LADOMENICA
DIREPUBBLICA
DOMENICA 7 APRILE 2013
NUMERO 422
CULT
Ci hanno abitato
trentuno papi,
quattro re
e undici presidenti
In attesa di sapere
chi sarà
il prossimo
inquilino
All’interno
La copertina
Dai romanzi
ai nuovi saggi
la storia riscritta
con i “se”
viaggio
tra i segreti
del Quirinale
UMBERTO GALIMBERTI
e SIEGMUND GINZBERG
Il libro
La fiaba neorealista
di Evelina
bambina tra fate
e partigiani
CASA
LA
ALESSANDRA ROTA
DEGLI
ITALIANI
Straparlando
Vittorio Sermonti
“Leggendo Dante
so che la morte
non esiste davvero”
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
FOTO © EMANUELA DE SANTIS / ANZENBERGER / CONTRASTO
ANTONIO GNOLI
Il reportage
FILIPPO CECCARELLI
Ho incontrato
una kamikaze
a Kabul
B
MONIKA BULAJ
La storia
Archeotennis
la grande scoperta
delle sei “balette”
GIANNI CLERICI
ROMA
ellissimo, grandissimo, costosissimo, ingombrante e
un po’ vuoto, il palazzo del Quirinale, detto anche di
Monte Cavallo per via delle statuone dei Dioscuri con
relativi destrieri che maestosamente lo fronteggiano,
è impiantato a 57 metri e 20 centimetri sul livello del mare e nonostante sia di poco più basso dell’Esquilino è da tutti considerato “il
colle più alto” — il che già dice abbastanza sui provvidi equivoci, ma
anche sulle nefande e indispensabili ambiguità del potere.
Sarebbe giusto che fosse per davvero la Casa degli italiani, come
la definiva Carlo Azeglio Ciampi. In realtà è molto di più, il Quirinale, e parecchio di meno, o di peggio, se si vuole: città proibita,
gabbia dorata, caserma di lusso, museo d’arte e di capricci, crocevia inesorabile di nevrosi, grand hotel a tempo. Vi hanno abitato
trentuno papi, quattro re sabaudi, undici presidenti della Repubblica. L’imperatore Napoleone, per il quale il palazzo venne ancora una volta riccamente decorato, non ha fatto in tempo a mettervi piede. In compenso dopo il sisma del Belice (1968) Saragat volle
ospitare sedici famiglie di terremotati. Una giovane coppia procreò e il presidente fece da padrino al piccolo, battezzato Giusep-
pe. Come succede, fu poi molto complicato per l’amministrazione riprendere possesso degli appartamenti.
Con ispida diffidenza piemontese Vittorio Emanuele III definiva
il Quirinale “Ca’ preive”, la casa dei preti. Dopo aver sfrattato il pontefice, temeva evidentemente la doppia maledizione di don Bosco
(«gran funerali a corte») e Pio IX (dopo la presa di Roma ci furono in
effetti alluvioni, epidemie e «flagelli — chiosò il pontefice — cui
sembra che Dio abbia dato libero corso»). Quando anche i re sabaudi furono cacciati, nel 1946, lasciarono un debito di 165mila lire «per fornitura distintivi nodo di Savoia e corona», che la neonata
Repubblica saldò con la vendita dei pinoli della tenuta di San Rossore. La nuova classe dirigente, in primis Andreotti, aggiornò il sortilegio, sia pure limitandolo ai presidenti Dc: oblìo per Gronchi, infarto per Segni, dimissioni per Leone, sofferenza per Cossiga; tutto
sommato Scalfaro se l’è cavata.
Ma in termini di potere l’incantesimo pare estendersi anche a chi
troppo agogna il Quirinale e quindi mai l’otterrà. Lungo l’elenco:
Sforza, Merzagora, Fanfani, Moro, Spadolini, lo stesso Andreotti e
anche Berlusconi che tre anni orsono, per l’ennesima volta chiamato a commentare l’ipotesi di una sua ascesa al Colle, si toccò scaramanticamente i testicoli, a riprova dell’energia magica e un po’
pazzoide che si tira appresso quel luogo, e non solo in Italia.
(segue nelle pagine successive)
Il teatro
L’Odissea
secondo Wilson
è una favola triste
fatta di luci
RODOLFO DI GIAMMARCO
L’arte
Il Museo
del mondo
Ecco l’Uomo
vitruviano
MELANIA MAZZUCCO
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 APRILE 2013
LA DOMENICA
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La copertina
4
La casa degli italiani
“Chi troppo lo agogna mai lo avrà”, dice una delle tante leggende
che lo circondano. Dalla maledizione di Pio IX
ai trenini di Gronchi, dal letto di De Gaulle
alle microspie di Segni, tour guidato
tra le sfarzose stanze di un Palazzo
sempre più al centro della scena
1
1. IL TORRINO
Fu Gregorio XIII, nel 1583, a chiedere
al Mascarino di progettare una torre sul punto
più alto del suo palazzo. Nel 1967, in occasione
della visita di De Gaulle, il presidente Saragat
vi inaugurò la spettacolare sala da pranzo
“Belvedere” ancora oggi utilizzata per colazioni
ristrette. Sul pennone, sopra le due campane
e l’orologio, sventola il tricolore. Accanto,
appena più in basso, lo stendardo
presidenziale e la bandiera dell’Europa
2
3
2. LO STUDIO
Nella sala d’angolo
all’estremità del palazzo,
il Presidente incontra i capi
di Stato e i segretari di partito
in occasione delle consultazioni
Gli appartamenti presidenziali
si trovano alle spalle dello studio,
verso i giardini: li hanno utilizzati
le famiglie Einaudi, Gronchi, Segni,
Saragat, Ciampi e Napolitano
(il cui appartamento privato
è poco lontano, in vicolo dei Serpenti)
11
3. LA VETRATA
Nella Loggia d’onore, nota come
“La Vetrata” per via dei cinque
finestroni affacciati sul Cortile,
i leader politici rilasciano le loro
dichiarazioni alla stampa dopo
l’incontro con il Presidente
È in quest’ala del palazzo
che si trova anche la famosa
scala elicoidale del Mascarino
FILIPPO CECCARELLI
(segue dalla copertina)
el periodo della follia
più acuta (1888-89)
Nietzsche scrisse del resto al suo amico Gast: «Il
mio indirizzo non lo so
più: poniamo che per il
momento possa essere il palazzo del
Quirinale». Di lì a poco, cantando canzoni napoletane, fu trasferito a Basilea,
ma il filosofo si era convinto di essere il
re d’Italia e giustamente non intendeva
rinunciare a quella reggia dove pure —
e ancora adesso, in omaggio allo specifico nazionale — la magnificenza finisce per convivere con un clima un po’
da operetta.
Fino a qualche anno fa la facciata dell’edificio era rossiccia, dal 2002 ha ripreso l’originale tinta bianco travertino
che polemicamente Sgarbi ha designato «color meringa», e che fa il suo effetto soprattutto nelle giornate in cui il cielo è molto blu. Sul pennone sventola
anche la bandiera della presidenza della Repubblica che Cossiga, appassionato vessillologo, ha ridisegnato di persona, pure imponendola alla magnifica
Flaminia decapottabile su cui il presidente appena eletto fa il suo primo giro
per Roma.
Nel 1920 il Quirinale fu sorvolato dall’aviatore dannunzian-futurista Guido
Keller che vi precipitò delle rose rosse
«per la regina e il popolo in segno d’Amore». Analogo omaggio floreale fu
gettato sul Vaticano, «per frate Francesco», mentre il palazzo di Montecitorio
N
11. LE QUATTRO SALE
Dalla Sala d’Ercole si passa a quella detta degli Ambasciatori
(usata per ricevere diplomatici e capi di Stato), quindi alla Sala
d’Augusto e infine alla sala Gialla. Due anni fa i lavori di restauro
hanno portato alla riapertura delle finestre prima tamponate
I SEGRETIDEL QUIRINALE
ebbe in dono un pitale ripieno di carote e rape.
Non molto tempo fa è stato proposto
di ribattezzare l’area antistante al Quirinale “Piazza degli italiani”. Proposito
fortunatamente scartato. Come spesso
capita nella Città Eterna, all’ombra dell’obelisco, di Castore e Polluce e dei loro
cavalli di marmo si contemplano ricordi
belli e brutti. Per rimanere al passato
prossimo, nel 1944 durante una dimostrazione un manifestante si fece scoppiare una bomba in faccia e il cadavere
del poveretto, issato su un camioncino,
prese a girare per Roma fino ad essere
depositato al Viminale.
Ma durante il settennato di Ciampi,
sempre in piazza, furono allestiti concerti e spettacoli all’aperto, anche la notte di Capodanno, condotti da Paola Sa-
luzzi. Negli ultimissimi tempi vale ricordare la folla che ancora in questo spazio
festeggiò la caduta di Berlusconi al suono dell’ Hallelujah di Handel, ma anche
con un rapido lancio di monetine e sembra pure di una scarpa sull’automobile
del Cavaliere. Ogni giorno si può assistere al cambio della guardia. Di tanto in
tanto viene qualcuno a protestare, anche disperatamente. Nell’ottobre scorso un autotrasportatore rumeno, disoccupato e con cinque figli, si è spogliato e
si è dato fuoco.
Il cortile d’onore è molto vasto. Là dove Grillo due settimane orsono si è fatto
la foto-ricordo con i capigruppo del
M5S, qualche secolo fa il primo maggio
si impiantava l’Albero della Cuccagna
ed erano allestite feste cui partecipavano anche trentamila persone. Pure i lus-
sureggianti giardini del Quirinale coprono un’area così vasta che in passato
alcuni funzionari si prendevano lo sfizio
di attraversarli a cavallo.
È qui che di norma si ambienta il ricevimento del 2 giugno. Saragat volle aprire la festa della Repubblica a migliaia e
migliaia di comuni cittadini, però in quel
caso sparivano troppi cucchiaini e una
volta, a party concluso, dentro una siepe
di mortella venne rinvenuta una signora ubriaca come una cocuzza, come si
dice. La descrizione di un ricevimento al
Quirinale, però svoltosi al chiuso, è presente nel romanzo postumo di Pier Paolo Pasolini, Petrolio: “In cerchi concentrici attorno al Capo dello Stato, il verminaio era tutto un agitarsi di capini ora pelati ora canuti, ora folti ora radi: ma tutti
assolutamente dignitosi”.
All’interno del palazzo, pure segnato
da un’indimenticabile scala elicoidale a
misura di cavallo, opera del Mascarino,
domina lo sfarzo e si accresce lo stupore,
quest’ultimo stimolato da impreviste
presenze e stranianti tipo mobili cinesi e
salottini giapponesi. I corridoi degli uffici sono talmente larghi lunghi e lucidi
che come in un film lo storico Segretario
Generale Gaetano Gifuni, soprannominato “Prudenziano”, li percorreva silenziosamente in monopattino.
Gli appartamenti presidenziali sono
stati utilizzati dalle famiglie Einaudi,
Gronchi, Segni, Saragat, Ciampi e Napolitano. In quelli degli ospiti, fra i tanti
hanno dormito Hitler, in compagnia di
un busto di Augusto acquistato per l’occasione; e poi de Gaulle, per il quale fu
costruito un enorme lettone, ma solo
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4. I GIARDINI
6. IL SALONE DELLE FESTE
Padiglioni, fontane, statue
impreziosiscono i lussureggianti
giardini del Quirinale
In fondo, di fronte
alla Fontana di Caserta,
l’elegante Coffee House
Gigantesco (il tappeto di 300 mq
che ne ricopre i pavimenti
è considerato il più grande d’Europa)
ospita le cerimonie che prevedono
un elevato numero di invitati
Qui si tiene anche il giuramento
del nuovo governo e si allestisce
la tavola per i pranzi di Stato
I PRESIDENTI
Enrico De Nicola
1946~1948
5. LA SALA DEGLI SPECCHI
Qui si svolgono alcune udienze
del capo dello Stato e il giuramento
dei giudici della Corte Costituzionale
Luigi Einaudi
1948~1955
Giovanni Gronchi
1955~1962
5
Antonio Segni
1962~1964
ILLUSTRAZIONE DI FRANCESCO CORNI
6
8
Giuseppe Saragat
1964~1971
Giovanni Leone
1971~1978
7
Sandro Pertini
1978~1985
7. LA MANICA LUNGA
ll primo tratto del lato sud
del Quirinale fu iniziato
da Sisto V per ospitare
le abitazioni della Guardia
Svizzera. Al piano nobile
gli Appartamenti Imperiali,
sedici stanze e quattro
foresterie, ancora oggi
destinati ad alloggiare
gli ospiti in occasione
di visite di Stato
9
Francesco Cossiga
1985~1992
Oscar Luigi Scalfaro
8. LA SALA
DEI CORAZZIERI
L’attuale denominazione
si deve alla rivista
del reparto dei Corazzieri
che qui si tiene in occasione
di alcune importanti
cerimonie. Date anche
le vaste dimensioni,
nel salone hanno luogo
molte delle attività
di alta rappresentanza
del Presidente
10
9. LA CAPPELLA PAOLINA
In occasione delle feste di Natale
e di Pasqua qui viene celebrata
la messa alla presenza del Presidente
A doppia altezza, ha le stesse
caratteristiche e proporzioni
della Cappella Sistina in Vaticano
È qui che si tengono ogni domenica
i “Concerti del Qurinale”
10. IL BALCONE
Si affaccia sopra il portone principale
sulla piazza del Quirinale
Qui sono esposti i tre stendardi:
della presidenza (che “segue”
ovunque il Presidente)
d’Italia e d’Europa
perché il leader francese era un gigante.
In occasione di quella visita (1967) Saragat inaugurò il Torrino, la torre dell’orologio rifatta con materiali originali tardo
cinquecenteschi, insediandovi la più alta e spettacolare sala da pranzo da cui si
domina l’Urbe a 360 gradi. Saragat ebbe
scontate critiche per gli acquisti massivi
di champagne Krug, peraltro non italiano. Così come anche più fastidiose ne
aveva dovute subire Einaudi per via del
vino che produceva in Piemonte e con
cui riforniva le cantine del Palazzo: in
una vignetta Guareschi, che proprio per
questa fu condannato alla galera, lo raffigurò mentre passava in rassegna delle
bottiglie come se fossero corazzieri. Uno
di questi ultimi, mezzo secolo dopo, si
infatuò di Mariana Scalfaro, fastidiosamente chiamandola di continuo con
uno dei primi telefonini, ma fu presto
messo al suo posto.
Fra i capricci di Gronchi si annovera
una sala interamente dedicata ai trenini
elettrici e l’allestimento di una fantomatica, chiacchieratissima porticina sul retro del palazzo, da cui la leggenda che
fosse riservata a giovani amiche per
bunga bunga ante litteram. Donna Ida
Einaudi si dedicò ai 200 preziosi orologi,
molti a pendola, favorendo una com-
plessa e quotidiana opera di sincronizzazione. A Cossiga si deve un centralino
a prova d’intercettazione, una “Sala Situazione” iper tecnologica e l’esposizione, previo recupero dalle cantine, del
trono dei Savoia, già appartenuto a Maria Luisa d’Austria. Per la verità il presidente picconatore spedì anche in Vaticano il Segretario Berlinguer per ottenere il trono papale, ma invano. Segni, su
cui ebbero una certa influenza consiglieri militari, poliziotti e generali dei carabinieri, aveva un po’ il vizio delle microspie. Nei suoi colloqui politici Scalfaro coltivava invece il vezzo di un registratore tenuto acceso in bella posa su
un tavolinetto.
Sul soggiorno dei Leone al Quirinale,
dalla Cederna a Mino Pecorelli, si è scritto molto, anzi troppo e almeno a dar ret-
ta ai processi pure ingiustamente. Pertini aprì le porte ai giovani, espose i Bronzi di Riace e invitò a pranzo quelli del settimanale satirico Il Male che con dissacrante ribalderia si presentarono avendo in tasca una canna già pronta, ma poi
non l’accesero perché a tavola il presidente se ne uscì: «Droga leggera o pesante, io darei a tutti la pena di morte».
Per il resto, che è ancora tantissimo, il
Palazzo offre inesauribili risorse narrative. Basti pensare ai tesori d’arte che esso
esibisce e al tempo stesso un po’ nasconde: 300 dipinti antichi, 2000 opere
dell’Ottocento e del Novecento, 261
arazzi, 38mila pezzi di porcellana, capolavori di ebanistica e menuisiers, più 90
carrozze, una splendida collezione di livree, e tappeti, argenti, maioliche, cristalli, bronzi, stampe, marmi classici.
1992~1999
Carlo Azeglio Ciampi
1999~2006
Giorgio Napolitano
2006~in carica
Xxx xx Yyyyyy
2013~2020
Neanche a farlo apposta, in questi
giorni è aperta una mostra sui “Capolavori ritrovati” del Quirinale. Anche il
sottosuolo offre infatti sorprese archeologiche che a loro volta aprono il
campo a indizi, coincidenze e cortocircuiti che ci si farebbe anche scrupolo a
sottolineare, ma tant’è. Per cui i dieci
Saggi o Facilitatoresnominati da Napolitano si riuniscono a Palazzo Sant’Andrea, e forse non tutti sanno che proprio lì sotto è resistita nei millenni l’ara
che delimitava le fiamme dell’incendio
appiccato da Nerone nel 64 dc, e su cui
fin dai tempi di Domiziano si facevano
sacrifici per scongiurare fuochi violenti e incontrollati come quelli che s’intravedono nell’infiammabile Italia della primavera 2013.
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LA DOMENICA
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Il reportage
Sotto il burqa
“È accaduto in un giorno di sole e di polvere a Kabul,
dentro un piccolo santuario in cui non si respirava...”
Lo straordinario racconto della fotografa
polacca che partita per l’Afghanistan
in cerca del sacro incrocia il volto più crudele della guerra
Ho incontrato la donna kamikaze
MONIKA BULAJ
H
KABUL
o incontrato la donna
kamikaze un giorno di
sole e di polvere, in un
piccolo santuario, oltre
una piccola porta di legno, in una strada che non saprei ritrovare nel labirinto della vecchia Kabul. Mi si è avvicinata tra una folla di donne, accanto al sarcofago di un santo, una tomba di marmo coperta di tessuti con scritture dorate. Da quel momento non ho avuto
pace, lei mi segue ancora nel pensiero.
Non so se sia viva o morta. Le sfuggo e
la cerco, mi spaventa e mi attrae. La ritrovo negli sguardi di tante donne in
Afghanistan. Immagino la sua ombra
magra, allucinata, sgomitare nelle
strade intasate, infilarsi tra i carretti e il
filo spinato, saltare sugli autobus in
partenza infilandosi tra le porte appena socchiuse.
È successo dopo mesi di viaggio dal
confine dell’Iran a quello cinese sulle
nevi del Pamir, un viaggio compiuto da
sola, affidandomi al buon senso della
gente del posto ed evitando con cura i
luoghi pattugliati dai militari. Cercavo
luoghi sacri, taumaturghi erranti, nomadi e storie di donne, e in quella porticina che dà sulla strada della vecchia
Kabul vedo entrare donne, fagotti plissettati che vanno sotto il nome di burqa. La soglia è piccola, devo chinarmi,
l’ambiente è soffocante ma si riempie di
altri corpi ancora. Dentro è penombra
ma fuori il sole è allo zenith, i muezzin
chiamano alla preghiera di mezzogiorno. L’ora in cui Kabul respira di sollievo.
L’incubo quotidiano è finito. Qui i kamikaze si fanno esplodere al mattino.
Lo fanno per arrivare in paradiso all’ora di pranzo, in tempo per banchettare
col Profeta.
Sono vestita all’afgana, ho una veste
lunga e nera, col velo che copre i capelli ma lascia libero l’ovale della faccia.
Sotto ho il mio taccuino e la mia Leica.
Non oso toccarli. Le donne mormorano preghiere, scoprono i volti bruciati
dal sole d’alta quota, si tolgono il burqa,
mostrano bellezza e sofferenza, si cercano, si toccano, liberano tra loro una
complicità sensuale. Poi, dopo qualche
minuto, una bambina col velo bianco,
la divisa della scuola, mi nota, tocca il
mio viso e si mette a piangere. «Perché
piangi?» le chiedo in lingua dari. «Perché sei straniera e porti il velo, come
noi». È allora che la diga si rompe, la voce corre, sono una cristiana che ama l’Islam, e tra le altre donne si innesca una
reazione a catena fuori misura. Il mio
corpo è già reliquia, vi strisciano contro,
lo baciano, vi depongono caramelle e
banconote per santificare qualcosa di
loro e poi infilarsela nelle tasche o nei
IL CORRIDOIO. Una donna esce da un santuario a Kabul
reggiseni. Cercano barakà, la benedizione, perché sono un’ospite e mi sono
fidata. Piangono, asciugano le lacrime,
si soffiano il naso nei burqa, mi infilano
le dita inanellate nei capelli, mi sfiorano
la guancia col dorso delle mani. Una di
loro esige da me la grazia speciale di
avere figli. Come in un sogno. Sono in
ostaggio, ma non mi oppongo, mi affido. Sono in imbarazzo, ma sorrido. Tutto quello che ho cercato in mesi di lavoro mi piomba addosso all’improvviso.
Dal ruolo di testimone invisibile a quello, non voluto, di protagonista al centro
di un culto. “Volevi gli uomini di Dio?
Guaritori erranti? Donne in estasi?”
chiedo a me stessa quasi ad alta voce.
“Eccoti accontentata...”. Credendo che
io stia pregando le donne alzano le mani al cielo.
Tra le tante che mi stanno addosso ce
n’è una che non sorride né piange. Il suo
velo è buttato senza cura sopra i capelli
maltinti di hennè. Un corpo magro, le
sopracciglia accentuate da un segno
maldestro di kajal. Cerco di sottrarmi al
suo contatto fisico. Ma lei mi stringe
verso il muro, come per isolarmi dalle
altre e si sbottona il vestito per mostrarmi qualcosa. Mi aspetto una ferita, e invece vedo il suo corpo magro impacchettato in una maglia di cilindri verticali legati da fili elettrici.
Non capisco, forse non voglio capire.
Penso alle armi di un agente segreto, all’autodifesa di una donna più emancipata. Ma le cose che ha intorno alla pancia non sono pistole, è dinamite. Sembra un’insegnante delle elementari in-
IL LIBRO
Di Monika Bulaj,
autrice del testo e delle foto
pubblicati in queste pagine,
il prossimo autunno
uscirà per Electa
Nur. Appunti afgani
(32 euro, 277 pagine)
vecchiata troppo presto. Quanti anni
avrà: trenta? Cinquanta? Da dove viene? Dove sta andando? Perché mostra
proprio a me la sua macchina di morte?
Fingo di non aver capito. Le chiedo:
«Dove sono i tuoi figli?». Il modo con cui
volta la testa mi gela. Vuol dire che non
ne ha più. Forse sono morti. Smetto di
chiedere. Le domande si fermano sulle
labbra. Ho paura, guardo altrove. Dico
a mia volta: «Man se farzand daram», ho
tre figli maschi. È la frase che meglio mi
protegge in questo Paese. Il mio mantra, il mio lasciapassare, il mio elmetto
in kevlar, la mia personale guardia del
corpo. La donna che fa figli maschi qui
è una donna vera, rispettata. Nella valle
di Khost, durante un matrimonio, mi
hanno quasi festeggiata per questo. Ora
la pelle della donna è sudata, pallida, gli
occhi sono folli, stanchi, freddi, asciutti. Sento il suo gomito ossuto, i muscoli
duri delle cosce.
La guerra ha portato a questo. La
morte è un affare fiorente in Afghanistan. La carne umana è in vendita, diventa arma che si fa esplodere. Stragi a
opera di kamikaze. Rapimenti di bambini e di adulti sospettati di avere risparmi. Omicidi su richiesta. «Duemila
dollari — mi hanno detto amici afgani
— sono la tariffa per uccidere qualcuno,
e tutti sanno come trovare un sicario».
Anche i kamikaze fanno lo stesso, per
comprare la casa alla famiglia o saldare
un debito. Economia di guerra, non
martirio.
Sento ogni fibra del mio corpo e ho la
certezza incosciente che non accadrà
nulla. Eppure temo che le parole possano svegliare qualcosa, far tremare la
corda di un nervo, spezzare il filo della
sua follia. Così cerco di esprimere uno
sguardo indifferente per sorvolare la
sua faccia piatta piena di rughe, le mezzelune nere delle unghie, la cintura sfatta della borsetta, l’odore del sapone e
l’acido del suo respiro. Intorno le altre
donne non si sono accorte di nulla.
Continuano a ignorare il santo per
guardare me, affascinate, piangendo.
Esco a fatica. Lei mi segue, mi aderisce come un’ombra. Fuori, una barriera di burqa in nylon con macchie di respiro all’altezza delle labbra. Anche
queste mi stringono. «Guardatela — dice una di loro — una issawì che ama l’Islam! Una haredzì che ama l’Afghanistan!». Issawi vuol dire “seguace di Issa”, il Cristo. Haredzi significa straniero. Ecco, io sono questo per loro. Infedele e straniera, eppure ho una faccia,
odore, occhi, voce. Sono occidentale,
eppure non sono chiusa in un blindato,
non sto dietro il mirino di un mitra.
Mi allontano senza salutare, come
per dire “non c’entro”, “non c’ero”.
Non dico nemmeno “Khoda Hafez”,
che Dio si ricordi di te, l’arrivederci degli afgani. Ma lei mi segue. Cammino
lentamente per comunicare una tranquillità che non ho, lo faccio con passi
lunghi, per seminarla. Ne esce una
camminata abnorme. Scherzo con
venditori ambulanti, mi infilo nella folla senza voltarmi e senza fretta apparente, per non far vedere che la mia è
una fuga. Passo davanti agli ultimi Sikh
della città che, con dadi e conchiglie,
predicono il futuro alle musulmane al
riparo di grandi ombrelli. Stavolta mi
giro, lei non c’è. E Kabul ridiventa reale,
con la sua puzza di fogna, le grida dei
bambini di strada che danno manate
sui blindati che passano come sul culo
degli asini, il ronzio degli elicotteri d’assalto che volano così bassi che il soffio
delle loro eliche spaventa i pappagalli
verdi sugli eucalipti. Kabul, con i carillon dei gelatai ambulanti che strillano
Per Elisa e Jingle Bells, vittoria sui divieti talebani contro la musica.
Cerco di mimetizzarmi nel passo disinvolto delle donne afgane, un linguaggio mimetico del corpo che ho imparato ad assumere in fretta, anche per
la mia incolumità. Ma stavolta la paura
si è insinuata in me senza che me ne
rendessi conto, è già diventata riflesso
fisiologico. Bagnerò il mio letto quella
notte, e da allora non riuscirò a dormire che a brevi intervalli.
Ora riconosco i luoghi. Torno d’istinto nel quartiere dei musicisti, dove ho il
mio dentista privato. Un santuario con
chiodi magici piantati sullo stipite della
porta, ogni chiodo guarisce un dente.
Poi trovo un barbiere con una foresta di
capelli abramitica che mi invita a bere
un tè e mi svela allegramente di avere
interpretato Osama Bin Laden in un
film. L’Afghanistan è così, dalla tragedia
alla farsa nel giro di un’ora.
Non so più dove ho fatto quel terribile incontro. Il mio sentimento per quella donna è un grumo fatto di pietà, condanna e paura. So che se la denunciassi
non mi crederebbero, oppure partirebbe una rappresaglia di sangue. Sparisce
l’ultimo raggio porpora sulle cime immacolate dell’Hindukush. Le luci tenui
nelle case d’argilla si accendono sui colli che ora paiono il presepe di Betlemme. Un asino porta in salita una donna
incinta con un’ombra accanto. Pare
quella di Giuseppe, il falegname. E intanto la donna imbottita d’esplosivo,
da qualche parte, si toglie la “cintura del
martirio”, come la chiamano gli estremisti dell’Islam, e srotola per terra la
trapunta colorata nella sua casa senza
figli. Ma non dorme.
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LA MOSCHEA. Il cortile interno di Abu Fazl a Kabul, dove durante una festa dell’Ashura nel 2011 morirono in un attentato decine di fedeli
L’ALTALENA. Una ragazzina afgana si diverte durante un pic-nic nelle valli intorno a Herat
LA SCUOLA. A Herat si trova la più grande scuola femminile del paese, dove studiano tredicimila bambine e ragazze
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DOMENICA 7 APRILE 2013
LA DOMENICA
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La storia
© SANTA BARBARA
Bel colpo
Delle antenate delle palline da tennis
esistevano solo raffigurazioni:
un bassorilievo del 1300, qualche
dipinto settecentesco. Ora però
alcuni esemplari sono stati
trovati per davvero. A Mantova
© PALAZZO TE
Come ci racconta, foto alla mano,
un grande cultore della materia
GIANNI CLERICI
anno finalmente trovato le palline.
Di quello che ora chiamiamo Tennis, ma che nel 1500 chiamavano
Giuoco di Rachetta. Pallina che allora chiamavano balla, o baletta.
Nei miei lunghi studi, nelle mie ricerche negli anni Settanta, già ne avevo rinvenuta
un’immagine contrassegnata “di Palazzo Labia”, e
subito pubblicata nel mio librone 500 anni di tennis. Ma avrei saputo in seguito dal collega Massimo
De Luca che della pallina esisteva, in un quadro di
Palazzo Labia, solo l’immagine dipinta, così come,
sempre a Venezia, nel Museo Querini Stampalia,
c’è uno dei più importanti quadri che raffigura un
doppio del 1750 di Gabriel Bella, e quindi ben più
tardo.
Un giorno mi ritrovo a Mantova, all’uscita da una
chiacchiera del Festival di Letteratura, e un bel signore mi si avvicina, si presenta, Professor Ugo
Bazzotti, e sorridendo apre una busta, e ne trae tre
foto. Recano, le foto, l’immagine di tre palline, diverse una dall’altra, ma tutte con un diametro tra i
quaranta e i cinquanta millimetri, tra i trenta e i
quaranta grammi — mi dice — a soppesarle.
Non diversamente dev’essere accaduto a un
cercatore d’oro nell’inciampare in una pepita, per
caso, occupato com’era a tutt’altro.
H
La struttura delle palline me le fa subito apparire come le bisnonne di quelle tuttora in
uso nel gioco definito Real Tennis nei paesi di
lingua inglese, e Jeux de Paume in quelli francesi. Gioco ancora praticato, nel mondo, secondo il grande esperto parigino Gil Kressmann, in
tre club francesi, nove americani, ventitré inglesi e
tre australiani, su uno dei quali, nelle mie gite a Melbourne, ho tirato qualche racchettata, insieme ad
un amico, Michael Wooldridge, che ha svolto
un’attività che più lontana dal Rinascimento è difficile immaginare, quella di ministro degli aborigeni. Il Jeux de Paume è ormai purtroppo semisconosciuto in Italia, il paese che nel Quattro-Cinquecento rivaleggiava con Francia e Spagna nel primato di quello che ancora non si chiamava sport,
ma faceva parte dei divertimenti di corti e monasteri. Ora simile tennis vivissimo durante il Rinascimento è da noi quasi dimenticato nonostante il
tentativo della mia amica e storica Alessandra Castellani di ridar vita al campo rinvenuto nel Castello di Venaria, la residenza dei Savoia.
In effetti, il tennis di quei tempi, lo si voglia chiamare Giuoco di Rachetta, Giuoco di Balla o Baletta,
oppure in spagnolo Pelota, o Trinquete, o ancora in
francese Jeux de Paume (“palmo”, come quello
della mano, precedente l’invenzione della racchetta, strumento che esiste in cento documenti
ma non è mai stato ritrovato, a differenza delle pal-
Sorprendente
match ball
a Palazzo Te
line mantovane) questo gioco, insomma, è il padre del Lawn Tennis, adattato,
ma non certo inventato dagli inglesi. Infatti, con molta probabilità, confermata
addirittura dai miei studi, questo passatempo chiamato tra l’altro Tenez (“prendete”, sottinteso la palla, lanciata dal battitore
con l’aiuto, “servizio”, di un collaboratore), emigrò di Francia in Gran Bretagna, insieme ai cavalieri che accompagnarono Marie de Couci, andata
sposa ad Alessandro terzo Re di Scozia. E, insieme
all’ambasceria, emigrarono anche i termini della
paume che permangono nel gergo tennistico contemporaneo. Oltre al citato Tenez che forse si tramutò in Tennis, il Loveche significa zero discese da
l’Oeuf, “l’uovo”, rotondo come uno zero, e Volley,
“volata”, fu neologismo da Volée, Quel che scrivo è
largamente illustrato da molti documenti, tra i
quali alcune righe di Shakespeare che nomina una
“tennis ball” nell’Enrico V, dramma che si svolge all’inizio del 1400.
Accadde che, in seguito all’importazione ottocentesca e all’utilizzazione della gomma, i britanni avessero l’idea di trasportare l’antico gioco,
dai selciati in pietra indoor, sui prati (Lawn) dei
giardini, dove precedentemente non era possibile il rimbalzo delle palline similmantovane, costruite come ancora accade con quelle del Real
Tennis. Costruite, cioè, in pelle, con una schele-
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DOMENICA 7 APRILE 2013
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Santa Barbara
FIORI
Qui sopra le tre palline ritrovate
durante i restauri della Basilica
Palatina di Santa Barbara,
a Mantova. La prima da destra
ha dei fiori dipinti sul cuoio,
la prima da sinistra è la meglio
conservata. Tutte e tre erano
state murate in uno spioncino
“IL GIOCO DELLA RACCHETTA”
È il titolo del dipinto (risalente al 1779-1792) di Gabriele Bella
conservato alla pinacoteca veneziana Querini Stampalia: per la prima
volta le linee di caccia sono segnate verticalmente, e non sul terreno
Le altre immagini storiche che illustrano queste pagine sono tratte
dal volume di Gianni Clerici 500 anni di tennis (Mondadori)
Palazzo Te
TOPI
A lato le tre “balette” ritrovate
nel Palazzo Te di Mantova
Hanno un diametro di 40-50
millimetri e pesano circa
30-40 grammi. Ricoperte
di pelle e riempite di pelo
(di donna o animale) sono
state rosicchiate dai topi
tro di filo rigido e, all’interno, un denso pelo
espanso, spesso di capigliature femminili, oppure di qualche animale, come ad esempio il gatto
— ormai roso dai topi — delle balette mantovane. Ma ritorniamo all’inizio.
Ricordo che in quel giorno dedicato ai libri del
Festival, come fui ritornato alla mia biblioteca con
le tre incredibili foto aprii subito uno dei miei testi
più cari, Il Trattato del Giuoco della Palla del mio
antenato adottivo Antonio Scaino da Salò, il maggior esperto di “Balla e Rachetta” del Cinquecento,
un genio col quale mi accade di colloquiare durante le sedute spiritiche. Il suo trattato esiste ormai
soltanto in una quindicina di copie nel mondo, e io
stesso sono riuscito a ottenerne una, devolvendo,
nella combattutissima asta dell’hotel Druot di Parigi, lo stipendio di un’intera annata di collaborazioni al giornale. Nei disegni contenuti nel Protolibro la baletta non era dissimile a quelle mostratemi a Palazzo Te, ma le loro struttura giungeva a ricordare anche quelle raffigurate nella Grande
Encyclopedie di Diderot e d’Alambert (1751), che
alla Paume e al suo sviluppo dedica addirittura otto pagine. Nel 1610 l’arte di produrre palle e racchette aveva condotto in Francia all’istituzione di
una Comunità di Maestri — Rachettieri, Produttori di Palle — i soli abilitati a tali attività artigianali.
Ma, ritornando a Mantova per ammirare dal vero le balette, sarei venuto a conoscenza di una mol-
to più antica presenza a Corte di “Mastri Balonari”.
Varcata la soglia del Palazzo, sarei trasecolato
prendendo addirittura nel palmo (paume) della
mano doverosamente guantata, le palline che
Chiara Pisani, conservatrice del Museo Civico, mi
andava offrendo, con cautela eguale allo charme.
Terminata l’osservazione delle palline, sarei
stato condotto a visitare le fondamenta che restano del campo, dopo l’abbattimento del 17001800, “il quale era benissimo ad ordine, né cosa alcuna vi mancava di balle piccole”. Campo in cui,
durante una visita nell’aprile 1530, l’Imperatore
Carlo V si impegnò nel “giocare a detta palla, lui e
Monsignor di Balasone da una banda, e dall’altra
il principe di Besignano e Monsignor de la Cleva,
spagnolo. Giocarono a palla forsi quattr’ore, dove
sua Maestà si esercitava molto bene et assai ne sa di
tal gioco, e giocavano di vinti scudi d’oro la partita, dove alla fine sua Maestà perse sexanta scudi ”.
Simili partite delle quali rimangono cronache che
potrei definire storico-sportive, sono citate in più
di un documento. Nel benedetto libro sovramenzionato, la causa della pubblicazione — e insieme
della dedica ad Alfonso II° d’Este — viene infatti
attribuita a un “puntiglio avvenuto, giocando, a
vostra Eccellenza” e cioè a un’interpretazione del
punteggio sul quale il Duca e il giovane filosofo si
erano trovati in dissenso. Si trattava di una partita tra due dei maggiori professionisti dei tempi,
giocatori che offrivano i loro servizi alla nobiltà. Si
trattava in questo caso di tale Gian Antonio Napoletano e Gian Fernando Spagnuolo, probabilmente impegnati in quella che chiameremmo
esibizione.
Il punteggio di allora prevedeva, come oggi,
una successione di tre punti, denominati quindici, trenta e quarantacinque (ora divenuto quaranta), complicati dalla necessità di superare le
“cacce”, e cioè i luoghi nei quali l’avversario aveva segnato il punto nel game precedente. Ma c’era, in più, un dettaglio importante. Il giocatore che
si fosse trovato avanti per tre punti a zero, e avesse perduto i successivi cinque, doveva concedere
all’avversario quel che veniva definita “vittoria
rabbiosa”, e cioè un punteggio di maggior valore
di una vittoria semplice, quel che oggi denominiamo, in inglese, un game. Proprio da un dissenso sul tipo di vittoria relativo ai cinque punti successivi nasceva “quistione, se questo tal giuoco
vinto dal Napolitano sia semplice, o rabbioso, che
di ciò qui non accade dubitare”.
Dalla lettura di simile libretto, che non a torto reca il titolo di Trattato, sarebbe sorta la mia curiosità
per una ricerca, i cui risultati avrebbero condotto
alla sorpresa, all’incredulità e, a volte, addirittura a
ribellione sciovinista i presunti inventori del gioco
tardottocentesco.
Ma, dopo essermi un tantino allontanato dal te-
ma del mio compitino, mi sembra il caso di ritornare a Mantova, dove le sorprese di quella per me
incredibile giornata non erano finite. Non lontano
da Palazzo Te sorge infatti la Basilica Palatina di
Santa Barbara, innalzata per volontà del Duca Guglielmo Gonzaga nel cuore del Palazzo Ducale a
partire dal 1561 “con poca spesa …nel gioco della
balla”. Monsignor Giancarlo Manzoli spiega che,
nel corso dei lavori di restauro condotti dall’architetto Mori, son state rinvenute altre tre palline, una
delle quali addirittura dipinta a fiori, che erano murate in uno spioncino. Mi verrebbe da pensare che
i ritrovamenti di tre più tre palline siano simbolicamente proporzionali al punteggio del gioco che,
come ho detto, già da allora si svolgeva con definizione simile a quella odierna.
Ma occuparci ancora delle modalità dell’antico
divertimento porterebbe a uno studio superspecialistico, all’esegesi che del Trattato fece nel 2000
il Professor Giorgio Nonni dell’Università di Urbino, altro centro del giuoco rinascimentale. Limitiamoci alla sorprendente duplice scoperta, e auguriamoci che, tra un secolo, un presunto perditempo non abbia a darne incredula notizia, delle
palline, nuovamente dimenticate in qualche ripostiglio. Siamo i soli a possederle, nel mondo, ma siamo anche tristemente famosi per l’incuria del nostro patrimonio artistico.
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DOMENICA 7 APRILE 2013
LA DOMENICA
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Spettacoli
Overlook
Dal mito dell’allunaggio al mito del minotauro
Stanley Kubrick avrebbe nascosto
vari messaggi subliminali
nel suo film cult. Ora un documentario
li ha finalmente scovati. O almeno crede
NON APRITE
QUELLA PORTA
Il numero 237 è quello
della stanza degli omicidi
nell’Overlook Hotel
Su quella porta il piccolo Danny
con il rossetto scrive “Redrum”
ovvero “Murder” (omicidio)
se letto allo specchio
MASSIMO VINCENZI
NEW YORK
P
ensate che Shining sia uno dei migliori horror di
sempre, uno dei capolavori di Stanley Kubrick, o
anche solo il film che ha fissato nella storia del cinema il ghigno di Jack Nicholson con le sopracciglia alzate? Allora credete anche che Jim Morrison
sia morto davvero e non stia invece ballando con
Elvis e Marilyn, ascoltando al contrario i dischi satanici dei Beatles. Se invece amate i complotti, le
teorie della cospirazione o comunque vi piace il
lato oscuro dell’arte, Room 237 è il vostro documentario. Presentato prima al Sundance poi a
Cannes, arriva ora nei cinema di New York, dove
per assonanza ha riportato in sala pure l’originale, ottenendo un ottimo successo. Diretto da Rodney Ascher è un flusso indistinto di parole, interviste a persone di cui non si vedono mai i volti, che
scorre sopra frammenti di Shining, immagini di
repertorio e continui rimandi cinematografici e
storici: come in quelle fotografie ipnotiche dove
c’è un uomo che guarda una foto dove c’è un uomo che guarda una foto dove... Una tecnica visio-
Siete proprio sicuri
di averlo visto Shining?
Le allusioni al genocidio
dei nativi americani
sarebbero nella marca
del cibo nella dispensa
(Calumet) e nei disegni
tribali degli arazzi nel salone
L’Overlook Hotel, inoltre,
è costruito su un cimitero
pellerossa: dettaglio
inserito da Kubrick nel film
ma assente nel libro di King
naria: giornalisti, professori universitari, autori di
teatro e studiosi autodidatti, aprono la porta sulla loro privata ossessione per le leggende che accompagnano il film di Kubrick e sui messaggi subliminali che lo inzuppano rendendolo ancora
più misterioso.
La più affascinante delle teorie è un classico dei
complotti. Il film serve a Kubrick per scusarsi della sua partecipazione diretta nel grande imbroglio dell’Apollo. Sarebbe stato lui infatti, nonostante anni di smentite, a girare per conto del governo Usa la finta scena del primo passo dell’uomo sulla Luna (mai avvenuto). Da qui la stanza
237, che nel romanzo di Stephen King da cui è tratto il film è la 217 ma che il regista cambia: non per
una richiesta dei proprietari del vero Overlook
Hotel come “sostiene la versione ufficiale”, ma
perché 237mila sono le miglia che separano la
Terra dal suo satellite. Altro indizio: il piccolo
Danny indossa un maglione proprio con la famosa navicella spaziale. E il litigio tra Jack e Wendy
quando lei scopre che lui non sta scrivendo il romanzo ma riempie i fogli con la stessa frase (“Solo lavoro e niente divertimento rendono Jack un
ragazzo noioso”, nella versione originale)? Simboleggia la discussione avvenuta tra il regista e la
sua compagna tenuta all’oscuro del ruolo da lui
assunto nella balla spaziale.
È poi anche un film sulla Shoah. Perché la macchina da scrivere su cui Nicholson sfoga la sua frustrazione è di marca tedesca, una Adler, “aquila”,
dunque “la follia della feroce burocrazia tedesca”
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La teoria più ardita dà anche il titolo
al documentario: 237, il numero della stanza
(che nel libro è la 217), alluderebbe
alla distanza tra la Terra e la Luna e sarebbe
anche il numero della sala degli studios
dove Kubrick (secondo gli amanti
del complotto) avrebbe girato il falso
allunaggio di Armstrong per conto
della Nasa; i disegni sulla moquette
sono la pianta della base da cui partì
la missione; Danny indossa una maglia
dell’Apollo 11; e in dispensa ci sono
le scatolette di Tang, cibo creato
negli anni ’60 per gli astronauti
Sarebbero molteplici i riferimenti
alla Shoah. La macchina da scrivere
usata da Jack Torrance (Nicholson)
è tedesca, una Adler, “aquila”
in tedesco, simbolo delle SS
(del resto l’aquila è presente in molte
altre scene del film). Il numero 42,
essendo il 1942 l’anno della Soluzione
finale: Danny, il bambino, ha un 42
disegnato sulla maglietta; Wendy,
la mamma, oltre a guardare in tv il film
L’estate del ’42, fa oscillare 42 volte
la mazza da baseball prima di colpire
Jack sulle scale; infine: 2 x 3 x 7
(il numero della stanza) = 42
Un numero
ci seppellirà
ENNIO PERES
numeri (soprattutto quelli interi) si prestano a speculazioni esoteriche, molto più delle parole. Infatti, qualsiasi insieme di cifre genera un numero,
mentre non sempre un aggregato di lettere corrisponde a una parola di senso compiuto.
In linea di massima, tanto è più alto il valore di un numero, tanto minori sono gli spunti che se ne possono
trarre. In particolare, il numero 237, che dà il titolo al
documentario di Rodney Ascher, non presenta proprietà molto interessanti, a parte il fatto che può essere ottenuto, in due modi diversi, come differenza di
due quadrati: 237 = 41²-38² = 119²-118².
Se, però, si considera la trama del film Shining (oggetto del documentario in questione), non si può fare
a meno di notare che, in base a una classificazione di
John Conway, il 237 è un numero malvagio (per la particolare configurazione che assume, nella codifica binaria).
L’unico numero di valore relativamente alto che ha
fortemente colpito (e continua a colpire...), l’immaginario collettivo, è il famigerato 666, citato nell’Apocalisse di Giovanni, con le seguenti parole: «Una mostruosa bestia infetterà la Chiesa: questa bestia sarà un
uomo, il cui nome conterrà il numero seicentosessantasei».
Nel corso dei secoli, ricorrendo a vari cervellotici sistemi per legare i numeri alle parole, questo numero è
stato attribuito praticamente a tutti i personaggi di una
certa notorietà: da Maometto a Lutero, da Napoleone
a Stalin, dall’Anticristo al Papa, da Piergiorgio Odifreddi a Silvio Berlusconi. Simili applicazioni, però, a seconda dello spirito con cui vengono effettuate, oscillano tra la sacralità e la beffa...
Per esempio, se si attribuisce a ogni lettera dell’alfabeto il valore del proprio numero d’ordine (A=1, B=2,
C=3, ... Y=25, Z=26), dalla parola Bestia si ricava:
2+5+19+20+9+1 = 56. Sommando le due cifre di questo
numero, si ha: 5+6 = 11. Ebbene, esaminando le prime
11 parole del versetto dell’Apocalisse, prima citato, si
ottiene il seguente dissacrante risultato.
UNA: 21+14+1 = 36
MOSTRUOSA: 13+15+19+20+18+21+15+19+1 = 141
BESTIA: 2+5+19+20+9+1 = 56
INFETTERÀ: 9+14+6+5+20+20+5+18+1 = 98
LA: 12 +1 = 13
CHIESA: 3+8+9+5+19+1 = 45
QUESTA: 17+21+5+19+20+1 = 83
BESTIA: 2+5+19+20+9+1 = 56
SARÀ: 19+1+18+1 = 39
UN: 21+14 = 35
UOMO: 21+15+13+15 = 64
TOTALE = 666
I
Il mito ellenico del Minotauro sarebbe
citato nel labirinto del giardino
(riferimento al labirinto di Cnosso dove
Minosse fece rinchiudere la mostruosa
figura); la struttura dell’hotel sarebbe
labirintica tanto da costringere Danny
a circoli viziosi sul triciclo; inoltre
il poster dietro le gemelline raffigura
uno sciatore-Minotauro, e nella stanza
del direttore dell’hotel la finestra
è - cartina alla mano - impossibile
— mentre di aquile, simbolo delle SS, è cosparso
tutto l’albergo. E perché c’è il numero 42, che
compare sulla maglia del piccolo Danny e su quella di un cliente. Inoltre Wendy fa oscillare 42 volte
la mazza da baseball prima di colpire il marito sulle scale. E quanto fa 2 per 3 per 7? Fa ancora 42. E il
1942 è l’anno in cui ha inizio la Soluzione finale.
È poi anche un film sui nativi d’America trucidati dall’uomo bianco. Dove sono gli indiani? Intanto l’hotel (cosa che non viene specificata nel
romanzo) sorge sopra un antico cimitero di pellerossa, poi ci sono simboli sulle pareti. E per chi
avesse ancora qualche dubbio: di che marca sono
i barattoli nella dispensa? Calumet, la pipa della
pace che testimonia i tradimenti dei cowboy e la
rottura all’interno della famiglia Torrance.
È poi anche un film sul mito del Minotauro: lo
provano il labirinto di siepi, il poster dello sciatore che sarebbe in realtà il mostro metà uomo e
metà toro, la finestra impossibile dell’ufficio (studiando la mappa dell’hotel quell’affaccio non è
possibile) e i circoli infiniti che il piccolo compie
col suo triciclo.
È poi anche un film palindromo, che può essere visto in entrambe le direzioni (altro grande
classico complottardo). Per questo il bambino
cammina all’indietro nella neve, Wendy mentre
si difende da Jack risale di spalle le scale. E le scene, in un gioco di immagini, si sovrappongono
perfettamente.
È poi anche un film con qualche errore. Ma conoscendo la maniacale precisione di Kubrick
non sono sviste bensì messaggi cifrati: sedie che
ci sono in un’inquadratura e non nella successi-
IL DOC
Room 237 di Rodney Ascher
è stato presentato
al Festival di Cannes
e al Sundance Film Festival
Ora è uscito negli Usa
mentre in Italia
è in programmazione
televisiva su Sky Arte
va, Pisolo che appare e scompare sulla porta del
bagno...
È poi anche un film sulla Cia: impossibile non
notare la somiglianza del padrone dell’hotel che
offre il lavoro a Jack con John F. Kennedy — e qui
il cortocircuito è perfetto.
È infine anche un film sulle ossessioni sessuali
di Kubrick (che poi si dispiegheranno nel suo Eyes
Wide Shut), la ragazza della stanza 237 ne è la lampante prova, oltre al cassetto che si trasforma in
erezione e alla rivista Playgirl letta da Jack nella
hall dell’hotel. E un film sulla psicanalisi e sulla
passione che il regista ha sempre avuto per Freud.
Ma qui si esce dal lato oscuro per entrare nel rassicurante terreno della critica cinematografica.
Room 237 è un gioco con cui divertirsi senza farsi troppe domande, ammirando la passione che
sconfina nell’adulazione, che a sua volta cammina fianco a fianco con la follia: «Sono come chiacchiere in un dormitorio notturno. Ok: saranno
pure sciocchezze poi tutti le ascoltano e nessun va
a letto», dice all’Huffington Post il regista del documentario. Dunque inutile leggere sul New York
Times uno dei più stretti collaboratori di Kubrick,
Leon Vitali, che si affanna a spiegare: «Quando ho
visto il documentario mi sono fatto due risate. Sul
set noi facevamo scelte dettate dal senso pratico.
Il maglione del piccolo Danny l’ha fatto a mano
un’amica della costumista sul modello di mille altri. La macchina da scrivere? Stava bene sul tavolo di quercia, era grande. Insomma, stupidaggini». Sì, certo, e gli Ufo non sono mai atterrati nel
deserto del Nevada.
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DOMENICA 7 APRILE 2013
LA DOMENICA
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Dica 33
ELABORAZIONE
DATI
IL BRACCIALE
Il progetto più innovativo è quello
messo a punto da una startup
italiana (Empatica). Si tratta
di un bracciale simile a quelli
che misurano le calorie perdute
durante uno sforzo. Questo misura
il grado di stress. E lo fa attraverso
la interpolazione di diversi dati:
battito cardiaco, variazione,
conduttività della pelle
e temperatura corporea
RACCOLTA DATI
Così mi misuro
le emozioni
RICCARDO LUNA
ul telefonino si è appena aperta una finestrella con
un messaggio. “Ehi! È ora di ricontrollare il tuo livello di stress”. L’ultimo check non era andato benissimo. Poggiando l’indice sulla fotocamera dello smartphone per un minuto, era emerso che in effetti “you may be experiencing some stress”. Sì, un
po’ stressato lo sono. E così mi era stato subito consigliata la
visione di una clip di “scene verdi della natura”. Seguiranno
“l’onnipotenza dell’acqua” e “la foresta prende vita”. Una sorta di terapia yoga fatta attraverso lo schermo dell’iPhone. L’obiettivo è arrivare rapidamente allo stadio “you are feeling balanced” e poi al nirvana dei nostri giorni: “You are in sync”. Che
vuol dire “sei in sintonia con mondo”, ma suona come se avessi appena sincronizzato te stesso come si fa appunto con un
telefonino.
Questa cosa che può apparire stravagante assai è l’ultima
frontiera per combattere lo stress: si chiama Gps for the Soul,
ovvero “bussola per l’anima”, uno strumento per tenere sotto
controllo le emozioni negative. È la app lanciata qualche settimana fa dalla giornalista-imprenditrice Arianna Huffington, direttore dell’Huffington Post Media Group: sviluppata in
collaborazione con i ricercatori di Hearthmath, misura il battito cardiaco e le sue variazioni, ricavandone, con un algoritmo, il nostro indice di auspicato benessere.
La app della Huffington non è affatto isolata. Anzi, per la verità utilizzare il telefonino o un sito web come terapia antistress
sembra la moda del momento. Il fenomeno si inserisce in quel-
S
IL PROBLEMA
Ansia, stress,
depressione: ne soffrono,
in modo più o meno grave,
milioni di persone
Monitorare questi
disturbi, anche quando
il “paziente”
non è fisicamente
dal medico, è il problema
che si sono posti
diversi ricercatori
Tra le “soluzioni”
un bracciale e una app
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 APRILE 2013
INFOGRAFICA DI ANNALISA VARLOTTA
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Un dito poggiato sullo smartphone. Oppure un bracciale
intorno al polso. Raccogliendo i dati inviati dal nostro corpo
saranno loro a dirci, ovunque ci troviamo, qual è il livello di stress
e quali i rimedi immediati da adottare. È questa l’ultima frontiera del self-tracking
L’APP
GLI STATI
D’ANIMO
LA RILEVAZIONE
Lo smartphone rileva
il grado di stress durante
le varie fasi della giornata
LA LOCALIZZAZIONE
I PICCHI
Il paziente comunica
attività “stressante”
e propria posizione
Elaborando i dati raccolti
l’app segnala i picchi
di stress (quando e dove)
I CONSIGLI
Dieci minuti di respirazione
profonda, 30 a passeggio:
alcuni consigli antistress
GLI ALTRI MISURATORI
ACCELEROMETRO
UP è il braccialetto
di Jawbone per misurare
l’attività fisica
con un accelerometro
Subito un successo,
dopo un po’ ci si è accorti
che si rompeva facilmente
CONNESSO ALLA BILANCIA
FitBit è stato il primo
braccialetto di grande
diffusione pensato
per un uso familiare
Collegato wi-fi
con una bilancia e una app
cui inviare i dati da elaborare
lo che negli Stati Uniti prende il nome di self-tracking, ovvero
monitoraggio di se stessi, per arrivare a un quantified-self, ovvero a un insieme di indicatori che ci aiutino a migliorare le prestazioni. Nello sport è uso comune: braccialetti o cinturini che
misurino per tutto il giorno i nostri movimenti, indicando le calorie bruciate, sono gadget diffusissimi. Ma un conto è tenere
traccia del movimento che facciamo, grazie a un accelerometro, tutt’altro discorso è misurare lo stress. Il battito cardiaco e
le sue variazioni sono una strada possibile.
Prima della Huffington, per esempio, la app Azumio faceva (e
fa) praticamente la stessa cosa. Dalla Svezia poi è arrivata Viary,
una app che chiede ai pazienti in cura per la depressione di annotare quello che fanno nei vari momenti della giornata: pare
che il 73 per cento di quelli che l’hanno utilizzata non fossero
più depressi al termine della cura (ma stare tutto il giorno a
prendere appunti non è pratico). È stato quindi il turno di Mequilibrium, una piattaforma web per il coaching psicologico
online che si avvia risolvendo un test della personalità che divide il mondo in cinque categorie rispetto allo stress. Infine è notevole l’approccio del progetto Ginger.io: promosso da un
gruppo di ricercatori del Mit e disponibile solo su Android, calcola il nostro livello di stress da come ci comportiamo con il nostro telefonino; e quindi, quanto rapidamente digitiamo i tasti,
il tono di voce, il numero di messaggi ai quali rispondiamo. Funzionerà? Lo sapremo presto.
Intanto il progetto sulla carta più innovativo è quello di una
startup tutta italiana. Si chiama Empatica, e ha alle spalle tre
giovani genietti: Matteo Lai, Simone Tognetti e Maurizio Garbarino. Si sono incontrati nel 2011: Lai è un architetto cresciu-
CALORIE BRUCIATE
Fuelband, il braccialetto
della Nike, pensato
soprattutto per gli sportivi
consente di misurare
le calorie bruciate correndo
camminando, ma anche
ballando o facendo basket
ALLA CINTURA
Mywellness Key, firmato
dalla Technogym,
si aggancia alla cinta
dei pantaloni per registrare
i movimenti in maniera
più precisa rispetto
al braccialetto sul polso
to alla scuola del Senseable City Lab di Carlo Ratti, Tognetti e
Garbarino avevano appena concluso un dottorato su come legare i segnali fisiologici che manda il nostro corpo alla misurazione delle emozioni. Le applicazioni di questo filone sono infinite e quasi tutte molto remunerative: ai tre ricercatori, per
esempio, venne offerto di usarla per il neuromarketing e aiutare una multinazionale a vendere più detersivi. Ma loro avevano in mente un utilizzo socialmente utile. E si sono buttati sullo stress che comunque non è un mercato piccolo, visto che solo negli Stati Uniti ne soffrono 28 milioni di persone. Sono quindi partiti da studi scientifici molto seri, per arrivare alla conclusione che il nostro stress può risultare da una interpolazione di quattro dati: il battito cardiaco e la sua variazione, ma
anche la conduttività della pelle e la temperatura corporea. La
tecnologia per misurare questi parametri esiste, ma è in clinica o negli ospedali. Siccome i pazienti non vivono in ospedale,
‘‘
Lo stress è il primo killer
della vita moderna
Matteo Lai
Ricercatore e fondatore di Empatica
SCOPO TERAPEUTICO
E2, è il braccialetto
di Empatica. Pensato
per fini terapeutici, misura
battito cardiaco (attraverso
l'ossigenazione del sangue
nelle vene), conduttività
e temperatura della pelle
da qui l’idea di un braccialetto, simile a quelli che misurano le
calorie perdute tanto di moda, ma che misuri lo stress e lo trasmetta al telefonino.
Il primo prototipo è stato presentato un anno fa ad Amsterdam in una grande conferenza sull’innovazione, The Next Web.
Quel giorno la blogstar Robert Schoble ha chiamato sul palco
Matteo Lai che gli ha passato il braccialetto. Schoble l’ha indossato e per fare lo spiritoso ha chiesto a Lai: «E quindi adesso se
io ti chiedessi se tu vuoi andare nel quartiere a luci rosse tu avresti un picco di stress?». Lai fu pronto a ribattere: «Sì, ma il braccialetto ce l’hai tu e quindi sono io che te lo chiedo». Un grafico
trasmise alla platea il picco di imbarazzo di Schoble e il nome di
Empatica fece il giro del mondo.
Ora arriva il braccialetto vero. Si chiama E2 e al momento è
destinato solo a ospedali e centri di ricerca. Ma intanto i tre ricercatori (in attesa di finanziamenti, destino comune a troppi
prima di “fuggire” all’estero) hanno in corso una sperimentazione che è davvero la frontiera più estrema. Usare il braccialetto per i dipendenti delle grandi aziende, in modo da monitorare il loro livello di stress sul lavoro e, visto che lo stress è causa
di malattie, suggerire percorsi alternativi. Il test è stato avviato
per la validazione scientifica: dovesse funzionare, i costi sociali del lavoro sarebbero molto più bassi. Almeno si spera. C’è poi
quel piccolo problemino che si chiama “privacy”: è pensabile
mettere un braccialetto ai dipendenti per misurarne le emozioni? No. E ancora no. Ma le frontiere della privacy si sono così spostate in questi anni che Empatica scommette che quel no
possa domani diventare un sì.
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 APRILE 2013
LA DOMENICA
■ 40
I sapori
Reinventati
Non solo ragù e besciamella:
le variabili all’antica ricetta
dei cuochi bolognesi e napoletani
sono infinite. Pesce, tofu, hummus
o verdure, a ciascuno la sua
LICIA GRANELLO
er fare lasagne prendere pasta fermentata e trasformarla in una forma più sottile possibile. Poi dividere in quadrati di
tre dita trasverse per lato. Poi prendere
acqua bollente salata e cuocere in essa
le lasagne. E quando sono a cottura ultimata, aggiungere il formaggio grattugiato. E, se volete, potete anche aggiungere sopra buone spezie in polvere. Poi
mettere su un altro strato di lasagne e polvere di nuovo, e sopra un altro strato e la polvere, e continuate fino a quando il
tagliere o la ciotola è piena. Poi si mangiano prendendoli con
un bastone appuntito».
Sembra tratta da un manuale di cucina salutista del terzo millennio, la ricetta pubblicata nel Liber de Coquina agli
albori del Trecento e frutto della sapienza cuciniera della
corte napoletana di Carlo II d’Angiò. Come dire che le lasagne sono state diverse da subito, e che da subito l’unico comandamento certo è stato l’utilizzo primigenio della sfoglia di acqua e farina.
Quasi duemila anni più tardi, le lasagne sono ancora e
sempre in bilico tra la sontuosità grassosa della preparazione bolognese e le infinite varianti che abitano i ricettari. Dismessi i panni cicciotti di cibo delle feste, dove assommare due campioni dell’arte culinaria franco-napoletana come béchamelle e ragù, la seducente stratificazione di pasta — si badi bene: da zero a quaranta tuorli per
chilo! — ha saputo accogliere farciture polpose o magroline, in beata solitudine o creativamente assemblate, cibo del mondo o local come nessun altro.
«P
L’importante
è stratificare
I primi a ribellarsi alla dittatura del macinato di carne sono stati i vegetariani, pronti a rivendicare il potere goloso
delle verdure. In scia, i vegani, che — azzerate buona parte
delle proteine animali — si sono limitati a sostituire burro
e latte con soia e tofu o, in versione ancora più restrittiva,
brodo vegetale e agar agar.
In quanto agli amanti del pesce, declinare il mare in lasagna richiede una sensibilità speciale — soprattutto riguardo
ai crostacei — per evitare che la cottura in forno trasformi la
fragranza in stopposità. Tradotto in ricette, cottura tradizionale per il ragù ittico, ma costruzione nel piatto per tandem
delicati e suadenti come zucchine e capesante o gamberi e
pesto (così da preservare anche la delicatezza del basilico).
Poi, proprio come prescriveva l’anonimo cuoco degli
Angioini, largo alle spezie e alle combinazioni della gastronomia etnica, che spaziano dalla dadolata di verdure con
hummus (puré di ceci con crema di sesamo e limone) agli
sfilaccini di pollo e salsa Teriyaki (soia, sake, olio e zucchero), arrivando fino alle tipologie dolci — fondente fuso e noci sbriciolate, carpaccio d’ananas e salsa vaniglia — e alle
sfoglie fritte invece che bollite.
Se le lasagne diverse vi intrigano, organizzate una gita a
Bologna, dove mercoledì 10 aprile la benemerita associazione TOur-tlen, forte dei sui tredici supercuochi cittadini,
ospita e sfida sette chef in nome della tradizione reinventata. In caso di crisi abbandonica, infilatevi in una delle osterie-culto del centro e regalatevi una porzione abbondante di
lasagne bolognesi doc.
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L’altra
lasagna
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 APRILE 2013
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Bologna. Gli indirizzi
Tricolore
Una lasagna bianca, rossa
e verde a base di scamorza
affumicata, speck e zucchine
preparati a parte e stesi
sulla sfoglia da infornare,
con crema di latte e maizena,
grana, menta, pistacchi tritati
DOVE DORMIRE
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
SUITE HOTEL ELITE
Via Aurelio Saffi 40
Tel. 051-554379
Doppia da 80 euro, colazione inclusa
SCACCO MATTO
Via Broccaindosso 63/b
Tel. 051-7018968
Chiuso lunedì a pranzo, menù da 38 euro
SFOGLINE
Via Belvedere 7/b
Tel. 051-220558
4 VIALE MASINI DESIGN HOTEL
Viale Masini 4/3
Tel. 051-255035
Doppia da 105 euro, colazione inclusa
OSTERIA BOTTEGA
Via Santa Caterina 51
Tel. 051-585111
Chiuso domenica e lunedì, menù da 30 euro
HOTEL METROPOLITAN
Via dell'Orso 6
Tel. 051-229393
Doppia da 120 euro, colazione inclusa
MARCO FADIGA BISTROT
Via Rialto 23/c
Tel. 051-220118
Chiuso domenica e lunedì, menù da 40 euro
LA BOTTEGA DELLA PASTA
Via Orfeo 38/b
Tel. 347-1303417
LA BOLOGNINA
Via Di Vincenzo 33/d
Tel. 051-370780
Asparagi
e scamorze
Pane
carasau
Vegetale
Rape
bianche
Farcitura
con gli ortaggi
simbolo di primavera,
sbollentati, affettati
e spadellati,
alternati a provola
normale e affumicata,
più besciamella
leggera
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
Il meglio dell’orto
di stagione
(zucchine, carote,
piselli, porri) ridotto
in dadini minuscoli
(brounoise)
e insaporito
in extravergine,
con o senza
pomodoro
Spianata sarda
al posto della sfoglia
tradizionale
Una volta bagnata
con brodo caldo
di pecora,
si farcisce con sugo
di pomodoro
e pecorino grattato
A tavola
Doppio
pesto
Versione double:
a crudo (fogli di pasta
cotti, assemblati
in piatto con gamberi)
oppure infornati
con patate e fagiolini,
aggiungendo
besciamella o ricotta
Mare
Misto di scorfano
e pescatrice
a tocchetti, rosolato
in olio extravergine
profumato d’aglio
Al posto
della besciamella
abbinamento
con vellutata
al fumetto di pesce
Funghi
Galletti o porcini
tagliati sottili,
trifolati in padella
con prezzemolo
A parte, preparare
la pancetta
affumicata a dadini,
rosolata senza olio,
e infine mescolare
alla ricotta
Radici tagliate
sottilissime,
cotte due minuti
e quindi immerse
in acqua fredda
Asciugate, disponete
in teglia con rigaglie
di pollo saltate, salsa
di yogurt, sedano
Mais
Le lacrime
dei monaci
MASSIMO MONTANARI
ici lasagne e ti vengono in mente Bologna, il ragù, la besciamella. Ma la più antica ricetta di lasagne è in un testo
scritto a Napoli agli inizi del Trecento. E il ragù non è previsto: nel Medioevo non solo le lasagne, ma ogni genere di pasta si
condisce solo con burro e formaggio (la besciamella arriverà solo
nel XVIII secolo). Perciò le lasagne possono comparire come vivanda “di magro”: in una novella quattrocentesca di Sabadino degli Arienti, i monaci bolognesi di San Procolo le mangiano di venerdì, «giorno di passione». Le attingono col cucchiaio da un «catino» appena sfornato, caldissimo. E proprio il calore della vivanda sarà protagonista del racconto: un monaco particolarmente affamato (o goloso) non riesce ad attendere e si affretta a imboccare una cucchiaiata di lasagne. Il volto gli si infiamma, il calore
insopportabile lo opprime, dagli occhi gli escono lacrime. «Perché
piangi?» gli chiede un fratello. E lui, per non svelarsi: «Piango la sorte dei nostri compagni che quest’anno sono morti di peste». Poco
dopo, anche l’altro monaco addenta le lasagne bollenti, e pure lui
si mette a piangere dal dolore: «Perché piangi?» gli chiede il primo.
«Della stessa cosa di cui piangevi tu» gli risponde. Il ricettario napoletano del Trecento raccomandava di prendere le lasagne con
un «punctorio ligneo», una posata di legno con le punte. Per far
prendere aria alla vivanda, ed evitare di scottarsi.
Nel racconto di Sabadino c’è anche un curioso retroscena: il
«catino» di lasagne è preparato e servito in tavola da un cuoco
«ch’era tedesco» e lavorava nella cucina del monastero. Forse fu
proprio a Bologna che quel tedesco apprese l’arte di far lasagne.
Ma i libri di cucina medievali sembrano attestare una larga presenza di questa pratica culinaria, in Italia e fuori d’Italia. In ogni caso, il particolare rivela un’interessante contaminazione di culture. Lasagne vuol dire Bologna, ragù, besciamella. Ma anche altri
luoghi, e altri condimenti.
D
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Farina gialla
versata a pioggia
in acqua bollente
per una polenta
morbida
da stendere
a cucchiaiate
con prosciutto
cotto, carciofi rosolati
e mozzarella
Moussaka
Patate a rondelle
e melanzane
affettate
con la buccia
fritte separatamente,
allineate,
sovrapposte,
ricoperte con ragù
di carne rossa
e besciamella
Vegana
Sfoglia integrale,
latte di soia
per la besciamella,
tofu al posto
del formaggio
Il resto vien da sé:
zucchine trifolate,
filetti di peperoni
arrostiti,
anelli di cipolla
LA RICETTA
LA CUCINA ITALIANA © GIANDOMENICO FRASSI
Andrea Sarri, presidente dei Jeunes
Restaurateurs italiani, è lo chef-patron
del ristorante "Agrodolce", adagiato
sulla banchina del porto d'Imperia,
dove la Liguria profuma i piatti
di mare e di terra. Come pure questa
ricetta ideata per i lettori di Repubblica
1/2 kg di farina
20 tuorli, 8 gamberi
500 g di calamaretti spillo
200 g di muscoli, 200 g di vongole
pisellini, fave
1 pomodoro cuore di bue
cipolla, sedano, carota
1 bicchiere di vino bianco
olio extra vergine di oliva
1 testa d’aglio
basilico e maggiorana
Impastare farina, uova e un pizzico di sale, fare riposare
almeno un’ora. Stendere la pasta e tagliarla a quadretti
di 5 cm. Pulire i pesci, tenendo da parte teste
e carapaci dei gamberi. Soffritto con cipolla, sedano,
carote, aglio, aggiungere gli scarti dei gamberi
e il pomodoro a cubetti. Sfumare con un bicchiere
di vino bianco, far ridurre e passare al colino
Cuocere in abbondante acqua salata per pochi istanti
i pisellini sgusciati e passare al mixer con un filo
di extra vergine fino a ottenere una crema liquida
Rosolare con aglio e olio calamari, vongole e muscoli, aggiungere
i crostacei. Bollire le lasagnette, unirle a molluschi e crostacei,
aggiungere qualche cucchiaio di salsa di gamberi. Impiattare il tutto,
aggiungere la crema di piselli, le fave e qualche foglia di basilico
✃
Lasagnette in guazzetto di frutti di mare e primizie dell'orto
Ingredienti per 4 persone
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7APRILE 2013
LA DOMENICA
■ 42
L’incontro
Antidive
Cinquanta film in ventisette anni
“Finora mi è andata bene
ma ho sempre il terrore che la favola
finisca da un momento all’altro”
confessa una delle attrici più premiate
del cinema italiano
Che a domanda risponde:
“No, non sono
nevrotica come
i personaggi
che interpreto,
ma ormai mi sono rassegnata:
se qualcuno ancora me lo chiede
io mi limito a sorridere”
Margherita Buy
el volto e nello sguardo
si mescolano un velo di
malinconia e una vena
di ironia. E forse proprio questo strano mix è il segreto del
fascino di Margherita Buy. Un dono di
natura che, abbinato a una seria preparazione professionale all’Accademia d’Arte Drammatica, le ha consentito di esprimere sentimenti e proporre personaggi autentici, anche quando sul copione apparivano solo abbozzati. La prima a sorprendersi del
successo, nonostante stia per arrivare
in sala il suo cinquantesimo film in
ventisette anni, è proprio lei. «Ho iniziato questa carriera molto seriamente, forse anche perché cresciuta in una
famiglia dove la cultura ha sempre
contato molto, ma senza alcuna illusione. Convinta, anzi, che sarebbe finita male. Così, ancora adesso, mi meraviglio di ciò è accaduto e qualche volta ho perfino la tentazione di mollare,
perché finora è andato tutto per il meglio, ma sotto sotto continuo ad avvertire il vago terrore che la favola possa finire da un momento all’altro».
La sua filmografia sembra sfatare la
leggenda che oltre gli “anta”, per le attrici in genere e per le interpreti italiane
‘‘
in particolare, non ci sia più spazio. «È
vero» ammette la cinquantunenne
vincitrice di cinque David di Donatello, «con la maturità sono arrivati i personaggi più interessanti, le cose più
belle. La mia fortuna è stata quella di
cominciare con un gruppo di coetanei,
da Daniele Luchetti a Giuseppe Piccioni, da Sergio Rubini a Cristina e Francesca Comencini fino a Ferzan Ozpetek, con i quali non ci siamo più lasciati. Siamo cresciuti insieme e insieme
abbiamo raccontato le nostre vite, le
nostre esperienze». Dal prossimo 24
aprile tornerà sugli schermi accanto a
Stefano Accorsi, con cui recitò Le fate
ignorantidodici anni fa, nel film di Maria Sole Tognazzi Viaggio sola. Ma curioso è soprattutto il rapporto con Sergio Rubini, il suo ex marito col quale,
anche dopo il divorzio, ha continuato a
frequentarsi artisticamente. Così sul
set Margherita e Sergio si sono spesso
ritrovati a formare, con grande naturalezza, quella coppia che nella vita reale
non c’era più. Tanto che, anche nel
nuovo film di Rubini Mi rifaccio vivo,
presentato al Bif&st di Bari e nelle sale
dal 9 maggio, ancora una volta la protagonista femminile sarà proprio la
Buy. «Le emozioni provate in questo
lavoro spesso sono così forti che si trasformano in ricordi personali, come se
ciò che si è vissuto solo nella finzione
del set fosse accaduto davvero nella vita reale. Certi personaggi ti restano
dentro. Mi è capitato più volte: di recente, con Maria, la protagonista de Lo
spazio bianco, che mi ha fatto scoprire
realtà inedite sulla maternità, o con Elsa di Giorni e nuvole, un film quasi profetico, che ha raccontato in anticipo la
crisi dei nostri giorni e mi piace pensare che abbia aiutato la gente a prepararsi alle difficoltà del momento. Amo
interpretare personaggi che esistano
realmente, nei quali gli spettatori, e soprattutto le spettatrici, possano riconoscersi con grande facilità. Ciò non
toglie che se mi chiamasse Tim Burton
per un fantasy andrei di corsa...».
Il tema della maternità ricorre molte volte nei film interpretati dalla Buy,
che della sua esperienza di mamma di
una figlia unica quasi dodicenne, avuta dal secondo marito, il chirurgo Renato De Angelis, dice: «Mi sento una
miracolata, nel senso che mia figlia è
stata la cosa più bella che mi sia accaduto di vivere. L’esperienza di madre
mi ha migliorato e mi ha fatto crescere,
mi ha reso più responsabile. Penso di
essere stata una mamma molto apprensiva ma, seppure con fatica, credo
di essere riuscita a non diventare troppo invadente. Oggi con mia figlia condivido già molte cose. Del resto ho
sempre avuto un ottimo rapporto con
l’universo femminile, come dimostra
il fatto di aver girato molti film con registe donne. Anche sul lavoro, trovo
che fra donne il rapporto sia facile perché si comunica attraverso un codice
conosciuto e condiviso; non ci sono
vergogne né pudori, inevitabili con i
registi uomini. È accaduto di recente
anche con Susanna Nicchiarelli per La
scoperta dell’alba: un film particolare,
emozionante, che sfugge a ogni classificazione di genere, stando a metà
strada fra il fantasy e il politico, e che
pretende dallo spettatore di lasciarsi
andare alle emozioni. Con Susanna,
fin dal primo istante, siamo state perfettamente in sintonia».
Ciò che invece a Margherita non è
Sul lavoro trovo
che i rapporti
fra donne
siano più facili
Perché si comunica
attraverso un codice
conosciuto
e condiviso
FOTO CAMILLA MORANDI / AGF
N
ROMA
ancora riuscito è il tentativo di liberarsi dalla maschera di donna nevrotica,
timida, scostante, ansiosa e ansiogena
con cui il pubblico, a partire da Maledetto il giorno che ti ho incontrato di
Verdone del 1992, l’ha identificata.
Amici e conoscenti assicurano che
Margherita non sia affatto così, ma intanto anche nel film Boris è stata proposta una parodia della Buy che puntava proprio su questo aspetto. «Non
mi sono sentita affatto offesa anche
perché, se mi volevano prendere in giro, potevano farlo ancora più ferocemente. D’altronde mi sono convinta
che, almeno sullo schermo, emano
qualcosa che mi sfugge e, poiché i personaggi nevrotici mi vengono bene, il
pubblico pensa che io sia davvero così. Non c’è scampo, ormai mi sono rassegnata e non provo più a negare:
quando mi chiedono “ma tu sei davvero così?” mi limito a sorridere».
Tuttavia qualcosa di vero deve pur
esserci, perché c’è chi ricorda che nella conferenza stampa alla Mostra del
Cinema di Venezia nel lontano 1986
dopo la proiezione del suo primo film,
La seconda notte di Nino Bizzarri, alle
domande dei giornalisti le risposte di
Margherita furono poco più che monosillabi. Ma l’unica insicurezza che
lei riconosce a se stessa riguarda le
scelte professionali: «Certe volte non
è facile accettare una proposta e ancora più difficile rifiutarla. Naturalmente conta moltissimo la presenza
del regista. Da attrice mi piace essere
diretta, avere la sensazione che sul set
ci sia un capo che abbia ben chiara in
testa la direzione che il film deve
prendere. Quando ciò non accade, è il
disastro. Le mie scelte non derivano
quasi mai da una riflessione sul personaggio che mi viene proposto, ma
dipendono da un giudizio complessivo sul film. Meglio scegliere un ruolo
più piccolo e meno interessante in un
film che funziona, piuttosto che avere una grande parte in un’operazione
complessivamente zoppicante. Sbagliare qualche scelta è inevitabile, anch’io ho dei cadaveri nell’armadio,
ma non mi pento di niente: alla fine
anche i film meno riusciti, a volte, offrono occasioni di crescita professionale e umana. Per esempio ho recitato in quello che è forse il film più brutto di Mario Monicelli, Facciamo Paradiso, ma sono felice di aver avuto l’opportunità di entrare in contatto con
un uomo unico e straordinario».
Il segreto di Margherita sembra essere quello di vivere il ruolo di attrice
simbolo di un generazione con lievità,
sobrietà, senza mai neppure sfiorare
atteggiamenti da diva. Contrariamente alle attrici d’altri tempi, alle incombenze di una vita normale e a certi doveri domestici la Buy non si è mai sottratta: sebbene parzialmente nascosta
sotto un cappello e con enormi occhiali da sole sul viso, anche in giornate poco luminose, è facile incontrarla
in fila al supermercato sotto casa. Proprio per questo, nonostante l’infinità
di riconoscimenti ricevuti, spesso portatori di velenose antipatie, Margherita non suscita sentimenti ostili neppure fra le colleghe. Lei, del resto, i vari
premi ricevuti non li esibisce neppure
nel salotto di casa. «Ciak d’Oro e Nastri
d’Argento — racconta — sono stipati
in un baule, anche perché si possono
comodamente inscatolare. È un po’
più complicato con i David, che sono
sparsi nelle varie stanze...». Recentemente, in un programma televisivo, ha
ammesso di aver perduto una di quelle preziose statuette che si assegnano
ogni anno al miglior attore italiano della stagione cinematografica. «Ma anche se faccio finta di niente non creda
che io non tenga ai premi. Anzi, e lo
confesso pubblicamente: intendo
continuare a collezionarne».
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FRANCO MONTINI
Repubblica Nazionale
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