora gli scellini dalla regina. Nuovo lavoro, molto segreto,
temo.»
«Cosa posso fare per te, vecchio mio?»
«Una domanda abbastanza stupida, in realtà. Vi sono dei canali interni
nel sistema delle operazioni di Borsa internazionali? Codici speciali e
roba del genere?»
«Mi piacerebbe che ci fossero, Bill. Renderebbero questo nostro lavoro
molto più facile», rispose l'ex capo della stazione di Città del Messico e di
qualche altro posto di minore importanza per il servizio segreto
britannico. «Ma esattamente che cosa vuoi dire?»
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«Non sono sicuro, ma l'argomento è appena venuto fuori.»
«Individui a questo livello hanno relazioni personali e spesso si
scambiano le informazioni, ma penso che tu ti riferisca a qualcosa di un po'
più strutturato, una specie di mercato con una rete di insider?»
«Sì, qualcosa del genere.»
«Se è così, l'hanno tenuto segreto a me e a quelli con i quali lavoro,
vecchio mio. Cospirazioni internazionali?» disse ironico Cooper. «E
questo è un mondo di chiacchieroni, tutti conoscono gli affari di tutti.»
«Niente del genere, allora?»
«No a quanto ne so, Bill. È quel tipo di cose in cui credono i disinformati, ma non esiste, a meno che non siano quelli che hanno assassinato
John Kennedy», aggiunse con una risatina Cooper.
«È più o meno quello che avevo pensato, Martin, ma mi serviva una
conferma. Grazie.»
«Bill, hai qualche idea su chi potrebbe avercela con quel tale Ostermann
a Vienna?»
«No davvero. Lo conosci?»
«Il mio capo lo conosce. L'ho incontrato una volta. Sembra un tipo
perbene, e anche molto intelligente.»
«In realtà, tutto quello che so è ciò che ho visto stamane in tv.» Non era
del tutto una bugia e, in ogni caso, sapeva che Martin avrebbe capito.
«Chiunque abbia effettuato il salvataggio, tanto di cappello. Mi sanno
tanto di SAS.»
«Davvero? Non sarebbe una sorpresa.»
«Suppongo di no. Mi ha fatto piacere sentirti, Bill. Che ne dici di
cenare assieme qualche volta?»
«Mi piacerebbe. Ti chiamo la prossima volta che vengo a Londra.»
«Ottimo. Ciao.»
Tawney riattaccò. Sembrava che Martin fosse caduto in piedi dopo
esser stato lasciato andare da "Six", l'MI-6 o controspionaggio inglese,
che aveva ridotto il suo organico con il declino della guerra fredda. C'era
da aspettarselo. Quel tipo di cose in cui credono i disinformati, pensò
Tawney. Sì, torna. Fürchtner e Dortmund erano comunisti e non
avrebbero creduto nel mercato libero. Nel loro universo, le persone
potevano arricchirsi solo imbrogliando, sfruttando e cospirando con altre
della stessa risma. E cosa significava quanto era accaduto?
Perché avevano come obiettivo la casa di Erwin Ostermann? Era
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impossibile rapinare un uomo come quello. Non teneva contanti o
lingotti d'oro. Era tutto elettronico, denaro virtuale che esisteva nelle
memorie dei computer e viaggiava attraverso i fili del telefono ed era
difficile da rubare.
No, quello che un uomo come Ostermann aveva erano le informazioni,
la sua suprema fonte di potere. Dortmund e Fürchtner volevano uccidere
per questo? Sembrava di sì, ma i terroristi morti erano il genere di persone
che avrebbero potuto utilizzare tali informazioni? No, perché in tal caso
avrebbero saputo che quello che cercavano non esisteva.
Qualcuno li ha ingaggiati, pensò Tawney. Qualcuno li aveva mandati a
compiere la loro missione. Ma chi?
E per quale scopo? Questa era una domanda ancora più bella, e da
cui poteva forse ricavare la risposta alla prima.
Allontanati dal problema per vederlo bene, disse a se stesso. Se qualcuno li aveva assunti per un lavoro, chi avrebbe potuto essere?
Chiaramente qualcuno collegato alla vecchia rete terroristica, qualcuno
che sapeva dov'erano e che loro avevano conosciuto e di cui si fidavano
tanto da rischiare la vita. Ma Fürchtner e Petra Dortmund erano stati
comunisti ideologicamente puri. Le loro conoscenze erano come loro, e
di certo non si sarebbero fidati o non avrebbero preso ordini da
qualcuno di una diversa fede politica. E come altrimenti avrebbe
potuto questa ipotetica persona sapere dove e come contattarli, vincere
la loro diffidenza e impegnarli in una missione di morte, alla ricerca di
qualcosa che in realtà non esisteva?
Un alto ufficiale? si chiese Tawney, spremendosi le meningi alla
ricerca di maggiori informazioni di quelle che di fatto aveva.
Qualcuno della stessa ideologia o credo politico, in grado di dare loro
ordini o almeno di motivarli a fare qualcosa di pericoloso.
Aveva bisogno di altre informazioni e avrebbe utilizzato i suoi contatti
dei servizi segreti e della polizia per ottenere ogni possibile frammento
dalle indagini austriache e tedesche. Prima di tutto, chiamò Whitehall
per accertarsi di avere le traduzioni complete di tutti gli interrogatori
degli ostaggi. Tawney era stato a lungo un ufficiale dei servizi segreti e
qualcosa gli aveva fatto storcere il naso.
«Ding, non mi è piaciuto il tuo piano d'azione», disse Clark nella
grande sala riunioni.
«Nemmeno a me, Mr. C., ma senza un elicottero, non avevo molta
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scelta», rispose Chavez con l'aria di chi pensa di avere ragione. «Ma
non è questo ciò che davvero mi spaventa.»
«Che cos'è?» domandò John.
«È un problema che ha sollevato Noonan. Ogni volta che andiamo in un
posto, vi sono persone attorno, pubblico, giornalisti, operatori tv. Che
succede se uno di loro ha un telefono cellulare e chiama i terroristi,
all'interno, per dir loro cosa accade fuori? Molto semplice. Siamo
fregati e così alcuni ostaggi.»
«Dovremmo poter fare qualcosa», osservò Tim Noonan. «È il modo in
cui funziona un cellulare. Emette un segnale per dire alla cella locale che
è lì e che è acceso, così i sistemi computerizzati possono indirizzargli una
chiamata in arrivo. Possiamo avere strumenti per leggerlo e forse bloccare
il percorso del segnale, forse anche clonare il telefonino dei criminali,
fermare la chiamata in arrivo e prendere i bastardi all'esterno, magari
anche farli fuori, giusto? Ma mi serve quel software, subito.»
«David?» Clark si rivolse a Dave Peled, il loro genio tecnologico
israeliano.
«Si può fare. Probabilmente la tecnologia esiste già alla NSA, o da
qualche altra parte.»
«E in Israele?» domandò tagliente Noonan.
«Be'... sì, abbiamo cose del genere.»
«Prendetele», ordinò Clark. «Vuoi che chiami personalmente Avi?»
«Sarebbe d'aiuto.»
«Ho bisogno del nome e delle caratteristiche dell'apparecchiatura.
Quanto ci vuole ad addestrare gli operatori?»
«Non molto», affermò Peled. «Tim può farlo senza problemi.»
Grazie per questa dimostrazione di fiducia, pensò l'agente speciale
Noonan, senza sorridere.
«Torniamo all'operazione», ordinò Clark. «Ding, a che cosa stavi
pensando?»
Chavez si piegò in avanti nella poltroncina. Non stava difendendo
solo se stesso; difendeva il team. «Soprattutto che non ho voluto
sacrificare un ostaggio, John. Il dottor Bellow ci disse che dovevamo
prendere quei due sul serio e avevamo un ultimatum inesorabile che si
stava avvicinando. E la missione, così come l'intendo io, è quella di non
perdere un ostaggio. Così, quando loro comunicarono che volevano
l'elicottero per il trasporto, tutto stava nel concederglielo, con qualcosa
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di extra dentro. Dieter e Homer hanno eseguito i loro compiti alla
perfezione. Come pure Eddie e il resto dei tiratori. La parte pericolosa
era far arrivare fino all'edificio Louis e George in modo che potessero
abbattere l'ultimo gruppo. Hanno fatto un bel lavoro alla ninja,
arrivando laggiù non visti», proseguì Chavez, facendo un gesto rivolto a
Loiselle e Tomlinson. «È stata la parte più pericolosa della missione. Li
avevamo in un fascio di luce e l'equipaggiamento mimetico ha funzionato.
Se i criminali avessero utilizzato sistemi di visione notturna, sarebbe
stato un problema, ma il supplemento di luce riflessa dagli alberi,
voglio dire quella fornita dai fari fatti portare dalla polizia, li avrebbe
comunque messi fuori gioco. I visori notturni riflettono bagliori se si invia
luce nella loro direzione. È stato un rischio», ammise Ding, «ma era
meglio affrontarlo piuttosto che avere un ostaggio abbattuto proprio
davanti a noi mentre stavamo facendoci le seghe nel punto d'incontro.
Era la missione, Mr. C., ed ero il comandante sul campo. Ho preso io la
decisione.» Non aggiunse che la sua decisione si era rivelata azzeccata.
«Capisco. Tiri ottimi per tutti, e Loiselle e Tomlinson hanno fatto
molto bene ad avvicinarsi non visti», disse dal suo posto Alistair Stanley,
di fronte a Clark. «Nonostante ciò...»
«Nonostante ciò, abbiamo bisogno di elicotteri per casi come questo.
Come diavolo abbiamo fatto a trascurare una simile necessità?» domandò
Chavez.
«Errore mio, Domingo», ammise Clark. «Mi occuperò di questo oggi
stesso.»
«Basta che si rimedi, amico.» Ding si allungò nella sua poltrona.
«I miei uomini ce l'hanno fatta, John. Brutti presupposti, ma ce
l'abbiamo fatta. La prossima volta, sarà meglio se le cose andranno un
po' più lisce», osservò. «Ma quando il dottore dichiara che i criminali
uccideranno davvero qualcuno, qualcosa mi dice che devo effettuare
un'azione decisiva.»
«Secondo le circostanze, sì», rispose Stanley.
«Che significa?» chiese brusco Chavez. «Ci servono migliori linee
guida per la missione. Ho bisogno di averle dettagliate. Quando
posso permettermi che un ostaggio venga ucciso? Nell'equazione, entra
l'età o il sesso dell'ostaggio? E che succede se qualcuno assalta un asilo o
un reparto maternità di un ospedale? Non potete aspettarvi che
trascuriamo fattori umani come quelli. Capisco che non possiate
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pianificare ogni evenienza e, come comandanti sul campo, Peter e io
dobbiamo basarci sul nostro giudizio, ma la mia posizione di default è
quella di evitare la morte di un ostaggio, se posso. Se ciò significa
assumere dei rischi, è un rischio calcolato contro una certezza. In un caso
come quello, si assume il rischio.»
«Dottor Bellow», domandò Clark, «quanta sicurezza aveva nella sua
valutazione dello stato mentale dei terroristi?»
«Molta. Erano esperti. Avevano curato nel dettaglio buona parte della
missione e, secondo me, erano tremendamente seri quando minacciavano
di uccidere gli ostaggi per dimostrarci la loro determinazione», rispose lo
psichiatra.
«Allora o adesso?»
«Entrambi», rispose sicuro Bellow. «Quei due erano sociopatici politici.
La vita umana non conta granché per quel tipo di personalità. Soltanto
fiche da poker da gettare sul tavolo.»
«Va bene, ma che sarebbe successo se avessero scoperto Loiselle o
Tomlinson mentre si avvicinavano?»
«È probabile che avrebbero ucciso un ostaggio e ciò avrebbe congelato
la situazione per alcuni minuti.»
«E il mio piano di riserva, in tal caso, era di assaltare la casa dal lato est
e di aprirci la strada sparando il più rapidamente possibile», spiegò
Chavez. «Il modo migliore è calarsi da un elicottero e assaltare il posto
come un tornado del Kansas. È anche pericoloso», ammise. «Ma la gente
con cui abbiamo a che fare non è la più ragionevole del mondo.»
Agli anziani del team non piacque questo discorso, poiché rammentava
loro che, per quanto in gamba fossero gli specialisti di Rainbow, non
erano dei supermen. Ormai avevano fronteggiato due attacchi, entrambi
risolti senza perdite fra i civili. Ciò provocava un senso di
autocompiacimento da parte di chi comandava, ulteriormente esaltato dal
fatto che il team 2 aveva portato a termine un'azione esemplare in
circostanze tattiche avverse. Addestravano i loro uomini a essere dei
superuomini, esemplari fisicamente perfetti come dei dell'Olimpo,
splendidamente addestrati all'uso delle armi da fuoco e degli esplosivi, e
soprattutto preparati psicologicamente per la rapida distruzione di vite
umane.
I membri del team 2, seduti attorno al tavolo, guardavano Clark con
espressione indifferente, assimilando tutto ciò con notevole serenità
200
perché avevano capito l'altra notte che il piano era difettoso e pericoloso,
ma l'avevano eseguito comunque ed erano comprensibilmente orgogliosi
di aver superato le difficoltà e salvato gli ostaggi. Ma Clark stava
mettendo in discussione le capacità del loro comandante e nemmeno
questo era accettabile. Per quelli fra loro che erano ex appartenenti al
SAS, la risposta a tutto ciò era semplice, il vecchio motto del loro
reggimento: chi osa, vince. Avevano osato e vinto. E il punteggio per loro
era: cristiani 10, leoni O, che non era affatto un brutto risultato. In pratica,
l'unico insoddisfatto del team era il sergente Julio Vega. "Oso" trasportava
la mitragliatrice, che non era ancora entrata in gioco.
Vega si accorse che i tiratori scelti si sentivano abbastanza sicuri, così
come quelli che usavano le armi leggere. Ma era una questione di fortuna.
Lui era stato là, a pochi metri da Weber, pronto a coprirlo se un terrorista
avesse avuto la fortuna di riuscire a scappar via, sparando con la sua arma.
Lui l'avrebbe tagliato in due con la sua M-60; il suo rendimento nel
poligono della base era uno dei migliori. Si stava uccidendo e lui non
entrava in gioco. La parte religiosa di Vega rimproverava l'altra parte del
suo animo per il fatto di pensarla così, il che lo faceva brontolare e
sorridere quando era solo.
«Allora?» chiese Chavez. «Quali sono le nostre linee guida operative
nel caso in cui un ostaggio abbia la probabilità di venire ucciso dai
terroristi?»
«La missione rimane il salvataggio degli ostaggi, dove possibile»,
rispose Clark, dopo averci pensato alcuni secondi.
«E il comandante del team sul posto decide ciò che è possibile e ciò che
non lo è?»
«Esatto», confermò Rainbow Six.
«Allora, torniamo là da dove siamo partiti, John», osservò Ding. «E ciò
significa che Peter e io ci assumiamo tutta la responsabilità e tutte le
critiche se qualcun altro non è d'accordo su quello che abbiamo fatto.»
Fece una pausa. «Capisco la responsabilità che deriva dal fatto di avere il
comando sul campo ma sarebbe bello disporre di qualcosa di un po' più
sicuro su cui fare affidamento. Gli errori arriveranno, presto o tardi. Lo
sappiamo. Non ci va, ma lo sappiamo. A ogni modo, vi dico qui e ora,
considero la missione come la difesa di vite innocenti ed è questo
l'elemento che antepongo quando devo decidere cosa fare.»
«Sono d'accordo con Chavez», disse Peter Covington. «Questa
201
dev'essere la nostra posizione di default.»
«Non ho mai detto che non lo fosse», sottolineò Clark, visibilmente
irritato. Il problema era che in alcune situazioni non era possibile salvare
una vita, ma l'addestramento per situazioni del genere era tra
l'estremamente difficile e il quasi impossibile, perché tutti gli attacchi dei
terroristi che avevano dovuto fronteggiare sul campo sarebbero stati tanto
diversi quanti i terroristi e i posti che sceglievano. Così, doveva fidarsi di
Chavez e Covington. Oltre a ciò, poteva creare scenari per l'addestramento che li obbligassero a pensare e ad agire, nella speranza che sarebbe
stato loro utile sul campo. Era andata meglio quando era ufficiale sul
campo nella CIA, pensò Clark. Là aveva sempre preso l'iniziativa, aveva
quasi sempre scelto lui il momento e il posto dell'azione più adatto.
Rainbow, invece, era sempre reattivo, rispondendo all'iniziativa degli
altri. Quel semplice fatto spiegava il motivo per cui doveva addestrare
così duramente i suoi, in modo che la loro esperienza potesse compensare
la disparità tattica. E questo aveva funzionato due volte. Ma avrebbe
continuato a funzionare?
Così, tanto per cominciare, John decise che in seguito un membro di
Rainbow più alto in grado avrebbe sempre accompagnato i team sul
campo per fornire supporto, qualcuno cui i comandanti dei team potessero
appoggiarsi. Naturalmente, non avrebbero gradito il controllo proprio là,
alle loro spalle, ma non si poteva farne a meno. Con quel pensiero, sciolse
la riunione e chiamò in ufficio Al Stanley, a cui espose la sua idea.
«Mi sta bene, John. Ma quali sono gli alti gradi che andranno?»
«Tu e io, per cominciare.»
«Molto bene. Mi sembra una decisione ragionevole... con tutto
l'addestramento fisico e al tiro cui ci assoggettiamo noi. Domingo e Peter
potrebbero trovare tutto questo un po' limitante, però.»
«Sanno entrambi come eseguire gli ordini, e verranno da noi per
chiedere consiglio quando serve. Tutti lo fanno. L'ho fatto anch'io,
ogniqualvolta se n'è presentata l'occasione.» E purtroppo non si
presentava molto di frequente, anche se John ricordava di averlo
desiderato abbastanza spesso.
«Sono d'accordo con la tua proposta, John», affermò Stanley. «Lo
scriviamo nell'ordine del giorno?»
Clark annuì. «Oggi stesso.»
202
9
OSSESSIONI
«Posso farlo, John», disse il direttore della CIA. «Significa, però,
parlare con il Pentagono.»
«Oggi, se possibile, Ed. Ne abbiamo davvero bisogno. Sono stato
negligente a non considerare prima questa necessità. Davvero negligente»,
aggiunse con umiltà Clark.
«Capita», osservò Foley. «Va bene, fammi fare un po' di telefonate e ti
richiamo.» Interruppe la comunicazione e rimase a pensare per alcuni
secondi, poi si mise a cercare nella sua agenda telefonica Rolodex e trovò
il numero del CINC-SNAKE, come veniva scherzosamente chiamata
quella carica. Il capo del comando operazioni speciali di stanza alla base
aerea MacDill nei dintorni di Tampa, in Florida, era il comandante di tutti
i "mangiatori di serpenti", cioè degli addetti alle operazioni speciali da cui
Rainbow aveva reclutato il personale americano. Il generale Sam Wilson
stava dietro la scrivania, un posto dove non si trovava particolarmente a
suo agio. Era partito come soldato semplice che aveva optato per i corsi di
paracadutismo e ranger, era entrato nei corpi speciali, che aveva lasciato
per prendere una laurea in storia presso l'università statale della Carolina
del Nord, poi era rientrato nell'esercito come sottotenente e aveva fatto
una rapida carriera fino agli alti gradi. Ora portava sulle spalle, con
giovanile baldanza, i suoi cinquantatré anni e quattro stelle lucenti, ed era
responsabile di un comando interforze unificato, comprendente personale
di esercito, aviazione, marina e marines, tutti esperti nel cucinare i
serpenti sul fuoco.
«Ciao, Ed», lo salutò il generale, ricevendo la chiamata sulla linea
protetta. «Che succede a Langley?» La gente delle operazioni speciali era
molto vicina alla CIA, e spesso le forniva informazioni o personale per
qualche difficile missione.
«Ho una richiesta da Rainbow», gli disse il direttore.
«Ancora? Mi hanno già saccheggiato le unità.»
«Le hanno usate bene. Come ad esempio la loro azione di ieri in
Austria.»
«Mi è sembrata buona in tv», ammise Sam Wilson. «Otterrò altre
informazioni?» Voleva dire informazioni sul conto dei terroristi.
«Tutto il malloppo non appena è disponibile, Sam», promise Foley.
203
«Okay, di che cosa ha bisogno il tuo ragazzo?»
«Piloti, equipaggi per elicotteri.»
«Sai quanto ci vuole per addestrare quella gente, Ed? E costa anche un
occhio mantenerli.»
«Lo so, Sam», replicò la voce da Langley. «Anche i britannici devono
contribuire. Conosci Clark. Non lo chiederebbe se non ne avesse
bisogno.»
Wilson dovette ammetterlo, sì, conosceva Clark, che aveva una volta
salvato una missione naufragata e, nel frangente, un gruppo di soldati,
molto tempo e alcuni presidenti prima. Ex SEAL della marina, diceva di
lui la CIA, con una nutrita collezione di medaglie e un sacco di
successi. E questo gruppo Rainbow aveva messo a segno due operazioni
riuscite.
«D'accordo, Ed, quanti?»
«Per ora, uno davvero in gamba.»
Erano le parole "per ora" a preoccupare Wilson. «Ma... ti richiamo
in giornata.»
«Grazie, Sam.» Foley lo sapeva, una bella cosa di Wilson era che non
scherzava sul fattore tempo. Per lui, "subito" voleva proprio dire
adesso.
Chester non sarebbe campato nemmeno il tempo previsto da Killgore. I
test funzionali sul suo fegato precipitavano più velocemente di quanto
avesse mai visto, o verificato nella letteratura medica. Ormai la pelle di
quell'uomo era gialla, come un limone pallido, e floscia sulla sua flaccida
muscolatura. Anche il respiro si era già fatto un po' preoccupante, in parte
a causa delle grosse dosi di morfina che gli somministravano per
mantenerlo incosciente o almeno in uno stato di torpore. Sia Killgore sia
Barbara Archer gli avevano riservato un trattamento il più possibile
aggressivo, per vedere se c'era davvero una modalità di trattamento che
potesse funzionare su Shiva, ma le condizioni generali di salute di Chester
erano così gravi che nessuna cura poteva vincere questi problemi e
Shiva.
«Due giorni», disse Killgore. «Forse meno.»
«Temo che tu abbia ragione», osservò la dottoressa Archer. Lei aveva
un sacco di idee su quale cura usare, dai soliti, e quasi certamente inutili,
antibiotici all'Interleukin-2, che secondo alcuni poteva avere applicazioni
204
cliniche in un caso come questo. Certo, la medicina moderna doveva
ancora sconfiggere le malattie virali, ma qualcuno pensava che
rafforzando il sistema immunitario del corpo da una direzione potesse
avere l'effetto di aiutarlo in un'altra, e ormai sul mercato c'erano
moltissimi nuovi e potenti antibiotici sintetici. Presto o tardi, qualcuno
avrebbe scoperto una pillola magica per le malattie virali. Ma non
ancora. «Potassio?» chiese lei, dopo aver considerato le prospettive del
paziente e se valesse la pena curarlo. Killgore scrollò le spalle in
segno d'assenso.
«Penso di sì. Puoi farlo se vuoi.» Killgore indicò l'armadio dei
medicinali nell'angolo.
La dottoressa Archer si avvicinò all'armadio, estrasse dall'involucro di
carta e dal contenitore in plastica una siringa a perdere da 40 cc, poi infilò
l'ago in una fiala di soluzione di potassio e acqua, e riempì la siringa
tirando in fuori lo stantuffo. Poi ritornò accanto al letto e inserì l'ago nella
flebo, spingendo lo stantuffo per somministrare al paziente una dose
pesante di sostanza letale. Ci vollero alcuni secondi, un tempo maggiore
rispetto a un'iniezione direttamente in una grossa vena, ma non voleva
toccare il paziente più di quanto fosse necessario, neppure con i guanti. In
realtà, non era poi così importante il prolungamento del processo. La
respirazione di Chester dentro la maschera d'ossigeno di plastica trasparente sembrò avere un'esitazione, poi ripartire, poi di nuovo
esitare, poi farsi ansimante e irregolare per sei o otto respiri. Poi... si
fermò. Il torace si afflosciò e non si sollevò più. Gli occhi prima erano
semiaperti, come quelli di una persona durante un sonno leggero o uno
choc, rivolti verso di lei ma senza metterla a fuoco. Ora si chiusero per
l'ultima volta. La dottoressa Archer prese lo stetoscopio e lo posò sul
torace dell'alcolizzato. Non si sentiva nulla.
Ciao, Chester, pensò Killgore.
«Molto bene», disse lei freddamente. «Nessun sintomo negli altri?»
«Non ancora. I test degli anticorpi, però, sono positivi», rispose
Killgore. «Più o meno un'altra settimana e penso che vedremo
sintomi evidenti.»
«Abbiamo bisogno di una serie di soggetti in salute», disse Barbara
Archer. «Questa gente è troppo... troppo ammalata per essere un buon
banco di prova per Shiva.»
«Ciò comporta dei rischi.»
205
«Lo so», replicò lei. «Ma lo sai anche tu che ci servono soggetti
migliori.»
«Sì, ma i rischi sono seri», osservò Killgore.
«So anche questo», ribatté la dottoressa.
«Va bene, Barb, fatti dare le autorizzazioni. Non solleverò obiezioni.
Ti occupi tu di Chester? Devo andare subito a trovare Steve.»
«D'accordo.» Andò verso il telefono, alzò il ricevitore e digitò tre
numeri per chiamare gli addetti alle rimozioni.
Killgore, invece, si portò nella zona spogliatoio. Si fermò prima di
tutto nella camera di decontaminazione, premette il grande pulsante
quadrato rosso e attese che l'apparecchiatura gli spruzzasse addosso da
tutte le direzioni una soluzione nebulizzata di antisettici che si sapeva
essere subito letali per il virus Shiva. Poi attraversò la porta ed entrò nello
spogliatoio vero e proprio, dove si tolse la tuta di plastica blu, la gettò nel
bidone per l'ulteriore e più drastica decontaminazione... non era di fatto
necessaria, ma il personale del laboratorio preferiva così... poi indossò
abiti da chirurgo. Uscendo, si mise addosso un camice bianco. La sosta
successiva fu nel laboratorio di Steve Berg. Né lui né Barb Archer l'avevano ancora detto a voce alta, ma tutti si sarebbero sentiti meglio se
avessero avuto a disposizione un vaccino efficace contro Shiva.
«Ciao, John», disse Berg, vedendo entrare il collega.
«Salve, Steve», rispose al saluto Killgore. «Come procedono i vaccini?»
«Di attivi ora. abbiamo "A" e `B".» Berg indicò le gabbie delle scimmie
dall'altra parte del vetro. «Il lotto "A" prevede gli adesivi gialli. `B" è
azzurro e il gruppo di controllo è rosso.»
Killgore guardò. Ogni gruppo era costituito da venti individui, per un
totale di sessanta macachi. Bei diavoletti. «Peccato», osservò.
«Nemmeno a me piace, ma è così che funziona, amico mio.» Nessuno
dei due possedeva una pelliccia.
«Quando prevedi i primi risultati?»
«Per il gruppo "A", da cinque a sette giorni. Per il gruppo di controllo
da nove a quattordici. E il gruppo `B", per loro abbiamo delle speranze,
naturalmente. E dalle tue parti, come sta andando?»
«Ne abbiamo perduto uno oggi.»
«Così presto?» chiese Berg, ritenendolo un po' preoccupante.
«Prima di cominciare il suo fegato aveva già i parametri completamente
sballati. Quello è un fatto che non abbiamo tenuto abbastanza in
206
considerazione. Ci saranno delle persone là fuori con un grado di
vulnerabilità al nostro amichetto straordinariamente elevato.»
«Potrebbero diventare dei canarini, amico», osservò in tono
preoccupato Berg, pensando agli uccelli canori utilizzati per segnalare ai
minatori la presenza del grisù. «E abbiamo imparato come
fronteggiarlo due anni fa, ricordi?»
«Lo so.» In realtà, era di lì che aveva avuto inizio tutto il progetto.
Ma loro sarebbero stati in grado di farlo meglio degli stranieri.
«Che differenza di tempo c'è tra gli umani e i nostri piccoli amici?»
«Be', ricorda che non ho trattato nessuno di loro con aerosol. Questo è un
test sui vaccini, non sulle infezioni.» «Penso che tu debba
preparare un test di controllo sull'aerosol. Mi risulta che hai un metodo
di confezionamento migliorato.»
«Maggie vuole che lo usi. Abbiamo un sacco di scimmie. Posso
metterlo in piedi in due giorni, un test completo del sistema non
sperimentale di erogazione.»
«Con e senza vaccini?»
«Posso farlo», annuì Berg. Avresti già dovuto farlo, idiota, pensò
Killgore. Berg era intelligente, ma non riusciva a vedere molto al di là
del suo microscopio. Nessuno era perfetto, persino lì. «Non faccio di
tutto per uccidere, John», Berg volle chiarire al suo collega medico.
«Capisco, Steve, ma per ognuno che uccidiamo per sperimentare
Shiva, ne salveremo alcune centinaia di migliaia allo stato selvaggio,
ricordi? E tu ti prendi cura di loro mentre sono qui», aggiunse. Gli animali
da laboratorio vivevano una vita idilliaca, in gabbie confortevoli o
addirittura in grandi aree comuni dove il cibo era abbondante e l'acqua
pura. Le scimmie avevano a disposizione molto spazio, con finti
alberi per arrampicarsi, temperatura dell'aria come quella della loro
nativa Africa e nessun predatore a minacciarli. Come nelle prigioni
umane, i condannati avevano pasti abbondanti nel pieno rispetto dei loro
diritti costituzionali. Ma a persone come Steve Berg, ciò continuava a non
piacere, nonostante che, per lo scopo finale, fosse importante e
indispensabile. Killgore si chiese se il suo amico piangesse la notte per
quelle graziose piccole creature dagli occhi marroni. Di certo Berg non
era così preoccupato per Chester... a meno che, naturalmente, non fosse
un canarino. Il che avrebbe di fatto rovinato tutto, ma quello era anche il
motivo per cui Berg stava sviluppando il vaccino "A".
207
«Sì», ammise Berg. «Però mi fa sentire sempre di merda.» «Dovresti
vedere dove lavoro io», osservò Killgore. «Immagino», rispose diffidente
Steve Berg.
Il volo notturno era partito dall'aeroporto internazionale di RaleighDurham nella Carolina del Nord, a un'ora di macchina da Fort Bragg. Il
bireattore Boeing 757 toccò terra sotto una pioggerella leggera, poi
iniziò a rullare tanto a lungo quanto era durato il volo, o almeno così
sembrava ai passeggeri, quando finalmente arrivarono al gate della US
Airways nel terminal 3 di Heathrow.
Chavez e Clark erano venuti insieme a prenderlo. Vestivano abiti
civili e Domingo teneva un cartello con scritto MALLOY. Il quarto
uomo a scendere dall'aereo indossava un'uniforme da marine, compresa
la cintura Sam Browne, distintivo con ali dorate e quattro file e mezzo di
nastrini sulla blusa verde oliva. Aveva occhi grigio-azzurri e quando vide
il cartello, si avvicinò, quasi trascinando il suo sacco di tela.
«Felice di vedervi», esordì il tenente colonnello Daniel Malloy. «Chi
siete?»
«John Clark.»
«Domingo Chavez.» Si strinsero la mano. «Altri bagagli?» domandò
Ding.
«Questo è tutto quello che ho avuto tempo di preparare. Fate strada voi,
amici», rispose il colonnello Malloy.
«Bisogno di una mano?» chiese Chavez a uno che lo sovrastava di una
quindicina di centimetri e di una ventina di chili.
«Non serve», l'assicurò il marine. «Dove andiamo?»
«L'elicottero ci sta aspettando. L'auto è da questa parte.» Clark fece
strada attraverso una porta laterale, poi scesero alcuni gradini fino a
una vettura in attesa. L'autista prese il bagaglio di Malloy e lo buttò nel
baule. Percorsero meno di un chilometro fino a un elicottero Puma
dell'esercito britannico in attesa.
Malloy si guardò attorno. Era una giornataccia per volare, 500 metri di
visibilità verticale e la pioggerella che veniva giù sempre più fitta, ma lui
non era un passeggero apprensivo. Salirono nel vano di carico
dell'elicottero. Osservò l'equipaggio mentre eseguiva la procedura di
messa in moto in modo professionale, leggendo la check-list stampata,
proprio come faceva lui. Con il rotore in movimento, chiesero per radio
208
l'autorizzazione al decollo. Ci vollero alcuni minuti. Era un'ora di
punta a Heathrow, con molti voli internazionali in arrivo che
scaricavano uomini d'affari. Il Puma staccò le ruote da terra, si portò in
quota e puntò verso una determinata direzione che lui, però, ignorava. A
quel punto, Malloy parlò all'interfono.
«Qualcuno mi sa dire di che diavolo si tratta?»
«Che cosa le hanno detto?»
«Metti nel bagaglio abbastanza biancheria per una settimana», rispose
Malloy, mentre gli occhi gli sorridevano.
«C'è un gran bel magazzino a pochi chilometri dalla base.»
«Hereford?»
«Indovinato», rispose Chavez. «Già stato lì?»
«Un sacco di volte. Ho riconosciuto quegli incroci laggiù per averli
visti in altri voli. Bene, qual è la storia?»
«E probabile che lavorerà con noi», gli disse Clark.
«Chi è "noi", signore?»
«Ci chiamano Rainbow e non esistiamo.»
«Vienna?» chiese Malloy attraverso l'interfono. Il modo in cui entrambi
batterono le palpebre fu una risposta sufficiente. «Tutto è sembrato
filare un po' troppo liscio per dei poliziotti. Qual è la imposizione del
distaccamento?»
«NATO, soprattutto americani e britannici, ma anche altri, più un
israeliano», gli spiegò John.
«E avete messo su tutto questo senza un elicottero?»
«Okay, dannazione, ho toppato», osservò Clark. «Sono nuovo a questo
tipo di comando.»
«Cos'è quello sull'avambraccio, Clark? Che grado ha?»
John si tirò un po' su la manica, mostrando il tatuaggio rosso. «Sono
l'equivalente di due stelle. Ding qui è l'equivalente di un maggiore.»
Il marine esaminò brevemente il tatuaggio. «Ne ho sentito parlare, ma
non ne ho mai visto uno. Terzo gruppo operazioni speciali, vero?
Conoscevo un tale che lavorava con loro.»
«Chi era?»
«Dutch Voort, andato in pensione cinque o sei anni fa con il massimo
grado.»
«Dutch! Cazzo, è tanto che non ho sue notizie», rispose subito Clark.
«Sono stato abbattuto con lui una volta.»
209
«Lei e alcuni altri. Grande pilota, ma la sua fortuna era un po' alterna.»
«Com'è la sua, colonnello?» si informò Chavez.
«Eccellente, ragazzo mio, eccellente», lo rassicurò Malloy. «Potete
chiamarmi Bear e darmi del tu.»
«Nomignolo giusto», fu il giudizio di entrambi sul loro nuovo uomo,
che era proprio grande come un orso. Era alto come Clark, uno e
ottantacinque, e ben piantato, come se sollevasse pesi per divertimento e bevesse poi una buona razione di birra. Chavez pensò al suo
amico Julio Vega, un altro patito del sollevamento pesi. Clark passò in
rassegna le medaglie. Ne aveva una serie di tre per Merito di Pilotaggio e
un'ulteriore serie di tre Stelle d'Argento. Il distintivo a forma di pistola
significava anche che Malloy era un esperto tiratore. Ai marines piaceva
sparare come passatempo e per dimostrare che erano dei bravi tiratori.
Ma nessun nastrino del Vietnam, notò Clark. Be', era troppo giovane,
un'altra occasione per rendersi conto di quanto lui fosse invecchiato.
Ritenne anche che, pur avendo Malloy l'età giusta per essere un tenente
colonnello, con tutte quelle decorazioni avrebbe dovuto avere un grado
superiore. Forse era stato scartato come colonnello pieno? Un problema delle operazioni speciali era che, spesso, facevano uscire dal
binario giusto per fare carriera. Occorreva una particolare attenzione per
accertarsi che il personale ottenesse le promozioni che meritava, il che
non era un problema per i soldati semplici ma lo diventava di frequente
per gli ufficiali.
«Ho cominciato nei reparti di soccorso, poi sono passato nella Force
Recon dei marines, sapete, portarli e poi riportarli indietro. Devi avere un
buon tocco, e penso d'averlo.»
«Su quali macchine hai il passaggio?»
«H-60, Hughes, naturalmente, e H-53. Ci scommetto che non ne
avete neanche uno, vero?»
«Temo di no», disse Chavez a malincuore.
«Il 24° gruppo operazioni speciali della RAF a Mildenhall dispone di
MH-60K e MH-53. Mi trovo bene anche su questi due se li prendete in
prestito. Fanno parte del 1° stormo operazioni speciali e hanno base
qui e in Germania, almeno quando ho verificato l'ultima volta.»
«Davvero?» chiese Clark.
«Davvero, signore. Conosco il tenente colonnello Stanislas Dubrovnik.
Grande elicotterista. È uno esperto se avrete mai fretta di trovare un
210
amico.»
«Lo terrò a mente. Su cos'altro sai volare?»
«Il Night Stalker, è naturale, ma non se ne vedono molti in giro.
Nessuno di base qui, che io sappia.» Poi il Puma virò, compì un giro e si
abbassò verso la piazzola di Hereford riservata agli elicotteri. Malloy
osservò come il pilota manovrava i comandi e lo giudicò competente,
almeno per i voli normali. «Dal punto di vista strettamente tecnico non ho
il passaggio sull'MH-47 Chinook, dato che siamo autorizzati a mantenere
ufficialmente l'abilitazione solo su tre tipi, e tecnicamente non ce l'ho
nemmeno sugli Hughes, ma ci sono nato su uno Hughes, se sa quel che
voglio dire, generale. E, se proprio devo, sono in grado di portare anche
1'MH-47.»
«Il mio nome è John, Mr. Bear, e puoi darmi del tu», disse Clark con
un sorriso. Era in grado di riconoscere un professionista quando ne
vedeva uno.
«Io sono Ding. Un tempo ero nelle forze speciali, ma poi mi hanno
rapito quelli dell'Agenzia. Colpa sua», disse Chavez. «John e io lavoriamo insieme da un bel po'.»
«Suppongo che non puoi fornirmi i pettegolezzi su di lui, allora.
Sono un po' sorpreso di non avervi mai incontrato prima. Ho
trasportato un po' di spie qua e là, di tanto in tanto, se capite ciò che
intendo.»
«Ti sei portato le tue carte?» chiese Clark, intendendo il suo dossier
personale.
Malloy diede una pacca alla sacca. «Sissignore, e sono carte molto
interessanti, anche se non dovrei essere io a dirlo.» L'elicottero atterrò.
Malloy afferrò la sacca, salto giù e si diresse verso la Rover parcheggiata
di fianco alla piazzola. Lì l'autista, un caporale, prese il bagaglio del
pilota e lo gettò sui sedili posteriori. L'ospitalità britannica non era
cambiata di molto. Rispose al saluto e salì dietro. La pioggia
aumentava. E nemmeno tempo inglese, pensò il colonnello. Posto
schifoso per volarci in elicottero, ma non troppo male se ci si voleva
avvicinare senza essere visti. La Rover li portò a quella che sembrava
essere la sede di un comando invece del suo alloggio. Chiunque fossero,
andavano di fretta.
«Bell'ufficio, John», osservò guardandosi attorno una volta entrato.
«Penso che tu sia davvero l'equivalente di un due stelle.»
211
«Sono il comandante», ammise Clark, «e questo basta. Siediti. Caffè?»
«Non dico mai di no», confermò Malloy, prendendo subito dopo
una tazza. «Grazie.»
«Quante ore?» chiese poi Clark.
«Totale? 6.742, l'ultima volta che le ho contate. Di cui, 3.100 di
operazioni speciali. E circa 500 di combattimento.»
«Così tante?»
«Grenada, Libano, Somalia, un paio di altri posti... e la guerra del
Golfo. Ho ripescato quattro autisti di trasporti veloci e li ho portati in
salvo durante quella piccola zuffa. Una di queste operazioni fu un po'
emozionante», ammise Malloy, «ma dall'alto ho avuto un po' d'aiuto
per semplificare le cose. Sapete, il lavoro è piuttosto noioso se lo si
fa secondo gli schemi.»
«Ti devo offrire una birra, Bear», disse Clark. «Sono sempre stato
gentile con quelli del soccorso.»
E io non rifiuto mai l'offerta. I britannici nel tuo gruppo, ex SAS?»
«La maggior parte. Hai già lavorato con loro?»
«Esercitazioni, qui e a Fort Bragg. Sono uomini in gamba, al medesimo
livello della Force Recon, gli esploratori dei marines, e dei miei amici di
Bragg.» Voleva essere generoso, pensò Clark, anche se i locali si
sarebbero leggermente adombrati di essere paragonati ad altri.
«Comunque, suppongo che abbiate bisogno di un ragazzo per le consegne,
vero?»
«Qualcosa di simile. Ding, mostriamo a Bear l'ultima operazione
sul campo.»
«Sissignore, Mr. C.» Chavez srotolò la grande foto dello Schloss
Ostermann sul tavolo di riunione di Clark e iniziò la sua spiegazione,
mentre entrarono per unirsi al gruppo Stanley e Covington.
«Sì», disse Malloy quando la spiegazione ebbe termine. «Avevate
davvero bisogno di qualcuno come me, ragazzi.» Fece una pausa. «La
cosa migliore sarebbe stata calare con il canapone tre o quattro sul
tetto... più o meno... qui. Toccò la foto. Un bel tetto piano per facilitare le
cose.»
«E più o meno quello che pensavo. Non facile come una discesa in
corda doppia, ma probabilmente più sicura», concordò Chavez.
«Sì, è facile se si sa quello che si fa. I tuoi ragazzi dovranno imparare a
posarsi con dolcezza, è naturale, ma è meglio avere tre o quattro persone
212
all'interno del castello quando ne hai bisogno. Visto com'è andata,
immagino che i tuoi uomini sappiano come sparare e roba del genere.»
«Piuttosto bene», rispose Covington, con un tono di voce neutro.
Mentre Chavez presentava la sua missione riuscita, Clark diede una
scorsa al dossier personale di Malloy. Sposato con Frances, nata
Hutchins Malloy, due figlie, di dieci e otto anni. La moglie era
un'infermiera civile che lavorava per la marina. Be', era facile da
sistemare. Sarebbe stato abbastanza semplice per Sandy trovarle una
sistemazione nel suo ospedale. Il tenente colonnello Malloy, del corpo
dei marines degli Stati Uniti, era senz'altro uno che dovevano tenere.
Da parte sua, Malloy era interessato. Chiunque questi uomini fossero,
avevano un sacco di energia. L'ordine di volare in Inghilterra era arrivato
direttamente dall'ufficio del CINC-SNAKE, "Big Sam" Wilson, e quelli
che aveva incontrato finora sembravano piuttosto seri. Quello basso,
Chavez, era un figlio di puttana piccolo ma competente, e dal modo in
cui gli aveva illustrato l'operazione di Vienna e dall'esame delle foto, si
capiva anche che il suo team doveva essere piuttosto in gamba,
soprattutto i due che avevano strisciato fino alla casa per neutralizzare
l'ultimo gruppo di terroristi rimasti indietro. L'invisibilità era una bella
cosa se si riusciva a perfezionarla, ma un vero disastro se si falliva. Le
buone notizie, rifletté, erano che i cattivi non erano così bravi nei propri
compiti. Non erano addestrati come i suoi marines. Quella mancanza
quasi cancellava la loro malvagità, ma non del tutto. Come la maggior
parte della gente in uniforme, Malloy detestava i terroristi considerandoli
come esseri subumani e codardi, che meritavano solo una morte violenta e
immediata.
Poi Chavez lo condusse nell'edificio del suo team, dove Malloy
incontrò gli uomini, strinse le mani e fece una valutazione di quello
che vide. Sì, erano seri, come lo erano quelli del team 1 di Covington
nell'edificio di fianco. Alcuni avevano intuito e capacità che
permetteva di valutare chiunque incontrassero e decidere subito se
costituiva una minaccia. Non che gli piacesse uccidere e ferire: era il loro
lavoro e li condizionava nel modo di vedere il mondo. Malloy lo
giudicarono un amico potenziale, un uomo degno della loro fiducia e
del loro rispetto, e ciò infervorò il pilota. Sarebbe stato il professionista a
cui affidarsi perché li portasse dove dovevano andare, con rapidità, in
segreto e in sicurezza... e poi portarli via allo stesso modo. La parte
restante del giro della base d'addestramento, per un addetto ai lavori,
213
era scontata. I soliti edifici, simulazioni degli interni di aeroplani, tre vere
carrozze ferroviarie per passeggeri e le altre cose su cui si allenavano per
gli attacchi; il poligono di tiro con i bersagli a comparsa. Per
mezzogiorno furono di ritorno nell'edificio del comando di Clark.
«Bene, Bear, che ne pensi?» chiese Rainbow Six.
Malloy sorrise sedendosi. «Penso di avere un serio problema di jet lag.
E penso che qui hai un bel gruppo. Allora, mi volete?»
Clark annuì. «Credo di sì, sì. Cominci domani mattina.»
«Con che cosa?»
«Ho chiamato quel gruppo dell'USAF di cui ci hai parlato. Ci
presteranno un MH-60 per farti divertire.»
«Gentile da parte loro.» Ciò significava, per Malloy, che avrebbe dovuto
dimostrare di essere un buon pilota. Una prospettiva che non lo
turbava. «E la mia famiglia? È una trasferta temporanea o che cosa?»
«No, è un incarico permanente. Ti raggiungeranno con il solito
pacchetto statale.»
«D'accordo. Ne avremo molte di missioni?»
«Finora ne abbiamo avute due, Berna e Vienna. È impossibile dire
quanto saremo occupati in operazioni reali, ma troverai che qui la
razione di addestramento è piuttosto sostanziosa.»
«A me sta bene, John.»
«Vuoi lavorare con noi?»
La domanda sorprese Malloy. «È un gruppo di volontari?»
Clark annuì. «Ognuno di noi.»
«Ma pensa!» rispose Malloy. «Va bene. Potete arruolarmi.»
«Posso fare una domanda?» chiese Popov a New York.
«Certo», replicò il capo, sospettando quale sarebbe stata.
«Qual è lo scopo di tutto ciò?»
«Al momento non ha davvero la necessità di saperlo», fu la prevista
risposta alla prevista domanda.
Popov fece un cenno di deferente approvazione con il capo. «Come
vuole lei, signore, ma sta spendendo una grossa quantità di denaro
senza alcun ritorno, per quanto riesco a capire.» Il russo sollevò
apposta la questione del denaro, per vedere la reazione del suo datore
di lavoro.
La reazione fu di autentica noia: «Il denaro non è importante».
214
E benché la risposta non fosse inaspettata, tuttavia non mancò di
sorprendere Popov. Per tutta la sua vita professionale nel KGB sovietico,
aveva erogato denaro in quantità risicata a persone che avevano per lui
rischiato la vita e la libertà, spesso aspettandosi più di quello che
avevano ricevuto, poiché il materiale e le informazioni procurati
valevano molto. Ma quest'uomo aveva già pagato molto più di quanto
Popov avesse distribuito in oltre quindici anni di operazioni sul
campo... per nulla, per due disastrosi fallimenti. Eppure, Dmitrij
Arkadeevič vide che sul suo volto non c'era delusione. Che diavolo
voleva dire tutto ciò?
«Che cosa è andato storto in questo caso?» chiese il boss.
Popov scrollò le spalle. «Avevano la volontà, ma hanno fatto l'errore di
sottovalutare la capacità di risposta della polizia. In effetti è stata
molto in gamba», confermò al suo datore di lavoro. «Più di quanto mi
aspettassi, ma non è stata una sorpresa. Molte polizie nel mondo
dispongono di reparti antiterrorismo piuttosto ben addestrati.»
«È stata la polizia austriaca?»
«Così hanno riferito gli organi d'informazione. Non ho fatto ulteriori
indagini. Avrei dovuto?»
L'altro scosse la testa. «No, pura curiosità da parte mia.» Quindi,
non te ne importa se queste operazioni hanno successo o no, pensò
Popov. Allora, perché diavolo le finanzi? Non vi era alcuna logica in
questo. Nessuna al mondo. Ciò avrebbe dovuto preoccupare Popov,
invece non fu così. Su questi fallimenti lui si stava arricchendo. Lui
conosceva chi finanziava le operazioni, e aveva tutte le prove,
ovvero il contante, che gli servivano per dimostrarlo. Così,
quest'uomo non poteva rivoltarsi contro di lui. Caso mai doveva temere il
suo dipendente. Popov aveva contatti nel mondo del terrorismo e avrebbe
potuto facilmente aizzarli contro la persona che sborsava i soldi. Sarebbe
stata una paura comprensibile per quell'uomo, rifletté Dmitrij.
Oppure no? Di che cosa aveva timore quest'uomo? Finanziava
l'omicidio... be', nell'ultimo caso, il tentato omicidio. Possedeva immense
ricchezze e potere e gli uomini di questo tipo temono di perdere queste
cose più della morte. Si ritornava al punto di partenza, disse tra sé l'ex
ufficiale del KGB: di che diavolo si trattava? Perché macchinava la morte
delle persone e chiedeva la stessa cosa a Popov... lo faceva per
eliminare gli ultimi terroristi del mondo? Ciò aveva un senso?
215
Utilizzare Popov come paravento, come agent provocateur, per stanarli
e farli scontrare con le addestratissime squadre antiterrorismo dei vari
paesi? Dmitrij decise di effettuare una piccola ricerca sul suo datore di
lavoro. Non sarebbe stato troppo difficile, la biblioteca pubblica di New
York si trovava a soli due chilometri dalla Quinta Avenue.
«Che tipo di persone erano?»
«Di chi parla?» domandò Popov.
«Dortmund e Fürchtner», precisò il capo. Fürchtner»
«Pazzi. Credevano ancora nel marxismo-leninismo. In gamba a modo
loro, intelligenti dal punto di vista tecnico, ma le loro idee politiche erano
sbagliate. Erano incapaci di cambiare mentre il inondo cambiava. E
ciò è pericoloso. Non sono riusciti ad adeguarsi ai tempi e per questo
sono morti.» Non era granché come epitaffio, Popov lo sapeva. Erano
cresciuti studiando le opere di Karl Marx e Friedrich Engels e tutto il
resto... gli stessi le cui parole Popov aveva studiato per tutta la sua
giovinezza; ma anche da ragazzo lui aveva avuto più buon senso e i suoi
viaggi per il mondo come ufficiale del KGB non avevano fatto altro che
rafforzare la sua sfiducia nelle parole di quegli accademici del
Diciannovesimo suolo. Il suo primo volo su un aereo di linea di
costruzione americana, chiacchierando in modo amichevole con le
persone vicine a lui, gli aveva insegnato molto. Ma Hans e Petra... be',
erano cresciuti nel sistema capitalista, ne avevano provato tutti gli agi e i
benefici e, ciononostante, avevano deciso che il loro era un sistema
privo di qualcosa di cui sentivano la necessità. Forse, in un certo modo
erano stati com'era stato lui, pensò Dmitrij Arkadeevič, soltanto
insoddisfatti, desiderosi di far parte di qualcosa di meglio. No, lui
aveva sempre voluto qualcosa di meglio per se stesso, mentre loro
avevano sempre voluto portare gli altri in paradiso per guidare e
governare come buoni comunisti. E per realizzare quell'utopistica
visione, avevano voluto attraversare un mare di sangue innocente. Pazzi. Si
accorse che il suo datore di lavoro aveva preso per buona la versione
abbreviata delle loro vite perdute e andò avanti.
«Rimanga in città per alcuni giorni. La chiamerò quando avrò bisogno
di lei.»
«Ai suoi ordini, signore.» Popov si alzò, uscì dall'ufficio e prese
l'ascensore per scendere al piano terra. Una volta lì, decise di andare verso
sud, alla biblioteca con i leoni sulla facciata. L'esercizio poteva chiarirgli
216
le idee e lui aveva ancora qualche pensierino da fare. Quando avrò
bisogno di lei, poteva significare un'altra missione, e presto.
«Erwin? George. Come stai, amico mio?»
«È stata una settimana un po' movimentata», ammise Ostermann. Il suo
medico personale gli aveva ordinato dei tranquillanti che, secondo lui,
non avevano molto effetto. La sua mente ricordava ancora la paura.
Inoltre, Ursel era arrivata a casa, giungendo ancor prima della missione di
salvataggio; e quella notte era andato a letto poco dopo le quattro del
mattino, lei era venuta a letto con lui, solamente per tenerlo stretto a sé, e
tra le sue braccia aveva tremato e pianto per l'acuto terrore che era riuscito
a controllare giusto fino al momento in cui quel Fürchtner era morto a
meno di un metro alla sua sinistra. C'era del sangue e altri frammenti di
tessuto sui suoi abiti, che avevano dovuto essere mandati in lavanderia.
Chi aveva rischiato di più era Dengler che, secondo i medici, non sarebbe
rientrato al lavoro per almeno una settimana. Da parte sua, Ostermann
sapeva che avrebbe chiamato quel britannico che era venuto da lui con la
proposta di protezione, soprattutto dopo aver sentito le parole dei suoi
salvatori.
«Non so dirti quanto mi faccia piacere che tutto sia finito bene, Erwin.»
«Grazie, George», rispose al segretario al Tesoro americano. «Apprezzi
di più le tue guardie del corpo rispetto alla settimana scorsa?»
«Puoi scommetterci. Prevedo che in quel settore ci sarà presto un
incremento degli affari.»
«Un'occasione d'investimento?» chiese Ostermann con una risatina un
po' triste.
«Non volevo dire quello», replicò Winston quasi ridendo.
«George?»
«Sì?»
«Non erano austriaci, non è vero quello che hanno riportato la
televisione e i giornali... mi hanno detto di non rivelarlo, ma tu puoi
saperlo. Erano americani e britannici.»
«Lo so, Erwin, so chi sono, ma è tutto quello che posso dire.»
«Devo a loro la mia vita. Come posso sdebitarmi?»
«È quello per cui sono pagati, amico mio. È il loro mestiere.»
«Vielieicht, ma è stata la mia vita che hanno salvato e quella dei miei
dipendenti. Ho un debito personale verso di loro. C'è un modo in cui
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possa fare qualcosa per loro?»
«Non so», rispose George Winston.
«Puoi scoprirlo? Se tu "sai chi sono", potresti scoprirlo? Hanno figli?
Posso pagare per la loro educazione, creare un fondo di qualche tipo.»
«Probabilmente no, Erwin, ma posso provare», disse il segretario al
Tesoro, prendendo nota. Sarebbe stata una vera seccatura per qualcuno
della sicurezza, ma doveva pur esserci un modo, magari attraverso
qualche studio legale di Washington, per farlo senza che nessuna delle
parti sapesse dell'altra. Fece piacere a Winston che Erwin volesse farlo.
Noblesse oblige non era una frase completamente defunta. «Allora, sei
sicuro di star bene?»
«Grazie a loro, sì, George.»
«Mi ha fatto piacere sentirti, amico mio. Ci vediamo la prossima volta
che vengo in Europa.»
«Certo, George. Buona giornata.»
«Anche a te. Ciao.» Winston premette alcuni pulsanti sul telefono.
Poteva anche verificarlo subito. «Mary, potresti cercarmi Ed Foley alla
CIA?»
10
RICERCHE
Popov non lo faceva da anni, ma si ricordava come fare. Sul suo datore
di lavoro c'erano più articoli che su molti politici... era proprio giusto,
pensò, dato che quest'uomo aveva fatto cose molto più importanti e
interessanti per il suo paese e per il mondo... ma questi articoli
riguardavano soprattutto gli affari, che non servirono se non a far crescere
in lui la stima per la ricchezza e l'influenza di quella persona. C'era poco
sulla sua vita personale, tranne che era divorziato. Un peccato, in un certo
senso. La sua ex moglie sembrava attraente e intelligente, a giudicare
dalle foto e dalle altre notizie che la riguardavano. Forse due persone così
intelligenti avevano problemi a stare insieme. Se era così, era un peccato
per la donna, pensò il russo. Poteva darsi che a pochi americani piacesse
avere sotto il loro tetto una persona di pari intelligenza. Faceva davvero
troppa paura ai deboli... e, secondo il russo, solo un debole avrebbe potuto
esserne turbato.
Ma non c'era nulla che collegasse quell'uomo ai terroristi o al
218
terrorismo. Non era stato mai attaccato lui stesso, nemmeno un semplice
scippo, secondo il New York Times. Queste cose non sempre facevano
notizia, era naturale. Forse un fatto che non aveva mai avuto l'onore delle
cronache. Ma se era stato così importante da cambiare il corso della sua
vita... lo si sarebbe dovuto sapere.
Forse. Quasi certamente, pensò. Ma quasi era una parola preoccupante
per un ufficiale dei servizi. Si trattava di un uomo d'affari. Un genio, sia in
campo scientifico sia nella conduzione di un'importante impresa.
Sembrava che lì lo portassero le sue passioni. C'erano molte sue foto con
donne, di rado due volte la stessa, mentre partecipava a diverse cerimonie
benefiche o sociali... tutte attraenti, notò Popov, come bei trofei, da usare
e appendere alla parete nell'apposito spazio vuoto, mentre andava a
cercarne un'altra. Allora, per che razza d'uomo stava lavorando?
Popov dovette ammettere che in realtà non lo sapeva, e questo era
molto preoccupante. La sua vita era data in pegno a un uomo di cui non
capiva le motivazioni. Non conoscendole, non era in grado di valutare a
quali pericoli operativi andasse incontro. Se lo scopo fosse stato scoperto
da altri, e il suo datore di lavoro smascherato e arrestato, per lui, Popov, ci
sarebbe stato il pericolo dell'arresto con gravi capi d'imputazione. Bene,
pensò l'ex ufficiale del KGB, mentre restituiva all'impiegato i periodici,
c'era una soluzione facile per tutto ciò. Disponeva pur sempre di una
valigia e di due false identità pronte all'uso. Quindi, al primo segnale di
pericolo, sarebbe corso in un aeroporto internazionale e sarebbe volato in
Europa il più velocemente possibile, dove sarebbe scomparso e si sarebbe
goduto il denaro depositato in banca. Ne aveva già abbastanza da
assicurarsi una vita agiata per diversi anni, forse anche più a lungo se
riusciva a trovare un buon consulente finanziario. Scomparire dalla faccia
della terra non era poi così difficile per uno con l'addestramento adatto,
disse tra sé, uscendo sulla Quinta Avenue. Tutto quello che serviva erano
quindici o venti minuti di preavviso... Ora, come poteva essere sicuro di
averli?
Bill Tawney si rese conto che la polizia federale tedesca era stata
efficiente come sempre. Tutti e sei i terroristi furono identificati entro
quarantott'ore, e mentre i testi degli interrogatori dei loro amici, vicini e
conoscenti erano ancora in viaggio, la polizia possedeva già molte
informazioni e le aveva inoltrate agli austriaci, i quali le avevano passate,
attraverso l'ambasciata britannica a Vienna, a Hereford. Il pacco
219
conteneva una foto e i disegni della casa appartenuta a Fürchtner e Petra
Dortmund. Tawney vide che uno dei due era stato un pittore di modesto
talento. Il rapporto diceva che avevano venduto quadri in una galleria del
luogo, firmati, ovviamente, con uno pseudonimo. Forse avevano
acquistato valore adesso, pensò con indifferenza, voltando la pagina.
Avevano avuto un computer, ma i documenti su di esso non furono molto
utili. Uno di loro, probabilmente Fürchtner, ritenevano gli inquirenti
tedeschi, aveva scritto lunghi articoli polemici d'argomento politico,
allegati ma non ancora tradotti; Tawney giudicò probabile che il dottor
Bellow volesse leggerli. Oltre a questo, c'era poco di significativo. Libri,
molti di argomento politico, perlopiù stampati e acquistati nell'ex DDR.
Un bell'impianto tv e stereo e un sacco di dischi e CD di musica classica.
Una dignitosa auto di media cilindrata, ben tenuta, e assicurata con una
compagnia locale, utilizzando i loro nomi di copertura, Siegfried e Hanna
Kolb. Non avevano avuto veri amici nel vicinato e ogni aspetto pubblico
della loro vita era stato in Ordnung, non provocando pertanto alcun
commento di alcun genere. Eppure, pensò Tawney, se ne erano rimasti
come serpenti attorcigliati, aspettando che cosa?
Che cosa li aveva fatti scattare? La polizia tedesca non trovava
spiegazioni per questo. Un vicino aveva riferito che una vettura si era
fermata davanti alla loro casa alcune settimane prima... ma chi fosse
venuto e per quale motivo, nessuno lo sapeva. La targa non era mai stata
notata, e nemmeno la marca, anche se la trascrizione dell'intervista diceva
che si trattava di un'auto di fabbricazione tedesca, probabilmente bianca o
almeno di colore chiaro. Tawney non fu in grado di valutare l'importanza
di questa informazione. Avrebbe potuto trattarsi dell'acquirente di un
quadro, un agente delle assicurazioni... o la persona che li aveva tratti
dalla copertura e restituiti alla loro precedente vita di terroristi
dell'estrema sinistra.
Per questo ufficiale di carriera dei servizi non era affatto insolito
concludere che, sulla base delle informazioni in suo possesso, non c'era
niente da concludere. Disse alla segretaria di inviare gli scritti di
Fürchtner a un traduttore per poter essere successivamente analizzati da
lui stesso e dal dottor Bellow, e questo fu più o meno tutto quel che poté
fare. Qualcosa aveva destato i due terroristi tedeschi dal loro letargo
professionale, ma lui non sapeva cosa. Era possibile che la polizia
federale tedesca potesse trovare per caso la risposta, ma Tawney ne
dubitava. Fürchtner e la Dortmund avevano scoperto come vivere in
220
maniera riservata in un paese la cui polizia era piuttosto brava a scovare le
persone. Qualcuno che loro conoscevano e di cui si fidavano era venuto
da loro e li aveva convinti a imbarcarsi in una missione. Chiunque fosse
stato, aveva saputo come contattarli, e questo provava che esisteva ancora
un qualche tipo di rete terroristica. I tedeschi l'avevano immaginato e, in
un'annotazione sul loro rapporto preliminare, raccomandavano un'ulteriore indagine attraverso informatori prezzolati, il che avrebbe potuto o
meno funzionare. Tawney aveva dedicato alcuni anni della sua vita a
infiltrarsi nei gruppi terroristici irlandesi, e aveva ottenuto alcuni piccoli
successi, ingigantiti all'epoca dalla loro rarità. Ma da allora era avvenuto
un processo di selezione darwiniano nel mondo del terrorismo. Gli stupidi
erano morti, e quelli in gamba sopravvivevano; dopo quasi trent'anni di
caccia da parte di reparti di polizia sempre più abili, i terroristi
sopravvissuti erano diventati particolarmente efficienti e i migliori tra loro
erano stati addestrati nella stessa centrale di Mosca da ufficiali del KGB...
Poteva essere questa una pista per le indagini? si domandò Tawney. I
nuovi russi avevano in qualche modo collaborato... ma non molto per
quanto riguardava il terrorismo, forse a causa dell'imbarazzo per il loro
precedente coinvolgimento con quella gente... o forse perché i registri
erano stati distrutti, cosa che i russi spesso sostenevano, e Tawney non
aveva mai creduto. Gente come quella non distruggeva mai niente. I
sovietici avevano sviluppato la più potente burocrazia del mondo, e i
burocrati non riuscivano a distruggere le registrazioni. In ogni caso,
cercare la collaborazione dei russi in un affare del genere superava di
molto la sua sfera d'autorità, anche se poteva scrivere una richiesta, e
anche risalire uno o due livelli lungo la catena prima di essere bloccato da
qualche funzionario di rango elevato del Foreign Office. Decise che ci
avrebbe provato comunque. Avrebbe almeno fatto sapere a quelli di
Century House, quasi di fronte al palazzo di Westminster, dall'altra parte
del Tamigi, che lui era ancora vivo e all'opera.
Tawney infilò di nuovo tutte le carte, comprese le sue note, nello spesso
raccoglitore di cartone prima di mettersi a lavorare alla richiesta il cui
destino era già segnato. Ma esisteva ancora una rete terroristica e
qualcuno noto ai suoi membri possedeva le chiavi di quel piccolo regno
del male. Forse i tedeschi avrebbero scoperto dell'altro, e forse i dati
avrebbero preso la strada della sua scrivania. In tal caso, si chiese
Tawney, sarebbero stati in grado John Clark e Alistair Stanley di
organizzare un attacco? No, era più facile che fosse un lavoro per la
221
polizia di qualche nazione o città coinvolta. Non occorreva essere poi
tanto furbi per metterne uno nel sacco. I francesi l'avevano dimostrato con
Carlos.
Il'ych Ramirez Sanchez non era un uomo felice, ma la cella del carcere
La Sante non era stata fatta per renderlo tale. Era stato un tempo il
terrorista più temuto del mondo, aveva ucciso uomini con le sue mani, e
l'aveva fatto con la naturalezza di uno che si tira su la lampo dei calzoni.
Aveva avuto alle calcagna tutte le polizie e i servizi del mondo, e si
prendeva gioco di loro al sicuro nei rifugi dell'ex Europa dell'Est. Aveva
letto le congetture della stampa su chi fosse lui in realtà e per chi
lavorasse davvero, oltre a documenti del KGB su ciò che i servizi stranieri
facevano per catturarlo... finché le nazioni dell'ex Patto di Varsavia non
avevano cambiato regime, privandolo del supporto statale alle sue azioni
rivoluzionarie. Era finito in Sudan, dove aveva deciso di valutare i rischi
un po' più seriamente. Era stato necessario ricorrere a un minimo di
chirurgia estetica e così era andato da un medico fidato per l'intervento, in
anestesia totale... e si era svegliato a bordo di un aereo d'affari francese,
legato a una barella con un francese che gli aveva detto: «Bonjour
Monsieur Chacal», con il sorriso radioso di un cacciatore che aveva
appena catturato con un pezzettino di corda la più pericolosa delle tigri.
Processato per l'uccisione di un informatore e di due agenti del
controspionaggio francese nel 1975, si era difeso proclamandosi un
"rivoluzionario professionista" in una nazione che aveva avuto la sua
rivoluzione duecento anni prima, e non sentiva il bisogno di averne
un'altra.
Ma la cosa peggiore fu essere processato come un... criminale, come se
il suo lavoro non avesse avuto alcuna conseguenza politica. Aveva cercato
di mettere da parte quell'aspetto, ma il pubblico ministero non l'aveva
permesso, con la voce che grondava disprezzo durante l'elencazione dei
suoi capi d'accusa... in realtà era andato ancora oltre, perché pur essendo
stato molto professionale nella presentazione dei fatti, si era riservato per
il seguito il proprio sdegno. Per tutto il tempo Sanchez aveva conservato
intatta la sua dignità, ma dentro aveva sentito la sofferenza di un animale
in trappola, e aveva dovuto fare appello al proprio coraggio per
mantenersi in ogni istante impassibile. E il risultato finale non era stato
affatto una sorpresa.
Il carcere aveva già un centinaio d'anni quando lui era nato, ed era stato
222
costruito come una prigione medievale. La sua cella era piccola e aveva
una sola finestra, ma la sua statura non gli consentiva di vedere oltre il
davanzale. Le guardie, però, avevano una telecamera con cui lo
sorvegliavano ventiquattr'ore al giorno, come un animale molto speciale
in una gabbia altrettanto speciale. Era solo come nessun altro, senza
possibilità di contatti con gli altri carcerati, e con il permesso di lasciare la
sua gabbia solo una volta al giorno per un'ora di "esercizio" nel desolato
cortile della prigione. Carlos sapeva di non potersi aspettare molto di più
per il resto della sua vita, e al pensiero provava sgomento. La cosa
peggiore era la noia. Aveva libri da leggere, ma nessun posto per
camminare oltre ai pochi metri quadri della sua cella, e ora tutto il mondo
sapeva che lo Sciacallo era per sempre in gabbia e poteva essere quindi
dimenticato.
Dimenticato? Il mondo intero una volta temeva il suo nome. Quello era
il lato più doloroso della faccenda.
Prese mentalmente nota di contattare l'avvocato. Quelle conversazioni
avevano ancora il privilegio di essere private e il suo legale conosceva
alcuni nomi da chiamare.
«Avviare i motori», comunicò Malloy. I due propulsori a turbina si
misero in moto e poco dopo il rotore principale quadripala cominciò a
ruotare.
«Giornataccia», osservò all'interfono il sottotenente Harrison.
«Sei qui da molto?» chiese Malloy.
«Solo da alcune settimane, signore.»
«Be', ragazzo mio, ora sai perché i britannici hanno vinto la battaglia
d'Inghilterra. Nessun altro sa volare in questa merda.» Il marine si guardò
attorno. Oggi non c'era in volo nessun altro. La visibilità verticale era
inferiore ai trecento metri e pioveva piuttosto forte. Malloy verificò di
nuovo il pannello strumenti. Tutti i sistemi del velivolo erano sul verde,
ossia tutto funzionava normalmente.
«Okay, colonnello. Signore, quante ore ha sul Night Hawk?»
«Circa settecento. Ho una leggera preferenza per le prestazioni del Pave
Low, ma a questo piace volare. È quasi arrivato il momento di vederlo in
azione, ragazzo.» Malloy tirò su il comando del passo collettivo, posto
alla sua sinistra, e il Night Hawk decollò, ondeggiando un po' in mezzo
alle raffiche con trenta nodi di vento. «Tutto bene lì dietro?»
223
«Ho pronto il sacchetto», rispose Clark, con gran divertimento di Ding.
«Conosci un tipo di nome Paul Johns?»
«Colonnello dell'USAF, giù a Eglin? È andato in pensione circa cinque
anni fa.»
«Proprio lui. È bravo?» domandò Clark, soprattutto per farsi un'idea su
Malloy.
«Nessuno è meglio di lui su un elicottero, soprattutto un Pave Low. Lui
gli parla, e l'altro l'ascolta. Lo conosci, Harrison?»
«Solo di fama, signore», rispose il copilota seduto a sinistra.
«Piccolino, buon giocatore di golf. Fa il consulente ora, e lavora parttime anche con la Sikorsky. Lo vediamo di tanto in tanto su a Fort Bragg.
Okay, bimbo, vediamo quello che sai fare.» Malloy fece compiere
all'elicottero una stretta virata a sinistra. «Niente risponde ai comandi
come un MM-60. Dannazione, come mi piacciono queste cose. Bene,
Clark, qual è adesso la missione?»
«L'edificio del poligono, simuliamo una discesa con il canapone.»
«Di nascosto o all'assalto?»
«Assalto», precisò John.
«È facile. In un punto particolare?»
«L'angolo di sudest, se riesci.»
«D'accordo, andiamo.» Malloy spostò il comando del passo ciclico a
sinistra e in avanti, facendo scendere l'elicottero come un ascensore
veloce, lanciandosi verso l'edificio del poligono come un falco dietro a un
fagiano. E come un falco si tirò su bruscamente nel punto giusto,
passando così rapidamente al volo a punto fisso; il copilota si girò
meravigliato per la rapidità con cui era riuscito a effettuare la manovra.
«Cosa te ne pare, Clark?»
«Non male», ammise Rainbow Six.
Poi Malloy diede potenza ai motori con il comando del passo collettivo
alla sua sinistra per tirare fuori l'anima velocemente... quasi, ma non del
tutto, come se non si fosse affatto fermato sopra l'edificio. «Posso
migliorare una volta che mi sarò abituato ai tuoi ragazzi, verificando
quanto sono veloci nella fase di uscita, ma una discesa in corda doppia è
di solito migliore, come sai.»
«Finché non perdi la percezione della profondità e non ci porti diritto
contro quella fottuta parete», osservò Chavez. Quest'osservazione gli
procurò un sguardo diritto negli occhi e un'espressione di finto dolore.
224
«Ragazzo mio, cerchiamo di evitarlo. Non c'è nessuno che faccia
meglio di me la manovra della sedia a dondolo.»
«È difficile azzeccarla», osservò Clark.
«Sì, lo è», concordò Malloy, «ma io so anche suonare il piano.»
Si resero conto che era un uomo cui non mancava la fiducia in se stesso.
Persino il sottotenente nel posto dì sinistra pensò che fosse un po' troppo
supponente, ma lui comunque studiava tutto, in particolare come Malloy
utilizzava i comandi per controllare potenza, portanza e direzione. Dopo
venti minuti, erano a terra.
«Ecco più o meno come si fa, ragazzi», disse loro Malloy, quando il
rotore cessò di girare. «Quando cominciamo l'addestramento vero e
proprio?»
«E abbastanza presto domani?» domandò Clark.
«Per me va bene, signor generale. Altra domanda, facciamo pratica sul
Night Hawk o devo abituarmi a volare su qualcos'altro?»
«Non l'abbiamo ancora deciso», osservò John.
«Be', è piuttosto importante. Ogni elicottero da una sensazione diversa e
questo ha un effetto sulle mie prestazioni», sottolineò Malloy. «Do il
meglio su uno di questi. Sono quasi altrettanto bravo con uno Hughes, che
però è rumoroso in avvicinamento e rende difficile operare in modo
furtivo. Gli altri... be', devo abituarmici. Ci vogliono alcune ore di
scossoni e virate prima di sentirmi del tutto a mio agio.» Tralasciando il
fatto di dover imparare dov'erano tutti gli strumenti, dato che non vi erano
in tutto il mondo due aeromobili che avessero gli apparati di controllo
nella medesima posizione, qualcosa di cui gli aviatori si lamentavano
dall'epoca dei fratelli Wright. «Se andiamo in missione, ogni volta che
decollo metto a repentaglio delle vite, la mia e quella degli altri. Preferirei
contenere al minimo i rischi. Sono un tipo prudente.»
«Me ne occuperò oggi stesso», promise Clark. «Fallo.» Malloy fece un
cenno e s'incamminò verso lo spogliatoio.
Popov si concesse una lauta cena in un ristorante italiano a mezzo
isolato dal suo caseggiato, si godette l'aria frizzante della città e si fumò
un sigaro Montecristo dopo essere rientrato nel suo appartamento. Aveva
ancora del lavoro da fare. Si era procurato alcuni nastri dei notiziari su
entrambe le azioni terroristiche che aveva istigato e voleva studiarli. In
entrambi i casi, i telecronisti parlavano tedesco, quello svizzero, e poi
225
l'austriaco, che lui conosceva come un madrelingua (della Germania). Si
sedette in una poltrona con in mano il telecomando, tornando ogni tanto
indietro per rivedere qualche particolare strano, esaminando attentamente
i filmati, memorizzando ogni dettaglio con la sua mente allenata.
Naturalmente, le parti più interessanti erano quelle che mostravano le
squadre d'assalto che, alla fine, avevano risolto entrambi gli incidenti con
azioni decisive. La qualità delle immagini era scadente. La televisione non
consentiva immagini d'alta qualità, soprattutto in condizioni di scarsa luce
e da duecento metri di distanza. Nel primo nastro, quello su Berna, non
c'erano più di novanta secondi di immagini prima dell'azione della
squadra d'assalto... questa parte non era stata trasmessa durante l'attacco,
ma solo in seguito. Gli uomini si muovevano in maniera professionale, in
un modo che sembrava ricordare i danzatori russi, così stranamente
delicati e stilizzati erano i movimenti degli uomini vestiti di nero, mentre
strisciavano da sinistra e da destra... poi arrivò l'azione straordinariamente
rapida punteggiata da sobbalzi delle telecamere quando ci furono le
esplosioni... che facevano sempre sussultare gli operatori. Nessun rumore
di spari. Significava che le armi avevano i silenziatori. Si faceva in modo
che le vittime non riuscissero a capire dal rumore da dove provenivano gli
spari... ma in questo caso la cosa non era stata davvero importante, dato
che i terroristi-criminali erano stati uccisi prima che l'informazione
potesse tornar loro di qualche utilità. Comunque si faceva così. Era
un'attività programmata come un qualunque sport professionistico, con le
regole del gioco imposte da una forza mortale. Compiuta l'operazione nel
giro di pochi secondi, la squadra d'assalto uscì, e la polizia di Berna entrò
per mettere un po' d'ordine. Vide che gli uomini in nero avevano agito
senza dare nell'occhio, come soldati disciplinati su un campo di battaglia.
Nessuna stretta di mano per complimentarsi o altre effusioni. No, erano
troppo ben addestrati per quello. Nemmeno qualcuno che si accendesse
una sigaretta... ah, uno sembrava accendere una pipa. Quello che seguì fu
il solito commento insulso dei commentatori locali, che parlavano di
questa unità di polizia d'élite e di come aveva salvato tutte le vite di quelli
all'interno, undo so weiter, pensò Popov, alzandosi per cambiare cassetta.
Si accorse che la missione di Vienna aveva avuto una copertura tv
ancora più scarsa, a causa delle caratteristiche della casa di quel tizio.
Davvero stupenda. Una dimora di campagna così avrebbero benissimo
potuto averla i Romanov. Qui la polizia aveva strettamente controllato la
copertura tv, il che era comprensibile, pensò Popov, ma di nessun aiuto
226
per lui. Il servizio registrato mostrava la facciata dell'edificio con noiosa
regolarità, punteggiata dalle parole monotone del cronista che ripeteva
continuamente le stesse cose, dicendo ai telespettatori di non essere in
grado di parlare più di tanto con la polizia presente sul posto. Si vedeva il
movimento delle vetture, e l'arrivo di quella che doveva essere la squadra
d'assalto austriaca. Fu interessante il fatto che, al loro arrivo, apparvero
vestiti con abiti civili e si cambiarono subito dopo indossando uniformi da
battaglia. Per questa squadra sembravano verdi... no, si accorse che si
trattava di indumenti verdi sopra le solite tute nere. Significava qualcosa?
Gli austriaci avevano due uomini con fucili dotati di mirino telescopico
che sparirono subito nelle auto; dovevano averli portati dietro lo schloss.
Il capo della squadra d'assalto, un uomo non molto alto, somigliante a
quello che Popov pensava avesse guidato la squadra di Berna, fu visto da
grande distanza consultare delle carte... pianta, schizzi, piani della casa e
del parco, senza dubbio. Poi, poco prima di mezzanotte, erano scomparsi
tutti, lasciando Popov a guardare un nastro con la residenza illuminata da
grandi fari, con l'accompagnamento delle più idiote congetture da parte di
un giornalista tv male informato. Poco dopo mezzanotte, arrivò da lontano
il colpo secco di un fucile, seguito da altri due colpi, silenzio e poi, nel
campo visivo della telecamera, la frenetica attività dei poliziotti in
uniforme, venti dei quali s'infilarono di corsa dentro la porta anteriore
imbracciando le pistole mitragliatrici. Il cronista aveva poi parlato di un
improvviso incremento d'attività, che il più tonto degli spettatori avrebbe
visto da solo, seguito da una lunga pausa e poi dall'annuncio che tutti gli
ostaggi erano vivi e tutti i criminali morti. Passò ancora un po' di tempo e
riapparve la squadra d'assalto vestita di verde e di nero. Come a Berna,
non vi furono segni evidenti di autocelebrazione. Uno della squadra
d'assalto sembrava fumare una pipa, mentre camminava verso il furgone
che li aveva portati lì e vi deponeva le armi, mentre un altro confabulava
con un poliziotto in abiti civili, probabilmente il capitano Altmark che
aveva avuto il comando sul campo. I due dovevano conoscersi, poiché il
loro scambio di parole fu brevissimo prima che la squadra speciale
lasciasse la scena, proprio come a Berna. Sì, entrambe le unità
antiterrorismo si erano addestrate sullo stesso manuale, ripeté a se stesso
Popov.
In seguito, gli articoli sui giornali parlarono dell'abilità dell'unità
speciale della polizia. Era successo anche a Berna, ma in nessuno dei due
casi c'era da sorprendersi, dato che i cronisti dicevano sempre le stesse
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banalità, indipendentemente dalla lingua o dalla nazionalità. Le parole
utilizzate nella dichiarazione della polizia erano quasi identiche.
Qualcuno aveva addestrato le due squadre, forse la stessa organizzazione.
Forse i tedeschi del GSG-9, che, con l'aiuto britannico, avevano posto fine
all'incidente aereo a Mogadiscio oltre vent'anni prima, avevano addestrato
le forze di paesi che usavano la loro lingua. Di certo, la completezza
dell'addestramento e la freddezza di comportamento delle squadre
d'assalto apparvero a Popov tipicamente tedesche. Avevano agito come
macchine sia prima sia dopo gli attacchi, arrivando e partendo come
fantasmi, non lasciando niente dietro di sé se non i corpi dei terroristi.
Gente efficiente, i tedeschi, e i poliziotti di lingua tedesca che
addestravano. Popov, russo di nascita e cultura, amava poco la nazione
che aveva un tempo ucciso tanti suoi compatrioti, ma riusciva a rispettarli
così come il loro lavoro; la gente che avevano ucciso non era poi una gran
perdita per il mondo. Anche quando, in qualità di ufficiale in servizio nel
KGB sovietico, aveva contribuito ad addestrarli, non se n'era preoccupato
molto. Erano, se non proprio gli utili idioti di cui aveva una volta parlato
Lenin, almeno cani d'attacco addestrati per essere sguinzagliati quando
serviva, ma di cui non si dovevano mai davvero fidare coloro che li
tenevano solo parzialmente sotto controllo. Ma in definitiva non erano
mai stati molto efficienti. L'unica cosa in cui erano davvero riusciti era
stato di obbligare gli aeroporti a installare i metal detector, creando
problemi ai viaggiatori di tutto il mondo. Di sicuro avevano reso difficile
lavila agli israeliani, ma quanto, in realtà, contava quel paese sulla scena
mondiale? E anche in quel caso, cos'era successo? I paesi costretti ad
adattarsi a circostanze sfavorevoli, lo facevano rapidamente. Così, ora, la
El Al, la compagnia aerea israeliana, era la più sicura e affidabile del
mondo e i poliziotti di tutto il globo venivano meglio istruiti su chi
osservare ed esaminare da vicino. In caso di necessità, i poliziotti
disponevano di unità speciali antiterrorismo come quelle che avevano
sistemato le cose a Berna e Vienna. Addestrati dai tedeschi a uccidere
come tedeschi. Qualunque altro terrorista lui avesse mandato a fare uno
sporco lavoro si sarebbe trovato davanti persone così. Peccato, pensò
Popov, sintonizzandosi su un canale via cavo mentre riavvolgeva l'ultimo
nastro. Non aveva appreso granché dall'analisi dei notiziari, ma era un
agente addestrato e quindi molto attento. Si versò una vodka Absolut da
bere liscia... gli mancava la marca migliore, la Starka, che avrebbe avuto
in Russia... e lasciò che la sua mente rimuginasse le informazioni mentre
228
guardava un film.
«Sì, generale, lo so», disse Clark al telefono, 13.05 del pomeriggio
successivo, tirando un accidente ai fusi orari.
«Questo esce anche dal mio budget», osservò il generale Wilson.
Prima, pensò il CINC-SNAKE, chiedono un uomo, poi chiedono i mezzi
e ora chiedono anche i fondi.
«Posso cercare di venirvi in aiuto attraverso Ed Foley, ma il dato di
fatto è che ci servono i mezzi per addestrarci. Ci avete mandato una
persona davvero in gamba», aggiunse Clark, sperando di ammorbidire il
famoso caratteraccio di Wilson.
Non servì a molto. «Sì, lo so che è in gamba. Ecco perché lavorava per
me, che diavolo.»
Con gli anni, questo qui sta diventando ecumenico, disse tra sé John.
Ora sta lodando un marine... piuttosto insolito per un mangiaserpenti
dell'esercito ed ex comandante del 18° corpo d'armata aerotrasportato.
«Signor generale, è al corrente che abbiamo già effettuato un paio di
operazioni e, con tutta la dovuta modestia, i miei uomini sono stati
maledettamente bravi. Devo battermi per i miei.»
E questo finì per rabbonire Wilson. Erano entrambi comandanti,
entrambi avevano lavori da svolgere e persone da comandare... e da
difendere.
«Clark, capisco la sua posizione. Davvero. Ma non posso addestrare la
mia gente sui mezzi che voi ci avete portato via.»
«Che ne dice se lo chiamiamo time-sharing?» fu l'offerta di John, come
ulteriore ramoscello d'ulivo.
«Ma accorcia ancora di più la vita di un Night Hawk ancora perfetto.»
«Addestra uomini anche per voi. Alla fine di tutto, potrete avere un
ottimo equipaggio d'elicottero da portare giù a Bragg per lavorare con i
vostri uomini... e le spese d'addestramento per la vostra operazione
sarebbero praticamente nulle, signore.» Pensò che questa fosse la carta
giusta da giocare.
Nella base aerea intitolata a MacDill, Wilson si disse che questa era una
discussione già persa. Rainbow era un'operazione blindata, lo sapevano
tutti. Questo Clark l'aveva venduta prima di tutto alla CIA, poi allo stesso
presidente... avevano fatto due operazioni ed entrambe riuscite, anche se
la seconda era stata piuttosto rischiosa. Ma Clark, furbo com'era, e buon
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comandante come sembrava essere, non aveva imparato come guidare
un'unità nel mondo militare di oggi, dove metà del tempo veniva passato a
gestire il denaro come qualsiasi maledetta mezzacalzetta di contabile,
invece di stare in testa e addestrarsi con le truppe. Ecco che cosa davvero
bruciava a Sam Wilson, giovane per essere un quattro stelle, soldato
professionista che voleva fare il soldato, qualcosa che l'alto comando
praticamente impediva, nonostante la sua forma fisica e il suo desiderio.
Ma quel che era peggio, questa unità Rainbow prometteva di sottrarre
molti fondi al suo budget. Il comando operazioni speciali aveva impegni
in tutto il mondo, ma il carattere internazionale di Rainbow significava
che ora c'era qualcun altro nello stesso campo d'attività, la cui neutralità
politica, secondo le previsioni, avrebbe reso il suo utilizzo molto più
accettabile a paesi che potevano avere la necessità di servizi speciali.
Clark poteva sul serio metterlo fuori gioco e questo a Wilson non piaceva
neanche un po'.
Ma, in realtà, in tutta questa faccenda non aveva scelta.
«Va bene, Clark, potete utilizzare il velivolo se l'unità che l'ha in carico
è in grado di darvelo e finché il suo utilizzo da parte vostra non
condiziona il loro addestramento e la loro rapidità d'intervento. Chiaro?»
«Sissignore, chiaro», garantì Clark.
«Devo venire a vedere il vostro piccolo circo», aggiunse poi Wilson.
«Mi farebbe un gran piacere, generale.»
«Vedremo», borbottò Wilson, interrompendo la comunicazione.
«Gran figlio di puttana», sospirò John.
«Davvero», concordò Stanley. «Dopotutto, però, stiamo cacciando nella
sua riserva.»
«Ora è la nostra riserva, Al.»
«Sì, ma non puoi aspettarti che a lui faccia piacere.»
«E lui è più giovane e duro di me?»
«Di qualche anno più giovane e personalmente non vorrei incrociare la
spada con lui.» Stanley sorrise. «La guerra sembra essere passata, John, e
pare che tu l'abbia vinta.»
Clark abbozzò un sorriso e una risatina. «Sì, Al, ma è più facile andare
in campo e uccidere qualcuno.»
«Proprio così.»
«Cosa sta facendo il team di Peter?»
«Discesa con la fune da un elicottero.»
230
«Andiamo a vedere», disse John, felice di avere un pretesto per lasciare
la scrivania.
«Voglio andarmene da questo posto», annunciò al suo avvocato.
«Lo capisco, amico mio», rispose l'avvocato, guardandosi attorno.
C'era una legge in Francia, e anche negli Stati Uniti, per cui le
conversazioni tra clienti e avvocati erano riservate e non potevano essere
registrate o utilizzate in alcuna maniera dallo stato, ma nessuno dei due
credeva davvero che i francesi si attenessero a quella legge, soprattutto da
quando il ruolo del DGSE, il servizio segreto francese, era stato così
fondamentale nell'assicurare Il'ych alla giustizia. Il DGSE non era noto
per la sua disponibilità a osservare le regole del comportamento civile
internazionale, come avevano imparato su due fronti diversi terroristi
internazionali e Green-peace.
C'erano altre persone a colloquio in quella stanza e non vi era traccia
evidente di microfoni direzionali... e i due non avevano occupato i sedili
indicati dalle guardie carcerarie, scegliendo invece un posto più vicino
alla finestra perché, avevano detto, volevano la luce naturale.
Ovviamente, ogni cabina poteva essere facilmente cablata.
«Devo informarla che le circostanze della sua condanna non si prestano
a un facile appello», lo mise sull'avviso l'avvocato. Per il suo cliente non
si trattava di una novità.
«Lo so. Ho bisogno che lei faccia una telefonata.»
«A chi?»
Lo Sciacallo gli diede un nome e un numero. «Gli riferisca che voglio
essere rilasciato.»
«Non posso prender parte a un atto criminoso.»
«So anche questo», osservò freddamente Sanchez. «Gli dica anche che
la ricompensa sarà grande.»
Si sospettava, ma non lo si sapeva per certo, che Il'ych Ramirez
Sanchez possedesse una notevole somma di denaro nascosta, frutto delle
sue operazioni quand'era in libertà. Era stata soprattutto il risultato del suo
attacco ai ministri OPEC in Austria quasi vent'anni prima, il che spiegava
perché lui e i suoi erano stati così attenti a non uccidere nessuno di
realmente importante, nonostante lo scompiglio politico che avrebbe
provocato... tanto meglio per lui se aveva acquistato popolarità e
consenso. Gli affari erano affari, anche per questo tipo di gente. E
231
qualcuno aveva pagato le sue spese legali, pensò l'avvocato.
«Che cos'altro si aspetta che gli dica?»
«E tutto. Se ha una risposta immediata, me la farà sapere», gli disse lo
Sciacallo. I suoi occhi conservavano ancora un'intensità, qualcosa di
freddo e distante... distante ma anche pronto a scrutare in profondità il suo
interlocutore mentre gli diceva che cosa doveva fare.
Da parte sua, l'avvocato si chiese di nuovo perché aveva accettato
questo cliente. Aveva una lunga storia come difensore di cause radicali,
dalla cui notorietà aveva ricavato una pratica criminale estesa e
remunerativa. Vi era connesso un elemento di pericolo insito,
naturalmente. Si era di recente occupato di tre grossi casi di droga, e li
aveva persi tutti e tre; quei clienti non avevano gradito l'idea di trascorrere
venti o più anni in prigione e avevano da poco espresso il loro scontento.
Avrebbero potuto ucciderlo? Era già successo negli Stati Uniti e altrove.
La possibilità era più remota qui in Francia, pensò l'avvocato,
considerando inoltre che non aveva fatto alcuna promessa a quei clienti se
non di fare del proprio meglio per loro. Era lo stesso nel caso di Carlos lo
Sciacallo. Dopo la sua condanna, l'avvocato si era occupato del caso per
vedere se sussistevano le possibilità di un ricorso, l'aveva presentato e
perso... come previsto. La corte d'appello francese riservava poca
clemenza per un uomo che aveva commesso un omicidio sul suolo
francese, e se ne era anche vantato. Ora quell'uomo aveva cambiato
opinione e deciso, in modo insistente, che non gradiva la vita di prigione.
L'avvocato sapeva che avrebbe comunicato il messaggio, come doveva,
ma ciò lo rendeva complice di un atto criminoso?
No, decise. Dire a un conoscente del proprio cliente che quest'ultimo
voleva uscire di prigione... chi non avrebbe desiderato riavere la libertà? E
il messaggio era equivoco, si prestava a molteplici interpretazioni. L'aiuto
per un altro appello, l'emergere di nuovi elementi a discolpa, qualunque
cosa. E inoltre, qui qualsiasi cosa Sanchez gli avesse chiesto di fare erano
informazioni riservate.
«Riferirò il suo messaggio», promise al suo cliente.
«Merci.»
Era una cosa bellissima da vedere, anche nell'oscurità. L'elicottero
MH-60K si avvicinò a una velocità di circa trenta nodi, a circa settanta
metri dal suolo, accostandosi all'edificio del poligono da sud, nel vento,
232
viaggiando liscio, non come in una manovra di spiegamento tattico. Ma
sotto l'elicottero c'era una fune scura di nylon, lunga una cinquantina di
metri, appena visibile con i migliori visori notturni, e alla sua estremità
c'erano Peter Covington, Mike Chin e un altro membro del team 1, che
penzolavano liberamente sotto il Sikorsky nero nelle loro tute ninja nere.
L'elicottero procedette così, in modo uniforme e regolare, quasi seguisse
dei binari, finché il suo muso non oltrepassò la parete dell'edificio, per poi
sollevarsi mentre effettuava una richiamata, rallentando rapidamente.
Sotto l'aeromobile, gli uomini attaccati alla fune oscillarono in avanti,
come su un'altalena per bambini e poi, alla fine dell'arco, penzolarono
indietro. Questa oscillazione li bloccò nell'aria, essendo la loro velocità
all'indietro quasi esattamente uguale alla residua velocità in avanti
dell'aeromobile, e poi furono sul tetto, quasi come se fossero saltati giù da
un oggetto immobile. All'istante, Covington e i suoi uomini aprirono i
loro moschettoni a sgancio rapido e balzarono giù. La trascurabile
differenza di velocità tra i loro piedi e il tetto immobile non provocò alcun
rumore. Erano appena scesi, quando il Night Hawk abbassò il muso,
riprendendo il suo volo in avanti, e nessuno a terra avrebbe detto che
l'elicottero aveva fatto qualcosa se non volare a velocità costante sopra
l'edificio. E di notte, era quasi invisibile, anche con i visori notturni.
«Eccellente», sussurrò Al Stanley. «Neppure il minimo rumore.»
«È veramente bravo», convenne Clark.
Come se avesse sentito i commenti, Malloy compì un giro con
l'elicottero, mostrando dal finestrino il pollice sollevato agli uomini a
terra, mentre si allontanava per entrare in un circuito d'attesa sull'area ed
eseguire così il resto della simulazione. In una situazione reale, la
manovra sarebbe stata necessaria nel caso ci fosse stato bisogno di
effettuare un'evacuazione d'emergenza, e ancor più, per abituare la gente a
terra ad avere un elicottero sopra la testa, rendendo così la sua presenza
parte del panorama come gli alberi; in tal modo sarebbe scomparso nello
sfondo della notte, non più percepibile del canto degli usignoli.
Sorprendeva tutti gli addetti ai lavori che questo trucchetto potesse
riuscire, ma era solo un adattamento della natura umana al mondo delle
operazioni speciali. Se un carro armato fosse arrivato in un parcheggio,
dopo un giorno o due sarebbe stato soltanto un'altra auto. La terna di
tiratori scelti di Covington controllò il tetto per alcuni minuti, poi
scomparve giù per le scale per ricomparire dopo alcuni secondi dalla porta
anteriore.
233
«Okay, Bear, qui è Six, esercitazione conclusa. Ritorna al nido,
colonnello, passo.»
«D'accordo, Six, Bear torna alla base. Chiudo», fu l'asciutta risposta, e il
Night Hawk uscì dall'orbita e si diresse verso la piazzola.
«Che ne pensi?» chiese Stanley al maggiore Covington.
«Davvero in gamba. Come scendere dal treno sul marciapiede. Malloy
sa il fatto suo. Capo?»
«Lo metta sulla lista paga, signore», confermò il sottufficiale di marina
Chin. «È uno con cui possiamo lavorare.»
«La messa a punto del mezzo è ottima», dichiarò Malloy venti minuti
dopo, al circolo. Indossava la tuta di volo in Nomex verde, con una
sciarpa gialla attorno al collo, come ogni aviatore che si rispetti, anche se
a Clark sembrò strano.
«Perché la sciarpetta?»
«Oh, questa? È la sciarpa dell'A-10. Me l'ha regalata uno dei ragazzi
che ho recuperato in Kuwait. Credo che porti fortuna e, come aereo, il
Warthog mi è sempre piaciuto. Così, la indosso nelle missioni.»
«È molto difficile eseguire quella manovra di transizione?» chiese
Covington.
«Devi essere piuttosto bravo con il sincronismo e devi saper leggere il
vento. Sai che cosa mi aiuta?»
«Dimmi», disse Clark.
«Suonare il piano.» Malloy bevve un sorso della sua pinta di birra scura
e sogghignò. «Non chiedermi perché, ma volo sempre meglio dopo aver
suonato un po'. Forse mi fa bene sgranchirmi le dita. Comunque,
quell'elicottero che ci hanno prestato è messo a punto davvero bene. I
comandi del ciclico e del collettivo hanno la giusta elasticità. Gli
specialisti dell'USAF... devo incontrarli e offrir loro da bere. Sanno
davvero come preparare un elicottero. Un'ottima squadra di meccanici.»
«Lo sono», concordò il sottotenente Harrison. Apparteneva al 1°
Special Operations Wing e tecnicamente, perciò, era responsabile
dell'elicottero, anche se ora era molto contento di avere un insegnante
bravo come Malloy.
«Questa è la prima metà della battaglia per volare con gli elicotteri,
mettere perfettamente a punto l'uccello», proseguì Malloy. «A quello di
oggi, puoi addirittura sussurrare delle paroline dolci e lui ti ascolta.»
234
«Come un buon fucile», osservò Chin.
«Concordo», aggiunse Malloy, levando il boccale di birra. «Allora,
ragazzi, che cosa mi potete dire delle vostre prime due missioni?»
«Cristiani 10, leoni 1», rispose Stanley.
«Chi avete perduto?»
«È stata l'operazione di Berna. L'ostaggio fu ucciso prima che
arrivassimo sul posto.»
«Troppo zelanti?»
«Qualcosa del genere.» Clark annuì. «Non sono stati davvero furbi a
fare un passo così. Avevo quasi pensato che fossero solo dei rapinatori di
banche, ma poi le indagini hanno rivelato la trama terroristica.
Naturalmente, forse volevano soltanto un po' di soldi. In verità, il dottor
Bellow non ha mai confermato di che cosa si trattasse.»
«Comunque la metti, sono solo dei banditi, assassini, in qualunque
modo li si voglia chiamare», osservò Malloy. «Ho dato una mano ad
addestrare piloti d'elicottero dell'FBI e trascorso alcune settimane a
Quantico con l'HRT, il gruppo di salvataggio ostaggi. Mi hanno quasi
indottrinato sugli aspetti psicologici. Può essere piuttosto interessante.
Questo dottor Bellow, è Paul Bellow, quello che ha scritto i tre libri?»
«Proprio lui.»
«È piuttosto sveglio.»
«Per questo l'abbiamo voluto, colonnello Malloy», sottolineò Stanley,
facendo un cenno per un altro giro di birre.
«C'è una sola cosa che dovete davvero sapere di loro», annunciò
Malloy, ritornando a essere un colonnello del corpo dei marines degli
Stati Uniti.
«Come farli fuori», terminò la frase Chin.
Il Turtle Inn Bar era una specie d'istituzione sulla Columbus Avenue,
tra la 68a e la 69a, ben conosciuto e frequentato dai locali e dai turisti. La
musica era forte, ma non troppo, e la zona era illuminata, ma non molto
bene. Le bevande alcoliche erano un po' più care della norma, ma il
sovrapprezzo era per l'atmosfera, che, avrebbe detto il proprietario, era
inestimabile.
«Allora», chiese l'uomo sorseggiando la sua coca e rum, «vivi da queste
parti?»
«Mi sto trasferendo», rispose lei, bevendo dal suo bicchiere. «Cerco
235
lavoro.»
«Che cosa fai?»
«Segretaria legale.»
Una risata. «Un sacco di possibilità per te qui. Abbiamo più avvocati
che taxisti. Da dove mi hai detto che vieni?»
«Des Moines, Iowa. Mai stato là?»
«No, sono un ragazzo del posto», rispose lui, mentendo. Era nato a Los
Angeles trent'anni prima. «Sono contabile alla Peat Marwick.» Anche
questa era una bugia.
Ma un bar per single era un regno della menzogna, come sanno tutti. La
donna aveva ventitré anni o giù di lì, appena uscita dalla scuola per
segretarie, capelli e occhi castani, e bisognosa di perdere sette o otto chili,
anche se era abbastanza attraente per chi preferiva le piccole. I tre
bicchieri che aveva già consumato per dimostrare che era una tipa
sofisticata già ben inserita nella Grande Mela l'avevano resa piuttosto
ciarliera.
«Sei già stata qui?» domandò lui.
«No, è la prima volta, e tu?»
«Alcune volte negli ultimi mesi. È un bel posto per incontrare gente.»
Un'altra bugia, ma venivano facili in un posto simile.
«La musica è un po' forte», osservò lei.
«Be', in altri locali è molto peggio. Abiti nelle vicinanze?»
«Tre isolati a nord. Ho preso un piccolo monolocale, in subaffitto. Un
palazzo con canone calmierato. La mia roba arriva tra una settimana.»
«Allora, non hai ancora traslocato?»
«Proprio così.»
«Bene, benvenuta a New York...?»
«Anne Pretloe.»
«Kirk Maclean.» Si strinsero la mano e lui gliela trattenne un po' più a
lungo del necessario in modo che lei avvertisse la sensazione della sua
pelle, un presupposto necessario per una particolare simpatia, che lui
aveva la necessità di far nascere. Dopo alcuni minuti, stavano ballando, il
che significava soprattutto scontrarsi con la gente nel buio. Lui faceva il
galante e lei sorrideva al suo metro e ottantatré di statura. In altre
circostanze, ciò avrebbe portato al solito finale, pensò Kirk. Ma non
stasera.
Il bar chiuse dopo le due di notte e lui la scortò fuori. Lei era abbastanza
236
brilla ormai, dopo un totale di sette bicchieri accompagnati solo da
arachidi e salatini. Lui aveva accuratamente coccolato a lungo i suoi tre
bicchieri e aveva mangiato un sacco di noccioline. «Allora», le chiese sul
marciapiede, «lascia che ti accompagni.»
«Sono solo tre isolati.»
«Annie, è tardi, e siamo a New York. Devi imparare dove puoi andare e
dove no. Dai», concluse, prendendole la mano e conducendola dietro
l'angolo. La sua BMW era posteggiata a metà strada verso Broadway.
Tenne galantemente la portiera aperta, la chiuse dietro di lei, poi fece il
giro per salire a sua volta.
«Devi passartela bene», osservò Arme Pretloe, guardando l'auto. «Sì,
non mi lamento; un sacco di gente cerca di evadere le tasse.» Avviò l'auto
e si mosse verso la traversa, di fatto nella direzione errata, ma lei era un
po' troppo alticcia per accorgersene. Svoltò a sinistra sulla Broadway e
scorse il furgone azzurro, parcheggiato in un punto tranquillo. A metà
isolato di distanza, fece lampeggiare le luci, dopo di che rallentò e
premette il pulsante per abbassare entrambi i finestrini anteriori.
«Ehi», esclamò lui, «conosco quel tipo.»
«Eh?» fece la ragazza, ignorando dov'erano e dove stavano andando.
Era comunque troppo tardi perché lei potesse fare qualcosa.
«Ciao, Kirk», disse l'uomo in salopette, chinandosi sul finestrino aperto
della passeggera.
«Ciao amico», rispose Maclean, alzando il pollice.
L'uomo si sporse all'interno ed estrasse una bomboletta spray dalla
manica. Poi premette il pulsante in plastica rosso e diresse un getto di
etere proprio sul viso di Anne Pretloe. I suoi occhi si spalancarono per un
secondo per lo choc e la sorpresa. Si girò per guardare Kirk per un lungo,
interminabile secondo, poi il suo corpo si afflosciò.
«Sta' attento con le dosi, amico, ha in corpo un sacco di alcool.»
«Nessun problema.» L'uomo diede un colpo al fianco del furgone e
apparve un altro uomo. Questi guardò in su e in giù la strada per
assicurarsi che non ci fossero auto della polizia, poi aprì la portiera,
sollevò Anne Pretloe e trasportò il suo corpo inerte fino al portellone
posteriore del furgone, dove raggiunse un'altra giovane catturata da un
altro dipendente della società quella notte. Maclean partì, e con l'aria della
notte fece uscire dall'auto il puzzo d'etere mentre si dirigeva a destra, nella
West Side Highway e a nord verso il ponte George Washington. Con
237
questa facevano due, e gli altri avrebbero dovuto ormai aver preso altre
sei persone. Altre tre e potevano mettere la parola fine alla parte più
pericolosa dell'operazione.
11
INFRASTRUTTURA
L'avvocato fece la telefonata e non fu sorpreso della richiesta di un
appuntamento in un ristorante dove un uomo sulla quarantina pose alcune
semplici domande, per poi andarsene prima che arrivasse al tavolo il
carrello con il dessert. Ciò mise termine al suo coinvolgimento in tutto
quello che sarebbe successo. Pagò in contanti e rientrò in ufficio assillato
dalle domande: che cosa aveva fatto, che cosa poteva aver innescato? La
risposta a entrambi gli interrogativi, non poté che rispondersi, era che non
lo sapeva. Era l'equivalente mentale di una doccia dopo una sudata
giornata di lavoro, ma non altrettanto appagante; lui era un avvocato e
quindi era abituato agli incontri un po' strani.
Il suo interlocutore lasciò il ristorante e prese la metropolitana,
cambiando treno tre volte prima di salire su quello che passava vicino a
casa sua, nelle vicinanze di un parco noto per le prostitute ferme ad
aspettare, offrendo la loro merce a prezzi variabili agli automobilisti di
passaggio. Se c'era da muovere un'accusa al sistema capitalistico, era
quella, pensò, anche se la tradizione risaliva a prima dell'inizio dell'attuale
sistema economico. Le donne dimostravano tutta l'allegria dei serial killer,
mentre se ne stavano là, in piedi, nei loro abiti succinti fatti per essere tolti
il più velocemente possibile, in modo da risparmiare tempo. Si allontanò e
si diresse al suo appartamento dove, con un po' di fortuna, ci sarebbero
state altre persone ad aspettarlo.
«E qui che deve fermarsi», disse Carol Brightling, anche se sapeva che
non sarebbe successo.
«Certo, dottoressa», rispose il suo ospite, sorseggiando il caffè. «Ma
come diavolo farai a convincerlo?»
La cartina era aperta sul tavolino. A est della baia di Prudhoe, in
Alaska, c'era un pezzo di tundra, oltre duemilasettecento chilometri
quadrati, e i geologi della British Petroleum e Atlantic Richfield - ovvero
le due compagnie che avevano sfruttato a fondo il North Slope
238
dell'Alaska, costruito l'oleodotto e quindi contribuito a provocare il
disastro della Exxon Valdez - avevano fatto la loro dichiarazione pubblica.
Questo campo petrolifero, chiamato AARM, era grande almeno il doppio
del North Slope. Il rapporto, ancora semiriservato, era giunto alla Casa
Bianca una settimana prima, con i dati di conferma dell'Istituto Geologico
degli Stati Uniti, ente federale incaricato dello stesso tipo di lavoro,
insieme con il parere dei geologi secondo cui il campo si estendeva ancora
più a est, oltre il confine canadese, e di quanto si estendesse di preciso lo
potevano solo supporre, dato che i canadesi non avevano ancora iniziato
la loro ricerca. La conclusione della relazione confermava la possibilità
che l'intero campo rivaleggiasse con quello dell'Arabia Saudita, anche se
era molto più complesso trasportare il petrolio da lì, a meno che,
proseguiva il rapporto, non si utilizzasse l'oleodotto Trans-Alaska.
Bastava collegarlo con i nuovi campi tramite alcune centinaia di
chilometri di prolungamento delle condutture esistenti; per quanto
riguardava l'impatto ambientale, la relazione lo definiva trascurabile.
«A parte quel dannato incidente della petroliera», osservò la dottoressa
Brightling sorseggiando il caffè del mattino. L'incidente che aveva ucciso
migliaia di uccelli selvatici e centinaia di lontre marine, e aveva
insudiciato diverse centinaia di chilometri quadrati di costa
incontaminata.
«Sarà una catastrofe se il Congresso non interviene. Dio mio, Carol, i
caribù, gli uccelli, tutti i predatori. Ci sono gli orsi bianchi là, e quelli
bruni, e grizzly della tundra: questo ambiente è delicato come un bambino
appena nato. Non possiamo permettere che ci vadano le società
petrolifere!»
«Lo so, Kevin», rispose il consigliere scientifico del presidente,
sottolineando la frase con un cenno del capo...
«Il danno potrebbe essere irreparabile. Il permafrost... non c'è nulla di
più delicato sulla faccia del pianeta», disse il presidente del Sierra Club,
con ripetuta enfasi. «Lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo ai nostri
figli... lo dobbiamo al pianeta. Questo progetto di legge dev'essere
respinto! Non m'importa quanto ci vorrà, questo progetto deve sparire!
Devi convincere il presidente a negargli qualsiasi parvenza di sostegno.
Non possiamo consentire che l'ambiente venga violentato in questo
modo.»
«Kevin, nel farlo dobbiamo essere scaltri. Il presidente lo vede come un
239
problema di bilancia dei pagamenti. Il petrolio nazionale ci evita di dover
spendere il nostro denaro per acquistare quello di altri paesi. Quel che è
peggio, crede alle compagnie petrolifere quando dicono che perforano e
trasportano il greggio provocare molti danni all'ambiente, e che sono in
grado di rimediare a qualunque danno possano creare in modo
accidentale.»
«Tutte palle, e tu lo sai, Carol.» Kevin Mayflower sputò fuori il proprio
disprezzo per le compagnie petrolifere. Quello stramaledetto oleodotto era
una cicatrice sanguinolenta sul volto dell'Alaska, un'orribile, frastagliata
conduttura d'acciaio che attraversava il territorio più bello sulla faccia
della terra, un affronto a Madre Natura... e per che cosa? Perché la gente
potesse guidare veicoli a motore, che a loro volta inquinavano il pianeta
solo perché la gente pigra non voleva andare al lavoro a piedi o in
bicicletta o a cavallo. (Mayflower non rifletteva però sul fatto che a
Washington per consegnare la sua petizione ci era andato in aereo invece
che in sella a uno dei suoi cavalli Appaloosa, e che aveva parcheggiato
l'auto a noleggio nel West Executive Drive.) Secondo lui, tutto ciò che le
compagnie petrolifere toccavano, lo rovinavano. Lo sporcavano. Insudiciavano lo stesso pianeta, togliendogli quello che ritenevano una risorsa
preziosa qui, là, dappertutto, che fosse petrolio o carbone, sfregiandolo, o
sforacchiandolo, a volte versando il loro tesoro liquido perché non
conoscevano e non si preoccupavano della sacralità della terra, che
apparteneva a tutti, e richiedeva un'amorevole cura. La cura, naturalmente,
aveva bisogno di un'opportuna guida, e quello era il compito del Sierra
Club e di associazioni simili: dire alla gente quanto importante fosse la
terra, e come si dovesse rispettarla e trattarla. La bella notizia era che il
consigliere scientifico del presidente capiva, lavorava nell'ambito della
Casa Bianca, e aveva accesso alle sfere più alte.
«Carol, voglio che attraversi la strada, entri nella Sala Ovale, e gli dica
che cosa si deve fare.»
«Kevin, non è così facile.»
«Perché diavolo non lo è? Lui non è proprio un imbecille.»
«A volte ha un punto di vista diverso, e le compagnie al riguardo sono
molto astute. Guarda la loro proposta», esclamò, battendo la mano sul
rapporto posato sul tavolino. «Promettono di indennizzare gli eventuali
danni dell'intera operazione, di istituire una cauzione di un miliardo di
dollari se qualcosa va storto... per l'amor di Dio, Kevin, offrono persino di
240
ammettere il Sierra Club nel comitato per sorvegliare i loro programmi di
protezione ambientale!»
«Ed essere messi in minoranza dai loro amici! Mi venga un colpo se ci
coopteranno in quel modo!» ringhiò Mayflower. «Non permetterò che
qualcuno del mio ufficio collabori in alcun modo, e questo è tutto!»
«E se lo dici così forte, le compagnie petrolifere ti daranno dell'estremista, emargineranno l'intero movimento ambientalista... e tu non puoi
permettere che ciò avvenga, Kevin!»
«Eccome se posso. Si deve resistere e combattere per qualcosa, Carol.
Qui è dove resistiamo e combattiamo. Lasciamo che quei luridi bastardi
scavino il loro petrolio nella baia di Prudhoe, e basta!»
«Che cosa dirà al riguardo il resto del tuo consiglio?» chiese la
dottoressa Brightling.
«Dannazione, dirà quello che io gli dico di dire!»
«No, Kevin, non lo dirà.» Carol si sfregò gli occhi. Aveva letto l'intero
rapporto la notte precedente e la triste verità era che le società petrolifere
si erano fatte dannatamente furbe nel trattare i temi ecologici. Era puro
senso degli affari. La Exxon Valdez era costata loro una tonnellata di
denaro, per non parlare del danno all'immagine. Tre pagine erano state
dedicate alle modifiche delle procedure di sicurezza delle petroliere.
Adesso, le navi che lasciavano l'enorme terminal di Valdez, in Alaska,
venivano scortate da rimorchiatori fino in mare aperto. In totale, venti
battelli per la protezione dall'inquinamento si trovavano in costante
allerta, con altri di riserva. I sistemi di navigazione su ogni petroliera
erano stati migliorati oltre lo standard dei sottomarini nucleari; gli
ufficiali di rotta erano obbligati a sottoporre a test le loro capacità ogni sei
mesi. Era tutto tremendamente costoso, ma molto meno di un altro grave
incidente. Tutto ciò veniva pubblicizzato da una serie di spot televisivi
trasmessi anche sui canali culturali di fascia alta via cavo-satellite come
History, Learning, Discovery e A&E, per i quali le compagnie petrolifere
sponsorizzavano nuovi programmi sulla vita selvaggia nell'Artico. Non
accennavano mai a quello che in realtà facevano, ma mostravano scene di
caribù e altri animali che passavano sotto le parti sopraelevate
dell'oleodotto. In effetti, secondo la dottoressa Brightling, riuscivano a
comunicare il loro messaggio in modo molto abile, anche ai membri del
consiglio del Sierra Club.
Quello che non dicevano, e che sia lei sia Mayflower sapevano, era che
241
una volta che il greggio era estratto in tutta sicurezza, trasferito in tutta
sicurezza tramite il mostruoso oleodotto, trasportato in tutta sicurezza via
mare dalle nuove superpetroliere a doppia carena, poi diventava
inquinamento dell'aria, uscendo dai tubi di scarico delle auto e dei camion
e dalle ciminiere delle centrali termoelettriche. Allora era tutto davvero
una beffa, e quella beffa comprendeva anche l'accusa di Kevin circa i
danni al permafrost. Al massimo, che cosa sarebbe rimasto seriamente
danneggiato? Cinque o dieci ettari, forse, e le società petrolifere avrebbero
fatto altri spot su come loro avevano pulito tutto, come se l'inquinamento
causato dall'uso finale del petrolio non fosse affatto un problema!
Perché per l'ignorante spettatore davanti alla tv a guardare partite di
football tracannando birra, non era un problema. Negli Stati Uniti c'erano
un centinaio di milioni di veicoli a motore e un numero maggiore in tutto
il mondo: tutti inquinavano l'aria, e quello era il vero problema. Come
fare per impedirgli di avvelenare il pianeta?
I modi c'erano, rifletté lei.
«Kevin, farò del mio meglio», promise. «Consiglierò al presidente di
non sostenere questo progetto di legge.»
Il progetto era l'S-1768, presentato e sostenuto dai due senatori
dell'Alaska, comprati da molto tempo dalle società petrolifere; la legge
avrebbe autorizzato il dipartimento degli Interni a mettere all'asta i diritti
di perforazione nell'area AAMP. Il denaro impiegato sarebbe stato
tantissimo, sia per il governo federale sia per lo lato dell'Alaska. Persino
le tribù indigene degli indiani d'America li lassù avrebbero chiuso un
occhio. Con i soldi guadagnati grazie il petrolio avrebbero acquistato
motoslitte con cui cacciare i caribù, e barche a motore con cui pescare e
uccidere ogni tanto una balena, il che faceva parte del loro patrimonio
tribale e culturale. Le motoslitte non servivano nell'epoca moderna del
manzo avvolto nella plastica e approvato dal dipartimento di Agricoltura
degli Stati Uniti, ma gli indiani d'America tenevano al risultato finale
delle loro tradizioni, se non ai metodi tradizionali. Era una verità
sconfortante che perfino questa gente avesse messo da parte la propria
storia e le loro divinità in omaggio alla nuova era di adorazione del
petrolio e dei suoi derivati. Entrambi i senatori dell'Alaska avrebbero
portato giù i vecchi delle tribù per testimoniare a favore dell'S-1768, e
loro sarebbero stati ascoltati; chi meglio degli indiani sapeva che cosa
voleva dire vivere in armonia con la natura? Ma oggi lo facevano con le
motoslitte Ski-Do, i fuoribordo Johnson e i fucili da caccia Winchester.
242
«Ascolterà?» domandò Mayflower. Anche gli ambientalisti dovevano
adattarsi al mondo reale della politica.
«Vuoi la verità? Probabilmente no», ammise con calma Carol
Brightling.
«Tu lo sai», osservò piano Kevin. «Ci sono momenti in cui capisco
John Wilkes Booth.»
«Kevin, non l'ho sentito, e non te l'ho sentito dire. Non qui. Non in
questo palazzo.»
«Dannazione, Carol, tu sai come mi sento. E sai che ho ragione. Come
diavolo si pensa di poter proteggere il pianeta se gli idioti che governano
il mondo non fanno un cazzo per il mondo dove viviamo?»
«Che cosa vuoi dire? Che l'Homo sapiens è una specie parassita che
offende la terra e l'ecosistema? Che siamo degli esseri estranei?»
«Un sacco di noi lo sono, ed è un dato di fatto.»
«Forse, ma che cosa ci puoi fare?»
«Non so», dovette ammettere Mayflower.
Alcuni di noi lo sanno, pensò Carol Brightling, guardandolo negli occhi
tristi. Ma sei pronto a questo, Kevin? Pensò di sì, ma il reclutamento era
sempre un passo pericoloso, anche per veri credenti come Kevin
Mayflower.
La costruzione era completata al novanta per cento circa. C'erano venti
sezioni complete all'interno del sito, appezzamenti di terreno di cinquantasette chilometri quadrati, perlopiù pianeggianti con al massimo lievi
pendenze, con una strada asfaltata a quattro corsie che portava a nord
all'Interstatale, ancora trafficata da autocarri in entrata e in uscita. Gli
ultimi tre chilometri della superstrada erano sistemati senza corsia
spartitraffico, con la pavimentazione in cemento armato spessa più di
settanta centimetri, come se fosse stata costruita per farci atterrare gli
aerei, aveva osservato il responsabile dei lavori, e anche quelli grandi. La
strada conduceva a un parcheggio altrettanto resistente e gigantesco. Non
se ne preoccupava abbastanza, però, per parlarne al suo club a Salina.
Gli edifici erano piuttosto sciatti, a parte i loro sistemi di controllo
ambientale, così avanzati che la marina avrebbe potuto utilizzarli sui
sottomarini nucleari. Faceva tutto parte dell'approccio avanzato della
società verso i suoi sistemi, gli aveva detto il presidente durante l'ultima
visita. Per tradizione facevano ogni cosa superando tutti gli altri e, inoltre,
243
la natura del loro lavoro richiedeva la massima attenzione a ogni più
piccolo dettaglio. Non si producevano vaccini all'aperto. Ma persino gli
alloggi del personale e gli uffici disponevano degli stessi sistemi e,
secondo lui, era quantomeno strano. Ogni edificio possedeva un
seminterrato; aveva un senso costruirli qui, nel paese dei tornado, ma
pochi altri se n'erano mai preoccupati, in parte per pigrizia e in parte per il
fatto che il terreno non era così facile da scavare, il famoso hard-pan del
Kansas il cui strato superficiale veniva graffiato per farci crescere
frumento. Questo era l'altro aspetto interessante. Avrebbero continuato a
coltivare la maggior parte del terreno. Il frumento invernale era già nei
depositi, e a tre chilometri di distanza c'era il centro operativo agricolo, in
fondo a una strada a due corsie fin troppo larghe, dotato dei più moderni
ed efficienti impianti agricoli mai visti, anche in una zona dove la
coltivazione del frumento era fondamentalmente una forma d'arte.
In totale, in questo progetto, finivano trecento milioni di dollari. Gli
edifici erano immensi, si sarebbero potuti convenire in spazi abitativi per
cinque o seimila persone, pensò il responsabile dei lavori. Il palazzo degli
uffici disponeva di aule per la formazione. Il sito disponeva di una propria
centrale energetica, oltre a un enorme deposito di combustibile, le cui
cisterne erano seminterrate in considerazione delle condizioni climatiche
della zona e collegate da propri oleodotti a un punto di rifornimento
vicino all'I-70 a Kanapolis. Nonostante il lago locale, c'erano non meno di
dieci pozzi artesiani da trenta centimetri perforati molto in profondità nel,
e oltre, il Cherokee Aquifer che gli agricoltori del posto utilizzavano per
irrigare i loro campi. Accidenti, c'era abbastanza acqua per rifornire
un'intera cittadina. Ma l'azienda pagava i conti e lui riceveva la sua solita
percentuale del costo totale del lavoro se l'avesse eseguito nei tempi
previsti, con un sostanzioso premio se l'avesse finito in anticipo. Finora
erano passati venticinque mesi, e ne restavano altri due. E lui ce l'avrebbe
fatta, pensò, e avrebbe ricevuto quel premio, dopo di che avrebbe portato
la famiglia a Disney World per due settimane di divertimenti e di golf sui
meravigliosi campi del parco; ne aveva bisogno per rimettersi in forma
dopo due anni di lavoro, sette giorni alla settimana.
Ma il premio significava non dover lavorare di nuovo per un paio
d'anni. Era specializzato in grandi opere. Aveva realizzato due grattacieli
a New York, una raffineria nel Delaware, un parco divertimenti nell'Ohio,
e due grandi progetti abitativi altrove, guadagnandosi la fama di portare a
termine i lavori in anticipo restando sotto il budget, non male come
244
reputazione per uno del suo settore. Parcheggiò la sua jeep Cherokee e
verificò negli appunti le cose ancora da fare nel pomeriggio: le prove di
tenuta delle finestre nell'edificio n. 1. Utilizzò il cellulare per avvisare del
suo arrivo, e attraversò la pista d'atterraggio, come la chiamava lui, dove
si incontravano le strade d'accesso. Si ricordò di quando era un tecnico
dell'USAF. Lunga tre chilometri e spessa quasi un metro, su questa strada,
volendo, ci si poteva far atterrare un 747. La società possedeva una flotta
di propri jet d'affari Gulfstream, e perché non farli atterrare qui invece che
nel piccolo campo d'aviazione di Ellsworth? E se avessero mai comprato
un jumbo, pensò sorridendo, ci poteva atterrare anche lui, qui. Dopo tre
minuti, parcheggiò proprio fuori dal n. 1. L'edificio era terminato con tre
settimane d'anticipo, e l'ultima cosa da fare erano le verifiche ambientali.
Entrò attraverso la porta girevole, straordinariamente pesante e robusta,
che si richiuse subito dopo il suo ingresso.
«Bene, siamo pronti, Gil?»
«Ora sì, Hollister.»
«Facciamola partire, allora», ordinò Charlie Hollister.
Gil Trains era il supervisore di tutti i sistemi ambientali del progetto. Ex
della marina, e un po' fanatico dei controlli, premette lui stesso i comandi
sui pannelli montati sulla parete. Non si sentì alcun rumore dovuto alla
pressurizzazione, gli impianti si trovavano troppo lontano per poterli
sentire, ma l'effetto fu quasi immediato. Nell'avvicinarsi a Gil, Hollister la
sentì nelle orecchie, come quando si guida giù per una strada di montagna,
un clic nelle orecchie e si deve lavorare di mandibola per compensare la
pressione, il che viene annunciato da un altro clic.
«Tiene?»
«Finora tutto bene», rispose Trains. «Sovrappressione 0,75 PSI, mantenuta costante.» I suoi occhi erano puntati sugli strumenti.
«Sai a che cosa assomiglia, Charlie?»
«No», ammise il sovrintendente.
«È come provare la tenuta stagna di un sottomarino. Stesso metodo, si
pressurizza un compartimento.»
«Davvero? A me ha fatto ricordare le cose che si facevano in Europa
nelle basi dei caccia.»
«E cioè?» domandò Gil.
«Pressurizzavamo i locali dei piloti per tenere fuori i gas.»
«Ah sì? Penso che funzioni in entrambi i sensi. La pressione si
245
mantiene bene.»
Dannazione, dev'essere così, pensò Hollister, con tutto quello che
abbiamo fatto per avere ogni cazzo di finestra sigillata con guarnizioni
viniliche. Non che ci fossero poi tutte quelle finestre. Ciò gli era sembrato
piuttosto strano. Il paesaggio qui era così bello. Perché non ammirarlo
almeno da un vetro?
La specifica dell'edificio richiedeva 1,3 libbre tonde di sovrappressione.
Gli avevano detto che serviva come protezione dai tornado e lui riteneva
che ciò aveva abbastanza senso, insieme con l'aumento di efficienza degli
impianti di climatizzazione che si accompagnava alle guarnizioni. Ma
avrebbe anche potuto causare la sindrome degli ambienti ermetici in cui
rimangono intrappolati i germi. Gli edifici con un isolamento ambientale
troppo perfetto mantenevano all'interno i germi dell'influenza e
contribuivano a diffondere i raffreddori come un incendio nella prateria.
Anche quello doveva far parte del progetto. La società lavorava su
medicinali e vaccini, e ciò significava die questo posto era come una
fabbrica per la guerra batteriologica. Allora, aveva un senso tenere il tutto
dentro e tenere il resto fuori? Dopo dieci minuti erano sicuri. Gli
strumenti in tutto l'edificio confermarono che i sistemi di sovrappressione
funzionavano, alla prima prova. Il personale che aveva costruito le
finestre e le porte si era guadagnato tutta la paga extra per aver lavorato
con efficienza.
«Mi sembra che vada bene. Gil, devo correre al centro trasmissioni.» Il
complesso disponeva anche di una fantastica collezione di sistemi di
comunicazione satellitare.
«Usa la camera di compensazione», suggerì Trains indicandola.
«A più tardi», disse uscendo il sovrintendente.
«Di sicuro, Charlie.»
Non era piacevole. Ora avevano undici persone, sane, otto donne e tre
uomini, naturalmente separati per sesso, e undici era in effetti uno in più
di quello che avevano programmato, ma dopo averli rapiti non era molto
facile restituirli. Erano stati privati dei loro abiti, in alcuni casi erano stati
spogliati mentre erano in stato d'incoscienza, e rivestiti con camicie e
pantaloni, che erano simili a divise carcerarie, anche se fatti di materiale
migliore. Non erano permessi indumenti intimi, le donne in carcere
avevano infatti utilizzato qualche volta le calze per impiccarsi, e qui non
246
poteva essere consentito. Ciabatte al posto delle scarpe, mentre il cibo era
pesantemente corretto con Valium, che contribuiva a calmare un po' la
gente, ma non del tutto. Non sarebbe stato molto intelligente drogarli
troppo, dato che l'alterazione di tutte le loro funzioni fisiche poteva falsare
il test, e nemmeno questo potevano permettersi.
«Che cos'è tutto questo?» chiese la donna alla dottoressa Archer.
«È un test medico», rispose Barbara, riempiendo il modulo. «Ti sei
offerta come volontaria, ricordi? Ti paghiamo per questo, e quando è
finito puoi tornartene a casa.»
«Quando mi sono offerta?»
«La settimana scorsa», rispose la dottoressa Archer.
«Non ricordo.»
«L'hai fatto. Abbiamo la tua firma sul modulo di consenso. E ci stiamo
prendendo molta cura di te.»
«Mi sento sempre inebetita.»
«È normale», la rassicurò la dottoressa. «Non è nulla di cui
preoccuparsi.»
Lei, il soggetto F4, era segretaria legale. Lo erano tre dei soggetti
femminili, il che impensieriva un po' la dottoressa Archer. Che cosa
sarebbe successo se gli avvocati per i quali lavoravano avessero chiamato
la polizia? Erano state inviate lettere di dimissioni, con le firme
sapientemente imitate, e nel testo erano indicate spiegazioni plausibili.
Forse avrebbe funzionato. In ogni caso, i rapimenti erano stati eseguiti
con grande attenzione e qui nessuno ne avrebbe parlato.
Il soggetto F4 era nuda e stava seduta su una comoda seggiola coperta
di panno. Abbastanza carina, anche se doveva perdere almeno cinque
chili, secondo Archer. La visita medica non aveva rivelato alcunché di
anomalo. La pressione sanguigna era normale. L'esame del sangue
indicava un colesterolo un po' alto, ma niente di preoccupante. Sembrava
una donna normale, sana, di ventisei anni. Nemmeno il colloquio per
conoscere la sua storia sanitaria rivelò cose degne di nota. Non era
vergine, naturalmente, avendo avuto dodici amanti nei nove anni di
attività sessuale. Un aborto praticato all'età di vent'anni dal suo
ginecologo, dopo di che aveva praticato il sesso sicuro. Aveva attualmente
una relazione, ma lui era fuori città per lavoro per alcune settimane e lei
sospettava che avesse comunque un'altra donna nella sua vita.
«Bene, questo è tutto, Mary.» La dottoressa Archer si alzò e sorrise.
247
«Grazie per la collaborazione.»
«Posso vestirmi ora?»
«Prima c'è qualcosa che vogliamo che tu faccia. Per favore, cammina
attraverso la porta verde. C'è dentro un sistema di nebulizzazione.
Troverai che da una sensazione piacevole e fresca. I tuoi abiti saranno
dall'altra parte. Ti puoi vestire là.»
«Okay.» Il soggetto F4 si alzò e fece come le era stato detto. Di fatto,
all'interno della camera sigillata non c'era... nulla. Rimase lì frastornata
dalla droga per alcuni secondi, notando che dentro faceva caldo, oltre
trenta gradi, ma poi invisibili ugelli nella parete emisero una nebbia o
qualcosa del genere, che la raffreddarono all'istante e le diedero una
piacevole sensazione per circa dieci secondi. Poi la nebbia cessò e con
uno scatto si aprì l'altra porta. Come promesso, c'era uno spogliatoio.
Indossò il suo pigiama verde, poi uscì nel corridoio, dove un guardiano,
restando a più di tre metri di distanza da lei, le indicò la porta dall'altra
parte, per tornare al dormitorio, dove era preparato il pranzo. I pasti qui
erano piuttosto buoni, e dopo aver mangiato le piaceva fare un pisolino.
«Ti senti male, Pete?» chiese il dottor Killgore in un'altra ala
dell'edificio.
«Dev'essere l'influenza o qualcos'altro. Mi sento tutto acciaccato, e non
riesco a tenere giù niente.» Nemmeno l'alcool, ma non lo disse, anche se
ciò era particolarmente sconcertante per un alcolista. L'alcool era l'unica
cosa che riusciva sempre a tenere giù.
«Va bene, diamo un'occhiata, allora.» Killgore si alzò, indossò una
mascherina e s'infilò i guanti di lattice per la visita. «Dobbiamo prendere
un campione di sangue.»
«D'accordo, dottore.»
Killgore lo fece con molta attenzione, prelevando il sangue come al
solito dall'interno del gomito e riempiendo quattro provette da 5 cc. Poi
gli controllò gli occhi, la bocca e fece la solita palpazione generale, che
provocò una reazione nella zona del fegato.
«Ahi! Fa male, dottore.»
«Sì? Non lo sento molto diverso da prima, Pete. Com'è il dolore?»
domandò, sentendo il fegato, che, come in quasi tutti gli alcolisti,
sembrava un mattone soffice.
«Come se mi avesse appena trafitto con un coltello, dottore. Fa davvero
male lì.»
248
«Scusa, Pete. E qui?» chiese il medico, tastando più in basso con tutte e
due le mani.
«Non così acuto, ma fa un po' male. Qualcosa che ho mangiato, forse?»
«Potrebbe essere, comunque non mi preoccuperei troppo», rispose
Killgore. Questo era sintomatico, alcuni giorni prima del previsto, ma
erano da mettere in conto alcune irregolarità. Pete era uno dei soggetti più
sani, ma un alcolista, in realtà, non lo si poteva mai definire sano. Così,
Pete sarebbe stato il Numero 2. Che sfortuna, Pete, pensò Killgore.
«Lascia che ti dia qualcosa per darti un po' di sollievo.»
Il dottore si girò e aprì un cassetto dell'armadietto a muro. Cinque
milligrammi, pensò, riempiendo la siringa di plastica fino alla riga giusta;
poi si voltò e bucò la vena sul dorso della mano.
«Oooh!» esclamò Pete dopo pochi secondi. «Oooh... va meglio. Molto
meglio, dottore. Grazie.» Gli occhi cisposi si spalancarono, poi si
distesero.
L'eroina era un fantastico analgesico e, soprattutto, dava a chi la
assumeva una specie d'impeto nei primissimi secondi, poi lo riduceva in
uno stato di piacevole torpore per alcune ore. Così, Pete si sarebbe sentito
bene per un po'. Killgore lo aiutò ad alzarsi e lo rimandò indietro. Poi
prese i campioni di sangue per analizzarli. Entro trenta minuti, ne era
sicuro. I test degli anticorpi si rivelavano ancora positivi e l'esame al
microscopio mostrava che gli anticorpi stavano combattendo contro... e
stavano perdendo.
Solo due anni prima, qualcuno aveva tentato di infettare gli Stati Uniti
con la versione naturale di questo germe, qualcuno l'aveva chiamato "il
bastone del pastore". Era stato un po' modificato nel laboratorio
d'ingegneria genetica con l'aggiunta del DNA del cancro per rendere
questo virus RNA a filamenti negativi più robusto, ma in realtà fu come
mettere un impermeabile al germe. La notizia più bella di tutte fu che
l'ingegneria genetica aveva più che triplicato il periodo di latenza. Una
volta ritenuto variabile da quattro a dieci giorni, era ora quasi di un mese.
Maggie conosceva davvero il fatto suo e aveva anche scelto il nome
giusto. Shiva era un perfido, piccolo figlio di puttana. Aveva ucciso
Chester, più esattamente lo aveva fatto il potassio, ma Chester aveva il
destino segnato, e ora stava iniziando a uccidere Pete. Per questo non ci
sarebbe stato alcun aiuto pietoso. Pete sarebbe stato lasciato vivere finché
la malattia non gli avesse tolto la vita. Le sue condizioni fisiche erano
249
abbastanza vicine alla normalità perché loro potessero darsi da fare per
capire quale cura di supporto avrebbe potuto combattere gli effetti
dell'Ebola-Shiva. Probabilmente nulla, ma dovevano stabilirlo. Nove
soggetti rimanenti per i test primari e poi altri undici, sull'altro lato
dell'edificio, che sarebbero stati il test reale. Erano tutti sani, o così
riteneva la società. Avrebbero sperimentato sia il metodo di trasmissione
principale sia la capacità di Shiva come agente epidemico, oltre all'utilità
dei vaccini che Steve Berg aveva isolato la settimana precedente.
Killgore si avviò verso l'uscita. L'aria della sera era fresca, pulita e pura,
come poteva esserlo in questa parte del mondo. C'erano cento milioni di
auto nel paese, tutte che sputavano i loro idrocarburi complessi
nell'atmosfera. Killgore si chiese se sarebbe stato in grado di capire la
differenza entro due o tre anni, quando tutto ciò fosse finito. Nello
scintillio delle luci dell'edificio, scorse un battito d'ali di pipistrelli. Bello,
pensò, si vedevano raramente i pipistrelli. Forse cacciavano gli insetti, e
avrebbe voluto che le sue orecchie potessero ascoltare gli ultrasuoni che
emettevano come impulsi radar per localizzare gli insetti e intercettarli.
C'erano senz'altro anche degli uccelli lassù. Soprattutto gufi, magnifici
rapaci della notte, che volavano con piume soffici e silenziose, trovando
la loro strada nei granai, catturando topi, mangiandoli, digerendoli e poi
rigurgitando le ossa delle loro prede sotto forma di piccole capsule
compatte. Killgore sentiva molta affinità con i predatori selvatici, ma c'era
da aspettarselo. Lui aveva affinità con i predatori, quelli selvaggi, esseri
magnifici che uccidevano senza coscienza, perché madre natura non
aveva affatto coscienza. Dava la vita con una mano e la toglieva con
l'altra. Il processo senza età della vita, che aveva reso la terra così com'era.
Gli uomini da molte generazioni avevano provato a cambiarla, ma altri
ora l'avrebbero riportata com'era, rapidamente e drammaticamente, e lui
avrebbe assistito allo spettacolo. Non avrebbe visto scomparire tutte le
cicatrici e questo era un peccato, ma, pensò, sarebbe vissuto abbastanza
per veder cambiare le cose importanti. L'inquinamento si sarebbe arrestato
quasi del tutto. Gli animali non sarebbero stati più incatenati e avvelenati.
Il cielo si sarebbe ripulito e il pianeta sarebbe stato presto coperto di vita,
come indendeva la natura, mentre lui e i suoi compagni avrebbero visto la
magnificenza di quella trasformazione. E se il prezzo era alto, il premio
che procurava lo giustificava. La terra apparteneva a coloro che sapevano
apprezzarla e comprenderla. Lui usava persino un metodo naturale per
prenderne possesso, anche se con un piccolo aiuto umano. Se gli umani
250
potevano utilizzare la loro scienza e le loro arti per danneggiare il mondo,
altri umani potevano usarle per rimettere le cose a posto. Chester e Pete
non avrebbero compreso tutto questo, ma forse non erano in grado di
capire nulla.
«Ci saranno migliaia di francesi là», osservò Juan. «E metà di loro
saranno bambini. Se vogliamo liberare i nostri colleghi, l'impatto
dev'essere di quelli forti. Questo dovrebbe essere abbastanza forte.»
«Dove andremo dopo?» domandò René.
«La valle della Bekaa è ancora disponibile e da lì, dovunque vogliamo.
Ho ancora buoni contatti in Siria, e vi sono sempre possibilità di scelta.»
«È un volo di quattro ore e c'è sempre una portaerei americana nel
Mediterraneo.»
«Non attaccheranno un aereo pieno di bambini», osservò Esteban.
«Potrebbero persino darci una scorta», aggiunse sorridendo.
«Sono solo dodici chilometri all'aeroporto», ricordò loro André, «una
bella autostrada a più corsie.»
«Allora, dobbiamo pianificare la missione in ogni dettaglio. Esteban, tu
ti troverai un lavoro lì. Anche tu, André. Dobbiamo inserirci nella
struttura organizzativa, poi scegliere l'ora e il giorno.»
«Ci serviranno più uomini. Almeno altri dieci.»
«È un problema. Dove troviamo dieci uomini affidabili?» chiese Juan.
«Si possono reclutare dei sicari. Dobbiamo soltanto promettere loro
un'adeguata ricompensa», osservò con calma Esteban.
«Devono essere uomini fidati», ribadì con enfasi René.
«Saranno fidati quanto basta», confermò il basco. «So dove andare a
prenderli.»
Avevano tutti la barba. Era il mascheramento più facile da adottare e,
anche se le polizie di vari paesi disponevano di loro fotografie, queste
ritraevano tutte giovani sbarbati. Chi passava di lì avrebbe potuto
giudicarli artisti, dal loro aspetto. Erano tutti chinati in avanti sul tavolo,
impegnati in una fitta conversazione. Erano vestiti abbastanza bene anche
se non con abiti costosi. Forse stavano discutendo di qualche argomento
politico, pensò il cameriere dalla sua posizione a dieci metri di distanza, o
di qualche affare riservato. Non poteva sapere di essere nel giusto con
entrambe le ipotesi. Alcuni minuti dopo, li vide stringersi le mani e
allontanarsi in direzioni diverse, dopo aver lasciato il contante per pagare
251
il conto e, come scoprì poi il cameriere, una mancia da spilorci. Artisti,
pensò. Notoriamente, bastardi morti di fame.
«Ma questo è un disastro ambientale in agguato!» insistette Carol
Brightling.
«Carol», replicò il capo dello staff. «Riguarda il nostro bilancio dei
pagamenti. Farà risparmiare agli Stati Uniti qualcosa come cinquanta
miliardi di dollari, e ci serve. Dal punto di vista ecologico, so quali sono
le tue preoccupazioni, ma il presidente dell'Atlantic Richfield mi ha
promesso personalmente che sarà un'operazione pulita. Hanno imparato
un sacco di cose negli ultimi vent'anni, dal punto di vista tecnico e di
quello delle pubbliche relazioni, come migliorare le loro attività eccetera.»
«Sei stato là?» chiese il consigliere scientifico del presidente.
«No.» Scosse la testa. «Ho sorvolato l'Alaska, e basta.»
«La penseresti in maniera diversa se avessi visto il posto, credimi.»
«Scavano il carbone nelle miniere a cielo aperto in Ohio. L'ho visto. E li
ho visti ricoprirle e piantare erba e alberi. Diavolo, in una di quelle
miniere, entro due anni, ci terranno il campionato nazionale, sul campo da
golf che hanno costruito lì! È pulito, Carol. Sanno come fare ora, e sanno
che è ragionevole farlo, dal punto di vista economico e politico. No,
Carol, il presidente non ritirerà il suo sostegno al progetto di perforazione.
Dal punto di vista economico è manna per il paese.» E a chi gliene frega
di una terra dove sono state solo alcune centinaia di persone? pensò
senza dirlo.
«Devo parlargli personalmente di questo», insistette il consigliere
scientifico.
«No.» Il capo dello staff scrollò la testa con decisione. «Questo non
accadrà. Non su questo problema. Tutto quello che otterresti sarebbe
sminuire la tua posizione, e non sarebbe intelligente da parte tua, Carol.»
«Ma l'ho promesso!»
«Promesso a chi?»
«Al Sierra Club.»
«Carol, il Sierra Club non fa parte di questa amministrazione.
Riceviamo le loro lettere. Le ho lette. Stanno diventando un'organizzazione estremista su argomenti come questo. Chiunque può dire "non fate
nulla", e questo è più o meno tutto quello che dicono da quando ha preso
il comando Mayflower.»
252
«Kevin è un brav'uomo e molto in gamba.»
«Non puoi convincermi, Carol», sbuffò il capo dello staff. «È un
luddista.»
«Dannazione, Arnie, non tutti quelli che sono in disaccordo con te sono
estremisti.»
«Quello lo è. Il Sierra Club sta andando incontro all'autodistruzione se
lo tengono al posto di comando. Comunque.» Il capo dello staff gettò uno
sguardo all'agenda. «Ho del lavoro da fare. La tua posizione su questo
problema, dottoressa Brightling, è di sostenere l'amministrazione. Questo
significa che tu appoggerai personalmente il progetto di legge sulla
perforatone per l'AAMP. Vi è un'unica posizione in questo palazzo, e
questa posizione è quella del presidente. È il prezzo da pagare per
lavorare come consigliere del presidente, Carol. Devi influenzare la
politica, ma una volta che la politica è decisa, la sostieni, che tu ci creda o
no. Affermerai pubblicamente che sfruttare quel petrolio è una cosa buona
per l'America e per l'ambiente. Hai capito?»
«No, Arnie, non lo farò!» insistette lei.
«Carol, lo farai. E lo farai in maniera convincente, in modo da far capire
la logica della situazione alle associazioni ambientaliste più moderate. Se,
cioè, ti va di lavorare qui.»
«Mi stai minacciando?»
«No, Carol, non ti sto minacciando. Ti sto spiegando come funzionano
qui le regole. Perché devi giocare secondo le regole, proprio come faccio
io e proprio come fanno tutti gli altri. Se lavori qui devi essere leale verso
il presidente. Se non sei leale, non puoi lavorare qui. Conoscevi queste
regole quando sei salita a bordo, e sapevi che avresti dovuto conviverci. È
ora che tu faccia un'autocritica. Carol, rispetterai le regole?»
Il suo viso era rosso sotto il trucco. Il capo dello staff vide che non
aveva imparato a nascondere la collera, ed era un peccato. Non ci si
poteva permettere di arrabbiarsi per cazzate di poca importanza, non a un
simile livello del governo. E questa era una cazzata di poca importanza.
Quando si trova qualcosa di prezioso come alcuni miliardi di barili di
petrolio in un posto che ti appartiene, perfori per estrarlo. Era semplice ed
era ancora più semplice se le società petrolifere promettevano come
risultato di non rovinare nulla. Sarebbe rimasto così semplice finché gli
elettori guidavano le automobili. «Be', Carol?» chiese lui.
«Sì, Arnie, conosco le regole e le rispetterò», confermò alla fine.
253
«Bene. Voglio che questo pomeriggio prepari una dichiarazione da
rilasciare la settimana prossima. La voglio vedere oggi. La solita roba,
l'aspetto scientifico, la sicurezza delle misure tecniche, quel genere di
cose. Grazie per la visita, Carol», aggiunse congedandola.
La dottoressa Brightling si alzò e andò verso la porta. Qui esitò, sul
punto di voltarsi e dire ad Arnie che cosa poteva farsene della sua
dichiarazione... ma continuò a camminare nel corridoio nell'ala ovest,
svoltò e scese le scale fino al pianterreno. Due agenti del servizio segreto
notarono la sua espressione e si chiesero che tegola le fosse caduta in testa
quella mattina. Attraversò la strada con un'andatura insolitamente rigida,
poi salì i gradini per entrare nell'ala vecchia. In ufficio, si mise al
computer Gateway e aprì il programma di videoscrittura, con la voglia di
sfondare lo schermo con un pugno invece di digitare sulla tastiera.
Ricevere ordini da quell'uomo! Che non sapeva nulla della scienza, e a
cui non fregava niente della politica ambientale. Ciò che ad Arnie
importava era la politica, e la politica era la cosa più dannatamente falsa
del mondo!
Alla fine, si calmò, tirò un profondo respiro e cominciò a buttar giù la
difesa di qualcosa che, dopotutto, non sarebbe mai avvenuto.
No, disse tra sé. Non sarebbe mai avvenuto.
12
SCHEGGE IMPAZZITE
Il parco tematico aveva imparato bene la lezione dal suo più famoso
modello. Si era preoccupato di portargli via una dozzina di dirigenti, il cui
lauto aumento di stipendio veniva pagato dai finanziatori del Golfo
Persico, sicuri di recuperare l'investimento totale in meno di sei anni
invece dei programmati otto e mezzo.
Gli investimenti erano stati considerevoli, dato che avevano deciso non
solo di emulare il predecessore americano ma di superarlo sotto ogni
aspetto. Nel loro parco il castello era di pietra, non di semplice fibra di
vetro. La strada principale era addirittura composta da tre grandi arterie,
ciascuna adattata a tre diversi temi nazionali. La ferrovia circolare aveva
scartamento standard e utilizzava due vere locomotive a vapore e si
parlava di prolungare la linea, fino all'aeroporto internazionale, che le
autorità spagnole avevano gentilmente ammodernato in modo da venire
254
incontro al parco tematico... anche a loro vantaggio: l'infrastruttura
garantiva ventottomila posti a tempo pieno e altri diecimila part-time o
stagionali. Le attrazioni erano spettacolari, in gran parte progettate e
realizzate appositamente in Svizzera, e alcune erano tanto emozionanti da
far impallidire un pilota da caccia. Inoltre, disponeva di una sezione
dedicata al mondo della scienza, con l'attrazione della passeggiata sulla
luna che aveva favorevolmente colpito la NASA, un mega-acquario
percorribile sott'acqua e padiglioni di ogni importante industria europea,
tra cui quello della Airbus Industrie era particolarmente emozionante,
permettendo ai bambini (e agli adulti) di pilotare modelli simulati dei suoi
velivoli.
Vi erano personaggi in costume: gnomi, troll e tutti i tipi di creature
mitiche della storia europea, oltre a legionari romani che combattevano
contro i barbari, e le solite aree commerciali dove gli ospiti potevano
acquistare copie di tutto ciò che il parco aveva da offrire.
Una delle decisioni più intelligenti prese dai finanziatori era stata di
costruire il loro parco tematico in Spagna piuttosto che in Francia. Qui il
clima non solo era più caldo, ma era anche soleggiato e secco per quasi
tutto l'anno, il che consentiva l'attività in ogni stagione. Gli ospiti
giungevano da ogni parte d'Europa in aereo, o prendevano il treno o
arrivavano con viaggi organizzati in pullman per poi soggiornare in grandi,
comodi alberghi, progettati per tre diversi livelli di spesa e di lusso, da
quello che avrebbe potuto essere decorato da César Ritz fino ad alcuni con
comodità più essenziali. In tutti, gli ospiti godevano lo stesso clima, caldo e
asciutto, e potevano passare un po' di tempo nelle tante piscine circondate da
spiagge di sabbia bianca oppure giocare in uno dei due campi da golf
esistenti... ce n'erano in costruzione altri tre e uno sarebbe presto entrato a
far parte del circuito professionistico europeo. C'era anche un casinò sempre
pieno, qualcosa che nessun altro parco tematico aveva mai sperimentato. In
complesso, Worldpark, così si chiamava, era stato un successo immediato e
sensazionale, e di rado aveva meno di diecimila ospiti e spesso più di
cinquantamila.
Era una struttura modernissima, controllata da sei centri di comando
settoriali e da uno principale, e ogni attrazione e punto di ristoro era
monitorato da computer e telecamere.
Il direttore operativo era Mike Dennis. L'avevano assunto portandolo
via da Orlando e, se da un lato gli mancava l'amichevole atmosfera
manageriale che c'era là, la costruzione e poi la gestione di Worldpark
255
erano stati la sfida da lui attesa per tutta la vita. Aveva tre figli e questo
era il quarto, pensava Dennis, guardando i merli della torre. Il suo ufficio
e centro di comando era nel castello, l'alta torre nella fortezza del
Dodicesimo secolo che avevano eretto. Forse il duca di Aquitania si era
goduto un posto come questo, ma lui aveva utilizzato solo spade e lance,
non computer ed elicotteri, e per quanto ricco fosse sua altezza nel
lontano Dodicesimo secolo, non aveva maneggiato denaro in tale
quantità... in una buona giornata Worldpark incassava dieci milioni di
dollari solo in contanti, e molto di più con le carte di credito. Ogni giorno,
un furgone blindato, con una nutrita scorta di polizia, lasciava gli uffici
del parco divertimenti per la banca più vicina.
Come il suo modello in Florida, Worldpark era una struttura a più
livelli. Sotto le arterie principali c'era una città sotterranea dove operavano
i servizi di supporto, i dipendenti indossavano i costumi e consumavano i
pasti e dove lui era in grado di spostare persone e cose da un posto
all'altro, velocemente e senza essere visto dagli ospiti alla luce del sole.
Gestire il tutto era come essere il sindaco di una città; in realtà era più
difficile, dato che doveva garantire che tutto funzionasse senza
interruzioni e che il costo delle operazioni fosse sempre inferiore alle
entrate. Il fatto di aver svolto bene il suo lavoro, in effetti circa il 2,1 per
cento meglio delle sue stesse previsioni prima dell'apertura, gli aveva
procurato uno stipendio ragguardevole e il premio di un milione di dollari
che gli era stato consegnato solo cinque settimane prima. Ora, se soltanto
i suoi ragazzi si fossero abituati alle scuole locali...
Anche come oggetto di odio, era uno spettacolo mozzafiato. Era una
città, pensò André, la cui costruzione era costata miliardi. Era passato
attraverso il processo d'indottrinamento nella locale "Worldpark
University", aveva assorbito l'assurda etica del posto, imparato a sorridere
a tutto e a tutti. Era stato assegnato, in maniera del tutto casuale, al reparto
sicurezza, la teorica Policia del Worldpark, il che significava indossare
una camicia azzurro chiaro e pantaloni blu scuri con striscia azzurra
verticale, portare un fischietto e una radio portatile e passare la maggior
parte del tempo a dire alla gente dov'erano le toilette, poiché Worldpark
aveva bisogno di una forza di polizia più o meno come una nave di ruote.
Aveva ottenuto il lavoro poiché parlava bene tre lingue, francese,
spagnolo e inglese, e poteva così essere d'aiuto alla maggior parte dei
visitatori di questa nuova città spagnola, che senza distinzione dovevano
256
di tanto in tanto andare al gabinetto e per la maggior parte, evidentemente,
non sapevano nemmeno vedere le centinaia di cartelli (con simboli invece
che lettere) che indicavano dove andare quando il bisogno diventava
impellente.
André vide che Esteban era al suo solito posto, a vendere palloncini
pieni di elio. Panem et circenses, pensarono entrambi. Le enormi somme
spese per costruire questo posto... e a quale scopo? Per dare ai bambini
delle classi povere e lavoratoci poche ore di divertimento prima di tornare
alle loro tetre case? Per indurre i loro genitori a spendere denaro per puro
divertimento? In realtà, lo scopo di quel posto era di arricchire
ulteriormente gli investitori arabi che erano stati convinti a spendere qui
molti dei loro petrodollari, per costruire questa città della fantasia.
Mozzafiato, forse, ma ancora oggetto di disprezzo, icona dell'irreale,
oppio per le masse di lavoratori che non avevano la capacità di vederlo
per quello che era. Ma questo era il compito dell'élite rivoluzionaria.
André gironzolava apparentemente senza scopo, ma di fatto secondo i
piani, sia i suoi sia quelli del parco. Effettivamente veniva pagato per
guardarsi in giro e organizzare i suoi progetti mentre sorrideva e indicava
ai genitori dove i loro pargoli potevano fare pipì.
«Questo dichiarò», dichiarò Noonan, arrivando alla riunione del
mattino.
«Che cos'è?» chiese Clark.
Noonan teneva in mano un dischetto. «Sono solo un centinaio di righe
di codice, senza contare la parte d'installazione. I cellulari utilizzano tutti,
per funzionare, lo stesso programma per computer. Quando andiamo in un
posto, mi basta inserire questo nei loro drive e caricare il software. A
meno che non si componga il prefisso corretto per fare una chiamata, per
la precisione 7-7-7, il cellulare risponderà che il numero chiamato è
occupato. Così, possiamo bloccare qualsiasi chiamata diretta ai nostri
obiettivi da parte di qualche anima caritatevole all'esterno e bloccare pure
le telefonate in uscita.»
«Quante copie di riserva ne hai?» domandò Stanley.
«Trenta», rispose Noonan. «Possiamo farli installare alle polizie locali.
Ho le istruzioni stampate in sei lingue.» Non male, eh? avrebbe voluto
dire Noonan. Per averlo era passato attraverso un contatto nell'agenzia per
la sicurezza nazionale, a Fort Meade, nel Maryland. Buon risultato dopo
257
poco più di una settimana di lavoro. «Si chiama Cellcop ed è in grado di
funzionare in tutte le parti del mondo.»
«Bel lavoro, Tim.» Clark prese nota. «Bene, come vanno i team?»
«Sam Houston è fuori uso per una distorsione al ginocchio», disse Peter
Covington. «Si è fatto male calandosi con la fune. Può essere utilizzato,
ma non dovrà correre per alcuni giorni.»
«Il team 2 è pronto per la missione, John», annunciò Chavez. «George
Tomlinson ha qualche problema con il suo tendine d'Achille, ma non va
così male.»
Clark fece un grugnito e un cenno, prendendo un altro appunto.
L'addestramento qui era talmente duro che qualche infortunio era
inevitabile e John ricordava bene l'aforisma secondo cui le esercitazioni
erano ritenute battaglie senza spargimento di sangue e le battaglie
esercitazioni con spargimento di sangue. Era molto importante che i suoi
uomini mantenessero un elevato livello d'addestramento; contava
moltissimo per il loro morale e altrettanto per la loro professionalità che
prendessero ogni aspetto dell'attività in Rainbow così seriamente. Essendo
Sam Houston un tiratore scelto, era in realtà per circa il settanta per cento
abile alla missione e George Tomlinson, con il tendine stirato e tutto il
resto, continuava a fare ancora le corse mattutine, sputando sangue come
doveva fare un soldato d'élite.
«Informazioni?» John si voltò verso Bill Tawney.
«Nulla di particolare da riferire», rispose l'ufficiale della sezione
intelligence. «Sappiamo che sono ancora vivi numerosi terroristi e le
diverse forze di polizia stanno ancora svolgendo le loro indagini per
scovarli, ma non è un compito così facile e non sembra ci sia in vista nulla
di promettente ma...» Non si poteva mai prevedere una circostanza
fortunata in un ambito del genere. Tutti quelli che sedevano attorno al
tavolo lo sapevano. Quella stessa sera qualcuno del livello dello stesso
Carlos poteva essere fermato per non aver rispettato un segnale di stop ed
essere riconosciuto da qualche pivello della polizia e preso al volo, ma
non si potevano pianificare gli eventi casuali. Vi erano ancora più di un
centinaio di terroristi conosciuti che vivevano probabilmente da qualche
parte in Europa, proprio come Ernst Model e Hans Fùrchtner, ma avevano
imparato la lezione, non molto difficile, di mantenere un'estrema cautela,
adottando un travestimento semplice e tenendosi fuori dai guai. Dovevano
commettere un errore più o meno grande per essere notati, e quelli che
258
facevano errori stupidi erano da tempo morti o in prigione.
«Come va la collaborazione con le polizie locali?» s'informò Alistair
Stanley.
«Continuiamo a comunicare con loro e le missioni di Berna e Vienna
sono state per noi una pubblicità molto buona. Dovunque succede
qualcosa, possiamo aspettarci di essere rapidamente convocati.»
«Mobilità?» chiese John.
«Tocca a me, immagino», rispose il tenente colonnello Malloy. «Si sta
mettendo bene con il 1° Special Operations Wing. Per ora, mi lasciano il
Night Hawk e ho passato abbastanza tempo sul Puma britannico da averci
preso la mano. Se dobbiamo andare, sono pronto. Posso avere il supporto
dell'aerocisterna MC-130 in caso di operazioni a vasto raggio, ma in
pratica posso andare dovunque in Europa in otto ore con il mio Sikorsky,
con o senza il supporto del rifornimento in volo. Dal lato operativo, mi
sento pronto. Gli specialisti qui sono bravi come non ne ho mai visti e
lavoriamo bene assieme. L'unica cosa che mi preoccupa è la mancanza di
un nucleo di sanità.»
«Ci abbiamo pensato. Il dottor Bellow è il nostro medico, e non ha
problemi con i traumi, vero, dottore?» domandò Clark.
«Direi di no, pur non essendo bravo come un vero traumatologo. Tra
l'altro, quando siamo in missione, possiamo disporre dell'aiuto di
personale paramedico locale proveniente dalla polizia e dai vigili del
fuoco presenti sul posto.»
«Eravamo organizzati meglio a Fort Bragg», osservò Malloy. «So che
tutti i nostri tiratori sono addestrati al pronto soccorso, ma è bello avere
attorno un paramedico militare ben preparato. Il dottor Bellow ha soltanto
due mani», aggiunse il pilota. «E può essere solo in un posto per volta.»
«Quando operiamo», osservò Stanley, «facciamo sempre una telefonata
al più vicino ospedale locale dotato di pronto soccorso. Finora abbiamo
avuto una buona collaborazione.»
«Okay, ragazzi, ma sono io quello che deve trasportare i feriti. Lo
faccio da molto tempo e penso che potremmo operare un po' meglio.
Consiglio di organizzare un'apposita esercitazione. Dovremmo fare
pratica in modo regolare.»
Non era una cattiva idea, pensò Clark. «Va bene, Malloy. Al,
facciamola nei prossimi giorni.»
«D'accordo», rispose con un cenno Stanley.
259
«La parte difficile è simulare gli infortuni», fece notare il dottor Bellow.
«Non vi è davvero alcun sostituto per la realtà, ma non possiamo
distaccare i nostri al pronto soccorso solo perché imparino i metodi da
usare. Porta via troppo tempo e lì non vedrebbero le ferite che si vedono
durante le azioni.»
«Abbiamo questo problema da anni», ricordò Peter Covington. «Si
possono insegnare le procedure, ma l'esperienza pratica è poco
reperibile...»
«Si, a meno che non spostiamo il gruppo a Detroit», aggiunse ironico
Chavez. «Ascoltate, ragazzi, tutti noi abbiamo un'infarinatura di pronto
soccorso e il dottor Bellow è un medico. C'è un limite nel tempo
disponibile per un addestramento del genere e la missione principale ha la
priorità. Noi dobbiamo andare là, fare il nostro lavoro e ridurre al minimo
il numero di ferite.» Tranne che per i criminali, di cui nessuno davvero si
preoccupava; non si potevano curare tre fori da dieci millimetri nella
testa, nemmeno nella clinica militare Walter Reed a Washington. «Mi va
l'idea di addestrarci per l'evacuazione dei feriti. Possiamo farlo, ed
esercitarci nel pronto soccorso, ma possiamo realisticamente fare più di
questo? Non vedo come.»
«Commenti?» domandò Clark. Nemmeno lui vedeva altre possibilità.
«Chavez ha ragione... ma non si è mai completamente preparati o
addestrati», osservò Malloy. «Non importa quanto lavori, i delinquenti
trovano sempre il modo di scaricarti addosso qualcosa di nuovo. A ogni
modo, nella Delta Force operiamo con un'equipe completa per l'intervento
medico, militari addestrati, esperti, abituati alla cura delle ferite. Forse qui
non ce lo possiamo permettere, ma è così che facevamo a Fort Bragg.»
«Non potremo evitare di dipendere dal supporto locale», intervenne
Clark, chiudendo l'argomento. «Non possiamo permetterci di crescere
tanto. Non ho i fondi.»
E questa è la parola magica in quest'attività, non ebbe bisogno di
aggiungere Malloy. La riunione si chiuse alcuni minuti più tardi e con
essa terminò la giornata di lavoro. Dan Malloy si era abituato alla
tradizione locale di chiudere la giornata al club, dove la birra era buona e
la compagnia simpatica. Dieci minuti dopo, sollevava il boccale insieme
con Chavez. Quel piccolo messicano, pensò, aveva davvero le palle.
«L'operazione che hai guidato a Vienna è stata davvero buona, Ding.»
«Grazie, Dan.» Chavez bevve un sorso. «Non avevo molta scelta, però.
260
Qualche volta si deve agire e basta.»
«Sì, è un dato di fatto», concordò il marine.
«Ritieni che siamo deboli sul lato medico... anch'io, ma finora non è
stato un problema.»
«Finora siete stati fortunati, ragazzo mio.»
«Sì, lo so, finora non ci siamo trovati di fronte ancora nessun pazzo.»
«Ce ne sono di sociopatici in giro, quelli cui non frega niente di niente.
In verità, nemmeno io li ho mai visti, tranne che in tv. Però continua a
tornarmi in mente la vicenda Ma'alot, oltre vent'anni fa, in Israele. Quei
figli di puttana uccisero dei bambini solo per dimostrare quanto fossero
duri... e ricordo ciò che è avvenuto un po' di tempo fa alla figlia del
presidente. È stata maledettamente fortunata che ci fosse lì quello
dell'FBI. Non mi dispiacerebbe affatto offrirgli una birra.»
«Buona mira», concordò Chavez. «Anzi, ottimo tempismo. Ho letto
come ha fatto, parlando con loro e tutto il resto, con pazienza, aspettando
l'occasione di fare la mossa giusta, poi prendendola al balzo.»
«Fece una relazione a Bragg, ma quel giorno ero in viaggio. Ho visto la
registrazione. I ragazzi hanno detto che è bravo con la pistola quanto
quelli del team, ma in più, è anche intelligente.»
«L'intelligenza conta», concordò Chavez finendo la sua birra. «Devo
andare a preparare la cena.»
«Come, scusa?»
«Mia moglie è medico, torna a casa tra circa un'ora ed è il mio turno di
preparare la cena.»
«È bello vedere che sei ben addestrato, Chavez», scherzò Malloy
inarcando un sopracciglio.
«Ciononostante sono ben conscio della mia mascolinità», ribatté
Domingo rassicurando l'aviatore, e si diresse verso la porta.
André lavorò fino a tardi quella sera. Worldpark rimase aperto fino alle
23.00 e i negozi chiusero ancora più tardi, perché anche un posto così
enorme non poteva sprecare l'occasione di guadagnare dalle masse
qualche soldo extra per i ricordini a buon mercato e senza valore, da far
stringere nelle mani avide dei bambini, spesso quasi addormentati nelle
braccia dei loro esausti genitori. Guardò impassibile tutte quelle persone
aspettare fino all'ultimissimo giro su quei marchingegni meccanici e solo
dopo il definitivo arresto dei meccanismi e i saluti degli addetti, avviarsi
261
verso le uscite, cogliendo ogni occasione per fermarsi ed entrare nei
negozi, dove gli impiegati sorridevano stanchi e servizievoli, così come
avevano insegnato loro all'università di Worldpark. E poi quando,
finalmente, tutti se ne furono andati, i negozi vennero chiusi e i
registratori di cassa svuotati; sotto gli occhi di André e del suo amico del
servizio di sicurezza, il contante venne prelevato e portato nell'ufficio
contabilità. Non era, strettamente parlando, parte del suo lavoro, ma lui si
accodò comunque, seguendo i tre impiegati del negozio Matador, e uscì
nella strada principale, poi in uno stretto passaggio, attraverso alcune
porte di legno senza vetri, e giù per i gradini fino al sotterraneo, lungo i
corridoi in cemento armato, affollati durante il giorno di carrelli elettrici e
di impiegati e ora vuoti, a parte i dipendenti diretti agli spogliatoi per
indossare i loro abiti. La stanza era proprio al centro, quasi sotto il
castello. Il contante venne consegnato, ogni sacco etichettato con il suo
punto d'origine. Le monete furono versate in un contenitore, dove vennero
separate per nazionalità e valore e contate, incartate ed etichettate per
essere trasportate in banca. La carta moneta, già in mazzette per valuta e
valore venne... pesata. Era la prima volta che vedeva qualcosa del
genere... ne rimase meravigliato, ma precise bilance le pesarono davvero...
ecco, 1,0605 chili di banconote tedesche da 100 marchi. 2,6370 chili di
banconote britanniche da cinque sterline. Il valore corrispondente
compariva sullo schermo elettronico e le banconote venivano spostate
rapidamente per essere fascettate. Qui gli addetti alla sicurezza portavano
le armi, pistole Astra, poiché il valore totale del denaro della giornata
assommava... secondo il display digitale a 11.567.309,35 sterline...
contante usato, il tipo migliore, di tutte le taglie. Entrò tutto in sei grandi
sacchi di tela che vennero piazzati su un carrello a quattro ruote per essere
trasportato, attraverso il retro del sotterraneo, sino a un furgone blindato
con una scorta di polizia per il trasferimento alla filiale centrale della
banca locale, ancora aperta a quell'ora per un deposito di tale dimensione.
Undici milioni di sterline in contanti... questo posto incassa miliardi
all'anno in contanti, pensò stancamente André.
«Mi scusi», disse al suo capo. «Ho infranto qualche regola venendo
qui?»
Una risatina. «No, presto o tardi tutti vengono quaggiù per vedere. Ecco
perché ci sono le vetrate.»
«Non è pericoloso?»
«Penso di no. Le vetrate sono spesse, come vedi, e la sicurezza
262
all'interno della stanza è molto rigorosa.»
«Mon dieu, tutti quei soldi... cosa succederebbe se qualcuno tentasse di
rubarli?»
«Il furgone è corazzato e ha una scorta di polizia in due auto, quattro
uomini ciascuna, tutti ben armati.» E quella era soltanto la scorta visibile,
pensò André. Ce n'erano altre, non così vicine e non così visibili, ma
altrettanto bene armate. «All'inizio eravamo preoccupati che i terroristi
baschi potessero cercare di rubare il denaro... tutto questo contante
potrebbe finanziare le loro operazioni per anni... ma la minaccia non si è
avverata e, poi, sai che cosa succede a tutto questo contante?»
«Perché non portare il denaro alla banca con un elicottero?» chiese
André.
Il direttore della sicurezza sbadigliò. «Troppo costoso.»
«Allora, che cosa succede al contante?»
«Una parte torna qui da noi, naturalmente.»
«Oh.» André restò un attimo pensoso. «Sì, per forza.»
Worldpark era in larga misura un affare di contanti, poiché tante
persone preferivano ancora pagare in quel modo, nonostante l'avvento
delle carte di credito, che il parco era altrettanto contento di accettare, e
nonostante la possibilità offerta ai clienti di mettere tutto sul conto delle
loro stanze d'albergo (istruzioni al riguardo erano stampigliate su ogni
pass elettronico nella lingua del singolo ospite).
«Utilizzeremo la stessa banconota da cinque sterline fino a quindici
volte prima che sia troppo consunta e debba essere mandata a Londra per
la distruzione e la sostituzione.»
«Capisco», disse André annuendo. «Allora, noi depositiamo e poi
ritiriamo dal nostro stesso conto solo per poter dare il resto ai nostri ospiti.
Quanto contante teniamo, allora?»
«Per il resto?» Una scrollata di spalle. «Oh, almeno due o tre milioni...
di sterline britanniche. Per tenere sotto controllo il tutto abbiamo quei
computer», aggiunse indicandoli.
«Posto affascinante», osservò André, parlando sul serio. Fece un cenno
al suo superiore e si avviò fuori per timbrare e cambiarsi. Era stata una
buona giornata. I suoi vagabondaggi avevano confermato le sue
precedenti considerazioni sul parco. Ora sapeva come pianificare la
missione e come eseguirla. Poi doveva portar dentro i suoi colleghi e
mostrare loro il piano, dopo di che veniva la fase esecutiva. Quaranta
263
minuti più tardi era nel suo appartamento, bevendo un po' di borgogna e
ripensando a tutto. Era stato responsabile dei piani e delle operazioni per
Action Directe per oltre un decennio... aveva pianificato ed eseguito in
totale undici omicidi. Questa missione, però, sarebbe stata di gran lunga la
più importante di tutte, forse l'apice della sua carriera, e doveva studiarla
nei minimi dettagli. Appesa alla parete del suo appartamento c'era una
pianta di Worldpark e con gli occhi la percorreva, avanti e indietro. Come
entrare, come uscire. Possibili percorsi d'accesso della polizia. Modi di
contrastarla. Dove piazzare i suoi addetti alla sicurezza. Dove portare gli
ostaggi. Dove custodirli. Come tenere tutti fuori. André continuò a
ripassare, senza sosta, cercando i punti deboli, cercando gli errori. La
polizia nazionale spagnola, la Guardia Civil, avrebbe reagito a questa
azione. Doveva essere considerata con rispetto, nonostante i buffi
copricapi. Combatteva i baschi da una generazione e aveva imparato.
Senza dubbio aveva già un accordo con Worldpark, perché si trattava di
un obiettivo troppo esposto per il terrorismo... per gli elementi
progressisti, si corresse André. La polizia non doveva essere presa alla
leggera. Lo avevano quasi ucciso e arrestato due volte in Francia, ma in
tutte e due le occasioni era successo perché aveva compiuto errori banali,
e lui aveva imparato da entrambi. Li avrebbe tenuti a bada, questa volta,
grazie alla scelta degli ostaggi e mostrando la volontà di utilizzarli a fini
politici, e per quanto dura potesse essere la Guardia Civil, sarebbe stata
intimorita dalla dimostrazione di risolutezza, perché per quanto duri,
erano vulnerabili al sentimentalismo borghese, come lo erano tutti. Era la
purezza del suo scopo che gli dava il vantaggio, e avrebbe raggiunto il suo
obiettivo o molti sarebbero morti, e né il governo della Spagna né quello
della Francia potevano affrontare un tale rischio. Il piano era quasi pronto.
Sollevò il telefono e fece una chiamata internazionale.
Pete tornò presto la sera. Era pallido e ancor più apatico, ma anche a
disagio, a giudicare dal modo sofferente con cui si muoveva.
«Come va?» chiese allegro il dottor Killgore.
«Lo stomaco va davvero male, dottore, proprio qui», disse Pete,
indicando con il dito.
«Ancora fastidio? Perché non ti distendi qui e diamo un'occhiata?»
replicò il medico, indossando maschera e guanti. La visita fu frettolosa, e
comunque inutile. Pete, come Chester prima di lui, stava morendo, anche
264
se ancora non lo sapeva. L'eroina aveva fatto un buon lavoro sopprimendo
il dolore, eliminando la sofferenza e sostituendola con un paradiso
artificiale. Killgore prelevò con cura un altro campione di sangue per il
successivo esame microscopico.
«Amico, dobbiamo soltanto aspettare. Ma lascia che ti faccia
un'iniezione per alleviare il dolore, va bene?»
«Certo, dottore. L'ultima ha funzionato piuttosto bene.»
Killgore riempì un'altra siringa di plastica e iniettò l'eroina nella stessa
vena della volta precedente. Guardò gli occhi di Pete dilatarsi per quella
specie d'impeto iniziale, poi socchiudersi man mano che il dolore passava;
subentrò un letargo così profondo che avrebbe quasi potuto effettuare sul
posto un intervento chirurgico serio senza avvertire nemmeno un gemito
da quel povero bastardo.
«Come stanno gli altri, Pete?»
«Bene, ma Charlie si lamenta del suo stomaco, qualcosa che ha
mangiato, penso.»
«Ah, sì? Forse vedrò anche lui», disse Killgore. Così, è probabile che il
Numero 3 sarà qui domani. I tempi erano quasi giusti. Nonostante i
sintomi anticipati di Chester, il resto del gruppo reagiva come previsto.
Dopo altre chiamate telefoniche, di primo mattino, noleggiarono le auto
con documenti falsi, viaggiando in coppia o da soli dal sud della Francia
alla Spagna, e vennero fatti passare con un gesto frettoloso attraverso i
posti di controllo alla frontiera, di solito con un sorriso amichevole.
Diverse agenzie di viaggio avevano effettuato le necessarie prenotazioni
negli hotel del parco, tutti di categoria media e collegati a Worldpark da
una monorotaia o dal treno, con le stazioni addirittura negli atri degli
alberghi, pieni di negozi, affinché gli ospiti non si perdessero.
Le autostrade per il parco erano larghe e comode da percorrere e i
segnali facili da seguire, anche per coloro che non parlavano spagnolo. In
pratica, gli unici rischi erano costituiti dagli enormi pullman turistici, che
si muovevano a oltre 150 chilometri all'ora, come transatlantici ancorati a
terra, con la gente assiepata dietro ai finestrini, i molti bambini che
salutavano i passeggeri delle auto. Gli automobilisti rispondevano al
saluto sorridendo e lasciavano passare i pullman, che superavano i limiti
di velocità come se fosse un loro diritto farlo, senza però essere imitati
dagli automobilisti. Questi avevano un sacco di tempo. Avevano
265
pianificato l'azione per averne.
Tomlinson si toccò la gamba sinistra e fece una smorfia. Chavez si sfilò
dal gruppetto impegnato nella corsa del mattino per verificare le sue
condizioni.
«Ancora male alla gamba?»
«Già. Questa figlia di puttana», imprecò il sergente Tomlinson.
«Allora vacci adagio, brutto bastardo. Il tendine di Achille è una brutta
bestia.»
«L'ho appena scoperto, Ding.» Tomlinson rallentò sino a camminare,
poggiando ancora il peso sulla gamba sinistra nonostante avesse già
percorso oltre tre chilometri di corsa. Il suo respiro era molto più pesante
del solito, ma il dolore metteva sempre a dura prova la resistenza.
«Hai visto il dottor Bellow?»
«Sì, ma non c'è niente che possa fare tranne lasciarlo guarire, dice.»
«Allora, lascialo guarire. È un ordine, George. Niente più corsa fino a
che non smette di far così male. Okay?»
«Sissignore», concordò il sergente Tomlinson. «Posso ancora essere
operativo, se hai bisogno di me.»
«Lo so, George, ci vediamo al poligono.»
«D'accordo.» Tomlinson vide il suo comandante accelerare per
raggiungere il resto del team 2. Feriva il suo orgoglio il fatto di non essere
all'altezza. Non aveva mai permesso ad alcun tipo di malanno di
fermarlo... nella Delta Force aveva continuato l'addestramento nonostante
due costole rotte, non l'aveva nemmeno detto ai medici per paura di essere
preso per un mollaccione dai compagni. Ma, mentre si potevano
nascondere e sopportare stoicamente le costole rotte, un tendine stirato era
qualcosa che non poteva essere ignorato... il dolore era così forte che la
gamba smetteva di funzionare a dovere ed era difficile stare in piedi
diritti. Dannazione, pensò Tomlinson, non posso mettere a terra il resto
del team. In tutta la sua vita, non era mai stato secondo in nulla, fin dai
tempi della squadra di baseball giovanile della Little League, dove
giocava da interbase. Ora, invece di correre per il resto del tragitto,
camminò, cercando di mantenere un ritmo militare di 120 passi al minuto,
e anche così faceva male, ma non tanto da costringerlo a fermarsi. Anche
il team 1 era fuori a correre, e lo superò, compreso Sam Houston con il
suo ginocchio malandato, rivolgendogli un cenno di saluto mentre
266
passava zoppicando. L'orgoglio in questo reparto era davvero qualcosa
d'importante. Tomlinson era stato per sei anni nelle operazioni speciali, un
ex Berretto Verde arruolato nella Delta, ora quasi laureato al college,
specializzando in psicologia... era il campo che, per qualche ragione,
tendevano a scegliere quelli delle operazioni speciali... e cercava
d'immaginare come completare i suoi studi in Inghilterra, dove le
università funzionavano in maniera diversa e dove era un po' strano che i
soldati professionisti avessero lauree su pergamena. Ma nella Delta
capitava spesso di sedersi a parlare dei terroristi che si prevedeva
d'incontrare, delle loro motivazioni, perché capendole si sarebbe riusciti a
prevedere le loro mosse e individuare i punti deboli... per poterli uccidere
più facilmente, il che, in fondo, era il loro mestiere. Stranamente, non
aveva mai compiuto un'azione sul campo prima di venire a Hereford e,
cosa ancor più strana, l'esperienza pratica non era stata poi così diversa
dall'addestramento. Si agiva come ci si esercitava, secondo il sergente,
proprio come gli avevano detto di continuo, fin dall'addestramento base a
Fort Knox, undici anni prima. Dannazione, la parte inferiore della gamba
era ancora in fiamme, ma non come durante la corsa. Il dottore aveva
detto una settimana, forse due, prima di tornare a essere pienamente
idoneo alla missione, tutto perché aveva sbattuto contro un cordolo nel
modo sbagliato, senza guardare, come uno stupido. Almeno Houston
aveva una scusa per il suo ginocchio. La discesa con la fune poteva essere
pericolosa e ogni tanto qualcuno scivolava... nel suo caso, la discesa su
una roccia, che doveva avergli fatto un male del diavolo... ma Sam non
era nemmeno lui un vigliacco, disse tra sé Tomlinson, procedendo a fatica
verso il poligono.
«Bene, questa è un'esercitazione a fuoco reale», spiegò Chavez al team.
«Lo scenario è costituito da cinque criminali e otto ostaggi. I criminali
sono armati con pistole mitragliatrici. Due degli ostaggi sono piccoli, due
bimbe, di sette e nove anni. Gli altri sono tutti donne, madri. I criminali
hanno assalito un asilo nido, ed è il momento d'intervenire. Noonan ha
previsto la posizione dei criminali in questo modo.» Chavez indicò la
lavagna. «Tini, quanto sono attendibili i tuoi dati?»
«Al settanta per cento, non di più. Alcuni si muovono attorno. Ma gli
ostaggi sono tutti qui, in quest'angolo.» Toccò con la bacchetta la lavagna.
«Bene. Paddy, tu prendi gli esplosivi. Louis e George entrano per primi,
coprendo il fianco sinistro. Eddie e io andiamo dentro subito dopo
coprendo la zona centrale. Scotty e Oso entrano per ultimi, coprendo la
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destra. Domande?»
Non ce ne furono. I membri del team esaminarono lo schizzo sulla
lavagna. La stanza era semplice, o così sembrava.
«Allora si va», disse loro Ding. Il team uscì in fila, indossando le tute
nere stile ninja. «La gamba, George, come va?» chiese Loiselle a
Tomlinson.
«Non mi resta che assistere, suppongo. Ma le mani funzionano a
dovere», replicò il sergente, sollevando la sua MP-10.
«Bien.» Loiselle annuì. I due operavano quasi sempre in coppia in
perfetta simbiosi, al punto che uno di loro riusciva a leggere nella mente
dell'altro. Inoltre possedevano entrambi il dono di muoversi non visti.
Cosa difficile da insegnare; era innato nei cacciatori istintivi.
Due minuti dopo, erano all'esterno del poligono. Connolly dispose il
Primacord attorno alla porta. Questo aspetto dell'addestramento teneva
molto occupati i falegnami della base, pensò Chavez. Bastarono trenta
secondi prima che Connolly indietreggiasse, facendo un cenno con la
mano, pollice sollevato, per indicare che aveva collegato i fili inseriti
nella carica esplosiva al detonatore.
«Team 2, qui è il comandante», sentirono tutti nelle cuffie radio.
«Tenersi pronti e in attesa. Paddy, tre... due... uno... VIA!»
Clark, come al solito, fece un salto quando risuonò il boato. Ex esperto
in demolizioni lui stesso, sapeva che Connolly era più bravo, con un tocco
quasi magico per quella roba, ma sapeva anche che nessun esperto di
demolizioni al mondo ne usava mai troppo poca sul lavoro. La porta volò
attraverso la stanza e sbatté contro l'altra parete, con tanta velocità da
provocare lesioni a chiunque avesse colpito, anche se forse non mortali.
John si coprì le orecchie con le mani e chiuse gli occhi perché subito dopo
c'era una flash-bang che gli colpiva le orecchie e gli occhi come un sole
che esplodesse. Il tempismo era stato perfetto e, quando aprì gli occhi,
vide entrare i tiratori.
Tomlinson ignorò le proteste della sua gamba e seguì Loiselle con
l'arma in pugno. Fu allora che si trovarono davanti alla prima sorpresa.
Nessun ostaggio e nessun terrorista sulla sinistra. Entrambi gli uomini si
portarono verso la parete in fondo, voltandosi a destra per coprire quel
fianco.
Chavez e Price erano già dentro, perlustrando l'area di loro competenza,
e nemmeno loro vedevano qualcuno. Per Vega e McTyler la stessa cosa
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sul lato destro della stanza. La missione non si stava svolgendo come
descritto, come qualche volta capitava.
Chavez verifìcò che non vi fossero assolutamente criminali o ostaggi in
vista: c'era soltanto una porta, aperta, che immetteva in un'altra stanza.
«Paddy, flash-bang, ora!» ordinò via radio, mentre Clark osservava tutta la
scena dall'angolo indossando la camicia bianca di osservatore e il
giubbotto antiproiettile. Connolly era arrivato dietro Vega e McTyler, con
due flash-bang in mano. Una dopo l'altra attraversarono la porta e di
nuovo l'edificio tremò. Chavez e Price questa volta passarono in testa.
Alistair Stanley era là, nella sua tenuta bianca "non sparatemi" mentre
Clark si era fermato nel primo locale. Clark sentì la scarica silenziata delle
armi, seguita dalle urla di «Libero!» «Stanza libera!»
Entrando nel locale, John vide che tutti i bersagli erano stati colpiti alla
testa, come prima. Ding ed Eddie si trovavano con gli ostaggi, coprendoli
con i loro giubbotti antiproiettile, le armi puntate contro i bersagli di
cartone, che nella realtà sarebbero stati sul pavimento, sanguinanti a fiotti
dai crani sbriciolati.
«Eccellente!» gridò Stanley. «Buona improvvisazione. Tomlinson, sei
stato lento, ma i tiri sono stati perfetti. Anche tu, Vega.»
«Okay, ragazzi, torniamo in ufficio per vedere la registrazione», disse
loro John, dirigendosi all'aperto scuotendo ancora la testa per liberarsi le
orecchie dal botto delle flash-bang. Avrebbe dovuto indossare le cuffie di
protezione e gli occhiali se avesse dovuto assistere ad altre esercitazioni,
per non danneggiare in modo permanente il suo udito, anche se voleva
essere sempre presente per essere così in grado di valutare la situazione.
Durante il tragitto, prese Stanley per un braccio.
«Abbastanza svelti, Al?»
«Sì.» Stanley annuì. «Le flash-bang ci danno da tre a cinque secondi in
cui quelli sono fuori gioco e altri quindici circa di reazioni inferiori al
normale. Chavez si è adattato bene. È probabile che gli ostaggi sarebbero
tutti sopravvissuti. John, i nostri ragazzi sono proprio sulla cresta
dell'onda. Non possono fare meglio di così. Tomlinson, con la gamba
fuori uso e tutto il resto, non è rimasto indietro più di metà passo, a dir
tanto; il nostro francesino si muove come una vera e propria mangusta.
Persino Vega, grosso com'è, non è affatto scoordinato. Questi ragazzi
sono il miglior team che abbia mai visto.»
«Sono d'accordo, ma...»
269
«Ma ancora molto è nelle mani dei nostri avversari. Sì, lo so,
comunque, Dio aiuti quei bastardi quando arriviamo noi.»
13
DIVERTIMENTO
Popov stava ancora cercando di capire qualcosa in più sul suo datore di
lavoro, ma non trovava nulla che lo illuminasse. Insieme, la biblioteca
pubblica di New York e Internet avevano offerto un'enorme quantità
d'informazioni, ma niente che fornisse una minima traccia sul perché
avesse assunto un ex ufficiale del KGB per scovare terroristi e scatenarli
contro il mondo. Era come se un bambino avesse complottato un
assassinio contro un genitore affettuoso. Non era la moralità del fatto in sé
a turbarlo. La moralità non aveva molto spazio nelle operazioni dei servizi
segreti. Come cadetto all'accademia del KGB, fuori Mosca,
quell'argomento non era mai venuto fuori: a lui e ai suoi compagni era
sempre stato dato a intendere che lo stato non sbagliava mai. «Qualche
volta vi verrà ordinato di fare cose che potreste trovare personalmente
inquietanti», aveva detto una volta il colonnello Romanov. «Queste cose
devono essere fatte, perché le ragioni, sconosciute o no a voi, saranno
sempre quelle giuste. Per motivi tattici, potrete farvi venire dei dubbi,
dato che, come ufficiali sul campo, il modo di effettuare una missione
sarà, in generale, affar vostro. Ma rifiutare un incarico è inaccettabile.» Ed
era stato così. Né Popov né i suoi compagni avevano fatto commenti
sull'argomento. Era sottinteso che gli ordini erano ordini e così, una volta
accettato l'incarico, Popov aveva svolto i compiti assegnati.
Ma, come servitore dell'Unione Sovietica, aveva sempre saputo qual
era, in generale, la missione, ovvero ottenere informazioni vitali per il suo
paese, assistere altri le cui azioni sarebbero state di effettivo vantaggio per
la sua patria. Anche nel trattare con Il'ych Ramirez Sanchez, Popov aveva
allora ritenuto di servire qualche interesse speciale. Adesso, naturalmente,
era più smaliziato. I terroristi erano come cani selvatici o lupi rabbiosi che
qualcuno lanciava nel giardino di qualcun altro solo per creare
scompiglio; forse ciò era risultato utile da un punto di vista strategico o
ritenuto tale dai suoi padroni, al servizio di uno stato ora morto e sepolto.
Ma forse le missioni non si erano dimostrate così utili. E per quanto bravo
fosse stato un tempo il KGB (secondo lui ancora la migliore agenzia di
270
spionaggio mai esistita al mondo), alla fine tutto si era risolto in un
fallimento. Il partito, di cui il comitato di sicurezza dello stato aveva
rappresentato la spada e lo scudo, non c'era più. La spada non aveva
ucciso i nemici del partito e lo scudo non l'aveva protetto dalle varie armi
dell'Occidente. E allora, i suoi superiori sapevano che cosa avrebbero
dovuto fare?
Probabilmente no, dovette ammettere Popov, e a causa di ciò, forse,
ogni missione che gli era stata assegnata era stata, in maggiore o minor
grado, un'impresa inutile. Rendersene conto sarebbe stato più amaro, se
non fosse che ora il suo addestramento e la sua esperienza gli rendevano
un lauto stipendio, per non parlare delle due valigie di denaro che era
riuscito a rubare, ma per fare che cosa? Far uccidere dei terroristi dalle
forze di polizia europee? Avrebbe potuto, con la stessa facilità, se non con
lo stesso profitto, indicarli alla polizia e farli arrestare, processare e
imprigionare come la feccia criminale che erano, il che sarebbe stato di
fatto molto più gratificante. Una tigre in gabbia, che cammina avanti e
indietro al di là delle sbarre in attesa dei suoi cinque chili giornalieri di
carne di cavallo congelata era molto più divertente di una imbalsamata in
un museo, e altrettanto impotente. Si sentiva come un Giuda, pensò
Dmitrij Arkadeevič, ma se era così, al servizio di quale causa?
Sul denaro niente da dire. Ancora qualche missione come le prime due
e poteva prendere i suoi soldi, i suoi documenti d'identità falsi e
scomparire. Poteva sdraiarsi su qualche spiaggia, bevendo bibite squisite e
ammirando belle ragazze in bikini o... che cosa? Popov non sapeva che
tipo di pensionamento gli sarebbe piaciuto, ma di sicuro avrebbe trovato
qualcosa. Magari usare le sue capacità per comprare e vendere azioni e
obbligazioni come un vero capitalista e quindi passare il tempo ad
arricchirsi ancora di più. Forse quello, meditò, sorseggiando il caffè del
mattino e fissando fuori dalla finestra, rivolta verso Wall Street. Ma non
era ancora del tutto pronto per quella vita, e fino ad allora, il fatto di non
conoscere la natura dello scopo delle sue missioni lo preoccupava. Non
sapendo, non era in grado di valutare i pericoli cui andava incontro.
Tuttavia, nonostante la sua capacità, esperienza e preparazione
professionali, non aveva un indizio per scoprire il motivo per cui il suo
datore di lavoro voleva che lui liberasse i cattivi dalle loro gabbie, per
farli uscire allo scoperto dove erano in attesa i cacciatori. Che peccato,
pensò Popov, non poterlo chiedere. La risposta avrebbe potuto persino
essere divertente.
271
Il check-in nell'albergo venne gestito con estrema precisione. Il banco
era enorme e pieno di computer che sputavano dati elettronicamente in
modo che gli ospiti si registrassero il più presto possibile e iniziassero a
spendere denaro nel parco divertimenti. Juan prese la sua chiave
elettronica e con un cenno ringraziò l'avvenente impiegata, poi afferrò i
suoi bagagli e si diresse verso la camera, contento che lì non ci fossero
metal detector. Il tragitto fu breve e gli ascensori erano insolitamente
grandi, tali da accogliere anche persone su sedie a rotelle, immaginò.
Dopo cinque minuti, si trovò nella sua stanza, a disfare i bagagli. Aveva
quasi finito, quando sentì bussare alla porta.
«Bonjour.» Era René. Il francese entrò e si sdraiò sul letto. «Sei pronto,
amico mio?» chiese in spagnolo.
«Sì», rispose il basco. Non aveva un aspetto tipicamente spagnolo. I
suoi capelli erano di un biondo tendente al rosso, le sue fattezze erano
gradevoli e la barba ben curata. Mai arrestato dalla polizia spagnola, era
sveglio, attento, ma totalmente dedito alla causa, con due autobombe e un
altro assassinio al proprio attivo. René sapeva che questa sarebbe stata la
missione più audace di Juan; sembrava abbastanza pronto, teso, forse un
po' nervoso, ma caricato come una molla e preparato a recitare la sua
parte. Anche René aveva fatto questo genere di cose prima, perlopiù
omicidi, proprio al centro di strade affollate; marciava diritto verso il
bersaglio, faceva fuoco con una pistola munita di silenziatore e
proseguiva normalmente; era il modo migliore per farlo, dato che non si
veniva quasi mai identificati; la gente non vedeva mai la pistola e di rado
notava una persona che passeggiava lungo gli Champs-Élysées. E così,
non restava che cambiarsi d'abito e accendere la televisione per vedere i
servizi del telegiornale sul proprio lavoro. Action Directe era stata in larga
misura, ma non proprio del tutto, annientata dalla polizia francese. Gli
uomini catturati avevano mantenuto fede al patto con i loro compagni
ancora liberi, non li avevano denunciati o traditi, nonostante tutta la
pressione e le promesse dei loro disinformati concittadini, e forse alcuni
di loro sarebbero stati rilasciati grazie a questa missione, anche se
l'obiettivo principale era la liberazione del loro compagno Carlos. Non
sarebbe stato facile farlo uscire dalla Sante, pensò René, alzandosi per
guardare fuori dalla finestra la stazione ferroviaria utilizzata dalle persone
che andavano al parco, ma... là vide i bambini, in attesa del loro giro su
quei gioielli di meccanica ed elettronica... vi erano delle cose su cui
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nessun governo, per quanto brutale, poteva passare sopra.
A due edifici di distanza, Jean-Paul osservava la stessa scena e
rimuginava più o meno gli stessi pensieri. Non si era mai sposato e aveva
avuto pochissime vere storie d'amore. Si accorse ora, a quarantatré anni,
che ciò aveva creato un vuoto nella sua vita e nel suo carattere,
un'anomalia che aveva tentato di riempire con l'ideologia politica, con la
sua fede nei principi e la sua visione di un radioso futuro socialista per il
suo paese, per l'Europa e, in ultimo, per il mondo intero. Ma una parte di
lui gli diceva, in maniera assillante, che i suoi sogni erano pura illusione e
che la realtà era davanti a lui, tre piani più in giù e un centinaio di metri a
ovest, nei visi lontani dei bimbi in attesa di salire sul treno a vapore per il
parco, e... No, questi pensieri erano fuorvianti. Jean-Paul e i suoi amici
sapevano che la loro causa e la loro fede erano giuste. Ne avevano
discusso a lungo negli anni e avevano concluso che quella era la strada da
percorrere. Avevano condiviso la frustrazione dell'incomprensione altrui,
ma un giorno avrebbero compreso, un giorno avrebbero visto il sentiero
della giustizia che il socialismo offriva al mondo intero, si sarebbero resi
conto che la strada verso il futuro radioso doveva essere lastricata
dall'élite rivoluzionaria consapevole del significato e della forza della
storia... loro non avrebbero commesso gli stessi errori dei russi, contadini
arretrati di quella nazione troppo grande e assurda. Così riusciva a
guardare laggiù le persone radunate, mentre si affollavano sul marciapiede
e il fischio del vapore annunciava l'arrivo del treno, e vedere... le cose.
Persino i bambini non erano persone, di fatto, ma dichiarazioni politiche
che avrebbero dovuto fare altri, persone come lui che capivano come
funzionava davvero il mondo o come avrebbe dovuto funzionare.
Avrebbe funzionato, promise a se stesso. Un giorno.
Mike Dennis portava sempre fuori il pranzo, un'abitudine che aveva
preso in Florida. Una cosa che gli piaceva di Worldpark era che qui si
poteva bere, nel suo caso un buon vino rosso spagnolo che sorseggiava da
un bicchiere di plastica mentre guardava il movimento della gente e
controllava se c'erano tipi sospetti. Non ne trovò alcuno che lo fosse in
maniera appariscente. I percorsi erano stati studiati secondo un piano
dettagliato, utilizzando simulazioni al computer.
Le attrazioni qui erano le cose che attiravano più di ogni altra la gente e
così i percorsi erano stati realizzati in modo da portare i visitatori verso
quelle più spettacolari. Alcuni impianti erano davvero straordinari. I suoi
273
stessi figli amavano fare un giro soprattutto sul Bombardiere in Picchiata,
che sembrava fatto apposta per far vomitare anche un pilota esperto,
vicino al quale c'era la Macchina del Tempo, un viaggio nella realtà
virtuale che poteva accogliere novantasei ospiti, per un giro di sette
minuti (prove alla mano, se fosse durato più a lungo qualcuno si sarebbe
sentito davvero molto male). Usciti da lì, era il momento di prendere un
gelato o una bibita, e proprio là vi erano negozi in grado di soddisfare
qualsiasi desiderio di gola. Poco oltre, c'era Pepe's, un eccellente
ristorante con posti a sedere, specializzato nella cucina catalana... non si
mettevano mai i ristoranti troppo vicini alle attrazioni, perché non li
avrebbero favoriti. Infatti, osservare il Bombardiere in Picchiata non era
l'ideale per far crescere l'appetito. Vi era una scienza e un'arte di sistemare
e gestire i parchi tematici come questo, e Mike Dennis era una delle poche
persone al mondo che sapeva farlo, il che spiegava il suo stratosferico
stipendio e il sorriso tranquillo che accompagnava i suoi sorsi di vino,
mentre osservava i suoi ospiti che si godevano il posto. Se questo era
lavoro, si trattava del mestiere più bello del mondo. Nemmeno gli
astronauti che viaggiavano nello shuttle provavano una simile
soddisfazione. Lui giocava con i suoi giocattoli ogni giorno. Loro erano
fortunati se volavano due volte all'anno.
Finito il pranzo, Dennis si alzò e fece ritorno in ufficio sulla Strada
Espana, il raggio centrale della semiruota. Era un'altra bella giornata a
Worldpark, il tempo sereno, 21°C di temperatura, l'aria secca e pulita. In
Spagna, secondo la sua esperienza, la pioggia non durava a lungo in
pianura. Il clima locale era molto simile a quello della California, che,
secondo lui, si accompagnava proprio bene alla lingua spagnola della
maggior parte dei suoi dipendenti. Durante il tragitto, superò uno degli
addetti alla sicurezza del parco. André, diceva la targhetta con il nome, e
il distintivo con la bandiera della lingua sull'altra tasca della camicia
diceva che parlava spagnolo, francese e inglese. Bene, pensò Dennis. Non
avevano abbastanza persone così.
Il punto d'incontro era già stato predisposto. Le montagne russe
denominate Bombardiere in Picchiata utilizzavano come simbolo il
monomotore biposto tedesco Ju-87 Stuka, comprese le croci sulle ali e la
fusoliera, anche se la svastica sulla coda era stata cancellata. Avrebbe
potuto urtare la sensibilità degli spagnoli, pensò André. Ma nessuno si
ricordava di Guernica, la città basca che nell'aprile 1937 era stata in gran
parte distrutta da un bombardamento a tappeto delle forze aeree tedesche
274
riunite nella Legione Condor, schierata a fianco degli insorti nazionalisti
del generale Franco. In quel giorno erano morte alcune centinaia di
persone, e l'incursione era passata alla storia come il primo esempio dì
attacco aereo indiscriminato su un grosso centro abitato. La conoscenza
della storia era così scarsa qui? Evidentemente sì. I ragazzi e gli adulti in
fila spesso si sporgevano per toccare il modello in scala 1 a 2 dell'aereo
tedesco che, non però a Guernica, era sceso in picchiata su soldati e civili
con la sua speciale sirena denominata "tromba di Gerico". La sirena (che
nella realtà era montata sulla parte anteriore del carrello fisso di alcuni
esemplari ed entrava in azione automaticamente dopo aver superato una
certa velocità durante la fase di picchiata per aumentare l'effetto
psicologico dell'attacco) era riprodotta come parte dell'attrazione stessa
anche se, sulla prima montagna di centocinquanta metri, di solito il suono
veniva coperto dalle urla dei viaggiatori. Poi seguiva un'esplosione
ottenuta con l'aria compressa che creava un getto d'acqua a forma di
fontana come se fosse stata provocata da una bomba sganciata su una finta
nave sotto di loro. Infine, i vagoncini uscivano attraverso gli scoppi
simulati della contraerea per un "giro della morte" in salita verso la
seconda montagna. Era lui l'unico in Europa a trovare questa simbologia
orrenda e bestiale?
Evidentemente era così. La gente correva fuori per rimettersi in fila e
ripetere il giro, tranne coloro che barcollavano per ritrovare l'equilibrio,
talvolta sudati, e due volte li aveva visti vomitare. Per quello, era presente
un addetto alle pulizie, con uno spazzolone e un secchio (non era la
mansione più ambita di Worldpark). Il pronto soccorso era a pochi metri
di distanza, per quelli che ne avevano bisogno. André scosse la testa. Ben
gli stava a quei bastardi sentirsi male dopo aver scelto di fare un giro su
quell'odiato emblema del nazismo.
Jean-Paul, René e Juan fecero la loro comparsa quasi insieme, vicino
all'ingresso della Macchina del Tempo, sorseggiando tutti bibite
analcoliche. Loro e cinque altri si distinguevano dai berretti comprati al
chiosco d'ingresso. André fece loro un cenno, sfregandosi il naso come
concordato. René gli si avvicinò.
«Dov'è il gabinetto per gli uomini?» chiese in inglese.
«Basta seguire i segnali», rispose André indicandoli. «Smonto alle
diciotto. Cena come previsto?»
«Sì.»
275
«Sono tutti pronti?»
«Prontissimi, amico mio.»
«Allora ci vediamo a cena.» André annuì e si allontanò, continuando la
sorveglianza per la quale era pagato, mentre i suoi compagni se ne
andavano in giro, alcuni, immaginò, passando il tempo a divertirsi sulle
attrazioni a tecnologia avanzata. L'indomani il parco divertimenti sarebbe
stato ancora più affollato, gli avevano detto durante il briefing del
mattino. Altri novemila e più sarebbero arrivati negli alberghi la sera o
l'indomani mattina, in previsione del fine settimana lungo in questa parte
d'Europa, per il Venerdì Santo. Il parco era attrezzato per le folle e i suoi
colleghi della sicurezza gli avevano raccontato tutti i tipi di storielle circa
le cose che vi accadevano. Quattro mesi prima, una donna aveva partorito
due gemelli nel pronto soccorso del parco venti minuti dopo un giro sul
Bombardiere in Picchiata, con grande sorpresa del marito e delizia del
dottor Weiler... i neonati avevano ricevuto immediatamente dei
lasciapassare a vita per Worldpark, il che aveva fatto notizia al
telegiornale locale, a dimostrazione dell'abilità dei suoi addetti alle
relazioni pubbliche. Forse quella donna aveva chiamato il maschio Troll,
sbuffò André, appena se ne vide uno davanti. I troll, come quelli
scandinavi delle leggende, erano dei costumi con le gambe corte e la testa
grossissima indossati, così gli era stato riferito, da donne minute. Lo si
capiva dalle gambe magre che si infilavano nelle enormi scarpe a forma di
piede. Nel costume, c'era persino una riserva d'acqua per far sbavare le
labbra mostruose. Lì vicino c'era un legionario romano che si divertiva a
duellare con un barbaro germanico. Uno di loro, alternativamente,
scappava via dall'altro, di solito tra gli applausi delle persone sedute a
osservare lo spettacolo. Si girò per andare alla Strasse tedesca e fu
salutato dalla musica ritmata di una banda in marcia... perché non
suonavano l'Horst Wessel Lied? si chiese André. Sarebbe andato
d'accordo con quel dannato Stuka verde. Perché non vestire la banda con
le uniformi nere delle SS, e forse far fare le docce forzate a qualcuno degli
ospiti... non faceva anche questo parte della storia europea? Dannazione a
questo posto! pensò André. Queste attrazioni "storiche" erano progettate
per scatenare la rabbia di chiunque avesse la più rudimentale
consapevolezza politica. Ma le masse non avevano memoria, non più di
quanto comprendessero la storia politica ed economica. Era contento che
fosse stato scelto questo posto per la loro azione. Forse ciò avrebbe
costretto quegli idioti a considerare come andava il mondo. Come non
276
andava, si corresse André, guardando con odio Worldpark, il cielo
limpido e le folle sorridenti.
Là, disse tra sé. Quello era il punto. Piaceva ai bambini. Anche in quel
momento erano in tanti a tirare per le mani i genitori, vestiti con
calzoncini corti e scarpe da ginnastica, molti con i cappellini, e i
palloncini riempiti di elio legati ai loro piccoli polsi. C'era anche una
bambina sulla sedia a rotelle, con il distintivo Special Wish; questo
significava che era stata selezionata per avere appagato un desiderio
speciale e che gli addetti dovevano farla salire sulle attrazioni senza dover
fare la fila. Una malata, olandese a giudicare dai vestiti dei suoi genitori,
pensò André, forse malata terminale di cancro, mandata qui da qualche
istituzione benefica o altro, sul modello della fondazione americana
Make-A-Wish, che pagava perché i genitori potessero portare il loro
piccolo moribondo qui, per una prima e ultima occasione di vedere i troll
e altri personaggi dei fumetti, i cui diritti erano stati dati in licenza a
Worldpark. Come brillavano quei loro occhietti ammalati sulla rapida
strada verso la tomba, e con quanta premura venivano trattati dal
personale, come se fosse importante questo sentimentalismo borghese su
cui era fondato l'intero parco. Bene. Avrebbero visto. Se c'era mai stato un
posto dove fare una dichiarazione politica, per attirare l'attenzione di tutta
l'Europa e di tutto il mondo su ciò che contava davvero, era proprio
quello.
Ding finì la sua prima pinta di birra. Ne avrebbe presa solo un'altra. Era
una regola non scritta, e che nessuno in realtà faceva rispettare, ma per
comune accordo nessuno ne beveva più di due alla volta mentre i team
erano in servizio, e lo erano quasi sempre; inoltre, due pinte di birra
inglese erano davvero tante. Comunque, tutti i membri del team 2 erano a
casa a cenare con le famiglie. Da quel punto di vista, Rainbow era un
gruppo non comune. Erano tutti sposati, con almeno un figlio. I
matrimoni risultavano stabili. John non sapeva se questa fosse una
caratteristica degli uomini delle operazioni speciali, ma queste tigri a due
gambe che lavoravano per lui, in casa erano dei gattini coccoloni, e il
contrasto lo sorprendeva e divertiva allo stesso tempo.
Sandy servì la portata principale, un buon roast beef. John si alzò per
prendere il trinciante e poter così svolgere il proprio compito. Patsy
guardò il grosso pezzo di manzo e pensò per un attimo alla malattia della
mucca pazza, ma si convinse che la madre aveva cotto la carne nel modo
277
giusto. Inoltre, le piaceva il roast beef, con colesterolo e tutto il resto, e
sua mamma era la campionessa del mondo nel fare il sugo.
«Come va all'ospedale?» chiese Sandy alla figlia.
«In fondo, fare l'ostetrica è una routine. Non abbiamo avuto un solo
caso serio nelle ultime due settimane. Avevo quasi sperato in una placenta
previa, forse addirittura una placenta abrupta per vedere se siamo ben
addestrati, ma...»
«Non avere di queste speranze, Patsy. Casi così, li ho visti al pronto
soccorso. Panico totale, e l'ostetrico farà bene a essere bravo o le cose
possono precipitare nel giro di mezzo minuto. Risultato... madre e
bambino morti.»
«L'hai mai visto succedere, mamma?»
«No, ma ho visto andarci vicino due volte a Williamsburg. Ricordi il
dottor O'Connor?»
«Alto, magro, giusto?»
«Sì», annuì Sandy. «Grazie a Dio era di servizio nel secondo caso.
L'interno era nel pallone, ma arrivò Jimmy e prese in mano la situazione.
Ero sicura che l'avremmo perduta quella donna.»
«Se sai quello che fai...»
«Se sai quello che fai, c'è ugualmente tensione. A me, la routine sta
benissimo. Ho passato troppo tempo nel pronto soccorso, per non
saperlo», proseguì Sandy Clark. «Mi piacciono i turni tranquilli, quando
posso immergermi in un buon libro.»
«La voce dell'esperienza», disse John Clark, servendo la carne.
«Sembra buon senso anche a me», concordò Domingo Chavez,
accarezzando il braccio della moglie. «Come sta il piccolo?»
«Un ciclone in questo momento», rispose Patsy, portandosi la mano del
marito sul ventre e accorgendosi che reagiva come al solito. I suoi occhi
cambiavano, quando lo sentiva. Era sempre un ragazzo caldo,
appassionato, Ding, s'inteneriva quando sentiva quel movimento dentro di
lei.
«Baby», disse lui con calma.
«Sì.» Lei sorrise.
«Bene, nessuna brutta sorpresa quando arriva il momento, d'accordo?»
osservò Chavez. «Voglio che tutto fili liscio. È già abbastanza
emozionante. Non voglio svenire o cose del genere.»
«Già!» rise Patsy. «Tu? Svenire?Il mio commando?»
278
«Non si sa mai, tesoro», disse suo padre, mettendosi seduto. «Ho visto
dei duri piegarsi in due.»
«Non questo, Mr. C.», precisò Domingo con aria scherzosa.
«Sembrate più dei vigili del fuoco», osservò dal suo posto Sandy. «Il
modo in cui voi uomini ciondolate in attesa che succeda qualcosa.»
«È vero», concordò Domingo. «E se l'incendio non scoppia mai, a noi
sta bene.»
«Parli sul serio?» domandò Patsy.
«Sì, tesoro», le rispose il marito. «Andare in missione non è un
divertimento. Finora siamo stati fortunati. Non abbiamo mai perso un
ostaggio.»
«Ding», disse Patsy, sollevando gli occhi dal piatto. «Hai... voglio dire...
voglio dire, hai mai...»
La risposta alla domanda arrivò con l'espressione del volto, anche se le
parole furono: «Non parliamone».
«Non intagliamo tacche sulle nostre pistole, Pats», spiegò alla figlia
John. «Non sarebbe professionale.»
«Oggi è venuto Noonan», proseguì Chavez. «Dice che ha un nuovo
giocattolo da farci vedere.»
«Quanto costa?» chiese prima di tutto John.
«Non molto, dice. La Delta lo sta valutando proprio ora.»
«A cosa serve?»
«A trovare le persone.»
«È materiale classificato?»
«È un prodotto commerciale, non è classificato ma trova le persone.»
«Come?»
«Segue le tracce del cuore umano fino alla distanza di cinquecento
metri.»
«Cosa?» domandò Patsy. «E come fa?»
«Non sono sicuro, ma Noonan dice che ai ragazzi di Fort Bragg piace
un casino... voglio dire, ne sono davvero entusiasti. Si chiama "Lifeguard"
o qualcosa del genere. Comunque, ha chiesto a quelli del comando di
mandarci qualcuno per la dimostrazione.»
«Vedremo», replicò John, imburrando un panino. «Ottimo questo pane,
Sandy.»
«È quel piccolo fornaio sulla Millstone Road. Non è squisito qui il
pane?»
279
«E tutti criticano il cibo britannico», convenne John. «Idioti. Mi hanno
allevato con questa roba.»
«Però, tutta questa carne rossa...» osservò preoccupata, e ad alta voce,
Patsy.
«Il mio colesterolo è inferiore a 170, tesoro», le ricordò Ding. «Meno
del tuo. Penso che sia tutto quell'esercizio.»
«Aspetta d'invecchiare», brontolò John. Per la prima volta in vita sua,
stava sfiorando quota 200, nonostante l'esercizio fisico.
«Non c'è fretta.» Ding ridacchiò. «Sandy, sei ancora una delle migliori
cuoche in circolazione.»
«Grazie, Ding.»
«Basta che i nostri cervelli non imputridiscano mangiando mucca
inglese.» Un largo sorriso alla spagnola. «Be', è comunque più sicuro che
scendere con la fune dal Night Hawk. George e Sam non sono ancora a
posto. Forse dovremmo provare un diverso tipo di guanti.»
«Come quelli che utilizza il SAS. Ho verificato.»
«Sì, lo so. Ne ho parlato con Eddie, l'altro ieri. Secondo lui, dobbiamo
aspettarci incidenti durante l'addestramento, e Homer dice che alla Delta
perdono un uomo all'anno, morto, in incidenti durante l'addestramento.»
«Che cosa?» si allarmò Patsy.
«E Noonan dice che l'FBI una volta ha perso un uomo scendendo con la
fune da un elicottero Hughes. Gli sono scivolate le mani e oplà...» Il
comandante del team 2 scrollò le spalle.
«La sola sicurezza contro tutto questo è più allenamento», sostenne
John.
«I miei ragazzi sono proprio al limite. Ora devo trovare un modo per
tenerceli senza romperli.»
«Questa è la parte difficile, Domingo.»
«Suppongo di sì.» Chavez finì il suo piatto.
«Che cosa vuoi dire, al limite?» domandò Patsy.
«Tesoro, voglio dire che il team 2 è scattante e aggressivo. Lo siamo
sempre stati, ma non vedo come potremmo migliorare rispetto a come
siamo adesso. Lo stesso vale per il team di Peter. A parte i due infortuni,
secondo me non c'è spazio per alcun miglioramento... soprattutto ora che
c'è Malloy. Dannazione, lui sì che sa come portare un elicottero.»
«Pronti a uccidere?» domandò dubbiosa Patsy. Era difficile per lei
essere medico, impegnata a salvare vite, eppure sposata a un uomo il cui
280
scopo spesso sembrava essere quello di toglierle... Ding aveva ucciso
qualcuno, altrimenti non avrebbe suggerito di non pensarci. Come poteva
farlo, e ciononostante sciogliersi quando sentiva il bambino dentro di lei?
Era molto difficile da capire, anche se amava tanto il suo maritino dalla
pelle olivastra e il sorriso smagliante.
«No, tesoro, pronti a salvare la gente», la corresse lui. «È quello il mio
lavoro.»
«Ma come possiamo essere sicuri che li faranno uscire?» chiese
Esteban.
«Che scelta avranno?» rispose Jean Paul. Versò il vino dalla caraffa nei
bicchieri vuoti.
«Sono d'accordo», aggiunse André. «Che scelta avranno? Possiamo far
loro perdere la faccia davanti al mondo. E non sono vigliacchi, con il loro
sentimentalismo borghese? Non hanno le palle, non come le abbiamo
noi.»
«Altri hanno fatto l'errore di crederlo», replicò Esteban, non tanto per
fare l'avvocato del diavolo quanto per dar voce alle preoccupazioni che
tutti loro dovevano avere, in una misura o nell'altra. Ed Esteban era
sempre stato un apprensivo.
«Non si è mai verificata una situazione come questa. La Guardia Civil è
efficiente, ma non addestrata per una eventualità del genere. Poliziotti»,
osservò sbuffando André. «Poliziotti e basta. Non penso che arresteranno
nessuno di noi.» Con quell'osservazione guadagnò qualche risata. Era
vero. Non erano che poliziotti, abituati a trattare ladruncoli, non soldati
politicamente impegnati, uomini con le armi, l'addestramento e l'impegno
adeguati. «Avete cambiato idea?»
Esteban si arrabbiò. «Certo che no, compagno. Semplicemente
raccomando obiettività nel valutare l'azione. Un soldato della rivoluzione
non deve lasciarsi trasportare dal semplice entusiasmo.» Una buona scusa
per nascondere le sue paure, pensarono gli altri. Tutti le avevano.
«Tireremo fuori Il'ych», annunciò René. «A meno che Parigi non voglia
seppellire un centinaio di bambini. Cosa che non farà. E, come risultato,
alcuni bambini dovranno volare in Libano e tornare. Su questo siamo
d'accordo?» Guardò intorno al tavolo e vide che tutte e nove le teste
annuivano. «Bien. Solo i bambini devono farsela addosso per queste cose,
amici miei. Non noi.» Ciò trasformò i cenni del capo in sorrisi e due risate
281
discrete, mentre i camerieri si muovevano attorno ai tavoli. René fece
segno di portare altro vino. Era buono qui, migliore di quello che potesse
aspettarsi in un paese islamico per i prossimi anni, mentre evitava gli
agenti dei servizi segreti del DGSE, con la speranza di avere più successo
di quello che aveva avuto Carlos. Le loro identità non sarebbero mai state
note. Carlos aveva impartito una lezione importante al mondo del
terrorismo. Non conveniva farsi pubblicità. Si grattò la barba. Prudeva,
ma in quel prurito stava la sua sicurezza personale per i prossimi anni.
«Allora, André, chi viene domani?»
«La Thompson CSF manda qui seicento dipendenti e le loro famiglie,
una gita aziendale per uno dei loro reparti. Non potrebbe andarci meglio»,
osservò l'addetto alla sicurezza. La Thompson era un'importante società
francese produttrice di armi. Alcuni dei dipendenti, e quindi i loro figli,
erano conosciuti e importanti per il governo di Parigi. Francesi, e
politicamente importanti... no, non poteva andare meglio di così.
«Andranno in giro in gruppo. Ho il loro itinerario. Vengono al castello a
mezzogiorno per il pranzo e uno spettacolo. È quello il nostro momento,
amici miei.» Più un'altra piccola aggiunta al gruppo che André aveva
deciso prima quello stesso giorno. Ce n'era sempre qualcuna in giro,
soprattutto agli spettacoli.
«D'accord?» chiese René agli uomini attorno al tavolo ricevendo di
nuovo i loro cenni d'assenso. I dubbi sarebbero stati messi da parte. La
missione era lì davanti a loro. La decisione d'intraprenderla era già stata
presa. Il cameriere arrivò con altre due caraffe e il vino fu versato a tutti. I
dieci uomini lo gustarono, sapendo che poteva essere l'ultimo per molto
tempo e nell'alcool trovarono la loro determinazione.
«Ma non è incredibile?» chiese Chavez. «Solo a Hollywood ci riescono.
Maneggiano le armi come fossero coltelli e poi colpiscono uno scoiattolo
nella palla sinistra da venti metri. Accidenti, vorrei riuscirci io!»
«Allenamento, Domingo», suggerì con una risatina John. Sullo schermo
tv, il cattivo fece un balzo indietro di circa quattro metri, come se fosse
stato colpito da un razzo controcarri invece che da un semplice colpo di
pistola da 9 mm. «Mi domando dove si comprano.»
«Noi non possiamo permettercele, mio grande esperto di contabilità!»
A questa battuta, John quasi rovesciò il resto della sua birra. Il film
terminò alcuni minuti dopo. L'eroe impalmò la ragazza. I cattivi erano
282
tutti morti. L'eroe lasciò il servizio disgustato della corruzione e stupidità
e si allontanò nel tramonto, contento di essere disoccupato. Sì, pensò
Clark, cose che capitano solo a Hollywood. Con quel pensiero consolante
terminò la serata. Ding e Patsy andarono a casa a dormire, e John e Sandy
fecero lo stesso.
Era tutto un grande set cinematografico, disse tra sé André,
camminando nel parco un'ora prima dell'apertura agli ospiti già ammassati
alla porta principale. Era tutto molto americano, nonostante lo sforzo che
avevano fatto per costruire quel posto come un parco europeo. L'intera
idea alla base, naturalmente, era americana, quell'idiota di Walt Disney
con i suoi topi parlanti e le favole per bambini che avevano rubato tanto
denaro alle masse. Non era più la religione l'oppio dei popoli. No, oggi era
l'evasione, la fuga dal noioso tran tran quotidiano che tutti vivevano e tutti
odiavano, ma che non riuscivano a vedere per quello che era, pazzi
borghesi. Chi li portava qui? I loro figli con le loro petulanti richieste di
vedere i troll e gli altri personaggi dei fumetti giapponesi o di fare un giro
sull'odiato Stuka nazista. Persino i russi, quelli tra loro che, dalla
disastrata economia del loro paese, avevano ricavato abbastanza denaro da
gettarlo via qui, persino i russi facevano un giro sullo Stuka! André scosse
la testa sconcertato. Forse i bambini non avevano l'educazione e la
memoria per accorgersi dell'assurdità, ma di sicuro l'avevano i loro
genitori! In ogni caso venivano lì.
«André?»
Il poliziotto del parco si girò e vide Mike Dennis, il direttore di
Worldpark, che lo osservava.
«Sì, Monsieur Dennis?»
«Mi chiamo Mike, ricordi?» Il direttore si toccò la targhetta di plastica
con il nome. Era una regola del parco che tutti si chiamassero per nome...
un'altra cosa copiata dagli americani.
«Sì, Mike, mi scusi.»
«Tutto bene, André? Mi sembri un po' turbato stamattina.»
«Davvero? No... Mike, no, sto bene. Ho avuto solo una lunga nottata.»
«Bene», Dennis gli diede un colpetto sulla spalla. «Si prevede una
giornata campale. Da quanto sei con noi?»
«Due settimane.»
«Ti piace qui?»
283
«È un posto unico per lavorarci.»
«È questo ciò che volevamo, André. Buona giornata.»
«Grazie, Mike.» Osservò il manager americano allontanarsi verso il
castello e il suo ufficio. Dannati americani, si aspettavano che tutti fossero
sempre felici, altrimenti doveva esserci qualcosa che non andava, e se
qualcosa non andava, doveva essere messo a posto. Bene, disse tra sé
André, qualcosa non andava e sarebbe stato messo a posto quello stesso
giorno. Ma a Mike non sarebbe piaciuto.
A un chilometro di distanza, Jean-Paul trasferì le sue armi dalla valigia
allo zaino. Aveva ordinato al servizio in camera di portargli
un'abbondante colazione americana, dato che avrebbe dovuto mantenerlo
in forma per tutto quel giorno e probabilmente per una parte di quello
successivo. In altri punti dell'hotel e in altri alberghi dello stesso
complesso, i suoi compagni facevano la medesima cosa. La pistola
mitragliatrice Uzi disponeva di un totale di dieci caricatori pieni, con altri
sei per la pistola calibro 9 mm e tre bombe a mano a frammentazione,
oltre alla radio. Jean-Paul guardò l'orologio e diede un'ultima occhiata alla
stanza. Aveva comprato tutti i prodotti da bagno di recente. Li aveva
strofinati tutti con un panno umido per essere sicuro di non lasciare
impronte digitali, poi il tavolo e la scrivania e, per ultimo, i piatti e le
posate per la colazione. Non sapeva se la polizia francese avesse le sue
impronte da qualche parte in archivio, ma se era così, non voleva offrire
un'altra serie; se poi non le avevano, perché render loro più agevole
schedarlo? Indossava pantaloni lunghi color kaki e una camicia con le
maniche corte, oltre a un cappello bianco che aveva comprato il giorno
prima. Dopo aver terminato il lavoro di cancellazione delle sue impronte,
prese il suo zaino e uscì dalla porta, facendo una sosta finale per strofinare
la maniglia all'interno e all'esterno, prima di raggiungere gli ascensori.
Premette il pulsante DOWN con una nocca invece della punta del dito, e
in breve fu fuori dall'albergo e si avviò verso la stazione del treno, dove il
suo pass elettronico serviva anche da tessera per muoversi sui mezzi di
trasporto di Worldpark. Si tolse lo zaino per sedersi e si trovò nello
scompartimento insieme con un tedesco, anche lui con uno zaino, moglie
e due figli. Lo zaino urtò pesantemente quando l'uomo lo posò sul sedile
vicino a lui.
«La videocamera», spiegò l'uomo, in inglese, stranamente.
«Anch'io. Cose pesanti da portare appresso.»
284
«Ah, sì, ma così avremo molto da ricordare dalla nostra giornata nel
parco.»
«Sì, è vero», rispose Jean-Paul. Si udì il fischio e il treno si mosse. Il
francese verificò se in tasca aveva il biglietto del parco. Aveva altri tre
giorni d'ingresso pagato. Non che ne avesse bisogno. Infatti, nessuno in
quella zona ne avrebbe avuto bisogno.
«Che diavolo?» borbottò John, leggendo il fax in cima alla pila. «Un
fondo per borse di studio?» E chi aveva violato la sicurezza? George
Winston, segretario al Tesoro? Che diavolo? «Alice?» chiamò.
«Sì, signor Clark?» rispose la signora Foorgate, entrando nell'ufficio.
«Prevedevo che quel fax avrebbe provocato scalpore. Sembra che il signor
Ostermann voglia ricompensare il team per averlo salvato.»
«Che cosa dice la legge al riguardo?» chiese John.
«Non saprei, signore.»
«Come possiamo saperlo?»
«Da un avvocato, immagino.»
«Abbiamo un avvocato a libro paga?»
«Non che io sappia. E probabilmente ne avrà bisogno uno britannico e
anche uno americano.»
«Fantastico», osservò Rainbow Six. «Potrebbe chiedere ad Alistair di
venire qui?»
«Sì, signore.»
14
LA SPADA DELLA LEGIONE
La gita aziendale della Thompson era programmata da mesi. I trecento
bambini avevano lavorato fuori orario per portarsi avanti di una settimana
nella loro attività scolastica, e l'evento aveva anche implicazioni
commerciali. La Thompson stava installando sistemi di controllo
computerizzati nel parco, nel quadro di una conversione della società da
produttrice di soli apparati militari ad azienda elettronica ad ampia
gamma produttiva, e qui la sua esperienza militare tornava utile. I nuovi
sistemi di controllo, con cui la direzione di Worldpark poteva monitorare
le attività in tutto il complesso, erano uno sviluppo naturale dei sistemi di
trasferimento dati studiati per le forze terrestri della NATO. Erano
285
strumenti multilingue, di facile impiego, in grado di trasmettere i dati
attraverso lo spazio invece che via terra per mezzo di fili di rame,
consentendo un risparmio di alcuni milioni di franchi, e la Thompson
aveva realizzato gli apparati in tempo e senza superare il budget.
In riconoscimento del fatto di essere riusciti a portare a termine il
contratto con successo nei confronti di un cliente prestigioso, la direzione
della Thompson aveva collaborato con Worldpark per organizzare questa
gita. Tutti nel gruppo, compresi i bambini, indossavano magliette rosse
con il logo aziendale e per il momento stavano quasi tutti insieme,
spostandosi verso il centro del parco in gruppo, scortati da sei troll, che si
muovevano danzando verso il castello con le loro assurde, enormi scarpe
a forma di piede nudo e i corpi "tutto testa" pelosi. Il gruppo era scortato
da legionari, due signiferi, coperti con una pelle di lupo, che innalzavano
le insegne della coorte e l'aquilifero, vestito con una pelle di leone, che
trasportava l'aquila d'oro, venerato emblema della VI Legio Victrix, ora
acquartierata a Worldpark, in Spagna, come lo era stata la sua antenata
sotto l'imperatore Tiberio nel 20 dopo Cristo. I dipendenti del parco
incaricati di far parte della legione stanziale avevano sviluppato un
proprio spirito di gruppo e presero a marciare con lena, tenendo
inguainate in maniera goffa ma attenta le spade spatha di fabbricazione
spagnola, portate alte sul fianco destro, e gli scudi tenuti con la mano
sinistra. Si muovevano inquadrati, con fierezza, come aveva già fatto
venti secoli prima la loro legione Victrix o "vittoriosa", un tempo unica
linea di difesa della colonia romana che era stata questa parte della
Spagna.
In pratica, l'unica cosa che il gruppo non aveva era una squadra di
accompagnatori che li guidassero con le bandierine, secondo una moda
soprattutto giapponese. Dopo le cerimonie del primo giorno, il personale
della Thompson avrebbe girato per conto proprio, godendosi i quattro
giorni come turisti normali.
Mike Dennis guardò il corteo sui monitor del suo ufficio mentre
raccoglieva i suoi appunti. I soldati romani erano un elemento distintivo
del suo parco tematico e, per una ragione o per l'altra, avevano acquistato
un'enorme popolarità, tanto che aveva di recente aumentato il loro numero
da cinquanta a oltre cento e aveva costituito una terna di centurioni per
comandarli. Era facile riconoscerli dalle piume laterali sugli elmi invece
dei pennacchi anteriori e posteriori dei cimieri dei normali legionari. I
membri della società avevano preso ad addestrarsi sul serio all'uso della
286
spada, e si diceva che alcune armi fossero molto affilate, cosa che Dennis
non si era preso la briga di verificare e che avrebbe dovuto impedire se
fosse risultato vera. Ma qualunque cosa risultasse positiva per il morale
dei dipendenti lo era per il parco, ed era sua abitudine lasciare che il suo
personale gestisse i propri reparti con la minima interferenza da parte del
suo centro di controllo nel castello. Con il mouse del computer zoomò
sulla folla in avvicinamento. Erano circa venti minuti in anticipo e quello
era... oh, sì, era Francisco de la Cruz che guidava il corteo. Francisco era
un sergente in pensione dei parà dell'esercito spagnolo, e quel tipo si
divertiva proprio a guidare questi cortei. Aveva l'aspetto di un vecchio
burbero, con i suoi cinquanta e passa anni, con braccia robuste e una
barba così ispida (Worldpark permetteva ai suoi dipendenti la barba ma
non i baffi) che doveva radersi due volte al giorno. Ai bimbi più piccoli
metteva paura ma Francisco sapeva come trattarli, prendendoli in braccio
come un nonno un po' rozzo, e mettendoli subito a loro agio... ai bambini
piaceva soprattutto giocare con il suo pennacchio di crine di cavallo rosso.
Dennis prese mentalmente nota di pranzare presto con Francisco. Gestiva
bene il suo piccolo reparto e meritava qualche attenzione dall'alto.
Dennis estrasse la cartelletta dal contenitore dell'ordine del giorno.
Doveva pronunciare un discorso di benvenuto agli ospiti della Thompson,
cui doveva seguire la musica di una delle bande che circolavano nel parco
e una parata dei troll, poi pranzo nel ristorante del castello. Guardò
l'orologio e si alzò, dirigendosi verso il corridoio che portava a un
passaggio nascosto con una porta "segreta" che dava sul cortile del
castello. Gli architetti, per questo posto, avevano ricevuto un assegno in
bianco e avevano utilizzato bene i petrodollari del Golfo, anche se il
castello non era del tutto autentico. Disponeva di uscite d'emergenza, un
impianto antincendio automatico e una struttura in acciaio, non solo
blocchi di pietra impilati e tenuti assieme dal cemento.
«Mike?» chiamò una voce. Il direttore del parco si voltò.
«Sì, Peter?»
«Telefono, è il presidente.»
Il direttore si girò e si affrettò a tornare in ufficio, continuando a tenere
stretto il suo discorso già preparato.
Francisco de la Cruz, Panche per gli amici, non era alto, solo un metro e
settanta, ma largo di torace e con le gambe come colonne, che facevano
tremare il suolo quando marciava, con il passo dell'oca, come uno storico
287
gli aveva detto erano solite fare le legioni. Il suo elmo di ferro era pesante
e lui poteva sentire ondeggiare il pennacchio che aveva sopra. Con il
braccio sinistro teneva il grande e pesante scutum, lo scudo del legionario
che riparava quasi dal collo alle caviglie, fatto di compensato, ma con una
pesante borchia di ferro al centro a forma di Medusa e i bordi metallici. I
romani, l'aveva imparato da tempo, erano stati soldati robusti per andare
in battaglia con questo pesante armamentario, oltre venticinque chili a
pieno carico con le vettovaglie e il relativo equipaggiamento, più o meno
quello con cui aveva marciato quand'era soldato. Il parco aveva copiato
tutto, anche se la qualità del metallo era di sicuro migliore di quello
prodotto dai fabbri dell'impero romano. Sei giovani si erano ispirati a lui,
emulando la sua marcia con il passo pesante. A de la Cruz piaceva. I suoi
stessi figli erano ora nell'esercito spagnolo, seguendo le orme paterne,
proprio come facevano ora questi ragazzi francesi. Per de la Cruz il
mondo era bello.
A pochi metri di distanza, la situazione era analoga per Jean-Paul e
René, quest'ultimo con un nugolo di palloncini legati al polso. Gli altri
portavano tutti i cappellini bianchi del Worldpark, prendendo posizione
attorno al gruppo. Nessuno dei terroristi indossava le magliette rosse
Thompson, anche se farlo non sarebbe stato poi così difficile. Avevano le
magliette nere del parco per fare il completo con i cappellini, e tutti tranne
Esteban e André portavano anche gli zaini, come peraltro molti altri
visitatori di Worldpark. I troll erano tutti al loro posto con alcuni minuti
d'anticipo. Gli adulti scherzavano tra loro, mentre alcuni bambini
indicavano con le mani e ridevano, con i volti illuminati dalla gioia che
sarebbe presto mutata in qualcos'altro; alcuni correvano attorno agli
adulti, giocando a nascondino tra la folla... e due erano sulle sedie a
rotelle. Esteban vide che non facevano parte del gruppo Thompson.
Portavano i loro distintivi d'accesso speciale ma non le magliette rosse.
Anche André notò quegli ospiti. Una era la bambina olandese in fin di
vita del giorno prima e un altro sembrava un inglese, probabilmente il
padre, che spingeva la sedia a rotelle verso il castello, tagliando la folla.
Sì, li avrebbero voluti entrambi. Tanto meglio se non erano francesi,
Dennis era seduto alla scrivania. Il suo superiore gli chiedeva
informazioni dettagliate che doveva richiamare sul computer. Sì, le
entrate trimestrali del parco erano del 4,1 per cento superiori alle
previsioni, la bassa stagione si era rivelata un po' meno bassa del previsto.
288
Dennis spiegò che ciò era dovuto al tempo straordinariamente favorevole,
anche se era un fattore su cui non si sarebbe potuto contare, ma le cose
stavano andando bene, a parte qualche problema di computer su due
attrazioni. C'erano alcuni specialisti di software nella zona di servizio che
ci stavano lavorando. Erano coperti dalla garanzia del costruttore i cui
rappresentanti si dimostravano molto collaborativi, o meglio dovevano
esserlo, dato che concorrevano per due altre mega attrazioni i cui progetti
avrebbero destato la meraviglia del mondo intero, disse Dennis al
presidente, che non aveva ancora visto le offerte e l'avrebbe fatto in
occasione del suo imminente viaggio in Spagna. Avrebbero realizzato
alcuni programmi tv sull'idea e il progetto di queste due attrazioni,
promise Dennis, soprattutto per il mercato via cavo statunitense e sarebbe
stato un colpo magistrale accrescere l'interesse degli americani, sottraendo
clienti all'impero Disney, inventore del parco tematico. Il presidente
saudita, che aveva all'inizio investito in Worldpark poiché i suoi figli
amavano fare un giro su cose che lui si sentiva male solo a guardare, fu
entusiasta delle nuove attrazioni proposte.
«Che diavolo succede?» esclamò Dennis al telefono, lanciando uno
sguardo in alto quando lo sentì.
Fecero tutti un salto per il rumore, il crepitio della pistola mitragliatrice
di Jean-Paul, che sparò una lunga raffica in aria. Nel cortile del castello, la
gente si voltò e allo stesso tempo, d'istinto, si fece piccola per la paura,
quando vide per primo l'uomo barbuto puntare in alto e brandeggiare
l'arma, che espulse nell'aria una piccola pioggia di bossoli d'ottone.
Trattandosi di civili, per i primi secondi rimasero a guardare attoniti,
senza nemmeno il tempo di mostrare paura.
Ma quando si voltarono e videro il tiratore in mezzo a loro, quelli
attorno a lui si ritrassero istintivamente invece di cercare di bloccarlo,
mentre gli altri terroristi estraevano le armi dagli zaini, dapprima
limitandosi a mostrarle senza far fuoco e lasciando passare i secondi.
Francisco de la Cruz stava in piedi dietro uno di loro, e vide sfilare
l'arma ancor prima che il terrorista sparasse. Riconobbe subito la forma
poco amichevole ma pur familiare di una pistola mitragliatrice israeliana
Uzi da 9 mm. Lo choc del momento durò pochi attimi, poi i suoi oltre
vent'anni di servizio in uniforme irruppero come un lampo nella sua
mente, e trovandosi due metri dietro quel criminale barbuto, cominciò a
muoversi.
289
Claude colse il movimento e si voltò a guardare. Un uomo che
indossava un'armatura romana e uno strano copricapo si stava dirigendo
verso di lui. Si voltò per fronteggiare la minaccia.
Il centurione de la Cruz agì mosso da una specie d'istinto militare che si
era trasformato nel tempo e nello spazio dall'epoca cui apparteneva la sua
armatura a dove si trovava quel mezzogiorno. Con la destra estrasse la
spatha dal fodero e la portò in alto sopra il fianco destro, sollevò lo scudo,
con la borchia di ferro al centro puntata contro la bocca dell'Uzi e alzò,
nel frattempo, la spada dritta in aria. Se l'era fatta costruire su misura da
un lontano cugino di Toledo. Era costituita di lamine d'acciaio, proprio
com'era stata una volta la spada di El Cid, ed era affilata come un rasoio.
Di colpo ritornò soldato e, per la prima volta nella sua carriera, si trovò di
fronte un nemico con in mano un'arma, ora a meno di due metri di
distanza, e pistola o no, stava per...
Claude sparò una breve raffica, così come aveva fatto in esercitazione
tante volte, puntando al centro della massa del bersaglio che avanzava, ma
la fortuna volle che qui ci fosse la borchia di ferro spessa tre centimetri
dello scutum e le pallottole furono deviate, frammentandosi nell'urto.
De la Cruz sentì l'impatto dei frammenti che gli penetravano nel braccio
sinistro, mentre si avvicinava, ma li avrebbe sentiti di più se fossero state
punture di insetti; spostò il braccio destro armato di spada a sinistra, poi a
destra, menando fendenti in un modo per cui la spatha non era concepita,
ma gli ultimi venti centimetri della lama tagliente come un rasoio fecero il
resto, colpendo l'omero del cabron e aprendogli il braccio proprio sotto
l'estremità della manica corta. Per la prima volta in vita sua, il centurione
Francisco de la Cruz versò del sangue con rabbia.
Claude sentì il dolore. Mosse il braccio destro e con il dito premette il
grilletto; la lunga raffica colpì lo scudo incombente sotto e a destra della
borchia. Tre pallottole colpirono Cruz alla gamba sinistra, tutte sotto il
ginocchio, attraverso i gambali metallici, e una spezzò la tibia, facendo
gridare dal dolore il centurione mentre il suo secondo, letale fendente
mancava di un pelo la gola dell'uomo. Il suo cervello diede alle gambe
l'ordine di muoversi, ma al momento ne aveva solo una funzionante e
l'altra gli mancò completamente, facendo cadere in avanti sulla sinistra
l'ex paracadutista.
Mike Dennis corse alla finestra invece di osservare gli schermi tv. Altri
li stavano osservando e le riprese delle varie telecamere venivano
290
automaticamente registrate in una banca dati posta altrove nel parco. Vide
con i suoi occhi e, benché il suo cervello stentasse a crederci, succedeva, e
per quanto impossibile, doveva essere reale. Un certo numero di persone
armate circondava la marea di magliette rosse e ora li radunavano, come
cani da pastore, in un cerchio spingendoli verso il cortile del castello.
Dennis si voltò.
«Chiusure d'emergenza, chiusure d'emergenza, ora!» gridò all'addetto al
quadro di controllo principale e con un clic del mouse le porte del castello
furono tutte bloccate.
«Chiamate la polizia!» ordinò poi Dennis. Anche questo era
preprogrammato. Il sistema d'allarme faceva partire un impulso diretto
alla più vicina caserma di polizia. Era il segnale di rapina-allarme, ma per
il momento sarebbe stato sufficiente. Poi Dennis sollevò un telefono e
compose il numero della polizia leggendolo sull'adesivo applicato
all'apparecchio. La situazione d'emergenza prevista era una rapina
nell'ufficio contabilità e, dato che questo sarebbe stato necessariamente un
crimine importante commesso da un certo numero di persone armate, la
risposta interna del parco al segnale era anch'essa preprogrammata. Tutte
le attrazioni del parco furono subito fermate o chiuse, mentre la gente
ricevette l'ordine di ritornare nelle stanze d'albergo o ai posteggi, poiché il
parco chiudeva a causa di un'emergenza imprevista. Il fragore delle pistole
mitragliatrici si sarebbe sentito anche da lontano, pensò Dennis, e gli
ospiti del parco non avrebbero tardato a capire la gravità della situazione.
Questa era la parte divertente, pensò André. Si mise un cappello bianco
di riserva preso da uno dei suoi compagni e afferrò la pistola che JeanPaul aveva messo via per lui. A pochi metri di distanza, Esteban liberò i
palloncini che si librarono nell'aria e impugnò la sua arma.
I bambini non furono presi più di tanto dallo spavento come accadde ai
loro genitori, forse pensando che fosse una delle magie del parco, anche
se il rumore aveva offeso le loro piccole orecchie facendoli sussultare. Ma
la paura è contagiosa e i bimbi videro presto l'angoscia negli occhi dei
genitori e a uno a uno si strinsero alle mani e alle gambe, guardando
quegli adulti che ora si muovevano rapidi, attorno alla folla di magliette
rosse, tenendo in mano cose che sembravano pistole; i ragazzi ne
riconobbero la forma dai loro stessi giocattoli, ma era chiaro che queste
erano armi vere.
René aveva preso il comando. Si diresse verso l'entrata del castello,
291
distante dagli altri nove che tenevano sotto controllo la folla. Guardandosi
attorno, scorse altre persone all'esterno del perimetro del suo gruppo, che
guardavano all'interno, stando perlopiù accovacciati, nascondendosi e
tenendosi al coperto dietro qualunque tipo di riparo. Molti di loro stavano
catturando immagini, alcuni con le cineprese, zoomando per inquadrare la
sua faccia, ma lui non ci poteva fare nulla.
«Due!» gridò. «Scegli i nostri ospiti!»
"Due" era Jean-Paul. Si avvicinò rudemente a un gruppo di persone, e
per primo afferrò il braccio di una bimba francese di quattro anni.
«Noo!» urlò la madre. Jean-Paul le puntò contro l'arma e lei si fece
piccola ma non indietreggiò, tenendo per le spalle la bambina.
«Va bene», le disse "Due", abbassando l'arma. «Le sparerò, allora.» In
meno di un secondo, la bocca della sua pistola mitragliatrice fu contro i
capelli castano chiari della bimba. Questo fece gridare ancora più forte la
madre, che però ritrasse le mani dalla figlia.
«Vai là!» ordinò Jean-Paul alla bambina, indicando Juan. La bimba
obbedì, guardando indietro con la bocca aperta la madre annichilila,
mentre l'uomo armato sceglieva altri bambini.
André stava facendo lo stesso sull'altro lato del gruppo. Per prima cosa
si avvicinò alla piccola olandese. Anna, c'era scritto sulla targhetta per
l'ingresso speciale. Senza dire una parola, allontanò il padre di Anna dalla
sedia a rotelle, sospingendola verso il castello.
«Mia figlia è malata!» protestò in inglese il padre.
«Sì, lo vedo», rispose André nella stessa lingua, andando a scegliere un
altro piccolo malato. Che begli ostaggi sarebbero stati questi due. «Porco
maledetto!» gli gridò in faccia la madre del secondo ammalato. Per tutta
risposta, fu colpita con il calcio dell'Uzi di André, che le ruppe il naso e le
inondò il volto di sangue.
«Mamma!» gridò il ragazzino, mentre André con una mano spingeva la
carrozzella su per la rampa verso il castello. Il bambino si girò e vide
crollare la madre. Un dipendente del parco, uno spazzino, s'inginocchiò
per assisterla ma tutto ciò che lei fece fu gridare più forte: «Tommy!»
Alle sue urla si aggiunsero ben presto quelle di quaranta coppie di
genitori, tutte con indosso le magliette rosse della società Thompson. La
piccola folla si ritirò nel castello, lasciando il resto lì, in piedi, sbalordito,
per alcuni secondi prima di allontanarsi, lenta e indecisa, giù verso la
Strada Espana.
292
«Cazzo, stanno venendo qui», esclamò Mike Dennis, continuando a
parlare al telefono con il capitano che comandava la locale caserma della
Guardia Civil.
«Andatevene», gli disse subito l'ufficiale. «Se riuscite in qualche modo
a lasciare la zona, fatelo subito! Abbiamo bisogno che lei e il suo
personale ci aiutiate. Andatevene ora!»
«Ma, dannazione, questa gente è sotto la mia responsabilità.»
«Sì, e lei può portare fuori quella responsabilità. Ora!» gli ordinò il
capitano. «Venite via!»
Dennis riattaccò, voltandosi a guardare le quindici persone di servizio al
centro comando. «Seguitemi tutti. Ci trasferiamo nel centro controllo di
riserva. Subito», disse con enfasi.
Il castello, anche se sembrava vero, non lo era. Era stato costruito con
ascensori moderni e scale antincendio. I primi erano probabilmente
compromessi, pensò Dennis, ma una scala scendeva nel sotterraneo. Si
avvicinò e l'aprì, facendo cenno ai dipendenti di dirigersi da quella parte.
Obbedirono, la maggior parte con entusiasmo per essere riusciti a sfuggire
a quel posto divenuto d'improvviso pericoloso. L'ultimo, uscendo, lanciò
le chiavi a Dennis che si chiuse la porta alle spalle, poi corse giù per i
quattro piani delle scale a spirale. Un altro minuto e si trovò nel
sotterraneo, affollato di dipendenti e di ospiti spinti fuori dalla zona di
pericolo, dai troll, dai legionari e da altro personale in divisa del parco.
C'era un gruppo di addetti alla sicurezza, ma nessuno era armato con
qualcosa di più pericoloso di una radio. Vi erano armi nell'ufficio
contabilità, ma erano sotto chiave e solo alcuni dipendenti di Worldpark
erano addestrati e autorizzati a utilizzarle. Dennis non voleva sparatorie in
quel posto. Del resto, aveva altre cose da fare. Il centro di controllo
secondario di Worldpark era di fatto all'esterno del parco, proprio in
fondo al sotterraneo. Seguendo altre persone del suo staff, corse là, a nord,
verso l'uscita che portava al posteggio dei dipendenti. Ci vollero circa
cinque minuti, e Dennis si lanciò attraverso la porta. Il centro di controllo
secondario aveva ora doppio personale. La sua seconda scrivania era
vuota e il telefono già collegato con la Guardia Civil.
«Siete in salvo?» domandò il capitano.
«Per ora, penso di sì», rispose Dennis. Fece comparire sul monitor il
suo ufficio nel castello.
293
«Da questa parte», indicò André. La porta era però chiusa a chiave.
Fece un passo indietro e sparò con la pistola contro la maniglia della
porta, che si piegò per l'impatto ma rimase bloccata, contrariamente a
quello che si vede nei film. Poi René provò con la sua pistola
mitragliatrice Uzi, che mandò in pezzi la serratura. André li condusse di
sopra, poi diede un calcio alla porta del centro di controllo e imprecò
quando si accorse che era vuoto.
«Li vedo!» disse Dennis al telefono. «Un uomo... due... sei uomini
armati... Gesù, hanno dei bambini con loro!» Uno si avvicinò a una
telecamera, puntò la pistola e l'immagine svanì.
«Quanti sono armati?» chiese il capitano.
«Almeno sei, forse dieci, forse di più. Hanno preso dei bambini come
ostaggi. Ha capito? Hanno con sé dei bambini.»
«Capisco, Señor Dennis. Devo lasciarla e coordinare una risposta. Per
favore resti in attesa.»
«Sì.» Dennis azionò altri comandi delle telecamere per vedere che cosa
stava accadendo nel suo parco. «Cazzo», imprecò con la rabbia che stava
ora prendendo il sopravvento sullo choc. Poi chiamò il presidente, per
metterlo al corrente della situazione, chiedendosi anche cosa diavolo
avrebbe risposto se il principe saudita gli avesse chiesto che stava
succedendo... un attacco terrorista a un parco divertimenti?
Nel suo ufficio, il capitano Dario Gassman chiamò Madrid per fare il
suo primo rapporto sull'incidente. Per la sua caserma, aveva un piano
anticrisi che venne subito messo in atto dai suoi poliziotti. Dieci auto e
sedici uomini si stavano dirigendo a tutta velocità lungo l'autostrada da
varie direzioni e zone di pattugliamento, sapendo solo che era stato
attivato il piano W. Il loro primo compito era di creare un cordone di
sicurezza, con l'ordine di non far entrare o uscire nessuno. Quest'ultima
parte dell'ordine si sarebbe presto rivelata assolutamente impossibile. A
Madrid stavano avvenendo altre cose mentre il capitano Gassman saliva
in auto per raggiungere Worldpark. Ci sarebbero voluti trenta minuti,
anche con i lampeggianti e la sirena, e durante il tragitto avrebbe avuto la
possibilità di pensare abbastanza tranquillo, nonostante il rumore
proveniente da sotto il cofano. Aveva sedici uomini là o per strada, ma se
c'erano dieci criminali armati, non sarebbero bastati, nemmeno per creare
un cordone interno ed esterno. Di quanti altri uomini avrebbe avuto
294
bisogno? Avrebbe dovuto chiamare la squadra di pronto intervento
nazionale costituita alcuni anni prima dalla Guardia Civil? Probabilmente
sì. Che genere di criminali erano per colpire Worldpark a quest'ora del
giorno? Il momento migliore per una rapina era alla chiusura, anche se
questo era ciò che lui e i suoi uomini avevano previsto e per cui si erano
preparati, perché quella era l'ora in cui tutto il denaro era pronto,
fascettato e infilato nei sacchi di tela per il trasferimento alla banca,
sorvegliato dal personale del parco e qualche volta dal suo. Quello era il
momento di maggiore vulnerabilità. Ma avevano scelto mezzogiorno e
avevano preso in ostaggio dei bambini. Allora, erano rapinatori o che
altro? Che tipo di criminali erano? E se fossero stati terroristi... avevano
preso ostaggi... bambini... terroristi baschi? Dannazione, che cosa allora?
Ma la situazione non era più solo nelle mani di Gassman. Il manager
della Thompson stava già parlando sul cellulare con la sede centrale del
suo gruppo, una chiamata subito inoltrata al suo presidente, raggiunto al
ristorante mentre consumava un piacevole pranzo che si interruppe di
colpo. Il presidente chiamò il ministero della Difesa e ciò accelerò la
procedura. Il rapporto del manager della Thompson presente sul posto era
stato conciso e inequivocabile. Il ministro della Difesa lo chiamò
direttamente e fece prendere al suo segretario tutti gli appunti necessari,
che furono poi battuti a macchina e faxati al primo ministro e al ministro
degli Esteri, il quale contattò la sua controparte spagnola con una richiesta
urgente di conferma. Era ormai un affare politico e al ministero della
Difesa fu fatta un'altra telefonata.
«Sì, qui è Clark», rispose Rainbow Six. «Sì, signore. Dov'è esattamente?... Capisco... quanti? Ci mandi per favore qualsiasi ulteriore
informazione riceviate... no, signore, non possiamo muoverci finché il
governo ospite non inoltra la richiesta. Grazie, ministro.» Clark premette
altri tasti sul telefono. «Al, vieni subito qui. Sta arrivando altro lavoro.»
Poi fece la stessa richiesta a Bill Tawney, Bellow, Chavez e Covington.
Il manager della Thompson ancora a Worldpark radunò i suoi presso un
chiosco e li interrogò. Ex ufficiale carrista dell'esercito francese, si diede
subito da fare per riportare l'ordine. Mise da una parte i dipendenti che
avevano ancora con sé i figli. Contò quelli che non li avevano e stabilì che
mancavano trentatré bambini, insieme con uno o forse due bambini sulle
sedie a rotelle. I genitori erano, com'era ovvio, disperati, ma lui riuscì a
tenerli sotto controllo, poi richiamò il presidente per aggiornare il suo
rapporto sulla situazione. Infine prese un po' di carta per compilare un
295
elenco di nomi e di età, controllando meglio che poté le proprie emozioni
e ringraziando Dio che i suoi figli fossero troppo grandi per fare questo
viaggio. Fatto ciò, fece allontanare il suo personale dal castello, trovò un
dipendente del parco e chiese dove poter reperire telefoni e fax. Furono
tutti scortati in un edificio per servizi decentrato e quindi giù nel
sotterraneo; poi camminarono fino al centro di controllo secondario del
parco, dove incontrarono Mike Dennis, che ancora aveva in mano la
cartella con il suo discorso di benvenuto per il gruppo della Thompson e
che cercava di dare un senso alle cose.
Gassman arrivò proprio in quel momento, in tempo per vedere il fax
che trasmetteva a Parigi l'elenco degli ostaggi conosciuti. Immediatamente
chiamò il ministro della Difesa francese. Risultò che conosceva il
direttore centrale della Thompson, colonnello Robert Gamelin, che aveva
coordinato il nucleo impegnato, alcuni anni prima, a realizzare il sistema
di controllo di tiro di seconda generazione del carro da battaglia LeClerc.
«Quanti?»
«Trentatré del nostro gruppo, forse qualcuno in più, ma i terroristi
sembrano aver scelto volutamente i nostri bambini. E un lavoro per la
Legione», sostenne con decisione il colonnello Gamelin, intendendo
l'unità operazioni speciali della Legione straniera.
«Vedremo, colonnello.» La comunicazione si interruppe.
«Sono il capitano Gassman», disse a Gamelin quell'individuo con uno
strano berretto.
«Maledizione, ho portato lì la famiglia l'anno scorso», esclamò Peter
Covington. «Potrebbe essere necessario un intero battaglione per
riprendere quel posto. È un maledetto incubo, un sacco di edifici, un sacco
di spazio, su più livelli. Penso che abbia persino una zona servizi
sotterranea.»
«Piantine, schizzi?» chiese Clark alla signora Foorgate.
«Verifico», rispose la segretaria, lasciando la sala riunioni.
«Che cosa sappiamo?» domandò Chavez.
«Non molto, ma i francesi sono piuttosto agitati e stanno chiedendo
agli spagnoli di farci intervenire e...»
«È appena arrivato», disse Alice Foorgate, porgendo un fax e sparendo
di nuovo.
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«Elenco degli ostaggi... Gesù, sono tutti bambini, dai quattro agli undici
anni... trentatré... cazzo!» imprecò Clark, leggendo la lista e poi
passandola ad Alistair Stanley.
«Tutti e due i team, se andiamo», osservò subito lo scozzese.
«Sì», annuì Clark, «concordo.» Poi squillò il telefono.
«Chiamata per il signor Tawney», annunciò una voce femminile.
«Qui Tawney», rispose il capo della sezione intelligence sollevando il
ricevitore. «Sì, ricevuto... sì, lo sappiamo, abbiamo avuto la chiamata da...
capisco. Molto bene. Lasciami fare alcune cose qui, ricevuto. Grazie.»
Tawney riagganciò. «Il governo spagnolo ha richiesto attraverso
l'ambasciata britannica a Madrid il nostro intervento immediato.»
«Bene, ragazzi», annunciò John, alzandosi. «In sella. Accidenti, è stata
una chiamata rapida.»
Chavez e Covington uscirono di corsa dalla sala e si diressero verso gli
edifici dei loro rispettivi team. Poi squillò di nuovo il telefono di Clark.
«Sì?» Rimase in ascolto per alcuni minuti. «D'accordo, mi sta bene.
Grazie, signore.»
«Chi era, John?»
«Il ministero della Difesa ha appena richiesto un MC-130 al 1° Special
Operations Wing. Ce lo stanno mandando insieme con l'elicottero di
Malloy. Sembra che ci sia un aeroporto militare a due passi da dove
stiamo andando e Whitehall cerca di farci arrivare lì.» Non ebbe bisogno
di aggiungere che l'Hercules poteva prelevarli direttamente da Hereford.
«Quanto tempo ci occorre per metterci in movimento?»
«Meno di un'ora», rispose Stanley dopo averci pensato un secondo.
«Bene, perché l'Hercules sarà qui tra quaranta minuti o anche meno.
L'equipaggio si sta già imbarcando.»
«Abbiamo una missione. Stivali e sella. Datevi da fare», stava dicendo
Chavez ai suoi uomini.
Cominciarono a muoversi subito verso gli armadietti prima che il
sergente Patterson sollevasse l'ovvia obiezione: «Ding, è il team 1 di
turno. Che succede?»
«Sembra che per questa missione abbiano bisogno di entrambe le
squadre, Hank. Oggi andiamo tutti.»
«D'accordo.» Patterson si diresse verso il suo armadietto.
Il loro equipaggiamento era già imballato, sempre pronto come di
consueto.
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Il colonnello Gamelin lo seppe prima del capitano Gassman. Il ministro
della Difesa francese lo chiamò direttamente per annunciargli che un
distaccamento operazioni speciali era in volo su richiesta del governo di
Madrid e sarebbe arrivato lì entro tre ore. Riferì queste informazioni ai
suoi, con un po' di dispiacere da parte dell'ufficiale di polizia spagnolo,
che poi chiamò il suo ministro a Madrid per informarlo di ciò che stava
accadendo. Risultò che il ministro stava in quel momento apprendendo la
notizia dal suo dicastero degli Esteri. Altre forze di polizia erano per
strada e i loro ordini erano di formare un cordone di sicurezza. La
reazione di Gassman per essere stato tagliato fuori fu, come previsto, di
disorientamento, ma ricevette ordini precisi. Con trenta poliziotti sul
posto o per strada, ordinò a un terzo di loro di spostarsi verso l'interno,
lentamente e facendo attenzione, in direzione del castello in superficie,
mentre altri due uomini facevano lo stesso nel sottosuolo, con le armi
nelle fondine o con la sicura, e con l'ordine di non sparare in nessun caso,
un ordine più semplice da impartire che da rispettare.
Fino a questo punto, pensò René, le cose erano andate bene, e il centro
di controllo del parco era meglio di qualunque cosa avesse potuto sperare.
Stava imparando a utilizzare il sistema computerizzato per selezionare le
telecamere che sembravano coprire l'intera area, dai parcheggi alle aree
d'attesa alle diverse attrazioni. Le immagini erano in bianco e nero e, una
volta selezionato il luogo, poteva zoomare e fare panoramiche per
controllare tutto quello che voleva. Vi erano venti monitor sistemati sulle
pareti del locale, ciascuno collegato da un terminale del computer ad
almeno cinque telecamere. Nessuno avrebbe potuto avvicinarsi al castello
di nascosto.
Nella stanza della segreteria, subito al di là della porta, André aveva
fatto sedere i bambini sul pavimento vicini tra loro, a parte i due sulle
sedie a rotelle, che aveva sistemato contro la parete. I bambini avevano
tutti gli occhi sbarrati e lo sguardo terrorizzato, ma per il momento
stavano tranquilli, il che gli andava bene. Si era messo la pistola
mitragliatrice in spalla. Per ora non gli serviva.
«Ve ne starete buoni», disse loro in francese, ritirandosi poi attraverso
la porta nel centro di controllo. «Uno!» chiamò.
«Sì, Nove?» rispose René. «Tutto sotto controllo qui. È il momento di
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fare una chiamata?»
«Sì», confermò Uno. Si sedette e sollevò un telefono, poi esaminò i tasti
e trovandone uno che poteva andar bene, lo premette.
«Sì?»
«Chi parla?»
«Sono Mike Dennis. Il responsabile del parco.»
«Bien, sono Uno, ora al comando del suo Worldpark.»
«Okay, signor Uno. Cosa volete?»
«C'è lì la polizia?»
«Sì, adesso è qui.»
«Bene. Voglio parlare con il comandante.»
«Capitano?» Dennis fece un cenno all'ufficiale di avvicinarsi.
«Sono il capitano Gassman della Guardia Civil.»
«Sono Uno. Sa che abbiamo preso oltre trenta ostaggi?»
«Sì, lo so», rispose il capitano, mantenendo la voce il più possibile
calma date le circostanze. Aveva letto alcuni libri ed era stato addestrato a
parlare con i terroristi che detenevano ostaggi. «Ha una richiesta per me?»
«Non faccio richieste. Le darò ordini da eseguire subito e ordini da
riferire ad altri. Capito?» chiarì René in inglese.
«Sì, comprendo.»
«Tutti i nostri ostaggi sono francesi. Stabilirà una linea di
comunicazione con l'ambasciata francese a Madrid. I miei ordini sono per
loro. Tenga presente che nessuno dei nostri ostaggi è cittadino del suo
paese. Questo affare è tra noi e i francesi. Intesi?»
«Señor Uno, l'incolumità di quei bambini è mia responsabilità. Questo è
suolo spagnolo.»
«Sia come sia», rispose Uno, «lei aprirà subito un collegamento
telefonico con l'ambasciata francese. Mi faccia sapere quando è pronto.»
«Devo riferire la sua richiesta ai miei superiori. Sarò di nuovo da lei
quando avrò ricevuto istruzioni.»
«Le consiglio di far presto», gli intimò René, prima di riattaccare.
Dietro c'era rumore. I quattro turbopropulsori Allison urlavano, mentre
facevano accelerare l'MC-130 lungo la pista, poi il velivolo effettuò una
brusca impennata, balzando nel cielo per il suo volo verso la Spagna.
Clark e Stanley erano davanti, nella postazione dell'operatore alle
comunicazioni, ad ascoltare con le loro cuffie fortemente isolate, le
informazioni in arrivo, sconnesse e frammentarie come al solito. La voce
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prometteva piante e cartine quando fossero arrivati, ma non c'erano altri
dati sul numero e l'identità dei terroristi... ci stavano lavorando, disse la
voce. Proprio in quel momento, arrivò un fax da Parigi attraverso il
comando del 1° Special Operations Wing americano, che aveva ora le
apparecchiature per comunicazione protetta collegate con Hereford. Era
un altro elenco di ostaggi e questa volta Clark ebbe il tempo di leggere i
nomi, e parte della sua mente cercò d'immaginare i visi da abbinare a quei
nomi. Trentatré bambini seduti nel castello di un parco divertimenti,
circondati da uomini armati, almeno sei, forse dieci, forse di più;
cercavano ancora di ottenere questo dato. Cazzo, esclamò tra sé John.
Sapeva che alcune cose non si potevano affrettare, ma niente in queste
faccende andava mai abbastanza veloce, e tu dovevi solo aspettare.
Dietro, gli uomini si sfilarono i cinturoni e cominciarono a indossare le
tute nere in Nomex, scambiandosi poche parole mentre i comandanti dei
due team si portavano davanti per cercare di avere altre informazioni.
Ritornati dopo dieci minuti per vestirsi a loro volta, Chavez e Covington
piegarono la testa nella tipica espressione che voleva dire cattive notizie.
Riferirono ai loro uomini il poco che sapevano e la stessa espressione si
lesse sui volti dei tiratori scelti, insieme con pensieri indecifrabili.
Bambini in ostaggio. Oltre trenta probabilmente, forse più, nelle mani di
un numero imprecisato di terroristi, nazionalità e motivazione ancora
sconosciute. In pratica, sapevano soltanto che stavano andando da qualche
parte per fare qualcosa. Che cosa lo avrebbero scoperto soltanto arrivati
sul posto. Gli uomini si risistemarono nei sedili, riallacciarono le cinture e
dissero poche parole. La maggior parte chiuse gli occhi e finse di
appisolarsi, ma nessuno dormì.
«Voglio il suo numero di fax», ordinò Uno all'ambasciatore francese,
parlando nella sua lingua madre invece che in inglese.
«Molto bene», fu la risposta, seguita dal numero.
«Vi stiamo inviando un elenco di prigionieri politici di cui vi chiediamo
il rilascio. Dovranno essere liberati subito e portati qui su un aereo Air
France. Poi i miei uomini, i nostri ospiti e io stesso ci imbarcheremo sullo
stesso velivolo e faremo rotta con loro fino a una destinazione che
comunicherò al pilota una volta a bordo. Le consiglio di soddisfare al più
presto le nostre richieste. Fatelo o saremo obbligati a uccidere alcuni dei
nostri ostaggi.»
300
«Inoltrerò a Parigi la sua richiesta», rispose l'ambasciatore.
«Bene, e non manchi di dire loro che siamo dei tipi per niente pazienti.»
«Oui, farò anche questo», promise il diplomatico. La linea s'interruppe e
lui guardò i suoi più stretti collaboratori, il vicecapo della legazione,
l'addetto militare e il capo della stazione DOSE. L'ambasciatore era un
uomo d'affari cui era stata affidata questa ambasciata come favore
politico, dato che per la vicinanza di Parigi e Madrid non si richiedeva per
quel posto un membro particolarmente esperto del corpo diplomatico.
«Allora?»
«Guarderemo l'elenco», rispose l'uomo del DGSE. Dopo un secondo, il
fax cigolò e venne fuori il messaggio. Il funzionario dei servizi lo prese,
lo lesse e lo consegnò. «Niente di buono», annunciò agli altri presenti
nella stanza.
«Lo Sciacallo?» chiese il vicecapo dell'ambasciata. «Non lo rilasceranno mai...»
«Mai è un tempo lungo, amico mio», disse l'uomo dell'intelligence al
diplomatico. «Spero che questi terroristi sappiano quello che fanno.»
«Che cosa sai di loro?»
«Nulla, nemmeno un dato.»
«Quanto?» domandò Esteban a René.
«Prenderanno tempo», rispose Uno. «Alcuni saranno motivi reali e
alcuni se li inventeranno. Ricorda che la loro strategia è di allungare i
tempi il più possibile, per stancarci, fiaccarci, indebolire la nostra
determinazione. Per contro, noi abbiamo la possibilità di forzare gli eventi
uccidendo un ostaggio. Non è una decisione da prendere alla leggera.
Abbiamo scelto i nostri ostaggi per il loro impatto psicologico e dovremo
sfruttare al massimo il loro utilizzo. Ma soprattutto, dobbiamo controllare
il ritmo degli eventi. Per ora, li lasceremo fare mentre noi consolidiamo la
nostra posizione.» René si portò nell'angolo per vedere che cosa faceva
Claude. Aveva un brutto taglio sull'omero per colpa di quel pazzo di un
soldato romano, l'unica cosa andata storta. Era seduto sul pavimento, con
una benda sul braccio, ma la ferita sanguinava ancora. Per chiuderla bene
Claude avrebbe avuto bisogno di punti. Fu un incidente, ma non così
grave, tranne che per Claude stesso, ancora molto spaventato per la ferita.
Hector Weiler era il medico del parco, un chirurgo generico formato
all'università di Barcellona, che passava la maggior parte del tempo
301
applicando cerotti su ginocchia e gomiti sbucciati, anche se sulla parete
c'era una foto dei due gemelli che aveva una volta aiutato a nascere dopo
che una donna incinta era stata abbastanza folle da fare un giro sullo
Stuka, il bombardiere in picchiata... ora all'ingresso c'era un cartello molto
eloquente che metteva in guardia da fatti del genere. Nonostante tutto, era
un medico giovane e preparato, che aveva fatto la sua parte nel pronto
soccorso della scuola di medicina e quindi questa non era la sua prima
vittima di arma da fuoco. Francisco era un uomo fortunato. Gli avevano
scaricato addosso almeno sei colpi e, benché i primi tre avessero avuto
come risultato la penetrazione di frammenti sparsi nel braccio sinistro, un
colpo della seconda raffica gli aveva procurato gravi danni alla gamba.
Una tibia rotta avrebbe richiesto molto tempo per guarire per un uomo
della sua età ma, per fortuna, era spezzata abbastanza in alto. Una rottura
più in basso avrebbe potuto richiedere sei mesi per guarire, sempre che
guarisse.
«Avrei potuto ucciderlo», brontolò il centurione sotto l'effetto
dell'anestesia. «Avrei potuto staccargli la testa, ma l'ho mancato!»
«Non con il primo colpo», osservò Weiler, vedendo la crosta rossa sulla
spada ora appoggiata sullo scutum nell'angolo dell'infermeria.
«Ci parli di lui», chiese il capitano Gassman.
«Sui quaranta, poco più», precisò de la Cruz. «Dieci o dodici centimetri
più alto di me, snello. Capelli e barba castani, con qualche spruzzata di
grigio. Occhi scuri. Pistola mitragliatrice Uzi. Cappellino bianco», riferì
l'ex sergente, smozzicando le parole. L'anestesia non fu sufficiente a lenire
del tutto il dolore, ma dovette dire ciò che sapeva e sopportò il fastidio
mentre il medico lavorava per sistemargli la gamba. «Ce n'erano altri. Ne
ho visti quattro, forse di più.»
«Pensiamo dieci o giù di lì», precisò Gassman. «Ha detto qualcosa?»
De la Cruz scosse la testa. «Non ho sentito nulla.»
«Chi sono?» chiese il chirurgo, senza distogliere lo sguardo dal suo
lavoro.
«Pensiamo siano francesi, ma non siamo sicuri», rispose il capitano
della Guardia Civil.
La parte più difficile toccò al colonnello Malloy. Attraversando la
Manica, si diresse a sud-sudovest con velocità di crociera costante di 150
nodi. Si sarebbe fermato in una base militare francese vicino a Bordeaux
302
per il rifornimento, dato che non aveva i serbatoi esterni utilizzati per
trasferire su lunghe distanze il Night Hawk. Come quasi tutti gli elicotteri,
non aveva l'autopilota, obbligando Malloy e il sottotenente Harrison a
pilotare manualmente il velivolo. Ciò provocava indolenzimenti dato che
l'elicottero non era la macchina volante più comoda del mondo, ma
entrambi erano abituati a essere sballottati e di solito si lamentavano solo
quando si avvicendavano ai comandi ogni venti minuti. Tre ore per
arrivare a destinazione. Dietro c'era il loro capoequipaggio, il sergente
Jack Nance, ora soltanto seduto a osservare fuori dai finestrini mentre
passavano sopra la costa francese, volando a circa settecento metri sopra
un porto di pescatori pieno di barche.
«È successo tutto molto velocemente», osservò Harrison sull'interfono.
«Sì, ma credo che Rainbow sia sempre pronto a muoversi.»
«Sai qualcosa di ciò che sta succedendo?»
«Neanche un po'.» Scosse di poco a sinistra e a destra la testa con il
casco. «Sai, non vado in Spagna da quando sono stato imbarcato sulla
Tarawa nel... 1985, mi sembra. Ricordo un grande ristorante a Cadice,
anche se... chissà se ci sarà ancora...» Poi l'equipaggio ritornò silenzioso;
l'elicottero mise giù il muso, dirigendosi a sud, mentre Malloy teneva
sotto costante controllo l'apparato di navigazione digitale.
«Nessuna novità», osservò Clark, controllando l'ultimo fax; solo dati
già inviati e risistemati da qualche volonteroso addetto ai servizi. Lasciò
che se ne occupasse Alistair Stanley, e andò dietro.
Eccoli lì, gli uomini di Rainbow, quasi tutti all'apparenza assopiti, come
aveva fatto lui con il 3° gruppo operazioni speciali più di una generazione
prima, solo fingendo di dormire, con gli occhi chiusi e cercando di
rilassare la mente e il corpo al minimo, perché non aveva senso pensare a
cose di cui non si sapeva un accidente, e la tensione fiaccava la resistenza
anche quando i muscoli erano rilassati. Così, ci si difendeva staccando la
spina. Questi uomini erano abbastanza professionali da sapere che lo
stress sarebbe sopraggiunto al momento giusto e che era controproducente
anticiparlo troppo. In quel momento John Clark, molti anni prima capo
nel reparto SEAL della marina degli Stati Uniti, rimase colpito per l'onore
che aveva di comandare soldati così. E ora si stavano dirigendo verso un
compito del quale non erano stati informati, ma doveva trattarsi di
qualcosa di serio perché non erano mai usciti entrambi i team 1 e 2.
303
Eppure la consideravano come una normale missione d'addestramento.
Non esistevano uomini migliori di questi e i loro due comandanti, Chavez
e Covington, li avevano addestrati al limite della perfezione.
Da qualche parte, davanti a loro, c'erano alcuni terroristi che tenevano
in ostaggio dei bambini. Il compito non sarebbe stato facile ed era troppo
presto per pensare a come comportarsi; ma John sapeva comunque che era
meglio trovarsi qui su questo Hercules che faceva un rumore d'inferno
piuttosto che in quel parco divertimenti a mezz'ora di distanza, perché tra
poco i suoi uomini avrebbero aperto gli occhi e sarebbero balzati giù,
portandosi dietro le sacche con l'equipaggiamento da combattimento.
Guardandoli, John Clark vide la Morte davanti agli occhi e la Morte, qui e
ora, era nelle sue mani.
Tim Noonan era seduto nell'angolo anteriore destro del grande vano di
carico, giocando con il suo computer, con a fianco David Peled. Clark si
avvicinò e chiese che cosa stessero facendo.
«Le agenzie non hanno ancora trasmesso la notizia», gli disse Noonan.
«Mi chiedo perché.»
«Lo faranno fin troppo presto», sottolineò Clark.
«Ancora dieci minuti, forse meno», annunciò l'israeliano. «Chi ci viene
incontro?»
«L'esercito spagnolo e la loro polizia nazionale, da quanto ho appena
sentito. Siamo stati autorizzati ad atterrare tra... venticinque minuti», disse
guardando l'orologio.
«Ecco, l'agenzia France-Press ha appena mandato un flash», comunicò
Noonan, leggendolo e cercandovi possibili nuove informazioni. «Una
trentina di bambini francesi presi in ostaggio da terroristi sconosciuti...
nient'altro se non dove si trovano. Sarà dura, John», osservò l'ex agente
dell'FBI. «Trenta e più ostaggi in un ambiente affollato. Quando lavoravo
con la squadra recupero ostaggi, avevamo da sudare in scenari come
questo. Dieci criminali?» chiese.
«È all'incirca quello che pensano, ma non è stato ancora confermato.»
«Premesse merdose, capo.» Noonan scosse la testa preoccupato. Era
vestito come i tiratori, con la tuta nera in Nomex, il giubbotto
antiproiettile e la sua Beretta nella fondina al fianco destro, perché
preferiva ancora ritenersi un tiratore piuttosto che un genietto della tecnica
e la sua mira, grazie all'addestramento fatto a Hereford con i membri dei
team, era molto precisa. C'erano dei bambini in pericolo, ragionò Clark, e
304
i bambini in pericolo erano forse la più forte di tutte le spinte umane,
ulteriormente rafforzata dal periodo trascorso da Noonan nell'FBI, che
considerava quello contro i bambini come il più abbietto dei crimini.
David Peled aveva un'aria più distaccata, seduto là in abiti civili,
osservando lo schermo del computer come un contabile esamina un foglio
pieno di numeri.
«John!» chiamò Stanley, arrivando con un nuovo fax. «Ecco quello che
chiedono.»
«Qualcuno che conosciamo?»
«Il'ych Ramirez Sanchez è in cima alla lista.»
«Carlos?» Peled guardò in su. «Qualcuno vuole davvero quello
schmuck?»
«Tutti hanno degli amici.» Il dottor Bellow si sedette e prese il fax,
scorrendolo prima di passarlo a Clark.
«Allora, dottore, che cosa sappiamo?»
«Abbiamo a che fare di nuovo con estremisti, proprio come a Vienna,
ma questi hanno un obiettivo preciso e prefissato e questi prigionieri
"politici"... conosco questi due, di Action Directe, gli altri per me sono
soltanto nomi.»
«Ci sono», annunciò Noonan, richiamando la sua lista di terroristi noti e
inserendo i nomi dal fax. «Okay, sei Action Directe, otto baschi, un
membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina attualmente
detenuto in Francia. Una lista non lunga.»
«Ma precisa», osservò Bellow. «Sanno quello che vogliono e se
tengono dei bambini in ostaggio, vogliono davvero scarcerare i loro amici.
La scelta degli ostaggi è studiata per esercitare un'ulteriore pressione
politica sul governo francese.» Questa non era certo un'opinione
particolarmente originale e lo psichiatra lo sapeva. «La domanda è: il
governo francese vorrà trattare?»
«In passato, hanno negoziato di nascosto, dietro le quinte», osservò
Peled. «Può darsi che i nostri amici lo sappiano.»
«Dilettanti», sospirò Clark.
«Scenario da incubo», commentò con un cenno Noonan. «Ma chi ha il
coraggio di prendere di mira un bambino?»
«Dovremo parlare con loro per saperlo», rispose Bellow. Guardò
l'orologio e bofonchiò. «La prossima volta, un aereo più veloce.»
«Si rilassi, dottore», suggerì Clark, sapendo che, una volta atterrati e
305
arrivati sull'obiettivo, sarebbe stato Paul Bellow ad avere il compito più
gravoso. Doveva leggere nelle loro menti, valutarne la determinazione e,
cosa più difficile, prevedere le loro azioni. Lui, come il resto di Rainbow,
non sapeva ancora nulla di significativo. Erano tutti come dei velocisti ai
blocchi di partenza, pronti a slanciarsi, ma obbligati ad attendere il colpo
di pistola. Ma a differenza degli altri, non era un tiratore. Non poteva
sperare nello sfogo emotivo che essi avrebbero avuto entrando in azione,
per cui nell'intimo invidiava i soldati. Bambini, pensò Paul Bellow.
Doveva immaginare un modo per ragionare con persone che non
conosceva, per proteggere le vite dei bambini. Che grado di libertà gli
avrebbero concesso il governo francese e quello spagnolo? Sapeva che ne
avrebbe avuto bisogno per potersi muovere, anche se tutto dipendeva
dallo stato mentale dei terroristi. Avevano scelto deliberatamente
bambini, e addirittura bambini francesi, per rendere massima la pressione
sul governo di Parigi... e quello era stato un atto premeditato. Questo lo
portava a pensare che non avrebbero avuto scrupoli a uccidere un bimbo
nonostante tutti i tabù associati a un atto del genere, in qualunque normale
mente umana. Paul Bellow aveva scritto e tenuto conferenze in tutto il
mondo su persone come queste, ma da qualche parte nel profondo del suo
animo si chiedeva se veramente comprendeva la mentalità dei terroristi,
così lontana dal suo modo molto razionale di guardare la realtà. Riusciva
a simulare i loro pensieri, forse, ma li capiva veramente? Non era una
domanda che voleva porsi proprio ora, con i tappi infilati nelle orecchie
per proteggersi l'udito e l'equilibrio psichico dal rombo lacerante dei
quattro motori a turbina dell'MC-130. Anche lui si allungò, chiuse gli
occhi e ordinò alla sua mente di assumere un atteggiamento indifferente,
alla ricerca di una tregua dallo stress che di sicuro sarebbe sopravvenuto
tra meno di un'ora.
Clark vide ciò che fece Bellow e ne capì le motivazioni, ma Rainbow
Six non poteva fare la stessa cosa, perché, alla fine, era lui ad avere la
responsabilità del comando e quelli che vedeva davanti ai suoi occhi
erano i volti che aveva cercato di abbinare ai nomi sul fax che teneva in
mano. Chi sarebbe sopravvissuto? Chi no? Quella responsabilità gravava
su spalle robuste meno della metà di quanto apparissero.
Bambini.
«Non si sono ancora fatti vivi con me», disse al telefono il capitano
Gassman dopo aver chiamato.
306
«Non le ho ancora dato una scadenza precisa», rispose Uno. «Voglio
sperare che Parigi apprezzi la nostra buona volontà. Se non è così,
imparerà ben presto a rispettare la nostra determinazione. Glielo chiarisca
bene», concluse René, mettendo giù il telefono e interrompendo la
comunicazione.
Ecco cosa ci ho guadagnato ad averli chiamati per stabilire un
dialogo, disse tra sé Gassman. Questa era una delle cose che era previsto
facesse, secondo quanto dicevano i corsi d'addestramento e tutti i libri.
Stabilire un qualche tipo di dialogo e un rapporto con i criminali,
addirittura un certo grado di fiducia che avrebbe poi sfruttato a proprio
vantaggio, ottenere il rilascio di qualche ostaggio in cambio di cibo o altre
concessioni marginali, minare la loro determinazione, con lo scopo finale
di neutralizzare il crimine senza perdite di vite innocenti... o colpevoli.
Una vera vittoria per lui significava portarli tutti davanti a una corte di
giustizia, dove un giudice togato li avrebbe condannati a una lunga pena
come ospiti del governo spagnolo, a marcire come l'immondizia che
erano... ma il primo passo era farli dialogare con lui, qualcosa che questo
Uno non sentiva la necessità di fare. Quest'uomo era sicuro di avere il
controllo della situazione... ed era effettivamente così, disse tra sé il
capitano di polizia. Con i bambini seduti davanti alle sue armi. Poi squillò
un altro telefono.
«Sono atterrati, e stanno scaricando ora.»
«Quanto?»
«Trenta minuti.»
«Mezz'ora», comunicò a Clark il colonnello Tomas Nuncio, mentre
l'auto già cominciava a muoversi. Nuncio era arrivato con l'elicottero da
Madrid. Dietro di lui, tre autocarri dell'esercito spagnolo stavano
caricando l'equipaggiamento trasportato dal velivolo e sarebbero presto
partiti, percorrendo la stessa strada con i suoi uomini a bordo. «Che cosa
sappiamo?»
«Trentacinque ostaggi, trentatré sono bambini francesi...»
«Ho visto l'elenco. Chi sono gli altri due?» Nuncio abbassò lo sguardo
con un'espressione di disgusto. «Sembra che siano bambini ammalati, in
gita al parco grazie a un programma speciale, quelli mandati qui... l'avete
cominciato in America, come lo chiamate...»
«Make-A-Wish?» domandò John.
307
«Sì, quello. Una bimba olandese e un ragazzino inglese, entrambi su
sedia a rotelle, ambedue sembra molto malati. Non francesi come gli altri.
Lo trovo strano. Tutti gli altri sono figli di dipendenti della Thompson, la
società di equipaggiamenti per la difesa. La guida di quel gruppo ha
chiamato per conto proprio la sede centrale della società e da lì la notizia
è risalita fino al governo francese, il che spiega la velocità della risposta.
Ho ordine di darvi tutta l'assistenza che i miei uomini possono fornire.»
«Grazie, colonnello Nuncio. Quanti uomini ha sul posto ora?»
«Trentotto, e ne stanno arrivando altri. Abbiamo stabilito un cordone
interno e un controllo del traffico.»
«E per quanto riguarda i cronisti?»
«Li fermiamo all'ingresso principale del parco. Non darò a quei porci la
possibilità di parlare al pubblico», promise il colonnello Nuncio. Era già
all'altezza di quello che John si aspettava dalla Guardia Civil. Il suo
copricapo ricordava un altro secolo ma gli occhi azzurri del poliziotto
erano pronti per il prossimo, freddi e duri mentre guidava a tutta velocità.
Un cartello indicava che Worldpark era a quindici chilometri di distanza.
Julio caricò sul camion da cinque tonnellate l'ultimo contenitore
speciale del team 2 e salì a bordo. I suoi compagni erano tutti lì, sul retro,
con Ding Chavez seduto sul sedile anteriore destro del camion, vicino
all'autista, come erano soliti fare i comandanti. Avevano tutti gli occhi
aperti ora e muovevano le teste, perlustrando il terreno circostante anche
se non aveva alcuna importanza per la missione. Anche i commando
potevano comportarsi da turisti.
«Colonnello, che tipo di sistemi di sorveglianza dobbiamo affrontare?»
«Che cosa vuol dire?» chiese Nuncio.
«Il parco è dotato di telecamere sparse in giro? Se ne ha», aggiunse
Clark, «vorrei evitarle.»
«Faccio una chiamata e verifico.»
«Allora?» domandò Mike Dennis al suo capotecnico.
«Dalla strada d'accesso posteriore, nessuna telecamera fino a che non si
avvicinano al parcheggio dei dipendenti. Posso spegnere quella da qui.»
«Fallo.» Dennis si mise alla radio del capitano Gassman per fornire
indicazioni ai veicoli in avvicinamento. Intanto guardò l'orologio. I primi
colpi erano stati sparati tre ore e mezzo prima. Sembrava passata una vita.
308
Il colonnello Nuncio prese l'ultima uscita prima di quella che portava al
parco, immettendosi in una strada asfaltata a due corsie e rallentando.
Incontrarono subito un'auto della polizia i cui occupanti, in piedi vicino a
essa, fecero cenno di passare. Dopo due minuti erano parcheggiati
all'esterno di quello che sembrava un tunnel, con una porta d'acciaio
parzialmente aperta. Nuncio spalancò la sua portiera e Clark fece lo
stesso, poi s'incamminarono veloci verso l'ingresso ed entrarono.
«Il suo spagnolo è molto forbito, Señor Clark. Ma non riesco a
localizzare il suo accento.»
«Indianapolis», rispose John. Sarebbe stato probabilmente l'ultimo
momento di respiro della giornata. «Come parlano i criminali?»
«In quale lingua, vuol dire? Finora in inglese.»
E quella fu la prima buona notizia della giornata. Nonostante tutta la
sua esperienza, la conoscenza delle lingue del dottor Bellow lasciava a
desiderare e lui doveva prendere in mano la situazione non appena fosse
arrivato, tra circa cinque minuti.
Il centro di controllo secondario del parco era a soli venti metri
all'interno del tunnel. La porta era sorvegliata da un'altra Guardia Civil,
che l'aprì e salutò il colonnello Nuncio.
«Colonnello.» John vide che era un altro poliziotto.
«Señor Clark, le presento il capitano Gassman.» Si strinsero la mano.
«Mi chiamo John Clark. Il mio distaccamento sarà qui tra pochi minuti.
Può per favore aggiornarmi su ciò che sta succedendo?»
Gassman gli fece cenno di avvicinarsi al grande tavolo in mezzo alla
sala, le cui pareti erano tappezzate di telecamere e altre apparecchiature
elettroniche la cui natura non era subito evidente. Sul tavolo era aperta
una grande carta del parco.
«I criminali sono tutti qui», indicò Gassman, mettendo il dito sul
castello al centro del parco. «Crediamo che ce ne siano dieci con
trentacinque ostaggi, tutti bambini. Ho parlato con loro diverse volte. Il
mio contatto è un uomo, probabilmente francese, che si fa chiamare Uno.
Le conversazioni non sono approdate a nulla, ma abbiamo una copia delle
loro richieste... una dozzina di terroristi condannati, detenuti soprattutto
nelle prigioni francesi, alcuni anche in quelle spagnole.»
Clark annuì. Tutte cose che già sapeva, ma la pianta del parco era
nuova. Per prima cosa esaminò le visuali, quello che si poteva e non si
poteva vedere. «Che cosa avete del posto dove si trovano? Disegni, voglio
309
dire.»
«Ecco», intervenne un tecnico del parco, distendendo sul tavolo i
disegni del castello. «Finestre qui, qui, qui e qui. Scale e ascensori come
indicato.» Clark li localizzò con riferimento alla pianta. «Hanno scale
d'accesso al tetto che si trova a quaranta metri sul livello stradale. Hanno
una buona visuale dovunque, su tutte le strade.»
«Se voglio dare un'occhiata, qual è il posto migliore?»
«È facile. Il Bombardiere in Picchiata, in cima alla prima collina. Lassù
si è a quasi centocinquanta metri.»
«Una bella altezza», disse Clark quasi incredulo.
«Sono le più alte montagne russe del mondo, signore», confermò il
tecnico. «La gente viene da ogni parte per farci un giro. È situato in una
leggera depressione, circa dieci metri, ma il resto è maledettamente alto.
Se vuole farci appollaiare qualcuno, quello è il posto giusto.»
«È possibile andarci da qui senza essere visti?»
«Nel sotterraneo, ma ci sono le telecamere...» Indicò con la mano sulla
carta. «Qui, qui, qui e un'altra lì. Credo sia meglio camminare in
superficie, ma evitare tutte le telecamere non sarà facile.»
«Si possono spegnere?»
«Da qui possiamo manovrare il centro di comando principale, sì...
dannazione, se necessario, posso mandare fuori della gente a strappare i
cavi.»
«Ma se lo facciamo, potrebbe non piacere ai nostri amici del castello»,
osservò John. «Dobbiamo pensarci bene prima di fare qualsiasi cosa. Per
il momento», Clark disse a Nuncio e Gassman, «voglio tenerli all'oscuro
su chi c'è qui e che cosa facciamo. Non diamo loro niente per niente.»
Entrambi i poliziotti annuirono e John vide nei loro occhi una sorta di
disperata fiducia. Orgogliosi e professionali com'erano, dovevano provare
un qualche sollievo di avere sul posto lui e il suo distaccamento a
prendersi carico della situazione e anche assumersi la responsabilità.
Avrebbero potuto ascrivere a proprio merito il fatto di contribuire al
successo di un'operazione di salvataggio ma avrebbero potuto anche
tenersi alla larga e dire che qualunque cosa fosse andata storta non era
colpa loro. Ogni dipendente statale, in ogni parte del mondo, acquisiva
prima o poi questa mentalità burocratica.
«Ciao, John.»
Clark si voltò. Era Chavez, subito seguito da Covington. I due
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comandanti in subordine entrarono, con indosso il completo d'assalto
nero; agli altri nella stanza apparvero come angeli della morte. Si
avvicinarono al tavolo di riunione e cominciarono a studiare i disegni.
«Domingo, ti presento il colonnello Nuncio e il capitano Gassman.»
«Buongiorno», disse Ding nel suo spagnolo di Los Angeles, stringendo
le mani. Covington fece lo stesso, parlando nella sua lingua.
«Ci sono postazioni per tiratori qui?» chiese subito Ding, toccando il
Bombardiere in Picchiata. «L'ho visto dal parcheggio. Posso mandarci
Homer senza essere visto?»
«Ne stavamo parlando proprio adesso.»
Entrò poi Noonan, con lo zaino pieno di apparecchi elettronici. «Bene,
questo sembra abbastanza adatto ai nostri scopi», osservò, passando in
rassegna tutti gli schermi tv.
«I nostri amici hanno le stesse cose.»
«Merda», esclamò Noonan. «Voglio innanzitutto chiudere i centro
nodali dei cellulari.»
«Che cosa?» domandò Nuncio. «Perché?»
«Nel caso i nostri amici abbiano un amico all'esterno con un cellulare
che li informi su ciò che facciamo, signore», rispose Clark.
«Ah. Posso essere d'aiuto?»
Noonan si affrettò a rispondere. «Faccia andare i suoi uomini presso
ciascun centro nodale e faccia inserire ai tecnici questi dischi nei loro
computer. Vi sono istruzioni stampate su ognuno.»
«Filipe!» Nuncio si voltò e schioccò le dita. Un attimo dopo il suo
uomo aveva i dischi e gli ordini, con cui lasciò il locale.
«A che profondità siamo?» chiese poi Noonan.
«Non più di cinque metri.»
«Cemento armato sopra le nostre teste?»
«Proprio così», confermò il tecnico del parco.
«Okay, John, le nostre radio portatili dovrebbero funzionare bene.» Poi
fecero il loro ingresso nel centro comando i team 1 e 2 e si affollarono
attorno al tavolo.
«Criminali e ostaggi qui», indicò loro John.
«Quanti?» chiese Eddie Price.
«Trentacinque ostaggi, tutti bambini, due di loro su sedie a rotelle.
Questi non sono francesi.»
«Chi ha parlato con loro?» domandò il dottor Bellow.
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«Io», rispose il capitano Gassman. Bellow lo condusse nell'angolo per
un dialogo riservato.
«Prima di tutto, sorveglianza dall'alto», precisò Chavez. «Dobbiamo
portare Homer in cima a quell'attrazione... non visto... come facciamo?»
«Sugli schermi tv si vedono girare delle persone», osservò Johnston,
voltandosi a guardare. «Chi sono?»
«Personale del parco», precisò Mike Dennis. «Li facciamo andare in
giro per accertarsi che tutti i nostri ospiti siano usciti.» Era la normale
procedura di chiusura, benché con molte ore di anticipo.
«Mi procuri una tuta da lavoro... ma devo portarmi dietro anche il
fucile. Ha dei meccanici qui?»
«Solo un migliaio», rispose il responsabile del parco.
«Bene, allora ecco ciò che sarò, con cassetta degli attrezzi e tutto il
resto. Le attrazioni funzionano?»
«No, sono tutte ferme.»
«Più cose sono in movimento, più ne hanno da tenere sotto
osservazione», sottolineò il sergente Johnston.
«Mi va l'idea», concordò Chavez, guardando Clark.
«Anche a me. Signor Dennis, le metta tutte in funzione, per favore.»
«Devono essere fatte partire a una a una. Possiamo spegnerle da qui
togliendo la corrente, ma non possiamo metterle in azione da questa
postazione.»
«Allora mandi fuori il personale a farlo. Il sergente Johnston andrà con
il suo uomo alle montagne russe. Homer, sistemati là. Il tuo compito è di
raccogliere informazioni e inviarcele. Prendi il fucile e prendi bene anche
la mira.»
«Quanto sarò in alto?»
«Circa centoquaranta metri dal suolo.»
Il tiratore scelto tirò fuori dalla tasca un calcolatore e l'accese per
verificare che funzionasse. «D'accordo. Dove mi cambio?»
«Da questa parte.» Il tecnico lo condusse fuori dalla porta e attraverso
l'atrio nello spogliatoio dei dipendenti.
«E un osservatorio sull'altro lato?» domandò Covington.
«Eccone uno buono», rispose Dennis. «L'edificio della realtà virtuale.
Non altrettanto alto, ma visuale diretta sul castello.»
«Lì ci metto Houston», decise Covington. «La gamba gli fa ancora
male.»
312
«Due tiratori-osservatori più le telecamere ci forniscono una copertura
visiva piuttosto buona del castello», disse Clark.
«Ho bisogno di effettuare una ricognizione per farmi un'idea di tutto il
resto», disse Chavez. «Mi serve uno schema con indicate le posizioni
delle telecamere. Serve anche a Peter.»
«Quando arriva Malloy?» chiese Covington.
«Tra circa un'ora. Dovrà fare il pieno all'arrivo. Ci vorranno trenta
minuti quando tocca terra, dopo di che l'autonomia dell'elicottero è di
circa quattro ore.»
«Che portata hanno le telecamere, signor Dennis?»
«Copertura piuttosto buona dal parcheggio a qui, ma non sull'altro lato.
Potrebbero fare meglio con le persone in cima al castello.»
«Che cosa sappiamo del loro equipaggiamento?»
«Solo le armi. Le abbiamo sul nastro.»
«Voglio vederle», intervenne Noonan. «Subito, se possibile.»
Poi le cose cominciarono a muoversi. Chavez e Covington ebbero le
loro carte del parco... utilizzarono le stesse in vendita per i visitatori, con
bollini neri adesivi trafugati a una segretaria che indicavano le posizioni
delle telecamere. Una vettura elettrica, di fatto una vettura da golf, li
aspettava fuori nel corridoio e li trasportò velocemente all'esterno, poi
indietro nel parco lungo una strada in superficie. Covington si mosse
seguendo la carta, ed evitando le posizioni delle telecamere durante il
percorso lungo le zone retrostanti di Worldpark.
Noonan fece scorrere i tre nastri che mostravano i terroristi in azione.
«Dieci di loro, tutti maschi, la maggior parte con barba, tutti con in testa
cappelli bianchi quando hanno effettuato l'attacco. Due sembrano
dipendenti del parco. Disponiamo d'informazioni su di loro?»
«Ci stiamo lavorando», rispose Dennis.
«Avete le loro impronte digitali?» domandò Noonan, ottenendo in
risposta un cenno negativo del capo.
«E fotografie?»
«Sì, tutti noi abbiamo un lasciapassare con foto per entrare.» Dennis gli
porse il suo.
«È già qualcosa. Facciamoli arrivare al reparto investigativo della
polizia francese.»
«Mark!» Dennis si rivolse al capo del personale.
«Dovevamo metterci le uniformi», osservò Covington dalla sua
313
posizione più in alto.
«Sì, la fretta è cattiva consigliera, vero Peter?» Chavez allungò il collo
per sbirciare dietro un angolo, annusando il profumo di cibo proveniente
da un chiosco. Gli fece venire un po' di appetito. «Sarebbe bello entrare là,
amico mio.»
«Davvero», concordò Covington.
Il castello aveva proprio un aspetto abbastanza realistico, con lati di
base lunghi più di cinquanta metri e quasi altrettanti di altezza. Perlopiù
era spazio vuoto, lo si vedeva dai disegni, ma c'erano una scala e un
ascensore che portavano al tetto piatto e prima o poi i terroristi ci
avrebbero messo qualcuno, se avevano un po' di cervello. Quello era
compito dei tiratori. Per Homer Johnston e Sam Houston sarebbe stato
facile colpire direttamente, 400 metri da una parte e solo 160 dall'altra.
«Di che dimensioni ti sembrano quelle finestre?»
«Abbastanza grandi, Ding.»
«Sì, sono d'accordo.» E già un piano si stava delineando nelle due
menti. «Spero che Malloy sia in forma.»
Il sergente Homer Johnston, che indossava ora la divisa del parco sopra
l'uniforme ninja, sbucò all'aperto a cinquanta metri dal Bombardiere in
Picchiata. Da così vicino l'attrazione era ancora più impressionante. Si
avvicinò, scortato dal dipendente del parco che era anche un operatore
dell'impianto.
«Posso portarla al punto più alto e fermare lì il vagoncino.»
«Ottimo.» Sembrava davvero un lungo percorso da fare a piedi, anche
se vi erano dei normali scalini che portavano su. Passarono sotto la tettoia
dell'ingresso, superarono le barriere di contenimento della folla e Johnston
si sedette nel sedile anteriore destro, appoggiando la custodia del fucile
sul posto accanto. «Andiamo», disse all'operatore. La salita sulla prima
montagna fu lenta... studiata così per terrorizzare a sufficienza i
passeggeri e ciò diede a Johnston un'altra possibilità di entrare nella testa
di un terrorista, pensò sorridendo ironico. La fila di dieci vagoncini a tre
posti si fermò proprio in cima. Johnston ne uscì con una mezza
contorsione, portandosi dietro la custodia del fucile. Questo lo sistemò
nello zaino con il suo equipaggiamento, dal quale estrasse un materassino
di gomma e una coperta mimetica da buttarsi addosso. In ultimo, vennero
il fucile e il binocolo. Fece con calma... la copertura qui era d'acciaio
forato e distendersi sopra si sarebbe rivelato subito scomodo. Prese
314
posizione e si coprì con il telo mimetico. In pratica, si trattava di una
leggera rete da pesca ricoperta di foglie di plastica verdi che aveva lo
scopo di confondere il profilo di chi stava sotto. Poi sistemò il fucile sul
suo supporto e tirò fuori il binocolo rivestito di plastica verde. Il
microfono della sua radio personale gli penzolava davanti alle labbra.
«Tiratore Due-Uno a comandante.»
«Qui è Six», rispose Clark.
«Tiratore Due-Uno in posizione, Six. Qui ho un buon osservatorio.
Riesco a vedere tutto il tetto del castello, le porte dell'ascensore e della
scala. Buona visuale anche sul retro. Un posto non male, signore.»
«Bene. Tienici informati.»
«Ricevuto, comandante. Chiudo.» Il sergente Johnston si appoggiò sui
gomiti e osservò la zona con il suo binocolo 7x50. Il sole era caldo.
Avrebbe dovuto abituarcisi. Johnston pensò per un attimo e afferrò la
borraccia. Proprio in quel momento il vagoncino che l'aveva portato su
proseguì lentamente per poi scomparire dalla vista. Sentì le ruote d'acciaio
sopra di lui scorrere lungo i tubi metallici e si chiese cosa si provasse a
fare il giro completo dell'impianto. Probabilmente qualcosa di simile al
lancio in caduta libera, una cosa che sapeva fare, ma che non gli andava
particolarmente a genio, nonostante l'addestramento che aveva seguito.
C'era qualcosa di piacevole nell'avere i tuoi fottuti piedi sulla fottuta terra,
e non si poteva sparare con un fucile precipitando nell'aria a 130 nodi.
Puntò il binocolo contro una finestra. .. erano diritte alla base ma alla
sommità curvavano a punta, come in un vero castello, e avevano vetri a
mosaico. Forse difficili da centrare con una pallottola, pensò, anche se
sparare con quest'angolazione non sarebbe stato semplice. Se avesse
sparato, avrebbe dovuto farlo a qualcuno all'esterno. Si posizionò dietro il
mirino telescopico del fucile e premette il pulsante del telemetro laser,
scegliendo come punto di mira il centro del cortile. Poi digitò alcuni
numeri sul calcolatore per tenere conto dell'abbassamento della traiettoria
del proiettile, ne ricavò la correzione da applicare, e la impostò ruotando
del numero giusto di scatti il pomello dell'elevazione posto sul mirino. La
distanza in linea retta era di 389 metri. Piuttosto vicino, se doveva sparare
un colpo.
«Sì, ministro», disse il dottor Bellow. Era seduto in una comoda
poltrona, quella di Mike Dennis, e osservava la parete. C'erano ora un
paio di fotografie da guardare... erano degli sconosciuti, perché Tim
315
Noonan non li aveva nel suo computer e né la polizia francese né quella
spagnola erano riuscite ad accoppiare a loro un nome con collegata una
storia. Entrambi avevano appartamenti ad alcuni chilometri di distanza
che ora la polizia stava mettendo completamente sottosopra, verificando
anche le registrazioni telefoniche, per vedere dove avevano chiamato.
«Vogliono libero questo Sciacallo?» domandò il ministro della
Giustizia francese.
«Insieme a qualcun altro, ma lui sembra essere il loro obiettivo
principale.»
«Il mio governo non tratterà con questi individui!» insistette il ministro.
«Sì, signore, lo capisco. Consegnare i prigionieri non è in generale
un'opzione, ma ogni situazione è diversa e devo sapere quale margine, se
c'è, lei mi darà come posizione negoziale. Ciò potrebbe includere la
possibilità di prendere questo Sanchez dalla prigione e portarlo qui
come... esca per i criminali che abbiamo circondato.»
«Lo consiglia?» domandò il ministro.
«Non ne sono ancora sicuro. Non ho parlato con loro e finché non lo
faccio non posso farmi un'idea di ciò che sono. Per il momento, devo
presumere di trattare con persone seriamente intenzionate a uccidere gli
ostaggi.»
«Bambini?»
«Sì, ministro, dobbiamo considerarla una minaccia reale», gli confermò
il dottore, provocando un silenzio che durò una buona decina di secondi.
«Devo considerare la faccenda. La richiamo più tardi.»
«Grazie, signore.» Bellow riattaccò il telefono e guardò verso Clark.
«Allora?»
«Allora, non sanno che fare. Nemmeno io, per ora. Guardi, John, qui ci
troviamo davanti a un bel numero di incognite. Non sappiamo molto di
questi terroristi. Nessuna motivazione religiosa, non sono fondamentalisti
islamici. Quindi non posso usare contro di loro la religione o Dio o l'etica.
Se sono marxisti ideologizzati, si comporteranno da bastardi spietati.
Finora non sono stati molto loquaci. Se non riesco a contattarli, non ho
niente di concreto.»
«Allora, qual è il nostro gioco?»
«Per cominciare, mettiamoli al buio.»
Clark si voltò: «Signor Dennis?»
«Sì?»
316
«Possiamo togliere l'elettricità al castello?»
«Sì», rispose il tecnico del parco al posto del suo principale.
«Lo facciamo, dottore?» John domandò a Bellow, ottenendo un cenno
d'assenso. «Bene, staccate immediatamente la spina.»
«D'accordo.» Il tecnico si sedette a un terminale e azionò il computer
per selezionare il programma di controllo della potenza. Nel giro di pochi
secondi, isolò il castello e cliccò sul tasto per togliergli l'elettricità.
«Vediamo quanto ci vuole», disse tranquillo Bellow.
Ci vollero cinque secondi. Il telefono di Dennis squillò.
«Sì?» rispose il direttore del parco nel vivavoce.
«Perché l'ha fatto?»
«Che cosa vuol dire?»
«Sa cosa voglio dire. Le luci si sono spente.»
Il dottor Bellow si chinò sul vivavoce. «Sono il dottor Bellow. Con chi
parlo?»
«Sono Uno. Tengo sotto controllo Worldpark. Chi è lei?»
«Mi chiamo Paul Bellow e mi è stato chiesto di parlare con lei.»
«Ah, è il negoziatore, allora. Ottimo. Riaccenda subito le luci.»
«Prima di farlo», disse con calma Bellow, «vorrei sapere chi siete. Lei
sa il mio nome ma io non so il suo.»
«Gliel'ho detto. Sono Uno. Mi chiamerà signor Uno», rispose
pacatamente la voce, senza ombra d'agitazione o di rabbia.
«D'accordo, signor Uno, se insiste, mi può chiamare Paul.»
«Ci ridia l'elettricità, Paul.»
«Che cosa farà in cambio di questo, signor Uno?»
«In cambio di ciò mi asterrò dall'uccidere un bambino... per il
momento.»
«Dalla voce non mi sembra un barbaro, signor Uno, e togliere la vita a
un bimbo è un atto barbarico... e anche un atto che renderà la vostra
posizione più difficile, non più facile.»
«Paul, le ho detto ciò che voglio. Lo faccia immediatamente.» La linea
s'interruppe.
«Oh, cazzo», esclamò con un sospiro Bellow. «Conosce il copione.»
«Male?»
Bellow annuì. «Male. Sa ciò che stiamo cercando di fare, da parte mia,
voglio dire.»
317
«André», chiamò René dalla scrivania. «Scegli un bambino.» L'aveva
già fatto e indicò la piccola olandese, Anna, nella sua sedia a rotelle, con
indosso il distintivo dell'ingresso speciale. René mostrò con un cenno la
sua approvazione. Allora, a parlare con lui dall'altra parte c'era un medico.
Il nome Paul Bellow non gli diceva nulla, ma quell'uomo sarà stato uno
psichiatra spagnolo, forse uno esperto o perlomeno addestrato nelle
trattative. Il suo compito sarebbe stato d'indebolire la loro determinazione,
infine di farli arrendere e così condannarli a passare il resto dei loro giorni
in prigione. Era da vedere. René guardò l'orologio e decise di attendere
dieci minuti.
Malloy tirò indietro lentamente il comando del passo ciclico,
richiamando l'elicottero per atterrare dov'era parcheggiata l'autocisterna.
C'erano cinque soldati e uno di loro faceva cenni con segnalatori di
plastica arancione. Dopo pochi secondi, il Night Hawk atterrò. Malloy
spense i motori e osservò il rotore rallentare mentre il sergente Nance
apriva il portello laterale e saltava fuori.
«Tempo per un po' di riposo per l'equipaggio?» chiese sull'interfono il
sottotenente Harrison.
«Giusto», riconobbe con un sospiro Malloy, aprendo la portiera di
destra per scendere. Camminò verso quello che sembrava un ufficiale in
piedi a pochi metri di distanza, e rispose al suo saluto. Malloy aveva una
richiesta urgente da fare.
«Tutto starà nell'avvicinarci abbastanza», disse Covington.
«Sì», annuì Chavez. Ora si erano portati, facendo attenzione, sull'altro
lato del castello. Riuscivano a sentire dietro di sé girare il Bombardiere in
Picchiata. Non c'erano meno di quaranta metri di terreno aperto
tutt'intorno al castello, senza dubbio studiato dall'architetto del parco per
dare alla struttura la dovuta importanza. L'effetto era stato ottenuto, ma
non concedeva a Ding e Peter molto margine di manovra. Entrambi si
misero a esaminare ogni cosa, dai ruscelli artificiali ai ponti che li
scavalcavano. Riuscivano a vedere le finestre del centro di comando dove
si trovavano i terroristi e la visuale era davvero maledettamente buona,
mettendo in secondo piano le difficoltà di correre su per le scale interne...
che erano probabilmente controllate da uomini armati.
318
«Non ci rendono la vita facile», osservò Covington.
«Non è nei loro programmi.»
«Come sta andando la ricognizione?» domandò Clark sul circuito radio
criptato.
«Quasi terminata, Mr. C», rispose Chavez. «È arrivato Malloy?»
«Appena atterrato.»
«Avremo bisogno di lui se dovremo entrare.» «Due gruppi, in alto e in
basso», aggiunse Covington. «Ma ci serve sapere com'è quel locale.»
L'ufficiale spagnolo, un maggiore dell'esercito, fece subito un cenno di
assenso con la testa e segnalò a gesti agli uomini presenti nell'hangar per
elicotteri di avvicinarsi a lui. Accorsero a prendere ordini e tornarono
indietro. Fatto ciò, anche Malloy si diresse verso l'hangar. Gli serviva una
toilette. Vide che il sergente Nance stava avvicinandosi con due thermos.
Bravo, pensò il marine, sapeva quanto importante fosse il caffè in un
momento come questo.
«Quella telecamera è fuori uso. Le hanno sparato», osservò Dennis.
«Abbiamo un nastro che ce lo mostra.»
«Vorrei vederlo», ordinò Noonan.
La disposizione della sala non era dissimile da quella in cui si trovava,
notò Tini Noonan nei cinquanta secondi di nastro disponibili. I bambini
erano stati ammassati nell'angolo opposto alla telecamera. Forse ci
sarebbero anche rimasti. Non era molto, ma era qualcosa. «Qualcos'altro?
Sistemi audio nel locale, un microfono o qualcosa?»
«No», rispose Dennis. «Abbiamo i telefoni per quello.»
«Ho capito.» L'agente dell'FBI fece un cenno rassegnato con il capo.
«Allora devo trovare il modo di piazzare le telecamere.» Proprio in quel
momento squillò il telefono.
«Sì, parla Paul», disse subito Bellow.
«Pronto, Paul, sono Uno. Le luci rimangono spente. Le ho detto di
ripristinare la corrente. Non è stato fatto. Glielo dico di nuovo, lo faccia
subito.»
«Ci stiamo lavorando, ma qui la polizia sta annaspando un po'.»
«E non c'è nessuno del parco ad aiutarvi? Non sono stupido, Paul. Lo
ripeto per l'ultima volta, ripristini la corrente immediatamente.»
«Signor Uno, ci stiamo lavorando. Per favore, abbia un po' di pazienza
319
con noi, d'accordo?» Bellow cominciò a sudare all'improvviso, e anche se
capiva il perché, sperava di sbagliarsi.
«André», disse René, pronunciando il nome per errore prima
d'interrompere la comunicazione.
L'ex guardia del parco si avvicinò all'angolo. «Ciao, Anna. Penso sia
arrivato il momento di tornare dalla mamma.»
«Eh?» domandò la bimba. Aveva occhi blu e capelli castani chiari, di
fatto quasi biondi, anche se la pelle aveva l'aspetto pallido, delicato della
pergamena. Era molto triste. André andò dietro la carrozzella,
afferrandone le maniglie e spingendola verso la porta. «Usciamo, mon
petit chou», disse mentre attraversavano la porta.
L'ascensore all'esterno aveva un impianto autonomo per cui, anche
senza elettricità, poteva scendere con l'energia delle batterie. André spinse
dentro la sedia, liberò il pulsante rosso dell'arresto d'emergenza in
precedenza inserito e premette il pulsante 1. Le porte si chiusero
lentamente e l'ascensore cominciò a scendere. Dopo un minuto, le porte si
aprirono. Il castello aveva un largo corridoio di attraversamento che
permetteva alla gente di passare da una parte di Worldpark all'altra, con
un mosaico che copriva le pareti ad arco. Spirava anche una piacevole
brezza da ovest e il francese vi spinse Anna contro.
«Che cos'è?» domandò Noonan, guardando uno dei monitor. «John,
qualcuno sta uscendo.»
«Comandante, qui tiratore Due-Uno, vedo qualcuno che spinge una
sedia a rotelle con sopra una bambina, esce dal lato ovest del castello.»
Johnston depose il binocolo e prese il fucile, centrando il reticolo sulla
terapia dell'uomo e sfiorando con il dito il grilletto. «Tiratore Due-Uno sul
bersaglio, ora.»
«Non sparare», fu la risposta di Clark. «Ripeto, non sparare.
Confermare.»
«Ricevuto, Six.» Il sergente Johnston tolse il dito dal grilletto. Che cosa
stava succedendo?
«Bastardo», esclamò Covington. Erano a soli quaranta metri di distanza.
Lui e Chavez li vedevano bene. La bimba appariva malata oltre che
terrorizzata; era reclinata sulla sinistra della sedia, cercando di guardare in
su e indietro verso il tizio che la spingeva. Secondo loro, l'uomo era sulla
quarantina, con i baffi ma senza barba, di altezza, peso e costituzione
320
normali, con occhi scuri da cui non trapelava nulla. Il parco era così
tranquillo ora, così deserto che riuscivano a sentire lo stridore delle ruote
di gomma sulle pietre del cortile.
«Dov'è la mamma?» chiese Anna nell'inglese che aveva imparato a
scuola.
«La vedrai tra un attimo», promise Nove. La spinse lungo la strada
d'accesso del castello, che girava intorno a una statua, descriveva una
curva leggermente in salita in senso orario, poi conduceva giù nel cortile.
Fermò la sedia a metà percorso.
André si guardò attorno. C'erano di sicuro dei poliziotti lì, ma non vide
alcun movimento, tranne i vagoncini sul Bombardiere in Picchiata, che
non aveva bisogno di guardare tanto gli era familiare il loro rumore. Era
davvero un peccato. Nove mise la mano nella cintura, estrasse la pistola
e...
«... Pistola, ha tirato fuori una pistola!» riferì subito Johnston. «Oh,
cazzo, sta per...»
... L'arma fece fuoco nella schiena di Anna, trapassandole il cuore. Un
fiotto di sangue apparve sul petto della bimba, la cui testa cadde in avanti.
Proprio allora, l'uomo spinse le sedia a rotelle che corse giù per la strada
in curva, carambolando contro la parete di pietra per poi continuare la
discesa fino al cortile in piano, dove alla fine si fermò.
Covington prese la sua Beretta e fece per alzarla. Non sarebbe stato un
colpo facile, ma aveva nove colpi nella pistola e bastavano, ma...
«Non sparare!» tuonò l'auricolare della radio. «Non sparare!» ordinò
Clark.
«Cazzo!» gridò Chavez vicino a Peter Covington.
«Ricevuto», confermò l'inglese. Ripose la pistola nella fondina,
osservando l'uomo che si voltava e ritornava al sicuro nel castello di
pietra.
«Sono sul bersaglio, tiratore Due-Uno sul bersaglio!», annunciò la voce
di Johnston.
«Non sparare. Qui è Six, non sparare, dannazione!»
«Cazzo!» ringhiò Clark nel centro di comando. Picchiò con forza il
pugno sul tavolo. «Cazzo!» Poi squillò il telefono.
«Sì?» rispose Bellow, sedendosi vicino al comandante di Rainbow.
321
«L'avevo avvisata. Ridateci la corrente o ne uccideremo un altro»,
ribadì Uno.
15
CAPPELLI BIANCHI
«Non c'era niente che avremmo potuto fare, John. Niente», disse
Bellow, dando voce a parole che gli altri non ebbero il coraggio di
pronunciare.
«E ora?» domandò Clark.
«Ora penso che gli ridaremo la corrente.»
Mentre osservavano i monitor, tre uomini corsero verso la bandiera.
Due avevano il tricornio della Guardia Civil. Il terzo era il dottor Hector
Weiler.
Chavez e Covington osservarono la stessa scena da una posizione più
ravvicinata. Weiler indossava un camice bianco, la normale divisa dei
medici, e la sua corsa per raggiungere la bambina terminò all'improvviso
quando toccò il corpo caldo ma immobile. Il crollo delle sue spalle fu
eloquente, anche da cinquanta metri di distanza. La pallottola le aveva
trapassato il cuore. Disse qualcosa ai poliziotti, e uno di loro spinse la
sedia a rotelle giù e fuori dal cortile, passando di fianco ai due uomini di
Rainbow.
«Aspetti, dottore!» gridò Chavez, avvicinandosi per vedere. In quel
momento Ding ricordò che sua moglie portava una nuova vita in grembo,
che anche ora forse si muoveva e scalciava mentre Patsy era seduta in
soggiorno, a guardare la tv o a leggere un libro. Il viso della bambina era
rilassato, come se stesse dormendo, e lui non poté fare a meno di sfiorarle
con la mano i capelli morbidi. «Che cosa aveva, dottore?»
«Era molto malata, probabilmente terminale. In ufficio, devo avere una
cartella su di lei. Quando questi bambini arrivano qui, ricevo un riepilogo
delle loro condizioni nel caso dovesse verificarsi un'emergenza.» Il
medico si morse il labbro e alzò lo sguardo. Con tutta probabilità stava
morendo, ma non era ancora morta, non ancora del tutto senza speranze.
Weiler era figlio di madre spagnola e padre tedesco emigrato in Spagna
dopo la seconda guerra mondiale. Aveva studiato sodo per diventare
medico e chirurgo e questo atto indegno, l'assassinio di una bambina, era
322
la negazione di tutto ciò. Qualcuno aveva deciso di rendere vana tutta la
sua preparazione e i suoi studi. Non aveva mai conosciuto la rabbia, ma
ora la conobbe. «Li ucciderete?»
Chavez rialzò lo sguardo. Non c'erano lacrime nei suoi occhi. Forse
arriveranno più tardi, pensò Domingo Chavez, con la mano ancora sulla
testa della bambina. I suoi capelli non erano molto lunghi e lui non sapeva
che erano ricresciuti dopo l'ultimo ciclo di cure chemioterapiche. Sapeva
invece che avrebbe dovuto essere viva e che, osservando la sua morte,
aveva mancato di fare ciò a cui aveva dedicato tutta la vita. «Sì», replicò
al dottore. «Li uccideremo. Peter?» Si rivolse al collega, e insieme
accompagnarono gli altri nell'ufficio del dottore. Si incamminarono
lentamente. Ora non c'era ragione di correre.
Così va bene, pensò Malloy, verificando la vernice ancora fresca sul
fianco del Night Hawk. POLICIA, diceva la scritta. «Pronto, Harrison?»
«Sì, signore. Sergente Nance, è ora di muoversi.»
«Sissignore.» Il sottufficiale salì a bordo, si allacciò la cintura di
sicurezza e osservò il pilota mentre eseguiva la sequenza della messa in
moto. «Tutto a posto dietro», comunicò nell'interfono, dopo essersi sporto
per controllare. «Rotore di coda libero, colonnello.»
«È ora di volare.» Malloy diede potenza con il comando del passo
collettivo e fece decollare il Night Hawk. Poi premette i tasti della radio
tattica. «Rainbow, qui è Bear, passo.»
«Bear, qui è Rainbow Six, ricevo forte e chiaro, passo.»
«Bear in volo, signore, arrivo previsto in sette minuti.»
«Ricevuto, orbitare in zona fino a contrordine.»
«Ricevuto, signore. Segnalerò quando cominciamo a orbitare. Chiudo.»
Non c'era particolare fretta. Malloy mise giù il muso e si diresse
nell'oscurità crescente. Il sole ormai era quasi tramontato e le luci del
parco si stavano accendendo in lontananza.
«Chi è?» domandò Chavez.
«Francisco de la Cruz», rispose l'uomo. Aveva la gamba fasciata e
un'espressione sofferente.
«Ah, sì, l'abbiamo vista sul nastro registrato», osservò Covington. Vide
nell'angolo la spada e lo scudo e si girò per dimostrare con un cenno il
proprio rispetto a quell'uomo seduto. Peter sollevò la spatha e la soppesò
323
per un attimo. A distanza ravvicinata doveva essere davvero formidabile,
non pari alla sua MP-10, ma comunque un'arma che doveva dare molta
soddisfazione.
«Hanno ucciso una bambina?» domandò de la Cruz.
Il dottor Weiler era davanti al suo archivio. «Anna Groot, dieci anni e
mezzo», precisò, leggendo i documenti della piccola ricevuti in
precedenza. «Osteosarcoma metastatico, malata terminale... ancora sei
settimane, dice qui il suo medico. Osteo, brutto male.» Contro la parete, i
due poliziotti spagnoli sollevarono il corpo dalla sedia e lo distesero
delicatamente sul tavolo, poi lo coprirono con un lenzuolo. Uno sembrava
sul punto di piangere, frenato solo dalla rabbia che gli faceva tremare le
mani.
«John deve sentirsi di merda in questo momento», osservò Chavez.
«Doveva farlo, Ding. Non era il momento giusto per entrare in
azione...»
«Lo so, Peter! Ma come cazzo facciamo a dirlo a lei?» Fece una pausa.
«Dottore, c'è del caffè?»
«Là», indicò Weiler.
Chavez andò al distributore e si versò un po' di caffè in un bicchiere in
Styrofoam. «Sopra e sotto, li circondiamo come se fossero un hamburger
dentro un sandwich?»
Covington annuì. «Sì, penso di sì.»
Chavez vuotò il bicchiere e lo gettò nel cestino. «Andiamo a
prepararci.» Lasciarono l'ufficio senza dire altro e s'incamminarono
nell'ombra verso il sotterraneo e da lì al centro di controllo secondario.
«Tiratore Due-Uno, novità?» stava chiedendo Clark quando entrarono.
«Negativo, Six, nulla tranne ombre alle finestre. Non hanno ancora
piazzato nessuno sul tetto ed è un po' strano.»
«Hanno abbastanza fiducia nella loro copertura tv», intervenne Noonan.
Aveva davanti a sé i disegni del castello. «Supponiamo che tutti i nostri
amici siano qui... ma c'è una dozzina di altre stanze su tre livelli.»
«Qui Bear», si udì al vivavoce che Clark aveva predisposto. «Sto
orbitando ora. Che cosa devo sapere, passo?»
«Bear, qui parla Six», rispose Clark. «Gli obiettivi sono tutti nel
castello. C'è un centro di controllo al secondo piano. Tra le varie ipotesi,
la più attendibile è che ora siano tutti lì. Inoltre, gli obiettivi hanno ucciso
un ostaggio... una bambina», aggiunse John.
324
Alla notizia, nell'elicottero, la testa di Malloy rimase immobile.
«Ricevuto, Six, orbiteremo e osserveremo. A bordo abbiamo tutto
l'equipaggiamento per l'operazione, passo.»
«Ricevuto. Chiudo.» Clark tolse il dito dal pulsante di trasmissione.
Chavez vide che gli uomini erano tranquilli, ma avevano un'espressione
intensa. Troppo professionali per palesare i propri sentimenti... nessuno
giocava con la propria arma o faceva qualcosa di simile come nei film di
Hollywood... eppure i loro visi erano pietrificati, solo gli occhi si
muovevano avanti e indietro sulle carte o guizzavano da un monitor
all'altro. Doveva essere stato durissimo per Homer Johnston, pensò Ding.
Aveva sotto tiro quello stronzo quando aveva colpito la bambina. Homer
aveva dei figli e per lui sarebbe stato facile come un batter di ciglia
mandare quel terrorista all'altro mondo... no, non sarebbe stata una mossa
intelligente e loro erano pagati per essere intelligenti. Gli uomini non
sarebbero nemmeno stati pronti per un assalto improvvisato, e qualunque
azione non programmata avrebbe solo fatto uccidere altri bambini, e
nemmeno questa era la loro missione. Poi squillò un telefono. Rispose
Bellow, premendo il pulsante del vivavoce.
«Sì?» disse il dottore.
«Ci spiace per l'incidente della bambina, ma doveva comunque morire
presto. Ora, quando verranno liberati i nostri amici?»
«Non abbiamo ancora notizie da Parigi», replicò Bellow.
«Allora, mi spiace dirlo, vi sarà tra breve un altro incidente.»
«Signor Uno, non posso forzare Parigi a fare nulla. Stiamo negoziando
con funzionali governativi, ma ci vuole tempo. I governi non si muovono
mai alla svelta.»
«Allora li aiuterò io. Dica a Parigi che se l'aereo che porta i nostri amici
non è pronto per farci salire a bordo entro un'ora, uccideremo un ostaggio
e poi un altro ogni ora, fino a quando non verranno soddisfatte le nostre
richieste», disse la voce, completamente priva di qualsiasi emozione.
«Sia ragionevole: anche se li facessero uscire tutti dalle loro prigioni
ora, ci vorrebbero almeno due ore per portarli qui. I suoi desideri non
possono far volare un aereo più veloce.»
Ci fu una pausa di riflessione. «Sì, è vero. Molto bene, cominceremo a
uccidere gli ostaggi fra tre ore a partire da adesso... no, inizierò il conto
alla rovescia allo scadere dell'ora. Ciò vi da altri dodici minuti. Sarò
generoso. Ha capito?»
325
«Sì, dice che ucciderà un altro bambino alle 22.00, e poi un altro ogni
ora.»
«Si accerti che Parigi capisca.» E la linea s'interruppe.
«Allora?» domandò Clark.
«John, non ha bisogno di me. È maledettamente chiaro che lo faranno.
Hanno ucciso il primo per dimostrarci chi sono e chi comanda. Il loro
piano è di riuscire, a qualunque costo. La concessione che ha appena fatto
può essere l'ultima che avremo.»
«Che cos'è?» domandò Esteban. Andò alla finestra a vedere. «Un
elicottero!»
«Ah!» esclamò René. Le finestre erano così piccole che dovette spostare
di lato il basco. «Sì, vedo che la polizia li ha e pure grandi», aggiunse con
una scrollata di spalle. «Non è una sorpresa. José, va' sul tetto con una
radio e tienici informati.»
Uno dei terroristi annuì e si diresse verso la scala antincendio.
L'ascensore sarebbe stato meglio, ma non voleva ritrovarsi nei guai in
caso di un'altra mancanza di corrente.
«Qui tiratore Due-Uno», chiamò dopo un minuto Johnston.
«Tiratore Due-Uno, qui è Six.»
«Vedo l'individuo sul tetto del castello, un uomo, armato con qualcosa
che sembra un Uzi, e anche una radio. Solo uno, nessun altro si è aggiunto
per il momento.»
«Ricevuto, tiratore Due-Uno.»
«Non è quello che ha ucciso la bambina», aggiunse il sergente.
«Okay, grazie.»
«Anche il tiratore Tré-Uno l'ha sotto tiro... è appena passato dalla mia
parte. Sta gironzolando... esamina il bordo del tetto, guarda giù.»
«John?» Era il maggiore Covington.
«Sì, Peter?»
«Non stiamo mostrando loro abbastanza.»
«Che cosa vuoi dire?»
«Diamo loro qualcosa da guardare. Poliziotti, un cordone di sicurezza.
Se non vedono movimenti, si chiederanno cosa succede che loro non
possono vedere.»
«Buona idea», rispose Noonan.
326
A Clark piacque. «Colonnello?»
«Sì», replicò Nuncio. Si allungò sulla tavola. «Propongo due uomini,
qui, altri due qui... qui... qui.»
«Sì, ordini che lo facciano subito.»
«René», chiamò André dalla sua posizione davanti a uno schermo tv.
Indicò con il dito. «Guarda.»
C'erano due poliziotti della Guardia Civil che si muovevano
lentamente, cercando di non farsi vedere mentre si avvicinavano lungo la
Strada Espana verso un punto a cinquanta metri dal castello. René fece un
cenno e afferrò la radio. «Tre!»
«Sì, Uno.»
«La polizia si sta avvicinando al castello. Tienili d'occhio.»
«Va bene, Uno», confermò Esteban,
«Stanno usando la radio», annunciò Noonan, verificando il suo scanner.
«Walkie-talkie GB, di tipo commerciale, sintonizzati sul canale 16. Ci va
liscio come l'olio.»
«Nessun nome, solo numeri?» domandò Chavez.
«Finora. Il nostro punto di contatto si fa chiamare Uno e questo è Tre.
Ci dice qualcosa?»
«Giocano con la radio», osservò il dottor Bellow. «Come da copione.
Cercano di tenerci segrete le loro identità, ma anche questo è nel
copione.» Le due foto segnaletiche erano state mandate da tempo in
Francia per l'identificazione, ma sia la polizia sia i servizi d'intelligence
non erano venuti a capo di nulla.
«D'accordo, i francesi tratteranno?»
Scosse la testa. «Non penso. Il ministro, quando gli ho detto della
bambina olandese, si è limitato a un grugnito e a dire che Carlos resta al
fresco a qualunque costo; si aspetta che noi risolviamo la situazione,
altrimenti il suo governo manderà una sua squadra speciale.»
«Dobbiamo avere un piano ed essere pronti a muoverci... per le 22.00.»
«Ameno che non voglia vederli uccidere un altro ostaggio», osservò
Bellow. «Mi stanno impedendo di condizionarne il comportamento.
Conoscono le regole del gioco.»
«Professionisti?»
Bellow scrollò le spalle. «Può darsi. Sanno ciò che ho intenzione di
327
tentare e se lo sanno in anticipo, sanno anche come reagire.»
«Nessuna possibilità di ridurre l'aggressività del loro comportamento?»
domandò Clark, alla ricerca di indicazioni precise.
«Posso provarci, ma è probabile di no. I pazzi esaltati, quelli che hanno
un'idea chiara di ciò che vogliono... è difficile ragionare con loro. Non
possiedono una base etica su cui far leva, nessuna moralità nel senso
normale, nulla che io possa utilizzare contro di loro. Nessuna coscienza.»
«Sì, l'abbiamo visto.» John si alzò rivolgendosi ai suoi due comandanti
in sottordine. «Avete due ore per studiare il piano e un'altra per metterlo
in atto. Andiamo alle 22.00.»
«Dobbiamo saperne di più su ciò che sta avvenendo all'interno», disse
Covington a Clark.
«Noonan, che cosa riesci a fare?»
L'agente dell'FBI guardò i disegni, poi i monitor. «Devo cambiarmi»,
precisò, dirigendosi verso la grossa borsa con il suo equipaggiamento e
tirando fuori la tuta mimetica notturna. La cosa più bella che aveva visto
finora era che le finestre del castello creavano due zone d'ombra. Ancora
meglio, riuscivano a controllare le luci che diffondevano energia in
entrambi quei settori. Raggiunse poi il tecnico del parco. «È possibile
spegnere le luci lungo quest'area?»
«Certo. Quando?»
«Quando il tipo sul tetto guarda dall'altra parte. E ho bisogno di
qualcuno di supporto», aggiunse Noonan.
«Mi offro io», intervenne il sergente Vega, facendosi avanti.
I bambini stavano piagnucolando. Avevano cominciato due ore prima e
la cosa stava peggiorando. Volevano da mangiare... qualcosa che gli adulti
non avrebbero probabilmente domandato, dato che sarebbero stati troppo
spaventati per mangiare, ma i bambini erano diversi. Avevano anche
urgente necessità di andare al bagno; c'erano due gabinetti vicino alla sala
di controllo e gli uomini di René non impedirono la processione. I bagni
non avevano finestre, telefoni o altro che rendesse possibile fuggire o
comunicare, e non valeva la pena esasperare la situazione avendo bambini
che se la facevano addosso. I piccoli non parlavano direttamente a
nessuno dei suoi, ma il lamento era costante e crescente. Ragazzini bene
educati, altrimenti sarebbe stato peggio, disse tra sé René. Guardò
l'orologio a parete.
328
«Tre, qui è Uno.»
«Sì, Uno», giunse la risposta.
«Cosa vedi?»
«Otto poliziotti, quattro coppie, ci osservano, non fanno nient'altro che
osservarci.»
«Prendi nota dell'ora», disse Noonan. Aveva guardato l'orologio a
parete. Era passata una quindicina di minuti dall'ultima comunicazione
radio. Ora aveva indosso la sua uniforme mimetica notturna, la tuta verde
a due tonalità utilizzata a Vienna. Aveva la Beretta calibro 45 automatica,
con silenziatore, in una speciale fondina ascellare sopra il giubbotto
antiproiettile, e uno zaino appeso a una spalla. «Vega, sei pronto a fare
una passeggiatina?»
«Puoi scommetterci», rispose Oso, felice di fare finalmente qualcosa
durante l'operazione. Per quanto gli piacesse la responsabilità della
mitragliatrice M-60, non l'aveva ancora utilizzata e, probabilmente, non
l'avrebbe mai fatto. L'uomo più robusto e massiccio del team, aveva
l'hobby del sollevamento pesi e un torace largo quasi quanto un mezzo
barilotto di birra. Vega seguì Noonan fuori dalla porta, poi all'esterno.
«E la scala?» domandò il sergente.
«Negozio di attrezzi e vernici a cinquanta metri da dove stiamo
andando. Ho già chiesto. Hanno ciò che ci serve.»
«Molto bene», rispose Oso.
Camminarono svelti, evitando alcune zone scoperte visibili dalle
telecamere; il negozio non aveva alcuna insegna. Nessuna delle porte,
stranamente, era chiusa a chiave. Vega prese una scala estensibile da dieci
metri. «Questa dovrebbe andar bene.»
«Già.» Uscirono. I movimenti sarebbero stati ora più accorti. «Noonan a
comandante.»
«Qui Six.»
«Procedi con le telecamere, John.»
Nella sala di controllo principale, Clark fece cenno al tecnico del parco.
I due centri di comando disponevano solo di otto monitor, collegati via
cavo a oltre quaranta telecamere. Era possibile far sì che il computer
passasse dall'una all'altra con una sequenza automatica oppure selezionare
le telecamere. Cliccando sul mouse, una telecamera fu disabilitata. Se i
terroristi stavano utilizzando la sequenza automatica, come sembrava
329
probabile, forse non avrebbero notato che mancava la ripresa di una
postazione. Dovevano attraversare la zona monitorata da due di esse e il
tecnico del parco fu pronto a spegnerle e a riaccenderle secondo la
necessità. Nel momento in cui una mano apparve nell'inquadratura della
telecamera 23, il tecnico la escluse.
«La 23 è esclusa, Noonan.»
«Ci muoviamo», comunicò questi. Il primo tratto fu di venti metri e si
fermarono dietro un chiosco. «Ci troviamo presso i pop-corn.»
Il tecnico riattivò la 23 e poi spense la 21.
«21 spenta», disse Clark. «Tiratore Due-Uno, dove si trova quello sul
tetto?»
«Lato ovest, si è appena acceso una sigaretta, non guarda più giù. Per il
momento è fermo», riferì il sergente Johnston.
«Noonan, puoi andare.»
«Mi sposto ora», rispose l'agente dell'FBI. Lui e Vega si mossero
rapidamente sulle lastre di pietra, senza far rumore, grazie alle calzature
speciali con le suole di gomma. Sul lato del castello c'erano un sentiero in
terra battuta largo un paio di metri e alcuni grossi cespugli. Facendo
attenzione, Noonan e Vega inclinarono la scala, piazzandola dietro un
cespuglio. Vega tirò la corda per estenderne la parte superiore, fermandola
proprio sotto la finestra. Poi si mise tra la scala e l'edificio, afferrò i
gradini e li tenne saldi, spingendo la scala contro i blocchi di pietra
ruvida.
«Attento al culo, Tim», sussurrò Oso. «Sempre.» Noonan salì svelto per
i primi tre metri, poi rallentò rannicchiato verticalmente. Pazienza, disse
tra sé Tim. Abbiamo un sacco di tempo. Era quel tipo di bugie che gli
uomini dicono a se stessi.
«Okay», sentì Clark. «Sta salendo ora sulla scala. L'uomo sul tetto è
ancora dall'altra parte, come se niente fosse.»
«Bear, qui è Six, passo», disse John, con un'altra idea.
«Bear in ascolto, Six.»
«Muoviti un po' sul lato ovest, solo per attirare l'attenzione, passo.»
«Ricevuto.»
Malloy smise di girare in circuito d'attesa, si portò in volo livellato e poi
si diresse lentamente verso il castello. Il Night Hawk per essere un
elicottero era abbastanza silenzioso ma, attraverso i visori notturni, il
colonnello si accorse che l'uomo sul tetto si voltava per osservarlo. Si
330
fermò a circa duecento metri. Voleva attirare la loro attenzione, non
spaventarli. La sigaretta della sentinella sul tetto brillò nei visori.
«Di' ciao, tesoro», disse Malloy all'interfono. «Accidenti, se fossi in un
Night Stalker, riuscirei a spargere i frammenti del tuo culo nel prossimo
fuso orario.»
«Piloti lo Stalker? Com'è?»
«Se sapesse cucinare, me lo sposerei. L'elicottero più docile mai
costruito», sottolineò Malloy, volando a punto fisso. «Six, qui Bear, ho
attirato l'attenzione di quel bastardo.»
«Noonan, abbiamo bloccato la sentinella sul tetto per te. È sul lato
opposto al tuo.»
Bene, pensò Noonan. Si tolse il casco in Kevlar e avvicinò lentamente il
viso alla finestra. Era fatta di segmenti irregolari tenuti in posizione da
strisce di piombo, proprio come nei castelli di una volta. Il vetro non era
bello come quello a lastra grossa, ma era trasparente. Mise la mano nello
zaino e tirò fuori un sottile cavo a fibre ottiche con lo stesso tipo di
obiettivo miniaturizzato usato a Berna.
«Noonan a comandante, la ricevete?»
«Affermativo.» Era la voce di David Peled. L'immagine che vedeva era
leggermente distorta. Mostrava quattro adulti, ma quel che era più
importante, anche un gruppo di bambini seduti sul pavimento nell'angolo,
vicino a due porte con le targhette... toilette, riuscì a leggere Peled.
Funzionava. «Sembra buona, Timothy. Sembra molto buona.»
«Bene» Noonan fissò il piccolo dispositivo di ripresa al vetro e scese
dalla scala. Il cuore gli batteva più forte di quanto avesse mai fatto durante
la corsa di cinque chilometri al mattino. In basso, lui e Vega si
appiattirono contro il muro.
Johnston vide che la sigaretta volava giù dal tetto e che la sentinella si
era stancata di osservare l'elicottero.
«Il nostro amico si sta spostando a est sul tetto del castello. Noonan,
viene dalla vostra parte.»
Malloy pensò di manovrare in modo da attirare di nuovo l'attenzione,
ma era un gioco troppo pericoloso. Virò a destra e continuò a girare in
cerchio, più vicino, tenendo gli occhi fissi sul tetto del castello. L'unica
cosa che avrebbe potuto fare era estrarre la sua pistola e far fuoco, ma da
quella distanza sarebbe stato addirittura difficile colpire il castello. E
331
uccidere le persone non era il suo mestiere, purtroppo, disse tra sé Malloy.
Qualche volta trovava l'idea piuttosto attraente.
«L'elicottero mi da fastidio», disse al telefono la voce.
«Mi spiace», rispose il dottor Bellow, chiedendosi che tipo di risposta
avrebbe ricevuto. «Ma la polizia fa quello che di solito fa la polizia.»
«Notizie da Parigi?»
«No, ma speriamo di averne presto. C'è ancora tempo.» La voce di
Bellow assunse un'intensità e una profondità che sperava venisse presa per
disperazione.
«Chi ha tempo non aspetti tempo», replicò Uno, e riattaccò.
«Che cosa significa?» domandò John.
«Significa che gioca secondo le regole. Non ha nemmeno obiettato per i
poliziotti che riesce a vedere sui monitor. Sa a che cosa si deve
rassegnare.» Bellow sorseggiò il suo caffè. «Si sente molto tranquillo.
Pensa di essere al sicuro e di tenere lui le carte in mano; se dovrà uccidere
ancora dei bambini, va bene lo stesso, perché gli farà ottenere ciò che
vuole.»
«Uccidere bambini.» Clark scosse la testa. «Non pensavo...
maledizione, dovevo aspettarmelo, vero?»
«È un tabù molto forte, forse il più forte», concordò il dottor Bellow. «Il
modo con cui hanno ucciso quella bambina, però... non c'è stata
esitazione, come sparare a un bersaglio di carta. Hanno subordinato
qualunque cosa alla loro ideologia. Il nostro amico signor Uno ha scelto il
suo obiettivo, e lo persegue senza scrupoli.» Il tecnico del parco si rese
conto che il sistema tv a distanza era davvero eccezionale. La lente
dell'obiettivo incollato su una finestra del castello aveva un diametro
inferiore a due millimetri e, anche se fosse stata notata, sarebbe stata presa
per una goccia di vernice o un difetto del vetro della finestra. La qualità
dell'immagine non era molto buona, ma permetteva di localizzare le
persone e più la si guardava più si capiva ciò che all'inizio sembrava una
confusa fotografia di oggetti indefinibili. Ora si riuscivano a contare sei
adulti e, con il settimo sul tetto del castello, ne rimanevano solo tre non
visibili. E i bambini si vedevano tutti? Con loro era più difficile. Avevano
le camicie dello stesso colore e il rosso diventava un grigio molto neutro
nell'immagine in bianco e nero. C'era quello sulla sedia a rotelle, ma il
resto del gruppo si fondeva nell'immagine sfuocata. Capì che questo fatto
332
preoccupava gli uomini della squadra speciale.
«Si sta riportando a ovest», riferì Johnston. «È sul lato ovest ora.»
«Andiamo», Noonan disse a Vega.
«La scala?» L'avevano tirata giù e adagiata dietro i cespugli.
«Lasciala.» Noonan si spostò velocemente e raggiunse il chiosco in
pochi secondi. «Noonan a comandante, è il momento d'intervenire di
nuovo sulle telecamere.»
«È spenta», rispose il tecnico a Clark.
«Telecamera 21 spenta. Puoi muoverti, Tim.»
Noonan batté sulla spalla di Vega e corse per altri trenta metri. «Okay,
spegnere la 23.»
«Fatto», confermò il tecnico.
«Muoviti», ordinò Clark.
Dopo quindici secondi, erano al sicuro. Noonan si appoggiò alla parete
di un edificio e fece un lungo respiro. «Grazie, Julio.»
«Quando vuoi, amico», rispose Vega. «Basta che la minicamera
funzioni.»
«Funzionerà», promise l'agente dell'FBI, e con ciò ritornarono verso il
centro di controllo sotterraneo.
«Far esplodere le finestre? Ci riusciamo, Paddy?» stava chiedendo
Chavez quando fecero ritorno.
Connolly aveva voglia di fumare. Aveva smesso anni prima perché era
troppo complicato durante le corse giornaliere fermarsi a fumare una
sigaretta, ma in momenti come questo avrebbe potuto aiutare la
concentrazione. «Sei finestre... tre o quattro minuti l'una... no, penso di
no, signore. Posso farne due... se abbiamo il tempo.»
«Sono molto robuste, Dennis?» chiese Clark.
«Telai metallici inseriti nella pietra», rispose con un'alzata di spalle il
direttore del parco.
«Aspetti.» Il tecnico girò un foglio dei disegni del castello, poi altri due,
e poi con il dito seguì le note scritte sulla destra. «Ecco le specifiche...
sono tenute in posizione solo dalla malta. Dovreste riuscire a spingerle in
dentro con un calcio, penso.»
La parola "penso" non era rassicurante come avrebbe voluto Ding, ma
quanto poteva resistere il telaio di una finestra con un uomo di oltre
novanta chili che si dondolava contro di essa aprendosi la strada con due
333
calzature dalla suola pesante?
«Che ne dici di qualche flash-bang, Paddy?»
«Possiamo farlo», replicò Connolly. «Non farà comunque bene ai telai,
signore.»
«D'accordo», Chavez si chinò sulla mappa dell'edificio. «Avrai il tempo
di far esplodere due finestre... questa e questa.» Toccò con il dito i punti
designati. «Useremo le flash-bang sulle altre quattro e ci lanceremo dentro
dopo un secondo. Eddie qui, io qui, Louis qui. George, come va la
gamba?»
«Molto male», rispose il sergente Tomlinson con dolorosa onestà.
Avrebbe dovuto dare un calcio alla finestra, catapultarsi all'interno,
lasciarsi cadere sul pavimento di cemento, poi balzare in piedi e sparare...
ed erano in gioco le vite dei bambini. No, non poteva rischiare. «Meglio
qualcun altro, Ding.»
«Oso, pensi di farcela?» chiese Chavez.
«Sì», rispose Vega, cercando di non sorridere. «Puoi scommetterci,
Ding.»
«Scotty e Mike prendono queste due. Qual è la distanza esatta dal
tetto?»
Era riportata sui disegni. «Sedici metri dal livello del tetto. Aggiungi
altri settanta centimetri tenendo conto della merlatura.»
«Le funi possono farcela facilmente», disse convinto Eddie Price. Il
piano stava prendendo forma. Lui e Ding avrebbero avuto il compito
principale di andarsi a posizionare, sparando, tra i bambini e i terroristi,
mentre per Vega, Loiselle e McTyler il compito primario era quello di
uccidere i terroristi nel centro di controllo del castello, ma ciò sarebbe
stato deciso alla fine, solo quando fossero entrati. Il team 1 di Covington
sarebbe corso su per le scale dal sotterraneo, per intercettare eventuali
obiettivi diretti verso l'esterno e per assistere il team 2 se qualcosa fosse
andato storto durante l'assalto.
Il sergente Price e Chavez tornarono a esaminare i disegni, misurando le
distanze da coprire e il tempo necessario per farlo. Sembrava possibile,
addirittura probabile, farcela. Ding si rivolse alla sua squadra.
«Commenti?»
Noonan si voltò per guardare l'immagine trasmessa dall'apparato
miniaturizzato a fibre ottiche che aveva installato. «Sembra che stiano
soprattutto ai pannelli di controllo. Due tengono d'occhio i bambini, ma
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non se ne preoccupano... sono solo bambini, non adulti in grado di dare il
via a una vera resistenza... ma... basta che uno di questi bastardi si giri per
farli fuori.»
«Sì.» Ding annuì. Non lo si poteva negare o ignorare. «Dobbiamo
sparare alla svelta, ragazzi. C'è un modo per suddividerli?»
Bellow ci pensò un attimo. «Se dico loro che l'aereo è in arrivo... è un
rischio. Se mangiano la foglia potrebbero cominciare a eliminare degli
ostaggi, ma se pensano che è arrivata l'ora di andare all'aeroporto,
probabilmente il signor Uno manderà un paio dei suoi giù nel
sotterraneo... per loro è il modo più facile di lasciare la zona, mi sembra.
Se riusciamo a giocare ancora un po' con le telecamere, e a far avvicinare
uno dei nostri...»
«Li facciamo fuori subito», intervenne Clark. «Peter?»
«Facci arrivare a venti metri di distanza ed è un gioco da ragazzi.
Inoltre, spegniamo le luci subito prima di sparare. Disorientiamo quei
bastardi», aggiunse Covington.
«Vi sono le luci d'emergenza nella tromba delle scale», osservò Mike
Dennis. «Si accendono quando la corrente va via... cazzo, ce ne sono due
anche nel centro di controllo.»
«Dove?» domandò Chavez.
«A sinistra... voglio dire all'angolo di nordest e in quello di su-dovest.
Di tipo normale, due luci, come i fari di un'auto, alimentate a batteria.»
«Nessun visore notturno quando entriamo, suppongo, ma dovremo
comunque metter fuori uso le luci subito prima di agire, proprio per
distrarli. Qualcos'altro? Peter?» chiese Ding.
Il maggiore Covington assentì. «Dovrebbe funzionare.»
Clark osservava e ascoltava, preferendo lasciar definire il piano
d'azione ai suoi principali collaboratori, riservandosi soltanto la facoltà
d'intervenire se rilevava qualche errore, e loro non ne avevano fatti.
Avrebbe voluto prendere una MP-10 e fare irruzione con i tiratori, ma non
poteva farlo. Comandare Rainbow non era come essere alla testa dei suoi
team.
«Abbiamo bisogno di medici nel caso i terroristi siano fortunati», disse
John al colonnello Nuncio.
«Ora abbiamo dei paramedici fuori dal parco...»
«Il dottor Weiler è piuttosto bravo», osservò Mike Dennis. «Ha fatto
esperienza in traumatologia. Abbiamo insistito per averlo a disposizione
335
nel caso qui dovesse succedere qualche imprevisto.»
«Lo terremo pronto quando arriverà il momento. Dottor Bellow, dica al
signor Uno che i francesi hanno ceduto e i loro amici saranno qui... Cosa
ne pensa?»
«Alle 22.20 all'incirca lo comunicheremo. Se sono d'accordo, è una
concessione, ma di quelle che li calmerà... dovrebbe, almeno.»
«Faccia la telefonata, dottore», ordinò John Clark.
«Sì?» rispose René.
«Sanchez verrà rilasciato dalla prigione La Sante tra circa venti minuti.
Anche sei degli altri, ma c'è un problema per gli ultimi tre. Non sono
sicuro di che si tratti. Li porteranno all'aeroporto internazionale De Gaulle
e arriveranno qui in volo su un Airbus 340 dell'Air France. Pensiamo che
saranno qui per le 22.40. Vi va bene? Come portiamo voi e gli ostaggi da
loro?» chiese Bellow.
«In autobus. Porterete il mezzo direttamente al castello. Prenderemo
con noi una decina di bambini e lasceremo qui il resto come
dimostrazione di buona volontà da parte nostra. Avverta la polizia che
sappiamo come spostare i bambini senza darle la possibilità di fare
qualche pazzia, e qualsiasi giochetto avrà gravi conseguenze.»
«Non vogliamo che si faccia del male a nessun altro bambino», lo
rassicurò Bellow.
«Se fate come vi è stato detto, non sarà necessario, ma sia chiaro»,
proseguì con fermezza René, «se fate qualche mossa sbagliata, nel cortile
scorrerà ancora sangue. Chiaro?»
«Sì, Uno, è chiaro», rispose la voce.
René mise giù il telefono e si alzò. «Amici miei, Il'ych è in arrivo. I
francesi hanno accolto le nostre richieste.»
«Sembra un campeggiatore felice», osservò Noonan, con gli occhi fissi
sull'immagine in bianco e nero. Quello che doveva essere il signor Uno
era in piedi e camminava verso un altro dei terroristi; nell'immagine
confusa, sembrarono stringersi la mano.
«Non si metteranno a fare un pisolino», avvertì Bellow. «Semmai, ora
staranno ancora più attenti.»
«Sì, lo so», gli assicurò Chavez. Ma se facciamo bene il nostro lavoro,
non ha importanza quanto staranno attenti.
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Malloy pilotò l'elicottero verso l'aeroporto per fare rifornimento, il che
richiese una mezz'ora. Nel vano di carico del Night Hawk, il sergente
Nance preparò le funi, lunghe esattamente quindici metri, e le agganciò
agli anelli fissati al pavimento. Come i piloti, anche Nance aveva una
pistola nella fondina sul fianco sinistro. Non prevedeva di utilizzarla mai,
ed era per giunta un mediocre tiratore, ma lo faceva sentire parte della
squadra e per lui questo era importante. Sorvegliò il rifornimento, mise il
tappo al serbatoio e comunicò al colonnello Malloy che il velivolo era
pronto.
Malloy diede potenza ai motori tirando su il collettivo, fece decollare il
Night Hawk, poi spinse in avanti il ciclico per ritornare a Worldpark. Da
questo momento in poi, il loro piano di volo sarebbe cambiato. Arrivando
sul parco, il Night Hawk non si sarebbe messo a girare bensì sarebbe
volato direttamente sopra il castello ogni tot minuti per poi allontanarsi,
con le luci anticollisione che lampeggiavano, come se sorvolasse il
territorio del parco in modo casuale, quasi si fosse stancato di orbitare
come aveva fatto fino a quel momento.
«Bene, ragazzi, andiamo», annunciò Chavez al team. Quelli direttamente coinvolti nell'operazione di salvataggio si spostarono nel corridoio
sotterraneo, poi fuori dove c'era un autocarro dell'esercito spagnolo. Vi
salirono sopra e partirono, girando attorno all'enorme parcheggio.
Dieter Weber scelse una postazione di tiro opposta a quella del sergente
Johnston, sul tetto piatto di un edificio dove i bambini guardavano i
cartoni animati, a centoventi metri dal fianco orientale del castello. Una
volta lì, srotolò il suo materassino di gommapiuma, piazzò il fucile sul
bipiede e cominciò a far scorrere il mirino a dieci ingrandimenti sulle
finestre del castello.
«Tiratore Due-Due in posizione», comunicò a Clark.
«Molto bene, riferisci se necessario, Al», replicò John, alzando lo
sguardo.
Stanley aveva un'espressione cupa. «Un sacco di armi, e un sacco di
bambini.»
«Sì, lo so. C'è qualcos'altro che potremmo tentare?»
Stanley scosse la testa. «È l'unico piano efficace. Se tentiamo
all'esterno, diamo loro troppo spazio di manovra, e nel castello si
sentiranno più sicuri. No, Peter e Ding hanno un buon piano, ma non c'è
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nulla di perfetto in questo tipo di cose.»
«Vorrei esserci anch'io là. Questa faccenda del comando è una rottura di
palle», osservò Clark.
Alistair Stanley bofonchiò: «Hai ragione».
Di colpo tutte le luci del parcheggio si spensero. L'autocarro, anch'esso
a fari spenti, si fermò vicino a un palo dell'illuminazione. Chavez e il suo
team saltarono giù. Dopo dieci secondi, arrivò il Night Hawk, atterrando
con il rotore ancora a pieni giri. I portelli laterali si aprirono e i tiratori
saltarono a bordo sedendosi sul pavimento.
«Tutti a bordo, colonnello», comunicò il sergente Nance dopo aver
richiuso i portelli scorrevoli.
Senza proferir parola, Malloy tirò su il collettivo e riprese il volo,
attento ai pali della luce che avrebbero potuto far fallire l'intera missione.
Ci vollero solo quattro secondi per allontanarsene, poi inclinò lateralmente l'elicottero per virare stretto e puntare di nuovo sul parco.
«Luci spente», ordinò Malloy al sottotenente Harrison.
«Luci spente», confermò il copilota.
«Pronti?» chiese Ding ai suoi uomini sul retro, nel vano di carico.
«Dannazione, sì», rispose Mike Pierce, senza aggiungere stronzi
assassini. Ma ognuno su quell'elicottero lo pensava. Tenevano le armi
appese di traverso aderenti ai loro petti e indossavano i guanti per la
discesa rapida a corda doppia. Tre di loro le tiravano stringendole tra le
mani, a conferma di una certa tensione che si accompagnava alla
concentrazione.
«Dov'è l'aereo?» domandò Uno.
«A circa un'ora e dieci minuti», rispose il dottor Bellow. «Quando
volete il vostro autobus?»
«Esattamente quaranta minuti prima che l'aereo atterri. Verrà fatto
rifornimento mentre saliamo a bordo.»
«Dove andrete?» chiese Bellow.
«Lo comunicheremo al pilota quando saliranno a bordo.»
«Bene, sta per arrivare l'autobus. Sarà qui fra una quindicina di minuti.
Dove volete che si posizioni?»
«Al castello, passando davanti all'impianto dello Stuka.»
«Comunicherò di fare così», promise Bellow.
«Merci.» La comunicazione s'interruppe di nuovo.
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«Furbi», osservò Noonan. «Disporranno di due telecamere puntate
sull'autobus durante l'operazione di avvicinamento, cosicché non
possiamo utilizzarlo per coprire uno dei team.»
«Bear, qui è Six», chiamò per radio Clark.
«Bear in ascolto, Six, passo.»
«Esecuzione fra cinque minuti.»
«D'accordo, la festa inizia tra cinque minuti.»
Malloy si girò sul sedile di pilotaggio. Chavez aveva ascoltato la
comunicazione e annuì, tenendo una mano alzata, con le dita aperte.
«Rainbow, qui è Six. Tenersi pronti, ripeto, tenersi pronti. Inizio
operazione tra cinque minuti.»
Nel sotterraneo, Peter Covington condusse tre dei suoi a est, verso la
tromba delle scale del castello, mentre il tecnico del parco spegneva,
selezionandole, le telecamere. L'addetto agli esplosivi mise una piccola
carica sulla porta antincendio in basso e fece un cenno al comandante.
«Team 1 pronto.»
«Tiratore Due-Uno pronto e sul bersaglio», comunicò Johnston.
«Tiratore Due-Due pronto, ma nessun bersaglio al momento», riferì
Weber a Clark.
«Tre, qui è Uno», lo scanner crepitò nella sala di controllo.
«Sì, Uno», rispose il terrorista sul tetto del castello.
«Sta succedendo qualcosa?»
«No, Uno, la polizia non si è mossa. E l'elicottero sta volando attorno
da qualche parte, ma non sta facendo nulla.»
«L'autobus dovrebbe essere qui tra quindici minuti. Sta' allerta.»
«Sì», promise Tre.
«Okay», disse Noonan. «È molto regolare. Il signor Uno chiama il Tre
ogni quindici minuti circa. Mai più di diciotto, mai meno di dodici.
Allora...»
«Sì», assentì Clark. «Partiamo prima?»
«Perché no», replicò Stanley.
«Rainbow, qui è Six. Entrare ed eseguire. Ripeto, esecuzione ora!»
A bordo del Night Hawk, il sergente Nance si spostò a sinistra e a
destra, aprendo i portelli scorrevoli sulle fiancate. Mostrò il pollice
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sollevato ai tiratori che risposero nello stesso modo; tutti agganciarono le
corde di discesa agli anelli posti sulle loro cinture. Si voltarono verso
l'interno, appoggiandosi con la pianta dei piedi sul bordo in modo che con
il sedere sporgevano dall'elicottero. «Sergente Nance, ti segnalerò quando
siamo sul posto.» «Ricevuto, signore», rispose il capoequipaggio,
accovacciandosi al centro del vano di carico, ora sgombro, con le braccia
protese verso gli uomini su entrambi i lati.
«André, scendi e controlla il cortile», ordinò René. Il suo uomo si
mosse subito, tenendo l'Uzi con entrambe le mani.
«Qualcuno ha appena lasciato il locale», avvertì Noonan. «Rainbow, qui
è Six, un obiettivo ha lasciato il centro di controllo.»
Otto, pensò Chavez. Otto obiettivi da abbattere. Gli altri due sarebbero
toccati ai tiratori scelti.
Secondo Malloy, gli ultimi duecento metri erano i più difficili. Le mani
gli pizzicavano sul comando del ciclico e, nonostante avesse svolto
missioni del genere tante volte, questa gli sembrò la prima. Okay... mise
giù il muso dirigendosi verso il castello, e senza le luci anticollisione,
l'elicottero sarebbe sembrato solo una nuvola, leggermente più scura del
cielo... ancor meglio, il rotore quadripala faceva un rumore non facilmente
individuabile. Qualcuno poteva sentirlo, ma era difficile definirne la
direzione, e lui aveva bisogno che ciò durasse solo qualche altro secondo.
«Tiratore Due-Uno sul bersaglio, Six», riferì Johnston. Regolarizzò il
respiro e spostò leggermente i gomiti, cosicché solo le ossa e non i
muscoli erano a contatto con il materassino sotto di lui. Il semplice
passaggio del sangue attraverso le sue arterie poteva fargli perdere la mira.
Il reticolo era fissato leggermente davanti all'orecchio della sentinella.
«Sul bersaglio», ripeté.
«Fuoco», sentì nell'auricolare.
Di' buona notte, bello mio, gli sussurrò una vocina nella mente. Con il
dito tirò indietro leggermente il grilletto e una fiammata bianca esplose
dalla bocca del fucile. Il lampo oscurò per un attimo l'immagine nel
mirino, che poi si rischiarò in tempo per fargli vedere l'impatto della
pallottola. Ci fu un leggero sbuffo di vapore grigiastro dal retro della testa,
e il corpo cadde come una marionetta cui fossero stati tagliati i fili.
340
Nessuno all'interno, da oltre trecento metri di distanza, avrebbe sentito il
colpo, a causa delle spesse finestre e delle mura di pietra.
«Qui tiratore Due-Uno. Bersaglio abbattuto. Ripeto, bersaglio
abbattuto. Centrata la testa», annunciò Johnston.
«Centrato in pieno», annunciò sull'interfono il sottotenente Harrison.
Dall'elicottero, la distruzione della testa della sentinella apparve
spettacolare. Era la prima morte che avesse mai visto e lo colpì come se si
trattasse di un film, non della realtà.
«Sì», concordò Malloy, portando lentamente indietro il comando del
passo ciclico. «Sergente Nance... ora!»
Nel vano di carico, Nance mosse le braccia verso l'esterno. L'elicottero
stava ancora rallentando, ora con il muso in su, mentre Malloy eseguiva
alla perfezione la manovra della "sedia a dondolo".
Chavez si spinse in fuori con i piedi e si calò giù. Ci vollero meno di
due secondi di caduta quasi libera prima di fare maggior presa sulla fune
per rallentare la discesa, e le speciali calzature con la suola di gomma si
posarono sul tetto piatto. Si liberò subito della corda e si voltò per
osservare i suoi che facevano la stessa cosa. Eddie Price corse verso il
corpo della sentinella, diede un calcio alla testa per voltarla, poi si girò,
alzando il pollice verso il comandante del team.
«Six, qui è il comandante del team 2. Sul tetto. La sentinella è stata
eliminata», annunciò nel microfono. «Procediamo.» Poi Chavez si voltò
verso i suoi, indicando con le braccia il perimetro del tetto. Il Night Hawk
si era dileguato nell'oscurità, dando quasi l'impressione di non essersi
fermato neppure un attimo.
Il tetto del castello era circondato dalla merlatura tipica di questi edifici,
rettangoli verticali di pietra dietro i quali potevano ripararsi gli arcieri
mentre lanciavano i loro dardi contro gli attaccanti. A ogni uomo era stato
assegnato uno di questi ripari, e li contavano con le dita, in modo che
ognuno si appostasse dietro quello giusto. Gli uomini avvolsero loro
intorno le funi per la discesa a corda doppia, quindi presero posto negli
spazi vuoti. Quando tutti furono sistemati, tennero alzate le mani. Chavez
fece lo stesso, poi le abbassò e intanto diede una spinta con le gambe per
allontanarsi dal tetto, scivolando lungo la fune fino a un punto a un metro
sulla destra di una finestra, utilizzando i piedi per tenersi staccato dalla
parete. Paddy Connolly scese sull'altro lato, allungò il braccio per
applicare una carica esplosiva attorno ai bordi e, su uno di questi, inserì
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un detonatore radiocomandato. Poi si spostò a sinistra, penzolando dalla
fune come da una liana nella giungla, per fare lo stesso su un'altra finestra.
Altri uomini del team impugnarono le bombe flash-bang pronti a
lanciarle.
«Comandante Due a Six... luci!»
Nel centro di controllo, il tecnico tolse di nuovo la corrente al castello.
Dall'esterno, il team 2 vide le finestre oscurarsi e quindi, uno o due
secondi dopo, accendersi le luci d'emergenza montate a parete, proprio
come fari di auto in miniatura, ma non sufficienti a illuminare bene il
locale. I monitor che stavano osservando si spensero anch'essi.
«Merde!» esclamò René, sedendosi e allungando un braccio verso un
telefono. Se volevano giocare ancora, lo poteva fare anche lui... pensò di
aver visto alcuni movimenti fuori dalla finestra e guardò più da vicino...
«Team 2, qui il comandante. Cinque secondi... cinque... quattro... tre...»
Al tre, gli uomini che avevano in mano le flash-bang tolsero le sicure,
sistemarono le bombe proprio vicino alle finestre, poi si girarono di lato...
«Due... uno... fuoco!»
Il sergente Connolly premette il pulsante e due finestre furono divelle
dalla parete dalle cariche esplosive. Una frazione di secondo dopo, altre
tre finestre furono fatte esplodere da un maglio fatto di rumore e luce
abbagliante. Volarono attraverso il locale in una pioggia di vetri e
frammenti di piombo, mancando di tre metri i bambini che erano
nell'angolo.
Vicino a Chavez, il sergente Price lanciò un'altra flash-bang, che
esplose non appena toccò il pavimento. Poi Chavez fece leva con le
gambe contro la parete, si spinse in fuori calandosi nello stesso tempo e
penetrando nel locale attraverso la finestra, con l'MP-10 impugnata con
entrambe le mani e in posizione di sparo. Colpì malamente il pavimento,
cadendo all'indietro, incapace di controllare il proprio equilibrio, poi sentì
Price atterrargli sul braccio sinistro. Chavez si rotolò e balzò in piedi,
quindi corse verso i bambini che stavano urlando per lo spavento,
coprendosi il viso e le orecchie per proteggersi dagli scoppi delle flashbang. Ma non poté occuparsi ancora di loro.
Price atterrò meglio, si spostò anche lui a destra e si voltò per
scandagliare il locale. Là localizzò un terrorista barbuto, che imbracciava
un Uzi. Price puntò la sua MP-10 e, dalla distanza di tre metri, sparò
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proprio in faccia all'uomo una raffica di tre colpi. Il rumore silenziato non
corrispose alla forza d'impatto delle pallottole.
A calci, Oso Vega aveva aperto la sua finestra solo con la forza delle
gambe ed era atterrato proprio sopra un obiettivo, con grande sorpresa di
entrambi, ma lo specialista del team era preparato alle sorprese e il
terrorista no. La mano sinistra di Oso vibrò una botta, quasi
istintivamente, che si abbatté su quella faccia con tanta forza da
spaccargliela, trasformandola in una massa sanguinolenta che una raffica
di tre colpi da 10 mm poté solo peggiorare.
René era seduto alla scrivania, con il telefono in mano e la pistola sul
tavolo davanti a lui. Stava per afferrarla, quando Pierce gli sparò alla
terapia da due metri di distanza.
Nell'altro angolo, Chavez e Price scivolarono fino a fermarsi,
frapponendo i propri corpi tra i terroristi e gli ostaggi. Ding appoggiò un
ginocchio a terra, con l'arma sollevata mentre con gli occhi cercava i
bersagli e sentiva il crepitio delle armi munite di silenziatore dei suoi
compagni. La semioscurità del locale era attraversata da ombre in
movimento. Loiselle si trovò dietro un obiettivo, abbastanza vicino da
toccarlo con la canna della sua pistola mitragliatrice. Fu facile sparare, e
la pallottola schizzò sangue e cervello dappertutto.
Uno nell'angolo alzò il suo Uzi e abbassò il dito sul grilletto, sparando
una raffica in direzione dei bambini. Sia Chavez sia Price risposero al
fuoco, poi anche McTyler, e il terrorista si accasciò al suolo.
Un altro aveva aperto una porta ed era corso fuori, investito dai
frammenti di pallottola di un tiratore la cui mira era fuori bersaglio e
aveva colpito lo stipite. Il terrorista corse giù, lontano dalla sparatoria,
svoltando dietro un angolo, poi un altro... e cercò di fermarsi quando vide
una forma scura sui gradini.
Era Peter Covington, che saliva con il suo team. Avendo sentito il
rumore dei suoi passi, prese la mira e fece fuoco appena gli apparve la
faccia stupita. Poi riprese la corsa verso l'alto, con quattro uomini dietro di
lui.
Nella stanza ne erano rimasti tre. Due erano nascosti dietro le scrivanie,
uno con l'Uzi alzato che sparava alla cieca. Mike Pierce saltò sopra la
scrivania, con una torsione a mezz'aria, e gli sparò tre volte nel fianco e
nella schiena. Poi lo centrò con una nuova raffica alla nuca. L'altro sotto
una scrivania fu colpito alla schiena da Paddy Connolly. Quello rimasto si
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alzò in piedi sparando all'impazzata con la sua arma, solo per essere
abbattuto da non meno di quattro uomini del team.
Proprio allora si aprì la porta ed entrò Covington. Vega stava
allontanando a calci le armi dai vari cadaveri e, dopo cinque secondi,
gridò: «Stanza libera!»
«Stanza libera!» gli fece eco Pierce.
André era fuori, all'aperto e tutto solo. Si girò e alzò lo sguardo verso il
castello.
«Dieter!» esclamò Homer Johnston.
«Sì!»
«Riesci a togliergli l'arma di mano?»
Il tedesco in qualche modo lesse nella mente dell'americano. La risposta
fu un colpo perfettamente mirato che centrò la pistola mitragliatrice di
André proprio sopra il ponticello del grilletto. L'impatto della pallottola
Winchester Magnum .300 fece saltare lo stampato in metallo grezzo, e
spaccò quasi in due l'arma. Dalla sua postazione a quattrocento metri di
distanza, Johnston prese attentamente la mira e sparò il secondo colpo. Un
tiro che sarebbe stato per sempre criticato. Dopo mezzo secondo, la
pallottola da 7 mm colpì l'obiettivo una quindicina di centimetri sotto lo
sterno.
Ad André, sembrò un pugno mortalmente forte. Già la pallottola si era
frammentata, lacerandogli il fegato e la milza mentre proseguiva il suo
percorso, uscendogli dal corpo sopra il rene sinistro. Poi, dopo lo choc del
primo impatto, sopraggiunse un'ondata di dolore. Dopo un istante, il suo
urlo attraversò gli oltre quaranta ettari di Worldpark.
«Guarda qui», esclamò Chavez nel centro di controllo. Il suo giubbotto
antiproiettile aveva due fori sul torace. Non sarebbero stati mortali, ma
avrebbero fatto male. «Grazie a Dio per la Du-Pont.»
«Puoi ben dirlo», osservò Vega con un sorriso.
«Comandante, qui è Chavez. Missione compiuta. I bambini... abbiamo
qui un ragazzino colpito, sembra un graffio sul braccio, gli altri stanno
tutti bene. Terroristi tutti eliminati, Mr. C. Puoi riaccendere le luci.»
Sotto gli occhi di Ding, Oso Vega si chinò e sollevò una bambina.
«Ciao, querida. Andiamo a trovare la tua mamatita?»
«Rainbow!» esultò Mike Pierce. «Dite loro che c'è un nuovo sceriffo in
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città, gente!»
«Ben detto, Mike!» Eddie Price s'infilò la mano in tasca e tirò fuori la
pipa e una borsa di buon tabacco Cavendish.
C'erano alcune cose da fare. Vega, Pierce e Loiselle raccolsero le armi,
inserirono la sicura e le appoggiarono su una scrivania. McTyler e
Connolly verificarono i bagni e dietro le altre porte adiacenti alla ricerca
di altri terroristi, non trovandone più nessuno. Scotty indicò con un cenno
la porta.
«Bene, facciamo uscire i bambini», comunicò Ding ai suoi. «Peter, fai
strada! »
Covington aveva fatto aprire al suo team la porta antincendio e
presidiare la tromba delle scale, un uomo su ogni pianerottolo. Vega andò
in testa, tenendo la piccola di cinque anni in braccio e con la destra
continuò a stringere la sua MP-10. Dopo un minuto, erano all'aperto.
Chavez rimase indietro, osservando il muro con Eddie Price. C'erano
sette fori nell'angolo dove si trovavano i bambini, ma tutti i colpi erano
alti. «Fortunati», commentò Chavez.
«Un po'», convenne il sergente Price. «È quello che abbiamo affrontato
noi due, Ding. Stava solo sparando, senza prendere la mira... e forse a noi,
non a loro.»
«Buon lavoro, Eddie.»
«Davvero», sottolineò Price. Poi uscirono entrambi all'aperto, lasciando
alla polizia il compito di raccogliere i cadaveri.
«Comandante, qui Bear, cosa sta succedendo, passo.»
«Missione compiuta, nessun danno ai nostri e agli ostaggi. Ben fatto,
Bear», si complimentò Clark.
«Ricevuto e grazie, signore. Bear ritorna alla base. Chiudo. Devo fare
una pisciatina», annunciò il marine al suo secondo, pilotando il Night
Hawk verso ovest, in direzione dell'aeroporto.
Homer Johnston scese di corsa i gradini dell'imponente attrazione dello
Stuka, trasportando il fucile e quasi inciampando tre volte lungo la
discesa. Poi coprì di corsa le poche centinaia di metri fino al castello. Qui,
con indosso il camice bianco, c'era un medico che esaminava l'uomo a
terra colpito da Johnston.
«Come sta?» domandò il sergente al suo arrivo. Era piuttosto evidente.
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L'uomo si stringeva la pancia con le mani coperte di sangue, che sembrò
stranamente nero sotto la luce del sole.
«Non se la caverà», precisò il dottor Weiler. Forse, se in quel momento
si fossero trovati nella sala operatoria di un ospedale, avrebbe avuto
qualche chance, ma stava sanguinando dalla milza squarciata ed era
probabile che anche il suo fegato fosse spappolato... In assenza di un
trapianto di fegato, non aveva alcuna speranza e tutto quello che Weiler
poteva fare era somministrargli della morfina per il dolore. Cercò nella
borsa una siringa.
«È quello che ha sparato alla bambina», disse al dottor Johnston.
«Suppongo che la mia mira fosse un po' fuori», proseguì, fissando quegli
occhi spalancati e quel volto che, con una smorfia, emetteva un grido di
dolore. Fosse stato un cervo o un alce, Johnston lo avrebbe finito con un
colpo di pistola alla testa o al collo, ma non era previsto con i bersagli
umani. Muori lentamente, bastardo, avrebbe voluto dire ad alta voce. Non
fu contento di vedere che gli veniva praticata un'iniezione antidolorifica,
ma i medici avevano fatto il loro giuramento, come lui aveva fatto il suo.
«Un po' basso», precisò Chavez, avvicinandosi all'ultimo terrorista
rimasto in vita.
«Suppongo di aver premuto il grilletto un po' troppo velocemente»,
rispose il tiratore.
Chavez lo guardò diritto negli occhi. «Lo credo anch'io. Prendi il tuo
equipaggiamento.»
«Tra un minuto.» Gli occhi del terrorista si rilassarono quando la droga
entrò nel suo flusso sanguigno, ma le mani comprimevano ancora la ferita
e la pozza di sangue sotto la schiena si allargava sempre più. Alla fine, gli
occhi guardarono in su, per l'ultima volta verso Johnston.
«Buonanotte, bello mio», disse sottovoce il tiratore.
C'erano un sacco di mutande sporche nell'infermeria e un sacco di
bambini ancora con gli occhi sbarrati per lo choc, dopo aver attraversato
un incubo che avrebbero rivissuto negli anni a venire. Gli uomini di
Rainbow li circondavano di premure. Uno bendava l'unica ferita, in realtà
un graffio, su un ragazzino.
Il centurione de la Cruz era ancora lì, avendo rifiutato di farsi portare
via. Gli uomini vestiti di nero si tolsero i giubbotti antiproiettile e li
appoggiarono al muro; vide sulle giacche dell'uniforme il simbolo delle
ali dei paracadutisti americani, britannici e tedeschi e l'espressione
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soddisfatta di soldati che avevano eseguito con successo il loro compito.
«Chi siete?» domandò in spagnolo.
«Mi spiace, non posso dirlo», rispose Chavez. «Ma ho visto quel che ha
fatto nella registrazione. Molto bene, sergente.»
«Anche lei, signor...?»
«Chavez. Domingo Chavez.»
«Americano?»
« Si. »
«E i bambini, qualcuno ferito?»
«Solo quello.»
«E i... criminali?»
«Non infrangeranno più la legge, amigo. Mai più», gli disse calmo il
comandante del team 2.
«Bueno.» De la Cruz allungò il braccio per stringergli la mano. «È stata
dura?»
«È sempre dura, ma ci addestriamo per le cose dure e i miei uomini
sono...»
«Si vede come sono», confermò de la Cruz.
«Ma anche lei.» Chavez si girò. «Ehi, ragazzi, ecco colui che li ha
affrontati con una spada.»
«Congratulazioni. Lei è uno con le palle, amico.» Mike Pierce gli prese
la mano e gliela strinse. Gli altri uomini fecero lo stesso.
«Devo... devo...» De la Cruz si alzò in piedi e uscì zoppicando dalla
stanza. Tornò dopo cinque minuti, dietro John Clark, e tenendo...
«Che diavolo è?» domandò Chavez.
«L'aquila della Legione, la VI Legio Victrix», spiegò il centurione,
tenendola con una mano. «La Legione vittoriosa. Señor Dennis, con
permiso?»
«Sì, Francisco», rispose il direttore del parco con un cenno serioso del
capo.
«Con gli omaggi della mia Legione, Señor Chavez. La tenga al posto
d'onore.»
Ding la prese. Quella dannata cosa doveva pesare una decina di chili.
Sarebbe stata un degno trofeo per il club di Hereford. «Lo faremo, amico
mio», promise all'ex sergente della Legione, volgendo lo sguardo verso
John Clark.
Ora lo stress si stava scaricando, seguito come al solito da euforia e
347
spossatezza. Gli uomini guardarono i bambini che avevano salvato,
ancora tranquilli e intimoriti dalla notte, ma presto riuniti ai loro genitori.
Udirono il rumore di un autobus all'esterno. Steve Lincoln aprì la porta e
osservò scendere gli adulti. Con un cenno li invitò a entrare e le grida di
gioia riempirono il locale.
«È ora di andare», annunciò John. Poi andò a stringere la mano a de la
Cruz mentre gli uomini uscivano in fila.
Fuori all'aperto, Eddie Price stava portando a termine il suo solito
rituale. Riempita la pipa, prese dalla tasca un fiammifero da cucina, lo
sfregò sulla parete di pietra dell'infermeria e si accese la pipa ricurva di
erica bianca, per una lunga, vittoriosa fumata. I genitori si accalcavano per
entrare e altri si accalcavano per uscire, tenendo i figli per mano, molti
piangendo per la loro liberazione.
Il colonnello Gamelin era in piedi vicino all'autobus e si avvicinò.
«Siete della Legione?» domandò.
Fu Louis Loiselle a rispondere. «In un certo senso, monsieur», disse in
francese. Alzò lo sguardo e vide una telecamera puntata proprio sulla
porta, probabilmente per registrare l'evento, con i genitori che uscivano in
fila con i loro bimbi, molti soffermandosi a stringere le mani degli uomini
di Rainbow. Poi Clark li condusse via, per tornare al castello e nel
sotterraneo.
16
SCOPERTE
La felice conclusione dell'operazione Worldpark per alcuni si trasformò
in un problema, e uno di questi fu il colonnello Tomas Nuncio, l'ufficiale
superiore della Guardia Civil presente sul posto. Indicato dai media locali
come comandante dell'operazione, fu subito assediato dalle richieste di
dettagli, oltre ai nastri registrati per i telecronisti. Era riuscito così bene a
isolare il parco divertimenti dall'assedio della stampa che i suoi stessi
superiori a Madrid non avevano la più pallida idea di ciò che era avvenuto
e anche questo pesò sulla sua decisione. Così, il colonnello decise di
rendere pubblici i nastri video interni di Worldpark, ritenendoli, per il
poco che mostravano, innocui. La parte più spettacolare era stata la
discesa dei tiratori dall'elicottero sul tetto del castello e da lì alle finestre
della sala di controllo; questa fase, secondo Nuncio, era durata soltanto
348
quattro minuti, il tempo necessario a Paddy Connolly per piazzare le sue
cariche esplosive sui telai delle finestre e spostarsi per farle detonare.
Niente della sparatoria all'interno della stanza era stato registrato, dato che
i terroristi avevano fracassato la telecamera interna. L'eliminazione della
sentinella sul tetto del castello era stata registrata ma non veniva resa
pubblica a causa della raccapricciante ferita alla testa, e lo stesso valeva
per l'uccisione dell'ultimo dei terroristi, quello chiamato André che aveva
sparato alla bambina olandese... scena che era stata registrata ma non
divulgata per la stessa ragione. Il resto poteva essere ritrasmesso. La
distanza delle telecamere dalla scena dell'azione impediva di riconoscere
o persino vedere i volti della squadra d'intervento; si scorgevano solo i
loro agili passi all'esterno, mentre molti di loro portavano in braccio i
bambini liberati; ciò, secondo lui, non poteva danneggiare o offendere
nessuno, meno di tutti il distaccamento operazioni speciali arrivato
dall'Inghilterra, che ora aveva un tricornio, omaggio della Guardia Civil,
da abbinare all'aquila della finta VI Legione di Worldpark, come ricordo
della missione.
E così, il video in bianco e nero fu consegnato alla CNN, a Sky
News e ad altre agenzie d'informazione interessate, per essere trasmesso
in tutto il mondo. Avrebbe fornito un supporto visivo ai cronisti che si erano
riuniti presso l'ingresso principale di Worldpark, per commentare a lungo, e
spesso con valutazioni estemporanee, l'esperienza del reparto azioni speciali
della Guardia Civil spedito da Madrid per risolvere questo odioso episodio
in uno dei più grandi parchi divertimenti del mondo.
Erano le otto di sera quando Dmitrij Arkadeevič vide il servizio nel suo
appartamento di New York, fumando un sigaro, sorseggiando una vodka
liscia e registrandolo per poterlo poi esaminare in dettaglio. Vide che la
fase dell'assalto era roba da esperti e, nello stesso tempo, prevedibile in
tutti i dettagli. I lampi di luce degli esplosivi utilizzati erano spettacolari e
del tutto inutili a mostrargli qualcosa, mentre la parata dei salvatori era
predicibile come l'alba, i loro passi elastici, le armi a tracolla e le braccia
colme di bambini. Era naturale che questi uomini provassero euforia per
la felice conclusione di una simile missione e il breve spezzone li
mostrava allontanarsi verso un edificio, dove ci doveva essere un medico
pronto a prendersi cura dell'unico bambino che, come riferivano i cronisti,
aveva subito una piccola ferita durante l'azione. Più tardi, gli uomini erano
usciti all'esterno, e uno di loro aveva alzato un braccio contro la parete di
pietra dell'edificio per strofinarvi un fiammifero che gli servì per
349
accendere una pipa.
Per accendere una pipa, notò Popov. Rimase sorpreso della sua stessa
reazione a questo gesto. Sbatté più volte le palpebre, chinandosi in avanti
sulla poltrona. La telecamera non zoomò, ma il soldato-poliziotto in
questione stava chiaramente fumando una pipa ricurva, soffiando fuori il
fumo. E parlava con i suoi compagni, senza fare nulla di speciale, solo
pronunciando con calma parole non registrate, com'erano soliti fare
uomini così dopo una missione riuscita, senza dubbio discutendo su chi
aveva fatto cosa, che cosa era andato secondo i piani e che cosa no.
Avrebbero potuto benissimo essere in un club o in un bar, poiché gli
uomini addestrati, in quelle circostanze, parlavano sempre allo stesso
modo, sia che fossero soldati, medici o giocatori di football, mentre si
scaricava lo stress accumulato e iniziava la fase del debriefing. Era il
segno distintivo dei professionisti e Popov lo sapeva. Poi l'immagine
cambiò, tornando al primo piano di qualche cronista americano che
blaterò fino al successivo spot pubblicitario cui sarebbero seguite, disse il
conduttore, notizie d'argomento politico o altro da Washington. Popov
riavvolse il nastro, tirò fuori la cassetta e allungò il braccio per prenderne
un'altra. La inserì nel registratore, la fece avanzare velocemente oltre la
fase dell'attacco di Berna fino al momento immediatamente successivo
dove... sì, un uomo aveva acceso una pipa. Se lo ricordava per averlo
visto al di là della strada.
Poi prese il nastro con il servizio sull'incidente di Vienna, e... alla fine
un uomo si era acceso una pipa. In ogni caso era uno alto un metro e
ottanta, che compiva quasi lo stesso gesto con il fiammifero, impugnando
esattamente allo stesso modo la pipa.
«... ah, ničevo», disse tra sé l'ufficiale del KGB nel lussuoso
appartamento ai piani alti. Passò un'altra mezz'ora a esaminare e rivedere i
nastri. In tutti i casi, vide che l'abbigliamento era lo stesso, stessa la taglia,
stessi i gesti e gli atteggiamenti, stesse le armi portate nello stesso modo,
tutto uguale. Ciò significava lo stesso uomo... in tre paesi diversi.
Ma quest'uomo non era svizzero né austriaco né spagnolo. Poi Popov
passò ad altre considerazioni, alla ricerca di altri fatti che potessero
derivare dalle informazioni visive di cui disponeva. Si vedevano altre
persone in tutti i nastri. Il fumatore di pipa era spesso accompagnato da un
altro uomo, più basso di lui, con il quale il primo sembrava parlare con un
certo grado di amichevole deferenza. Ce n'era un altro vicino, grosso e
muscoloso, che in due dei nastri trasportava una mitragliatrice, ma nel
350
terzo teneva in braccio un bambino. Così, aveva due e forse tre uomini sui
nastri che erano apparsi a Berna, Vienna e in Spagna. In ciascun caso i
cronisti avevano attribuito il salvataggio alla polizia locale, ma non era la
verità. Chi erano questi uomini che arrivavano con la velocità e la
decisione di un fulmine in tre diversi paesi? Non lo sapeva né gli
importava molto. I cronisti dissero che avevano richiesto il rilascio del
suo vecchio amico, lo Sciacallo. Che idioti. I francesi, piuttosto che
consegnare quell'assassino, avrebbero sfrattato la salma di Napoleone da
Les Invalides. Popov abbandonò quel pensiero. Aveva appena scoperto
una cosa molto importante. Da qualche parte in Europa c'era un reparto
operazioni speciali, i cui membri attraversavano i confini come uomini
d'affari su un aereo di linea e avevano la libertà di operare in diversi paesi,
sostituendosi alle polizie locali e facendo il loro lavoro... molto bene, da
esperti. Il loro prestigio non poteva che aumentare dopo il salvataggio dei
bambini a Worldpark.
«Ničevo», sospirò di nuovo tra sé. Aveva capito qualcosa di molto
importante, e per celebrarlo si versò un'altra vodka.
Ora doveva saperne di più. Come? Ci avrebbe pensato, dormendoci
sopra, fiducioso che il suo cervello allenato sarebbe approdato a qualcosa.
Ormai erano quasi a casa. Il quadriturbina MC-130 li aveva prelevati e
riportati a Hereford. Erano rilassati, con le armi di nuovo nelle loro
custodie in plastica, senza alcuna tensione nel loro comportamento.
Alcuni ripercorrevano gli eventi. Altri spiegavano ciò che avevano fatto ai
membri dei team che non avevano avuto la possibilità di partecipare
direttamente all'azione. Clark vide che Mike Pierce stava parlando in
maniera particolarmente animata con il suo vicino. Ormai era l'uomo di
Rainbow in testa alle uccisioni durante gli assalti. Homer Johnston stava
chiacchierando con Weber... erano arrivati a una specie di accordo,
qualcosa concordato tra loro. Weber aveva fatto un tiro bellissimo ma
fuori dalle regole, per neutralizzare l'Uzi del terrorista, lasciando a
Johnston il piacere di... naturalmente, disse tra sé John, non voleva solo
uccidere quel bastardo che aveva assassinato la bambina. Aveva voluto
far male a quel piccolo figlio di puttana, per mandarlo all'altro mondo con
uno speciale, personale messaggio. Avrebbe dovuto parlarne al sergente
Johnston. Era al di fuori della politica di Rainbow. Quei figli di puttana,
bastava ucciderli. Si doveva lasciare al Padreterno il compito di riservare
loro un trattamento speciale. John poteva capirlo. Era successo una volta
351
con quel piccolo bastardo di nome Billy al quale aveva fatto un
interrogatorio molto speciale in una camera iperbarica; anche se lo
ricordava con un certo senso di fastidio e di vergogna, in quel momento lo
considerava giustificato... e aveva ottenuto le informazioni che gli
servivano. Ciononostante, avrebbe dovuto parlare a Homer, consigliargli
di non fare mai più una cosa del genere. E Homer avrebbe ascoltato, John
lo sapeva. Aveva esorcizzato i demoni una volta e una volta, di solito, era
sufficiente. Doveva essere stato difficile per lui stare dietro il suo fucile,
osservare l'assassinio di una bambina, avendo nelle sue mani esperte il
potere di vendicarla istantaneamente, lì, sul posto, eppure non poter fare
nulla. Saresti riuscito a farlo, John?si chiese Clark, non sapendo in effetti
che risposta dare, esausto com'era in quel momento. Sentì le ruote toccare
la pista di Hereford e le turbine ruggire dopo l'inversione del passo delle
eliche per rallentare la corsa d'atterraggio.
La sua idea, il suo concetto di Rainbow stava funzionando piuttosto
bene, pensò John. Tre operazioni, tre missioni pulite. Due ostaggi uccisi,
uno, a Berna, prima che il team entrasse in azione, l'altro poco dopo il loro
arrivo nel parco, nessuno dei due causato da negligenza o errore da parte
dei suoi uomini. Le loro prestazioni in azione erano state praticamente
perfette, come non se n'erano mai viste. Nemmeno quel gruppo di
animali, del quale anche lui aveva fatto parte, del 3° reparto operazioni
speciali in Vietnam era stato così efficiente. Tale pensiero s'affacciò
improvviso e altrettanto inaspettata fu la forte commozione che sentiva,
rendendosi conto del fatto che a lui era toccato l'onore di comandare
combattenti come questi, mandarli in missione e riportarli a casa come
faceva ora, vedendoli sorridere mentre mettevano le armi in spalla e si
avviavano verso il grosso portellone di coda aperto dell'Hercules, dietro
cui attendevano i loro furgoni.
«Il bar è aperto!» gridò Clark, quando si alzò.
«È un po' tardi, John», osservò Alistair.
«Se la porta è chiusa, diciamo a Paddy di farla saltare», insistette Clark,
con un sorriso maligno.
Stanley ci pensò e fu d'accordo. «Va bene, i ragazzi meritano un boccale
o due a testa.» Inoltre, sapeva come forzare le serrature.
Entrarono nel club con ancora indosso le loro uniformi ninja e
trovarono il barista in attesa. C'erano anche altre persone nel club,
perlopiù uomini del SAS che sorseggiavano i loro ultimi boccali. Alcuni
352
applaudirono quando entrò il distaccamento Rainbow, il che riscaldò
l'atmosfera. John andò al banco, in testa ai suoi uomini, e ordinò birra per
tutti.
«Mi piace proprio questa roba», dichiarò un minuto più tardi Mike
Pierce, prendendo la sua Guinness e sorseggiandola attraverso il sottile
strato di schiuma.
«Due, Mike?» domandò Clark.
«Sì.» Annuì. «Quello alla scrivania, era al telefono. Bum bum», disse
Pierce, toccandosi con due dita la terapia. «Poi un altro, che sparava da
dietro una scrivania. Ho fatto un salto e gliene ho tirati tre all'inguine.
Sono atterrato, mi sono girato e altri tre dietro la testa. Addio, Charlie. Poi
un altro, ne ho acchiappato un pezzo, insieme con Ding ed Eddie. Non
dovrebbe piacermi questa parte del lavoro, lo so... ma, cazzo, che
soddisfazione far fuori quei figli di puttana... Uccidere bambini. Non lo
faranno più, nossignore. Non con il nuovo sceriffo in città.»
«Ben fatto, signor sceriffo», intervenne Clark, brindando con il
bicchiere alzato. Non avrebbero avuto incubi dopo questa missione, pensò
Clark, sorseggiando la sua birra scura. Si guardò attorno. Nell'angolo,
Weber e Johnston stavano discorrendo, il secondo con la mano sulla
spalla del primo, di certo ringraziandolo per il bel colpo che aveva
neutralizzato l'Uzi dell'assassino. Clark si avvicinò e rimase in piedi
vicino ai due sergenti.
«Lo so, comandante», ammise Homer, senza che gli fosse detto niente.
«Non lo farò mai più, ma che soddisfazione!»
«Come hai detto tu, mai più, Homer.»
«Sì, signore. Ho tirato il grilletto un po' troppo velocemente»,
confermò Johnston, per pararsi il culo.
«Palle», ribatté Rainbow Six. «L'accetterò... solo per questa volta. E tu,
Dieter, bel colpo, ma...»
«Nie wieder. Herr General. Lo so, signore.» Il tedesco confermò con un
cenno la propria sottomissione. «Homer, Junge, l'espressione sulla sua
faccia quando l'hai colpito. Ach, era qualcosa da vedere, amico mio.
Buono anche il colpo a quello sul tetto del castello.»
«Tiro facile», affermò modesto Johnston. «Stava fermo in piedi. Zac.
Più facile che lanciare freccette.»
Clark diede una pacca sulle spalle di entrambi e si avvicinò a Chavez e
Price.
353
«Dovevi proprio atterrare sul mio braccio?» si lamentò scherzando
Ding.
«La prossima volta, entra dalla finestra diritto, non storto.»
«Giusto.» Chavez bevve una lunga sorsata di Guinness.
«Com'è andata?» domandò loro John.
«A parte il fatto di essere stato colpito due volte, non male», replicò
Chavez. «Anche se mi devo procurare un nuovo giubbotto.» Una volta
colpiti, i giubbotti erano considerati rovinati e non si potevano più
riutilizzare. Questo sarebbe stato restituito al fabbricante per essere
studiato e vedere come si era comportato. «Chi è stato, secondo te,
Eddie?»
«L'ultimo, ritengo, quello che stava in piedi e sparava a raffica verso i
bambini.»
«Faceva parte del piano bloccare quei colpi e quello c'è andato pesante.
Secondo me, tu, io, Mike e Oso, l'abbiamo tagliato in due. Il poliziotto
incaricato di recuperare il cadavere avrà avuto bisogno di carta assorbente
e di un sacchetto di plastica per raccogliere i brandelli di cervello.»
«Lo credo anch'io», concordò Price mentre sopraggiungeva Julio.
«E andata bene, ragazzi!» esclamò il sergente Vega, soddisfatto di aver
finalmente partecipato a un'operazione sul campo.
«Da quando prendiamo a pugni i nostri bersagli?» domandò Chavez.
Vega lo guardò un po' imbarazzato. «D'istinto, era così vicino. Forse
avremmo potuto prenderlo vivo, ma... nessuno mi ha mai detto di farlo.»
«Va bene così, Oso. Non faceva parte della missione, non con una
stanza piena di bambini.»
Vega assentì. «Quello che pensavo, e il colpo è stato quasi automatico,
facendo proprio come quando ci addestriamo. A ogni modo, quello è
andato giù davvero bene,jefe.»
«Problemi con la finestra?» volle sapere Price.
Vega scosse la testa. «No, le ho dato una pedata ed è partita. Ho preso
una botta alla spalla passando attraverso il telaio, ma nessun problema.
Ero piuttosto lanciato. Forse avresti dovuto far coprire a me i bambini.
Sono più grosso, avrei fermato più pallottole.»
Chavez non disse che si era preoccupato per l'agilità di Vega... a torto,
visti i risultati. Aveva imparato un'importante lezione. Nonostante la
mole, Oso si muoveva leggero sui piedi, molto più di quanto si aspettasse
Ding. L'orso era capace di danzare piuttosto bene, anche se con i suoi
354
oltre cento chili era un po' grosso per un tutù.
«Bell'operazione», sottolineò Bill Tawney, aggiungendosi al gruppo.
«Qualche sviluppo?»
«Forse è possibile identificarne uno, quello che ha ucciso la bambina. I
francesi hanno fatto circolare la foto tra alcuni informatori della polizia
che pensano potrebbe trattarsi di un certo Andre Herr, parigino di nascita,
ritenuto un tempo un occasionale collegamento di Action Directe, ma
nulla di definito. Dovrebbero arrivare altre informazioni, dicono. L'intera
serie di foto e impronte digitali sono ora in viaggio dalla Spagna a Parigi
per ulteriori indagini. Non tutte le foto saranno molto utili, mi hanno
detto.»
«Una sventagliata di palle a punta cava ti sistemano la faccia, ragazzo»,
osservò con una risatina Chavez. «Non possiamo farci nulla.»
«Allora, chi ha dato il via all'operazione?» domandò Clark.
Tawney alzò le spalle. «Non abbiamo indizi a questo punto. Tocca alla
polizia francese indagare.»
«Sarebbe bello saperlo. Da quando siamo qui abbiamo avuto tre
incidenti. Non sono troppi?» domandò Chavez fattosi all'improvviso
molto serio.
«Sì», concordò l'ufficiale dei servizi. Non lo sarebbero stati dieci o
quindici anni fa, ma di recente le acque si erano calmate. «Potrebbe essere
una pura coincidenza o forse emulazione, ma...»
«Emulazione? Non direi, signore», osservò Eddie Price. «Non abbiamo
certo incoraggiato azioni terroristiche e l'operazione di oggi dovrebbe
avere un ulteriore effetto deterrente su quella gente.»
«Hai ragione», concordò Ding. «Come ha detto Pierce, c'è un nuovo
sceriffo in città e in strada la parola d'ordine dovrebbe essere "stanne alla
larga", anche se la gente pensa che siamo solo poliziotti locali addestrati
un po' meglio. Fa' un altro passo avanti, Mr. C.»
«Dire pubblicamente chi siamo?» Clark scosse la testa. «Non ha mai
fatto parte del piano, Domingo.»
«Se la missione è abbattere quei bastardi sul campo, è un conto. Se
l'obiettivo è agire in modo che ci pensino due volte prima di far casino...
fermare le azioni dei terroristi prima che avvengano... è tutta un'altra cosa.
L'idea di un nuovo sceriffo in città potrebbe proprio dare loro una calmata
e convincerli a ritornare a lavare auto o dedicarsi a qualche altra attività
quando non combinano guai. Effetto deterrente, si chiama, quando lo
355
fanno gli stati. Funzionerebbe sulla mentalità dei terroristi? Qualcosa di
cui parlare con il dottor Bellow, John», concluse Chavez.
Clark si accorse di nuovo che Ding l'aveva sorpreso. Tre successi di
fila, tutti con servizi sui telegiornali, avrebbero potuto avere senz'altro un
effetto sui terroristi sopravvissuti in Europa o da altre parti. Ma era troppo
presto per essere ottimisti... forse, disse tra sé John centellinando pensoso
la birra. La festicciola stava per concludersi. Era stata una giornata molto
lunga per gli uomini di Rainbow che, a uno a uno, posarono i bicchieri sul
bancone del bar e si diressero alla porta per incamminarsi verso casa. Un
altro giorno e un'altra missione erano terminati. Eppure tra poche ore, si
sarebbero svegliati per ricominciare il normale addestramento.
«Pensavi di lasciarci?» chiese il secondino al detenuto Sanchez con una
voce che grondava ironia.
«Che vuoi dire?» rispose Carlos.
«Alcuni tuoi colleghi hanno fatto cilecca ieri», replicò la guardia,
gettando attraverso la porta una copia di Le Figaro. «Non lo faranno
un'altra volta.»
La foto in prima pagina era stata tratta dal video su Worldpark, la
qualità era piuttosto scadente ma sufficiente per mostrare un soldato
vestito di nero che trasportava un bambino e il primo capoverso
dell'articolo raccontava la storia. Carlos la scorse rapidamente, sedendosi
sulla branda per leggere il pezzo nei dettagli, poi sentì un profondo senso
di disperazione mai provato prima. Si rese conto che qualcuno aveva
raccolto la sua richiesta e aveva fallito. La vita intera si prospettava in
questa gabbia di pietra, pensò alzando lo sguardo al sole che entrava
dall'unica finestra. Vita. Sarebbe stata lunga, forse in buona salute, ma di
certo una schifezza. Quand'ebbe finito l'articolo, accartocciò il giornale.
Maledetta polizia spagnola. Maledetto il mondo intero.
«Sì. L'ho visto al telegiornale ieri sera», disse al telefono mentre si
radeva.
«Devo vederla. Ho qualcosa da mostrarle, signore», disse la voce di
Popov, poco dopo le sette del mattino.
L'uomo ci pensò. Quel bastardo di Popov era furbo, aveva svolto il suo
lavoro senza fare troppe domande... e c'erano scarse possibilità di
dimostrare una pista che conducesse a lui, certo nulla che i suoi avvocati
356
non sapessero gestire se ce ne fosse stato bisogno, e non sarebbe successo.
«D'accordo, ci vediamo alle otto e un quarto.»
«Sì, signore», confermò il russo, riattaccando.
Killgore vide che Pete era ormai in agonia. Era tempo di spostarlo. Lo
ordinò subito e due inservienti arrivarono indossando indumenti di
protezione rafforzata per caricare l'alcolizzato su una barella e trasportarlo
nell'ala riservata ai ricoveri. Killgore seguì loro e il paziente. Era
essenzialmente una copia dell'ambiente in cui i barboni avevano poltrito e
bevuto i loro alcolici, nell'attesa inconsapevole del manifestarsi dei
sintomi. Ora lui li aveva tutti, al punto che alcolici e dosi moderate di
morfina non calmavano più il dolore. Gli infermieri misero Pete su un
letto, a fianco del quale c'era un erogatore di medicinali chiamato "albero
di Natale", controllato elettronicamente. Killgore inserì in vena a Pete la
flebo. Poi premette i tasti sull'apparecchiatura elettronica e, dopo pochi
secondi, il paziente si addormentò e il suo corpo si rilassò mentre Shiva
dentro di lui continuava a mangiarlo vivo. Un'altra flebo lo avrebbe
alimentato con sostanze per mantenere in funzione gli organi, insieme con
diverse medicine per verificare se qualcuna di esse aveva un effetto
imprevedibilmente benefico su Shiva. Avevano un locale pieno di queste
medicine, dagli antibiotici, di cui si prevedeva l'inutilità contro l'infezione
virale, fino all'Interleukin-2 e un -3a sviluppato di recente che, secondo
alcuni, poteva avere effetto, oltre ad anticorpi personalizzati su Shiva
presi da cavie animali. Non era previsto che qualcuno di essi fosse
efficace, ma dovevano essere testati per accertarsi che fosse così, ed
evitare qualche sorpresa quando si fosse diffusa l'epidemia. Ci si aspettava
che funzionasse il vaccino B e questo veniva provato ora sul nuovo
gruppo di soggetti rapiti dai bar di Manhattan, insieme con il vaccino A, il
cui scopo era abbastanza diverso dal B. Le nanocapsule sviluppate
nell'altra ala dell'edificio sarebbero di fatto risultate molto utili.
Il soggetto F4, Mary Bannister, non si sentiva bene, solo un po' di
nausea per il momento, e non ci fece molto caso. Erano cose che
succedevano, un antiacido le avrebbe probabilmente fatto bene e lo prese
dal suo armadietto dei medicinali, che era piuttosto ben fornito. Oltre a
ciò, si sentiva rilassata mentre si sorrideva allo specchio compiaciuta per
quel che vedeva, una donna piuttosto giovane e attraente, vestita con un
357
pigiama di seta rosa. Con quel pensiero, uscì dalla stanza, con i capelli
lucenti e il passo agile. Chip era nel soggiorno che leggeva
tranquillamente una rivista sul divano e lei andò direttamente da lui e gli
si sedette accanto.
«Ciao, Chip», disse sorridendo.
«Ciao, Mary.» Lui ricambiò il sorriso, allungando un braccio per
toccarle la mano.
«Le ho aumentato il Valium nella colazione», precisò Barbara Archer
nella sala controllo, zoomando la telecamera. «Insieme con dell'altro.»
L'altro era una droga che riduceva le inibizioni.
«Hai un bell'aspetto oggi», osservò Chip, mentre le sue parole venivano
catturate con quale disturbo dal microfono nascosto.
«Grazie.» Un altro sorriso.
«Ha un aspetto un po' trasognato.»
«È normale», sottolineò fredda Barbara. «In lei ce n'è abbastanza da far
gettar l'abito e far fare l'amore a una suora.»
«E lui?»
«Oh, sì... non gli ho dato alcuno steroide», aggiunse la dottoressa
Archer con una risatina.
A riprova di ciò, Chip si protese per baciare Mary sulle labbra. Erano
soli nel soggiorno.
«Come va il sangue di Mary, Barb?»
«Pieno di anticorpi e sta cominciando a formare alcuni piccoli grumi.
Dovrebbe iniziare a manifestare i primi sintomi tra alcuni giorni.»
«Mangiate, bevete e siate felici, gente, perché la prossima settimana
morirete», annunciò l'altro medico rivolgendosi allo schermo tv.
«Peccato», disse la dottoressa Archer, mostrando l'emozione che si
poteva manifestare vedendo un cane morto sul bordo della strada.
«Bel fisico», commentò l'uomo, quando la giacca del pigiama volò via
«Non vedo un film per adulti da un sacco di tempo, Barb.» Naturalmente
era in corso una videoregistrazione. Il protocollo sperimentale era ferreo.
Ogni cosa doveva essere registrata in modo che il personale potesse
sorvegliare l'intero programma di prova. Belle tette, pensò, circa nello
stesso istante in cui lo pensò Chip, subito prima di accarezzargliele.
«Era piuttosto inibita quando è arrivata qui. I calmanti funzionano
davvero, riducendoli in quel modo.» Un'altra osservazione clinica. Da
quel punto in poi le cose progredirono rapidamente. Mentre osservavano,
358
i due medici sorseggiavano il loro caffè. Calmanti o no, gli istinti umani
più bassi presero il sopravvento e, nel giro di cinque minuti, Chip e Mary
scopavano follemente, con i soliti effetti sonori, anche se l'immagine non
era così nitida. Dopo pochi minuti, giacevano uno di fianco all'altra, sullo
spesso tappeto, baciandosi stanchi e soddisfatti, mentre lui le accarezzava
i seni con gli occhi chiusi, il respiro profondo e regolare, rotolandosi sulla
schiena.
«Be', Barb, se non altro, qui abbiamo un bel rifugio per il weekend delle
coppiette», osservò l'uomo con un sorriso malizioso. «Quanto pensi che ci
voglia per il sangue di Chip?»
«È probabile che fra tre o quattro giorni cominci a mostrare gli
anticorpi.» Chip non era stato esposto alla doccia come Mary.
«E quelli che provano i vaccini?»
«Cinque con A. Ne abbiamo lasciati tre non contaminati come controllo
per la prova di B.»
«Oh? Chi lasciamo in vita?»
«M2, M3 e F9», rispose la dottoressa Archer. «Sembrano possedere
l'atteggiamento giusto. Uno è socio del Sierra Club, ci crederesti? Gli altri
amano la vita all'aria aperta e dovrebbero essere perfetti per quello che
facciamo.»
«Criteri politici per prove scientifiche... ma dove andiamo a finire?»
domandò l'uomo con un'altra risatina.
«Se vivranno, tanto vale che siano anche persone con le quali
riusciremo ad andare d'accordo», osservò la Archer.
«Vero», confermò lui con un cenno d'assenso. «Che fiducia abbiamo nel
vaccino B?»
«Molta.» Prevedo che abbia un'efficacia di circa il novantasette per
cento, forse un po' di più», aggiunse prudente.
«Non il cento per cento?»
«No, Shiva è un po' troppo cattivo per garantircelo», rispose lei. «Le
prove sugli animali sono approssimative, l'ammetto, ma i risultati
confermano quasi esattamente il modello a computer, pur considerando i
normali errori legati alla sperimentazione. Da questo punto di vista, Steve
è stato piuttosto bravo.»
«Berg è un tipo sveglio», osservò anche l'altro dottore. Poi cambiò
posizione nella poltroncina. «Sai, Barb, quello che stiamo facendo qui non
è esattamente...»
359
«Lo so», convenne lei. «Ma lo sapevamo tutti venendo qui.»
«Vero.» Fece un cenno con il capo confermando la correttezza
dell'affermazione, seccato con se stesso per le sue inutili riserve.
La sua famiglia sarebbe sopravvissuta e loro condividevano il suo
amore per il mondo e le sue molte specie di abitanti. Eppure, queste due
persone sul monitor erano esseri umani, proprio come lui, e li aveva
appena spiati come un pervertito. Oh, sì, l'avevano fatto solo perché
entrambi erano imbottiti di medicinali somministrati con il cibo o sotto
forma di pillole, ma erano entrambi condannati a morte.
«Rilassati», disse la dottoressa Archer, guardandolo in volto e leggendo
il suo pensiero. «Almeno loro hanno un po' d'amore. È molto meglio di
quello che avrà il resto del mondo.»
«Non dovrò spiarli.» Fare il voyeur non era il suo passatempo preferito
e spesso si era detto che non sarebbe stato costretto a osservare ciò che
stava contribuendo a sviluppare.
«No, ma lo sapremo. Lo diranno al telegiornale. Sarà però troppo tardi e
se loro lo scoprono, il loro ultimo atto cosciente sarà di darci la caccia. È
questo che mi preoccupa.»
«Il rifugio del progetto nel Kansas è abbastanza sicuro, Barb», la
rassicurò lui. «Quello in Brasile lo è ancora di più.» Era dove alla fine
sarebbe andato lui. La foresta pluviale lo aveva sempre affascinato.
Potrebbero essere più sicuri, pensò Barbara Archer.
«Il mondo non è un laboratorio, ricordi?» Non era in quello che
consisteva l'intero progetto Shiva, per amor di Dio? Dio? si chiese.
Un'altra idea che doveva essere messa da parte. Non era abbastanza cinico
da invocare il nome di Dio per quello che stava facendo.
«Buongiorno, Dmitrij», disse, arrivando presto in ufficio.
«Buongiorno, signore», rispose l'ufficiale dei servizi, alzandosi in piedi
quando entrò nell'anticamera il suo datore di lavoro.
«Che cos'ha per me?» chiese il capo, aprendo la porta dell'ufficio ed
entrando.
«Qualcosa di molto interessante», anticipò Popov. «Quanto sia
importante non lo so per certo. Potrà giudicare lei meglio di quanto possa
fare io.»
«Bene, vediamo.» Si sedette e si voltò nella poltrona girevole per
accendere la macchina del caffè.
360
Popov si avvicinò a una parete e fece scorrere il pannello che copriva
l'impianto elettronico all'interno. Preso il telecomando, accese il grande
schermo tv e il registratore. Poi inserì una videocassetta.
«Questo è il servizio su Berna.» Fece girare il nastro solo per trenta
secondi prima di fermarlo, estrarre la cassetta e inserirne subito un'altra.
«Vienna», precisò premendo il tasto PLAY. Lo spezzone girò per meno di
un minuto. Poi ripeté la stessa operazione con una terza cassetta
spiegando: «La notte scorsa nel parco in Spagna».
«E allora?» chiese l'uomo, quando fu tutto finito.
«Che cosa ha visto, signore?»
«Qualcuno che fumava... lo stesso tipo, mi sta dicendo?»
«Esatto. In tutti e tre gli incidenti, lo stesso uomo, o così sembrerebbe.»
«Vada avanti», disse a Popov il suo datore di lavoro.
«Lo stesso gruppo è intervenuto in tutti e tre gli incidenti e li ha risolti.
È molto interessante.»
«Perché?»
Popov trasse un sospiro. Quest'uomo poteva essere un genio in qualche
campo, ma in altri era nato ieri. «Signore, lo stesso gruppo è intervenuto
negli incidenti in tre diversi paesi, con tre diverse forze di polizia
nazionali, e in tutti e tre i casi, questa squadra speciale ha preso il posto di
quelle tre diverse forze di polizia nazionali e gestito la situazione. In altre
parole, ora c'è un reparto di pronto intervento, accreditato a livello
internazionale, costituito da uomini addestrati per missioni speciali... mi
aspetterei che fossero militari piuttosto che poliziotti... in grado di operare
in Europa. Di un tale reparto non è mai stata ammessa pubblicamente
l'esistenza. È un gruppo che opera nell'ombra, altamente segreto. Posso
immaginare che sia un distaccamento NATO di qualche tipo, ma è solo
una mia supposizione. Ora», proseguì Popov, «ho alcune domande per
lei.»
«Dica pure», annuì il capo.
«Aveva avuto qualche notizia su questo reparto? Ne conosceva
l'esistenza?»
L'altro scosse la testa. «No.» Poi si voltò per versarsi una tazza di caffè.
«Le è possibile scoprire qualcosa su di loro?»
«Forse. Perché è importante?»
«Dipende da un'altra domanda... perché mi paga per spingere i terroristi
ad agire?» domandò Popov.
361
«Non ha la necessità di saperlo, Dmitrij.»
«Sì, signore, ce l'ho. Non si possono mettere in piedi operazioni contro
avversari molto esperti senza avere qualche idea dell'obiettivo generale.
Non si può proprio, signore. Inoltre, ha investito notevoli risorse per
queste operazioni. Ci dev'essere uno scopo. Devo sapere di che si tratta.»
Quello che non aveva detto ma che traspariva dalle sue parole, era che,
con il tempo, avrebbe potuto comunque capirlo da solo.
Il suo principale si rese conto che la propria esistenza era nelle mani
dell'ex spia russa. Poteva negare qualunque cosa eventualmente sostenuta
da quell'uomo in una pubblica assise, e aveva anche la possibilità di farlo
scomparire, ma questa era un'opzione a rischio, poiché Popov poteva
anche averne parlato con altri o aver lasciato un documento scritto.
I conti bancari da cui Popov aveva ritirato i fondi che aveva distribuito
erano stati accuratamente puliti, ma c'era qualche traccia che un
investigatore molto intelligente e attento sarebbe stato in grado di seguire
a ritroso arrivando abbastanza vicino a lui. Il problema dei conti bancari
elettronici era che rimaneva sempre una traccia di elettroni e le
registrazioni bancarie riportavano l'ora e la specifica dell'ammontare,
tanto da far sospettare l'esistenza di un collegamento. Ciò poteva
provocare qualche imbarazzo. Peggio, non era qualcosa che poteva
facilmente permettersi ma un ostacolo per la grande missione ora in corso
in posti diversi come New York, Kansas, e Brasile. E l'Australia,
naturalmente, che rappresentava lo scopo principale di quello che stava
facendo.
«Dmitrij, mi ci lascia pensare?»
«Sì, signore. È naturale. Se vuole che faccia il mio lavoro in maniera
efficace, devo saperne di più. Di sicuro ha altre persone di cui si fida.
Mostri loro questi nastri e veda se ritengono che l'informazione sia
importante.» Popov si alzò. «Mi chiami quando ha bisogno di me.»
«Grazie per l'informazione.» Attese che la porta si chiudesse, poi
compose un numero a memoria. Il telefono suonò quattro volte prima che
ci fosse la risposta.
«Salve», disse una voce. «Avete chiamato la casa di Bill Henriksen.
Spiacente, non posso rispondere ora. Perché non provate al mio ufficio?»
«Dannazione», esclamò. Poi ebbe un'idea e prese il telecomando. CBS,
no, NBC, no...
«Ma uccidere una bimba ammalata», osservò il conduttore del
362
programma Good Morning, America dell'ABC.
«Charlie, molto tempo fa, un tale di nome Lenin affermò che lo scopo
del terrorismo era di terrorizzare. Ecco chi sono, ed ecco cosa fanno. Là
fuori il mondo è ancora pericoloso, forse ancora di più oggi perché non vi
sono paesi che, anche se erano soliti sostenere i terroristi, di fatto
imponevano alcune limitazioni al loro comportamento. Oggi quelle
restrizioni non ci sono più», commentò Henriksen. «Da quel che si dice,
questo gruppo voleva il rilascio del loro vecchio amico Carlos lo
Sciacallo. Non ha funzionato, ma vale la pena osservare che, per garantire
il rilascio di uno di loro, hanno tentato una missione terroristica classica:
per fortuna, è fallita, grazie alla polizia spagnola.»
«Come valuterebbe l'operato della polizia?»
«Piuttosto buono. Si preparano tutti sullo stesso copione, è naturale, e i
migliori tra loro seguono un addestramento incrociato a Fort Bragg o a
Hereford in Inghilterra e in altri posti, Germania e Israele, per esempio.»
«Ma un ostaggio è stato assassinato.»
«Charlie, non puoi fermarli tutti», commentò con amarezza l'esperto.
«Puoi trovarti a tre metri di distanza, con un'arma carica in mano, e
talvolta non puoi intervenire, perché farlo vorrebbe dire solo far uccidere
altri ostaggi. Sono disgustato da quell'assassinio quanto te, amico mio, ma
quelli di cose del genere non ne faranno più.»
«Ringraziamo per il suo intervento Bill Henriksen, presidente della
Global Security e consulente dell'ABC sul terrorismo. Il tempo a nostra
disposizione è terminato.» Interruzione pubblicitaria.
Nel cassetto della scrivania aveva il numero del teledrin di Bill. Lo
chiamò, digitando la linea privata. Poco dopo, il telefono squillò.
«Sì, John, che c'è?» Sul cellulare si sentiva il rumore della strada.
Henriksen doveva essere fuori dagli studi della ABC, a due passi da
Central Park West, probabilmente diretto alla sua auto.
«Bill, ti devo vedere nel mio ufficio il più presto possibile. Puoi venire
adesso?»
«Sicuro. Dammi venti minuti.»
Henriksen aveva un telecomando per entrare nel garage del palazzo e
accedere a uno dei posti riservati. Entrò nell'ufficio diciotto minuti dopo
la chiamata.
«Che c'è?»
«Ti ho visto in tv questa mattina.»
363
«Mi chiamano sempre per queste cose», precisò Henriksen. «E stato un
bel lavoro abbattere quei bastardi, almeno da quello che si è visto dallo
spezzone in tv. Mi farò dare anche il resto.»
«Oh?»
«Sì, ho i contatti giusti. Il video che hanno dato è stato tagliuzzato mica
male. I miei riceveranno dagli spagnoli tutti i nastri, che non sono
comunque classificati, a scopo d'analisi.»
«Guarda questo», gli disse John, collegando la tv al registratore e
facendo scorrere il nastro su Worldpark. Poi dovette alzarsi e passare alla
cassetta di Vienna. Trenta secondi di quella e poi Berna. «Allora, che ne
pensi?»
«La stessa squadra in tutti tre?» si chiese ad alta voce Henriksen. «Di
sicuro sembra così... ma chi diavolo sono?»
«Conosci chi è Popov?»
Bill annuì, «Sì, quel tale del KGB che hai trovato. È lui che c'è
arrivato?»
«Sì.» Un cenno d'assenso. «Meno di un'ora fa, era qui a mostrarmi
questi nastri. Lo preoccupano. E a te preoccupano?»
L'ex agente dell'FBI fece una smorfia. «Non sono sicuro. Vorrei prima
saperne di più. »
«Lo puoi scoprire?»
Questa volta alzò le spalle. «Posso parlarne con alcune persone, fiutare
un po' in giro. Il fatto è che, se c'è davvero da qualche parte un reparto
segreto per operazioni speciali, dovrei averlo già saputo. Voglio dire, ho
conoscenze in tutto il settore. E tu?»
«Posso fare qualche tentativo, in sordina. Magari fingendo una semplice
curiosità.»
«Che cos'altro ti ha detto Popov?»
«Vuoi sapere perché gli faccio fare quelle cose.»
«È il problema con le spie. Vogliono sapere. Cioè, pensa, che succede
se faccio partire una missione e uno di quelli viene preso vivo? Molto
spesso, una volta dentro, cantano come canarini innamorati, John. Se uno
lo denuncia, potrebbe trovarsi nella merda. È improbabile, l'ammetto, ma
può capitare, e le spie sono addestrate a essere prudenti.»
«E se dovessimo toglierlo di mezzo?»
Un'altra smorfia. «Ci vuole cautela in queste cose, caso mai avesse
lasciato un pacchetto a un amico da qualche parte. Nessuno può dire se
364
l'ha fatto, ma devo presumere di sì. Come ho detto, sono addestrati a
essere prudenti. Quest'operazione non è priva di rischi, John. Lo
sapevamo quando abbiamo cominciato. Quanto manca ad avere i...»
«Molto poco. Il programma di prove sta andando bene. Ancora un mese
più o meno e sapremo tutto ciò che dobbiamo sapere.»
«Bene, tutto quello che io devo fare è ottenere il contratto per Sydney.
Volo là domani. Questi incidenti non creeranno problemi.»
«Con chi lavorerai?»
«Gli australiani hanno il loro SAS. Dicono che sia un gruppo piccolo...
piuttosto ben addestrato, ma privo dei sistemi più moderni. E questo
l'aggancio che intendo utilizzare. Ho quello di cui hanno bisogno, a prezzi
buoni», sottolineò con enfasi Henriksen. «Fammi vedere di nuovo la
cassetta, quella dell'operazione spagnola», chiese.
John si alzò dalla scrivania, inserì il nastro e lo fece scorrere fino
all'inizio dello spezzone reso pubblico. Mostrava il team d'assalto che si
calava dall'elicottero.
«Cazzo, non l'avevo notato!» ammise l'esperto.
«Che cosa?»
«Dobbiamo procurarci un nastro migliore, ma quello non sembra un
elicottero della polizia. È un Sikorsky H-60.»
«E allora?»
«Allora, il -60 non è mai stato certificato per impiego civile. Vedi come
ha la scritta POLICE dipinta sulla fiancata? È un'applicazione civile. Non
è un elicottero della polizia, John. È militare... e se questa sulla destra è
una sonda per il rifornimento in volo, allora è un aeromobile delle
operazione speciali. Ciò significa aeronautica militare degli Stati Uniti,
amico. Questo ci dice anche dove questi uomini stanno di base...»
«Dove?»
«Inghilterra. L'USAF dispone del 1° Special Operations Wing, uno
stormo operazioni speciali di base in Europa, parte in Germania, parte in
Inghilterra... MH-60K, penso sia quello l'elicottero che hanno in
dotazione, costruito per ricerca e soccorso in zona di combattimento e per
portare gente speciale a fare cose speciali. Il tuo amico Popov ha ragione.
C'è un gruppo speciale di persone, e hanno il supporto americano, come
minimo, se non molto di più. Il fatto è: chi diavolo sono?»
«È importante?»
«Potenzialmente, sì. Che succede se gli australiani li chiamano per farsi
365
aiutare nel lavoro che sto cercando di ottenere io, John? Potrebbe mandare
tutto all'aria.»
«Tu fai le tue indagini. Io faccio le mie.»
«D'accordo.»
17
INDAGINI
Pete aveva ora sei amici nel centro di trattamento. Ormai solo due
soggetti stavano abbastanza bene da rimanere nella zona giorno con i
cartoni animati e il whisky, e Killgore previde che sarebbero arrivati lì
entro la fine della settimana, talmente pieno era il loro sangue degli
anticorpi di Shiva. Era strano come la malattia attaccasse persone diverse
in modi così differenti, ma ognuno aveva un diverso sistema immunitario.
Ecco perché alcune persone si ammalavano di cancro e altre no,
nonostante il fumo e altre cattive abitudini.
A parte ciò, tutto stava andando più liscio del previsto. Pensò che fosse
dovuto alle dosi elevate di morfina che li aveva in pratica istupiditi tutti
quanti. Abbastanza di recente era stato scoperto in medicina che non c'era,
in effetti, una dose sicura massima di antidolorifici. Se il paziente sentiva
ancora dolore, si poteva aumentare la quantità finché non passava. Dosi di
livello tale da provocare l'arresto respiratorio in persone sane, in quelli
con grandi sofferenze erano perfettamente sicure, e ciò rendeva il suo
lavoro molto più semplice. Ogni erogatore di droga aveva un pulsante che
i soggetti potevano premere, se ne sentivano la necessità, cosicché
curavano se stessi entrando in un sereno oblio; tale soluzione proteggeva
la sicurezza del personale, che non doveva fare tutte quelle ricerche della
vena con la siringa. Appendevano alle piantane il nutrimento,
verificavano che le flebo fossero ben inserite, ed evitavano il più possibile
di toccare i soggetti. Più tardi, in giornata, a tutti sarebbe stato iniettato il
vaccino B, che si riteneva potesse proteggerli da Shiva con un elevato
grado di affidabilità. Steve Berg diceva dal novantotto al novantanove per
cento. Non era però come dire il cento per cento, e così le misure
protettive sarebbero continuate.
Era comprensibile che non ci fosse molta compassione per i soggetti.
Prelevare barboni dalla strada era stata una buona pensata. La serie
successiva di soggetti di prova avrebbe suscitato più compassione, ma
366
ognuno in quest'ala dell'edificio era stato ben addestrato. Molto di quello
che facevano poteva essere sgradevole, ma doveva essere fatto.
«Qualche volta penso che la gente di Prima la Terra abbia ragione»,
sostenne Kevin Mayflower nel ristorante Palm.
«Come mai?» domandò Carol Brightling.
Il presidente del Sierra Club guardò nel bicchiere del vino. «Noi
distruggiamo tutto ciò che tocchiamo. Le spiagge, gli acquitrini, le
foreste... guarda che cosa ha fatto a tutto questo la civiltà. Certo,
proteggiamo alcune aree... ma quante? Soltanto il tre per cento, forse.
Cazzo, che fatica. Avveleniamo tutto, compresi noi stessi. Il buco
dell'ozono si sta davvero allargando, secondo il nuovo studio della
NASA.»
«Sì, ma hai sentito la proposta di come contenere i danni?» domandò il
consigliere scientifico del presidente.
«In che modo?»
Lei fece una smorfia. «Prendi un po' di Jumbo, li riempi d'ozono, li fai
decollare dall'Australia e liberare l'ozono ad alta quota per mettere una
pezza. Ho quella proposta proprio ora sulla scrivania.»
«E...?»
«Ed è come voler fare un aborto durante l'intervallo di una partita di
calcio, con replay istantaneo e commenti coloriti. Non è possibile che
funzioni. Dobbiamo lasciare che il pianeta curi se stesso... ma non lo
faremo, è ovvio.»
«Altre belle notizie?»
«Oh, sì, il problema della CO2 C'è un tale ad Harvard che dice che se
gettiamo limatura di ferro nell'Oceano Indiano, possiamo favorire la
crescita di fitoplancton e ciò risolverà il problema della CO2 quasi
dall'oggi al domani. I calcoli teorici sembrano abbastanza buoni. Tutti
questi geni che dicono di essere in grado di salvare il pianeta, come se
avesse bisogno di essere salvato... invece di lasciarlo in pace.»
«E che cosa dice il presidente?» chiese Mayflower.
«Dice a me di chiedergli se funzionerà e, se sembra probabile, effettuare
degli esperimenti per esserne sicuri, poi fare un tentativo reale. Non ha la
più pallida idea e non sta ad ascoltare.» Non aggiunse che doveva eseguire
i suoi ordini, che le piacesse o no.
«Forse i nostri amici di Prima la Terra hanno ragione, Carol. Forse
367
siamo una specie parassita sulla faccia della terra e forse distruggeremo
l'intero dannato pianeta prima di rendercene conto.»
«Proprio come diceva Rachel Carson?» chiese lei, riferendosi alla
famosa ecologa americana, morta più di trent'anni prima, che aveva
ispirato la fondazione di varie organizzazioni per la protezione
dell'ambiente.
«Guarda, conosci la scienza come me... forse meglio. Facciamo cose
come... come la catastrofe di Alvarez che ha fatto sparire i dinosauri, solo
che noi lo facciamo consapevolmente. Quanto c'è voluto al pianeta per
riprendersi?»
«Alvarez? Il pianeta non s'è ripreso, Kevin», osservò Carol Brightling.
«Di colpo è partito con i mammiferi... noi, ricordi? L'ordine ecologico
preesistente non ritornò mai più. È successo qualcosa di nuovo e ci son
voluti un paio di milioni di anni solo per stabilizzarsi.» Dev'essere stato
da vedere, disse tra sé. Osservare un fenomeno simile mentre avveniva,
che spettacolo doveva essere stato, ma non c'era stato probabilmente
nessuno in grado di apprezzarlo. A differenza di oggi.
«Entro pochi anni ne potremo vedere la prima parte. Quante altre specie
uccideremo quest'anno, e se la situazione dell'ozono continua a
peggiorare... Dio mio, Carol, perché la gente non capisce? Non vedono
ciò che sta accadendo? Non gliene importa nulla?»
«Kevin, no, non vedono e non gliene importa niente. Guardati in giro.»
Il ristorante era pieno di persone importanti che indossavano vestiti
eleganti durante le loro cene importanti, discutevano di questioni
importanti, nessuna delle quali aveva qualcosa a che vedere con la crisi
planetaria che incombeva, proprio alla lettera, sopra le loro teste. Se la
fascia di ozono svaniva davvero, come sarebbe potuto succedere,
avrebbero cominciato a usare creme solari solo per camminare per strada,
e forse ciò li avrebbe protetti abbastanza... ma che cosa sarebbe successo
alle specie naturali, agli uccelli, alle lucertole, a tutte le creature sul
pianeta che non avevano una tale possibilità? Gli studi suggerivano che i
loro occhi sarebbero stati cotti dalla radiazione ultravioletta non filtrata, il
che li avrebbe uccisi e così l'intero ecosistema globale sarebbe
rapidamente andato in pezzi. «Pensi che qualcuna di queste persone lo
sappia... o, anche sapendolo, faccia qualcosa?»
«Credo di no.» Sorseggiò ancora un po' del suo vino bianco. «Noi
continueremo a farlo presente.»
368
«È buffo», proseguì lei. «Non molto tempo fa combattevamo le guerre,
che riducevano a sufficienza la popolazione cosicché non poteva
danneggiare più di tanto il pianeta... ma ora si proclamava dappertutto la
pace e stiamo potenziando la nostra capacità industriale; così la pace ci sta
distruggendo molto di più, e meglio, di quanto non abbia mai fatto la
guerra. Ironia della sorte.»
«E la medicina moderna. La zanzara anofele era piuttosto brava a tenere
bassi i numeri... sai che un tempo Washington era una palude malarica, i
diplomatici la consideravano una destinazione pericolosa! Così abbiamo
inventato il DDT. Buono per controllare le zanzare ma micidiale per il
falco pellegrino. Non ne facciamo mai una giusta. Mai», concluse
Mayflower.
«E se?...» domandò lei con aria quasi sognante.
«E se che cosa, Carol?»
«E se la natura venisse fuori con qualcosa in grado di far diminuire la
popolazione umana?»
«La Gaea Hypothesis?» Lo fece sorridere. L'idea era che la terra fosse
essa stessa un organismo pensante, in grado di auto-correggersi e trovare i
modi per regolare le numerose specie viventi che popolavano il pianeta.
«Anche se è valida... e davvero spero che lo sia... temo che noi umani ci
muoviamo troppo in fretta perché il pianeta riesca a tener dietro a noi e al
nostro lavoro. No, Carol, abbiamo creato un patto suicida e stiamo per
distruggere tutto il resto con noi; fra un centinaio d'anni, quando la
popolazione umana si sarà ridotta a circa un milione di persone, sapranno
che cosa è andato storto, leggeranno i libri e guarderanno i nastri registrati
del paradiso che avevamo una volta; malediranno i nostri nomi e forse, se
sono fortunati, trarranno da ciò una lezione quando si risolleveranno
strisciando dalla melma. Forse. Ne dubito. Anche se tenteranno
d'imparare, saranno più preoccupati di costruire reattori nucleari per poter
utilizzare i loro spazzolini da denti elettrici. Rachel aveva ragione. Un
giorno ci sarà una primavera silenziosa, ma allora sarà troppo tardi.» Prese
l'insalata, chiedendosi che prodotti chimici ci fossero nella lattuga e nei
pomodori. Qualcuno, ne era certo. In questa stagione dell'anno, la lattuga
veniva dal Messico, dove i contadini ne facevano di tutti i colori ai loro
raccolti e forse l'aiuto cuoco l'aveva lavata, ma forse no, ed eccolo qui, a
consumare un pranzo costoso e ad avvelenarsi: ne era sicuro così com'era
sicuro di assistere all'avvelenamento dell'intero pianeta. Non occorreva
369
che lo dicesse, bastava la sua espressione profondamente disperata.
Era pronto a essere reclutato, pensò Carol Brightling. Era il momento. E
avrebbe portato con sé qualche brava persona e ci sarebbe stato posto per
loro in Kansas e Brasile. Dopo una mezz'ora, lei prese congedo e ritornò
alla Casa Bianca per la riunione di gabinetto settimanale.
«Ciao, Bill», disse Gus dal suo ufficio nell'Hoover Building.
«Novità?» «Hai visto la tv stamattina?» chiese Henriksen.
«Vuoi dire i fatti in Spagna?» precisò Werner.
«Sì.»
«Certo. Ti ho anche visto in tv.»
«Il mio geniale intervento?» Fece una risatina. «Fa bene agli affari.»
«Sì, ci credo. A ogni modo, che cosa ne dici?»
«Non era la polizia spagnola, Gus. So come si addestrano. Non è il loro
stile. Allora, chi era, Delta, SAS, HRT?»
Gus Werner socchiuse gli occhi. Ora era vicedirettore dell'FBI; un
tempo era stato agente speciale incaricato dell'HRT, la squadra di
salvataggio ostaggi dell'FBI. Promosso, era stato agente speciale
incaricato della divisione operativa di Atlanta, e adesso era vicedirettore
incaricato della nuova divisione antiterrorismo. Bill Henriksen aveva un
tempo lavorato per lui, poi aveva lasciato l'ente per dar vita a una propria
società di consulenza, ma una volta che sei stato FBI rimani FBI e così ora
Bill stava cercando informazioni.
«Non posso davvero parlarne, amico mio.»
«Oh?»
«Oh? Sì. Non ne posso parlare», ribadì secco Werner.
«Argomenti classificati?»
«Qualcosa di simile», ammise Werner.
Una risatina. «Be', questo mi dice già qualcosa.»
«No, Bill, non ti dice proprio nulla. Non posso infrangere le regole, lo
sai.»
«Sei sempre stato uno che viaggia diritto», riconobbe Henriksen.
«Chiunque siano, felice che stiano dalla nostra parte. In tv l'azione mi è
sembrata piuttosto ben condotta.»
«Questo è vero.» Werner disponeva della serie completa di nastri
trasmessa via canale satellitare criptato dall'ambasciata degli Stati Uniti a
Madrid alla National Security Agency e da lì alla sede centrale dell'FBI.
370
Aveva visto tutto, e si aspettava di ricevere altri dati nel pomeriggio.
«Di' loro una cosa, però, se hai l'occasione.»
«Che cosa, Bill?» rispose senza compromettersi.
«Se vogliono apparire come la polizia locale, non dovrebbero utilizzare
un elicottero dell'USAF. Non sono stupido, Gus. I telecronisti possono
anche non accorgersene, ma per uno con un po' di cervello era piuttosto
evidente.»
Cazzo, pensò Werner. Quel punto doveva essere scivolato lungo i
meandri della sua mente e gli era sfuggito del tutto, ma Bill non era mai
stato uno sciocco, e si chiese come mai i media non se ne fossero accorti.
«Eh?»
«Non fare così, Gus. Era un elicottero Sikorsky modello 60. Ti ricordi.
Ci giocavamo a Fort Bragg. Lo preferivamo agli Hughes che ci avevano
dato, ma non aveva certificazione civile e così non te lo lasciavano
comprare», ricordò al suo ex capo.
«Passerò l'informazione», promise Werner. «Qualcun altro se n'è
accorto?»
«Non che io sappia, e non ne ho parlato questa mattina all'ABC.»
«No, non l'hai fatto. Grazie.»
«Allora, mi puoi dire qualcosa di questa gente?»
«Mi spiace, amico, non posso. È roba in codice e, in verità», mentì
Werner, «io stesso non ne so molto.» Palle, gli sembrò quasi di sentire
dall'altro capo del telefono. Non reggeva. Se c'era un gruppo speciale
antiterrorismo e se gli Stati Uniti vi prendevano parte, sicuro come l'oro
che il maggior esperto dell'FBI sul campo avrebbe dovuto saperne
qualcosa. Henriksen lo sapeva senza che gli venisse detto. Ma le regole
erano le regole e non c'era verso che un consulente venisse ammesso nel
reparto classificato chiamato Rainbow; anche Bill sapeva quali erano le
regole.
«Sì, Gus, certo», fu la risposta un po' ironica. «Comunque, sono
piuttosto in gamba, ma lo spagnolo non è la loro lingua madre e hanno
accesso a velivoli americani. Di' loro che dovrebbero stare un po' più
attenti.»
«Lo farò», promise Werner, prendendo un appunto.
Progetto segreto, pensò Henriksen, dopo aver riattaccato. Mi domando
da dove vengono i fondi... Chiunque fossero quelle persone, avevano
collegamenti con l'FBI, oltre che con il ministero della Difesa. Che
371
cos'altro poteva arguire? Dove avevano la base? Per capirlo... sì, era
possibile. Aveva solo bisogno dell'ora d'inizio delle tre azioni, poi capire a
che ora erano apparsi i cowboy, e da ciò poteva fare una stima abbastanza
precisa del loro punto di partenza. Gli aerei di linea viaggiavano a circa
cinquecento nodi e questo forniva la distanza coperta.
Dev'essere l'Inghilterra, decise Henriksen. Era l'unico posto per cui
tornavano i conti. I britannici avevano tutte le infrastrutture e la sicurezza
a Hereford era piuttosto buona... era stato là e si era addestrato con il SAS
mentre faceva parte del gruppo salvataggio ostaggi dell'FBI, lavorando per
Gus. Avrebbe avuto la conferma dalle registrazioni scritte sugli incidenti
di Berna e Vienna. Il suo personale seguiva tutte le operazioni di
antiterrorismo come parte della normale attività, inoltre poteva
interpellare i suoi contatti in Svizzera e in Austria per scoprire
qualcos'altro. Non sarebbe stato difficile. Guardò l'orologio. Meglio
chiamare subito, dato che erano sei ore avanti. Consultò la sua agenda
telefonica e fece una chiamata sulla sua linea privata.
Progetto segreto? si chiese. Vedremo.
La riunione di gabinetto terminò presto. L'agenda congressuale del
presidente procedette senza intoppi, il che rese le cose facili per tutti.
Avevano proceduto solo a due votazioni... di fatto, semplici sondaggi tra i
membri del gabinetto, dato che il presidente disponeva dell'unico vero
voto, come aveva chiarito lui stesso alcune volte, e come Carol ricordava
bene. La riunione ebbe termine e le persone uscirono dal palazzo.
«Ciao, George», così la dottoressa Brightling salutò il segretario al
Tesoro.
«Ciao, Carol, gli alberi contraccambiano ancora i tuoi abbracci?»
domandò con un sorriso.
«Sempre», rise rispondendo a quel plutocrate ignorante. «Hai visto la tv
questa mattina?»
«Su che cosa?»
«I fatti in Spagna.»
«Oh, sì, Worldpark. E allora?»
«Chi erano quegli uomini mascherati?»
«Carol, se devi chiederlo, vuoi dire che non sei autorizzata a saperlo.»
«Non voglio il loro numero di telefono, George», rispose lei, lasciando
che le tenesse la porta aperta. «E io sono autorizzata praticamente a tutto,
372
ricordi?»
Il segretario dovette ammettere che era vero. Il consigliere scientifico
del presidente aveva l'autorizzazione per ogni tipo di programma
classificato, inclusi gli armamenti, nucleari e non. In effetti, se lo
chiedeva, era autorizzata a saperlo. Piuttosto avrebbe desiderato che non
l'avesse chiesto. Già troppe persone sapevano di Rainbow. Sospirò.
«Lo abbiamo costituito alcuni mesi fa. È segreto, d'accordo? Un reparto
per le operazioni speciali, multinazionale, opera da qualche base in
Inghilterra, soprattutto americani, britannici, ma anche altri. L'idea è
venuta a uno dell'Agenzia simpatico al capo... e finora sembrano aver
fatto faville.»
«Salvare quei bambini è stato qualcosa di speciale. Spero che per
quest'azione abbiano ricevuto una pacca sulle spalle.»
Una risatina. «Puoi starne certa. Il capo ha mandato il suo messaggio
personale questa mattina.»
«Come si chiama?»
«Sei sicura di volerlo sapere?» domandò George.
«Perché? Che cosa ci può essere di così importante in un nome?»
«Questo è vero.» Il segretario annuì. «Si chiama Rainbow. Per la sua
natura multinazionale.»
«Chiunque siano, hanno fatto un buon lavoro la notte scorsa. Dovrei
venire informata su organizzazioni del genere. Posso essere utile, lo sai»,
osservò.
«Di' al capo che vuoi essere informata.»
«Sono un po' sulla sua lista nera ora, ricordi?»
«Sì, allora ritorna ai tuoi problemi ambientali, d'accordo? Diavolo,
amiamo tutti l'erba verde e il cinguettio degli uccellini. Ma il cinguettio
degli uccellini non ci spiega a sufficienza come governare il paese.»
«George, questi sono problemi scientifici davvero importanti con cui ho
a che fare», osservò Carol Brightling.
«Se lo dici tu, dottoressa. Ma se lasci da parte la retorica, forse la gente
ti ascolterà un po' di più. È solo un consiglio», suggerì il segretario al
Tesoro, mentre apriva la portiera dell'auto con cui coprire la distanza di
due isolati per tornare alla sede del suo dicastero.
«Grazie, George, ci penserò», promise lei. La salutò mentre l'autista
partiva.
Rainbow, disse tra sé Carol Brightling mentre attraversava il West
373
Executive Drive. Valeva la pena cercare di saperne di più?
Raggiungendo l'ufficio, inserì la scheda di plastica nel suo telefono
protetto STU-4 e chiamò la CIA sulla linea privata del direttore.
«Sì?» rispose una voce maschile.
«Ed, sono Carol Brightling.»
«Ciao. Com'è andata la riunione di gabinetto?»
«Tranquilla, come sempre. Ho una domanda da farti.»
«Quale, Carol?» chiese il direttore.
«Riguarda Rainbow. È stata una bella operazione quella in Spagna la
scorsa notte.»
«Ne sei a conoscenza?» domandò Ed.
«Come potrei saperne il nome, Ed? So che l'ha messa in piedi uno dei
tuoi. Non ricordo il nome, quel tipo che piace tanto al presidente.»
«Sì, John Clark. Una volta era il mio ufficiale addestratore, tanto tempo
fa. Persona fidata. Ne ha passate ancor più di quante ne abbiamo passate
Mary Pat e io. A ogni modo, che cosa t'interessa?»
«I nuovi sistemi per criptare la radio tattica di cui si sta occupando
l'NSA. Ce li hanno ancora?»
«Non so», rispose il direttore. «Sono già pronti per entrare in servizio?»
«Dovrebbero esserlo tra un mese. Il costruttore sarà la E-System e
pensavo che dovrebbero essere al più presto assegnati a Rainbow. Voglio
dire, sono là in prima linea. Dovrebbero averli per primi.»
Dall'altro capo del filo, il direttore della CIA si ricordò che avrebbe
dovuto prestare più attenzione al lavoro svolto presso la National Security
Agency. Inoltre, si era permesso di dimenticare che Carol Brightling
aveva l'autorizzazione "black card", che le permetteva di accedere al
sancta sanctorum a Fort Meade.
«Non è una cattiva idea. Con chi devo parlarne?»
«L'ammiraglio McConnell penso. E la sua agenzia. Comunque, solo un
consiglio da amica. Se la squadra Rainbow è così scottante, dovrebbe
avere i giocattoli migliori.»
«Okay, m'informerò. Grazie, Carol.»
«Prego, Ed, e magari un giorno dammi tutte le informazioni sul
programma, d'accordo?»
«Sì, non c'è problema. Posso mandare qualcuno a darti le informazioni
di cui hai bisogno.»
«Bene, quando ti fa comodo. A presto.»
374
«Ciao, Carol.» La linea protetta fu interrotta. Carol sorrise al telefono.
Ed non le avrebbe mai fatto domande sull'argomento? Sapeva già il nome,
aveva detto cose carine sul reparto speciale e offerto il proprio aiuto,
proprio come avrebbe fatto una leale burocrate. E ora aveva persino il
nome del capo dell'organizzazione. John Clark. Addirittura l'ufficiale
addestratore di Ed, tanto tempo prima. Era così facile avere le
informazioni di cui avevi bisogno parlando la lingua giusta. Ecco perché
si teneva stretto questo lavoro, nonostante tutte le frustrazioni.
Uno dei suoi fece il calcolo, stimò i tempi di trasferimento, e la risposta
arrivò: Inghilterra, proprio come aveva sospettato. Il triangolo dei tempi,
sia per Berna sia per Vienna, aveva il vertice a Londra o nelle sue
vicinanze. Tornava, secondo Henriksen. La British Airways andava
ovunque e aveva sempre avuto rapporti cordiali con il governo britannico.
Quindi, chiunque fosse, il reparto speciale era di base a... Hereford, quasi
certamente là. Era probabile che fosse multinazionale... ciò l'avrebbe reso
politicamente più accettabile ad altri paesi. Allora, doveva essere
americano e britannico, forse anche di altre nazionalità, con accesso a
materiale americano come l'elicottero biturbina Sikorsky. Gus Werner ne
era a conoscenza... poteva avere nell'organizzazione qualcuno dell'FBI?
Era probabile, pensò Henriksen. La squadra salvataggio ostaggi era
essenzialmente un reparto di polizia, ma dato che la sua missione era
l'antiterrorismo, agiva e interagiva con altre organizzazioni simili di tutto
il mondo, anche se quelle erano soprattutto militari. Le missioni erano
quasi le stesse e pertanto le persone a esse destinate erano pressoché
intercambiabili, e gli uomini dell'HRT dell'FBI erano tra i migliori al
mondo. Così, era probabile che qualcuno di loro, che forse conosceva,
fosse dentro Rainbow. Sarebbe stato utile scoprire chi, ma per ora era
troppo presto.
Al momento, la cosa importante era che questo reparto antiterrorismo
costituiva un pericolo potenziale. Che sarebbe successo se fossero
intervenuti a Melbourne? Avrebbe compromesso qualcosa? Di sicuro non
avrebbe aiutato, soprattutto se nei suoi ranghi ci fosse stato un agente
dell'FBI. Henriksen conosceva bene l'ambiente per averne fatto parte per
quindici anni e non si faceva illusioni sui suoi membri. Avevano occhi in
grado di vedere e cervelli in grado di pensare, e non gli sfuggiva nulla.
Così, la sua strategia di far prendere coscienza al mondo della minaccia
del terrorismo, aiutandolo quindi a ottenere il contratto in Australia,
375
poteva aver compiuto un passo in avanti non previsto. Ma la legge delle
conseguenze non previste poteva colpire chiunque. Ecco perché lui era nel
giro, perché era il suo mestiere trattare le cose non previste. Ed eccolo qui,
ancora a raccogliere informazioni. Doveva saperne di più. La notizia
veramente cattiva era che doveva volare in Australia tra meno di un
giorno e non sarebbe stato in grado di raccogliere personalmente altre
notizie. Bene. Avrebbe cenato stasera con il capo per riferirgli quel che
sapeva e forse quel tale ex KGB sul libro paga avrebbe potuto aiutarli a
fare un piccolo passo avanti. Finora, aveva dimostrato davvero di sapere il
fatto suo. Un fumatore di pipa. Non smetteva mai di meravigliare
Henriksen come queste piccole cose potevano risolvere un dilemma.
Occorreva proprio tenere la testa alta e gli occhi aperti.
«L'Interleukin non ha alcun effetto», osservò John Killgore,
allontanando lo sguardo dal monitor. Lo schermo del microscopio
elettronico non mostrava niente di nuovo. I filamenti di Shiva si stavano
riproducendo allegramente, divorando nel processo il tessuto sano.
«Allora?» domandò la dottoressa Archer.
«Allora, è l'unica possibilità di trattamento che mi dava
preoccupazione: -3a è un nuovo sviluppo eccitante, ma Shiva se la ride e
va avanti. Questo germe è un vero e proprio figlio di puttana.»
«E i soggetti?»
«Ero con loro poco fa. Pete è spacciato, così come gli altri. Shiva se li
sta divorando. Hanno tutti gravi emorragie interne e nulla ferma il
disfacimento dei tessuti. Ho tentato di tutto. Questi poveracci non
avrebbero potuto avere cure migliori a Hopkins, Harvard o nella Mayo
Clinic, e stanno tutti crepando. Ora», ammise, «ce ne saranno alcuni i cui
sistemi immunitari possono farcela, ma saranno casi molto rari.»
«Quanto rari?» chiese lei all'epidemiologo.
«Meno di uno su mille, forse uno su diecimila. Anche la variante
pneumonica della peste non uccide tutti», le ricordò. Si trattava della
malattia più letale del pianeta e lasciava in vita solo una persona su
diecimila. Alcuni individui, lei lo sapeva, possedevano sistemi immunitari
in grado di distruggere ogni corpo estraneo. Erano quelli che vivevano più
o meno cent'anni. Non c'entrava niente il fumo, non fumo, bere al mattino
o qualunque altra stupidaggine pubblicata sui giornali come il segreto per
vivere a lungo. Stava tutto nei geni. Alcuni erano meglio di altri. Era
molto semplice.
376
«Allora non ci preoccupa più di tanto.»
«La popolazione mondiale è ora tra i cinque e i sei miliardi. È un po' più
di cinque per dieci alla nona persone, sottraendo quattro dall'esponente si
ha qualcosa dell'ordine di cinque per dieci alla quinta sopravvissuti. Ci
saranno alcune centinaia di migliaia di persone che potrebbero non volerci
così bene.»
«Sparse in tutto il mondo», gli ricordò Barbara. «Senza organizzazione,
bisognose di guida e conoscenze scientifiche per aiutarle a sopravvivere.
Come potranno anche solo contattarsi? Le uniche ottocento persone
sopravvissute in tutta New York? E che dire delle malattie che verranno
con tutte quelle morti? Da queste non riuscirebbe a proteggerti il miglior
sistema immunitario al mondo.»
«Vero», ammise Killgore. Poi sorrise. «Stiamo addirittura migliorando
la razza.»
La dottoressa Archer capì la battuta. «Sì, John, è vero. Allora, il vaccino
B è pronto?»
«Sì, me lo sono fatto iniettare alcune ore fa. Tu sei pronta a fartelo?»
«Nel freezer, pronto per la produzione in serie non appena la gente ne
avrà bisogno. Saremo in grado, all'occorrenza, di produrlo in lotti di
migliaia di litri alla settimana. Abbastanza per coprire il pianeta. Steve
Berg e io abbiamo fatto il calcolo ieri.»
«Chi altro potrebbe...»
«Assolutamente nessuno. Nemmeno la Merck può muoversi così alla
svelta... e anche se lo facessero, sarebbero costretti a utilizzare la nostra
formula.»
Era l'ultima beffa. Se il piano di diffondere Shiva attorno al globo non
avesse funzionato come sperato, a tutto il mondo sarebbe stato dato il
vaccino A, a cui la Antigen Laboratories, divisione della Horizon Corp.,
stava casualmente impiegando ogni sforzo aziendale per aiutare il Terzo
Mondo, dove proliferavano tutte le febbri emorragiche. Un caso fortunato,
anche se già conosciuto negli annali della medicina. Sia John Killgore sia
Steve Berg avevano pubblicato lavori su queste malattie, che attiravano
molto l'attenzione a causa della grande paura che l'America e il mondo
avevano avuto non molto tempo prima. Pertanto, il mondo della medicina
sapeva che la Horizon/Antigen stava lavorando in questo campo e non
sarebbe suonata strana la notizia che c'era un vaccino in cantiere. Lo
avrebbero persino provato nei laboratori e scoperto che, con una certa
377
sicurezza, il liquido conteneva tutti i tipi di anticorpi. Ma sarebbero stati
gli anticorpi sbagliati e il vaccino con il virus vivo sarebbe stato una
condanna a morte per chiunque l'avesse fatto entrare nel proprio sistema
corporeo. Il tempo dall'iniezione all'insorgenza di sintomi evidenti era
previsto da quattro a sei settimane; poi, gli unici sopravvissuti sarebbero
stati quelli così fortunati da possedere rarissime caratteristiche genetiche.
Di queste persone, ne sarebbe sopravvissuto un centinaio su un milione.
Forse meno. Ebola-Shiva era un germe maledetto, tre anni di preparazione
e, cosa alquanto strana, pensò Killgore, così facile da creare. Così era la
scienza. La manipolazione genetica rappresentava un nuovo settore, ed era
imprevedibile. Ma le stesse persone nello stesso laboratorio percorrevano
anche un'altra strada nuova e imprevista... la longevità umana... e, da quel
che si diceva, facevano reali progressi. Tanto meglio. Una vita lunga per
apprezzare il nuovo mondo che avrebbe portato con sé Shiva.
Il progresso non si sarebbe arrestato. Molti tra quelli scelti per ricevere
il vaccino B erano scienziati. Alcuni di loro, quando avessero appreso la
notizia, non l'avrebbero gradita, ma non avevano molta scelta ed essendo
scienziati, sarebbero presto tornati al loro lavoro.
Non tutti i coinvolti nel progetto approvavano. Alcuni dei più radicali,
infatti, dicevano che portarsi dietro i medici era contrario alla natura della
missione, perché la medicina non permetteva alla natura di seguire il
proprio corso. Sicuro, sbuffò tra sé Killgore. D'accordo, avrebbero fatto
fare i figli a quegli idioti in aperta campagna, dopo una mattinata passata
ad arare o a cacciare, e ben presto quegli ideologi si sarebbero estinti.
Aveva in programma di studiare e godersi la natura, ma l'avrebbe fatto
indossando scarpe e giacca per proteggersi dal freddo. Aveva intenzione
di rimanere un uomo istruito, non di tornare a essere uno scimmione
nudo. La sua mente vagava... Ci sarebbe stata una suddivisione del lavoro,
naturalmente. I contadini a coltivare il cibo e allevare il bestiame che
avrebbero mangiato... o i cacciatori ad abbattere i bisonti, la cui carne era
più sana, con meno colesterolo. I bisonti sarebbero tornati molto presto,
pensava. Il frumento avrebbe continuato a crescere selvatico nelle grandi
pianure ed essi sarebbero diventati grassi e sani, soprattutto perché i loro
predatori, che erano stati cacciati senza pietà, avrebbero impiegato più
tempo a recuperare. I manzi d'allevamento sarebbero anch'essi cresciuti
floridi, ma lentamente sarebbero stati eliminati dai bisonti, una razza
molto più resistente e più adatta alla vita libera. Killgore voleva vedere
tutto ciò, vedere le grandi mandrie che avevano un tempo popolato l'Ovest
378
degli Stati Uniti. Voleva anche vedere l'Africa.
Questo significava che il progetto aveva bisogno di aeroplani e piloti.
La Horizon disponeva già di una propria flotta di jet d'affari Gulfstream
G-V, bireattori a lungo raggio in grado di volare in tutto il mondo, e
quindi occorrevano piccole squadre di tecnici e specialisti esperti per
gestire alcuni aeroporti... in Zambia, per esempio. Voleva vedere l'Africa
selvaggia e libera. Forse ci sarebbero voluti dieci anni per arrivarci, pensò
Killgore, e non era poi molto. L'AIDS stava uccidendo quel continente a
grandi passi, e Shiva non avrebbe fatto altro che accelerare tale situazione;
così il continente nero sarebbe stato di nuovo privo di uomini, e lui
avrebbe potuto andarci a osservare la natura in tutta la sua magnificenza...
e forse abbattere un Icone per farsi un tappeto per la sua casa in Kansas.
Alcune persone del progetto avrebbero fatto casino, ma che cosa
significava un Icone in più o in meno? Il progetto ne avrebbe salvati
centinaia di migliaia, forse milioni, liberi di vagare e cacciare in branco.
Che meraviglioso nuovo mondo sarebbe stato, una volta eliminata la
specie parassita che lavorava così alacremente per distruggerlo.
Un cicalino suonò. Si girò per guardare il quadro di controllo. «È Ernie,
M5... sembra un arresto cardiaco», disse.
«Che hai intenzione di fare?» domandò Barbara Archer.
Killgore si alzò. «Assicurarmi che sia morto.» Si chinò per selezionare
una telecamera per il grande monitor sulla sua scrivania. «Ecco, puoi
guardare.»
Dopo qualche minuto, apparve sullo schermo. Un infermiere era già lì,
ma non fece altro che osservare. La dottoressa vide Killgore verificare le
pulsazioni dell'uomo, poi controllarne gli occhi. Nonostante il vaccino B,
Killgore utilizzò guanti e maschera. Non aveva torto. Poi si rialzò e
spense l'apparecchiatura di monitoraggio. L'infermiere staccò le flebo e
coprì il corpo con un lenzuolo. Killgore indicò la porta e subito l'uomo
spinse fuori la barella, diretto all'inceneritore. Il medico cominciò poi a
controllare altri soggetti e sembrò persino parlare con uno di loro prima di
lasciare definitivamente lo schermo.
«Me l'immaginavo», esclamò ritornando nella sala controllo senza gli
indumenti di protezione. «Il cuore di Ernie non era così forte e Shiva l'ha
attaccato subito. Wendell sarà il prossimo, M2. Forse domattina. Le
funzioni epatiche sono oltre i limiti e ha emorragie gravissime nel tratto
gastro-intestinale superiore.»
379
«E gli altri?»
«Mary, F4, ancora due giorni e manifesterà sintomi evidenti.»
«Allora il sistema di erogazione funziona?» domandò la Archer.
«Alla perfezione.» Killgore assentì, prendendo un po' di caffè prima di
risedersi. «Funzionerà tutto, Barb, e le proiezioni al computer sembrano
migliori dei parametri che abbiamo richiesto. A sei mesi dall'inizio, il
mondo sarà un posto molto diverso», le promise.
«Sono ancora preoccupata per quei sei mesi, John. Se qualcuno capisce
ciò che è avvenuto, il loro ultimo atto cosciente sarà cercare di ucciderci
tutti.»
«Ecco perché siamo armati, Barb.»
«Si chiama "Rainbow"», annunciò, avendo ottenuto le migliori
informazioni della giornata. «E di base in Inghilterra ed è stato costituito
da uno della CIA di nome John Clark, che ne è ovviamente il capo.»
«Torna», intervenne Henriksen. «Multinazionale, vero?»
«Penso di sì», confermò John Brightling.
«Sì», ribadì Dmitrij Popov, girando distrattamente la sua insalata alla
messicana. «È tutto ragionevole, una specie di unità NATO, immagino,
con base a Hereford?»
«Esatto», rispose Henriksen. «A proposito, un bel lavoro scoprire chi
erano.»
Popov scrollò le spalle. «È stato facile, davvero. Avrei dovuto scoprirlo
prima. La mia domanda ora è: che cosa vuole che faccia al riguardo?»
«Penso che dovremmo saperne di più», replicò Henriksen, lanciando
un'occhiata al capo. «Molto di più.»
«Come farà?» domandò Brightling.
«Non è difficile», lo rassicurò Popov. Una volta che si sa dove cercare...
la battaglia è già vinta per metà. Una volta che lo si sa, basta andarci a
dare un'occhiata. E possiedo già un nome.»
«Vuole fare lei il lavoro?» John chiese al russo.
«Certo. Se mi paga per farlo. Ci sono dei rischi, ma...»
«Che genere di rischi?»
«Una volta ho lavorato in Inghilterra. Esiste la possibilità che abbiano
una mia fotografia, con un nome diverso, ma non penso sia probabile.»
«Può cambiare l'accento?» domandò Henriksen.
«Senza difficoltà», replicò Popov con un sorriso. «È stato nell'FBI?»
380
«Sì.»
«Allora sa come si fa. Una settimana, penso.»
«Va bene», disse Brightling. «Parta domani in volo.»
«Documenti di viaggio?» chiese Henriksen.
«Ne ho alcune serie, tutti validi e tutti perfetti», gli assicurò l'ex
ufficiale del KGB.
Era bello avere un professionista sul libro paga, pensò tra sé Henriksen.
«Ho un volo presto e non ho ancora fatto i bagagli, ragazzi. Ci vediamo la
settimana prossima quando ritorno.»
«Attento al jet lag, Bill», lo avvertì John.
L'ex agente dell'FBI rise. «Hai una medicina efficace anche per quello?»
18
SEMBIANZE
Popov prese il volo del mattino con il Concorde. Era la prima volta che
volava sul supersonico anglo-francese e trovò che l'interno del velivolo
era angusto, anche se lo spazio per le gambe era sufficiente. Si accomodò
nel posto 4C. Nel frattempo, a un altro terminal, Bill Henriksen era in una
poltrona di prima classe in un trireattore DC-10 in viaggio per Los
Angeles.
William Henriksen, pensò Dmitrij Arkadeevič Popov. Ex appartenente
alla squadra salvataggio ostaggi dell'FBI ed esperto di antiterrorismo,
presidente di una società di consulenza internazionale per la sicurezza, ora
diretto in Australia per cercare di ottenere un contratto di consulenza per
le prossime Olimpiadi... che cosa aveva a che fare con quanto Popov stava
facendo per la Horizon Corporation di John Brightling? Per quale
obiettivo stava lavorando? Quale compito? Di certo riceveva un ottimo
stipendio... a cena non aveva nemmeno sollevato il problema del denaro,
convinto che avrebbe ottenuto qualunque cifra avesse chiesto. Solo per
questo lavoro pensava a circa 250.000 dollari, anche se comportava pochi
pericoli, a parte guidare l'auto nel traffico londinese. 250.000 dollari?
Forse di più, disse tra sé Popov. Dopotutto, questa missione sembrava
rivestire per loro una notevole importanza.
Cosa combinavano insieme un esperto di terrorismo e un esperto di
antiterrorismo? Perché si erano subito aggrappati così tenacemente alla
sua scoperta dell'esistenza di una nuova organizzazione internazionale
381
antiterroristica? Per loro era importante... ma perché? A che diavolo
stavano mirando? Scosse la testa. Era un tipo sveglio, eppure non trovava
una chiave di lettura. E voleva sapere, ora più che mai.
Di nuovo, era il non sapere che lo preoccupava. Il KGB non aveva mai
incoraggiato la curiosità, ma anche lì sapevano che alle persone
intelligenti andava detto qualcosa e così, con gli ordini di missione,
giungeva di solito qualche spiegazione... almeno aveva sempre saputo di
servire gli interessi del suo paese. Qualunque informazione avesse
raccolto, qualunque straniero avesse reclutato, tutto era finalizzato alla
sicurezza della sua patria, meglio informata, più forte. Il fatto che tutto lo
sforzo fosse finito in niente non era colpa sua. Il KGB non era mai venuto
meno agli incarichi affidati dai vertici dello stato. Era avvenuto
esattamente il contrario. Aveva fatto parte del servizio segreto migliore
del mondo e rimaneva orgoglioso delle capacità del KGB, e delle sue. Ma
ora non sapeva che cosa stava facendo. Era previsto che raccogliesse
informazioni, ed era abbastanza facile, ma continuava a non capire
perché. Le cose che aveva appreso a cena la sera prima gli avevano
soltanto aperto un'altra porta su un altro mistero. Si sentiva l'eroe di un
film poliziesco o di un libro giallo il cui finale non riusciva ancora a
discernere. Avrebbe preso il denaro e fatto il lavoro, ma per la prima volta
si sentiva a disagio e tale sensazione non era piacevole, rifletté mentre il
velivolo correva lungo la pista e decollava verso il sole nascente in
direzione di Londra Heathrow.
«Qualche progresso, Bill?»
Tawney si allungò all'indietro sulla poltrona. «Non molto. Gli spagnoli
hanno identificato due terroristi come separatisti baschi, e i francesi
pensano di avere una traccia per un altro dei loro cittadini nel parco
divertimenti, ma è tutto. Forse potremmo avere da Carlos altre
informazioni, ma è piuttosto improbabile che collabori... e, in primo
luogo, può anche darsi che nemmeno conosca quei bastardi.»
«Vero.» Clark prese una sedia. «Sai, Ding ha ragione. Uno di questi
incidenti, c'era probabilmente da aspettarselo ma tre, tutti a breve distanza
da quando siamo qui, sembrano parecchi. È possibile che qualcuno in
qualche modo dia loro il via?»
«È possibile, ma chi sarebbe a farlo... e perché?» chiese Tawney.
«Fa' un passo indietro. Rimani alla prima domanda. Chi ne ha la
382
capacità?»
«Qualcuno che li poteva avvicinare negli anni Settanta e Ottanta... ciò
significa qualcuno ben introdotto nel movimento o qualcuno che li
controllava, li influenzava, dall'esterno. Significherebbe qualcuno del
KGB. In teoria questo qualcuno sarebbe noto a loro, avrebbe i mezzi per
contattarli e quindi la capacità di attivarli.»
«Tutti e tre i gruppi erano fortemente ideologizzati...»
«Ecco perché il contatto dovrebbe essere stato un ex agente, o forse uno
ancora in attività, del KGB. Dovrebbe essere qualcuno di cui si fidano...
meglio, una persona con quel tipo d'autorità che riconoscono e
rispettano.» Tawney sorseggiò il suo tè. «Ciò significa un ufficiale dei
servizi, forse uno di grado abbastanza elevato con il quale avevano
lavorato ai vecchi tempi, qualcuno che interagiva con loro per
l'addestramento e il supporto nel vecchio blocco orientale.»
«Tedesco, ceco, russo?»
«Russo», disse Tawney. «Ricordati che il KGB permetteva agli altri
paesi del blocco comunista di aiutarli solo sotto il proprio stretto
controllo. Di solito gli agenti venivano addestrati fuori Mosca e poi
ospitati in alloggi sicuri nell'Europa orientale, soprattutto nella Germania
Est. Abbiamo ricevuto una gran quantità di materiale dalla Stasi quando la
DDR è crollata. Proprio ora, ho dei colleghi a Century House che stanno
controllando le informazioni. Ci vorrà tempo. Purtroppo, non sono mai
state computerizzate e nemmeno correlate in modo sistematico. Problemi
di finanziamento», spiegò Tawney.
«Perché non andare direttamente al KGB? Io conosco Golovko.»
Tawney non lo sapeva. «Stai scherzando.»
«Come pensi che Ding e io siamo entrati in Russia così facilmente con
una copertura russa? Pensi che la CIA sia in grado di mettere in piedi
un'operazione così alla svelta? Mi piacerebbe, Bill. No, l'ha organizzata
Golovko, e Ding e io eravamo nel suo ufficio prima di volare laggiù.»
«Allora perché non provare?»
«Dovrei avere l'autorizzazione da Langley.»
«Sergej vorrà collaborare davvero?»
«Non sono sicuro», ammise John. «Non ci potrei scommettere. Ma
prima di fare una cosa del genere, dovrei avere un'idea precisa di ciò che
voglio. Non dev'essere una spedizione di pesca. Dev'essere ben mirata.»
«Potrei controllare quali informazioni abbiamo su un ufficiale dei
383
servizi che ha lavorato per loro... il problema è che non sarà un nome
reale.»
Clark assentì. «È probabile di no. Dobbiamo impegnarci di più a
prenderne uno vivo. È piuttosto difficile interrogare un cadavere.»
«È una possibilità che ancora non si è presentata», osservò Tawney.
«Forse», disse Clark. E anche se si riusciva a prenderne uno vivo, chi
poteva dire che avrebbe saputo ciò di cui avevano bisogno? Ma si doveva
cominciare da qualche parte.
«Berna è stata una rapina in banca. Vienna è stata un tentativo di
rapimento e da quanto ha affermato Herr Ostermann, i terroristi cercavano
qualcosa che non esiste... codici informatici privati e segreti per entrare
nel sistema del trading internazionale. L'ultimo incidente sembrava
provenire direttamente dagli anni Settanta.»
«Okay, due su tre riguardavano i soldi», concordò Clark. «Ma in
entrambi quei casi i terroristi si presentavano come se fossero
ideologizzati, giusto?»
«Giusto.»
«Allora perché l'interesse nel denaro? Nel primo caso si trattava proprio
di una rapina ma il secondo è stato più sofisticato... e nello stesso tempo
stupido, perché cercavano qualcosa che non esiste, ma, siccome erano
individui ideologizzati, non lo sapevano. Bill, qualcuno disse loro di
cercarlo. L'iniziativa non è stata loro.»
«Sono d'accordo, la tua ipotesi è probabile. Molto probabile.»
«Allora, in quel caso abbiamo due estremisti, piuttosto competenti dal
punto di vista tecnico ma alla ricerca di qualcosa che di fatto non esiste.
La combinazione di intelligenza operativa ed evidente stupidità sembra
proprio dirci qualcosa.»
«Ma che dire di Worldpark?»
Clark alzò le spalle. «Forse è Carlos che conosce qualcosa che a loro
serve. Forse da qualche parte ha un tesoro che vogliono o informazioni o
numeri di telefono per contatti, forse persino contanti... non si può dire.»
«E ritengo improbabile che lo si possa persuadere a collaborare con
noi.»
Clark bofonchiò: «Molto improbabile».
«Una cosa che posso fare è parlare anche con quelli del "Five". Forse
quest'uomo-ombra russo ha lavorato con i terroristi nordirlandesi. Fammi
fare un po' di ricerche, John.»
384
«Okay, Bill, e io ne parlerò con Langley.» Clark si alzò, uscì dalla
stanza e ritornò nel suo ufficio, ancora alla ricerca dell'idea che gli serviva
prima di poter attuare un piano. L'idea di rivolgersi ai servizi di
spionaggio inglesi, noti con la sigla MI-5, o "Five" fra gli addetti ai lavori,
gli sembrava comunque buona.
Non era partito bene e Popov quasi ne rise. Arrivato alla sua auto a
noleggio aprì la portiera di sinistra invece di quella di destra. Se ne
accorse nei pochi secondi che impiegò a caricare il bagaglio nel baule e
sedersi al posto di guida. Poi aprì l'atlante acquistato in aeroporto e
percorse il tragitto dal terminal 4 di Heathrow verso l'autostrada che lo
avrebbe condotto a Hereford.
«Allora, come funziona quest'aggeggio, Tim?»
Noonan allontanò la mano, ma l'indicatore rimase puntato su Chavez.
«Dannazione, è forte. È studiato per seguire il campo elettromagnetico
generato dal cuore umano. È un segnale unico a bassa frequenza... non
viene nemmeno confuso da gorilla e animali...»
L'apparecchio sembrava una pistola a raggi presa da un film di
fantascienza degli anni Trenta, con una sottile antenna che usciva dal
davanti e un'impugnatura nella parte inferiore. Ruotava su un cuscinetto
senza attrito, attirata dal segnale ricevuto. Noonan l'allontanò da Chavez e
Covington e la diresse contro la parete. C'era una segretaria seduta
proprio... là. L'apparecchio si bloccò su di lei. Mentre camminava, rimase
puntato su di lei, attraverso il muro. «È come la bacchetta di un
rabdomante», osservò Peter, con non poca meraviglia nella voce. «Come
trovare l'acqua...»
«Sembra proprio così. Non mi meraviglia che l'esercito lo voglia. Non
se ne parlerà più di cadere nelle imboscate. Con questo coso si potranno
scoprire le persone sotto terra, dietro gli alberi, nella pioggia... tutte le
volte che saranno là, questo aggeggio li scoprirà.»
Chavez ci pensò sopra. Ripensò soprattutto alla sua operazione in
Colombia molti anni prima, camminando fra le erbacce, guardando e
ascoltando per trovare tracce di persone che avrebbero potuto far del male
alla sua squadra di dieci uomini. Ora quest'aggeggio sostituiva tutte le
capacità che aveva acquisito nella 7a divisione. Come strumento difensivo,
era in grado di mettere fuori gioco i ninja. Come strumento offensivo,
385
poteva dire dove fossero i criminali molto prima di riuscire a vederli o a
sentirli, e permetteva di avvicinarsi abbastanza da...
«A cosa serve... voglio dire, che cosa afferma il costruttore?»
«Ricerca e salvataggio... di persone in un edificio in fiamme, di vittime
di valanghe, un sacco di cose, Ding. Come strumento antintrusione,
questo giocattolo sarà difficile da battere. A Fort Bragg ci giocano da un
paio di settimane. Quelli della Delta se ne sono innamorati. È un po'
difficile da usare e ancora non riesce a dirti la distanza, ma tutto quello
che si deve fare è modificare l'antenna per avere un guadagno maggiore,
poi collegare due dei rilevatori al sistema di posizionamento satellitare e
fare la triangolazione... La distanza massima captabile da questo aggeggio
non è stata ancora stabilita. Dicono che il prototipo possa puntare una
persona a cinquecento metri.»
«Cazzo», osservò Covington. Ma lo strumento sembrava ancora una
specie di giocattolo costoso per ragazzini.
«A che cosa potrebbe servirci? Non può distinguere un ostaggio da un
terrorista», fece notare Chavez.
«Ding, non si sa mai. Di sicuro è in grado di dirti dove i criminali non
sono», osservò Noonan. Avrebbe giocato con quel coso tutto il giorno,
cercando di capire come utilizzarlo al meglio. Da tanto non si sentiva
come un ragazzino con un nuovo giocattolo, ma quest'aggeggio era così
innovativo e così imprevisto che sarebbe dovuto arrivare sotto un abete
decorato.
Brown Stallion era il nome del pub proprio a fianco del suo motel.
Distava solo mezzo chilometro dall'ingresso principale a Hereford e gli
sembrò un buon punto per partire e, ancor meglio, per bere una birra.
Popov ordinò un boccale di Guinness e lo sorseggiò, guardandosi intorno.
Era acceso un televisore, che trasmetteva una partita di calcio... in diretta
o registrata, non riusciva a capire per il momento, tra il Manchester
United e i Rangers di lassù, in Scozia, attirando l'attenzione dei clienti del
pub e, come risultò poi, anche del barista. Popov guardava, centellinando
la sua birra e ascoltando il cicaleccio nel locale. Era addestrato a essere
paziente e per esperienza sapeva che la pazienza di solito ti ripagava
nell'attività d'informatore, tanto più in questa nazione, dove la gente
veniva ogni sera al solito pub per chiacchierare con gli amici, e Popov
possedeva un udito insolitamente buono.
386
La partita di calcio finì con un pareggio 1-1 quando Popov ordinò un
secondo boccale.
«Pari, cazzo, pari», esclamò uno seduto al banco vicino a Popov.
«Succede nello sport, Tommy. Almeno la squadra di qui non pareggia
mai, e non perde mai.»
«Come si sono ambientati gli americani, Frank?»
«Un bel gruppo, quello, molto gentili. Oggi sono andato a riparare il
lavandino in una delle case. La moglie è stata molto gentile, ha cercato di
darmi la mancia. Persone incredibili, gli americani. Pensano di doverti
dare dei soldi per ogni cosa.» L'idraulico finì il suo boccale di birra chiara
e ne chiese un altro.
«Lavora alla base?» domandò Popov.
«Sì, da dodici anni, idraulico e cose simili.»
«Persone perbene, quelli del SAS. Mi va come mettono a posto quei
bastardi dell'IRA», buttò lì il russo, con il suo miglior accento da operaio
inglese.
«Ben detto», sottolineò l'idraulico.
«Quindi, ora alla base ci sono degli americani.»
«Sì, una decina, con le loro famiglie.» Rise. «Una delle mogli quasi mi
ha ucciso con l'auto la settimana scorsa, guidando sul lato sbagliato della
strada. Bisogna stare attenti quando lì hai vicini, soprattutto in auto.»
«Forse ne conosco uno, si chiama Clark, penso», buttò lì Popov con uno
stratagemma un po' pericoloso.
«È il capo. La moglie fa l'infermiera nell'ospedale locale. Non l'ho
incontrato, ma dicono che sia uno molto serio... dev'esserlo per
comandare gente così. Gli uomini più terrificanti che ho mai incontrato,
gente che non vorresti trovarti davanti in una stradina buia... naturalmente
molto gentili, ma basta guardarli per capire chi sono. Sempre fuori a
correre e ad allenarsi, a tenersi in forma, ad addestrarsi con le armi, e
sembrano pericolosi come leoni feroci.»
«Sono stati coinvolti nell'operazione giù in Spagna, la settimana
scorsa?»
«Be', non ci dicono niente, capisce, ma...» disse l'uomo sorridendo, «ho
visto un Hercules decollare dalla pista lo stesso giorno che è successo e la
sera tardi erano di ritorno nel loro club, mi ha detto Andy, e sembravano
arcicontenti. Bravi ragazzi, alle prese con quei bastardi.»
«Eccome. Che razza di porco ucciderebbe una bambina malata?
387
Bastardi», proseguì Popov.
«Sì, davvero. Avrei voluto vederli. Il falegname con il quale lavoro,
George Wilton, li vede addestrarsi al tiro di tanto in tanto. George dice
che sembrano usciti da un film, cose fantastiche, dice.»
«Era militare?»
«Molto tempo fa, reggimento della Regina, nominato caporale. È così
che ho avuto questo lavoro.» Sorseggiò la birra mentre lo schermo tv
passava al cricket, un gioco di cui Popov non capiva nulla. «E lei?»
Popov scosse il capo. «No, mai. Ci ho pensato, ma ho deciso di no.»
«Non è una brutta vita, in realtà, per qualche anno», affermò l'idraulico,
allungando il braccio per prendere le noccioline sul bancone.
Popov vuotò il suo boccale e pagò il conto. Per lui la serata era stata
piuttosto buona e non voleva forzare la fortuna. Così, la moglie di John
Clark era infermiera nell'ospedale locale. Lo avrebbe verificato.
«Sì, Patsy, l'ho fatto», disse alla moglie Ding, leggendo il giornale del
mattino con alcune ore di ritardo. Il servizio sull'operazione Worldpark
era ancora in prima pagina, anche se questa volta nella parte bassa. Vide
che, per fortuna, nessuno dei media aveva ancora la più pallida idea di
Rainbow. I cronisti si erano bevuta la storia sul gruppo d'intervento
speciale ben addestrato della Guardia Civil spagnola.
«Ding, io... be', lo sai, io...»
«Sì, amore, lo so. Sei un medico e il tuo lavoro è salvare vite. Come il
mio, ricordi? Tenevano là dentro una trentina di bambini e ne avevano
assassinato una... non te l'ho detto. Mi trovavo a meno di trenta metri
quando è successo. Ho visto quella bimba morire, Pats. E stata la cosa
peggiore a cui abbia mai assistito e, maledizione, non ho potuto farci
nulla», ricordò con amarezza. L'avrebbe sognato ancora per alcune
settimane, Chavez lo sapeva.
«Perché?»
«Perché noi non... voglio dire non potevamo, perché c'era ancora
all'interno un gruppo armato e noi eravamo appena arrivati; non eravamo
ancora pronti a colpire quei bastardi che volevano mostrarci quanto
fossero decisi... ed è così che gente come quella mostra la propria
determinazione, suppongo. Uccidono un ostaggio, così, per farci sapere
quanto sono duri.» Ding, al pensiero, mise giù il giornale. Era cresciuto
con uno speciale codice d'onore anche prima che l'esercito degli Stati
388
Uniti gli insegnasse il codice delle armi: non si doveva mai e poi mai
colpire una persona innocente. Farlo ti poneva per sempre al di là dei
limiti del lecito, irrimediabilmente maledetto tra gli uomini come un
assassino, indegno d'indossare una divisa. Ma questi terroristi sembravano
provarci gusto. Che diavolo c'era di sbagliato in loro? Aveva letto tutti i
libri di Paul Bellow, ma in qualche modo il messaggio non era filtrato. Per
quanto sveglio, la sua mente non riusciva a compiere quel salto mentale.
Ma di queste persone forse bastava in realtà sapere solo come
impallinarle. Quello funzionava sempre.
«Come possono agire così?»
«Diavolo, amore, non lo so. Il dottor Bellow dice che credono così tanto
nelle loro idee da riuscire ad allontanarsi dalla loro umanità, ma io... io
non lo capisco. Non mi vedo fare cose del genere. D'accordo, ho preso a
randellate qualcuno, ma mai per divertimento o per delle idee astratte. Ci
dev'essere una buona ragione per farlo, qualcosa che la società ritiene sia
importante o perché qualcuno ha infranto la legge che tutti siamo tenuti a
rispettare. Non è bello né divertente ma è importante, ed ecco perché lo
facciamo. E tuo padre è fatto allo stesso modo.»
«A te piace davvero papà», osservò la dottoressa Patsy Chavez.
«È un brav'uomo. Ha fatto molto per me e abbiamo passato sul campo
momenti memorabili. È intelligente, più intelligente di quanto abbiano
mai capito alla CIA... forse Mary Pat lo sapeva. Lei l'ha capito, anche
perché è un po' della stessa pasta.»
«Chi? Mary chi?»
«Mary Patricia Foley. È il direttore operativo, capo degli agenti in
campo dell'Agenzia. Gran donna, tra i quaranta e i cinquanta, conosce
davvero il fatto suo. Da buon capo, sta in guardia per noi api operaie.»
«Sei ancora nella CIA, Ding?» domandò Patsy Clark Chavez.
«Tecnicamente sì», rispose con un cenno il marito. «Non sono sicuro
come funzioni la catena amministrativa, ma finché gli assegni continuano
ad arrivare non me ne preoccupo. Allora, come va all'ospedale?»
«La mamma va bene. Ora è infermiera capo del suo turno al pronto
soccorso, e anch'io sono di turno, la settimana prossima.»
«Fai nascere abbastanza bambini?» domandò Ding.
«Solo uno in più quest'anno, Domingo», rispose Patsy, dandosi dei
colpetti sulla pancia. «Dovrò cominciare il corso preparto tra poco,
sempre che tu ci venga.»
389
«Tesoro, ci verrò», la rassicurò lui. «Non avrai mio figlio senza il mio
aiuto.»
«Papà non c'è stato mai durante il parto. Non penso che allora fosse
permesso. Il parto assistito non era ancora di moda.»
«Come si può leggere riviste in un momento come quello?» osservò
scuotendo la testa Chavez. «Penso che i tempi siano cambiati. Amore,
sarò là, a meno che qualche stupido terrorista non ci faccia correre fuori
città e allora farebbe bene a pararsi il culo, perché se dovesse succedere,
questo ragazzo s'incazzerà sul serio.»
«So di poter fare affidamento su di te.» Si sedette vicino a lui che, come
al solito, le prese la mano e la baciò. «Bimbo o bimba?»
«Non ho fatto l'ecografia, ricordi? Se è un bimbo...»
«Farà la spia, come suo padre e suo nonno», osservò Ding con uno
sguardo divertito. «E gli insegneremo le lingue molto presto.»
«E se volesse diventare qualcos'altro?»
«Non lo vorrà», le assicurò Domingo Chavez. «Vedrà che uomini in
gamba sono il padre e il nonno e vorrà emularli. E il sangue latino,
tesoro... fa seguire le orme gloriose di famiglia.» Non poteva dire di aver
fatto così lui stesso. Suo padre era morto troppo giovane perché suo figlio
ne potesse ricevere l'impronta. Meglio così. Il padre di Domingo, Esteban
Chavez, guidava un furgone per le consegne. Troppo noioso, pensò
Domingo.
«E gli irlandesi? Pensavo che anche per loro avesse importanza questo
fatto del sangue.» «Più o meno è così.» Chavez fece un grande sorriso.
«Ecco perché ci sono così tanti discendenti di irlandesi nell'FBI.»
«Ricordi Bill Henriksen?» chiese Augustus Werner a Dan Murray.
«Lavorava per te nella squadra salvataggio ostaggi, un po' pazzoide.»
«Era parecchio impegnato nelle questioni ambientali, abbracciare alberi
e tutte quelle stronzate, ma conosceva il suo lavoro a Quantico. Mi ha
dato un buon consiglio per Rainbow.»
Il direttore dell'FBI alzò lo sguardo e di colpo si focalizzò sull'uso della
parola in codice.
«In Spagna hanno usato un elicottero dell'USAF. I media non se ne
sono accorti, ma è là sui nastri, se qualcuno si preoccupa di notarlo. Bill
ha detto che non è stata una gran furbata. E ha ragione.»
«Forse», ammise il direttore dell'FBI. «Ma in pratica...»
390
«Lo so, Dan, vi sono considerazioni pratiche, ma è un problema reale.»
«Clark sta pensando forse di uscire un po' allo scoperto su Rainbow.
Uno dei suoi ha sollevato la questione, mi dice. Se si vuole scoraggiare il
terrorismo, potrebbe essere utile far circolare la voce che c'è un nuovo
sceriffo in città, ha detto. A ogni modo, non ha ancora preso la decisione,
ma è evidente che sta valutando l'idea.»
«Interessante», osservò Gus Werner. «Capisco il motivo, soprattutto
dopo tre missioni riuscite. Se io fossi uno di quegli idioti, ci penserei due
volte prima di tirarmi addosso l'ira di Dio. Ma quelli non pensano come
persone normali.»
«Non esattamente, ma il deterrente è deterrente e John ora mi ha fatto
pensare. Potremo far trapelare l'informazione a diversi livelli, e far
circolare la voce che c'è in attività una squadra segreta multinazionale
antiterrorismo.» Murray fece una pausa. «Da non mettere nero su bianco,
ma forse nero su grigio.»
«Che cosa dirà l'Agenzia?» domandò Werner.
«Probabilmente no, seguito da un punto esclamativo», ammise il
direttore. «Ma come ho detto, John mi ha fatto pensare un po'.»
«Capisco il suo punto di vista, Dan. Se il mondo ne è a conoscenza,
forse quelli ci penseranno due volte, ma poi la gente comincerà a porre
domande, e compariranno i cronisti, e ben presto vedrai i volti di quegli
uomini sulla prima pagina di USA Today, insieme con articoli su come
hanno mandato all'aria una missione, scritto da qualcuno che non è
nemmeno capace di mettere una pallottola in una pistola.»
«Possono mettere un bavaglio agli articoli in Inghilterra», gli ricordò
Murray. «Almeno non finiranno sui giornali locali.»
«Bene, così poi li vedremo sul Washington Post che nessuno legge,
giusto?» disse Werner in tono un po' ironico. E lui conosceva bene i
problemi che la squadra di salvataggio ostaggi dell'FBI aveva avuto nei
casi di Waco e Ruby Ridge dopo il suo periodo al comando dell'unità. In
entrambi i casi, i media avevano sbagliato il resoconto degli eventi...
come al solito, pensò, ma dai media non ci si poteva aspettare molto.
«Quanta gente sa dell'esistenza di Rainbow?»
«Un centinaio... non pochi per un reparto segreto. Voglio dire, la loro
sicurezza non è stata ancora violata a quanto ne sappiamo, ma...»
«Ma, come ha detto Bill Henriksen, chiunque conosca la differenza tra
uno Hughes e un Black Hawk sa che c'era qualcosa di strano
391
nell'operazione Worldpark. Difficile mantenere i segreti.»
«Sicuro come l'oro, Gus. A ogni modo, pensaci su un po', d'accordo?»
«D'accordo. Nient'altro?»
«Qualcuno ritiene che tre azioni terroristiche da quando è stato
costituito Rainbow sono un po' troppe. Potrebbe esserci qualcuno che
attiva le cellule dei criminali e lascia loro mano libera? Se è così, chi e
perché?»
«Accidenti, Dan, non dimenticare che le informazioni per l'Europa le
riceviamo da loro! Chi è la persona che lavora sul fronte dei servizi?»
«Bill Tawney è il loro capo analista. Un "Six", e anche piuttosto in
gamba... lo conosco da quando, alcuni anni fa, ero addetto legale a
Londra. Nemmeno lui lo sa. Si chiedono se qualche ex del KGB o
qualcosa di simile vada in giro, dicendo ai vampiri addormentati di
svegliarsi e succhiare un po' di sangue.»
Werner pensò per circa mezzo secondo prima di parlare. «Se è così, non
ha avuto un successo travolgente. Le operazioni hanno mostrato alcune
caratteristiche di professionalità, ma non sufficienti da preoccupare.
Dannazione, Dan, sai come vanno le cose. Se, per più di un'ora, i
criminali sono nello stesso posto, piombiamo loro addosso e li togliamo
di mezzo non appena commettono qualche errore. Terroristi professionali
o no, sono persone non molto addestrate, non hanno niente di simile alle
nostre risorse, e presto o tardi cedono a noi l'iniziativa. Ci basta sapere
dove sono, ricordi? Dopo di che, il fulmine lo teniamo nelle nostre mani.»
«Sì, e tu ne hai fatti fuori un po', Gus. Ecco perché ci servono più
informazioni, per farli fuori prima che compaiano sullo schermo radar.»
«Una cosa che non posso fare è acquisire informazioni al posto loro.
Sono più vicini alle fonti di noi», osservò Werner, «e comunque
scommetto che non ci mandano tutto ciò che hanno.»
«Non possono. Troppa roba da faxare avanti e indietro.»
«Tre gravi incidenti sembrano molti, ma non possiamo dire se si tratti di
pura coincidenza o faccia parte di un piano, a meno di avere qualcuno cui
chiederlo. Per esempio, un terrorista vivo. I ragazzi di Clark finora non ne
hanno preso vivo neanche uno.»
«No», concordò Murray. «Non rientra nello scopo della loro missione.»
«Allora, di' loro che se vogliono informazioni migliori, devono avere
qualcuno con un cervello e una bocca funzionanti, una volta finita la
sparatoria.» Ma Werner sapeva che, anche nella più favorevole delle
392
circostanze, questo non era facile. Così come prendere le tigri vive era
molto più difficile che prenderle morte, era difficile catturare qualcuno in
possesso di una pistola mitragliatrice carica con la voglia di usarla. Anche
i tiratori della squadra di salvataggio ostaggi, addestrati a prenderli vivi in
modo da spedirli davanti a un tribunale per una giusta condanna e tenerli
al fresco a Marion, nell'Illinois, da questo punto di vista non avevano fatto
granché. E Rainbow era costituito da soldati cui le sottigliezze della legge
erano un po' estranee. La convenzione dell'Aia stabiliva regole per la
guerra che erano più tolleranti di quelle della Costituzione degli Stati
Uniti. Non si potevano uccidere i prigionieri, ma si dovevano catturare
vivi e ciò era qualcosa su cui gli eserciti, in generale, non ponevano
l'attenzione.
«Il nostro amico signor Clark ha bisogno di altri consigli da parte
nostra?» domandò Werner.
«E schierato con noi, non dimenticarlo.»
«È un uomo in gamba. Accidenti, Dan, l'ho incontrato mentre
mettevano in piedi Rainbow e gli ho fatto avere uno dei nostri uomini
migliori, Timmy Noonan; l'ammetto, hanno fatto uno splendido lavoro...
anzi tre, finora. Ma non è uno di noi, Dan. Non ragiona da poliziotto,
tuttavia se vuole informazioni migliori, ecco quello che deve fare.
Diglielo, d'accordo?»
«Lo farò, Gus», promise Murray. Poi discussero di altro.
«Allora, che cosa dovremmo fare?» chiese Stanley. «Portargli via con
un colpo le armi dalle mani? Questo succede solo al cinema, John.»
«Weber ha fatto esattamente così, ricordi?»
«Contravvenendo alle regole, e dannazione non possiamo incoraggiare
queste cose», replicò Alistair.
«Su, Al, se vogliamo migliori informazioni, dobbiamo catturarne
qualcuno vivo.»
«Bene, se sarà possibile, il che avverrà di rado, John. Maledettamente
di rado.»
«Lo so», ammise Rainbow Six. «Ma possiamo almeno far presente la
cosa ai ragazzi?»
«È possibile, ma prendere questo tipo di decisione al volo è quanto mai
difficile.»
«Ci servono le informazioni, Al», insistette Clark.
393
«Vero, ma non al prezzo della morte o del ferimento di uno dei nostri
uomini.»
«Nella vita tutto è un compromesso in un certo senso», osservò
Rainbow Six. «Vorresti avere qualche informazione significativa su
questa gente?»
«Naturalmente, ma...»
«Ma un cazzo. Se ci serve, troviamo il modo per averla», insistette
Clark.
«Non siamo poliziotti, John. Non fa parte della nostra missione.»
«E allora cambieremo la missione. Se sarà possibile prendere un
terrorista vivo, faremo un tentativo. E se poi non sarà possibile, si potrà
sempre sparargli in testa. Quello che Homer ha preso con quel colpo nelle
budella. Avremmo potuto catturarlo vivo, Al. Non costituiva una minaccia
diretta per nessuno. D'accordo, lo meritava, e stava in piedi, all'aperto, con
un'arma, e il nostro addestramento diceva di ucciderlo, e Johnston ha
sparato, decidendo di affermare qualcosa di personale solo perché ne
aveva voglia; ma sarebbe stato altrettanto facile gambizzarlo, e ora
avremmo qualcuno con cui parlare e che forse avrebbe cantato come fa la
maggior parte di loro; poi, magari, avremmo saputo qualcosa che, sicuro
come l'oro, ci sarebbe ora piaciuto conoscere.»
«Certo, John», ammise Stanley. Discutere con Clark non era facile. Il
britannico si ricordò che John era entrato a far parte di Rainbow con la
fama di duro della CIA, ma in seguito non si era dimostrato affatto tale.
«Non abbiamo sufficienti informazioni e non mi va di non conoscere a
sufficienza ciò che mi circonda. Penso che Ding abbia ragione. C'è
qualcuno che da il via libera a questi figli di puttana. Se riusciamo a
scoprire qualcosa al riguardo, forse possiamo individuare la persona e far
sì che la polizia locale la metta nel sacco, dovunque sia, e poi forse
potremo fare quattro chiacchiere amichevoli con il risultato finale di avere
meno operazioni da fare e meno rischi da correre.» Il fine ultimo di
Rainbow era strano, dopotutto: addestrarsi per missioni che avvenivano di
rado, o addirittura mai, in altre parole fare i pompieri in una città senza
incendi.
«Molto bene, John. Penso che, prima di tutto, dovremmo parlare di
quest'argomento a Peter e a Domingo.»
«Allora domattina.» Clark si alzò dalla scrivania. «Che ne dici di una
birra al club?»
394
«Dmitrij Arkadeevič, non ci vediamo da parecchio tempo», fece notare
l'uomo.
«Quattro anni», confermò Popov. Erano a Londra, in un pub a tre isolati
dall'ambasciata russa. Aveva preso il treno per venire qui solo per la
possibilità remota di incontrare uno dei suoi ex colleghi e in effetti uno
l'aveva incontrato, Ivan Petrovič Kirilenko. Ivan Petrovič era stato una
stella nascente, di alcuni anni più giovane di Popov, abile ufficiale
operativo, divenuto colonnello all'età di trentotto anni. Ora, era
probabilmente...»
«Sei il rezident per la stazione di Londra?»
«Non mi è permesso dire queste cose, Dmitrij.» Kirilenko sorrise e
ciononostante fece segno di sì. Aveva fatto molta strada piuttosto
velocemente in un'agenzia ridimensionata del governo russo ed era senza
dubbio ancora attivo nella ricerca d'informazioni politiche e altro, oppure
aveva uno staff considerevole che lo faceva per lui. La Russia era
preoccupata per l'espansione della NATO; l'alleanza, che una volta
minacciava l'Unione Sovietica, avanzava ora verso est, in direzione dei
confini del suo paese, e a Mosca qualcuno si preoccupava. Qualcuno era
pagato per preoccuparsi che ciò potesse presagire a un attacco alla madre
patria. Kirilenko sapeva che erano stupidaggini, così come Popov, ma
ciononostante era pagato per accertarsi e il nuovo rezident faceva il suo
lavoro secondo le istruzioni. «E tu, cosa fai ora?»
«Non mi è consentito dirlo», fu l'ovvia risposta. Poteva significare
qualunque cosa, ma nel linguaggio della loro vecchia organizzazione,
voleva dire che Popov era ancora, in un modo o nell'altro, in gioco. Che
gioco, Kirilenko non lo sapeva, anche se aveva sentito che Dmitrij
Arkadeevič era stato messo in pensione dall'organizzazione. Questo lo
aveva sorpreso. Popov godeva ancora di un'eccellente reputazione come
agente operativo. «Vivo tra i due mondi ora, Vanja. Lavoro per un'azienda
commerciale, ma svolgo anche altre funzioni», si limitò a dire. La verità
era molto spesso uno strumento utile, al servizio delle menzogne.
«Non sei comparso qui per caso», osservò Kirilenko.
«Vero. Speravo di trovare qui qualche collega.» Il pub era troppo vicino
all'ambasciata nel Palace Green, Kensington, per lavorare seriamente, ma
era un luogo confortevole, per incontri casuali e, inoltre, Kirilenko era
convinto che la sua condizione di rezident fosse del tutto segreta.
395
Comparire in un posto come questo rafforzava questa sua convinzione.
Nessuna vera spia, lo sapevano tutti, avrebbe corso un rischio simile. «Ho
bisogno del tuo aiuto.»
«Di che si tratta?» domandò il colonnello dei servizi, sorseggiando una
birra scura.
«Un rapporto su un ufficiale della CIA che probabilmente conosciamo.»
«Come si chiama?»
«John Clark.»
«Motivo?»
«Credo che adesso sia a capo di un'organizzazione segreta con base qui
in Inghilterra. Vorrei offrire quello che so in cambio di qualsiasi
informazione tu riuscissi a ottenere. Posso forse aggiungere alcune cose al
tuo dossier. Credo che le mie informazioni saranno interessanti», concluse
con pacatezza Popov. In effetti, era una promessa piuttosto esagerata.
«John Clark», ripeté Kirilenko. «Vedrò cosa posso fare. Hai il mio
numero?»
Popov fece scivolare furtivo sul banco un pezzo di carta. «No, non ce
l'ho. Ecco il mio numero. Hai un tuo biglietto?»
«Certo.» Il russo mise in tasca il pezzo di carta, tirò fuori il portafoglio
e porse il biglietto. I.P. Kirilenko, diceva, terzo segretario, ambasciata
russa, Londra. 0181-567-9008, con 9009 come numero di fax. Popov mise
in tasca il biglietto. «Bene, devo rientrare. È stato un piacere rivederti,
Dmitrij.» Il rezident depose il bicchiere e uscì in strada.
«Hai scattato la foto?» chiese un uomo "Five" all'altro uscendo dalla
porta, una quarantina di secondi dietro l'oggetto del loro pedinamento.
«Non così bella da esibirla alla National Portrait Gallery, ma...» Il
problema delle macchine fotografiche occultate era che avevano obiettivi
troppo piccoli per fare foto davvero buone. Comunque, di solito
bastavano per le identificazioni, e lui aveva fatto undici scatti, che, grazie
alle correzioni da effettuare con uno speciale programma del computer,
sarebbero state del tutto sufficienti. Sapevano che Kirilenko riteneva
adeguata la propria copertura. Non sapeva, e non poteva saperlo, che
"Pive", un tempo chiamato MI-5, e adesso con il nome ufficiale di
Security Service - il servizio di sicurezza inglese - aveva la propria fonte
d'informazioni all'interno dell'ambasciata russa. La grande partita era
ancora in corso, a Londra come altrove, nuovo ordine mondiale o no. Non
avevano ancora colto Kirilenko in un'azione compromettente, ma era il
396
rezident, dopotutto, e pertanto molto cauto. Queste persone venivano
comunque pedinate, poiché si sapeva chi erano e, presto o tardi, si
ricavava qualcosa su di loro o da loro. Come quel tale con il quale aveva
appena bevuto una birra. Non un cliente abituale di questo pub...
conoscevano tutti gli habitué. Non avevano un nome. Solo alcune foto da
confrontare con l'archivio fotografico nel nuovo edificio del quartier
generale di "Pive", Thames House, proprio sul fiume vicino a Lambeth
Bridge.
Popov uscì, svoltò a sinistra e a piedi superò Kensington Palace per
prendere un taxi per la stazione. Era molto importante che Kirilenko
riuscisse a fargli avere informazioni utili. In cambio, avrebbe offerto
qualcosa di molto interessante.
19
RICERCA
Tre alcolizzati cronici morirono quel giorno, tutti di emorragie interne
nel tratto gastro-intestinale superiore. Killgore scese per visitarli. Due
erano morti alla stessa ora, il terzo cinque ore dopo, e la morfina li aveva
aiutati a spirare in stato d'incoscienza o di torpore, senza dolore. Dei primi
dieci ne rimanevano quindi cinque e nessuno di loro avrebbe visto la fine
della settimana. Shiva era letale quanto avevano sperato e, sembrava,
tanto contagioso quanto aveva promesso Maggie. Alla fine, il sistema di
erogazione funzionava. Fu dimostrato da Mary Bannister, soggetto F4,
che si era appena trasferita nel centro di sperimentazione con sintomi
evidenti. Pertanto, fino a questo punto il progetto Shiva era coronato da
pieno successo. Tutto andava secondo i parametri di prova e le previsioni
sperimentali.
«Ti fa molto male?» domandò alla sua paziente ormai condannata.
«Ho dei crampi piuttosto forti», rispose. «Come l'influenza, con
qualcosa in più.»
«Hai un po' di febbre. Hai qualche idea di dove potresti essertela presa?
Voglio dire, c'è una nuova epidemia d'influenza proveniente da Hong
Kong e sembra che tu sia stata contagiata.»
«Forse al lavoro... prima di venire qui. Non ricordo. Guarirò, vero?» La
preoccupazione si era fatta strada nonostante la mente fosse annebbiata
dal cibo impregnato di Valium che assumeva ogni giorno.
397
«Penso di sì», rispose Killgore soddisfatto sotto la mascherina. «Può
essere pericolosa, ma solo per un neonato o un vecchio, ma tu non sei né
l'uno né l'altro.»
«Direi di no.» Sorrise alle rassicurazioni del medico, sempre disposto a
consolare.
«Ti faremo una flebo per mantenerti ben idratata, ed elimineremo il
malessere con qualche goccia di morfina, va bene?»
«Il dottore è lei», rispose il soggetto F4.
«Okay, tieni fermo il braccio. Ti devo fare una puntura che ti farà un po'
male... là», disse, facendola. «Tutto bene?»
«Non troppo.»
Killgore premette il numero di attivazione sull"'albero di Natale".
Immediatamente partirono le gocce di morfina che, dopo una decina di
secondi, entrarono nella circolazione sanguigna della paziente.
«Oh sì», mormorò lei, con gli occhi chiusi quando l'effetto della droga
cominciava a farsi sentire sul suo fisico. Killgore non aveva mai provato,
ma immaginava che dovesse essere quasi una sensazione erotica, dal
modo in cui il narcotico calmava tutto il corpo. Subito sparì la tensione
dalla sua muscolatura. Il corpo si rilassò. Soprattutto cambiò la sua bocca,
dalla tensione al rilassamento del sonno. Che peccato, davvero. F4 non
era proprio una bellezza, ma a modo suo era carina e, a giudicare da
quello che aveva visto sul monitor nella sala di controllo, ci sapeva fare
con i suoi partner, anche se quella volta era mezza drogata. Ma, brava a
scopare o no, sarebbe morta fra cinque-sette giorni, nonostante tutti gli
sforzi che lui e i suoi avrebbero fatto. Sulla piantana c'era una bottiglietta
di Interleukin-3a, sviluppato dall'eccellente gruppo di ricercatori della
SmithKline per la cura del cancro... si era anche dimostrato promettente
contro i virus, caso unico nel mondo della medicina. In qualche modo
aiutava il sistema immunitario, anche se attraverso un meccanismo che
non era stato ancora compreso. Sarebbe stato la cura più probabile per le
vittime di Shiva una volta che l'epidemia si fosse diffusa e lui doveva
dimostrare che non avrebbe funzionato. Era stato il caso dei barboni, ma
dovevano testarlo anche su pazienti fondamentalmente sani, maschi e
femmine, proprio per essere sicuri. Peccato per lei, pensò, dato che aveva
un bel viso e anche un nome oltre a un numero assegnato. Peccato anche
per milioni, anzi miliardi di altri individui. Ma con loro sarebbe stato più
facile. Avrebbe potuto vedere i loro volti alla tv, ma non era realtà. Solo...
398
puntini su uno schermo fosforescente.
L'idea era abbastanza semplice. Un topo è uguale a un maiale, che è
uguale a un cane, che è uguale a un ragazzo... o a una donna in questo
caso. Tutti avevano lo stesso diritto alla vita. Avevano eseguito estese
prove di Shiva sulle scimmie, per le quali si era dimostrato sempre letale,
e aveva osservato tutti quei test e condiviso le pene degli animali privi
della possibilità di dare il loro consenso; sentivano il dolore allo stesso
modo di F4, anche se nel caso delle scimmie non era stato possibile
iniettare la morfina e a lui la cosa non era piaciuta; non gli andava
d'infliggere pene a creature innocenti con le quali non poteva parlare e alle
quali non poteva spiegare le cose. E anche se ciò era giustificabile in un
ambito più generale, dato che avrebbero salvato milioni, anzi, miliardi di
animali dalle depredazioni degli umani, vedere un animale soffrire era per
lui e i suoi colleghi difficile da sopportare, perché tutti loro stavano dalla
parte delle creature grandi e piccole, soprattutto le piccole, innocenti e
indifese; delle creature più grandi, a due gambe, non si preoccupavano
affatto. Abbassò di nuovo lo sguardo. F4 era già in uno stato di torpore
per il narcotico che le aveva somministrato. Almeno lei, a differenza delle
scimmie da esperimento, non soffriva. Era un gesto pietoso da parte loro.
«Che operazione segreta è?» domandò il funzionario sulla linea
telefonica protetta.
«Non ho idea, ma è una persona seria, ti ricordi? Colonnello
dell'Innostrannoe Upravlenie, divisione Quattro, direttorato S.»
«Ah, sì, lo conosco. Ha passato parecchio tempo a Fensterwalde e
Karlovy Vary. Fu messo in pensione con tutto un gruppo. Che cosa fa
ora?»
«Non so, ma ci offre informazioni su questo Clark in cambio di alcuni
nostri dati. Consiglio di fare lo scambio, Vasilij Borissovič.»
«Clark è un nome che ci è noto. Si è incontrato personalmente con
Sergej Nikolaj'č», disse al rezident il funzionario. «È un alto ufficiale
operativo, soprattutto di tipo paramilitare, ma anche istruttore
all'accademia della CIA in Virginia. Si sa che è vicino a Mary Patricia
Foleyeva e a suo marito. Si dice anche che sia ben visto dal presidente
americano. Sì, penso che saremmo interessati alle sue attuali attività.»
Il telefono sul quale parlavano era la versione russa del sistema STU-3
americano, dato che ne era stata rubata la tecnologia circa tre anni prima
399
da un gruppo che lavorava per il direttorato T della direzione generale. I
microchip interni, che erano stati pedissequamente copiati, rendevano
incomprensibili i segnali in entrata e in uscita con un sistema di criptaggio
a 128 bit la cui chiave cambiava ogni ora, e cambiava ulteriormente con i
singoli utenti i cui codici personali facevano parte delle schede di plastica
inseribili in loro possesso. Il sistema STU aveva resistito a ogni tentativo
dei russi di decifrarlo, nonostante l'esatta conoscenza del funzionamento
interno dell'hardware del sistema, e pensarono che gli americani avessero
gli stessi problemi; per secoli la Russia aveva prodotto i migliori
matematici del mondo e i migliori fra loro non erano nemmeno arrivati a
un modello teorico per decifrare il sistema di criptaggio.
Ma gli americani avevano, con l'applicazione rivoluzionaria della teoria
dei quanti alla sicurezza delle comunicazioni, un sistema di decodifica
così complesso che solo un pugno di persone del "direttorato Z" presso la
National Security Agency l'aveva capito davvero. Ma non ne avevano
bisogno. Per eseguire il vero lavoro disponevano dei supercomputer più
potenti del mondo, che erano situati nel seminterrato del vasto edificio
dell'NSA, un ambiente simile a una prigione sotterranea il cui tetto era
tenuto su da travi a doppia T in acciaio a vista, perché era stato scavato
apposta per un uso segreto. La macchina più potente era stata prodotta da
una società poi fallita, la Super-Connector della Thinking Machines, Inc.,
di Cambridge, Massachusetts. Costruita su misura per l'NSA, da sei anni
era poco utilizzata, perché nessuno era stato in grado di programmarla in
maniera efficiente, ma l'avvento della teoria dei quanti aveva portato,
anche qui, un cambiamento e quel mostro di macchina stava ora
funzionando a meraviglia mentre i suoi operatori si chiedevano chi
avrebbero potuto trovare in grado di sviluppare la generazione successiva.
A Fort Meade arrivava ogni tipo di segnale, da tutto il mondo, anche dal
General Communications Headquarters (GCHQ) della Gran Bretagna, a
Cheltenham, l'equivalente inglese dell'NSA. I britannici sapevano di chi
fossero i telefoni nell'ambasciata russa (non avevano cambiato i numeri,
anche dopo la caduta dell'Unione Sovietica) e questo stava sulla scrivania
del rezident. La qualità dell'audio non era sufficiente per ottenere un
riconoscimento della voce, dato che la versione russa del sistema STU
digitalizzava i segnali in modo meno efficiente di quella americana, ma
una volta che il criptaggio veniva decifrato, le parole erano facilmente
riconoscibili. Il segnale decodificato venne caricato su un altro computer,
che tradusse la conversazione russa in inglese con un buon grado di
400
affidabilità. Dato che il segnale andava dal rezident di Londra a Mosca, fu
posto in cima all'elenco dei messaggi in attesa di lavorazione e
decodificato, tradotto e stampato meno di un'ora dopo l'intercettazione.
Fatto ciò, il messaggio venne trasmesso subito a Cheltenham e a Fort
Meade dove uno specialista aveva il compito di selezionarlo e inviarlo
alle persone interessate al contenuto. In questo caso, fu inoltrato
direttamente al direttore della CIA e, dato che parlava chiaramente
dell'identità di una spia operativa, anche al vicedirettore (operazioni),
poiché tutte le spie operative facevano capo a lei. Il primo era più
occupato della seconda, ma ciò non contava, dato che la seconda era la
moglie del primo.
«Ed?» disse la voce della moglie.
«Sì, tesoro?» rispose Foley.
«Qualcuno sta cercando di identificare John Clark in Inghilterra.»
Alla notizia Ed Foley sgranò gli occhi. «Davvero? Chi?»
«Il capo della stazione di Londra ha parlato con il funzionario di Mosca
e l'abbiamo intercettato. Il messaggio dovrebbe essere nella pila della
posta in arrivo, Eddie.»
«Okay.» Foley sollevò la pila e fece passare i fogli. «Trovato»,
confermò al telefono. «L'uomo che vuole le informazioni è Dmitrij
Arkadeevič, ex colonnello nel... uno del terrorismo. Pensavo che fossero
tutti in pensione... cioè, lo erano... almeno lui lo era.»
«Sì, Eddie, uno del terrorismo interessato a Rainbow Six. Non è
strano?»
«Direi. Lo mandiamo in copia a John?»
«Ci puoi scommettere», replicò subito il direttore.
«Abbiamo qualcosa su Popov?»
«Ho fatto passare il nome nel computer. Niente», rispose la moglie.
«Apro un nuovo file con quel nome. Forse i britannici hanno qualcosa.»
«Vuoi che chiami Basil?»
«Vediamo prima che cosa scopriamo. Però, manda subito il fax a John.»
«Parte non appena ho preparato il foglio di accompagnamento»,
promise Mary Pat Foley.
«Stasera c'è la partita di hockey.» I Washington Capitals stavano
salendo in classifica e quella sera c'era un incontro all'ultimo sangue con i
Flyers.
«Non l'ho dimenticato. A più tardi, tesoro.»
401
«Bill», disse John al telefono dell'ufficio quaranta minuti dopo.
«Potresti venire da me?»
«Subito, John.» Entrò dopo circa due minuti. «Novità?»
«Guarda un po' qui.» Clark allungò le quattro pagine di testo.
«Cazzo», esclamò l'ufficiale della sezione intelligence, non appena
arrivò alla pagine due. «Popov, Dmitrij Arkadeevič. Non mi ricorda
nulla... oh, capisco, nemmeno a Langley conoscono il nome. Non si
possono conoscere tutti. Chiamo Century House?»
«Probabilmente troveremo che i nostri file sono uguali ai vostri, ma
male non può fare. Sembrerebbe che Ding avesse ragione. Quanto ci vuoi
scommettere che questo è il nostro uomo? Chi è il tuo migliore amico nei
servizi di sicurezza?»
«Cyril Holt», disse subito Tawney. «È il vicedirettore. Lo conosco dai
tempi dell'università. Era un anno dietro di me. Uomo straordinario.» Non
ci fu bisogno di spiegare a Clark che i vecchi legami di scuola
costituivano ancora un elemento essenziale nella cultura britannica.
«Potresti coinvolgerlo?»
«Senz'altro, John.»
«Proviamo a chiamarlo. Se decidiamo di rendere pubblico Rainbow,
voglio che siamo noi a farlo e non quei figli di puttana dei russi.»
«Conoscono il tuo nome, allora?»
«Qualcosa di più. Conosco personalmente il presidente Golovko. È
stato lui che ha fatto arrivare Ding e me a Teheran l'anno scorso. Ho
condotto un paio di operazioni in collaborazione con loro, Bill. Sanno
tutto di me, anche quanto ce l'ho grosso.»
Tawney non mostrò alcuna reazione. Stava imparando come si
esprimevano gli americani e spesso erano molto divertenti. «Sai, John,
non dovremmo agitarci troppo per quest'informazione.»
«Bill, sei in campo da tanto quanto me, forse un po' di più. Se questo
non ti fa agitare, diminuisci i tranquillanti.» Clark fece una pausa di un
secondo. «Abbiamo qualcuno che mi conosce di nome, e fa capire di
essere in grado di rivelare ai russi quello che sto facendo ora. Significa
che lo sa, amico. Ha scelto di dirlo al rezident di Londra, non a quello di
Caracas. Uno del terrorismo, forse qualcuno che ha un sacco di
nominativi e numeri telefonici e noi abbiamo avuto tre incidenti da
quando siamo qui; siamo tutti d'accordo che sono troppi per un periodo
402
così breve, e ora salta fuori questo qui, che indaga su di me. Bill, penso
che ce ne sia abbastanza per essere un po' agitati.»
«D'accordo. Chiamo Cyril al telefono.» Tawney lasciò la stanza.
«Merda», esclamò con un sospiro John, quando si chiuse la porta. Era il
problema delle operazioni segrete. Presto o tardi, qualche figlio di puttana
accendeva la luce e di solito si trattava di qualcuno che non si sarebbe mai
voluto nella stanza. Come diavolo era trapelato? Il suo viso si rabbuiò
mentre abbassava lo sguardo sulla scrivania, assumendo quell'espressione
che i suoi collaboratori consideravano davvero molto temibile.
«Cazzo», esordì il direttore Murray seduto alla sua scrivania nel quartier
generale dell'FBI.
«Sì, Dan, ben detto», sottolineò Ed Foley dal suo ufficio al settimo
piano a Langley. «Come diavolo ha fatto a filtrare?»
«Che diavolo ne so. Hai qualcosa su questo Popov che non conosco?»
«Posso verificare con le divisioni intelligence e terrorismo, ma
scambiamo tutte le nostre informazioni con voi. E i britannici?»
«Conoscendo John, è già al telefono con "Pive" e "Six". Il suo addetto
all'intelligence è Bill Tawney, e Bill è quanto di meglio si possa avere in
qualunque squadra. Lo conosci?»
«Il nome l'ho già sentito, ma non riesco a dargli un volto. Che cosa
pensa di lui Basil?»
«Dice che è uno dei suoi analisti più efficienti ed è stato la migliore spia
in campo fino a qualche anno fa. Ha buon fiuto», ribadì Foley.
«Quanto può essere importante tutto questo?»
«E presto per dirlo. I russi conoscono John abbastanza bene dai tempi di
Tokyo e Teheran. Golovko lo conosce personalmente... mi ha chiamato
per l'operazione Teheran complimentandosi per il lavoro che lui e Chavez
avevano fatto. Ne deduco che vanno d'accordo, ma questo è lavoro, non
faccende personali.»
«Ho capito, Don Corleone. Cosa vuoi che faccia?»
«Da qualche parte c'è stata una fuga. Non ho ancora un indizio di dove
potrebbe essersi verificata. Gli unici discorsi che ho sentito su Rainbow
sono stati fatti da persone autorizzate. Si suppone che sappiano tenere la
bocca chiusa.»
«Giusto», commentò Murray. Le uniche in grado di spifferare cose
come questa erano persone di cui ci si fidava, che avevano superato un
403
serio esame dei loro precedenti effettuato da agenti speciali dell'FBI. In
effetti, solo una persona fidata e sottoposta a esame poteva tradire il
proprio paese e, purtroppo, l'FBI non aveva ancora imparato a guardare
dentro il cervello e il cuore delle persone. E se si fosse trattato di una fuga
involontaria? Si sarebbe potuta interrogare la persona che l'aveva fatto
trapelare e persino lui, o lei, non sarebbe stato in grado di confermare che
era successo. Sicurezza e controspionaggio erano due dei compiti più
difficili al mondo. Grazie a Dio, pensò, aveva i decodificatori dell'NSA,
come sempre le persone più affidabili e preziose dei servizi segreti del suo
paese.
«Bill, abbiamo due uomini su Kirilenko quasi in continuazione. Lo
hanno appena fotografato mentre beveva una birra, con un tale, nel suo
solito pub la scorsa notte», spiegò Cyril Holt al suo collega "Six".
«Potrebbe benissimo essere il nostro uomo», osservò Tawney.
«Possibile. Devo vedere le tue intercettazioni. Vuoi che faccia un salto
da te?»
«Sì, il più presto possibile.» «Bene. Dammi due ore. Ho ancora alcune
cose sulla scrivania da sistemare.»
«Ottimo.»
Sapevano che questo telefono era protetto in due modi diversi. Il
sistema di criptaggio STU-4 poteva essere decifrato, ma con una
tecnologia che solo gli americani possedevano... o almeno così
ritenevano. Ma in più, le linee telefoniche utilizzate erano generate dal
computer. La rete telefonica britannica era essenzialmente di proprietà
statale e i computer che controllavano i sistemi di commutazione
potevano variare in modo casuale i percorsi e negare a chiunque la
possibilità d'inserirsi in una chiamata, a meno che non ci fosse un
collegamento fisico mediante un filo nel punto d'origine o di ricezione.
Per questo aspetto della sicurezza, si affidavano a tecnici che verificavano
le linee su base mensile... sempre ammesso che uno di loro non lavorasse
anche per qualcun altro, venne in mente a Tawney. Era impossibile
prevenire tutto e se mantenendo il silenzio telefonico si riusciva a negare
le informazioni a un nemico potenziale, si bloccava però anche il
trasferimento d'informazioni all'interno dell'ambito governativo, con tutte
le conseguenze immaginabili.
404
«Va' avanti», disse Clark a Chavez.
«Facile, Mr. C, non era come prevedere l'esito del prossimo
campionato. Era tutto piuttosto ovvio.»
«Forse, Domingo, fatto sta che l'hai detto per primo tu.»
Chavez annuì. «Il problema ora è: che diavolo facciamo? John, se
conosce il tuo nome, può facilmente già sapere o scoprire dove sei... e ciò
significa anche tutti noi. Diavolo, gli serve solo un compare nella società
telefonica, e può incominciare a sorvegliarci. È probabile che abbia una
tua foto o una descrizione. Poi viene a sapere un numero di targa e inizia a
seguirti.»
«Magari fossimo così fortunati. So come si fa il contropedinamento e
ho un cellulare dovunque vado. Mi piacerebbe che qualcuno ci provasse
con me. Farei uscire te e qualcuno dei tuoi fuori, in campagna, per
catturarlo e legarlo come un salame, e poi farei quattro chiacchiere con
quel figlio di puttana, da buoni amici.» Dicendo questo fece un sorriso
non proprio benevolo. John Clark sapeva come cavare informazioni dalle
persone, anche se le sue tecniche non corrispondevano esattamente alle
linee guida fornite di solito ai reparti di polizia.
«Forse, John. Ma per ora non c'è niente che si possa fare se non tenere
gli occhi aperti e attendere che qualcun altro ci procuri nuovi dati.»
«Non mi è mai capitato prima di essere io il bersaglio. Non mi va.»
«Ti capisco, ma viviamo in un mondo così. Che cosa dice Bill
Tawney?»
«Sta facendo arrivare un uomo "Five" più tardi in giornata.» «Sono i
migliori esperti in questo campo. Lasciamo che facciano il loro lavoro»,
suggerì Ding. Sapeva che era un buon consiglio, di fatto l'unico possibile
ma anche che John l'avrebbe detestato. Al suo capo piaceva fare le cose da
solo, senza aspettare che altri le facessero per lui. Se Mr. C. aveva un
punto debole, era questo. Sapeva essere paziente mentre lavorava, ma non
mentre aspettava che le cose avvenissero al di fuori del suo controllo.
Nessuno era perfetto.
«Sì, lo so», fu la risposta. «Come stanno i tuoi uomini?» «Sono tutti al
settimo cielo. Non li ho mai visti con il morale così alle stelle, John.
L'operazione Worldpark ha dato a tutti la carica. Penso che potremmo
conquistare il mondo intero se i delinquenti ci danno un mano.»
«L'aquila che ci hanno regalato sta bene nel club, vero?» «Ci puoi
scommettere le palle, Mr. C. Non abbiamo incubi dopo quell'operazione...
405
tranne per quella bambina. Non è stato uno spettacolo divertente. Ma
abbiamo preso quei bastardi, e Carlos è ancora in gabbia. Non penso che
qualcun altro cercherà di tirarlo fuori di lì.»
«E lui lo sa, mi dicono i francesi.»
Chavez si alzò. «Devo rientrare. Tienimi informato.»
«Stanne certo, Domingo», promise Rainbow Six.
«Allora che genere di lavoro fa?» domandò l'idraulico.
«Vendo articoli per idraulici», rispose Popov. «Chiavi e cose simili,
vendita all'ingrosso a distributori e dettaglianti.»
«Davvero. Qualcosa di utile?»
«Stringitubo rigide, marca americana. Le migliori al mondo, con
garanzia illimitata. Se si rompe, la sostituiamo gratis, anche dopo
vent'anni. Anche altra roba, ma quelle sono il mio prodotto migliore.»
«Davvero? Ne ho sentito parlare, ma non le ho mai usate.»
«Il meccanismo di regolazione è un po' più preciso delle chiavi inglesi
Stilson. Oltre a ciò, l'unico vero vantaggio è la politica di sostituzione. Sa,
le vendo da... quanto? Quattordici anni, penso. Ho avuto una sola rottura
fra tutte le migliaia che ho venduto.»
«Io ho rotto una chiave l'anno scorso», ammise l'idraulico.
«Qualcosa di strano nel lavoro alla base?» «Non proprio. Fare
l'idraulico è fare l'idraulico. Alcune delle cose su cui lavoro sono
vecchiotte... i refrigeratori per acqua, per esempio. Trovare i ricambi può
essere difficile e non si decidono a comprarne di nuovi. Dannata
burocrazia statale. Spendono migliaia di sterline alla settimana in
pallottole per le loro maledette mitragliatrici, ma comprare qualche nuovo
refrigeratore che la gente utilizzerà ogni giorno? Col cazzo!» L'uomo rise
di gusto e bevve un sorso della sua birra chiara.
«Che tipo di gente sono?»
«Il gruppo del SAS? Bravi ragazzi, molto educati. Non creano problemi
né a me né ai miei amici.»
«E gli americani?» domandò Popov. «Non ne ho mai conosciuto
nessuno, ma si sentono storie su come fanno le cose a modo loro e...»
«Non per quanto ne sappia io. Voglio dire, solo da poco ne abbiamo
avuti alla base, ma i due o tre per i quali ho lavorato sono proprio come i
nostri... e ricordi quel che le ho detto, cercano di darci la mancia! Boh, gli
americani! Compagnoni. La maggior parte ha figli e i bambini sono
406
fantastici. Alcuni stanno imparando a giocare il vero calcio. Allora, che fa
da queste parti?»
«Incontro i negozianti di ferramenta del posto, cercando di convincerli a
comprare i miei articoli, e anche il distributore locale.»
«Lee and Dopkin?» L'idraulico scosse la testa. «Sono tutt'e due vecchie
canaglie, non disposti a cambiare granché. Le andrà meglio con i piccoli
negozi, temo.»
«E la sua officina? Posso proporle alcuni dei miei attrezzi?»
«Non ho un gran budget... ma darò un'occhiata alle sue chiavi.»
«Quando posso venire?»
«La sicurezza, amico, qui è piuttosto rigida. Dubito che le
permetteranno di entrare nella base... ma potrei farla passare insieme con
me...»
«Mi piacerebbe. Quando?»
«Domani pomeriggio? Potrei venire a prenderla qui.»
«Sì», rispose Popov. «Mi andrebbe bene.»
«Ottimo. Possiamo fare uno spuntino qui e poi la porto dentro io
stesso.»
«Sarò qui a mezzogiorno», promise il russo. «Con i miei attrezzi.»
Cyril Holt aveva passato la cinquantina e aveva l'aspetto stanco di un
funzionario britannico di rango elevato. Ben vestito con un abito elegante
fatto su misura e una cravatta costosa, i vestiti da quelle parti, Clark lo
sapeva, erano molto belli ma non propriamente a buon mercato. Strinse le
mani a tutti e si accomodò nell'ufficio di John.
«Allora», esordì Holt. «Mi sembra che qui abbiate un problema.»
«Ha letto l'intercettazione?»
«Sì», annuì Holt. «Ottimo lavoro da parte dei suoi uomini dell'NSA.»
Non ebbe bisogno di aggiungere che era stato fatto un buon lavoro anche
da parte dei suoi uomini, che avevano identificato la linea utilizzata dal
rezident.
«Mi parli di Kirilenko», venne al sodo Clark.
«Persona competente. Dispone di uno staff di undici funzionari
operativi e forse di alcuni altri aiutanti non dichiarati per effettuare i
prelievi e cose simili. Sono tutti "legali", con copertura diplomatica.
Naturalmente, ha a disposizione anche vari "illegali" che riferiscono a lui.
Ne conosciamo due, entrambi con la copertura di uomini d'affari che, oltre
407
allo spionaggio, fanno affari davvero. Mettiamo insieme questo dossier da
un po' di tempo. In ogni caso, Vanja è un individuo competente e capace.
La sua copertura è quella di terzo segretario d'ambasciata, svolge i suoi
compiti come un vero diplomatico ed è ben voluto dalla gente con la
quale entra in contatto. Sveglio, spiritoso, la persona ideale per berci una
birra assieme. È abbastanza strano ma beve più birra che vodka. Sembra
trovarsi bene a Londra. Sposato, due figli, nessuna cattiva abitudine
giunta alla nostra attenzione. La moglie non lavora, ma non abbiamo
scoperto alcun segreto sul suo conto. Solo una casalinga, da quanto
riusciamo a capire. Anche lei ben vista dalla comunità diplomatica.» Holt
fece girare le fotografie di entrambi. «Ora», proseguì, «proprio ieri il
nostro uomo ha bevuto una birra con un amico, nel suo pub preferito. È a
pochi isolati dall'ambasciata a Kensington, vicino al Palace Green...
l'ambasciata risale al tempo degli zar, proprio come quella che avete voi a
Washington... e questo pub è piuttosto ben frequentato. Ecco la foto
migliorata del tipo con il quale ha bevuto.» Fu fatta girare un'altra
immagine.
Il viso, da quanto videro Clark e Tawney, non diceva nulla di
particolare. L'uomo aveva capelli castani e occhi marroni, lineamenti
regolari e un volto che si sarebbe fatto notare tanto quanto un bidone della
spazzatura in un vicolo. Nella foto, portava giacca e cravatta. Avrebbero
potuto discutere di football, del tempo o di come uccidere qualcuno che
non piaceva a entrambi... non lasciavano trasparire nulla dalle espressioni.
«Immagino che non abbia un posto particolare dove si siede di solito»,
fece presente Tawney.
«No, di solito si siede al banco, ma talvolta a un tavolo e di rado due
volte di seguito nello stesso posto. Avevamo pensato di piazzare una
cimice», disse loro Holt, «ma tecnicamente è difficile e farebbe capire al
proprietario che stiamo cercando qualcosa. È molto dubbio che potremmo
ricavarne qualcosa di utile. A proposito, il suo inglese è ottimo. Sembra
che il proprietario ritenga che si tratti di un britannico del nord del paese.»
«Sa che lo state pedinando?» domandò Tawney, prima che potesse farlo
Clark.
Holt scosse il capo. «Difficile dirlo, ma pensiamo di no. Le squadre che
lo sorvegliano si alternano, e sono fra i miei uomini migliori. Vanno
regolarmente in questo puh, anche quando lui non c'è, nel caso abbia
qualcuno dei suoi a fare un contropedinamento. Gli edifici della zona ci
permettono di seguirlo abbastanza facilmente con le telecamere a circuito
408
chiuso. Abbiamo visto alcuni possibili passaggi di mano, ma sapete tutti e
due cosa succede. Su un marciapiede affollato è normale urtare contro le
persone. Non sono tutti passaggi di mano. Ecco perché insegniamo ai
nostri agenti a farlo. Soprattutto quando le strade sono affollate, si
possono avere una dozzina di telecamere puntate sul proprio obiettivo
senza riuscire a vederne uno.»
Clark e Tawney si trovarono entrambi d'accordo. Il passaggio di mano
probabilmente esisteva da quando c'erano le spie. Cammini lungo una
strada e fingi di urtare qualcuno. Facendo ciò, la sua mano passa qualcosa
nella tua o te la lascia cadere in tasca e, con un po' di esperienza, è
praticamente invisibile anche a chi sta lì a osservare. Per riuscirci, solo
una delle parti ha la necessità d'indossare qualcosa di particolare e può
essere un garofano all'occhiello, il colore della cravatta o il modo di
portare il giornale o gli occhiali o qualsiasi altro contrassegno conosciuto
solo ai partecipanti alla minioperazione. Era il più semplice degli esempi
di "arte di strada", il più facile da usare, e per questo, la dannazione delle
agenzie di controspionaggio.
Ma se aveva effettuato un passaggio a questo Popov, avevano una
fotografia di quel bastardo. Forse l'avevano, si ricordò. Non c'era alcuna
garanzia che quel tale con il quale aveva bevuto ieri fosse la persona
giusta. Forse Kirilenko era abbastanza pronto da andare in un puh e
attaccare bottone con qualche altro cliente solo per far incazzare gli
uomini "Five" e dare loro un'altra persona scelta a caso da controllare. Per
effettuare i controlli occorrevano personale e tempo, e i servizi di
sicurezza non ne disponevano in quantità illimitata. Lo spionaggio e il
controspionaggio rimanevano il più bel gioco della città, e anche gli stessi
giocatori non sapevano mai davvero quale fosse il punteggio.
«Allora, aumenterete i controlli su Kirilenko?» domandò Bill Tawney.
«Sì», annuì Holt. «Ma ricordate che abbiamo di fronte un giocatore
molto scaltro. Non vi sono garanzie di successo sicuro.»
«Lo so, signor Holt. Sono stato in campo anch'io e loro non mi hanno
mai beccato», ricordò Clark al visitatore dei servizi di sicurezza. «Quindi
niente di niente su Popov?»
Scosse la testa. «Quel nome non è nei nostri file. È possibile, suppongo,
che sia archiviato sotto un altro nome. Forse è stato in contatto con i
nostri amici del PIRA in Irlanda, il che sembra probabile, se è uno
specialista di terrorismo. Ci sono stati molti contatti tra le due
409
organizzazioni. Abbiamo informatori all'interno del PIRA e sto pensando
di mostrare ad alcuni di loro la fotografia. Ma dobbiamo usare prudenza
perché qualcuno tra loro fa il doppio gioco. I nostri amici irlandesi
dispongono di un loro controspionaggio, ricorda?»
«Non ho mai avuto direttamente a che fare con loro», aggiunse John.
«Sono in gamba?»
«Maledettamente in gamba», confermò Holt, guadagnandosi un cenno
d'assenso di Bill Tawney. «Sono completamente dediti alla causa e molto
ben organizzati, ma ora hanno dei problemi. Alcuni sono contrari ai
processi di pace. Il nostro buon amico Gerry Adams fa di professione il
proprietario di pub e, se i pasticci hanno fine e non riesce più a farsi
eleggere a un'alta carica pubblica, cosa che spera, il suo impiego di riserva
ha un prestigio piuttosto inferiore alla posizione che detiene ora... ma la
maggior parte di loro sembra voler porre termine alle operazioni,
dichiarare vittoria e dare qualche chance alla pace. Ciò ha favorito un po'
il nostro reclutamento di informatori, ma vi sono elementi del PIRA che
sono più militanti oggi di quanto non fossero dieci anni fa, e questo ci
preoccupa», precisò Holt.
«Stessa storia nella valle della Bekaa», convenne Clark. Che cosa si fa
quando Satana viene da Gesù? Alcuni non vorrebbero mai smettere di
combattere il peccato e se ciò significa commettere essi stessi qualche
peccato, non è che il prezzo da pagare. «Non vogliono proprio lasciar
perdere.»
«È un problema. E non c'è bisogno che vi dica che uno dei loro obiettivi
principali è proprio qui. Non è che quelli del PIRA stravedano per il
SAS.»
Nemmeno questa era una novità. I commando dello Special Air Service
britannico erano scesi in campo abbastanza spesso per "mettere a posto"
gli appartenenti all'IRA che avevano fatto i due gravi errori di infrangere
la legge e di essere conosciuti. John riteneva sbagliato utilizzare i soldati
per svolgere quella che in fondo era una funzione di polizia... ma dovette
ammettere che a Rainbow era stato affidato, in un certo senso, l'incarico
che era di propria competenza. Il SAS aveva anche fatto cose che, in
alcuni contesti, avrebbero potuto essere chiamati omicidi premeditati. La
Gran Bretagna, per quanto simile sotto molti aspetti agli Stati Uniti, era
un paese diverso con leggi diverse e, in alcuni settori, regole molto
diverse. Così, a Hereford la sicurezza era rigida, perché un giorno una
410
decina di criminali avrebbero potuto fare la loro comparsa con i loro AK47, e i suoi, come molti uomini del SAS che vi risiedevano, avevano tutti
famiglia, e i terroristi non sempre rispettavano i diritti dei non
combattenti. Anzi.
La decisione era stata presa con insolita velocità dal numero 2 di piazza
Dzeržinskij e un corriere era per strada. Kirilenko fu sorpreso di ricevere
il messaggio in codice. Il corriere volava con l'Aeroflot a Heathrow, con
valigia diplomatica, inviolabile fintante che lui la teneva con sé - si sapeva
di paesi che le avevano rubate per il loro contenuto, che spesso non era
codificato, ma i corrieri seguivano strettamente tutta una serie di regole se dovevano andare al gabinetto ci andava anche la valigia. E così, con i
loro passaporti diplomatici, attraversavano disinvolti i controlli per
giungere alle auto in attesa che erano sempre là, trasportando le solite
valigie di tela, spesso piene di segreti preziosi, sotto gli occhi di persone
che avrebbero venduto le figlie per darci un'occhiata.
Così avvenne qui. Il corriere arrivò con il volo della sera dall'aeroporto
internazionale Šeremetevo di Mosca, passò la dogana e saltò sull'auto in
attesa guidata da un dipendente dell'ambasciata. C'erano solo quaranta
minuti in mezzo al traffico dell'ora di punta fino a Kensington, e da lì
all'ufficio di Kirilenko. La busta avana era sigillata con la ceralacca per
garantire che non era stata manomessa. Il rezident ringraziò il corriere per
la busta e altri due plichi e si mise al lavoro. Era già tardi e quella sera
avrebbe dovuto saltare la sua solita birra. Un'eccezione per lui.
L'atmosfera del suo pub preferito gli piaceva sul serio. Non c'era nulla di
simile a Mosca, o in uno qualunque degli altri paesi dove aveva prestato
servizio. Così ora aveva tra le mani il dossier completo su John T. Clark,
alto ufficiale operativo della CIA. Erano venti pagine fitte, oltre a tre
fotografie. Si mise a leggere il fascicolo. Era sbalorditivo. Secondo il
documento, nel suo primo e unico incontro con il presidente Golovko,
aveva ammesso di aver fatto fuggire direttamente dal paese la moglie e la
figlia dell'ex presidente del KGB... utilizzando un sottomarino? Allora, la
storia che aveva letto sui giornali occidentali era vera? Sembrava la trama
di un film. In seguito, aveva operato in Romania, più o meno nel periodo
della caduta di Nicolae Ceausescu, poi in collaborazione con la stazione
di Tokyo aveva salvato il primo ministro giapponese e, di nuovo con
l'assistenza russa, aveva partecipato all'eliminazione di Mamoud Haij
Darjaei? «Pare sia molto stimato dal presidente americano», riportava la
411
pagina d'analisi... E ci mancava altro! pensò Kirilenko. Lo stesso Sergej
Nikolaj'č Golovko aveva aggiunto alla pratica i suoi commenti. Ufficiale
operativo molto competente, con indipendenza di pensiero, conosciuto per
aver agito di propria iniziativa nelle operazioni, si riteneva che non avesse
mai compiuto un passo falso... Ufficiale addestratore all'accademia della
CIA a Yorktown, in Virginia, si credeva che avesse addestrato Edward e
Mary Patricia Foley, rispettivamente direttore della Central Intelligence
Agency e vicedirettore per le operazioni. Questo era un funzionario
formidabile, pensò Kirilenko. Aveva impressionato lo stesso Golovko e
pochi russi erano riusciti a fare altrettanto.
Così, adesso, era da qualche parte in Inghilterra, a fare qualcosa di
segreto, e l'agenzia per cui lavorava voleva saperne di più. Il rezident
prese il pezzo di carta dal portafoglio. Sembrava il numero telefonico di
un cellulare. Ne aveva alcuni nei cassetti della scrivania, tutti donati da
abbonati esistenti, perché teneva occupati i suoi addetti ai segnali, non
costava nulla all'ambasciata ed era molto sicuro. Inserirsi nel numero di
un cellulare conosciuto era difficile, ma in assenza di codici elettronici, si
trattava soltanto di un segnale in più in una città che ne era inondata.
Dmitrij Arkadeevič aveva la stessa cosa. In ogni città del mondo,
c'erano persone che donavano telefonini e li vendevano illegalmente per
strada. Londra non faceva eccezione.
«Sì?» rispose una voce lontana.
«Dmitrij, sono Vanja.»
«Sì?»
«Ho il fascicolo che hai richiesto. Chiedo il pagamento nei termini che
abbiamo concordato.»
«Sarà fatto», promise Popov. «Dove possiamo fare lo scambio?»
Era facile. Kirilenko propose l'ora, il posto e il modo.
«D'accordo.» Il collegamento si interruppe dopo settanta secondi. Popov
era stato messo in pensione ma conosceva ancora le regole delle
comunicazioni.
20
CONTATTI
Sapeva di essere malata. Non sapeva quanto, ma Mary Bannister era
sicura di non stare bene. E a giudicare dalle medicine che le davano
412
temeva di poter essere grave. Non era mai stata in ospedale, salvo una
volta al pronto soccorso locale per una caviglia slogata che suo padre
temeva potesse essere rotta, ma ora si trovava in un letto d'ospedale con
una piantana per fleboclisi al suo fianco, e un tubicino in plastica
trasparente infilato nel suo braccio destro, e la sola vista di ciò la
spaventava, nonostante le medicine che fluivano nel suo corpo. Si
domandava cosa le stessero somministrando. Il dottor Killgore le aveva
detto che si trattava di liquidi per mantenerla idratata e di qualcos'altro.
Scosse la testa per cercare di rinfrescarsi le idee e ricordare con
precisione. Perché non verificarlo? Spostò le gambe verso destra e si alzò,
in modo incerto, quindi si piegò per osservare cosa pendeva dal sostegno.
Le era difficile mettere a fuoco gli occhi e si chinò più vicino per scoprire
che le etichette erano codificate in modo incomprensibile. Il soggetto F4
si rialzò e cercò di reagire alla propria frustrazione senza riuscirci. Si
guardò attorno nella stanza. Sul lato più lontano di quello che sembrava
essere un muro divisorio alto circa un metro e mezzo c'era un altro letto
non occupato. Sulla parete più distante c'era un televisore, al momento
spento. Il pavimento era in mattonelle, freddo sotto i suoi piedi nudi. La
porta era in legno, e aveva una serratura a chiavistello al posto del
pomolo; si trattava della classica porta d'ospedale, ma lei non lo sapeva.
Non c'era telefono. Gli ospedali non hanno il telefono nelle stanze? Era
davvero in un ospedale? Sembrava di sì, ma sapeva che il suo cervello
stava lavorando più lentamente del solito, anche se non capiva come
riusciva a rendersene conto. Era come se avesse bevuto troppo. Oltre a
sentirsi male si sentiva vulnerabile e priva del pieno possesso delle sue
capacità. Era ora di fare qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa.
Rimase in piedi per un attimo a pensare, poi afferrò la sottile struttura
metallica con la mano destra e cominciò ad avviarsi verso la porta.
Fortunatamente il sistema di controllo elettronico era alimentato a pile e
non collegato alla presa di corrente nel muro. Si mosse facilmente sulle
sue ruote di gomma.
Scoprì che la porta non era chiusa a chiave. La aprì, sporse la testa dallo
stipite e diede un'occhiata nel corridoio. Vuoto. Uscì trascinandosi sempre
dietro la piantana della flebo. Non vide nessuna sala infermiere alle
estremità del corridoio, ma non ci fece molto caso. F4 girò verso destra,
cercando qualcosa senza sapere cosa. Aggrottò le sopracciglia e aprì altre
porte, dietro le quali trovò solo stanze buie, odoranti di disinfettante, fin
quando non giunse all'estremità. Questa porta aveva appesa la targa T-9 e
413
dietro trovò qualcosa di diverso. Nessun letto, ma un computer con lo
schermo acceso, a indicare che la macchina era in funzione. Si trattava di
un IBM compatibile, e sapeva come farlo funzionare. Poteva quindi fare
qualcosa, ma cosa?
Le ci vollero un altro paio di minuti per decidere. Poteva forse inviare
un messaggio a suo padre.
A una quindicina di metri e a un piano di distanza Ben Farmer si versò
una tazza di caffè e si sedette nella sua poltroncina girevole dopo aver
fatto un salto nel bagno degli uomini. Aveva ripreso in mano la copia di
Bio-Watch che stava leggendo. Erano le tre del mattino e tutto era
tranquillo in quell'ala dell'edificio.
PAPÀ, NON SONO CERTA DI DOVE SONO. DICONO CHE O FIRMATO
ALCUNI MODULI CHE CONSENTONO LORO DI SOTTOPORMI AD
ALCUNI TEST MEDICI, CON QUALCHE NUOVA MEDICINA, MA ORA MI
SENTO ABBASTANZA A PEZZI E NON SO PERCHÉ. MI HANNO
COLLEGATA A UNA FLEBO DI MEDICAZIONE CHE SI INFILA NEL MIO
BRACCIO, MI SENTO A PEZZI E
Farmer finì l'articolo sul riscaldamento globale, poi controllò il monitor.
Il computer si collegò con una telecamera dopo l'altra mostrando tutti i
pazienti nei loro letti, a eccezione di uno. Strano, pensò, in attesa che la
telecamera tornasse indietro non avendo visto il numero di codice del letto
vuoto. Ci volle circa un minuto. Oh, merda, mancava il T-4. Si trattava
della ragazza, il soggetto F4, Mary qualcosa. Oh, merda, dov'era andata?
Mise in azione i sistemi di controllo e verificò il corridoio. Anche lì non
c'era nessuno. Nessuno aveva cercato di attraversare le porte per
raggiungere altre zone dell'edificio. Erano entrambe chiuse e con l'allarme
inserito. Dove diavolo erano i medici? Quello di guardia era una donna,
Lani qualcosa, detestata dai dipendenti perché era una puttana arrogante e
presuntuosa. Evidentemente anche Killgore non l'amava dato che si
beccava sempre i turni di notte. Palachek, ecco come si chiamava. Farmer
si chiese quale potesse essere la sua nazionalità mentre sollevava il
microfono del sistema di amplificazione.
«Dottoressa Palachek, dottoressa Palachek, prego chiamare la
sicurezza», annunciò attraverso il sistema di altoparlanti. Ci vollero circa
tre minuti prima che il suo telefono suonasse.
414
«Sono Palachek, cosa succede?»
«Il soggetto F4 è andato a fare un giro. Non riesco a individuarla sulle
telecamere di sorveglianza.»
«Mi muovo subito. Chiami il dottor Killgore.»
«Sì, dottore.» Farmer si ricordava il numero a memoria.
«Sì?» rispose una voce familiare.
«Signore, qui Ben Farmer. F4 è scomparsa dalla sua stanza. La stiamo
cercando.»
«Ho capito, chiamatemi quando l'avete trovata.» E il telefono si
ammutolì. Killgore non sembrava molto preoccupato. Era possibile
andare a fare un giretto, ma non si poteva lasciare l'edificio senza essere
visti.
Era ancora ora di punta a Londra. Ivan Ferrovie Kirilenko aveva un
appartamento vicino all'ambasciata che gli permetteva di andare a piedi al
lavoro. I marciapiedi erano affollati di gente che camminava veloce verso
il proprio posto di lavoro - i britannici sono un popolo educato, ma i
londinesi hanno l'abitudine di muoversi a passo di corsa - e arrivò
all'angolo stabilito esattamente alle 8.20. Teneva nella mano sinistra la
sua copia del Daily Telegraph, un quotidiano del mattino di area
conservatrice, e si fermò in attesa che il semaforo diventasse verde.
Lo scambio fu condotto abilmente. Non venne pronunciata nessuna
parola, solo un doppio colpetto sul gomito per segnalargli di allentare la
presa in modo da poter scambiare i due Telegraph. Tutto accadde sotto la
cintola, al riparo da sguardi indiscreti, e in modo da essere nascosto dalla
folla alle eventuali telecamere che avessero inquadrato quell'angolo
trafficato dall'alto dei tetti. Nonostante il suo grado ormai elevato, al
rezident non piaceva rimanere alla finestra a dirigere le operazioni; voleva
provare a se stesso di essere ancora in grado di scendere in campo al pari
dei più giovani che lavoravano alle sue dipendenze. Pochi secondi più
tardi il semaforo cambiò colore, e un uomo con un soprabito marrone
chiaro si allontanò da lui camminando rapidamente con in mano il
quotidiano del mattino. L'ambasciata distava ancora due isolati.
Attraversò il portone di ferro, entrò nel palazzo, superò il controllo di
sicurezza e salì nel suo ufficio al secondo piano. Appese il soprabito al
gancio posto dietro la porta, si sedette e aprì il giornale sulla scrivania.
Dmitrij Arkadeevič aveva mantenuto la sua parola. C'erano due fogli di
415
carta bianca coperti di commenti scritti a mano. L'agente della CIA John
Clark era attualmente a Hereford, Inghilterra, e comandava un nuovo
gruppo antiterrorismo multinazionale noto con il nome di Rainbow
composto di dieci-venti uomini selezionati fra inglesi, americani, e forse
altre nazionalità. Si trattava di un'operazione segreta, nota solo a un
nucleo selezionato di persone. Sua moglie faceva l'infermiera
nell'ospedale pubblico della zona. La sua squadra era tenuta in grande
considerazione dai civili del posto che lavoravano presso la base del SAS.
Rainbow era stato impiegato in tre missioni, Berna, Vienna e Worldpark,
e in ognuno di questi interventi aveva avuto a che fare con terroristi Kirilenko notò che Popov aveva evitato di usare il termine "elementi
progressisti" - e in ognuno dei casi era intervenuto con efficienza, rapidità,
e sotto la copertura degli enti di polizia locali. Rainbow aveva accesso
agli equipaggiamenti americani, che erano stati impiegati in Spagna come
risultava evidente dai servizi televisivi dell'evento, che raccomandava
all'ambasciata di acquisire. La soluzione migliore probabilmente sarebbe
stata attraverso l'addetto militare, suggeriva Popov.
Complessivamente si trattava di un rapporto molto utile, sintetico e
pieno d'informazioni, notò il rezident, un buon affare considerando che
cosa aveva scambiato all'angolo della strada.
«Visto qualcosa questa mattina?» chiese Cyril Holt al capo dell'unità di
sorveglianza.
«No», rispose l'altro uomo del controspionaggio. «Teneva in mano il
solito giornale nella solita mano, ma la strada era affollata. Può esserci
stato uno scambio, ma in ogni caso non l'abbiamo notato. Abbiamo a che
fare con dei professionisti, signore.»
Popov, con il suo cappello marrone a tesa larga in mano, era seduto sul
treno che lo riportava a Hereford; sembrava intento a leggere il suo
giornale, ma di fatto stava scorrendo le fotocopie delle pagine giunte da
Mosca. Kirilenko era stato di parola, pensò con soddisfazione Dmitrij
Arkadeevič. Come dev'essere un buon rezident. Ora si trovava seduto da
solo in quello scompartimento di prima classe sull'intercity partito dalla
stazione di Paddington; stava acquisendo nuove informazioni su quel tipo
di nome John Clark, ed era colpito da ciò che leggeva. La sua ex agenzia
moscovita gli aveva dedicato molta attenzione. C'erano tre fotografie, una
416
di queste di buona qualità che sembrava essere stata scattata nell'ufficio del
direttore stesso della RVS a Mosca. Si erano anche presi la briga di acquisire
informazioni sulla sua famiglia. Aveva due figlie, una ancora al liceo negli
Stati Uniti, e una laureata in medicina e sposata con un certo Domingo
Chavez, anche lui un agente della CIA sulla trentina. Domingo Estebanovič,
che aveva anch'esso incontrato Golovko, lavorava evidentemente in coppia
con l'agente più anziano. Entrambi avevano addestramento militare... anche
Chavez poteva trovarsi in Inghilterra? Un medico, era facile da controllare.
Clark e il suo subalterno venivano descritti ufficialmente quali agenti sul
campo con esperienza formidabile, entrambi parlavano russo in un modo
definito appropriato, senza dubbio diplomati presso la scuola militare di
lingue di Monterey, California. Chavez, proseguiva il rapporto, era
diplomato e aveva ottenuto un master in relazioni internazionali presso la
George Mason University nei pressi di Washington, probabilmente a spese
della CIA. Quindi né lui né Clark erano semplici uomini d'azione.
Possedevano anche una buona cultura. E il più giovane era sposato con una
dottoressa.
Seguiva l'elenco delle loro operazioni sul campo note e confermate.
Due erano state effettuate con l'assistenza russa, più espatrio della moglie
e della figlia di Gerasimov, dieci anni prima, oltre a diverse altre non
confermate. "Formidabile" era il termine appropriato per entrambi. Era
stato a sua volta un agente informativo sul campo per oltre vent'anni, e
sapeva da cosa lasciarsi impressionare. Clark doveva essere stato una
stella a Langley, e Chavez era evidentemente il suo protetto, che seguiva
passo per passo le ampie falcate del... suocero... interessante.
La trovarono alle tre e quaranta, mentre stava ancora battendo al
computer lentamente e con fatica. Ben Farmer aprì la porta e vide in
primo luogo la piantana della flebo, poi la camicia da notte dell'ospedale.
«Salve», disse la guardia cortesemente. «Abbiamo fatto una passeggiatina, vero?»
«Volevo far sapere a papà dove mi trovavo», rispose Mary Bannister.
«Davvero? Via e-mail?»
«Esatto», rispose lei con calma.
«Cosa ne dice se la riportassimo nella sua stanza ora, va bene?»
«Penso di sì», convenne con aria stanca. Farmer l'aiutò a mettersi in
piedi e l'accompagnò con gentilezza nel corridoio, passandole un braccio
417
attorno alla vita. Raggiunsero la porta della stanza numero 4, la infilò a
letto e le tirò su le coperte. Prima di uscire abbassò le luci. Fuori incontrò
la dottoressa Palachek.
«Potremmo avere un problema, doc.»
A Lani Palachek non piaceva essere chiamata "doc", ma in quel
momento non fece storie. «Che tipo di problema?»
«L'ho trovata al computer della T-9. Mi ha detto che ha inviato una
e-mail a suo padre.»
«Cosa?!» Farmer si accorse che quella notizia aveva fatto sbarrare gli
occhi alla dottoressa.
«È ciò che ha detto.»
Oh merda! pensò la dottoressa. «Che cosa sa?»
«Probabilmente non molto. Nessuno di loro sa dove si trova.» E anche
guardare fuori dalla finestra non li avrebbe aiutati molto. Il panorama
mostrava solo colline boscose, nemmeno un parcheggio dove le targhe
delle auto avrebbero potuto fornire qualche indicazione. Quella parte
dell'operazione era stata studiata con attenzione.
«C'è modo di recuperare il messaggio che ha inviato?»
«Forse, se troviamo la sua password e il server al quale si è collegata»,
rispose Farmer. Era un esperto di computer, al pari di tutti gli altri che
lavoravano nell'organizzazione. «Posso provarci quando la sveglieremo,
cioè fra circa quattro ore?»
«Non c'è modo di richiamare il messaggio?»
Farmer scosse la testa. «Non penso proprio. Pochi lavorano in quel
modo. Non abbiamo software AOL sul sistema, solo Eudora, e se si batte
il comando d'invio immediato parte subito. Il messaggio entra in rete, e
una volta che c'è...»
«Killgore andrà su tutte le furie.»
«Sissignora», disse l'ex marine. «Forse dovremo inserire un codice per
accedere ai computer.» Non aggiunse di aver lasciato i monitor per
qualche momento, e che era tutta colpa sua. Non lo avevano informato su
questa possibilità, e poi perché non chiudevano a chiave le porte delle
stanze nelle quali non volevano entrasse la gente? Le cavie del primo
gruppo li avevano rovinati. Nessuno di quei vagabondi era in grado di
usare un computer, e non avevano nemmeno voglia di fare nulla, e
nessuno aveva pensato che l'attuale gruppo di soggetti da esperimento
potesse averne. Tutto sommato aveva visto errori più gravi in passato. Il
418
lato positivo era che non c'era modo per sapere dove si trovavano, né
tantomeno il nome della società proprietaria di quell'infrastruttura.
Ignorando tutto ciò, cosa poteva aver detto F4? Nulla d'importante,
Farmer ne era sicuro. Ma la dottoressa aveva ragione su un punto, e
Farmer lo sapeva. Il dottor John Killgore si sarebbe notevolmente
arrabbiato.
Il pranzo del contadino inglese era un'istituzione nazionale. Pane,
formaggio, lattuga, pomodorini, chutney e un po' di carne, in questo caso
tacchino, oltre, ovviamente, a una buona birra. Popov l'aveva trovato
gradevole in occasione del suo primo viaggio in Gran Bretagna. Si era
tolto la cravatta e l'abito elegante, in modo da sembrare una persona
qualunque.
«Salve», disse l'idraulico quando si sedette. Si chiamava Edward Miles.
Un uomo alto e possente con dei tatuaggi sul braccio, un'abitudine
britannica, specie per gli uomini in divisa, come ben sapeva Popov.
«Vedo che ha iniziato prima di me.»
«Come è andata la mattinata?»
«Il solito. Ho aggiustato un termosifone in una delle case per un tipo
francese, che fa parte di un nuovo gruppo. Sua moglie è uno schianto»,
disse Miles. «Ho visto solo una sua foto. Sembra che sia un sergente
dell'esercito francese.»
«Davvero?» osservò Popov dando un morso al suo panino.
«Sì, devo tornarci nel pomeriggio per finire il lavoro. Poi devo andare
ad aggiustare un refrigeratore d'acqua nella palazzina di comando. Un
lavoro maledetto, quel coso deve avere cinquant'anni. Sarò costretto a
farmi il pezzo che devo riparare, è impossibile trovarlo. La ditta
produttrice ha chiuso da parecchi anni.» Miles iniziò il proprio pranzo,
dividendo i vari ingredienti e ponendoli a strati con attenzione su una fetta
di pane fresco.
«Gli enti governativi sono tutti uguali», gli disse Popov.
«È vero!» rispose Miles. «E il mio aiutante è in malattia. Malattia un
cavolo», proseguì l'idraulico.
«Forse i miei attrezzi possono darle una mano», propose Popov.
Continuarono a parlare di sport fino alla fine del pranzo, quindi si
alzarono e si diressero verso il camioncino di Miles, un furgone blu con la
targa governativa. Il russo gettò nel retro i suoi attrezzi. L'idraulico avviò
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il motore, uscì dal parcheggio, e si diresse verso il cancello principale
della base di Hereford. La sentinella al cancello li fece entrare senza
controllare da vicino.
«Vedi, basta conoscere la gente giusta per entrare qui dentro.» Miles
rise per come aveva superato la sicurezza della base che, secondo il
cartello, era in condizione NERA, il più basso livello di allarme. «Ritengo
che i membri dell'IRA si siano calmati parecchio, e che non sarebbe
comunque mai stata una buona idea venire qui; contro questi ragazzi,
sarebbe stato come dare un pugno sul muso a un Icone, un'idea poco
furba», proseguì.
«Penso proprio di sì. Tutto quello che so sul SAS è ciò che ho visto alla
tele. Sembrano una banda di gente pericolosa.»
«È così», confermò Miles. «Basta dargli un'occhiata, guardare
come camminano. Sanno di essere dei leoni. E questo nuovo gruppo è
esattamente la stessa cosa, secondo alcuni sono ancora meglio. Hanno già
fatto tre lavoretti, da quel che ho capito, e sono stati tutti apparsi alla tele.
Hanno risolto quel pasticcio a Worldpark in modo brillante, non trova?»
L'edificio che ospitava il minuto mantenimento della base era così
caratteristico da essere molto simile a quelli dell'ex Unione Sovietica. La
pittura si stava scrostando e la zona del parcheggio era a zolle e
frammentata. Le porte a doppio battente sul retro erano chiuse da serrature
che avrebbero potuto essere aperte da un bambino con una forcina, pensò
Popov, ma l'arma più pericolosa che poteva contenere probabilmente era
un cacciavite. Miles parcheggiò il furgone e fece segno a Popov di
seguirlo. Anche all'interno l'aspetto era quello previsto: un banco
economico dove l'idraulico avrebbe potuto fare il suo lavoro, una sedia su
ruote usurata della quale era possibile vedere l'imbottitura attraverso la
vinilpelle squarciata del sedile, e una rastrelliera per gli attrezzi, pochi dei
quali dovevano avere meno di cinque anni a giudicare dalla vernice
scrostata sull'acciaio forgiato.
«Riesce ad acquistare qualche nuovo attrezzo?» chiese Popov, per
rimanere in argomento.
«Devo fare una richiesta, giustificandola, al capo del servizio
impiantistico. È un bravo ragazzo, e di solito non chiedo cose che non mi
servono realmente.» Miles staccò un appunto su un post-it dal suo banco.
«Vogliono che aggiusti questo refrigeratore d'acqua per domani. Perché
non bevono solo Coca-Cola?» si chiese ad alta voce. «Vuoi venire con
420
me?»
«Perché no?» Popov si alzò e lo seguì oltre la porta. Cinque minuti più
tardi se ne sarebbe pentito. Fuori dalla palazzina c'era un soldato armato, e
si rese subito conto che quello era il comando di Rainbow.
Miles parcheggiò il furgone, saltò giù, si avviò verso la porta posteriore,
la aprì ed estrasse la scatola degli attrezzi.
«Avrò bisogno di una chiave inglese», disse a Popov, che aprì la sacca
ed estrasse una chiave nuova di zecca.
«Va bene?»
«Perfetto.» Miles fece cenno di seguirlo. «Buon pomeriggio, caporale»,
disse al soldato che rispose al saluto con un cenno, senza aprire bocca.
Da parte sua Popov era più che sorpreso. In Russia la sicurezza sarebbe
stata molto più stretta. Ma eravamo in Inghilterra, e certamente l'idraulico
conosceva la sentinella. Così era entrato, cercando di non guardarsi in giro
in modo troppo evidente ed esercitando tutto il suo autocontrollo per non
far trasparire il nervosismo. Miles si mise immediatamente al lavoro,
svitando il frontale, mettendo il coperchio di lato, e infilandosi nelle
viscere del refrigeratore. Allungò la mano per chiedere la chiave e Popov
gliela porse.
La chiuse su un tubo e cercò di allentarlo. «Su dai, vieni... così.»
Estrasse il tubo e lo osservò tenendolo controluce. «Oh, bene, questo lo
posso riparare. Un dannato miracolo», aggiunse. Si inginocchiò e guardò
nella scatola degli attrezzi. «Il tubo è solamente otturato. Guardi, ci
saranno trent'anni di calcare qui dentro.» Glielo mostrò.
Popov fece finta di guardare nel tubo, ma non vide nulla dato che il
tubo doveva essere pieno di calcare, secondo ciò che aveva detto Miles.
Quindi l'idraulico riprese il pezzo, ci infilò un cacciavite di piccole
dimensioni, lo agitò come lo scovolino di un moschetto quando lo si
pulisce, poi girò il tubo per fare lo stesso dall'altra parte.
«Riusciremo ad avere un po' d'acqua pulita per il nostro caffè?» chiese
una voce.
«Penso proprio di sì, signore», rispose Miles.
Popov alzò lo sguardo e cercò di impedire al proprio cuore di accelerare
i battiti. Era Clark, Ivan Timofeevič, secondo le informazioni del KGB.
Alto, sulla cinquantina, sorrideva ai due operai, vestito in giacca e cravatta
che sembravano andargli un po' stretti. Fece un cenno all'uomo e abbassò
lo sguardo verso i suoi attrezzi pensando il più intensamente possibile,
421
vattene!
«Ecco, così dovrebbe andare», disse Miles, accingendosi a rimettere al
suo posto il tubo e prendendo la chiave da Popov per riavvitarlo. Poco
dopo si alzò e girò la manopola in plastica. Uscì dell'acqua sporca.
«Dobbiamo solo far scorrere l'acqua per circa cinque minuti, signore, per
consentire al tubo di ripulirsi.»
«Molto bene. Grazie», disse l'americano, andandosene.
«Un piacere, signore», rispose Miles all'uomo che si allontanava. «Era il
capo, il signor Clark.»
«Davvero? Abbastanza educato.»
«Sì, una brava persona.» Miles si alzò e ruotò di nuovo la leva in
plastica. L'acqua che usciva dall'ugello all'inizio fu torbida, ma dopo
pochi minuti era assolutamente limpida. «Bene, questa è fatta. Bella
chiave», osservò Miles restituendola. «Quanto costa?»
«Questa è sua.»
«Grazie, amico.» Miles gli sorrise mentre si avviava verso la porta e
passava davanti al caporale della polizia militare dell'esercito britannico.
Poi girarono per la base. Popov chiese dove stava Clark, e Miles fece
una deviazione svoltando a sinistra e dirigendosi verso gli alloggi degli
ufficiali superiori.
«Non è una brutta casa, vero?»
«Sembra abbastanza accogliente.» Era costruita in mattoni scuri, con un
tetto in ardesia, circa cento metri quadrati, e un giardino sul retro.
«Ho fatto io l'impianto idraulico», gli disse Miles, «quando è stata
restaurata. Quella dev'essere la moglie.»
Uscì una donna vestita da infermiera, si avviò verso la macchina e vi
entrò. Popov la osservò e registrò l'immagine.
«Hanno una figlia dottoressa nello stesso ospedale nel quale lavora la
madre», proseguì Miles. «Niente da fare con quella. Credo che sia sposata
con uno dei soldati. Assomiglia a sua mamma, alta, bionda e bella,
davvero uno schianto.»
«Dove vive?»
«Oh, credo da quella parte», rispose Miles facendo un vago gesto verso
ovest. «Un alloggio ufficiali come questo, ma più piccolo.»
«Allora, cosa ci può offrire?» chiese il sovrintendente di polizia.
A Bill Henriksen piacevano gli australiani. Andavano dritto al cuore del
422
problema. Erano seduti a Canberra, la capitale australiana, con il capo
della polizia e altra gente in uniforme militare.
«Bene, in primo luogo conoscete il mio passato.» Se ne era già
accertato, e la sua esperienza con il Federai Bureau of Investigation e la
fama della sua società erano ben note. «Sapete che lavoro con l'FBI, e a
volte anche con la Delta a Fort Bragg. Ho quindi dei contatti, buoni
contatti, forse in un certo senso migliori dei vostri.»
«Anche i nostri SAS sono ottimi», sottolineò il capo.
«Lo so», rispose Bill, con un cenno e un sorriso. «Abbiamo lavorato
insieme diverse volte quando facevo parte della squadra salvataggio
ostaggi, due volte a Perth e una volta a Quantico e a Fort Bragg, agli
ordini del brigadier generale Philip Stocker. A proposito, che fine ha
fatto?»
«È andato in pensione tre anni fa», rispose il capo.
«Bene, Phil mi conosce. Una brava persona, una delle migliori che
abbia incontrato», affermò Henriksen. «Comunque, cosa posso fare per il
gruppo? Lavoro con tutti i fornitori di materiali. Posso mettervi in
contatto con la H&K per la nuova MP-10 che piace ai vostri ragazzi; è
stata progettata secondo le indicazioni dell'FBI dato che abbiamo deciso
che il 9 mm non era abbastanza potente. La nuova cartuccia da 10 mm
della Smith & Wesson risponde invece ai requisiti, e alle armi della H&K
si è aperto un nuovo mondo. Ma chiunque può trovare queste armi per
voi. Tratto anche con E-Systems, Collins, Fredericks-Anders, MicroSystems, Halliday Inc., e tutte le altre società elettroniche. So quello che
succede nel campo dei sistemi di trasmissione e sorveglianza. Secondo le
mie fonti il vostro SAS è debole in questo settore. Posso aiutarvi a
risolvere il problema, e posso spuntare buoni prezzi per i sistemi di cui
avete bisogno. Inoltre i miei uomini possono aiutarvi nell'addestramento
con i nuovi equipaggiamenti. Ho una squadra di gente proveniente dalla
Delta Force e dall'HRT. In massima parte sottufficiali, compreso il
sergente maggiore di reggimento del centro di addestramento operazioni
speciali di Fort Bragg, Dick Voss. È il migliore del mondo, e ora lavora
per me.»
«Ho avuto occasione d'incontrarlo», sottolineò il maggiore del SAS
australiano. «È davvero un ottimo elemento.»
«Cosa posso fare per voi?» chiese Henriksen. «Avete potuto tutti
osservare la recrudescenza dell'attività terroristica in Europa, e questa è
423
una minaccia che dovete prendere in seria considerazione per le
Olimpiadi. La gente del vostro SAS non ha bisogno di consulenze da me
o da chiunque altro per quanto riguarda le tattiche, ma ciò che può fare la
mia società è fornirvi apparecchiatura elettronica di sorveglianza e di
comunicazione all'avanguardia. Conosco tutti quelli che adattano questa
roba alle necessità dei reparti, e si tratta del materiale che vogliono i vostri
uomini. Lo so. Posso aiutarvi a ottenere esattamente ciò di cui avete
bisogno e addestrarvi a usarlo. Non c'è un'altra società al mondo che abbia
la nostra esperienza.»
La risposta fu il silenzio. Tuttavia Henriksen poteva leggere il loro
pensiero. Le azioni terroristiche viste in tv li avevano preoccupati non
poco. La gente implicata in questo genere di mestiere era sempre in cerca
di minacce, reali o immaginarie. I giochi olimpici erano un'occasione di
enorme prestigio per il loro paese, ma anche l'obiettivo terroristico più
ambito del pianeta, come aveva imparato in modo drammatico la polizia
tedesca a Monaco nel 1972. In un certo senso l'attacco palestinese era
stato il calcio d'inizio del gioco terroristico mondiale, e quale risultato la
squadra israeliana era sempre protetta un po' meglio di qualsiasi altro
gruppo di atleti di altre nazioni, e aveva sempre nel suo ambito qualche
elemento dei reparti militari delle forze speciali mescolato fra i lottatori,
generalmente con l'accordo dei servizi di sicurezza della nazione
ospitante. Nessuno voleva che si ripetesse un'altra Monaco.
I recenti incidenti terroristici in Europa avevano fatto crescere
l'attenzione nel mondo, e ciò era vero soprattutto in Australia, una nazione
molto sensibile al crimine. Poco tempo prima un pazzo aveva ucciso
diversi innocenti, compresi alcuni bambini, e questo aveva portato alla
messa fuorilegge delle armi nel paese da parte del parlamento.
«Cosa sa degli incidenti in Europa?» chiese l'ufficiale del SAS
australiano.
Henriksen assunse un'espressione grave. «Molto di ciò che so è
assolutamente ufficioso, capisce cosa voglio dire.»
«Abbiamo tutti il nullaosta di sicurezza.»
«Okay, ma sapete, il problema è che non sono autorizzato a... al
diavolo. Il gruppo che ha risolto i casi è noto come Rainbow. Si tratta di
un'unità segreta composta da americani e britannici, con l'aggiunta di
qualche altro elemento delle nazioni NATO. Sono di base in Gran
Bretagna, a Hereford. Il loro capo è un americano della CIA, un certo
424
John Clark. È un bel tipo, al pari dei suoi. Le loro tre operazioni sono
andate lisce come il culetto di un bambino. Possono disporre degli
equipaggiamenti americani, elicotteri e altro, e hanno evidentemente
accordi diplomatici per operare in tutta Europa quando la nazione che ha
un problema li invita a occuparsene. Il vostro governo ha parlato con
qualcuno a questo proposito?»
«Ne sappiamo qualcosa», rispose il capo dei poliziotti. «Ciò che ci ha
detto è preciso in ogni dettaglio, ma devo ammettere che non conoscevo il
nome del comandante. Non ci può dire nient'altro di lui?»
«Non l'ho mai incontrato. Lo conosco solo di fama. È un agente di
grado molto elevato, vicino al capo della CIA, e ritengo che anche il
nostro presidente lo conosca di persona. Ritengo che abbia un'ottima
sezione di intelligence, e i suoi uomini hanno mostrato cosa sanno fare.»
«È proprio così», osservò il maggiore. «Il lavoro al Worldpark è stato
uno dei più efficaci che abbia visto, persino meglio dell'ambasciata
iraniana a Londra di tanti anni fa.»
«Avreste potuto fare lo stesso», osservò Henriksen con generosità e
convinzione. Lo Special Air Service australiano si basava sul modello
britannico, e anche se non aveva avuto molto lavoro le occasioni in cui si
era addestrato con loro durante la sua carriera nell'FBI non aveva avuto
dubbi circa la loro capacità. «Di che squadrone è, maggiore?»
«First Saber», rispose il giovane ufficiale.
«Mi ricordo del maggiore Bob Fremont e...»
«È il nostro colonnello comandante ora», lo informò il maggiore.
«Davvero? Devo mantenere maggiori contatti. È un ufficiale molto in
gamba. Lui e Gus Werner erano davvero bravi.» Henriksen fece una
pausa. «Comunque, questo è ciò che posso dare al vostro reparto, signori.
Io e i miei parliamo la lingua. Abbiamo tutti i contatti necessari sia dal
lato operativo sia da quello industriale. Abbiamo accesso ai sistemi più
moderni. E possiamo essere qui nel giro di tre o quattro giorni per
assistere i vostri ragazzi dal momento in cui ci dite "venite".»
Non vi furono altre domande. Il capo di polizia sembrava
sufficientemente impressionato, e il maggiore del SAS ancora di più.
«Grazie mille per essere venuto», disse il poliziotto alzandosi. Era
difficile non amare gli australiani, e il loro paese era affascinante e
incontaminato. Gran parte del territorio era un deserto impraticabile, nel
quale erano stati introdotti i cammelli, l'unico posto al di fuori dell'Arabia
425
dove si erano trovati a loro agio. Aveva letto da qualche parte che
Jefferson Davis, fra gli altri, aveva cercato di importarli nell'America
sudoccidentale, ma non c'era riuscito, probabilmente perché la
popolazione iniziale era troppo poco numerosa per sopravvivere. Non era
sicuro se ciò fosse stato un bene o un male. Gli animali erano nativi di
certe zone, e interferire con i piani della natura era di solito un fatto
negativo. D'altro canto anche cavalli e muli erano stati importati, e l'idea
dei cavalli selvaggi gli piaceva, fin quando la crescita era controllata in
modo adeguato dai predatori.
No, disse a se stesso, anche l'Australia era stata trasformata. I dingo, i
cani selvaggi delle zone interne, erano stati anch'essi introdotti dall'uomo
e avevano ucciso o fatto migrare i marsupiali stanziatisi lì in origine.
Questo pensiero lo rese vagamente triste. La popolazione era
relativamente scarsa, ma anche quei pochi uomini erano riusciti a
sconvolgere l'ecosistema. Forse si trattava del segnale che non ci si poteva
fidare dell'uomo a nessuna latitudine, pensò, nemmeno di pochi di essi su
uno sterminato continente. Quindi anche qui c'era bisogno del Progetto.
Era un peccato non avere più tempo. Voleva vedere la grande barriera
corallina. Appassionato subacqueo, non era mai venuto in questa zona con
pinne e muta per osservare uno degli spettacoli più belli offerti dalla
natura. Forse, fra qualche anno, sarebbe stato più facile, pensò Bill
guardando i suoi ospiti oltre il tavolo. Non riusciva a considerarli quali
suoi consimili. Erano concorrenti, rivali per il possesso del pianeta, ma a
differenza di lui erano soltanto poveri servitori. Forse non tutti. Forse
qualcuno amava la natura quanto lui, ma sfortunatamente non c'era il
tempo per identificarlo, e quindi dovevano essere considerati tutti alla
stregua di nemici, e per questo avrebbero dovuto pagare il prezzo.
Peccato.
Skip Bannister era preoccupato già da diverso tempo. In primo luogo
non avrebbe voluto che sua figlia se ne andasse a New York. Era lontano
da Gary, Indiana. Certo, i giornali dicevano che nella tremenda città sul
fiume Hudson la criminalità era diminuita, ma era maledettamente troppo
grande e anonima perché la gente ci potesse vivere bene, specie le ragazze
sole. Per lui Mary sarebbe rimasta sempre la sua bambina, se la sarebbe
sempre ricordata come un batuffolo rosa, bagnato e urlante fra le sue
braccia, partorita da una mamma che sarebbe morta sei anni dopo, una
figlia che era cresciuta con il bisogno di qualcuno che le costruisse le case
per le bambole, le assemblasse le biciclette, le comprasse i vestiti fino a
426
quando, con sua grande tristezza, l'uccellino aveva messo le ali ed era
volato via dal nido, verso New York City, un'odiosa città piena di gente
altrettanto odiosa. Ma aveva dovuto farsene una ragione, così come aveva
fatto quando Mary si era messa con qualche ragazzo che non gli piaceva
più di tanto, perché Mary era una ragazza testarda come tutte quelle della
sua età. Via per fare la sua vita, trovare un marito, o qualcosa del genere.
Ma poi era scomparsa, e Skip Bannister non sapeva più cosa fare. Tutto
era iniziato quando non aveva telefonato per cinque giorni di fila. Allora
aveva chiamato il suo numero di New York e aveva lasciato squillare il
telefono per vari minuti. Forse era fuori per un appuntamento o forse
lavorava fino a tardi. Avrebbe chiamato il suo numero d'ufficio, ma lei
aveva fatto di tutto per non darglielo. L'aveva sempre assecondata come
tendono a fare tutti i padri soli, forse aveva fatto male, pensò, o forse no.
Era scomparsa. Aveva continuato a chiamare il numero a tutte le ore del
giorno e della notte, ma il telefono squillava sempre a vuoto, e dopo una
settimana si era messo in allarme. A distanza di qualche giorno ancora si
era preoccupato al punto da telefonare alla polizia per denunciarne la
scomparsa. Era stata una cosa molto sgradevole. Il poliziotto con il quale
era infine riuscito a parlare gli aveva fatto un mucchio di domande circa la
precedente condotta di sua figlia, e dopo una ventina di minuti gli aveva
spiegato pazientemente che le ragazze combinano spesso questo tipo di
cose, e che poi ricompaiono da qualche parte. È un modo per crescere, a
patto che siano responsabili di loro stesse. Da qualche parte a New York
c'era quindi una scheda o una voce in un computer su una certa Bannister,
Mary Eileen, sesso femminile, scomparsa, cui il dipartimento di Polizia di
New York non dava sufficiente importanza da inviare un agente nel suo
appartamento nell'Upper West Side a verificare. Skip Bannister lo aveva
fatto per conto suo, guidando fin là solo per trovare un tizio che gli aveva
chiesto se stava portando via le cose di sua figlia, dato che non l'aveva
vista per diverse settimane e l'affitto stava scadendo.
A quel punto Skip, James Thomas, Bannister, si era fatto prendere dal
panico e si era recato di persona alla locale stazione di polizia per fare una
denuncia e chiedere di interessarsi al caso. Gli avevano risposto che era
andato nel posto sbagliato, ma che comunque potevano accettare anche
loro la sua denuncia di scomparsa. E qui, da un detective della polizia
sulla cinquantina, si era sentito ripetere esattamente le stesse frasi che gli
avevano detto al telefono. Guardi, sono solo poche settimane. Non è stata
trovata nessuna donna uccisa con le caratteristiche di sua figlia, quindi
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con tutta probabilità è viva e in buona salute da qualche altra parte, e nel
novanta per cento dei casi si tratta solo di una ragazza che ha voluto
spiegare le proprie ali e volare chissà dove.
Non la sua Mary, aveva risposto James T. Skip Bannister al tranquillo
poliziotto che non lo ascoltava. Signore, dicono tutti così, poi nel novanta
per cento dei casi la cosa si risolve, inoltre mi dispiace, ma non abbiamo
abbastanza uomini per investigare su tutti questi casi. Purtroppo queste
cose vanno così. Quindi perché non se ne torna a casa e aspetta una
telefonata?
Era ciò che aveva fatto, guidando fino a Gary con una rabbia mista a
paura. Quando arrivò trovò sei messaggi sulla sua segreteria telefonica,
che ascoltò rapidamente, ma nessuno era di sua figlia scomparsa.
Come molti americani James Thomas Bannister possedeva un personal
computer, e se lo aveva acquistato per capriccio e non lo usava molto,
quel giorno, come gli altri, lo accese e si collegò in rete per verificare la
sua e-mail. Finalmente quella mattina trovò una lettera di sua figlia nella
casella della posta in arrivo. Mosse il suo mouse, cliccando sulla lettera,
che comparve sul monitor a colori e... ora era davvero spaventato.
Non sapeva dov'era? Esperimenti medici? Cosa ancor più spaventosa,
la lettera conteneva errori. Mary aveva sempre avuto buoni voti a scuola.
La sua calligrafia era sempre precisa e di facile lettura. Leggere le sue
lettere era come leggere un articolo sul quotidiano del mattino, piene di
amore e chiare, concise, semplici. Questa poteva essere stata scritta da una
bimba di tre anni, pensò Skip Bannister. C'erano anche errori di battitura,
e sua figlia sapeva perfettamente battere a macchina, aveva avuto il
massimo dei voti in quella materia.
Cosa fare ora? La sua bambina era scomparsa... E ora il suo cervello gli
diceva che sua figlia era in pericolo. Il suo stomaco si compresse in un
nodo sotto lo sterno. Il suo cuore accelerò il ritmo. Il suo volto si coprì di
sudore. Chiuse gli occhi, pensando il più intensamente possibile. Poi
prese l'elenco telefonico. Sulla prima pagina c'erano i numeri
d'emergenza, ne scelse uno e compose il numero.
«FBI», disse una voce femminile. «Posso esserle utile?»
428
21
LE TAPPE
L'ultimo degli alcolizzati aveva superato tutte le previsioni, ma aveva
solo prolungato l'inevitabile. Si trattava di un nero di quarantasei anni di
nome Henry che ne dimostrava venti. Aveva detto a tutti quelli disposti ad
ascoltarlo di essere un veterano di guerra, un uomo dalla sete
considerevole che però miracolosamente non aveva fatto molti danni al
suo fegato. E il suo sistema immunitario aveva svolto un ottimo lavoro
nel combattere Shiva. Probabilmente aveva dei geni particolarmente
resistenti che però non avevano potuto fare granché, pensò il dottor
Killgore, visto lo scarso effetto benefico. Sarebbe stato utile ricostruire la
sua storia, sapere quanto erano vissuti i suoi genitori, ma era ormai andato
oltre il limite quando se ne resero conto. Ormai, secondo i risultati degli
esami del sangue, era sicuramente condannato. Il suo fegato aveva infine
ceduto agli attacchi di Shiva e i dati del suo sangue erano fuori dalla
media in tutti i parametri importanti. Da un lato era brutto. Il medico che
ancora c'era in Killgore avrebbe in qualche modo voluto salvare i soggetti
usati come cavie. Forse si trattava di uno sportivo, pensò dirigendosi
verso la stanza del paziente.
«Come andiamo, Henry?» domandò il dottore.
«Una merda, doc, una merda. Mi sembra che la pancia stia per
esplodere.»
«Lo puoi sentire?» chiese Killgore. Era sorpreso. Stava ormai
assumendo quasi dodici milligrammi di morfina al giorno, una dose letale
per un uomo sano, ma i malati gravi sono in grado di sopportarne molta di
più.
«Me ne dia un po'», rispose Henry con una smorfia.
«Va bene, lascia che sistemi la cosa.» Il medico estrasse una siringa da
50 cc dalla tasca unitamente a una fiala di Dilaudid. Una dose da due a
quattro milligrammi era forte per una persona normale. Decise d'iniettarne
quaranta per essere sicuro. Henry aveva sofferto abbastanza. Riempì la
siringa, diede un colpetto al tubetto in plastica per eliminare la bolla
d'aria, quindi la inserì nella flebo e spinse lo stantuffo.
«Ah», ebbe il tempo di dire Henry mentre un'ondata accecante lo
colpiva. Il suo volto divenne immobile, gli occhi spalancati, le pupille
dilatate in un'ultima sensazione di piacere che non avrebbe mai
429
conosciuto. Dieci secondi più tardi Killgore toccò la carotide destra. Non
si muoveva, e il respiro di Henry si era arrestato immediatamente. Per
essere certo Killgore prese dalla tasca lo stetoscopio e lo pose sul petto di
Henry. Il suo cuore si era fermato.
«Bella lotta, amico», commentò il dottore. Poi sganciò il tubo della
flebo, spense il sistema di controllo elettronico delle medicine, e tirò il
lenzuolo sul viso. Questa era la fine degli alcolizzati. Molti di loro se
n'erano andati da tempo, a eccezione di Henry. Il bastardo aveva lottato
fino all'ultimo, sfidando ogni previsione. Killgore si chiedeva se
avrebbero potuto provare su di lui uno dei vaccini, il "B" lo avrebbe
certamente salvato, ma all'epoca avevano un ubriacone in buona salute fra
le mani, e il Progetto non aveva come obiettivo di salvare quel tipo di
persona. A chi sarebbe di fatto potuto servire? Forse solo al proprietario di
un negozio di liquori. Killgore lasciò la stanza facendo cenno a un
inserviente. Nel giro di quindici minuti Henry si sarebbe trasformato in
cenere in sospensione nell'aria, e la sua materia sarebbe servita quale
fertilizzante per erba o piante quando sarebbe ricaduta a terra, di fatto
quasi il massimo contributo che una persona del genere poteva sperare di
dare.
Era ora di visitare Mary, il soggetto F4, nella sua stanza.
«Come stiamo?» domandò.
«Bene», rispose lei assonnata. Qualunque disagio provasse era ben
coperto dalla dose di morfina.
«Hai fatto una passeggiatina la scorsa notte?» chiese Killgore,
verificando il polso. Aveva novantadue pulsazioni, forti e regolari. Non
aveva ancora sintomi gravi, anche se non avrebbe mai resistito quanto
Henry.
«Volevo avvertire mio padre che stavo bene», spiegò.
«Pensi che sia preoccupato?»
«Non ho parlato con lui da quando sono qui e pensavo...» si
addormentò.
«Già, certo, hai pensato», disse il dottor Killgore al corpo incosciente,
«e faremo di tutto perché ciò non si ripeta.» Modificò il programma sul
monitor della flebo, aumentando del cinquanta per cento la dose di
morfina. Questo l'avrebbe fatta rimanere nel suo letto.
Dieci minuti dopo era uscito dall'edificio e stava camminando verso
nord dove... eccolo, vide il pick-up di Ben Farmer parcheggiato al solito
430
posto. L'interno dell'edificio odorava di uccelli, anche se assomigliava di
più a una scuderia. Ognuna delle porte aveva una grata troppo fine per
consentire a un braccio di entrarvi, o a un uccello di uscirne. Camminò
lungo la fila di porte fino a quando non trovò Farmer in una stanza con
uno dei suoi preferiti.
«Straordinari?» chiese Killgore.
«Un po'», ammise il guardiano. «Vieni Festus», disse poi. La civetta
sbatté nervosamente le ali per il volo di un paio di metri fino al braccio di
Farmer ricoperto dal guanto. «Penso che tu sia a posto, amico.»
«Non sembra molto amichevole», osservò il medico.
«A volte è difficile lavorare con le civette, e Festus ha un carattere
irascibile», disse l'ex marine, rimettendola sul suo trespolo e lasciandola
lì. Quindi uscì dalla stanza. «Le civette non sono i rapaci più intelligenti.
Sono molto difficili da addestrare. Con questa non ci provo nemmeno.»
«Perché non la liberi?»
«Già. Probabilmente alla fine della settimana.» Farmer annuì. «È qui da
due mesi, ma ormai la sua ala è del tutto guarita. Penso che sia pronta per
tornare là fuori e trovarsi un granaio pieno di topi da mangiare.»
«Era quella che era stata investita da una macchina?»
«No, quello è Niccolò, la grande civetta cornuta. No, penso che Festus
abbia urtato una linea elettrica. Forse stava guardando da un'altra parte.
Entrambi i suoi occhi sembrano funzionare alla perfezione. Ma anche gli
uccelli commettono degli errori, come gli uomini. Comunque gli ho
aggiustato l'ala malata, mi sono fatto i complimenti per il buon risultato.»
Farmer si gratificò di un bel sorriso. «Ma Festus non mi è molto
riconoscente.»
«Avresti dovuto fare il dottore, sei così bravo in queste cose. Eri un
assistente sanitario nei marines?»
«No, solo un soldato. I marines prendono i loro infermieri dalla
marina.» Farmer si tolse il pesante guanto in cuoio, e piegò le dita prima
di infilarlo nuovamente. «È qui per Mary?»
«Cosa è successo?»
«Vuole la verità? Mi sono allontanato per andare in bagno, poi mi sono
seduto a leggere la mia rivista, e quando ho alzato gli occhi non c'era più.
Penso che sia stata in giro al massimo dieci minuti prima che io dessi
l'allarme. Ho sbagliato, questo è certo», ammise.
«Non penso che abbia fatto danni.»
431
«Già, meno male. Cosa ne pensa di mettere quel computer in una stanza
chiusa a chiave?» Camminò fino in fondo alla stanza e aprì un'altra porta.
«Ehi, Baron», disse l'uomo. Pochi istanti dopo il falco Harris si appollaiò
sul braccio guantato. «Ecco il mio compagno. Sei pronto per un giro fuori,
ne hai voglia? Magari per trovare qualche coniglio saporito?»
Killgore pensò che quegli uccelli avevano davvero un'aria di nobiltà. I
loro occhi erano limpidi e acuti, i loro movimenti possenti e mirati, e per
quanto il loro scopo potesse sembrare crudele alle loro prede, non era
forse questa la natura al lavoro? I rapaci mantenevano l'equilibrio,
eliminando i lenti, gli zoppi, gli stupidi, ma oltre a questo gli uccelli
predatori erano nobili nel modo in cui mantenevano quota e osservavano
dall'alto il mondo che si stendeva sotto di loro, decidendo chi sarebbe
sopravvissuto e chi doveva morire. Un po' quello che facevano lui e i suoi
complici, pensò Killgore, anche se gli occhi umani non avevano la
durezza di quelli che vedeva qui. Non poté trattenersi dal sorridere a
Baron, che presto sarebbe stato rilasciato e avrebbe mantenuto quota
grazie alle termiche sopra il Kansas.
«Potrò continuare a occuparmi di questi anche quando il Progetto sarà
iniziato?» domandò Farmer, rimettendo Baron sul suo trespolo in legno.
«Cosa intendi, Ben?»
«Dottore, alcuni dicono che non potrò tenere uccelli una volta là fuori
perché interferisce con la natura. Dannazione, ho cura dei miei uccelli, lo
sa, i rapaci in cattività vivono due o tre volte più a lungo di quelli liberi
e... probabilmente questo modifica un po' le cose.»
«Non è una cosa di cui preoccuparsi. Capisco tu e i tuoi falchi. Anche a
me piacciono.»
«La bomba intelligente della natura. Mi piace guardarli mentre
lavorano. E quando rimangono feriti so come curarli.»
«Sei molto bravo a farlo. Tutti i tuoi uccelli hanno l'aria di essere in
salute.»
«Devono esserlo. Li nutro bene. Catturo topi vivi con le trappole per dar
loro da mangiare. Sa, a loro il cibo piace caldo.» Si portò al suo tavolo da
lavoro, si tolse il guanto e lo appese al gancio. «Comunque, questo è il
mio lavoro del mattino.»
«Torniamo a casa, Ben. Verificherò che la sala computer sia chiusa.
Cerchiamo di evitare che qualche altro paziente se ne vada a spasso.»
«Sissignore. Come sta Henry?» chiese Farmer, frugando nella tasca in
432
cerca delle chiavi dell'auto.
«Henry se n'è andato.» «Mi sembrava che non gli mancasse molto.
Quindi niente più alcolizzati?» Vide Killgore scuotere la testa. «Peccato
per lui. Un duro bastardo, vero?»
«Certo, Ben, ma è così che vanno le cose.»
«Peccato che non si possa buttare fuori il corpo per le poiane. Anche
loro devono mangiare, ma vedere come fanno è un po' stomachevole.»
Aprì la porta. «A questa sera, doc.»
Killgore lo seguì, spegnendo le luci. No, non potevano impedire a Ben
Farmer di tenere i suoi uccelli. La falconeria era il vero sport dei re, e da
essa si potevano imparare tante cose sugli uccelli, come cacciano, come
vivono. Aveva un suo posto nel Grande Piano della Natura. Il problema
era che nel Progetto si trovavano persone davvero radicali, come quelle
che obiettavano il fatto di avere dei medici nel gruppo, dato che questi
interferivano con la natura. Curare la gente era un'ingerenza, che
consentiva loro di moltiplicarsi e di alterare l'equilibrio. Già, certo. Forse
fra cent'anni, più probabilmente fra duecento, sarebbe stato possibile
vedere il Kansas ripopolato, ma non sarebbero rimasti tutti nel Kansas.
No, si sarebbero dispersi per studiare le montagne, gli acquitrini, le foreste
alluvionali, la savana africana, e quindi sarebbero ritornati nel Kansas per
riferire ciò che avevano imparato, per mostrare i loro video con la natura
in azione. Killgore aspettava tutto questo. Come molti altri membri del
Progetto aveva divorato il Discovery Channel della sua tv via cavo. C'era
tanto da imparare, tanto da capire, dato che lui, al pari di molti altri,
voleva capire tutto, capire la natura nella sua interezza. Era un'impresa
titanica, forse irrealistica, ma se non ce l'avesse fatta lui ce l'avrebbero
fatta i suoi figli. O i suoi nipoti, che sarebbero stati allevati ed educati per
apprezzare la natura in tutta la sua gloria. Avrebbero viaggiato, tutti
scienziati sul campo. Si chiese cosa avrebbero pensato coloro che
sarebbero stati inviati nelle città morte... Sarebbe stata probabilmente una
buona idea mandarli, in modo da far loro capire quanti errori aveva fatto
l'uomo e insegnare a non ripeterli. Forse avrebbe guidato lui stesso alcuni
di quei viaggi sul campo. New York sarebbe stato quello principale, la
vera lezione di ciò che non si doveva fare. Ci sarebbero voluti migliaia
d'anni prima che i palazzi crollassero a causa dell'arrugginirsi delle
strutture in acciaio e della mancanza di manutenzione. Le parti in pietra
non sarebbero mai scomparse, ma in poco tempo, forse una decina d'anni,
i cerbiatti sarebbero ritornati a Central Park.
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Gli avvoltoi avrebbero avuto un bel daffare per un certo periodo. Un
mucchio di corpi da mangiare... o forse no. All'inizio i corpi sarebbero
stati seppelliti secondo l'usanza civile, ma nel giro di poche settimane il
sistema sarebbe stato sopraffatto e la gente sarebbe morta, probabilmente
nel proprio letto, e quindi... i topi, ovviamente. L'anno successivo sarebbe
stato un anno da ricordare per i topi. L'unico problema era: i topi
dipendevano dalla gente per crescere. Vivevano dell'immondizia e delle
scorie della civilizzazione, un parassita molto specializzato; l'anno
prossimo avrebbero avuto un festino mondiale per cibarsi, e poi, cosa
sarebbe successo alla popolazione dei topi? I cani e i gatti sarebbero
sopravvissuti, raggiungendo forse una forma di equilibrio, ma senza
milioni di persone che producevano rifiuti da dare in pasto ai topi il loro
numero si sarebbe drasticamente ridotto nei cinque o dieci anni seguenti.
Sarebbe stato uno studio interessante per una delle squadre sul campo.
Con che velocità e fino a che punto si sarebbe ridotta la popolazione dei
topi?
Troppa gente nell'ambito del Progetto si preoccupava degli animali di
grossa taglia. A tutti piacevano i lupi e i puma, animali belli e nobili
cacciati con crudeltà dall'uomo perché uccidevano gli animali domestici.
Ma una volta smesso di disporre trappole ed esche velenose il problema si
sarebbe risolto. Ma cosa sarebbe successo ai predatori minori? Ai topi?
Nessuno sembrava preoccuparsene, eppure facevano anche loro parte del
sistema. Non ci si può basare sull'estetica nello studiare la natura. Se lo si
fa, allora come si può giustificare l'uccisione di Mary Bannister, il
paziente F4? Era una ragazza attraente, intelligente e piacevole, non come
Chester, Pete o Henry, non offendeva la vista come loro... ma come loro
era una persona che non capisce la natura, che non ne apprezza la
bellezza, non trova posto nel grande sistema della vita, e non merita
quindi di parteciparvi. Peccato per lei. Peccato per tutti i soggetti degli
esperimenti, ma il pianeta stava morendo e doveva essere salvato; c'era un
solo modo per farlo, dato che troppa gente aveva una comprensione del
sistema pari a quella degli animali meno evoluti, che ne facevano parte
senza saperlo. Solo l'uomo poteva sperare di capire il grande equilibrio.
Solo l'uomo aveva la responsabilità di sostenere questo equilibrio, e se
questo significava la riduzione della sua stessa specie, ebbene ogni cosa
aveva il suo prezzo. La più grande e più sottile ironia era che questo
richiedeva un grande sacrificio, e che questo sacrificio sarebbe venuto
grazie ai progressi umani nella ricerca scientifica. Senza gli strumenti che
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minacciavano di uccidere il pianeta, non ci sarebbe stata la possibilità di
salvarlo. Questa ironia stava trasformandosi in realtà, pensò
l'epidemiologo. Il Progetto avrebbe salvato la natura stessa, e vi prendeva
parte un numero relativamente limitato di persone, meno di mille, oltre a
quelli che erano stati scelti per sopravvivere e proseguire lo sforzo, gli
ignari le cui vite non sarebbero state sacrificate per i crimini commessi in
loro nome. Molti non avrebbero mai capito il motivo della loro
sopravvivenza, il fatto che fossero la moglie o il figlio o un parente
prossimo di un membro del Progetto, o che avessero una capacità di cui il
piano aveva bisogno: piloti d'aereo, meccanici, agricoltori, specialisti in
comunicazioni. Un giorno se ne sarebbero forse resi conto, questo era
inevitabile. Alcuni parlavano, altri ascoltavano. Quando coloro che
ascoltavano si fossero resi conto, sarebbero probabilmente inorriditi, ma a
quel punto sarebbe stato troppo tardi perché potessero fare qualcosa. Ci
sarebbero state alcune cose che avrebbe perso. Il teatro, i buoni ristoranti
di New York, ad esempio, ma di certo nel Progetto ci sarebbe stato
qualche bravo cuoco, e avrebbe trovato ottimi ingredienti sui quali
lavorare. I possedimenti in Kansas avrebbero prodotto tutto il grano
necessario, e vi sarebbero anche stati allevamenti di animali, fino alla
ripopolazione del bisonte.
Il Progetto si sarebbe sostentato autonomamente cacciando gran parte
della sua carne. Inutile dirlo, alcuni obiettavano anche su quello, non
volevano uccidere nulla, ma le menti più fredde e sagge erano riuscite a
prevalere su questo punto. L'uomo era un predatore e un costruttore di
strumenti, quindi anche i fucili erano ammessi. Inoltre era un modo molto
più pietoso per uccidere la selvaggina, e l'uomo doveva pur mangiare. Nel
giro di pochi anni quindi gli uomini avrebbero sellato i loro cavalli e
sarebbero andati in giro per uccidere qualche bisonte, macellarlo e portare
a casa la sua sana carne con pochi grassi, oltre a quella dei cervi,
dell'antilocapra americana e dell'alce.
Gli agricoltori avrebbero coltivato i cereali e le verdure. Tutti avrebbero
mangiato bene e sarebbero vissuti in armonia con la natura; in fondo i
fucili non erano un grande progresso rispetto all'arco e alle frecce, e
sarebbero stati in grado di studiare il mondo naturale in relativa
tranquillità.
Era un futuro splendido al quale guardare, anche se i primi quattro o
otto mesi sarebbero stati tremendi. Le notizie che sarebbero state diffuse
dalla televisione, dalla radio e dai giornali, fino a quando fossero esistiti,
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sarebbero state orrende, ma tutto ha un prezzo. L'umanità quale forza
dominante del pianeta doveva morire, doveva essere sostituita dalla natura
stessa, con un numero di persone sufficiente per osservare e apprezzare
quello che essa era e faceva.
«La dottoressa Chavez, per favore», disse Popov alla centralinista
dell'ospedale.
«Un attimo, prego», rispose la voce femminile. Ci vollero settanta
secondi.
«Dottoressa Chavez», rispose un'altra voce femminile. «Oh, scusi, ho
sbagliato numero», replicò Popov, riagganciando. Ottimo, sia la moglie
sia la figlia di Clark lavoravano all'ospedale, come gli era stato detto.
Questo confermava che anche Domingo Chavez si trovava a Hereford.
Conosceva quindi sia il capo del gruppo Rainbow sia uno dei suoi
ufficiali di grado più elevato. Chavez era probabilmente uno di questi.
Forse il capo della sezione intelligence? No, pensò Popov, non aveva una
sufficiente anzianità per quell'incarico. Quello doveva essere un
britannico, un uomo di grado elevato dell'MI-6, qualcuno noto ai servizi
di informazione del continente. Chavez probabilmente era un ufficiale, al
pari del suo mentore. Forse un comandante sul campo? Era solo una
supposizione, ma possibile. Un giovane ufficiale, in buona forma fisica
secondo i rapporti. Troppo giovane per qualsiasi altro incarico. Sì, aveva
una logica.
Popov aveva rubato a Miles una mappa della base e su questa aveva
segnato la posizione della casa di Clark. Da quella poteva dedurre la
strada che sua moglie faceva per recarsi all'ospedale, e risalire ai suoi
turni non sarebbe stato molto difficile. Era stata una buona settimana, ed
era ormai ora di andarsene. Mise in valigia i suoi vestiti e si avviò verso
l'auto a noleggio. A Londra-Heathrow lo aspettava un biglietto per il volo
di ritorno sul 747 diretto al JFK International di New York. Era in
anticipo, quindi rimase un po' nella saletta di prima classe della British
Airways, sempre un posto confortevole, dove erano disponibili bottiglie di
vino e persino di champagne. Si sedette su una di quelle comode poltrone
e prese uno dei giornali in omaggio, ma invece di leggere iniziò a passare
in rassegna le cose che aveva saputo e a chiedersi come le avrebbe
utilizzate il suo datore di lavoro. Al momento non sapeva cosa sarebbe
potuto succedere, ma l'istinto di Popov lo portò a pensare ad alcuni
436
contatti che aveva in Irlanda.
«Sì, parla Henriksen», rispose al telefono dell'albergo.
«Sono Bob Aukland», disse la voce. Era il capo di polizia che aveva
presieduto la riunione, ricordò Bill. «Ho buone notizie per lei.»
«Di cosa si tratta, signore?»
«Abbiamo parlato con il ministro ed è d'accordo sul fatto che dobbiamo
dare alla Global Security il contratto di consulenza per le Olimpiadi.»
«Grazie, signore.»
«Può venire da me in mattinata per mettere a punto i dettagli?»
«Sì, va bene. Quando possiamo andare a visitare gli impianti sportivi?»
«La porterò fin là in volo io stesso domani pomeriggio.»
«Ottimo, signor Aukland. Grazie per avermi ascoltato. E i vostri uomini
del SAS?»
«Saranno anche loro allo stadio.»
«Eccellente. Non vedo l'ora di lavorare con loro», disse Henriksen.
«Vogliono vedere quel nuovo sistema di comunicazione di cui ci ha
parlato.»
«La E-Systems ha appena iniziato a produrlo per quelli della Delta.
Centosettanta grammi per unità, sistema cripto a 128 bit, frequenza in
banda X, banda laterale, trasmissione a pacchetto. In pratica è quasi
impossibile intercettarlo, ed è molto affidabile.»
«A cosa dobbiamo questo onore, Ed?» domandò Clark.
«Hai una buona protezione alla Casa Bianca. I primi trenta esemplari
sono per te. Penso che arrivino entro due giorni», disse il direttore della
CIA a Rainbow Six.
«Chi alla Casa Bianca?»
«Carol Brightling, la consulente scientifica del presidente. È nel campo
dei sistemi di crittografia, e dopo il lavoretto di World-park mi ha
chiamato proponendomi di fornirvi queste nuove radio.»
«Non è autorizzata a sapere di noi, Ed», gli rammentò Clark. «Almeno,
non ricordo il suo nome sulla lista.»
«Qualcuno deve averle detto qualcosa, John. Quando ha chiamato
conosceva il nome in codice, ed è autorizzata quasi a tutto, ricordatelo.
Armi nucleari e tutta la roba convenzionale.»
«Non piace al presidente, o almeno così ho sentito dire...»
437
«Sì, lo so, è una grande arrampicatrice. Ma è anche molto intelligente, e
farvi avere questo materiale è stata una buona idea da parte sua. Ho
parlato con Sam Wilson giù allo Snake e i suoi lo hanno approvato con
entusiasmo. A prova di disturbi, criptato, digitale e leggero come una
piuma.» Doveva essere buono, visto che costava settemila dollari al
pezzo, compresi i costi di ricerca e sviluppo, pensò Foley. Si chiese se era
qualcosa che qualcuno dei suoi agenti avrebbe potuto usare per le
operazioni segrete.
«Hai detto due giorni?»
«Si. Solito trasporto da Dover alla base aerea della RAF di Mildenhall,
e poi da lì penso con un camion. Ah, un'altra cosa.»
«Dimmi.»
«Di' a Noonan che la sua lettera su quell'aggeggio cercapersone ha dato
risultati. La società gli manderà una nuova unità per giocarci, di fatto
quattro sistemi. Compresa un'antenna migliorata e un localizzatore GPS.
Ma di che cosa si tratta?»
«L'ho visto una sola volta. Sembra che localizzi le persone seguendo il
battito del loro cuore.»
«Come fa?» chiese Foley.
«Non ne so proprio niente, Ed, ma l'ho visto seguire la gente attraverso i
muri. A Noonan è piaciuto molto. Ma ha anche detto che aveva bisogno di
migliorie.»
«Bene, la DKL, la società produttrice, deve avergli dato ascolto. Quattro
unità fanno parte della stessa spedizione con la richiesta di una
valutazione delle modifiche.»
«Lo riferirò a Tim.»
«Nient'altro sui terroristi della missione in Spagna?»
«Manderemo un fax più tardi quest'oggi. Ne hanno identificati sei. Gli
spagnoli hanno detto che si tratta in gran parte di baschi sospetti. Quanto
ai francesi hanno due probabili, uno quasi certo. Ma non abbiamo idea di
chi abbia mandato questa gente sulle nostre tracce.»
«Russi», disse Foley. «Penso un agente del KGB a riposo.»
«Non posso dissentire, visto come si è materializzato quel tizio a
Londra, ma i ragazzi di "Pive" non sono venuti a capo di niente.»
«Chi si occupa del caso al "Five"?»
«Holt, Cyril Holt», rispose Clark.
«Conosco Cyril. Un uomo affidabile. Puoi credere a quello che ti dice.»
438
«Buono a sapersi, ma per il momento gli devo credere quando mi dice
che non sa un tubo di niente. Mi era quasi venuta l'idea di chiamare io
stesso Sergej Nikolaj'č e chiedergli una mano.»
«Non penso sia il caso. Lo sai che devi passare da me, ricordi? Anche a
me piace Sergej, ma non per questa faccenda.»
«Così però siamo in brache di tela, Ed. Non mi piace l'idea che ci sia in
giro qualche russo che conosce il mio nome e il mio attuale incarico.»
Foley dovette annuire. Nessun agente sul campo amava l'idea che
qualcuno lo conoscesse, e Clark aveva tutte le ragioni di esserne
preoccupato, dato che perdipiù la sua famiglia condivideva con lui
l'attuale sede di lavoro. Non aveva mai portato sul terreno Sandy per
usarla come copertura per la sua attività, come altri agenti avevano fatto
nel corso della loro carriera. Nessuno aveva perso sua moglie in quel
modo, ma un paio erano stati redarguiti, e la cosa era ora contraria alla
politica della CIA. Inoltre John aveva vissuto la sua intera vita
professionale come una non-persona, un fantasma conosciuto da pochi,
riconosciuto da nessuno, e noto unicamente a quelli dalla sua parte. Ma il
suo anonimato era stato infranto, e la cosa lo innervosiva. I russi lo
conoscevano e sapevano di lui, e questo era dovuto alle sue azioni in
Giappone e in Iran; doveva immaginare che quelle missioni avrebbero
avuto delle conseguenze.
«John, sanno chi sei. Golovko ti conosce personalmente, e questo
significa che si interessano a te, giusto?»
«Lo so, Ed, ma... dannazione!»
«John, capisco, ma ora hai un profilo alto, e non puoi evitarlo. Quindi
mettiti tranquillo, e lascia che scuotiamo qualche cespuglio per capire
cosa sta succedendo, va bene?»
«Penso di sì, Ed», fu la risposta rassegnata.
«Se scopro qualcosa ti telefono immediatamente.»
«Ti ringrazio», rispose Clark.
Il viceagente speciale responsabile dell'ufficio dell'FBI di Gary, Indiana,
era un uomo di colore di nome Chuck Ussery. Quarantaquattro anni,
assegnato da poco a quell'ufficio, faceva parte del Bureau da diciassette
anni, e prima era stato agente di polizia a Chicago. La telefonata di Skip
Bannister era stata rapidamente inoltrata al suo ufficio, e nel giro di
cinque minuti aveva detto all'uomo di recarsi immediatamente da lui.
439
Venticinque minuti dopo l'uomo entrava. Un metro e ottanta, robusto,
cinquantacinque anni circa, e molto spaventato, osservò l'agente. Per
prima cosa lo fece sedere e gli offrì un caffè, che venne rifiutato. Quindi
passò alle domande, iniziando da quelle di routine. Poi le domande si
fecero più dirette.
«Signor Bannister, ha con sé la e-mail di cui mi ha parlato?»
James Bannister estrasse il foglio di carta dalla tasca e glielo porse.
Ussery vide tre paragrafi, sconnessi e sgrammaticati. Confusi. La sua
impressione fu...
«Signor Bannister, ha un qualsiasi motivo per sospettare che sua figlia
possa aver fatto uso di droghe di qualche tipo?»
«Non la mia Mary!» fu l'immediata risposta. «Assolutamente no.
D'accordo, le piace bere qualche birra e un po' di vino, ma niente droga,
non la mia bambina, mai!»
Ussery alzò le mani. «Capisco come si sente. Ho lavorato altre volte su
sequestri e...»
«Pensa che sia stata rapita?» chiese Skip Bannister, che si trovava di
fronte al suo più forte timore. Era un'ipotesi ancora peggiore di quella che
sua figlia fosse una drogata.
«Sulla base di questa lettera sì, penso che sia una possibilità, e
tratteremo questo caso come l'indagine di un sequestro.» Ussery alzò il
telefono. «Mi può mandare Pat O'Connor, per favore?» disse alla
segretaria.
L'agente speciale Pat O'Connor era uno dei supervisori dell'ufficio di
Gary, trentott'anni, capelli rossi, pelle chiara e molto in forma, O'Connor
era a capo della squadra antisequestri. «Sì, Chuck?» disse entrando.
«Questo è il signor Bannister. Sua figlia è scomparsa, età ventun anni,
sparita a New York circa un mese fa. Ieri ha ricevuto questa e-mail.»
Ussery gli allungò il foglio.
O'Connor lo scorse e annuì. «Okay, Chuck.»
«Pat, il caso è tuo. Batti da fare.»
«Puoi scommetterci, Chuck. Signor Bannister, vuole seguirmi, per
favore?»
«Pat si occupa di questi casi per noi», spiegò Ussery. «Ci lavorerà sopra
e mi riferirà quotidianamente. Signor Bannister, l'FBI tratta i casi di
rapimento come delitti gravi. Questo caso sarà in cima alla lista fin
quando non sarà risolto. Dieci uomini, Pat?»
440
«All'inizio sì, e ancora di più a New York, signore», disse al loro ospite,
«abbiamo tutti dei figli. Sappiamo come ci si sente. Se c'è un modo per
ritrovare sua figlia, la rintracceremo. Ora devo farle un mucchio di
domande in modo che possiamo cominciare, va bene?»
«Certo.» L'uomo si alzò e seguì O'Connor in un altro ufficio. Vi sarebbe
rimasto per le tre ore successive, raccontando tutto quello che sapeva sulla
figlia e sulla sua vita a New York a quello e ad altri agenti. In primo luogo
consegnò loro una fotografia recente, una buona foto secondo loro.
O'Connor la guardò. L'avrebbe conservata nel dossier del caso. Lui e la
sua squadra non lavoravano a un sequestro da parecchi anni. Era un
crimine che l'FBI aveva in pratica eliminato dagli Stati Uniti, almeno
quelli a scopo di estorsione. Non esistevano statistiche. L'FBI li risolveva
sempre, piombando sui colpevoli come la collera di Dio. I sequestri attuali
riguardavano in genere bambini, e a parte quelli messi in atto dai genitori,
gli altri erano di solito attuati da maniaci sessuali che li usavano per
gratificare le proprie voglie e poi spesso li uccidevano. Non poteva esserci
nulla di peggio per far aumentare la collera istituzionale dell'FBI. Il Caso
Bannister, come già veniva chiamato, avrebbe avuto la massima priorità
in termini di uomini e risorse in qualsiasi ufficio fosse stato trattato. I casi
in sospeso contro la criminalità organizzata sarebbero stati messi da parte
in suo favore. Faceva parte dell'etica istituzionale dell'FBI.
Quattro ore dopo l'ingresso di Skip Bannister nell'ufficio di Gary, due
agenti della divisione operativa di New York che aveva sede nel Jacob
Javits Building, in centro città, bussavano alla porta dell'amministratore
dell'edificio in cui si trovava il tetro appartamento di Mary Bannister.
Questi consegnò la chiave e indicò dove si trovava l'appartamento. I due
agenti entrarono e iniziarono un'attenta perquisizione, cercando in primo
luogo appunti, fotografie, lettere, e qualsiasi altra cosa potesse aiutarli.
Erano lì da un'ora quando giunse un investigatore del dipartimento di
Polizia di New York, inviato dall'ufficio dell'FBI per aiutarli. Nella città
c'erano 30.000 poliziotti, e avrebbero potuto essere tutti chiamati a
collaborare all'indagine.
«Avete una foto?» chiese l'investigatore.
«Eccola.» L'agente responsabile della squadra gli allungò quella inviata
via fax da Gary.
«Sapete, qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata da qualcuno di
Des Moines, il nome della ragazza era... Pretloe, mi pare. Sì, Anne
441
Pretloe, attorno alla ventina, segretaria in uno studio legale. Viveva a
pochi isolati da qui. Scomparsa. Non si è più presentata al lavoro, svanita
nel nulla. Circa la stessa età e stesso sesso, ragazzi», sottolineò il
detective. «Ci potrebbero essere collegamenti?»
«Hai verificato?» chiese l'agente più giovane. Non dovette aggiungere
altro. Il loro pensiero andò subito alla cosa più ovvia: c'era forse un serialkiller che operava nella zona di New York? Quel tipo di criminale se la
prendeva in genere con donne fra i diciotto e i trent'anni, un predatore
selettivo come ce ne sono tanti in natura.
«Sì, ma niente che assomigli alla descrizione della ragazza Pretloe, o a
questa qui.» Restituì la foto. «Questo caso è un grattacapo. Trovato
niente?»
«Non ancora», rispose il capo. «Un diario, ma nulla di utile. Nessuna
foto di uomini. Solo vestiti, cosmetici, cose normali per una ragazza di
quell'età.»
«Impronte?»
Un cenno. «È la prossima cosa. Il nostro uomo ci sta arrivando.» Ma
sapevano tutti che si trattava di una tenue speranza,
dopo che l'appartamento era rimasto vuoto per un mese. L'unto lasciato
dalle impronte digitali evapora in un tempo così lungo, anche se qualche
possibilità esisteva ancora essendo l'appartamento chiuso e dotato di aria
condizionata.
«Non sarà una cosa facile», osservò il detective della polizia.
«Non lo sono mai», rispose l'agente dell'FBI a capo della squadra.
«Come ci comportiamo se ce ne sono più di due?» si informò l'altro
agente.
«Scompare un mucchio di gente in questa città», ricordò l'investigatore.
«Ma farò una verifica al computer.»
Il soggetto F5 era un tipino sveglio, notò il dottor Killgore. E inoltre le
piaceva Chip. Questa non era una bella notizia per Chip Smitton, che non
era stato esposto a Shiva per iniezione, test di vaccino o con il sistema
nebulizzato. Era stato esposto solo tramite contatto sessuale, e ora il suo
sangue presentava anche degli anticorpi. Questo significava che la
trasmissione funzionava anche, e addirittura meglio, da femmina a
maschio e non solo da maschio a femmina. Shiva stava facendo un ottimo
lavoro.
442
Era ripugnante guardare la gente che faceva l'amore. Anne Pretloe, F5,
era a un paio di giorni dal collasso a giudicare dalle analisi del sangue, dal
bere, dal mangiare e dall'allegria che mostrava sul monitor in bianco e
nero di fronte a lui. I tranquillanti avevano abbassato la resistenza dei
soggetti a lasciarsi andare, e non si poteva dire come fosse stata nella vita
reale, ma di sicuro conosceva a sufficienza la tecnica.
Stranamente Killgore non aveva mai prestato attenzione a questo tipo di
cose negli esperimenti sugli animali. Immaginava che i topi andassero in
calore, e quando lo erano i topi maschi e i topi femmina lo facevano, e
basta. Rispettava i topi come forma di vita, ma non trovava di nessun
interesse i loro incontri sessuali, mentre qui, lo doveva ammettere, si
trovava a osservare lo schermo ogni pochi secondi. La Pretloe, il soggetto
F5, era la più graziosa del gruppo, e se l'avesse incontrata in un bar per
single avrebbe potuto offrirle da bere, salutarla e... lasciare che le cose
prendessero il loro corso. Ma era anch'essa condannata, come i topini
bianchi appositamente allevati per il laboratorio. Quei graziosi animaletti
dagli occhi rosa erano usati in tutto il mondo perché identici
geneticamente, quindi i test condotti in una nazione potevano essere
paragonati a quelli fatti in qualsiasi altra parte del mondo. Non erano
probabilmente in grado di sopravvivere in libertà, e questo era un lato
negativo. Anche il loro colore non li avrebbe aiutati, consentendo a gatti e
cani di individuarli molto più facilmente, e questa non era una cosa buona
in natura. Erano comunque esseri artificiali, non facevano parte del
mondo naturale ma erano un prodotto dell'uomo, e quindi non serviva
assicurarne la continuità. Erano graziosi, ma questa era una
considerazione soggettiva, non oggettiva, e Killgore aveva imparato da
tempo a fare la differenza fra le due. Anche la Pretloe era graziosa, e la
sua colpa era un ostinato atteggiamento atavico, non accettabile per un
membro del Progetto. Ma ciò lo fece pensare mentre osservava Chip fare
l'amore con Anne Pretloe. Era il tipo di cose che Hitler avrebbe potuto
fare con gli ebrei, preservarne un piccolo numero quali topi umani da
laboratorio, magari per fare le prove di resistenza delle auto... Questo lo
rendeva quindi simile ai nazisti? pensò Killgore. Stavano utilizzando F5 e
M7 come tali... ma loro non avevano fatto discriminazioni di razza, fede o
sesso. Non c'erano motivazioni politiche, o almeno questo dipendeva da
come si definiva il termine, ma non nel modo in cui lui lo definiva. In
fondo questa era scienza. L'intero Progetto riguardava la scienza della
natura. I membri del Progetto comprendevano tutte le razze e le categorie
443
di persone, anche l'aspetto religioso non aveva grande importanza, a meno
che non si considerasse l'amore per la natura una forma di religione... cosa
che in un certo senso era vera, disse a se stesso il dottore. Sì, sicuramente
lo era.
Quello che stava vedendo sul suo schermo era una cosa naturale, o
quasi, dato che era stata non poco favorita dai tranquillanti, ma la
meccanica era certo naturale. Lo stesso valeva per gli istinti, quello di lui
per distribuire il più lontano possibile il suo seme, quello di lei per
ricevere il seme di lui, e il suo. La mente di Killgore lo portò a pensare di
essere un predatore, che poteva decidere quali membri di quella specie
avrebbero vissuto e quali no.
Questi due non sarebbero sopravvissuti, per quanto belli potessero
essere entrambi... come i topi da laboratorio con il loro bel pelo bianco, i
loro graziosi occhietti rosa e i loro baffi bianchi. Non sarebbero rimasti in
circolazione molto a lungo. La cosa lo turbava dal punto di vista estetico,
ma era una scelta valida alla luce del futuro che avrebbero potuto
ammirare.
22
CONTROMISURE
«Allora, nessuna notizia dal nostro amico russo?» chiese Bill Tawney.
«Nessuna», confermò Cyril Holt. «Il video su Kirilenko mostra che
passeggia tutti i giorni esattamente allo stesso modo e alla stessa ora,
quando le strade sono affollate, si ferma nello stesso pub per una pinta di
birra quattro sere su cinque, e urta ogni tipo di persona. Tutto ciò che fa è
un pallido tentativo di camuffarsi e qualche mossa per metterci fuori
gioco fino a quando non incrementiamo la nostra copertura, ma ci
sarebbero troppi rischi che Ivan Petrovic lo noti e faccia semplicemente
un maggiore sforzo per rimanere nascosto. È una soluzione che
preferiamo non adottare.»
«Sono d'accordo», dovette ammettere Tawney, nonostante la sua
delusione. «Niente da altre fonti?»
"Altre fonti", alludeva a chiunque il servizio di controspionaggio avesse
potuto avere alle proprie dipendenze all'interno dell'ambasciata russa.
Dovevano avere qualcuno all'interno, ma Holt non intendeva parlarne su
una linea telefonica, fosse questa criptata o meno, perché se c'era qualcosa
444
che andava protetto in questo mestiere è l'identità delle proprie fonti. Non
proteggerle significava farle uccidere.
«No, Bill, niente. Vanja non ha parlato sulla sua linea con Mosca a
questo proposito. Né ha usato la linea fax criptata. Qualunque sviluppo
abbia avuto quell'incidente non abbiamo neanche un volto confermato,
solo quel tipo nel pub, e potrebbe essere stato un falso allarme. Tre mesi
fa uno dei miei ha attaccato bottone con lui nel pub, e hanno parlato di
football, è un tifoso accanito, conosce molto bene il gioco, e non ha
nemmeno mai rivelato la propria nazionalità. Il suo accento è perfetto.
Quindi la sua presenza in quella foto potrebbe non voler dire nulla, solo
un'altra coincidenza. Kirilenko è un professionista, Bill. Non commette
molti errori. Qualsiasi informazione avesse ottenuto l'avrebbe senza
dubbio già scritta e inviata.» «Quindi con tutta probabilità abbiamo un
pensionato del KGB che si aggira ancora per Londra, forse con tutte le
informazioni di cui Mosca dispone sul nostro signor Clark, e non
sappiamo cosa sta facendo.»
«Esatto Bill», ammise Holt. «Non posso dire che la cosa piaccia
nemmeno a me, ma è proprio così.»
«Cos'hai saputo dei contatti fra KGB e PIRA?»
«Abbiamo qualcosa. Una foto di un altro tipo in una riunione a Dublino
di otto anni fa, e rapporti a voce o altri contatti, con descrizione delle
fisionomie. Qualcuno potrebbe essere il tipo della foto, ma le descrizioni
scritte si adattano a un terzo degli uomini esistenti sulla terra, e per ora
siamo molto cauti nel mostrare in giro le foto.» Tawney non aveva
bisogno che gliene spiegasse il motivo. Rientrava ampiamente fra le
probabilità il fatto che alcuni degli informatori di Holt facessero il doppio
gioco, e mostrare loro le foto dell'uomo del pub non avrebbe portato a
nulla se non a metterlo in allarme facendogli capire che qualcuno sapeva
chi era. Questo lo avrebbe reso più cauto, avrebbe forse cambiato il
proprio aspetto, e il risultato sarebbe stato quello di peggiorare
ulteriormente le cose anziché migliorarle. Si trattava della strategia più
difficile, rammentò Tawney a se stesso. E cosa sarebbe successo se il tutto
non fosse stato altro che una semplice curiosità da parte del russo, che
stava semplicemente seguendo le tracce di un noto agente informativo
della parte avversa? Faceva parte della procedura normale per questo
genere di cose.
La conclusione era che in pratica non sapevano nulla, pensò Tawney.
445
Qual era l'importanza di quella piccola informazione che era comparsa
sullo scenario?
«A cosa serve?» chiese Henriksen con aria innocente.
«Si tratta di un sistema di raffreddamento nebulizzato. Lo abbiamo
avuto dai vostri ragazzi», disse Aukland.
«Come? Non capisco», fece l'americano.
«Lo ha visto uno dei nostri ingegneri in Arizona. Spruzza un finissimo
vapore d'acqua. Le goccioline assorbono l'energia termica ed evaporano
nell'atmosfera, con lo stesso effetto dell'aria condizionata, ma con un
consumo energetico trascurabile.»
«Ah», esclamò Bill Henriksen, facendo del suo meglio per apparire
sorpreso. «Quanto è diffuso questo sistema?»
«Solo nelle gallerie e nei saloni. L'architetto voleva installarlo
dappertutto, ma qualcuno si è opposto, sostenendo che avrebbe interferito
con le telecamere e altri sistemi simili», spiegò Aukland.
«Penso che dovrò occuparmene.»
«Perché?»
«È un ottimo sistema per disperdere un agente chimico, non trova?»
L'osservazione colse l'ufficiale di polizia notevolmente impreparato.
«Be'... sì, ritengo di sì.»
«Bene. Ho uno dei miei, un ex ufficiale dello LT.S. Array Chemical
Corps, che è esperto in questo tipo di faccende, è laureato al MIT, il
Massachusetts Institute of Technology. Lo manderò a controllare il più
presto possibile.»
«Buona idea Bill, grazie», replicò Aukland, rimproverandosi di non
averci pensato da solo. Ma stava acquisendo esperienza. E l'americano
sembrava certamente un esperto.
«Fa sempre così caldo qui?»
«Oh sì, molto. Prevediamo temperature attorno ai novanta, Fahrenheit,
ovviamente. Ormai dovremmo tutti ragionare in Celsius, ma non sono mai
riuscito a imparare.»
«Neanch'io», concordò Henriksen.
«Comunque l'architetto ha detto che questo era un sistema economico
per raffreddare gli spettatori, e abbastanza comodo da installare. Viene
alimentato dal sistema antincendio. E non usa neanche tanta acqua per
quello che fa. È montato da oltre un anno. Lo verifichiamo
446
periodicamente. È costruito da una società americana, ma adesso non mi
ricordo come si chiama.»
La Cool-Spray di Phoenix, Arizona, pensò Henriksen. Nel suo archivio
in ufficio aveva i disegni costruttivi. Avrebbe avuto un ruolo cruciale nei
piani del Progetto, e fin dal primo momento era stato visto come una
manna. Questo era il posto. Presto sarebbe venuto il momento.
«Saputo nulla dai britannici?»
«Abbiamo mandato una richiesta, ma per ora nessuna risposta», replicò
Aukland. «Evidentemente si tratta di un progetto molto segreto.»
Henriksen annuì. «I politici sono sempre fra i piedi.» E con un po' di
fortuna avrebbero continuato a esserlo.
«È vero», rispose Aukland annuendo.
L'investigatore tenente Mario d'Allessandro accese il suo computer ed
entrò nella memoria centrale del dipartimento di Polizia di New York.
Sicuramente vi avrebbe trovato Mary Bannister e Anne Pretloe. Quindi
lanciò una ricerca inserendo il sesso, DONNA, e un'età fra i diciotto e i
trent'anni, poi spostò il suo mouse sull'icona INVIO. Il sistema trovò
quarantasei nomi, che salvò su un file appositamente creato. Il sistema
non aveva in memoria le foto. Per quelle avrebbe dovuto prendere i
fascicoli cartacei. Eliminò temporaneamente dieci nomi di ragazze
scomparse nei quartieri di Queens e di Richmond, salvando per il
momento solo le ragazze scomparse a Manhattan. Questo portò il totale a
ventuno. Poi eliminò le donne afro-americane, perché, se si trattava di un
serial killer, questo tipo di criminale seleziona abitualmente vittime simili
fra loro, ad esempio il più famoso di questi, Theodore Bundy, aveva
scelto unicamente donne con la riga dei capelli nel mezzo. La Bannister e
la Pretloe erano bianche, nubili, abbastanza carine, avevano rispettivamente ventuno e ventiquattro anni, e i capelli scuri. Da diciotto a trenta
sarebbe stato un intervallo adeguato, pensò, ed eliminò i nomi che non
rispondevano a quei requisiti.
Quindi aprì il fascicolo del dipartimento riguardante i corpi recuperati
di vittime di omicidi non ancora identificate. Conosceva questi casi per
esperienza. Due rispondevano ai parametri di ricerca, ma non si trattava
né della Bannister né della Pretloe. Per il momento aveva fatto un buco
nell'acqua. Le due donne scomparse non erano state trovate morte, e
questo era il fatto positivo. Ma i loro corpi avrebbero potuto essere
447
eliminati con abilità, le paludi del Jersey erano lì vicino, e fin dall'inizio
del secolo erano state una delle zone preferite per far scomparire i
cadaveri.
Poi stampò un elenco delle donne scomparse. Voleva esaminare tutti i
fascicoli, comprese le foto, insieme ai due agenti dell'FBI. Sia la Pretloe
sia la Bannister avevano i capelli scuri circa della stessa lunghezza, e
forse questa era una somiglianza sufficiente per un serial killer, ma no, la
Bannister era ancora viva, come faceva supporre la sua e-mail... a meno
che il serial killer non fosse il tipo di mente malata che voleva torturare le
famiglie delle sue vittime. D'Allessandro non si era mai imbattuto in uno
di questi in passato, ma i serial killer erano dei bastardi malati pericolosi,
e non era sempre facile prevedere quello che potevano fare per
divertimento personale. Se uno di questi maledetti era libero per New
York, allora non c'era solo l'FBI che voleva mettergli le mani addosso. Per
fortuna che nello stato di New York vigeva la pena di morte...
«Sì, l'ho visto», disse Popov al suo capo.
«Davvero?» chiese John Brightling. «A che distanza?»
«Alla stessa a cui siamo noi, signore», rispose il russo. «Non ho fatto
apposta, ma è successo. E un uomo alto e robusto. Sua moglie fa
l'infermiera nell'ospedale locale, e sua figlia è medico, sposata con uno
degli altri membri del gruppo, e lavora nello stesso ospedale. Si chiama
Patricia Chavez. Suo marito è Domingo Chavez, un altro agente operativo
della CIA, attualmente assegnato al gruppo Rainbow, probabilmente il
comandante di un distaccamento operativo. Sia Clark sia Chavez sono
agenti della CIA. Clark ha partecipato al recupero della moglie e della
figlia dell'ex capo del KGB dal territorio sovietico alcuni anni fa; la storia
è finita di recente sui giornali. Clark è l'agente che li ha fatti fuggire. È
anche stato coinvolto nel conflitto con il Giappone, e nella morte di
Mahmoud Haij Darjaei in Iran. Lui e Chavez sono agenti esperti e molto
in gamba. Sarebbe pericoloso sottovalutare anche uno solo di loro»,
concluse Popov. «Cosa ne possiamo dedurre?»
«Possiamo dedurne che Rainbow è quello che sembra essere, un reparto
antiterrorismo multinazionale le cui attività coprono l'intera Europa.
Ricordiamoci che la Spagna fa parte della NATO, ma l'Austria e la
Svizzera no. Possono operare anche in quelle nazioni? Di certo sì.
Costituiscono una seria minaccia per qualsiasi operazione terroristica.
448
Non si tratta», proseguì Popov, «di un'organizzazione che mi piacerebbe
trovarmi davanti sul campo. Le loro capacità in operazioni di
combattimento reale le abbiamo potute vedere in televisione. Queste
devono essere supportate da ottime capacità tecniche e informative. Le
une non possono esistere senza le altre.»
«Quindi sappiamo chi sono. È possibile che sappiano di noi?» domandò
il dottor Brightling.
«Possibile ma improbabile», rispose Popov. «Se così fosse, ci sarebbero
qui gli agenti dell'FBI per arrestare lei, e me, per cospirazione criminale.
Non sono sorvegliato né pedinato, o almeno non credo di esserlo. So a
cosa fare attenzione, e non ho visto nulla del genere, anche se esiste la
possibilità che un agente attento ed esperto sia in grado forse di seguirmi
senza farsi notare. E difficile, sono stato addestrato alle tecniche
antipedinamento, ma è teoricamente possibile.»
Popov notò che queste parole scossero in qualche modo il suo datore di
lavoro. Aveva appena ammesso di non essere perfetto. I suoi precedenti
supervisori al KGB lo avrebbero saputo e lo avrebbero accettato quale
normale rischio... ma questa gente non aveva mai dovuto preoccuparsi di
essere arrestata e di perdere i propri averi che ammontavano a qualche
miliardo di dollari.
«Quali sono i rischi?»
«Intende quali metodi possono essere usati contro di voi?» L'altro fece
un cenno di assenso. «Potrebbero mettere i vostri telefoni sotto controllo
e...»
«I miei telefoni sono criptati. Il sistema è considerato a prova di
intercettazione. I miei consulenti in questo campo mi hanno assicurato...»
Popov lo interruppe alzando la mano. «Signore, lei pensa davvero che il
suo governo consenta la produzione di sistemi cifrati che non è in grado
d'intercettare?» chiese, come se stesse spiegando la cosa a un bambino.
«La National Security Agency a Fort Meade ha alle sue dipendenze alcuni
dei più abili matematici del mondo, e i computer più potenti, e se ha dubbi
su quanto lavorano, le basterà guardare i loro parcheggi.»
«Cosa significa?»
«Se i parcheggi sono pieni alle sette di sera, significa che stanno
lavorando alacremente a qualcosa. Tutti hanno una macchina nel suo
paese, e i parcheggi sono solitamente troppo grandi per essere protetti alla
vista dei passanti. È facile osservare quanto è attiva una delle vostre
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agenzie governative.» E se uno fosse stato davvero interessato, avrebbe
potuto scoprire qualche nome e indirizzo, e conoscere i modelli di
automobile e le loro targhe. Il KGB aveva seguito per oltre dieci anni i
responsabili del gruppo Z dell'NSA, quelli che hanno il compito di entrare
nei sistemi di cifra avversari e di creare quelli nazionali, e il neonato RVS
russo stava senza dubbio facendo lo stesso. Popov scosse il capo. «No,
non mi fiderei di un sistema cifrato disponibile in commercio. Ho dubbi
persino sui sistemi usati dal governo di Mosca. I vostri sono molto bravi
nell'entrare nei sistemi cifrati degli altri. Lo sono stati per oltre
sessant'anni, ben prima della seconda guerra mondiale, e sono alleati dei
britannici, che a loro volta hanno una solida tradizione in questo settore.
Non glielo aveva mai detto nessuno?» chiese a sorpresa Popov.
«No, mi era stato detto che il sistema che ho adottato non poteva essere
intercettato perché è un 128 bit...»
«Ah già, lo standard STU-3. Questo sistema è stato usato dal suo
governo per circa vent'anni. I vostri hanno adottato ora l'STU-4. Pensa che
abbiano cambiato sistema solo per il gusto di spendere un po' di soldi,
dottor Brightling? O forse per qualche altro motivo? Quando lavoravo per
il KGB sul campo usavo solo codici usa-e-getta. Si tratta di un sistema
cifrato che viene usato una sola volta, creato con trasposizioni casuali.
Non può essere decifrato, ma è noioso da usare. Mandare un messaggio in
quel modo può richiedere ore. Sfortunatamente è molto difficile
utilizzarlo per comunicazioni in fonia. Il vostro governo ha un sistema
denominato TAP-DANCE, basato su un principio simile, ma non siamo
mai riusciti a copiarlo.»
«Vuole quindi dire che qualcuno potrebbe ascoltare tutte le telefonate
che faccio?»
Popov annuì. «Ovviamente. Perché crede che tutte le nostre conversazioni importanti siano state fatte di persona?» Dmitrij Arkadeevič notò
che il suo interlocutore adesso era davvero scosso. Il genio era come un
bimbo perso fra i boschi. «Non è forse giunto il momento di dirmi il
motivo per il quale ho compiuto queste missioni per voi?»
«Sì, ministro... eccellenza... grazie», disse Bob Aukland nel suo
telefono cellulare. Premette il tasto END e rimise il telefono in tasca,
quindi si girò verso Bill Henriksen. «Buone notizie. Anche il gruppo
Rainbow ci farà da consulente per la sicurezza.»
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«Ah, sì?» osservò Bill. «Bene, penso che ciò non possa fare troppi
danni.»
«Qualche problema?» si informò il poliziotto.
«No», mentì Henriksen. «Probabilmente conosco qualcuno di loro, e
loro mi conoscono.»
«E il suo onorario rimarrà lo stesso, Bill», disse l'australiano. Si
diressero verso la sua macchina, e da lì andarono in un pub a bere qualche
pinta di birra prima di accompagnare l'americano all'aeroporto.
Oh merda, pensò l'americano. Ancora una volta la legge della casualità
lo aveva fregato. Il suo cervello andò un attimo fuori giri, ma poi si
convinse che tutto sommato non ci sarebbero stati problemi fino a quando
avesse fatto per bene il suo lavoro. Avrebbe persino potuto aiutarlo, si
disse, finendo per crederci.
Brightling sapeva di non poter dir nulla a Popov. Aveva molta fiducia
in lui, dannazione, quello che sapeva il russo avrebbe potuto spedirlo
nelle prigioni federali, o magari farlo condannare a morte, ma non poteva
rischiare di dirgli la verità su tutta quella faccenda. Non sapeva quali
erano le idee di Popov sull'ambiente e sulla natura. Quindi non poteva
prevedere le reazioni del russo al Progetto. Popov era pericoloso in molti
modi per lui, era come un falcone addestrato ma rimaneva un libero
professionista, che desiderava uccidere una quaglia o un coniglio, forse,
ma mai totalmente suoi, sempre in grado di volare via e di tornare alla sua
vita libera... e se era libero di farlo, allora era anche libero di fornire
informazioni ad altri. Brightling pensò, e non per la prima volta, di
rimbalzare a Bill Henriksen questo potenziale problema. Sapeva
sicuramente come fare. L'ex agente dell'FBI sapeva come condurre
un'indagine su un omicidio, e quindi sapeva anche come ingannare gli
investigatori, e quel problema sarebbe stato risolto.
Disponibilità, pensò quindi Brightling. Quali altre cose poteva fare per
mettere ancor più al sicuro la propria posizione e il Progetto? Se Rainbow
era un problema, sarebbe stato possibile eliminarlo con un'azione diretta?
Distruggerlo, nella migliore delle ipotesi, o quantomeno distrarlo, farlo
concentrare in un'altra direzione?
«Devo pensarci un attimo, Dmitrij», disse infine. Popov annuì,
chiedendosi quali pensieri erano passati per la testa del suo datore di
lavoro nei quindici secondi che aveva impiegato per considerare il
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problema. Ora toccava a lui essere preoccupato. Aveva appena detto a
John Brightling quali erano i rischi operativi nell'impiegare lui, Popov,
per dare vita agli atti terroristici, e in particolare quali erano i difetti del
suo sistema di comunicazione criptato. Quest'ultimo punto aveva scosso
parecchio l'uomo. Forse avrebbe dovuto avvertirlo prima, ma l'argomento
non era mai stato discusso, e ora Dmitrij Arkadeevič si rese conto che era
stato un grave errore da parte sua. Ma la sicurezza operativa non era poi
un così grosso problema. Solo due persone sapevano cosa stava
accadendo... be', forse anche Henriksen lo sapeva. Ma Bill era un ex
federale, e se fosse stato un informatore, a quest'ora sarebbero già stati
tutti in galera. L'FBI avrebbe avuto tutte le prove necessarie per
un'indagine su un alto tradimento e per farli processare, e non avrebbe
permesso alle cose di procedere oltre, a meno che non vi fosse una
qualche vasta cospirazione criminale ancora da scoprire... ma quanto più
grande avrebbe dovuto essere questa cospirazione per commettere un
omicidio? No, la sicurezza era buona. E anche se il governo americano
aveva la capacità tecnologica per decodificare le linee telefoniche di
Brightling considerate sicure, era necessaria una prova per poterlo fare, e
questa da sola sarebbe stata sufficiente per far entrare diverse persone nel
braccio della morte. Me compreso, ricordò a se stesso Popov.
Cosa sta succedendo qui? si chiese il russo. Ci aveva pensato
abbastanza per capire qualcosa. Qualunque cosa stesse tramando il suo
datore di lavoro, era ben più di un omicidio di massa. Di cosa diavolo
poteva trattarsi? Cosa ancor più preoccupante, Popov aveva portato a
termine le sue missioni nella speranza, sicuramente concreta, di
guadagnare una bella somma di denaro. Aveva ormai oltre un milione di
dollari sul conto corrente nella sua banca di Berna. Abbastanza per
tornarsene nella Madre Russia e vivere in modo agiato... ma non ancora
abbastanza per quello che desiderava davvero. Era strano scoprire che
quel "milione", quella parola magica per descrivere un numero magico,
era qualcosa che, una volta che la si possedeva... non era affatto magica.
Era solo un numero dal quale si effettuavano delle sottrazioni per
acquistare ciò che si desiderava. Un milione di dollari americani non era
sufficiente per acquistare la casa che voleva, la macchina che voleva, il
cibo che voleva, e averne ancora abbastanza per consentirgli di vivere nel
modo che desiderava fino alla fine dei suoi giorni, salvo forse in Russia,
dove però non intendeva vivere. Andarci in viaggio di piacere sì;
rimanerci no. E quindi anche Dmitrij era in trappola.
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Intrappolato in che cosa, non lo sapeva. Si trovava lì, seduto dall'altra
parte della scrivania di uno che, come lui, era anch'esso intento a pensare,
ma nessuno dei due aveva deciso che direzione prendere. Uno di loro era
al corrente di ciò che stava succedendo e l'altro no, ma quest'ultimo
sapeva come far sì che le cose accadessero, mentre il suo datore di lavoro
non lo sapeva. Era un momento di stallo interessante.
Rimasero seduti lì per circa un minuto, guardandosi l'un l'altro, nessuno
disposto ad assumersi il rischio di dire quello che doveva. Alla fine
Brightling ruppe il silenzio.
«Devo assolutamente riflettere sulla situazione. Mi da più o meno un
giorno per farlo?»
«Certo.» Popov si alzò, gli strinse la mano e uscì dall'ufficio. Aveva
passato buona parte della sua età adulta a giocare al più interessante e
affascinante dei giochi, e ora si era reso conto di essere in un gioco nuovo,
con nuove regole. Aveva messo le mani su una grande quantità di denaro,
ma il suo datore di lavoro la considerava insignificante. Era coinvolto in
un'operazione la cui importanza era superiore a quella di un omicidio di
massa. La cosa non era proprio una novità per lui, si rese conto Popov. Un
tempo aveva servito una nazione che aveva come obiettivo la vittoria
sull'Impero del Male, e quella guerra fredda aveva avuto dimensioni ben
superiori a quelle di un omicidio di massa. Ma Brightling non era una
nazione, e per quanto imponenti potessero essere le sue risorse, queste
erano minuscole di fronte alle risorse di una nazione avanzata. La
domanda rimaneva senza risposta: cosa diavolo stava cercando di fare
quell'uomo? E perché aveva bisogno dei servigi di Dmitrij Arkadeevič per
riuscirci?
Henriksen prese il volo della Qantas per Los Angeles. Avrebbe
trascorso buona parte della giornata in una poltrona di prima classe,
abbastanza per riflettere sugli ultimi avvenimenti. Il piano per le
Olimpiadi era in gran parte pronto. Il sistema di nebulizzazione era al suo
posto, cosa assolutamente perfetta per l'attuazione del Progetto. Uno dei
suoi uomini avrebbe verificato l'impianto, e lo avrebbe preparato per la
diffusione che avrebbe avuto luogo l'ultimo giorno. Era semplice. Aveva
ottenuto il contratto di consulenza necessario per far sì che tutto
accadesse. Ma ora c'era quella banda di Rainbow che sarebbe intervenuta
anch'essa. Quanto avrebbero interferito? Dannazione, non era possibile
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prevederlo. Nel peggiore dei casi, qualche dettaglio avrebbe messo i
bastoni fra le ruote dei lavori. Capitava così spesso. Lo sapeva fin dai
tempi dell'FBI. Una pattuglia di poliziotti non prevista, un uomo a piedi o
in una macchina che passava per caso poteva far fallire una rapina ben
preparata. O nella fase investigativa una descrizione particolarmente
lucida o un passante casuale, o un appunto fatto a un soggetto da un
amico, potevano giungere all'investigatore giusto e contribuire a risolvere
il caso. Era così semplice, era successo milioni di volte. E quando
accadeva, era sempre a favore dell'avversario.
Dal suo punto di vista sapeva di dover eliminare la possibilità che
accadesse uno di quegli eventi imprevedibili. C'era andato così vicino. Il
piano dell'operazione era stato brillante, lo aveva in pratica concepito lui
fin dall'inizio; John Brightling lo aveva solamente finanziato. Attivare i
terroristi in Europa aveva fatto salire la sensibilità internazionale verso il
problema, e questo aveva consentito a lui e alla sua società di ottenere il
contratto per la supervisione della sicurezza delle Olimpiadi. Ma poi era
comparso quel dannato gruppo Rainbow, che aveva risolto tre dei
principali atti terroristici, e ora gli australiani avevano chiesto loro di
venire a dare un'occhiata. Se fossero venuti, sarebbero rimasti e avrebbero
continuato a osservare, e se questo fosse accaduto, avrebbero potuto
rimanere anche durante i giochi; se avessero avuto sentore di armi
chimiche, avrebbero potuto individuare il sistema perfetto per diffonderle
e...
Troppi se, si disse Henriksen. Molte cose sarebbero dovute andare
storte per ostacolare il Progetto. Questo pensiero lo confortava. Avrebbe
forse potuto incontrare la gente di Rainbow e allontanarla dalla minaccia.
Dopotutto aveva un esperto di armi chimiche sul suo libro paga, mentre
probabilmente loro non lo avevano, e questo gli dava un vantaggio. Con
un po' d'intelligenza il loro uomo avrebbe potuto fare il suo lavoro senza
che se ne accorgessero. Era per questo che si facevano i piani.
Rilassati, si disse, mentre la hostess distribuiva i drink e lui si serviva
un altro bicchiere di vino. Rilassati. Ma non ci riusciva. Aveva troppa
esperienza d'investigazione per accettare la possibilità di interferenze
impreviste senza considerarne le conseguenze. Se i suoi uomini fossero
stati fermati, anche per caso, era possibile che l'intero Progetto venisse
scoperto. E questo avrebbe significato più di un fallimento. Nel migliore
dei casi avrebbe significato l'ergastolo, cosa che non era pronto ad
accettare. No, si era impegnato nel Progetto per più di un motivo. In
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primo luogo era suo compito salvare il mondo, e in secondo luogo voleva
essere presente per godersi quello che aveva contribuito a salvare.
Non poteva quindi accettare nessun genere di rischi. Doveva trovare il
modo per eliminarli. La chiave per questo era il russo, Popov Si chiese
cosa quella spia avesse scoperto nel corso del suo viaggio in Inghilterra.
Con le giuste informazioni avrebbe potuto fare un piano per occuparsi
direttamente di quella banda Rainbow. Sarebbe stata una cosa interessante
Si accomodò nella sua poltrona e scelse un film che guardò con la coda
dell'occhio, troppo immerso nei suoi pensieri per seguirlo. Sì, decise dieci
minuti più tardi, con gli uomini e i mezzi giusti, avrebbe funzionato.
Popov stava cenando da solo in un ristorante dall'aria poco
raccomandabile alla periferia meridionale di Manhattan. Il cibo non era
male, ma la sala sembrava fosse stata pulita dai topi nottetempo. Tuttavia
qui la vodka era ottima, e di solito qualche bicchiere lo aiutava a pensare.
Cosa sapeva di John Brightling? L'uomo era un genio della scienza e
aveva anche ottime capacità imprenditoriali. Era stato sposato per diversi
anni con una donna molto intelligente, che ora era consulente scientifica
del presidente, ma il matrimonio era naufragato, e ora il suo datore di
lavoro passava da un letto all'altro, uno dei migliori partiti d'America,
vista la sua situazione finanziaria, con la sua foto sovente sulle pagine di
quotidiani e periodici, e questo poteva mettere in qualche modo a disagio
la sua ex moglie.
Aveva buoni contatti con il mondo elitario ammesso ai grandi segreti. Il
gruppo Rainbow era evidentemente segreto, ma ne aveva ottenuto il nome
e quello del comandante in un giorno. Un solo giorno, si disse Popov.
Questo era più che impressionante. Era sorprendente. Come aveva fatto?
Ed era coinvolto in un'operazione misteriosa e di enorme importanza. A
quel punto il suo pensiero si arrestò ancora una volta. Era come
camminare in una strada affollata e poi ritrovarsi di fronte a un muro.
Cosa poteva fare un uomo d'affari di più importante di quello? Più
importante del rischio di perdere la sua libertà, o addirittura di essere
condannato a morte? Se si trattava di qualcosa di più importante di un
omicidio di massa, allora il piano comprendeva uno sterminio su scala
ancora più vasta? Ma a che scopo? Forse per dare il via a una guerra, ma
non era un capo di stato, e quindi non poteva avviare un conflitto.
Brightling era forse una spia, che forniva informazioni classificate sulla
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sicurezza nazionale a un governo straniero, ma in cambio di cosa? Come
avrebbe potuto qualcuno, un governo o altri, corrompere un miliardario?
No, i soldi erano fuori questione. Cosa rimaneva?
C'erano quattro motivi per tradire la propria patria: soldi, ideologia,
coscienza ed ego. I soldi erano da scartare. Brightling ne aveva troppi.
L'ideologia era sempre la motivazione migliore per un traditore-spia, la
gente rischia la propria vita molto più prontamente per le sue convinzioni
che per il solo lucro, ma qual era l'ideologia di quell'uomo? Popov non lo
sapeva. Veniva poi la coscienza. Ma coscienza contro cosa? Cosa c'era di
sbagliato che potesse cercare di raddrizzare? Era difficile trovare un
motivo. Rimaneva l'ego. Brightling aveva un ego considerevole, ma l'ego
prevedeva un motivo d
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