itascabili
per la didattica
Africa
conflitti dimenticati
e costruttori di pace
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per la didattica
Africa
conflitti dimenticati
e costruttori di pace
a cura di Rodolfo Casadei e Martino Chieffo
Con il contributo della Regione Piemonte e della Provincia di Verbania
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Questo volume è rispettosamente dedicato alla memoria
di tutte le vittime dei conflitti dimenticati in Africa
«Siate costruttori
della civiltà dell’amore,
animati dalla parola
del Salvatore:
“Beati gli operatori
di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio”(Mt 5,9)».
(Giovanni Paolo II, Angelus, 28 marzo 2004)
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
INDICE
PRESENTAZIONE di Arturo Alberti
p. 5
UNO STRUMENTO UTILE A CHI INSEGNA E A CHI APPRENDE
di Gianni Mereghetti (DIESSE)
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LA GUERRA NELLA REALTÀ POLITICA AFRICANA:
LA CRISI DELLO STATO E LA POLITICA DELLE ARMI di Rodolfo Casadei
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PANORAMA STORICO-POLITICO DI ALCUNE CRISI AFRICANE
a cura di Rodolfo Casadei
COSTA D’AVORIO, REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO - EX ZAIRE,
RWANDA, SIERRA LEONE, SUDAN, UGANDA
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VOCI CORAGGIOSE: ALCUNE TESTIMONIANZE a cura di Martino Chieffo
Costa D’Avorio
E i matti di Gregoire salvarono la città, di Luca Fiore
Repubblica Democratica del Congo - ex Zaire
Paesi in eterna guerra, di Marino Contiero
Il diario dei missionari, di padre Nicola Colasuonno
Rwanda
L’incontro con il bambino ed il vissuto psichico traumatico da guerra:
descrizione dell’esperienza in Rwanda, di Giovanni Galli, Lucia Castelli, Anne Devreux
Testimonianze di volontari AVSI
Sierra Leone
Questi bambini ci insegnano, di padre Giuseppe Berton
L’unica salvezza per il mio paese è educare la gente, di Ernest Sesay
I ribelli a Freetown, di Daniel
La guerra e l’infanzia, la storia di Jimmy
Sudan
I dimenticati del Sudan, di Claudio Monici
Il volontario e il medico italiani a caccia di vite umane da salvare, di Claudio Monici
I resistenti del Sud Sudan, di Giancarlo Giojelli
Sudan, la Babilonia del dolore, di Gian Micalessin
Uganda
La guerra e l’infanzia, la storia di Agnes
In ginocchio dai ribelli, di madre Rachele Fassera
Più forte dell’odio, dal diario di fratel Elio Croce
L’educazione alla pace nell’Uganda del nord, di Gina Bramucci
Uganda, bambini pendolari di notte “no alla guerra”, di Claudio Monici
I piccoli pendolari in fuga dai sequestri, di Gian Micalessin
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Presentazione
Arturo Alberti
Presidente AVSI
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In questi trent’anni di esperienza ci siamo resi conto che l’informazione e l’educazione allo sviluppo sono uno strumento molto importante per
coinvolgere insegnanti, giovani e persone sensibili alle problematiche della
pace e della cooperazione tra i popoli.
AVSI e DIESSE hanno realizzato assieme questo tascabile che vuole
essere un documento agile, facilmente utilizzabile, non certo esaustivo e senza
la pretesa di comunicare un giudizio definitivo o la conclusione di storie
drammatiche: desideriamo che sia usato largamente perché, chiunque lo
legga, sia aiutato a capire le tragedie che si stanno consumando in Africa, un
continente che molti definiscono alla deriva e che sembra non interessare più
nessuno, e possa in qualche modo condividere il bisogno e partecipare ai tentativi di soluzione.
Il libretto è composto da due sezioni: la prima, curata da Rodolfo
Casadei, offre un sintetico quadro della situazione di alcuni dei Paesi africani
martoriati dalla guerra e permette quindi di inserire il conflitto in corso o i suoi
strascichi in un contesto storico-politico; la seconda, curata da Martino
Chieffo, raccoglie alcune testimonianze ed articoli utili a dare un volto alle
popolazioni vittime dei conflitti.
AVSI è particolarmente interessata a far conoscere la situazione dei Paesi
che più soffrono in questo momento in Africa perché in molti di essi sono in
corso progetti di sviluppo e interventi umanitari che cercano di rispondere ai
bisogni fondamentali della popolazione.
In Uganda, Burundi, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo,
Rwanda, Sierra Leone e in tanti altri paesi del mondo, i volontari e i collaboratori di AVSI stanno sperimentando una positiva compagnia educativa con le
persone e sono coinvolti in un cammino che è teso alla valorizzazione di ogni
persona, di ogni singolo IO, perché possa diventare protagonista dello sviluppo proprio e del proprio Paese.
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Uno strumento utile a chi insegna
e a chi apprende
di Gianni Mereghetti
(DIESSE)
Andare all’origine delle guerre dimenticate dell’Africa, coglierne le dinamiche e identificare le prospettive di speranza per l’oggi e il futuro prossimo non è semplice, tant’è
vero che spesso sia i mezzi di informazione sia quelli educativi a questo proposito tacciono. Con questo agile testo invece si vuole portare all’attenzione del mondo della
scuola una realtà drammatica, quella dell’Africa, che al pari di altre ha bisogno di una
speranza. Non lo si vuole fare per allargare lo spettro della guerra, ma solo per amore
alla realtà e nella convinzione che lo sguardo di pace con cui oggi ci si rivolge a tanti
popoli martoriati dalla violenza ha valore anche per la gente d’Africa, che di questo
sguardo ha più che mai bisogno.
L’Africa ha vissuto la fase tragica dell’imperialismo ottocentesco, che ha lasciato una
ferita non ancora rimarginata. L’imperialismo è stato un processo messo in atto dalla
classe politica liberale, e prima ancora di essere un allargamento di mercato ha rappresentato uno stravolgimento dell’idea stessa di Europa. Quell’Europa che, nata dalla
identità cristiana, aveva legato la sua storia, pur in diverse contraddizioni, ad un processo di dilatazione della civiltà e del benessere, si era lasciata prendere dalle ideologie nazionaliste e aveva preso la strada della sottomissione del mondo, inglobandolo
e non più entrando in rapporto con la sua ricchezza e complessità. L’imperialismo è
stato un atto di violenza che l’Europa ha commesso contro se stessa, e per questo si è
rivelato distruttivo per le popolazioni del Terzo Mondo. È stato quasi un secolo di violenza, poi il processo di decolonizzazione che ha fatto seguito alla Seconda Guerra
mondiale ha portato alla costituzione di stati africani indipendenti.
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Per l’Africa si trattò di un’illusione perché i nuovi stati scaturiti dal processo di decolonizzazione:
a) di fatto coincidevano con quelli disegnati a tavolino dai vecchi colonizzatori;
b) non erano abitati da un popolo, ma da diverse tribù con lingua, tradizione e cultura differenti;
c) la loro classe dirigente si era formata alla scuola del vecchio padrone imperiale.
Se talvolta chi andò al potere in quegli anni riassunse in sé l'esito di un incontro positivo tra le due culture (es. Senghor, presidente del Senegal), in altri casi si trattò di
personaggi dispotici e violenti, che sfruttarono la situazione per un potere di tipo personale (es. Bokassa nella Repubblica Centro Africana). In Africa il processo di deco-
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lonizzazione fu complesso e guidato sia dalla naturale esigenza di liberazione dallo
sfruttamento coloniale, sia da fattori religiosi (l'islamismo), sia da ragioni socio-politiche (l'affermazione delle élite piccolo-borghesi locali), sia dal diffondersi dell'ideologia marxista. In alcune situazioni il processo di decolonizzazione avvenne in modo
pacifico e con facilità, in altre, soprattutto dove si erano insediate forti colonie europee, si andò incontro a grossi ostacoli e notevoli difficoltà. Nonostante l’indipendenza, nonostante la libertà, però è un dato di fatto che l’Africa nella seconda metà del
Novecento e agli inizi del nuovo millennio non conobbe né una vera pace né un reale
progresso, e ad oggi la situazione permane drammatica. Da una parte è emersa in
modo dirompente la difficoltà di convivenza tra i diversi gruppi etnici in Africa, difficoltà che non viene dalla popolazione civile, ma è provocata da gruppi di potere che
sfruttano la situazione a proprio vantaggio e che sono sostenuti da forze economiche
dei paesi sviluppati. Dall’altra parte è preoccupante l’impotenza dei paesi cosiddetti
sviluppati che non hanno ancora individuato la modalità corretta per un reale intervento di aiuto nelle terre d’Africa.
La globalizzazione non ha cambiato i termini del problema, forse li ha evidenziati
maggiormente indicando che il problema non è il fenomeno della globalizzazione in
sé, ma come lo si affronta. A tale riguardo è interessante confrontarsi con Giovanni
Paolo II, che più volte ha sostenuto che la globalizzazione può essere positiva o negativa a seconda che si metta al centro dei processi economici l’uomo o il profitto.
Nell’“Ecclesia in America” Giovanni Paolo II ha scritto a chiarimento di questo imprescindibile principio: «C’è una globalizzazione economica che porta alcune conseguenze
positive, come l’efficienza e l’incremento della produzione e che, con lo sviluppo di legami
economici tra i diversi Paesi, può aiutare a portare maggiore unità tra i popoli rendendo possibile un miglior servizio alla famiglia umana. Ma se la globalizzazione è governata soltanto dalle leggi del mercato, applicate a favore dei potenti, le conseguenze non possono che
essere negative. Queste sono, ad esempio, l’assolutizzazione dell’economia, la disoccupazione, la riduzione e il deterioramento dei servizi pubblici, la distruzione dell’ambiente e delle
risorse naturali, la distanza crescente tra ricchi e poveri, una competizione iniqua che mette
le nazioni povere in una situazione di sempre crescente inferiorità» (da Ecclesia in America,
n. 20).
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L’Africa è oggi un continente in grande difficoltà rispetto ad un processo di pace e di
benessere: da parte dei popoli sviluppati occorre una nuova considerazione.
Non si può pensare di creare ordine, pace e sviluppo con gli interventi armati, anche
se detti umanitari, né sono sufficienti gli interventi d’urgenza, anche se necessari.
Per sconfiggere la guerra e il sottosviluppo è necessario passare da una politica di
sfruttamento ad una politica di solidarietà, è necessario creare le condizioni culturali
ed economiche perché ogni popolo sappia mettere a frutto le proprie risorse e capacità e divenga protagonista del suo sviluppo. In questo il fattore prioritario è l’educazione. Senza educazione non ci saranno i popoli d’Africa né sapranno creare convi-
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venza pacifica e benessere. È una strada del tutto nuova quella che si apre per l’Africa,
è quella dell’educazione di ogni africano a diventare consapevole della sua dignità di
uomo e della sua appartenenza ad un popolo. È solo nell’educazione che si ricostituisce il popolo; infatti nella logica prodotta dall’imperialismo e da tutti coloro che vi si
sono opposti non si sono creati popoli, ma gruppi contro: prima contro i dominatori, poi gli uni contro gli altri!
La prospettiva di pace e di benessere per la gente d’Africa è invece quella in cui ogni
uomo educato al valore del proprio io, scopre i legami da cui è costituito e che diventano fattori di costruzione della “civiltà della verità e dell’amore”. In questo orizzonte
ha valore un “libretto” sull’Africa, un piccolo contributo a conoscere sia ciò che succede realmente in questo continente alla deriva sia ciò che già offre speranza di
costruzione positiva. Così che anche chi, insegnante o studente, si avvicini con sguardo realistico all’Africa comprenda come poter oggi sostenere il compito prioritario
dell’educazione per un’Africa di uomini e di popoli.
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La guerra nella realtà politica
africana: la crisi dello Stato
e la politica delle armi
di Rodolfo Casadei
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«La stabilità della guerra… è un vero regime che organizza l’alternanza al potere, l’accesso alle ricchezze, la mobilitazione politica della gioventù, la legittimazione della
autorità, il cambiamento sociale nelle relazioni fra i sessi o le classi d’età, la modernizzazione tecnologica, l’affermazione dell’economia monetaria, l’inserzione nell’economia mondiale, la diffusione delle mode culturali del grande villaggio planetario e
la loro reinvenzione da parte degli attori locali». Pochi, leggendo questo giudizio del
noto africanista francese Jean-François Bayart sulle tragiche vicende dell’Africa contemporanea, se la sentirebbero di contraddire il suo assunto. Davvero la guerra ed i
suoi tragici accessori sembrano diventati il principale strumento di regolamentazione
dei conflitti politici e sociali e di accesso ai processi di modernizzazione in gran parte
dei paesi dell’Africa nera. In una fascia che attraversa orizzontalmente il continente
dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea, passando per la regione dei Grandi Laghi e
l’immenso bacino del fiume Congo, il cancro del conflitto armato fra eserciti nazionali, guerriglie, milizie, corpi di spedizione, militari golpisti, mercenari, ecc. sembra
estendersi inarrestabilmente.
Perché la guerra è diventata una delle chiavi di lettura privilegiate della realtà africana? Perché tante guerre in Africa? Ci sono due risposte molto diffuse, fra loro opposte ma inficiate dallo stesso difetto. La prima dice: le guerre africane sono guerre tribali, gli africani si massacrano perché appartengono a tribù diverse che si odiano per
ragioni ataviche. La seconda dice: è tutta colpa del colonialismo, gli africani si uccidono fra loro perché gli interessi delle vecchie potenze coloniali (ovvero il neo-colonialismo) li aizzano gli uni contro gli altri. Sono due risposte che hanno il pregio della
chiarezza, facili da comprendere per chiunque. Ma fanno torto, col loro semplicismo,
alla verità. Se davvero l’odio che scatena le guerre discende direttamente e automaticamente dall’appartenenza tribale, c’è da chiedersi come abbiano fatto a sopravvivere
fino ad oggi le migliaia di etnie che sono presenti sul continente africano, e come
abbiano fatto a convivere fino a ieri entro i confini degli Stati in cui continuano ad
essere collocate. Se davvero il colonialismo ed il neo-colonialismo sono responsabili
di tutti i mali del continente nero, bisognerebbe concludere che gli africani sono un’umanità senza storia, eterni minorenni irresponsabili delle proprie azioni, e sarebbe
una conclusione tinta di paternalismo e di malcelato razzismo.
In realtà, un esame più ravvicinato delle guerre africane evidenzia il fatto che tutte
nascono da una profonda crisi dello Stato, che non riesce più a svolgere le funzioni
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per cui era stato creato. Creazione artificiale giustapposta alle realtà politiche e sociali tradizionali, lo Stato moderno in Africa ha retto finché è stato in grado di redistribuire fra i gruppi di interesse, perlopiù definiti su base etnica o regionalista, le risorse derivanti dalle esportazioni delle materie prime e dagli aiuti internazionali dei due
fronti contrapposti durante la Guerra fredda. Quando queste due fonti di ricchezza si
sono prosciugate a causa della flessione dei prezzi delle materie prime, della fine della
Guerra fredda e della corruzione che ha sperperato somme enormi, lo Stato ha perso
ogni legittimità. Venuta meno la mediazione politica che esso realizzava, la lotta per
la spartizione delle risorse è diventata conflitto militare: si è passati dalle armi della
politica alla politica delle armi. Il principio di legittimità ha cessato di avere a che fare
col consenso sociale, e ha finito per coincidere col diritto del più forte.
Al di là delle etichette ideologiche, tribali o nazionalistiche appiccicate alle varie guerre e guerriglie in corso, in moltissimi casi i conflitti africani sono frutto del “decesso”
dello Stato o della sua contrazione “neopatrimonialista”, come direbbe Max Weber,
cioè della riduzione dello Stato a proprietà privata di un singolo o di un gruppo.
Rientrano senz’altro nella casistica della morte dello Stato conflitti in corso o appena
conclusi come quelli di Sierra Leone, Somalia e Repubblica Democratica del Congo;
rientrano nella casistica dello Stato ridotto a proprietà privata di un gruppo e utilizzato per produrre profitti privati conflitti come quelli di Rwanda, Burundi, Costa
D’Avorio e quelli da poco esauriti in Liberia e Congo Brazzaville e quello incipiente in
Zimbabwe. I conflitti classici fra stati si riducono a quello che vede di fronte i freschi
nazionalismi dell’Eritrea, ultimo stato indipendente dell’Africa e dell’Etiopia postimperiale, e che oggi conosce un armistizio difficilmente definitivo. Ci sono alcuni
casi speciali, come la guerra civile del Sudan che può essere letta come una guerra di
decolonizzazione interna all’Africa, fra egemoni arabi e arabizzati del nord e subalterni africani nilotici del sud. E come le guerriglie magico-religiose in Uganda e nella
regione congolese del Kivu, legate alla destrutturazione della società tribale.
Nei conflitti africani è diventata centrale la figura dei “signori della guerra”. Costoro
si presentano come leader politici, militari, religiosi, etnici, tribali, e spesso tutte queste cose insieme. Ma ciò che maggiormente li caratterizza e li accomuna è l’utilizzo
della guerra non solo come strumento per la conquista del potere, ma come vero e
proprio modo di produzione economico e veicolo di arricchimento, tanto che Bayart
li ha definiti “imprenditori politico-militari” che hanno investito il loro capitale di
base in una impresa ad altissimo rischio ma ad altissimo rendimento: la conquista del
potere e quindi dell’accesso alle fonti della ricchezza per mezzo delle armi. Si sono
trasformati in “politici in armi”, ma non nell’accezione che Lenin dava all’espressione:
il loro obiettivo non è un sistema politico nuovo, ma l’accaparramento delle scarse
risorse del paese e dei simboli moderni del potere (Stato, ministeri, rappresentanza
nelle sedi internazionali) che serviranno a procurarsi altra ricchezza attraverso gli aiuti
internazionali, le tasse doganali ed i crediti.
Il reclutamento dei combattenti avviene principalmente sulla base dell’affinità tribale
o etnica non per ragioni legate all’autodifesa o alla necessità di sopravvivenza del
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gruppo, anzi molto spesso le popolazioni appartenenti al gruppo da cui provengono
i combattenti delle varie formazioni sono proprio coloro che più soffrono le conseguenze della guerra (si pensi al genocidio contro i tutsi compiuto per punire la guerriglia del Fpr, Fronte patriottico rwandese, oggi al potere, creato dai tutsi profughi o
la condizione di sottosviluppo e di emarginazione patita dagli acholi in Uganda a
causa della guerriglia dell’Lra, Lord Resistance Army, che pure è composto prevalentemente da acholi). Il reclutamento avviene su base etnica perché l’etnia è la categoria
non solo antropologica ma socio-politica più immediatamente disponibile nella realtà
africana, dove le categorie socio-economiche moderne (borghesia, proletariato,
latifondisti, braccianti) sono ancora quasi ovunque inesistenti o embrionali. Il predominio dei “signori della guerra” sulla scena politica africana è destinato a durare fino
a quando la società non raggiungerà condizioni di sviluppo economico tali da rendere non conveniente il ricorso alle armi come strumento per l’accaparramento e la redistribuzione di potere e ricchezza. E questo esige quasi ovunque interventi di stabilizzazione dall’esterno, approvati dalla comunità internazionale.
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Panorama storico-politico
di alcune crisi africane
a cura di Rodolfo Casadei
Costa D’Avorio
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La guerra civile che ha infiammato la Costa
D’Avorio fra il settembre 2002 e il luglio
2003 è stata l’apice di un processo di degenerazione della convivenza sociale nel paese
le cui premesse erano state create dalla
depressione economica degli anni Ottanta, e
che poi si è effettivamente dispiegato dopo la
morte del presidente Felix HouphouetBoigny nel 1993.
Nonostante la firma degli accordi di LinasMarcoussis (in Francia) fra le parti in conflitto nel gennaio 2003 e la decisione del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla fine del febbraio 2004 di inviare quasi
6.500 caschi blu e poliziotti per facilitare il processo di pace, le speranze di un ritorno alla normalità sono molto modeste.
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Le particolari circostanze storiche che per quasi un trentennio avevano fatto della
Costa D’Avorio un esempio di stabilità politica, convivenza multietnica e multireligiosa e costante crescita economica senza pari in Africa sembrano compromesse. Negli
anni dell’indipendenza (formalizzata nel 1960) la Costa D’Avorio ha avuto la fortuna
di essere guidata da un leader diverso dagli altri politici africani: Felix HouphouetBoigny non era soltanto un evolué (cioè un africano modernizzato) formato nelle
scuole o nelle accademie militari francesi, come gli altri esponenti dell’indipendentismo africano. Era anche un planteur, cioè un grande coltivatore indigeno. In Costa
D’Avorio siamo di fronte all’unico caso in cui l’indipendenza non è stata confiscata da
un’élite burocratica rappresentativa solo di se stessa, come è accaduto in tutti i paesi
dell’Africa nera, ma è stata collocata nelle mani di un preciso gruppo socio-economico, interessato alla crescita. In tutti i paesi dell’Africa nera le entrate delle esportazioni agricole di prodotti tropicali sono state utilizzate per finanziare l’espansione di una
funzione pubblica improduttiva, ma necessaria a fornire un minimo di consenso e
legittimità all’élite ascesa al potere. Il forte prelievo fiscale o para-fiscale sul mondo
agricolo ha ovunque scoraggiato la produzione, con conseguenze nefaste: flessione
delle esportazioni e perciò dei flussi di valuta pregiata, indebitamento con l’estero non
per investimenti ma per sostenere spese correnti, spopolamento delle campagne,
aumento della disoccupazione urbana, stagnazione economica, forte conflittualità
politica a base etnica. In Costa D’Avorio le cose sono andate diversamente perché il
presidente, proprietario di piantagioni, ha attuato una politica fiscale favorevole ai
coltivatori, nelle cui mani è rimasta la maggior parte del profitto delle agroesportazioni. Ciò ha incoraggiato l’espansione della produzione e la crescita economica: a metà
degli anni Settanta la Costa D’Avorio era diventata il più grande produttore mondiale di cacao, il tasso annuo di crescita economica oscillava fra il 5 e il 7 per cento, e
milioni di africani dai paesi vicini (soprattutto Burkina Faso e Mali) si recavano a lavorare nelle piantagioni ivoriane. Un paese potenzialmente a rischio per la natura composita (dal punto di vista etnico e religioso) della sua popolazione è diventato un’oasi di tranquillità nell’Africa occidentale dei colpi di Stato e dei conflitti etnici e religiosi degli anni Settanta e Ottanta. Si trattava di un sistema a partito unico (il Pdci-Rda,
Partito democratico della Costa D’Avorio - Concentrazione democratica africana), ma
i detenuti politici si contavano sulle dita di una mano.
La crisi del modello è iniziata negli anni Ottanta col crollo del prezzo del cacao e delle
altre agroesportazioni africane, dovuto soprattutto all’ingresso sul mercato internazionale dei nuovi produttori asiatici, e col conseguente indebitamento dello Stato, privato dei proventi fiscali del passato. Ma la rottura decisiva è venuta con la morte di
Houphouet-Boigny, un cristiano del sud che aveva saputo gestire con saggezza il pluralismo di identità del paese, finanziando la costruzione sia di chiese che di moschee
e dando spazio a esponenti di tutte le etnie nel suo governo. Il suo successore, Henri
Konan Bedié, presidente del parlamento ed esponente dell’ex partito unico (nel 1990
Houphouet-Boigny aveva legalizzato i partiti di opposizione e sconfitto il candidato
del Fpi, Fronte popolare ivoriano, alle elezioni presidenziali) non saprà o non potrà
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essere altrettanto lungimirante. Venuta meno la rendita del cacao e con le casse pubbliche svuotate dal pagamento degli interessi sul debito estero, in un paese dove un
quarto dei 16 milioni di abitanti è costituito da immigrati o discendenti di immigrati, Konan Bedié punta tutto sulla parola d’ordine ivoirité, “ivorianità”. L’obiettivo
immediato è quello di escludere dalla competizione per la presidenza l’ex compagno
di partito Alassane Ouattara, già primo ministro sotto Houphouet-Boigny, musulmano originario del nord del paese e figlio di immigrati dal Burkina Faso, fondatore di
un nuovo partito, l’Rdr (Concentrazione dei repubblicani). Ma le conseguenze saranno molto più ampie: la xenofobia e la rivalità regionale fra etnie del nord e del sud
diventeranno da quel momento la tela di fondo della politica ivoriana e avveleneranno permanentemente i rapporti sociali. In un paese dove la crescita economica è
ormai solo un ricordo, la contesa per il potere e per le scarse risorse avviene oggi sulla
base dell’appartenenza etnica e territoriale.
Esclusi dalla competizione elettorale Ouattara e altri rivali, Konan Bedié ha potuto
vincere facilmente le elezioni presidenziali del 1995. Ma la deriva istituzionale ormai
avviata è sfociata nel dicembre 1999 nel primo colpo di Stato nella storia della Costa
D’Avorio, che ha portato al potere i militari del generale Robert Guei, scontenti per
i bassi salari. Costui, dopo mesi di precarietà segnati da altri ammutinamenti militari, ha poi organizzato elezioni presidenziali allo scopo di legittimare il proprio potere, escludendo da esse sia Ouattara che Konan Bedié. Ma una insurrezione popolare
nell’ottobre 2000 scatenata dai brogli che egli stava compiendo lo ha costretto alla
fuga. Diventava così capo dello Stato Laurent Gbagbo del Fpi, lo sfidante sconfitto
da Houphouet-Boigny nel 1990 ma stavolta vincitore di un’elezione da cui erano stati
esclusi sia il candidato del vecchio Pdci che quello dell’Rdr. In quell’ottobre 2000 per
la prima volta la politica fa centinaia di morti in Costa D’Avorio: prima quando l’esercito di Guei apre il fuoco sulla folla che protesta; poi quando i militanti dell’Rdr escluso dalle elezioni si scontrano con quelli del Fpi, e le forze di sicurezza danno sostegno ai secondi. L’Rdr boicotta le successive elezioni parlamentari sempre a motivo dell’esclusione di Ouattara dalle liste, mentre partecipa alle amministrative del febbraio
2001, le uniche a cui concorrono tutti e tre i principali partiti ivoriani: l’Rdr conquista 63 consigli comunali, il Pdci 60 e l’Fpi 33. Nell’ottobre di quell’anno il presidente Gbagbo crea il forum per la riconciliazione nazionale, e nell’agosto dell’anno successivo all’Rdr vengono concessi quattro ministri in un governo di larghe convergenze. Ma è troppo tardi: il 19 settembre 2002 scoppia la rivolta militare che getta la
Costa D’Avorio nella guerra civile: nord contro sud, cristiani contro musulmani, indigeni contro immigrati. Alle forze armate si affiancano milizie civili, ai militari rivoltosi si aggiungono mercenari della Liberia e della Sierra Leone, e le violenze sui civili si
moltiplicano. La stampa, i partiti radicati nel sud e lo stesso presidente Gbagbo accusano il governo del Burkina Faso e la Libia di aver organizzato l’insurrezione, e la
Francia di parteggiare per gli insorti per aver appoggiato la loro richiesta di entrare a
far parte di un governo di unità nazionale. I ribelli, organizzati in vari gruppi, si sono
poi raccolti successivamente sotto la sigla Forces Nouvelles, “Forze nuove”. Hanno
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abbandonato il governo nel settembre 2003 accusando il presidente Gbagbo di non
rispettare i patti, ma nel mese di dicembre sono rientrati.
La Francia, ex potenza coloniale, ha sempre avuto basi militari nel paese. Alla vigilia dell’insurrezione erano presenti 600 paracadutisti francesi nel paese; sono poi diventati 4
mila e, insieme ad un migliaio di soldati africani dei paesi vicini, hanno fatto da forza di
interposizione lungo la linea dell’armistizio fra ribelli e lealisti (che corre a sud della città
di Bouaké, la seconda del paese) in attesa dell’arrivo dei caschi blu dell’Onu.
Nel gennaio del 2003 sono stati firmati a Parigi gli accordi di Marcoussis, promossi
dalla Francia e ratificati dall’Onu, che hanno stabilito la nascita di un governo di
riconciliazione nazionale e il disarmo, insieme ad importanti riforme istituzionali.
Tuttavia lo scontro tra i militari e i manifestanti delle forze di opposizione del 25
marzo 2004, che ha provocato, secondo la commissione di inchiesta dell’Onu, almeno 120 vittime, ha avuto pesanti conseguenze sul processo di pace in atto e sembra
che la situazione potrà sbloccarsi concretamente solo dopo le prossime elezioni presidenziali, che avranno luogo nel 2005.
Repubblica Democratica
del Congo - Ex Zaire
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La seconda guerra civile del Congo Kinshasa
(ufficialmente Repubblica Democratica del
Congo) ha rappresentato il più rovinoso conflitto nella storia dell’Africa post-coloniale in
termini di sofferenze umane e di destabilizzazione politica. È durata meno di molte altre
guerre africane: scoppiata nell’agosto del 1998
con l’ammutinamento di una guarnigione di truppe stazionate nel Kivu, è terminata nel
dicembre 2002 con un accordo di pace promosso dal presidente Joseph Kabila che ha
istituito un governo provvisorio di cui fanno parte esponenti di tutte le forze in lotta.
Ma ha causato la morte di tre milioni e 300 mila persone, ha coinvolto il più grande
numero di combattenti irregolari (fra i 197mila e i 243mila a seconda delle stime) e ben
7 stati africani che vi hanno preso parte (Angola, Burundi, Ciad, Namibia, Rwanda,
Uganda, Zimbabwe), tanto da meritarsi l’appellativo di “Prima Guerra mondiale africana”, e ha di fatto frammentato l’immenso paese (sette volte la superficie dell’Italia) in
feudi controllati da gruppi armati alle dipendenze di “signori della guerra” a volte locali, a volte provvisti di proiezione sul piano nazionale.
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Per la seconda guerra civile del Congo si dovrebbe più precisamente parlare di un sistema di conflitti. In essa infatti si innestano, si intrecciano e si sovrappongono almeno
quattro conflitti diversi: un conflitto di origine rwandese fra fuoriusciti hutu e governativi tutsi che hanno strumentalizzato le realtà politiche congolesi ai loro scopi; conflitti
fra etnie congolesi di allevatori/pastori ed etnie di agricoltori; conflitti fondiari e sociali
che coinvolgono élite urbane e agrarie locali; un conflitto internazionale per la spartizione delle spoglie dell’ex-Zaire fra le élites politiche e militari di vari paesi africani
(quelli sopra citati). A monte di questo groviglio di conflitti, difficili da distinguere e da
riassumere, sta una causa remota ma comune a tutti essi e decisiva: la degradazione
dello Stato zairese negli anni del potere del presidente Mobutu Sese Seko (1965-1997).
Divenuto capo di Stato con un golpe che depose l’allora presidente Moise Ciombe,
Mobutu (colui che mutò il nome del paese da Congo a Zaire) ha esercitato il suo potere ultratrentennale secondo la modalità neo-patrimonialista attuata da molti altri leader
africani: anziché servire lo Stato nell’interesse pubblico lo ha usato come una sua proprietà privata, per trarne arricchimento personale per sé e per la propria cerchia di familiari e sostenitori. Si calcola che nei 32 anni della sua dittatura Mobutu abbia accumulato una fortuna personale del valore di 4 miliardi di dollari.
La longevità di Mobutu al potere si spiega con la logica della Guerra fredda, che gli
garantì l’appoggio politico, finanziario e militare dell’Occidente fino alla caduta del
Muro di Berlino, ma anche con una scientifica azione di disorganizzazione delle istituzioni e di compressione della società civile da parte sua. Nel 1961 Mobutu, allora
capo di Stato maggiore del neonato esercito del Congo indipendente, aveva contribuito all’eliminazione di Patrice Lumumba, l’ex primo ministro che aveva aperto il paese
all’influenza sovietica, creandosi un credito di gratitudine presso i paesi occidentali,
in particolare Stati Uniti e Belgio (l’antico colonizzatore); nel 1977 truppe francesi,
marocchine e americane lo avevano salvato dalle conseguenze di un’insurrezione nella
ricca regione mineraria dello Shaba, l’ex Katanga che già al momento dell’indipendenza del Congo (1960) aveva tentato la secessione dal resto dello stato. Negli anni
Ottanta lo Zaire diventa un prezioso alleato dell’amministrazione Reagan che in funzione antisovietica appoggia la guerriglia dell’Unita di Jonas Savimbi in Angola contro il governo dei comunisti dell’Mpla: nello Zaire vengono costituite importanti
retrovie dell’Unita.
All’interno, la politica di Mobutu è interamente centrata sull’esigenza di mantenere il
suo potere personale al prezzo della stagnazione prima e della disgregazione poi del
sistema Zaire. Mobutu agisce con l’unica preoccupazione che non emergano gruppi
sociali, soggetti economici, realtà o personalità istituzionali in grado di contrastare il
suo predominio. Per fare questo negli anni Settanta si vale della copertura ideologica
della “zairizzazione”, che gli consente di far passare per processo di appropriazione
nazionale l’espropriazione dei beni di imprese straniere e l’allontanamento degli investitori stranieri, mentre lo scopo è un altro: distruggere la nascente classe imprenditoriale locale come soggetto autonomo e avere al suo posto una classe di finti manager di Stato che devono tutto al presidente e ne sviluppano le reti clientelari.
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Contemporaneamente Mobutu, che è stato capo di Stato maggiore, disarticola le forze
armate concentrando la spesa militare nelle forze della Divisione speciale presidenziale (Dsp), strettamente legata alla sua persona, e favorendo la degradazione delle strutture, degli apparati e dell’addestramento del resto dell’esercito, affinché da lì non possano venire minacce al suo potere. Con la volontà di evitare uno sviluppo economico pericoloso per il proprio potere e di scongiurare iniziative dei militari o di forze
ribelli si spiega anche la scelta di mantenere carente la presenza di infrastrutture nel
paese: il Congo di oggi ha meno chilometri di strade percorribili e meno chilometri
di ferrovie funzionanti di quanti ne aveva al tempo della colonia belga, perché nell’isolamento geografico Mobutu vedeva una garanzia contro le possibilità di successo di
ribellioni armate e contro il sorgere di un’opposizione nazionale.
Queste misure preventive si sono rivoltate contro Mobutu nel corso degli anni
Novanta. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, gli Stati
Uniti hanno abbandonato completamente l’uomo forte dello Zaire e appoggiato l’opposizione interna non violenta. La Francia si è immediatamente presentata come
interlocutore sostitutivo, ma mentre la vecchia alleanza era stata molto utile alla
sopravvivenza del regime mobutista, la nuova si rivelerà fatale. Quando nell’ottobre
1990 il Fronte patriottico rwandese (Fpr) dei fuoriusciti tutsi attraversa il confine fra
Uganda e Rwanda e porta la sua sfida al governo hutu del presidente Juvenal
Habyarimana, per lealtà alla nuova alleanza gli zairesi volano insieme ai soldati francesi in soccorso delle forze governative. E per le stesse ragioni nell’estate del 1994,
quando l’Fpr vince la sua guerra contro i successori di Habyarimana (morto in aprile
in un misterioso attentato), il territorio zairese diventa il santuario dei resti dell’esercito rwandese in fuga e delle milizie hutu che avevano compiuto il genocidio dei tutsi
rwandesi. Questi atti segnano il destino di Mobutu. Nell’autunno del 1996 nel Kivu
scoppia la rivolta dei banyamulenge, un’etnia imparentata coi tutsi rwandesi, ed emerge
dal nulla l’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (Afdl),
capeggiata da Laurent-Desiré Kabila, un vecchio ribelle lumumbista di cui si erano
perse le tracce. Parrebbe una ribellione periferica di poco conto, e invece nel giro di otto
mesi gli oppositori si impadroniranno della capitale Kinshasa, distante 1.500 chilometri, ponendo fine nel maggio 1997 a 32 anni di potere ininterrotto di Mobutu. A determinare questo esito sono soprattutto due fattori: il forte sostegno del nuovo governo
rwandese e delle sue forze armate ai ribelli anti-governativi e lo stato di completa disorganizzazione dell’esercito zairese. Nella fase finale dell’offensiva dell’Afdl anche l’Uganda
e l’Angola intervengono a sostegno dei ribelli, mentre la Francia, ancora sotto shock per
le vicende del conflitto rwandese, non va al di là della fornitura di armi e mezzi ai governativi. Nel corso degli otto mesi della ribellione i militari rwandesi e i guerriglieri
dell’Afdl costringono i profughi rwandesi hutu del 1994 a rientrare in patria, mentre
coloro che si rifiutano o vengono considerati complici delle Far (l’ex esercito rwandese)
e degli Interahamwé (le milizie hutu responsabili del genocidio contro i tutsi nel 1994),
vengono passati per le armi. A causa di ciò e delle privazioni della guerra si calcola che
siano morti 200mila profughi hutu in Zaire.
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La caduta di Mobutu non risolve i problemi dello Zaire, che cambia nome in Repubblica
Democratica del Congo per volontà di Kabila. Per rendersi indipendente dai suoi sponsor rwandesi e ugandesi, nel luglio 1998 il nuovo presidente ordina che tutte le truppe
straniere presenti sul territorio del Congo lascino il paese. Per tutta risposta, il Rwanda
e l’Uganda suscitano una nuova ribellione di banyamulenge e di altri elementi del nuovo
esercito congolese che nel mese di agosto del 1998 occupa gran parte della fascia orientale del paese e tenta la conquista della capitale Kinshasa con un’operazione di truppe
aviotrasportate. Kabila è salvato dall’intervento di forze dall’Angola e dallo Zimbabwe
che tagliano la strada al poco numeroso contingente di ribelli giunti a 30 chilometri
dalla capitale. Inizia così quella che è stata definita la seconda guerra civile congolese,
ma anche la prima guerra mondiale africana. Essa infatti vedrà sul fronte governativo
l’appoggio di truppe provenienti da Angola, Zimbabwe, Ciad e Namibia, e su quello dei
ribelli dell’Rcd (Raggruppamento Congolese per Democrazia) il sostegno delle forze
armate di Rwanda, Uganda e Burundi.
La guerra, ufficialmente chiusa nel dicembre 2002 ma in realtà proseguita fino ai giorni nostri sotto forma di massacri interetnici nelle regioni dell’Ituri, del Kivu e del
Katanga (altro nome restaurato da Kabila dopo la sua ascesa al potere), è stata contrassegnata da varie fasi. Nella prima fase si moltiplicano i gruppi di opposizione:
l’Rcd si scinde fra una tendenza filo-ugandese guidata da Ernest Wamba dia Wamba
e una filo-rwandese guidata da Emile Ilunga; la regione dell’Equateur viene occupata dal Mlc, Movimento per la Liberazione del Congo di Jean-Pierre Bemba, figlio di
un dignitario del tempo di Mobutu, che si allea con le truppe ugandesi. Nascono i
guerriglieri Mai Mai, adepti di riti magici da cui si aspettano l’invulnerabilità, i quali
cambiano spesso alleanza. Questa frammentazione indebolisce il fronte antigovernativo, soprattutto dal momento in cui anche le forze armate di Rwanda e Uganda si
scontrano militarmente nella città di Kisangani (agosto 1999 e maggio 2000) per il
predominio politico e per ragioni di sfruttamento economico; militari e uomini di
affari rwandesi e ugandesi, così come i loro omologhi angolani e zimbabwani nel sudovest, hanno colto l’opportunità dell’occupazione militare per depredare le ricchezze
naturali del Congo: diamanti, oro, legname pregiato.
Nascono allora molte milizie locali su base etnica che, come i Mai Mai, combattono i
rwandesi e gli ugandesi ed i loro alleati congolesi. L’effetto cumulativo dell’intervento
delle forze di quattro paesi al fianco di Kabila, del sorgere di milizie territoriali e delle
divisioni fra i ribelli ed i loro sponsor portano allo stallo delle operazioni militari: dopo
il luglio 1999 il fronte si ferma, un terzo del paese è occupato dalle varie forze antigovernative, il resto da quelle filo-governative. Viene firmato il primo armistizio ed
entra in scena l’Onu, che invia 5.500 caschi blu per la missione Monuc, che dura tuttora e mantiene 10mila effettivi sul terreno, soprattutto nelle regioni nord-orientali.
Una seconda svolta del conflitto interviene a partire dal gennaio 2001, quando
Laurent Kabila viene assassinato da alcune sue guardie del corpo ed il suo posto è
preso dal figlio 30enne Joseph, la cui formazione militare si è tutta compiuta in
Uganda e Rwanda. Joseph Kabila attiva un’offensiva diplomatica che convince
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Rwanda ed Uganda ad impegnarsi formalmente a ritirare le loro truppe (luglio e settembre 2002) e convince pure i leader ribelli a firmare in Sudafrica nel dicembre 2002
un accordo di pace generale che prevede l’introduzione di una Costituzione ad interim, la creazione di un governo provvisorio con Kabila capo dell’esecutivo e quattro
vicepresidenti provenienti due dall’opposizione armata (Jean-Pierre Bemba del Mlc e
Azarias Ruberwa Manywa del Rcd), uno dalle forze filo-presidenziali e uno dall’opposizione pacifica (Arthur Z’ahidi Ngoma), la creazione di un nuovo esercito attraverso disarmo e fusione delle varie forze combattenti e infine libere elezioni nel 2005.
Il 30 giugno 2003 il governo entra in funzione, mentre nella regione dell’Ituri, in
preda ai massacri tribali dopo il ritiro delle forze ugandesi, interviene un corpo di spedizione dell’Unione Europea a guida francese.
La fase successiva è caratterizzata dagli sforzi per la creazione di una forza militare unificata. Anche in questo caso l’approccio di Kabila è stato molto realistico: sono state
create regioni militari a capo delle quali sono collocati ufficiali provenienti da fuori, ma
di fatto il controllo del territorio resta nelle mani delle forze che lo detenevano al
momento della conclusione degli accordi del 2002. Nonostante tutti i progressi degli
ultimi anni, la situazione del paese resta ancora fluida dal punto di vista politico, mentre continuano le violenze fra le milizie hema e quelle lendu attorno a Bunia nell’Ituri e
gli assalti contro i villaggi del Katanga settentrionale ad opera di un altro gruppo di irriducibili; vittime fra la popolazione civile del Kivu sono pure causate da incursioni di
ribelli burundesi in territorio congolese. Nel marzo 2004 il Comitato Internazionale di
Appoggio alla Transizione (Ciat), formato dai cinque paesi membri permanenti del
Consiglio di sicurezza dell’Onu e da Sudafrica, Zambia, Belgio e Canada ha ammonito
il governo provvisorio congolese per i ritardi che il processo di transizione ha già accumulato. Nel giugno 2004 scontri fra ribelli dell’Rcd e forze governative sono ripresi a
Bukaru e Walikale, mentre un colpo di stato veniva sventato a Kinshasa.
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Rwanda
Il Rwanda continua a soffrire oggi le conseguenze della guerra a sfondo etnico culminata nel 1994 col massacro della popolazione
di etnia tutsi (800 mila vittime, fra le quali
anche migliaia di hutu contrari alla politica
del governo di allora) e con la presa del potere da parte del Fronte Patriottico Rwandese
(Fpr), dalle cui file proviene l’attuale presi-
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dente e detentore assoluto del potere, il colonnello Paul Kagame. La tragedia rwandese del 1994 è considerata il terzo genocidio del XX secolo, dopo quelli che hanno
colpito gli armeni per mano dei turchi ai primi del Novecento e gli ebrei per opera
dei nazisti nel corso della Seconda Guerra mondiale.
Il sanguinoso scontro fra le due componenti etniche principali del Rwanda, gli hutu
(85 per cento della popolazione) e i tutsi (14 per cento), è diverso da tutti gli altri conflitti etnici africani tranne quello del Burundi (anch’esso diviso fra hutu e tutsi) per una
serie di ragioni: il Rwanda (insieme al Burundi) è l’unico paese africano dove le due
etnie in conflitto abitano sullo stesso territorio, parlano la stessa lingua, condividono
la stessa religione e addirittura hanno in comune alcuni clan. Ciò dipende dalla storia particolarissima di questo lembo d’Africa: hutu e tutsi si sono incontrati sulle colline di Rwanda e Burundi nel secolo XIV, quando i secondi sono arrivati da nord-est,
scendendo dall’altopiano etiopico. Si è creato allora fra i due gruppi un rapporto di
dipendenza di tipo feudale: i maggioritari hutu, contadini di origine bantù presenti
nella regione già da secoli, si sono sottomessi ai tutsi, pastori guerrieri, in cambio della
loro protezione. Come nell’Europa di Carlo Magno, gli hutu sono diventati i “servi
della gleba” tenuti a pagare tributi ai loro signori, i tutsi si sono identificati nel ruolo
di aristocrazia guerriera, pur senza abbandonare del tutto la pratica della pastorizia.
Quando i colonialisti europei sono arrivati nella regione, alla fine dell’Ottocento, l’attuale Rwanda era stato appena unificato in un unico regno dal re tutsi Kigeri
Rwabugiri. Il paese è prima diventato parte dell’Africa orientale tedesca (1890) e poi
colonia belga (1916) insieme al Burundi. Il Belgio ha governato questo territorio
appoggiandosi fortemente sull’aristocrazia tutsi e sui missionari cattolici, principalmente i Padri Bianchi. Ha mantenuto intatta la struttura socio-politica che vedeva i
tutsi in posizione dominante, affidando a esponenti di questa etnia tutti i posti riservati agli indigeni nell’amministrazione coloniale. Ha ottenuto che i missionari si facessero carico quasi totalmente dei servizi sociali (scuole, ospedali e perfino il servizio
postale) in cambio dell’appoggio dell’amministrazione coloniale alle attività di evangelizzazione.
Anche i missionari hanno inizialmente riservato attenzioni particolari ai tutsi, considerati l’etnia dominante da cui non si poteva prescindere. Tuttavia le scuole ed i seminari erano aperti ai membri di entrambe le etnie, e questo ha permesso agli hutu di
iniziare la loro scalata sociale, anche se il numero degli studenti e dei seminaristi tutsi
è sempre stato superiore. Negli anni Cinquanta sia la Chiesa che l’amministrazione
coloniale hanno cambiato radicalmente il loro atteggiamento nei confronti della questione etnica rwandese: dall’accettazione del diseguale ordine feudale sono passate
alla promozione della piena integrazione fra le due etnie, in vista di un assetto democratico del Rwanda avviato all’indipendenza. Hanno creduto che gli hutu e i tutsi scolarizzati avrebbero dato vita ad una classe media interetnica e ad un partito politico
misto interclassista, ma l’aspettativa si è rivelata ingenua, dopo mezzo secolo di politiche fondate sull’etnicità. Sono nati così il Parmehutu, partito per l’emancipazione
degli hutu, e l’Unar, filo-monarchico e tutsi. Nel novembre 1959 una rivolta di conta-
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dini hutu capeggiata dal Parmehutu dava l’avvio alla rivoluzione, che si sarebbe conclusa con l’indipendenza del paese dal Belgio, l’esilio della famiglia reale e la fuga in
Burundi e in Uganda di migliaia di tutsi. Primo presidente del paese era così l’hutu
Gregoire Kayibanda, originario del sud del paese, già caporedattore del famoso settimanale cattolico Kinyamateka. Negli anni immediatamente successivi i tentativi dei
fuoriusciti tutsi di riprendere il potere causavano vendette sulla popolazione della
stessa etnia, in particolare nel 1963. Nel 1973 un colpo di Stato deponeva Kayibanda
e portava al potere Juvenal Habyarimana, esponente degli hutu del nord che istituiva il partito unico Mrnd (Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo Sviluppo). Le
condizioni della minoranza tutsi miglioravano, ma solo all’interno di un rigido sistema di quote, in base a cui ad essi spettavano il 14 per cento dei posti nella funzione
pubblica e agli hutu l’85 per cento.
Intanto in Uganda una nuova generazione di profughi tutsi decideva di organizzarsi
politicamente e militarmente nel Fronte patriottico rwandese (Fpr), all’interno del
quale veniva fatto spazio anche a hutu del sud esuli dopo il golpe nordista del ’73.
Molti di loro si erano formati alla scuola della guerriglia del futuro presidente ugandese Yoweri Museveni, che col suo National Resistance Army (Nra) si era dato alla
lotta armata dopo le elezioni ugandesi vinte con la frode da Milton Obote nel 1980
e poi nel gennaio 1986 aveva conquistato il potere. L’Fpr passa all’azione nell’ottobre
1990, invadendo il Rwanda con una forza fra i 5 e i 10 mila uomini. Occupa parte
delle due province settentrionali, ma viene fermato e il suo leader Fred Rwigyema
muore in combattimento a causa dell’intervento di francesi, belgi e zairesi a fianco
dell’esercito rwandese. Cominciano i negoziati fra le parti, che hanno importanti
riflessi sulla vita politica rwandese. Habyarimana, pressato dagli oppositori interni e
dagli alleati internazionali, concede il multipartitismo e cambia nome al suo partito,
che si trasforma in Mrndd, Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e
lo Sviluppo. Nell’agosto 1993, quando gli scontri armati hanno ormai causato un
milione di sfollati, il governo rwandese e l’Fpr pervengono infine ad un accordo che
viene sottoscritto ad Arusha, in Tanzania. Si stabilisce di creare un governo di unità
nazionale comprendente Mrndd, Fpr e partiti dell’opposizione interna, di formare un
nuovo esercito nazionale composto per il 60 per cento di militari delle Far (Forza
armate rwandesi governative) e per il 40 per cento di combattenti dell’Fpr e di accettare il ritorno in patria dei profughi tutsi degli anni Sessanta e dei loro discendenti.
L’Onu invia i suoi caschi blu per favorire il processo di pacificazione. Ma la situazione precipita la sera del 6 aprile 1994: l’aereo su cui viaggia il presidente Habyarimana,
di ritorno da una missione all’estero, viene abbattuto mentre atterra all’aeroporto di
Kigali. A tutt’oggi gli autori dell’attentato restano sconosciuti. Poche ore dopo parte la
caccia all’uomo condotta dagli Interahamwé, milizie hutu armate, e dagli stessi reparti dell’esercito: nel giro di tre mesi, fra l’aprile e il luglio del 1994 vengono massacrate con tutte le armi, dai machete alle armi da fuoco, 800mila persone, in larghissima
maggioranza tutsi ma anche un certo numero di oppositori hutu. La strage tuttavia
non ferma l’avanzata dell’Fpr che, riprese le armi, sconfigge rapidamente l’esercito
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rwandese, non più supportato da alleati internazionali: il 18 luglio la guerra finisce
con la vittoria completa dei ribelli, mentre i resti delle Far e delle milizie responsabili del genocidio si rifugiano nel confinante Zaire (oggi Repubblica Democratica del
Congo), dove fuggono anche 2 milioni di profughi hutu.
I campi profughi degli hutu rwandesi in Zaire cadono rapidamente sotto il controllo
degli estremisti, che intendono usarli come basi per attaccare il nuovo governo rwandese. Ma le forze di Paul Kagame, nel frattempo nominato vicepresidente del Rwanda,
anticipano i disegni degli ex governativi hutu: nell’ottobre 1996 entrano in territorio
zairese, smantellano i campi profughi costringendo i loro residenti a tornare in patria
e sgominano le forze hutu che si stavano ricostituendo. Le nuove autorità rwandesi
suscitano e appoggiano anche una ribellione locale, capeggiata da un guerrigliero dei
tempi di Patrice Lumumba (anni Sessanta), Joseph Kabila. Grazie al sostegno delle
forze armate rwandesi ed ugandesi e di vari milizie tribali Kabila riesce nella primavera del 1997 a deporre il presidente Mobutu Sese Seko, al potere dal 1965. Nel
corso della guerra i rwandesi uccidono molti profughi hutu che si rifiutavano di rientrare in Rwanda e si nascondevano sempre più in profondità in territorio zairese: il
nuovo governo di Kabila impedirà alle Nazioni Unite di fare luce sulla vicenda, ma
varie stime fissano ad almeno 50 mila il numero delle vittime passate per le armi, più
altri 100-150 mila morti per malattie e stenti.
Nel 1998, insoddisfatto delle politiche del presidente Kabila, il Rwanda suscita una
nuova rivolta in quella che è divenuta la Repubblica Democratica del Congo. Ma stavolta l’intervento si trasforma in una guerra internazionale dove, accanto alle forze
governative e antigovernative congolesi, si schierano gli eserciti di sei paesi africani:
Angola, Zimbabwe e Namibia dalla parte di Kabila; Rwanda, Burundi e Uganda dalla
parte dei nuovi ribelli. Da questo conflitto il Rwanda si è ritirato nel luglio 2002, firmando un accordo di pace col successore di Laurent Kabila, il figlio di costui Joseph.
Nel frattempo Kagame era diventato presidente (2000), sostituendo il dimissionario
Pasteur Bizimungu, hutu, non più disposto a fungere da copertura ad un assetto di
governo che vede esponenti tutsi in tutti i posti chiave. Kagame ha formalizzato la sua
posizione con le elezioni presidenziali dell’agosto 2003 e parlamentari dell’ottobre
successivo, giudicate irregolari dagli osservatori dell’Unione Europea.
La guerra contro gli estremisti hutu continua, con nuovi successi per l’Fpr: il 16
novembre 2003 ha deposto le armi Paul Rwarakabije, leader di primo piano delle
Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda (Fdlr), la principale forza armata dell’opposizione hutu, stimata fra le 15 mila e le 30 mila unità. Solo alcune centinaia di
miliziani, però, hanno seguito l’esempio di Rwarakabije. Nel giugno scorso l’ex presidente Bizimungu è stato condannato a 15 anni di carcere per incitamento alla disobbedienza civile con un processo farsa.
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Sierra Leone
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La guerra civile della Sierra Leone si è conclusa nel gennaio 2002 col disarmo di
45mila armati di tutti i gruppi combattenti,
dopo 11 anni di violenze che hanno causato
50 mila morti, distrutto gran parte della
capitale Freetown e delle località dell’interno
e lasciato più di 10mila persone mutilate agli
arti superiori. Fino al 1991 la Sierra Leone aveva conosciuto colpi di Stato, ma mai la
guerra civile. A far degenerare la situazione è stata l’estrema fragilità dell’apparato statale. Trent’anni di indipendenza non avevano infatti saputo realizzare una governabilità del paese, per la quale sarebbe stato necessario il superamento della sua dicotomia originaria fra i creoli della capitale Freetown e la popolazione indigena dell’interno. La Sierra Leone, infatti, è nata ufficialmente nel 1799 come colonia britannica di
schiavi liberati provenienti da tutta l’Africa, per i quali venne addirittura creata, nel
1827, la prima università dell’Africa Sub-Sahariana. Nel 1896 il protettorato britannico viene esteso ai territori dell’interno, e nasce la Sierra Leone attuale, ma non avviene nessuna integrazione sociale e politica fra i gruppi umani dei nuovi territori e quelli insediati già da un secolo sulla costa. Da quel momento la Sierra Leone sarà sempre una miscela irrisolta di africani europeizzati e di africani che restano legati al loro
mondo tradizionale. La vita politica della Sierra Leone risentirà permanentemente di
questo dualismo: un gruppo di popolazione familiare col sistema della democrazia
liberale ma minoritario, dunque strutturalmente impossibilitato a coagulare un consenso democratico; un gruppo di popolazione maggioritario ma estraneo alla politica
moderna, i cui leader sono interessati solo a prebende personali che si traducono nell’emarginazione del gruppo sociale dai vantaggi della modernità.
Dopo l’indipendenza del 1961 si susseguono perciò anni di vita politica confusa, con
elezioni segnate da violenze e brogli e successivi colpi di Stato militari, fino a quando Siaka Stevens, salito al potere una prima volta nel 1967, instaura nel 1978 il
sistema a partito unico dell’Apc, il “Congresso di tutto il popolo” (All People’s
Congress). Quando l’anziano Stevens si ritira nel 1985 il suo posto viene preso dal
generale Joseph Momoh. In tutti questi anni il paese viene governato come una periferia di Freetown; sul potere si esercita l’egemonia delle élites anglicizzate, che si limitano a sfruttare le ricchezze minerarie del paese (diamanti, bauxite) d’intesa con compagnie minerarie anglosassoni e commercianti libanesi a fini di arricchimento personale.
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A causare il tracollo di un sistema già in crisi è la guerra civile nella confinante Liberia
a metà degli anni Ottanta: finanziato e armato dalla Libia e dal Burkina Faso, il Fronte
patriottico di liberazione nazionale (Npfl) di Charles Taylor, che sarebbe poi diventato per alcuni anni capo dello Stato, sfida il potere di Samuel Doe, dittatore di un regime filo-occidentale. Momoh, che ha compreso il disegno politico-strategico che sta dietro la ribellione, provvede a fornire un limitato aiuto al presidente liberiano in carica,
che sarebbe stato poi ucciso dai ribelli. Ciò precipita l’attuazione di quello che probabilmente era un disegno già prefissato: nel 1991 Libia e Npfl appoggiano finanziariamente e con rifornimenti di armi l’insurrezione di un oscuro gruppo ribelle sierraleonese, il Ruf (Fronte unito rivoluzionario) di Foday Sankoh, un ex caporale dell’esercito.
Per fare fronte alla guerra la Sierra Leone si trova nella necessità di aumentare gli effettivi del suo piccolo esercito (meno di 5 mila uomini), mantenuto fino a quel momento sottodimensionato per evitare nuovi colpi di stato militari. Momoh raddoppia la sua
taglia reclutando negli strati più bassi del sottoproletariato urbano, e con questa scelta
compromette il proprio destino e quello del paese: nell’aprile 1992 i soldati si ammutinano per le paghe troppo basse e la protesta si trasforma in golpe. Il potere passa nelle
mani di un capitano di 27 anni, Valentine Strasser. La situazione militare precipita: il
Ruf procede con tattiche terroristiche e guadagna rapidamente terreno; nelle regioni
attaccate dalla guerriglia i villaggi sono distrutti, gli adulti torturati con amputazioni di
mani, piedi, labbra e orecchie, i bambini rapiti e trasformati in guerriglieri attraverso
un condizionamento psicologico che fa ricorso a violenze fisiche e psicologiche e alle
droghe; centinaia di migliaia di persone diventano profughi o sfollati. Nel 1994 i ribelli occupano le regioni minerarie del paese e l’economia nazionale resta paralizzata. Il
governo reagisce istituendo milizie tribali sotto il nome di Forza di difesa civile (Cdf)
e chiedendo aiuto ai paesi vicini. Le milizie tribali (la più agguerrita di esse è quella dei
kamajor, cacciatori di etnia mende, istituita dal ministro degli interni Samuel Hinga
Norman) adottano presto metodi simili a quelli della guerriglia, arruolando bambini e
minorenni nelle loro file e compiendo violenze sulla popolazione civile. I paesi vicini
inviano alcuni contingenti militari sotto la sigla Ecomog (gruppo di monitoraggio della
Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), ma per riconquistare le regioni minerarie il governo si affida ai mercenari di Executive Outcomes, una società sudafricana cui vengono attribuite concessioni minerarie.
Nel 1996 si svolgono, nonostante le violenze della guerriglia, le prime elezioni libere
e pluraliste della Sierra Leone dopo 27 anni; diventa presidente Ahmad Tejan
Kabbah, che in novembre firma la pace col Ruf. L’accordo, però, regge solo pochi
mesi, dopodiché un nuovo golpe militare crea una situazione inedita: il maggiore
Johnny Paul Koroma invita il Ruf a entrare a far parte del nuovo governo insieme ai
militari dell’Afrc, autonominato Consiglio di governo delle forze armate. Il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite impone sanzioni contro il nuovo regime, le cui forze
nel febbraio 1998 sono costrette ad abbandonare Freetown davanti ad un’offensiva
delle truppe dell’Ecomog, rappresentate per l’80% da reparti dell’esercito nigeriano.
Kabbah viene reinsediato, e l’esercito sierraleonese ufficialmente sciolto, ma nell’en-
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troterra i ribelli ed i militari rinnegati si riorganizzano. Nel gennaio 1999 scatenano
la più sanguinosa offensiva di tutta la guerra, quella che provoca la distruzione di gran
parte della capitale e la morte di quasi 6 mila persone, in buona parte dovute all’uso
indiscriminato delle armi pesanti da parte dei soldati nigeriani. Diventa giocoforza
concludere un accordo coi ribelli: con la mediazione del Consiglio interreligioso della
Sierra Leone, viene firmata a Lomé (Togo) nel luglio 1999 la pace che concede ai guerriglieri del Ruf e ai militari rinnegati dell’Afrc numerosi posti nel nuovo governo,
un’amnistia generale per i crimini commessi e la liberazione del loro leader Foday
Sankoh, arrestato tre anni prima in Nigeria. Contestualmente, viene inaugurata la
missione dei caschi blu dell’Onu, incaricati del disarmo di tutte le fazioni in lotta e di
sostituire le truppe dell’Ecomog. Ma il Ruf si rimangia gli impegni presi in materia di
disarmo, prima attacca le truppe dell’Ecomog ancora sul posto poi dà il via ad una
campagna di rapimenti dei caschi blu, alcuni dei quali vengono assassinati. Nel maggio 2000, i ribelli sono nuovamente alle porte di Freetown, ma stavolta si trovano di
fronte, oltre ai caschi blu della missione Unamsil, un contingente di 800 parà britannici. Foday Sankoh viene nuovamente arrestato e si creano le condizioni per la resa
dei ribelli. Nel marzo 2001 i caschi blu possono finalmente dispiegarsi nel territorio
e avviare il disarmo delle varie milizie. Dopo la fine ufficiale della guerra, nel maggio
2002 Kabbah è riconfermato presidente ed il suo partito conquista la maggioranza in
parlamento. Le truppe britanniche se ne vanno e lasciano il paese nelle mani di 17
mila caschi blu, ancora oggi presenti sul posto dopo vari rinnovi della loro missione.
In Sierra Leone opera anche una corte di giustizia istituita dall’Onu e riconosciuta
dalla legislazione nazionale che si occupa dei crimini commessi durante la guerra.
Anche esponenti filogovernativi, come l’ex ministro Sam Hinga Norman, sono attualmente sottoposti a processo da questa corte per gravi violazioni dei diritti umani.
Sudan
itascabili
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La pace nel Sud Sudan non è mai stata così
vicina come dopo la firma degli accordi di
pace fra il governo di Khartoum e i ribelli
dell’Spla (Esercito Popolare di liberazione del
Sudan) il 26 maggio scorso a Naivasha in
Kenya. Ma è diventata precaria nel nord, dove
un’insurrezione nella regione del Darfur è stata
repressa nel sangue. Fra il dicembre 2003 ed il
maggio 2004 l’Spla e il governo di Khartoum,
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
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in lotta fra loro da più di vent’anni, hanno raggiunto una serie di accordi che in diciassette
anni prima di contatti (1986) e poi di negoziati veri e propri (dal 2000) erano sempre mancati.
Oppositori e governo hanno convenuto di creare un nuovo esercito nazionale composto da 39 mila uomini dell’una e dell’altra parte; di istituire un governo autonomo per
la regione meridionale del paese, dove dopo sei anni si terrà un referendum col quale la
popolazione locale deciderà se continuare a far parte del Sudan o creare uno stato indipendente; di limitare al nord del paese l’applicazione della sharia, cioè il codice penale
di derivazione coranica; di spartire al 50 per cento le entrate ricavate dalle esportazioni
di petrolio che sono state da poco avviate e che si amplieranno grazie alla fine dei combattimenti, mentre altri accordi sono stati raggiunti per quel che riguarda le risorse non
petrolifere; di assegnare il 70% dei posti del governo centrale alle forze dell’attuale
governo e il 30% agli ex ribelli; di assegnare al governo il 55% dei posti nelle regioni
contese di Abyei, Monti Nuba e Nilo Azzurro e il 45% agli ex ribelli.
Nei 48 anni della sua storia (è diventato indipendente nel 1956) il Sudan ha conosciuto la pace soltanto fra il 1972 e il 1983; le operazioni militari nel sud ed in alcune aree centrali del paese hanno causato oltre 3 milioni di vittime in parte per le violenze della guerra e in parte per le carestie e le epidemie causate dalla stessa, mentre
2 milioni di profughi si sono trasferiti nel nord, alla periferia della capitale Khartoum.
Le radici dell’interminabile conflitto per la fine del quale si comincia a nutrire un po’
di speranza affondano nella storia di quello che è il paese più esteso di tutta l’Africa,
ma anche uno dei più improbabili. Il Sudan non è mai esistito fino al 1898, quando
fu costituito come “condominio anglo-egiziano”. Fino a quel momento il Sudan era
stato semplicemente una sterminata regione divisa in due parti all’altezza del 12°
parallelo: a nord di esso e fino al confine con l’Egitto si stendevano piccoli sceiccati
governati dai discendenti dei conquistatori turchi (e prima di loro arabi), a sud di esso
si stendevano territori di difficile accesso abitati da tribù nilotiche africane. Dunque
al nord turco-arabi di religione musulmana, a sud neri africani di religione animista.
Da sempre il sud ha rappresentato l’area per il rifornimento di schiavi alle popolazioni musulmane vicine. Arabi, turchi e mamelucchi egiziani si sono contesi per secoli il
Sudan settentrionale perché rappresentava la chiave di accesso al grande bacino di
rifornimento degli schiavisti e al controllo delle rotte terrestri della tratta schiavista.
Con l’ingresso dell’amministrazione coloniale britannica è iniziata una seria lotta allo schiavismo, ma solo al prezzo di impermeabilizzare le due aree che componevano il Sudan. Le
regioni del sud furono amministrate come “distretti chiusi” nei quali gli arabi e i turchi non
potevano entrare, ma dai quali nemmeno i neri potevano uscire. Solo i missionari cristiani,
cattolici e protestanti, erano autorizzati ad entrare e stanziarsi in quelle terre.
Nel 1946 gli inglesi decisero di avviare il processo di indipendenza del Sudan come
uno stato unico. Esclusero l’ipotesi di congiungerlo all’Egitto, come pure quella di
fondere il sud, in tutto o in parte, con l’Uganda, oppure di riconoscere al sud l’indipendenza come stato distinto dal nord. Giudicavano che il sud non fosse in grado di
governarsi da sé e allo stesso tempo desideravano instaurare buoni rapporti col gover-
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no arabo-musulmano che si sarebbe insediato a Khartoum. Anche i rappresentanti del
sud si dichiararono favorevoli all’unità col nord nella conferenza di Juba del 1947, a
condizione che la regione fosse aiutata con un programma speciale. Quando nel 1955
il parlamento provvisorio sudanese votò per l’indipendenza immediata, i rappresentanti del sud si associarono in cambio della promessa di un assetto federale dello
stato. Invece nel 1956, all’atto dell’indipendenza, dalla Costituzione venne eliminato
il comma che autorizzava il sud ad optare per un assetto federale. In realtà sin dal
1946 pubblici ufficiali, mercanti ed insegnanti arabi del nord avevano cominciato ad
insediarsi nel sud col chiaro intento di arabizzare ed islamizzare tutta la regione per
assimilarla al nord. Questo portò nel 1955 ad un’insurrezione di soldati sudisti che
fece 400 morti e provocò una repressione che fece altrettante vittime. Nel 1958 un
golpe portò al potere il generale Abbud, che iniziò la prima grande persecuzione contro i cristiani del sud. Con lui si ha il primo tentativo di imporre la sharia alle popolazioni non musulmane del sud. Le scuole pubbliche furono interamente arabizzate e
quelle cristiane nazionalizzate, in ogni villaggio fu costruita una moschea. Nel 1962
venne emesso il Missionary Societies Act, che limitava fortemente l’attività dei missionari cristiani. Ma la persecuzione causò la più grande ondata di conversioni al cristianesimo della storia del Sudan, dove oggi si contano 3 milioni e mezzo di cristiani
(circa il 10 per cento della popolazione). Nel 1963 i sudisti iniziarono la lotta armata contro il nord sotto il nome Anyanya. La guerra durò fino al 1972, quando a
Khartoum andò al potere Giafar Nimeiry, che concluse coi ribelli la pace di Addis
Abeba, in base alla quale il governo riconosceva al sud uno statuto di autonomia e ne
rispettava l’identità culturale e la libertà religiosa. Ma gli impegni non vennero rispettati, fino al punto che nel settembre del 1983 Nimeiry in crisi di consenso promulgò,
per ingraziarsi gli estremisti islamici nel nord, un codice penale fondato sulla sharia
che sarebbe stato applicato anche nel sud. Lì nel mese di giugno era iniziata una
nuova ribellione, promossa dall’Spla di John Garang, appoggiata dall’Etiopia comunista di Menghistu. L’ Spla aveva in programma non l’autonomia del sud, ma uno
stato laico e socialista in tutto il paese, e inizialmente perseguitò i missionari cristiani
nel sud. Solo poco a poco avvenne un riavvicinamento fra le Chiese cristiane, che
accanto ai missionari contavano un numero sempre maggiore di sacerdoti locali, e la
nuova guerriglia. Per molti aspetti, si può affermare che nei vent’anni della guerra la
popolazione del sud del Sudan si è trovata in ostaggio di due eserciti per nulla rispettosi della vita, dei beni e dei diritti umani dei civili. L’ Spla, dominato da comandanti di etnia dinka, negli anni ha conosciuto una diaspora di gruppi minori di diversa
etnia (nuer, shilluk, ecc.) che si sono staccati dall’organizzazione e in alcuni casi hanno
firmato accordi di pace separati con Khartoum.
A partire dal 1989 i ribelli del sud non hanno più avuto a che fare con la tradizionale classe politica del nord, ma con una giunta militare appoggiata dagli estremisti
musulmani del Fni, il Fronte Nazionale Islamico del fondamentalista Hassan el
Turabi. Il generale Omar el Bashir ha sciolto tutti i partiti, ma si è circondato per
molto tempo di uomini del Fni e a partire dal 1991 ha introdotto nuovamente la sha-
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ria, sospesa dopo la caduta di Nimeiry. Si è avvantaggiato così di aiuti iraniani e sauditi (Osama Bin Laden ha vissuto in Sudan fra il 1992 e il 1996) che gli hanno permesso di scatenare importanti offensive nel sud.
L’ alleanza con gli islamici estremisti ha però causato diversi effetti negativi per il
governo del Sudan: Uganda, Etiopia ed Eritrea hanno intensificato il sostegno ai ribelli, e gruppi armati sono apparsi pure fra le etnie musulmane del nord, dando vita
all’Alleanza Democratica Nazionale (Nda) che dalla fine del 1994 ha riunito oppositori del nord e del sud; dal 1993 il Sudan è entrato nella lista dei “paesi terroristi” del
Dipartimento di Stato Usa. Il cammino del governo di Khartoum verso una soluzione negoziata del conflitto si è rivelato particolarmente tortuoso, soprattutto dopo la
rottura fra Turabi e Bashir nel 1999, l’arresto del leader islamico nel febbraio del 2001
e la sua liberazione nell’ottobre del 2003.
La recente accelerazione del processo di pace è stata preceduta dal primo incontro faccia a faccia fra Garang e Bashir nel luglio del 2002 e da un armistizio fra le parti nell’ottobre successivo. A facilitare le cose hanno contribuito soprattutto considerazioni
relative allo sfruttamento del petrolio, di cui il centro e il sud del paese sono ricchi (si
calcola una produzione di 400mila barili al giorno a partire dal 2007, per un valore
fra i 3 ed i 4 miliardi di dollari all’anno); senza un accordo generale di pace nessuna
delle due parti potrà mai accedere a questi benefici.
Mentre un conflitto sembra potersi chiudere, un altro pare essere al suo culmine: la
repressione dell’insurrezione delle popolazioni africane di religione musulmana del
Darfur ha causato 10 mila morti e un milione di sfollati, vittime di carestie e angherie delle milizie arabe.
Uganda
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La crudele guerriglia dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra nell’acronimo inglese, che
sta per Lord’s Resistance Army) che da 17 anni
imperversa nell’Uganda settentrionale nei
distretti di Gulu, Kitgum e Pader, affonda le
sue radici negli avvenimenti che hanno
caratterizzato la storia politica dell’Uganda
dopo l’indipendenza del paese dalla corona britannica nel 1962. Gli inglesi affidarono il potere ad una diarchia che poteva, secondo loro, garantire gli equilibri regionali ed etnici ugandesi: Mutesa, re dei baganda, la principale etnia del sud, ebbe la carica di presidente, mentre Milton Obote, politico del nord di etnia lango, fu il suo
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primo ministro. Invece già nel 1966 Obote accentra le due cariche su di sé e costringe Mutesa alla fuga. Tutto il potere politico e militare viene concentrato nelle mani
delle etnie del nord. Nel 1971 un militare mahdi (etnia del nord-ovest), Idi Amin,
depone Obote con un colpo di stato. Seguono anni di terrore durante i quali tutti i
gruppi di popolazione del paese soffrono (alle brutalità del dittatore ugandese è attribuita l’uccisione di 300mila persone). Nel 1979 l’esercito della Tanzania, aggredita da
Amin, insieme ad oppositori armati ugandesi contrattacca e sconfigge le forze governative. Dopo una serie di governi di transizione, colpi di stato ed elezioni dominate da brogli Milton Obote torna al potere (1980) con il consueto appoggio delle altre etnie del
nord, ad esclusione dei mahdi di Idi Amin. In quel periodo ai vertici dell’esercito (ribattezzato Esercito di Liberazione Nazionale dell’Uganda, Unla nell’acronimo inglese) ci
sono due ufficiali di etnia acholi, Tito Okello e Basilio Okello, così come acholi sono la
maggior parte dei soldati semplici. L’opposizione, forte soprattutto nella regione centrale
del paese nel cosiddetto “triangolo di Lwero”, viene repressa sanguinosamente come ai
tempi di Idi Amin, ma l’Esercito di resistenza nazionale (Nra) creato da Yoweri Museveni
all’indomani delle elezioni truccate del 1980 continua a conquistare posizioni. Con un
golpe Tito Okello si impadronisce del potere nel luglio 1985, ma ormai è troppo tardi: la
guerriglia di Museveni, composta principalmente di elementi etnici del sud e di rifugiati
rwandesi di etnia tutsi, conquista la capitale Kampala nel gennaio 1986. Le truppe in rotta
dell’Unla riparano in territorio acholi e si ricostituiscono come Esercito democratico del
popolo ugandese (Upda nell’acronimo inglese), ma la loro inferiorità di fronte all’Nra è
ormai evidente. È in questa situazione di demoralizzazione, disarticolazione istituzionale
e crisi culturale del popolo acholi che prendono corpo i primi movimenti politico-religiosi millenaristi, incentrati su dottrine che mescolano elementi della religione tradizionale
africana (soprattutto con riferimento al mondo degli spiriti) con simboli, riti e appellativi
cristiani allo scopo di accumulare poteri soprannaturali. Inizialmente il più famoso di essi
è il Movimento dello Spirito Santo/Esercito dello Spirito Santo (Hsm/Hsa) di Alice
Lakwena, una medium acholi che si propone la restaurazione morale del popolo acholi e
la sua organizzazione in una forza militare dotata di poteri soprannaturali: invulnerabilità,
sabotaggio delle armi dei nemici per via rituale, azione degli spiriti, anche attraverso animali, a vantaggio dell’Hsa. Questi poteri si materializzavano per coloro che rispettavano
scrupolosamente una serie di precetti che comprendeva i Dieci comandamenti biblici ed
altre prescrizioni rituali, in parte tradizionali e in parte innovative. Anche elementi
dell’Upda si uniscono alla guerriglia dell’Hsa. Dopo alcuni successi iniziali, l’Hsa viene sgominato dalle forze dell’Nra nel 1987 e la Lakwena si rifugia in Kenya. Sorge allora il Lord
Resistence Army (Lra) di Joseph Kony, un parente di Alice Lakwena originario di un villaggio nei pressi di Gulu. Questa organizzazione si mostrerà molto più difficile da contrastare per le forze governative.
A partire dai primi anni Novanta l’Lra ha ricevuto assistenza dalle forze armate sudanesi, come forma di rappresaglia per l’aiuto fornito dall’Uganda all’Esercito popolare
per la liberazione del Sudan (Spla), cioè la principale formazione anti-governativa del
Sud Sudan. Le basi strategiche di Kony sono state insediate in territorio sudanese,
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Si stima che finora la guerra civile in Uganda abbia provocato circa 100.000 vittime
e 1.500.000 sfollati. Il dialogo tra il governo ugandese e i ribelli di Kony sembra ancora solo un miraggio, mentre non si fermano gli attacchi dei ribelli, con pesanti conseguenze soprattutto per le popolazioni civili del nord del paese.
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nella regione dell’Equatoria orientale, e da esse partivano le incursioni in territorio
ugandese. Incapace di garantire la difesa del territorio da questi assalti, a partire dal
1996 il governo ugandese ha creato i cosiddetti “villaggi protetti”, cioè campi di raccolta in cui ha concentrato, in condizioni spesso penose, gli abitanti delle zone oggetto di attacchi. Fra il 1996 ed il 2000 in questi campi sono state raccolte circa 400 mila
persone. Nel 1999 Sudan e Uganda hanno concordato di cessare ogni sostegno ai
rispettivi gruppi armati di opposizione, ma l’impegno non ha avuto effettiva applicazione fino al marzo 2002, quando il governo sudanese ha autorizzato quello ugandese a inviare truppe sul suo territorio per smantellare le basi della guerriglia. Tuttavia
l’operazione Iron Fist, condotta da 10mila unità delle Forze di difesa del popolo ugandese (Updf, nuovo nome dell’esercito ugandese a partire dal 1995) non ottiene l’esito sperato: la maggior parte dei guerriglieri aggira i militari ugandesi entrati in territorio sudanese e sposta le sue basi all’interno dell’Uganda. Iron Fist ha permesso la
liberazione di 2.000 minorenni rapiti dalla guerriglia, ma nel frattempo l’Lra ne ha
rapiti altri 5 mila. A causa degli attacchi in territorio ugandese il governo ha aumentato ulteriormente il numero di persone concentrate nei “villaggi protetti”, che sono
ormai diventate 800 mila su di una popolazione totale di 1 milione e 100 mila persone nei tre distretti acholi. Nella seconda metà del 2002 e per tutto il 2003 i guerriglieri hanno ripreso a muoversi attraverso il confine tra Uganda e Sudan, potendo
ancora usufruire di aiuti e appoggi nel territorio del Sudan. I loro raid avvengono
sempre più in profondità verso est e verso sud, a causa del fatto che il concentramento della popolazione nei “villaggi protetti” li costringe a cercare nuove aree e nuovi
obiettivi per le loro razzie. A partire dalla metà del 2002 il governo ugandese, anche
su pressione dei leader religiosi locali, ha aperto le porte in linea di principio ad un
negoziato con l’Lra (fino ad allora sempre escluso), ma non ci sono mai stati incontri
diretti fra le due parti.
Anche l’Lra, come l’Hsm che lo ha preceduto a metà degli anni Ottanta, dichiara
obiettivi di palingenesi sociale ed un programma messianico: purificare il popolo
acholi, abbattere il potere dell’ateo Museveni e governare l’Uganda sulla base dei Dieci
comandamenti; anch’esso promette l’invulnerabilità a chi rispetta un codice di condotta e disgrazie punitive a chi lo trasgredisce. Nei fatti, dalle origini fino ad oggi l’Lra
si è accanito soprattutto sugli acholi con distruzioni e razzie nei villaggi, rapimenti di
bambini e ragazze, torture e violenze contro i civili.
Si calcola che nei suoi diciassette anni di esistenza l’Lra abbia rapito 20 mila minorenni, maschi e femmine, per farne combattenti, portatori e schiave sessuali. Dei 4 mila
effettivi che gli sono attribuiti, solo qualche centinaio sono adulti, essendo tutti gli
altri minorenni costretti a combattere per mezzo di violenze fisiche e psicologiche.
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Foto di Silvia Morara
A L C U N E T E S TIMONI A N Z E
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VOCI CORAGGIOSE
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Voci coraggiose:
alcune testimonianze
a cura di Martino Chieffo
Le iniziative e gli interventi intrapresi nei Paesi africani più duramente colpiti da conflitti sono numerosi e di vario tipo. Essi mirano soprattutto ad alleviare l’impatto delle
tensioni sulla società civile e a creare un contesto in cui il ritorno ad una situazione
di pace sia maggiormente probabile.
Missionari, volontari, giornalisti e ragazzini rapiti.
Cosa hanno in comune?
I loro occhi hanno visto l’orrore della guerra.
Dal continente africano ci giungono racconti che testimoniano la gravità di alcune
situazioni e l’impegno profondo di missionari e volontari a favore della popolazione.
Ascoltiamo le loro voci coraggiose, grati per i loro racconti. Grati a loro che hanno
visto con i propri occhi la guerra o i suoi effetti devastanti, e hanno il coraggio di
ricordare.
Si badi che non si tratta di voci che alimentano l’odio, ma piuttosto di voci che commuovono per la semplicità e per il coraggio non appena di combattere l’odio con l’amore, ma di educare all’amore. L’ amore alla persona, all’altro, all’essere umano in
qualunque condizione si trovi.
Sono storie di persone che hanno deciso di educare alla pace: “Costruttori della civiltà
dell’amore”1. Questo è ciò che hanno veramente in comune.
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1
Giovanni Paolo II, Angelus - 28 marzo 2004.
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Giovanni Paolo II
Angelus
V Domenica di Quaresima, 28 marzo 2004
2
1. Nel Messaggio quaresimale di quest’anno ho invitato a porre i bambini al centro dell’attenzione delle comunità cristiane. Molti di loro sono vittime di gravi malattie,
comprese la tubercolosi e l’Aids, mancano di istruzione e soffrono la fame.
Denutrizione e malnutrizione, aggravate da preoccupanti carenze sanitarie, continuano ad essere causa quotidiana di morte per non pochi di questi piccoli, privi
persino del minimo indispensabile per sopravvivere.
2. In alcuni angoli della terra, specialmente nei paesi più poveri, ci sono bambini e
adolescenti vittime di un’orribile forma di violenza: vengono arruolati per combattere nei cosiddetti “conflitti dimenticati”. Subiscono di fatto una duplice scandalosa aggressione: li si rende vittime e al tempo stesso protagonisti della guerra, travolgendoli nell’odio degli adulti. Privati di tutto, vedono il loro futuro minacciato da
un incubo difficile da allontanare.
3. Questi nostri fratelli più piccoli, che soffrono per la fame, la guerra e le malattie,
lanciano al mondo degli adulti un angosciante appello. Che il loro muto grido di
dolore non resti inascoltato! Ci ricorda Gesù: “Chi accoglie anche uno solo di questi
bambini, accoglie me” (Mt 18,5).
Il tempo quaresimale spinge i cristiani ad un’accoglienza più generosa di queste parole evangeliche, per tradurle in interventi coraggiosi a favore dell’infanzia a rischio e
abbandonata.
La Vergine Madre di Dio aiuti i bambini in difficoltà e renda fruttuosi gli sforzi di
quanti con amore cercano di alleviarne le sofferenze.
2
Numerosi sono gli interventi del Pontefice sull’Africa e i conflitti dimenticati, abbiamo scelto questo particolarmente significativo
nel decimo anniversario del terribile genocidio in Rwanda.
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Sono trascorsi dieci anni da quando, il 7 aprile 1994, in Rwanda scoppiarono gravi
scontri tra hutu e tutsi, culminati nel genocidio, in cui vennero barbaramente uccise
centinaia di migliaia di persone. Preghiamo il Signore che una tale tragedia non abbia
a ripetersi mai più.
A voi, care popolazioni, a voi, capi religiosi e civili, e a tutti voi che, nella comunità
internazionale, vi impegnate generosamente per portare la pace nell'amata Regione
dei Grandi Laghi, io dico: Non vi scoraggiate! Siate costruttori della civiltà dell'amore, animati dalla parola del Salvatore: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).
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Costa D’Avorio
E i matti di Gregoire salvarono la città3
di Luca Fiore
Il mondo rovesciato di Gregoire Ahoungbonon. Bouaké era assediata dai ribelli. Mancava il cibo.
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A Bouaké, una città di circa un milione di abitanti nel centro della Costa D’Avorio,
pochi sapevano cosa fosse l’associazione San Camillo. Si sapeva che era stata fondata
da Gregoire Ahoungbonon, un ex tassista del Benin, che si era messo a raccogliere i
malati mentali e provava a curarli. Questo prima che la guerra cominciasse.
Ora che la guerra è finita, la San Camillo è l’istituzione più amata della città. Se chiedete alla gente cosa abbia fatto per loro l’associazione, molti vi risponderanno: «Mi ha salvato la vita». Prima della guerra, durante la quale la città è stata isolata dai guerriglieri,
senza cibo, i malati mentali di Gregoire erano considerati indemoniati e venivano isolati e messi ai ceppi. Ora, dopo che proprio loro hanno sfamato per mesi la popolazione distribuendo decine di migliaia di pasti, nessuno in città osa più parlarne male. Così
Gregoire racconta quello che gli è successo durante e dopo i mesi di guerra.
«La popolazione di Bouaké cominciava a morire di fame perché non arrivava più cibo.
Nell’ottobre 2002 nei nostri centri si trovavano 750 malati. Mi restavano 7 tonnellate di riso che sarebbero bastate per appena 15 giorni. Ho deciso comunque di distribuire le scorte anche alla popolazione. Finite le scorte ho lanciato un appello ai miei
amici in Francia, Italia, Spagna e Svizzera perché non avevo più soldi. Ho vissuto sulla
provvidenza, e la provvidenza ha usato le persone».
Vita: Dunque ha rischiato di far rimanere senza cibo anche i suoi malati?
Gregoire Ahoungbonon: Effettivamente quando ho chiesto ai malati di aiutarmi a
distribuire il loro riso mi hanno chiesto: «Ma noi cosa avremo da mangiare domani?».
Io ho risposto di non avere paura perché Dio si sarebbe occupato di noi. E pensavo:
«Dio si occuperà dei suoi poveri». E se n’è veramente occupato. La distribuzione del
riso è durata dall’ottobre 2002 al marzo 2003. Siamo arrivati a distribuire 120 mila
pasti al giorno. Abbiamo allestito dieci cucine all'interno di ciascuno dei nostri centri. A cucinare erano i malati, aiutati da 300 donne della città.
Vita: Ma se la città era isolata, come faceva a far arrivare il riso?
Ahoungbonon: La nostra fortuna è stata che la San Camillo è stata rispettata sia dai
ribelli che dai lealisti. All’inizio non conoscevano la nostra associazione, e più volte
mentre facevo la spola con il camion carico di riso, hanno provato a uccidermi. Ogni
volta che accadeva chiedevo al responsabile dei ribelli di venire a vedere quello che
stavamo facendo. Alla fine ha capito, e quando il camion di riso arrivava erano gli
stessi ribelli a scortarci.
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Intervista apparsa su VITA non profit magazine (9/01/04), qui ripresa per gentile concessione della rivista.
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Vita: Quindi è riuscito ad ottenere la fiducia dei ribelli?
Ahoungbonon: È successo un episodio che mi ha molto colpito. A un certo punto
della guerra i soldati dell’esercito regolare hanno tentato di cacciare i ribelli dalla città.
Nonostante non ci fossero riusciti, il ministro della Difesa annunciò che l’esercito
aveva ripreso il controllo della città. Allora la popolazione di alcuni quartieri iniziò a
uccidere i ribelli che incontrava. L’indomani una parte dell’esercito ribelle si scagliò
contro la popolazione civile per vendicare le perdite. La situazione era tesissima. Un
civile venne a cercarmi perché sapeva che io potevo passare dai posti di blocco. Mi
chiese di accompagnarlo a casa, così lo feci salire in macchina e lo accompagnai.
Dopo di che andai al comando dei ribelli chiedendo del capo. Gli dissi: «Mi avevate
assicurato che non avreste fatto nulla alla popolazione, e finora siete stati fedeli alla
vostra parola. Riconosco anche che una parte della popolazione si è comportata male,
uccidendo i vostri uomini. Se voi rispondete a questi attacchi verrete meno al vostro
impegno». Lui mi rispose: «Lei è fortunato, il suo Dio è forte. Da quando la guerra è
incominciata, lei è l’unica persona qui a Bouaké che si muove liberamente ovunque,
perché quello che lei sta facendo è lottare per la popolazione».
Vita: Qual è stata la reazione dei malati allo scoppio della guerra?
Ahoungbonon: Quando la guerra è iniziata i malati hanno avuto paura. Allora ho
parlato loro ridandogli fiducia e assicurando che nulla gli sarebbe accaduto. I malati
sono rimasti con me.
Vita: Come ha reagito la popolazione della città quando si è resa conto che sopravviveva grazie al riso che voi procuravate?
Ahoungbonon: Grazie a Dio la nostra non è percepita come una guerra di religione,
anche se la maggioranza dei ribelli è musulmana. Noi abbiamo avuto l’idea di chiedere un aiuto per le nostre cucine a donne di tutte le confessioni: musulmane, animiste, protestanti e cattoliche. Così si è creata della solidarietà tra tutti. A guerra finita i
responsabili delle varie comunità hanno ringraziato la nostra associazione. Io ho proposto che la festa si svolgesse il 14 luglio, giorno di San Camillo. Tutta la città è scesa
in strada e c’è stato un corteo che si è concluso con una Messa alla quale hanno partecipato anche i musulmani. Alla fine della celebrazione un musulmano si è alzato e
ha ringraziato i malati a nome di tutti.
Vita: Come è cambiato l’atteggiamento della gente nei confronti dei malati?
Ahoungbonon: Dopo la guerra la situazione si è rovesciata. I malati mentali sono
diventati quelli che hanno salvato le vite altrui. Da allora ogni volta che qualcuno esce
dalla città e incontra un malato abbandonato lo porta da noi. È scomparsa la paura.
Un giorno un musulmano molto ricco e con una grossa macchina (non era venuto per
il mangiare) si è fermato da me e mi ha detto: «Questa guerra non è cattiva, questa
guerra non è venuta per dividerci ma per farci aprire gli occhi. Che nessuno d’ora in
poi mi venga a parlare male della Chiesa cattolica o dei malati di mente perché io
saprò cosa rispondergli».
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Repubblica Democratica
del Congo - ex Zaire
Paesi in eterna guerra
di Marino Contiero, volontario AVSI
Marino Contiero si trova nella Repubblica Democratica del Congo dall’inizio del 2002.
Precedentemente aveva partecipato alla realizzazione di progetti umanitari in Burundi ed in
Angola. Si è recato nella Repubblica Democratica del Congo in seguito all’emergenza posta
dall’eruzione del 17 gennaio del 2002 per occuparsi dell’elaborazione delle proposte progetto, della ricerca dei finanziamenti, del coordinamento delle attività di realizzazione (aiutato in questo compito dalla moglie Donatella e dal personale locale) e della gestione delle
risorse finanziarie.
Sono quasi cinque anni che lavoro, con mia moglie Donatella, nel settore umanitario
in tre paesi che sono “tristemente” conosciuti come paesi in “eterna guerra”: il
Burundi, l’Angola e la Repubblica Democratica del Congo.
Credo, così come era per me prima di iniziare il lavoro in questi paesi, che per l’europeo medio la guerra sia quella dei documentari del secondo conflitto mondiale o
del Vietnam, del cinema o dell’11 settembre (inteso come l’11 settembre delle Torri
gemelle e non quello di Santiago del Cile). Se rifletto sulle esperienze vissute in questi anni queste realtà africane sono molto diverse... Cerco, schematicamente, di raccogliere alcuni ragionamenti ed immagini.
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Si pensa che dietro una guerra ci siano grandi strategie e tattiche… dopo anni passati in queste regioni “maledette” (ed estremamente belle…) la ragione di milioni di
morti mi è veramente oscura, se non un generico sentore di conflitto di interessi tra
Usa e Europa che gettano benzina (o meglio armi...) su questi signori della guerra che
sembrano solo volere giocare al gatto e il topo con le popolazioni civili e che di fatto
non si battono mai veramente fra di loro. La domanda è: perché tutto questo è avvenuto e avviene ancora...? Come un qualcosa che chiamiamo civiltà permette tutto
questo? Sono queste le domande che ci si pone tutti giorni. Paradossalmente l’estrema ricchezza mineraria di un paese o la sua posizione strategica (tutte cose che teoricamente potrebbero garantire un certo benessere), si rivelano la vera disgrazia per
queste popolazioni. A mio avviso il maggiore ostacolo alla pace è infatti costituito proprio dalla ricchezza. Tutti parlano del Mozambico come esempio di processo di pace
riuscito ma di fatto il Mozambico non interessa, dal punto di vista economico, quasi
a nessuno in quanto è un paese poverissimo. Peepetela, scrittore angolano, dice: «i
diamanti hanno il colore delle lacrime del popolo angolano» (il libro è Mayombe ed
esiste anche nella traduzione in italiano): credo che queste parole ben si adattino
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
anche alla Rdc. Purtroppo l’unico effetto che i vari accordi di pace o di cessate il fuoco
hanno è quello di creare speranza, o meglio illusione, nella gente: basti pensare che
sono stati gruppi di combattenti, chiamati Mai-Mai, nella foresta da anni, che,
apprendendo la notizia alla radio, si sono arresi pensando che la guerra fosse davvero finita. Certo per arrivare alla pace serve più il dialogo che i combattimenti (con la
forza difficilmente si ottiene la pace) ma il percorso non sarà breve.
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Leggevo qualcuno (di cui non ricordo il nome...) che scriveva «se muoiono 4 persone
è una tragedia se ne muoiono centinaia è solo una statistica...». È una affermazione
azzeccata per questi paesi: pensate al Rwanda del 1994 un milione di morti, il Burundi
dopo il 1993 400.000 e la Rdc... 3,5 milioni di morti dal 1991. Sono numeri ma dietro ci sono delle persone: immaginate di fare un paragone stupidissimo e macabro.
Prendete una scatola di fiammiferi e gettatela sul pavimento... ogni fiammifero una persona: per le Torri gemelle sono 30 scatole, per il Burundi dal 1993 (dimenticando il
1972 e il 1988) 4.000, per il Rwanda del 1994 10.000 per la Rdc dal 1991... non ci
sono commenti. Tutto il mondo si è mobilitato contro l’intervento americano in Irak
prima ancora che iniziasse, ma nessuno protesta per i tre milioni di morti causati dalla
guerra in Congo. Il problema da una parte sta nell’informazione (quante sono le guerre dimenticate?) e dall’altra nel fatto che nel nostro mondo anche la morte non ci rende
uguali: ci sono i morti di serie A, B, C,... (quelli della Rdc appartengono all’ultima categoria). Secondo statistiche (come l’appello consolidato delle Nazioni Unite per il 2003
disponibile sul sito www.reliefweb.int), secondo me esagerate, si parla in Rdc di 1.300
morti al giorno: ogni due giorni è come l’11 settembre ma nessuno dice niente.
Ci sono tre immagini che mi vengono subito in mente se penso alla guerra in Congo:
1) i bambini malnutriti;
2) una nonna con i suoi due nipotini che sono rimasti due notti fuori dal nostro ufficio prima che si riuscisse a trovar loro una sistemazione: scappavano dalla guerra ed
erano fuggiti per 200 chilometri nella foresta. La donna aveva perso il marito e tre
figlie. Di tutta una famiglia rimanevano solo loro tre;
3) la cosa più impressionante della guerra per me non è quando si spara (in quei momenti sai da dove viene il pericolo) ma la paura, e il vuoto e il silenzio che essa crea. Quando
ci sono gli attacchi o quando attraversi una linea di fronte la cosa più terribile è proprio
il silenzio: veramente non si muove una mosca, quasi anche loro sapessero che da un
momento all’altro si potrebbe scatenare l’inferno. Più che degli spari ho il vivo ricordo
delle strade del Burundi normalmente piene di gente che si sposta, improvvisamente
svuotate: si potevano percorrere decine di chilometri senza incontrare anima viva per il
solo sentore che ci potesse essere un attacco degli «assailants» o un rastrellamento dell’esercito. Ricordo il silenzio di una notte in Burundi quando, a causa di uno scontro, centinaia di persone si erano rifugiate nel nostro cortile… uomini, donne, bambini (con i loro
animali e le poche cose che erano riusciti a portare con sé) scappati dalle proprie case e
dai propri campi. Non si sentiva un rumore e nessuno fiatava - nemmeno i neonati o gli
animali, ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile - con la paura di quello che pote-
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va accadere e con la certezza, nel caso fossero sopravvissuti, di rientrare a casa senza ritrovare più niente (era la quinta volta in sei anni che coloro che avevano avuto la “fortuna”
di sopravvivere dovevano scappare dalle proprie case e ogni volta avevano perso tutto).
Ricordo, infine, i villaggi per 20 km sulla strada per Lubero qui in Rdc visitati in una missione del luglio scorso: non si trovava nessuno, tutti scappati, anche lì solo silenzio: sembrava quasi che anche gli uccelli fossero andati via... la guerra come assenza totale di vita.
Veniamo alle persone, alcune conosciute altre no. Poche settimane prima di rientrare dal
Burundi sulla strada per Gitega, che stavo percorrendo con un padre francescano, incontriamo una camionetta che stava bruciando colpita dalle granate. Non c’era traccia di persone. Al nostro rientro apprendiamo che era stata uccisa una persona, finita all’arma bianca, che era un nostro collaboratore, un agronomo, uno di terreno che lavorava perché la
gente avesse più cibo, era sposato da 15 giorni e lasciava una moglie che aspettava un
bambino… la sua colpa: appartenere ad una etnia. A lui penso tutte le volte che leggo le
macabre statistiche su queste guerre con i suoi morti con cifre con troppi zeri.
Tra le persone non conosciute ho il vivo ricordo di una signora che attraversava il
fronte a Makobola (Rdc, sud Kivu dicembre 2002) zona cuscinetto di 5 km tra l’esercito Anc ed i Mai-Mai. Veniva dai villaggi vicini per andare a vendere il pesce a Uvira.
A bordo dei nostri fuori strada (con tutti mezzi di comunicazione e i bandieroni ben
esposti per essere riconoscibili - e rischiare meno di essere attaccati “per sbaglio” da
una fazione o dall’altra) ho espresso il mio parere sul coraggio della donna che, sola
e a piedi, attraversava la linea del fronte con i suoi pesci; subito i congolesi presenti
mi hanno risposto che a volte è meglio morire per una pallottola che morire di fame.
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Spesso si fa dei paesi in guerra l’immagine di veri e propri inferni: in parte lo sono ma
ci sono tantissime cose belle e positive che la televisione non ci fa vedere. Potrei parlare dei paesaggi bellissimi e di tanti esempi positivi di “umanità”. Ne cito solo uno:
l’altra sera siamo stati bloccati dalla pioggia in una succursale di una parrocchia in
piena brousse: per tutta la sera i bambini sono passati cantando di casa in casa a
domandare un pezzo di legna che doveva servire a riscaldare la notte ad un nuovo
nato e alla sua mamma. Il Congo è anche questo...
Per finire vorrei dedicare questa testimonianza ai 370 morti ignoti di questa ultima
settimana sul lago Alberto a nord dell’Rdc nel tristemente famoso Ituri4. Stavano percorrendo il lago su delle piroghe per rientrare nei loro villaggi che avevano abbandonato per sfuggire la guerra che imperversa da diversi anni. La situazione stava migliorando e loro hanno pensato di poter ritornare… hanno trovato le mitragliatrici di
qualche ultima fanatica fazione militare… questa è l’ultima “statistica”, credo neanche
riportata dall’informazione in Europa.
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Il 16 gennaio 2004 degli uomini armati, che sostenevano di appartenere ad un gruppo militare detto “Fronte dei nazionalisti integralisti” (FNL), hanno ucciso, secondo le autorità locali, almeno 100 persone a Gobu, un villaggio sul lago Alberto, a circa 60 km
a nord di Bunia (capitale amministrativa dell’Ituri). La missione delle Nazioni Uniti nella RDC (MONUC) ha mandato nella zona
un proprio team per investigare sul massacro.
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Il diario dei missionari5
di padre Nicola Colasuonno
Durante il mese di settembre 1996 la notizia-rumore che tanti banyamulenge stanno
passando la frontiera dello Zaire portando armi sulle montagne si fa sempre più frequente e preoccupante. Questo perché per ben tre volte negli ultimi dieci anni lo
Zaire ha messo in discussione la cittadinanza zairese dei banyamulenge (l’ultima pochi
mesi fa).
Il vescovo di Uvira, mons. Jerome Gapangwa Nteziryayo, nei suoi viaggi a Bukavu o
altrove, viene più volte controllato, e la sua vettura ispezionata. Viene più volte accusato, senza prove, di aver comprato armi per i banyamulenge. Purtroppo, per vari anni,
l’aspetto etnico ha avuto un certo peso sull’opinione generale riguardo al vescovo. Lo
avevano accusato di essere straniero in Zaire e soprattutto i partiti politici continuavano a discutere sulla sua cittadinanza zairese. Noi, i missionari saveriani d’Uvira,
siamo accusati dalla gente dello stesso crimine perché amici del vescovo.
9 settembre 1996 I partiti politici di Uvira fanno sapere tramite altoparlanti e
manifestini che preparano una marcia pacifica, una manifestazione di protesta contro
il vescovo e i suoi seguaci, affinché lasci Uvira per sempre. Alle 8.00 di mattina, partendo da Kavimvira, una folla di giovani e adolescenti cantano “Leo, leo, mwisho wa
Gapangwa”, “oggi è la fine di Gapangwa”. Sfilano per cinque chilometri e si fermano
davanti all’ufficio provinciale dove il commissario fa un lungo discorso contro il
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Tratto da Ferrari A., Scalettari L., Storie di ordinario genocidio. La guerra del Kivu, EMI Editore, 1997, qui ripreso per gentile concessione dell’autore.
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7 settembre 1996 Un gruppo di militari circonda l’economato diocesano di Uvira,
il vescovado, le case delle religiose nei dintorni dell’economato, la cattedrale, la casa
delle suore di San Giuseppe di Torino e a tutti mostrano l’autorizzazione del comando militare a perquisire gli edifici per cercare armi o documenti che ne rivelino l’acquisto. È il primo pomeriggio, verso le 13.30. L’autorizzazione è firmata da un ufficiale del tribunale militare di Uvira molto amico dei preti locali. La ragione che viene
sempre addotta è che l’ordine viene da Kinshasa. La perquisizione viene fatta in alcune case con rispetto, in altre è l’occasione per rubare e angariare le persone.
Nella casa delle Benebikira (suore burundesi), una suora viene picchiata e un’altra
portata in prigione per aver ritardato l’apertura della porta e aver risposto male ad un
soldato. I soldati portano via i soldi, dove ne hanno trovati, e poi tutti i mezzi di
comunicazione, radio riceventi e trasmittenti con telefoni cellulari, veicoli e roba
varia. Nel frattempo due preti locali dell’etnia dei tutsi, i padri Andrè e Joseph, con
due seminaristi profughi rwandesi, Jeremie e Pierre Claver, vengono portati in prigione e vi rimangono per ben due settimane. È il periodo della caccia all’uomo tutsi.
Questi vengono ricercati, picchiati, messi in prigione e le loro case saccheggiate dai
soldati e dalla gente. Ciò avviene ad Uvira e dintorni.
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vescovo, affermando anche che un religioso gli avrebbe detto che il vescovo ha utilizzato una grossa somma della diocesi per comprare armi. Nel frattempo un altro corteo, venendo da Kalundu, la parte meridionale di Uvira, si ferma al vescovado e, sotto
gli occhi dei soldati (erano i loro stessi figli), saccheggia tutte le stanze del vescovado,
la cucina, la sala della televisione, ecc. portando via tutto ciò che era trasportabile.
La collera di questo corteo è dovuta ad un incidente avvenuto due giorni prima sulle
montagne di Kiringye. Un contingente di soldati zairesi viene mandato a fronteggiare
dei banyamulenge armati. Sfortunatamente fra questi soldati ce ne sono due o tre della
stessa etnia (banyamulenge). Uno di questi si rifiuta di sparare contro i suoi stessi “fratelli”. Si ritira in un posto da solo (un gabinetto isolato), carica il suo fucile e spara sui
compagni soldati, ne uccide due e ferisce un terzo (morirà dopo due giorni) fino a
quando lui stesso viene ucciso! Questa notizia delle prime perdite tra soldati zairesi
fa molto scalpore e risveglia molta collera!
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15 settembre 1996 La missione di Kavimvira non viene toccata per il momento. I
padri però decidono di far riflettere i cristiani su ciò che è accaduto nei giorni precedenti con un segno alquanto forte: celebrano la Messa domenicale invitando i cristiani a non cantare in segno di lutto. Molti cristiani non ne capiscono il significato.
P. Rolando Trevisan, il parroco di Kavimvira, viene chiamato dalla Snip (Service
National d’Intelligence et Protection), una specie di polizia segreta per controllare gli
stranieri, per un processo verbale. Per ben tre volte in una settimana deve presentarsi davanti ad un ufficiale per rispondere a domande come: qual è la nazionalità del
vescovo? Perché ha proibito ai cristiani di manifestare la loro gioia domenica in chiesa? Qual è ora la funzione del vicario generale? Ecc... Il processo si conclude con ben
100 dollari Usa di multa per non si sa ancora quale crimine.
Nei giorni seguenti il vicario decide di radunare tutti i religiosi e le religiose di Uvira
con i preti locali: siamo una quarantina radunati a Kavimvira. Presenta una relazione
degli avvenimenti e ci indica cosa fare. Trova difficoltà a fare liberare i due preti tutsi
ancora in prigione. Si avverte il pericolo di una nuova perquisizione. Infatti il vescovado viene ancora una volta perquisito dai soldati (dicono che c’è un grande buco
dove vengono nascoste le armi). Durante il raduno, il direttore della Caritas diocesana rivela a tutti che si sente in pericolo. Viene considerato il braccio destro del vescovo ed è stato convocato dalla Snip per ben due volte. Dopo due giorni, il direttore
della Caritas prenderà il battello per Kigoma (Tanzania) in cerca di aiuti per la Caritas.
Gli aiuti arriveranno ma il direttore si fermerà a Kigoma per ragioni di sicurezza personale. Durante il raduno si forma una piccola commissione per fare una relazione e
inviarla in tutta la diocesi e fuori. Una volta compilata, la relazione rimane a Uvira,
perché le strade sono tutte interrotte.
6 ottobre 1996 Siamo a Luvungi per la professione perpetua della saveriana Rossana,
presieduta da mons. vicario. Qui sentiamo la triste notizia che i banyamulenge hanno
attaccato la missione di Kidote, ad appena 20 chilometri da qui, e l’ospedale di Lemera
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alle 4.00 di mattina, facendo vittime tra la gente, cercando il Mwami (capo della tribù
dei Bufalero), uccidendo due infermieri e ferendo cinque hutu che avevano partecipato
ad attività di guerriglia nel Burundi. Più tardi apprendiamo anche che i due preti di
Kidoti, Koko Bonifacio e Jean Marie Ndogole, sono stati uccisi. Koko, il parroco, tentava di scappare con la macchina del colonnello e lì è stato freddato assieme al colonnello e alla sua guardia del corpo. Una decina di morti sono le perdite dell’esercito zairese.
7 ottobre 1996 Nel pomeriggio ritrovato il corpo del rev. Koko, facciamo il funerale a Uvira con una folla immensa di cristiani. Il mwami dei Bavera, Mwamilenge, viene
invitato dal vicario a parlare in chiesa. Ne restiamo costernati perché, contrariamente alle attese di noi tutti, invita non alla fratellanza e alla riconciliazione, ma alla vigilanza e alla guerra. Il clero locale è veramente scioccato dalla morte di questi due suoi
confratelli. Il corpo di Jean Marie, nonostante le ricerche di alcuni amici, non si è
ancora trovato!
Verso le 18.00 del pomeriggio, tornando a Kavimvira, dalla cattedrale, notiamo che i
soldati zairesi sono molto aggressivi. Approfittano delle perdite subite per depredare
la gente! C’è molta insicurezza a Uvira. I soldati che scendono dalla montagna (giovani soldati venuti da Kinshasa), rubano macchine e si recano a Bukavu per continuare il saccheggio anche lì. La sera veniamo a sapere che i nostri tre confratelli di Baraka
(P. Roberto Dal Forno, Giuseppe Galli e lo studente Pierre Agostinis) sono a Uvira,
prigionieri della Snip.
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8 ottobre 1996 Infatti è il capo della Snip di Baraka che li ha portati a Uvira, dice,
“salvandoli” dalle minacce dei combattants. Le accuse sono che passavano informazioni ai banyamulenge sulle montagne con la radio trasmittente e inoltre che avevano trovato una carta geografica della zona (una carta con i nomi delle piccole comunità cristiane della zona compilata da un padre poco tempo prima) per poter informare i
“nemici” sui movimenti dell’esercito zairese. I padri aspettano che un consiglio di
guerra, presenti il commissario di zona, il colonnello e il capo della Snip, decida la
loro sorte. Fortunatamente il capo della Snip di Baraka che interrogava p. Dal Forno
era un vecchio amico di p. Roland ed era deciso a prendere le sue difese nel consiglio. Tutto si risolve con un po’ di dollari di multa e i padri sono subito rinviati a
Bakavu, lontano dai combattants della zona.
I combattants: sono milizie locali create dai capi tribù per difendere il loro territorio
dai banyamulenge. È il mwami (capo tribù) che li chiama, ma è lo stregone con le sue
medicine che li prepara. I giovani di Uvira, come quelli di Mboko e Baraka sul lago
Tanganyka, che sono stati reclutati sono tanti; solo a Uvira circa 5.000. Lo stregone li
renderà invulnerabili contro le pallottole dei banyamulenge. Dopo il tatuaggio, lo stregone mostrerà con una capra che la medicina è reale e fa effetto. A Uvira vanno in giro
con lunghi coltelli o con le lance. Hanno anche degli ordini precisi, la cui trasgressione li renderebbe simili ai comuni mortali: non toccare le donne, non rubare, non ricevere cibo da estranei, non guardare negli occhi mentre si parla, ecc.
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I combattants sembrerebbero una garanzia per il villaggio. Sono loro, ora, a tenere a
bada i soldati. Questi credono alla loro invulnerabilità. Non hanno armi per attaccare, ma le cercano! Noi restiamo stupefatti… sono le stesse realtà del 1964, con i mulelisti… questi giovani non ne conoscono la storia, ma si sentono pienamente attori e
il loro grido è come quello del ’64: “Maji, maji!” (“acqua, acqua!”), che richiama il
grido dei mulelisti “Maji Mulele”.
La caccia ai banyamulenge di Uvira continua e non è facile sfuggire ai combattants.
Anche se nascosti, alcuni banyamulenge vengono presi, uccisi, le loro teste portate in
processione a Uvira, sulla punta delle lance. Cose veramente macabre! Un nostro
responsabile di comunità decide di farsi tatuare… «in questi momenti, ci diceva,
bisogna mettere da parte Dio per qualche momento e appellarsi al diavolo!».
10 ottobre 1996 Il vicario generale decide di radunare le religiose. La situazione è
notevolmente peggiorata e diventa sempre più difficile sapere chi avrà la meglio. I
fronti da cui difendersi sono tanti: i soldati zairesi, i combattants e i banyamulenge. Di
questi ultimi non si conoscono le intenzioni riguardo alla Chiesa e alla religione in
generale. Vicino all’economato, suor Maria Pia delle suore di Santa Gemma viene
assalita da un soldato che le ruba tutti i soldi. P. Pedrotti, anche lui in quei paraggi per
portare della gente a Luvungi dopo i funerali di Koko, viene percosso da un soldato.
Ora è il turno delle suore saveriane minacciate di morte da un gruppo di soldati.
Maria viene schiaffeggiata, e un soldato le spara una pallottola ad un piede da 10 cm
di distanza! Lo spavento è totale. Le suore di Uvira hanno deciso: il giorno seguente
partiranno per Bukavu.
Nei giorni successivi ci sono degli scontri nei villaggi di Runingu, Bwegera e Kiliba.
La gente, insieme ai profughi dei campi, comincia a fluire verso Uvira per trovare rifugio. Dicono che i banyamulenge vengono dal Rwanda e dal Burundi, sono ben equipaggiati e che… sono in tanti! (si dice che mentre i combattants hanno la medicina
dell’invulnerabilità, i banyamulenge hanno la medicina della moltiplicazione: sono
numerosissimi!).
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24 ottobre 1996 Verso le 9 del mattino notiamo che a Kavimvira molta gente fa i
bagagli e si mette in cammino verso sud, direzione porto. Notiamo anche che l’esercito zairese ha portato sul promontorio, accanto alla chiesa, un grosso cannone. Ci
vediamo in pericolo… la nostra casa potrebbe diventare un bersaglio nel caso in cui
i banyamulenge tentassero di colpire il cannone. Intanto c’è un gran movimento di
truppe zairesi verso Kavimvira, i rinforzi tanto sperati sono arrivati. Vediamo persino
due camion lanciamissili che arrivano e si appostano alla biforcazione di Bujumbura.
La gente applaude, si sente sicura del suo esercito. Sarà per poco… nel pomeriggio
veniamo a sapere che il comandante delle operazioni di Uvira, dopo solo pochi tiri di
arma pesante, decide la ritirata e ordina il ritiro delle truppe verso il sud. La mattina
dopo, i nostri valorosi soldati zairesi caricano sui loro camion i loro beni e le loro
famiglie e si dirigono verso il porto.
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25 ottobre 1996 Dopo la Messa, mons. vicario ci chiama per un rapido incontro…
la situazione peggiora, bisogna mettersi al riparo… «anche il Vangelo dice che se vi
scacciano da una città, rifugiatevi in un’altra»… lui sarebbe venuto con noi. Ci dice
che il battello della diocesi, il Baraka, è pronto al porto per portarci tutti a Kigoma,
Tanzania, dove poi ognuno prenderà la sua propria decisione. Intanto aspettiamo i
nostri preti della cattedrale.
Siamo in undici: due seminaristi rwandesi, un prete burundese profugo, noi tre di
Kavimvira, due preti di Mulongwe e tre della cattedrale. Apprendiamo in breve che
non c’è tanto tempo, i soldati sono già in rotta. Tutti ci mettiamo in strada per il
porto… con nostra grande sorpresa vediamo che il Baraka ha già preso il largo e non
certo con il suo capitano… i soldati hanno sequestrato tutti i battelli. Intanto un’immensa folla è sulla strada per Mboko-Baraka. Saranno 100.000 o 200.000? Forse di
più, se anche i profughi burundesi dei campi hanno scelto di scappare con noi!
Portano in testa i loro beni, un materasso, un po’ di manioca, delle casseruole, trascinano delle capre, e poi tanti bambini. Con la nostra piccola Suzuki avanziamo a passo
d’uomo! Subito dopo il porto di Kalundu, due soldati dell’esercito zairese ci fermano
molto minacciosi e ci ordinano di uscire dalla Suzuki. Uno è già pronto a ferirci con
un coltello ma viene fermato da un passante. Mi percuote e mi tira fuori dall’auto in
malo modo. Stesso trattamento a p. Mario e p. Rolando… facciamo appena in tempo
a recuperare le nostre borse, che p. Mario perde la sua, salvando fortunosamente il
passaporto. Per fortuna davanti a noi c’è l’altra Land Rover con i preti della cattedrale, così p. Rolando (65 anni, malato di osteoporosi) può continuare il viaggio in macchina. Facendo un tratto di strada a piedi, udiamo i commenti della gente… noi ci
sentiamo loro compagni di vita… ma alcuni continuano a pensare che se c’è la guerra è colpa nostra, dei bianchi, degli amici di Gapangwa! Tutto procede bene fino al
confine con Ubembe, a Mkobola. Là c’è un posto di blocco di combattants: il nostro
autista è uno di loro di Uvira… si presenta e spiega… no, i padri sono quelli che collaborano con i banyamulenge. Ci circondano con lance e machete, vogliono farci fuori,
dicono che siamo certamente colleghi dei padri di Baraka. Intanto anche tutti i soldati zairesi, per poter passare, devono lasciare armi e munizioni. Per ben quattro volte,
sino a Swima, si ripetono le minacce. I combattants vogliono rinchiuderci in una chiesa, versare della benzina e darci fuoco. Dopo avrebbero mangiato la nostra carne! Fa
bene alle malattie mentali, dicono! Ci avvertono che i combattants di Mboko sono
molto feroci, non ci avrebbero lasciato passare. Chiediamo allora ospitalità al responsabile della comunità cristiana di Swima che tutti conoscono, il signor Kimete. Anche
lui viene minacciato ma ci accoglie tutti con molta generosità e fiducia. Intanto si è
fatto buio e ci dicono che domani avrebbero deciso della nostra sorte. Per tutta la serata siamo vittime delle loro minacce! Quando andiamo a riposarci, non sappiamo cosa
ci accadrà. Il pensiero poi che p. Mario è ancora per strada e solo, ci turba e ci riempie di paura.
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26 ottobre 1996 Alle sette di mattina, il capo dei combattants di Swima e il suo assistente ci chiamano e ci chiedono i documenti. Tutto in ordine! Ci dice però che ci
sono dei padri proprio cattivi, allude a quelli di Baraka… rispondiamo che se eravamo cattivi avremmo potuto metterci in salvo tanto tempo prima… e che noi vogliamo seguire i nostri cristiani. Più tardi veniamo a sapere che il pastore protestante del
villaggio aveva interceduto per noi, convincendoli che eravamo dei «buoni pastori
che volevamo morire con le nostre pecore».
Più tardi, con nostra grande gioia, vediamo arrivare padre Mario con un altro prete,
il reverendo Kalembo, un nativo della zona, con cui ha fatto il viaggio. Anche lui fermato e minacciato, riconosciuto come “buon pastore” e rilasciato. Intanto gli spari
sono tanti, la gente che arriva vaga senza meta. Durante la notte, per ben due volte
siamo costretti ad uscire dalla capanna e a metterci in salvo nei campi di manioca, fino
al Lago Tanganyka. Terminati gli spari, nella notte (fortunatamente in quei giorni c’era
la luna piena) si udivano le voci delle mamme che chiamavano i loro figli dispersi nel
caos generale. Erano quelli i momenti più tragici… le madri non smettevano di chiamare se non quando sentivano le loro voci rispondere!
27 ottobre 1996 Notizie discordanti. I banyamulenge che avanzano non vogliono la
guerra, sono dei mercenari, alcuni somali, altri ugandesi e rwandesi. Spiegano che è
una guerra politica, per rovesciare il governo di Mobutu. Se i combattants depongono
le armi e i coltelli, non ci sarà alcuna vendetta! E poi chiedono insistentemente alla
gente di tornare a Uvira. La gente ben presto ci crede. Il cibo comincia a scarseggiare
(molti sono sopravvissuti con i manghi, ce ne sono tanti in quella zona!), c’è molta
gente nei dintorni, la paura di un’epidemia è reale, come quella di vedere la propria
casa di Uvira saccheggiata a causa di un rientro ritardato, tutto questo convince la
maggior parte della gente a ritornare.
I soldati banyamulenge non si sono dimostrati degli stinchi di santi… tra la gente
hanno cercato soldi, dollari, radio, orologi, e poi hanno ordinato di deporre i machete ai loro posti di blocco.
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28 ottobre 1996 La mattina presto c’è un fuggi fuggi generale, gli spari dei banyamulenge e dei combattants sono fitti e vicini. Si temono pallottole vaganti. Anche noi
scappiamo lungo il lago e ci decidiamo a tornare a Uvira. Ma come? Non certo per la
strada: i combattants incontrati ci hanno fatto paura. Per il lago? Ma dove trovare le
piroghe con tutta questa gente che torna? Ci incamminiamo sorreggendo p. Rolando
e fidandoci della Provvidenza! Finalmente, dopo ben due ore di marcia, incontriamo
il sig. Ndama, capo responsabile della comunità cristiana di Makobola… aspetta invano sulla spiaggia la sua famiglia che tarda a venire. Decide di prendere sulla barca me
e p. Rolando. Lo fa con tanta preoccupazione! Il lago ben presto sarà turbolento e lui
anche se è esperto, è da parecchio tempo che non rema! Grazie a Dio, dopo solo quattro ore, con tanto sole in faccia, siamo a Makobola, l’ultima succursale della parrocchia di Uvira. Decidiamo di fermarci da lui. Ci dicono che al posto di blocco dei
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banyamulenge c’è una folla immensa e ci vorranno almeno due giorni prima di poter
passare! È una decisione provvidenziale! Noi tutti cominciamo ad avvertire il mal di
stomaco… l’acqua dei fiumi che abbiamo bevuto con tanta gente attorno, comincia a
dare i primi disturbi. P. Rolando ha bisogno di riposo, soffre per una diarrea molto
forte e non facilmente curabile! Veramente c’è da lodare Dio per l’opera di Ndama…
veniamo a sapere che fa parte della Croce Rossa, che ha seguito i corsi di infermieristica e ha prestato servizio anche in ospedale. Ringraziamo il Signore, siamo ancora
una volta caduti nelle mani giuste! Generoso e umile, Ndama è infaticabile nel trovare il cibo per noi, nel curarci e nel rassicurarci. Notiamo anche che i preti locali non
hanno intenzione di tornare a Uvira, dicono che le intenzioni dei banyamulenge non
sono affatto chiare nei loro confronti. Lo shock dei confratelli uccisi a Kidote rimane
molto forte nel loro animo.
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1 novembre 1996 Noi tre di Kavimvira, assieme a p. Oscar Kini e p. Jorojoro di
Kiliba e ai due seminaristi rwandesi, decidiamo di tornare a Uvira. Gli altri decidono
che forse torneranno a Mboko per cercare un battello e dirigersi verso Kigoma,
Tanzania! Lungo la strada di ritorno vediamo tanta desolazione, ben tre posti di blocco di soldati che ci pongono un’infinità di domande: chi siamo, dove andiamo, come
mai siamo scappati… ma ci lasciano andare. Entriamo in Uvira, ben poca gente è tornata. Vediamo case saccheggiate e temiamo per la nostra. Ci dirigiamo a Kavimvira, e
vediamo le porte della chiesa aperte, il dispensario saccheggiato, ed anche la casa
delle suore e la nostra con il centro catechistico. Non abbiamo parole! In più ci viene
proibito di entrare in casa nostra, è occupata dai soldati banyamulenge e non hanno
certo molta fretta di partire. Tentiamo di andare alla frontiera burundese… anche qui
un posto di blocco di soldati, ci vuole l’autorizzazione del comandante! Il comandante? Non è qui, è a Bukavu! Decidiamo di alloggiarci in casa di uno dei nostri collaboratori fuggiti a Bukavu. Anche la sua casa è stata saccheggiata dai suoi vicini di casa!
La gente è sorpresa nel vederci tornare e comincia a restituire le cose rubate nei giorni precedenti! Provvidenzialmente riusciamo a recuperare la radio per poter comunicare a Bukavu che siamo vivi e che ci troviamo a Kavimvira. Ciò sarà possibile solo
l’11 novembre, quando i soldati lasciano la parrocchia e noi possiamo rientrare a casa
nostra, dove c’è l’antenna per le trasmissioni radio.
Per tutta la prima settimana di novembre abbiamo sentito le dolorose storie di gente
uccisa, di gente scappata, ma non ancora tornata, di gente che aveva perduto tutto
come noi nel saccheggio, di gente ancora impaurita: di notte, in diversi casi, i soldati si presentavano alle case, bussando alla porta, e chiedendo all’uomo della famiglia
di seguirli per non tornare mai più.
Da parte nostra in questi giorni abbiamo sperimentato tutta l’amicizia africana e la
simpatia dei cristiani nei nostri confronti. Tanti ci vengono a trovare… «pole padiri»,
«mi dispiace padre!», ci dicono, e ci stringono la mano in segno di solidarietà. Avendo
perduto tutto, vestiti, soldi, macchine, libri, ci sentiamo veramente vulnerabili… e
allora le comunità cristiane si organizzano per aiutarci e nutrirci. Ci domandano a
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quale tipo di cibo siamo abituati, che cosa ci serve. Ci portano pantaloni e camicie per
poterci cambiare e lavarci! Altri ci portano soldi, vogliono aiutarci! È vero, il saccheggio ci ha veramente scoraggiati, ci sentiamo abbattuti e sfiduciati. In questi giorni tocchiamo con mano la loro bontà e la loro solidarietà. I giovani si organizzano per poter
recuperare le cose rubate alla parrocchia! Letti, coperte, libri, tavole, finestre, piatti e
sedie cominciano a tornare! Poche ancora, ma un buon inizio!
Chiamiamo ora a raduno i responsabili della catechesi, dei giovani, della liturgia, dell’economia, della scuola, li informiamo della nostra partenza… ci sentiamo deboli di
salute e provati fisicamente. Siamo tutti d’accordo e noi li avvertiamo che d’ora in poi
tutto sarà nelle loro mani.
17 novembre 1996 È l’ultimo giorno, decidiamo di celebrare la Messa in chiesa…
portiamo in processione il crocifisso a cui i soldati hanno rotto le braccia: diventa il
simbolo di questi eventi. È possibile benedire ora col Gesù senza braccia? Chi guarirà
gli ammalati e asciugherà le lacrime dei bambini? Non certo il Cristo di legno… ognuno di noi con le proprie braccia… saremo le braccia di Dio per darci una mano e
costruire la fratellanza e la solidarietà, non la violenza e la guerra! La Chiesa non
muore certo perché qualcuno ha rotto le braccia al crocifisso, ma vive in tutti noi
impegnati nel vivere il Vangelo.
Ci benediciamo alla fine della Messa. Anche loro invocano la forza di Dio, si sentono
deboli e impauriti per i giorni a venire. Si teme infatti una reazione piuttosto forte da
parte del governo centrale di Kinshasa, e da parte di Mobutu.
18 novembre 1996 Assieme ad altri centodieci insegnanti zairesi in Burundi, dopo
ben 6 ore di attesa sotto il sole, i banyamulenge ci accompagnano fino al confine del
Burundi. Ci sentiamo allora consolati dai nostri confratelli di Bujumbura. Ci raccontano la loro pena e il loro sconforto negli ultimi giorni. Noi siamo riconoscenti a Dio
per la sua protezione. La sua Mano ci ha veramente protetti!
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Rwanda
L’incontro con il bambino ed il vissuto psichico traumatico
da guerra: descrizione dell’esperienza in Rwanda
di Giovanni Galli (AVSI), Lucia Castelli (AVSI), Anne Devreux (già volontaria AVSI,
attualmente operante presso la Fondazione Don Gnocchi, Milano)
Premessa L’ approccio di AVSI al bambino e all’adolescente che ha vissuto una grave
sofferenza, nel nostro caso aver subito ed assistito alle atrocità del genocidio in
Rwanda, con il possibile sviluppo del disturbo post traumatico da stress (Ptsd), ha
avuto come principio fondamentale la concezione dell’essere umano come soggetto
appartenente ad una realtà in cui entrano in gioco varie dimensioni, da quella psicofisica e spirituale a quella culturale e sociale.
Un approccio che tenga conto di questo principio è detto globale od olistico, in quanto riconosce l’importanza dell’interazione dei fattori prima citati per lo sviluppo armonico della persona e per realizzare un effettivo benessere psicofisico. Dal nostro punto
di vista gli interventi umanitari che considerano questo principio hanno un’alta probabilità di realizzare azioni adeguate e sostenibili alle condizioni socio-culturali del
bambino, della famiglia e della comunità che si andrà ad aiutare. Inoltre è fondamentale valorizzare le risorse personali e comunitarie (resilienza) che hanno permesso e
permettono di affrontare le circostanze difficili dell’esistenza e che contribuiscono alla
costruzione della vita sociale, culturale, morale, economica, politica della comunità a
cui si appartiene. Questa è la filosofia che guida AVSI nel realizzare i progetti a favore dei bambini in situazioni difficili.
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Il progetto La prima preoccupazione nell’incontrare i bambini che avevano vissuto
le esperienze traumatiche è stata quella di stare con loro, di instaurare una relazione
a partire dalle cose più semplici come il gioco o la gestione della vita quotidiana.
Questo ha consentito di creare quel contenitore sicuro per la psiche del bambino,
condizione indispensabile per lo svolgimento delle successive attività. Infatti un trauma da guerra mina la fiducia nell’altro e questa fiducia deve essere recuperata e guadagnata passo dopo passo.
Solo dopo che questo processo ha avuto inizio abbiamo cominciato ad affrontare le
sofferenze delle esperienze che hanno sconvolto la psiche e che si ripresentavano quotidianamente sotto forma di incubi notturni, flash-back di immagini durante il giorno, stato di allerta continuo come se quanto è stato vissuto potesse capitare da un
momento all’altro, sentimenti di tristezza per gli affetti perduti per sempre.
In tal senso attraverso differenti metodi comunicativi, appositamente adattati all’età
ed alla cultura locale, quali il disegno, la scrittura, il teatro con le drammatizzazioni,
la musica, la parola, il gioco si è permesso sia in gruppo che individualmente l’espressione delle emozioni degli avvenimenti traumatici e di quanto ancora si stava provan-
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do rispetto a questi eventi. Questo perché spesso dopo un trauma psichico si ha una
rimozione dei fatti dolorosi con persistenza delle emozioni ad esso correlate che rendono la persona fragile ad affrontare il quotidiano.
La capacità di riappropriarsi di un senso di quanto si stava provando consentiva un
controllo della situazione ed una ripresa della fiducia di sé.
Infatti la possibilità di esprimere tutta la sofferenza psichica e fisica provata avvia un
processo di pensiero caratterizzato dall’elaborazione del vissuto con la comprensione
che quanto emotivamente si sta provando ha un correlato con la passata esperienza
traumatizzante.
Tutto questo non sarebbe stato sufficiente se non si fosse proseguito il lavoro valorizzando le risorse presenti prima del vissuto traumatizzante e quelle attuali con le speranze ed i progetti futuri.
Attraverso questa attività attuata sempre attraverso le modalità espressive sopra riportate, si è promosso:
1) il senso di continuità della vita e di unità della persona, che il trauma aveva spezzato, tra le esperienze prima di quella traumatica, quelle relative al momento del
trauma e quelle attuali;
2) il senso di stima di sé e la disidentificazione dai vissuti traumatici, in quanto il
bambino è diventato consapevole delle risorse presenti nei differenti campi da
quello sociale (amici, famiglia, scuola, ...), al mondo degli interessi (lo sport, il
gioco, il tempo libero, ...), a quello dei valori (le convinzioni personali, la religione, il senso della vita e della morte), dei desideri, delle emozioni, dei sentimenti,
dei pensieri. Queste sono diventate certezze del presente per progettare un futuro.
Proseguendo nel nostro lavoro, dopo i primi nove mesi di emergenza dalla fine del genocidio, si sono realizzate delle attività territoriali quali l’apertura di un centro di counselling psicologico presso l’ospedale di Nyanza in cui avvenivano gli incontri con le persone provenienti da tutta la provincia di Butare (di cui Nyanza faceva parte) che richiedevano il nostro aiuto per affrontare i disturbi post-traumatici. Questa rappresentava solo
una parte degli interventi territoriali in quanto molti dei nostri compiti spaziavano dalla
costituzione di gruppi di aiuto ai soggetti con Ptsd (post traumatic stress disorder) ospitati in centri per bambini non accompagnati (bambini per i quali non si avevano ancora
notizie dei parenti), alle attività di formazione su cos’è e come si affronta il disturbo posttraumatico da stress con gli insegnanti, gli operatori sociali delle diverse realtà, gli operatori sanitari, i gruppi di genitori, i catechisti, i responsabili di associazioni locali, i leader di comunità e di varie organizzazioni religiose, i ragazzi delle scuole superiori.
Vi è stato anche un intenso impegno sociale per rintracciare i parenti dei bambini
ospiti nell’orfanotrofio di Nyanza con successivo ricongiungimento famigliare.
Altre attività sono state quelle rivolte allo sviluppo delle capacità di aggregazione
sociale in tutti i settori, da quello culturale, ricreativo a quello economico e produttivo a favore di piccole realtà locali.
Realizzare tutto questo è stato possibile grazie ad un’équipe multidisciplinare che ha
visto coinvolto personale locale con diverse professionalità: psicologo, educatore,
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Conclusione La maturazione di queste esperienze e della metodologia di intervento sta proseguendo nel nord dell’Uganda dove AVSI si sta occupando insieme ad altre
Ong internazionali di progetti di reintegrazione dei bambini soldato e di progetti formativi per la prevenzione dell’Aids.
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insegnante, assistente sociale, infermiere con il personale espatriato (un neuropsichiatra, una pediatra ed una assistente sociale).
Un lavoro di rete tra le diverse qualifiche professionali ha permesso di:
1) identificare i fattori che hanno compromesso lo sviluppo del bambino e riconoscere i bisogni fondamentali;
2) conoscere per sviluppare, in maniera rispettosa della cultura locale, le risorse presenti nella comunità in grado di affrontare i bisogni psico-fisici del bambino;
3) sostenere le famiglie sia nei loro bisogni pratici che di relazione con i ragazzi traumatizzati;
4) proteggere i bambini non accompagnati assistendoli non solo nei loro bisogni
materiali ma anche in quelli psico-relazionali;
5) garantire la protezione delle persone vulnerabili dopo il genocidio quali i bambini
e le donne, coinvolgendo le autorità locali affinché tutelassero anche dal punto
vista legale questa fascia sociale;
6) promuovere un dialogo tra le diverse componenti sociali nel rispetto delle diverse
opinioni favorendo l’aggregazione e le attività di gruppi ricreativi, religiosi, cooperative ed associazioni locali in grado di sostenere azioni di solidarietà per una effettiva educazione alla pace;
7) fare pressione sul governo centrale affinché fosse inserito nella nuova costituzione
il rispetto della convenzione internazionale dei diritti del bambino;
8) favorire sia la ricostruzione fisica delle strutture della comunità, quali scuole, centri di salute e chiese, che quella professionale di insegnanti e operatori sanitari e
sociali;
9) permettere dopo il genocidio di avere dei centri qualificati di counselling psicologico per risolvere le problematiche psico-sociali relative al trauma;
10) coordinare le diverse organizzazioni non governative e le agenzie internazionali
che si occupavano di problemi psico-sociali con le politiche sociali e sanitarie del
governo rwandese.
Quanto sopra ha consentito di raggiungere a livello personale e comunitario i seguenti obiettivi:
1) la reintegrazione di numerosi bambini nelle loro famiglie;
2) la ricostruzione di una stima di sé e dell’identità personale;
3) il ritrovare un senso di appartenenza alla comunità;
4) lo sviluppo di risorse sociali ed economiche;
5) la ripresa delle attività educative e socio-sanitarie;
6) la realizzazione di strategie adeguate di intervento tra i vari soggetti coinvolti nell’aiuto umanitario alla popolazione.
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In conclusione riteniamo importante che qualsiasi intervento a favore dell’essere
umano debba realizzarsi con uno sguardo attento alla totalità dei fattori in gioco e con
una capacità operativa di effettuare una loro integrazione. Nel nostro caso abbiamo
iniziato in una situazione di emergenza e partendo da un’attenzione alle necessità di
base per la sopravvivenza (cibo, vestiti, cure sanitarie, alloggi) si sono accolte e considerate come fondamentale per la vita la dimensione psicologica e spirituale del singolo e della comunità, in particolare nei bambini e negli adolescenti.
Terminiamo con la considerazione che fin dall’inizio dei nostri incontri con i bambini ci è stato chiaro che non ci può essere pace nel futuro dell’umanità se non c’è pace
nella mente dei bambini.
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Testimonianze
di volontari AVSI che erano in Africa
durante il periodo del genocidio
Filippo Ciantia, medico, classe 1954, vive in Africa dal 1980 (Uganda). È responsabile AVSI,
da Kampala, per l’intera Regione dei Grandi Laghi: Uganda, Rwanda, Burundi, Repubblica
Democratica del Congo (paesi nei quali AVSI ha uffici e coordina programmi di cooperazione allo sviluppo):
«Ricordo bene quei giorni. Allora lavoravo per Unicef in Uganda e fui incaricato di
coordinare l’operazione più tremenda della mia carriera: il recupero di centinaia di
corpi di donne e bambini, che, decomposti, scendevano il fiume Akagera, entravano
nel lago Vittoria e raggiungevano con le correnti le rive ugandesi. Alla fine dell’intervento furono recuperate 10.700 salme…».
Giovanni Galli, 45 anni, medico psichiatra e neurologo nell’Azienda Ospedaliera di
Desenzano (Bs). Già in Rwanda nel 1986 come medico nell’ambulatorio di Musha, nel nord
del paese. Ritorna durante il genocidio in Rwanda per portare una carovana di aiuti sanitari e di prima necessità per l’orfanotrofio di Nyanza dei padri Rogazionisti. Rimane nel paese
fino al 1996 in qualità di medico:
«Mentre ci stavamo dirigendo verso il confine rwandese, ancora in territorio ugandese, fummo assaltati con le armi da un gruppo di banditi che ci derubò di tutto. Non
avevamo più nulla per l’orfanotrofio… Eravamo disperati. Ritornammo a Kampala e
lì incontrammo AVSI, che ci aiutò a riorganizzare il carico e ripartire con i loro mezzi.
Appena varcammo il confine rwandese la prima cosa che mi colpì fu l’odore nauseabondo di morte data dai cadaveri sparsi lungo le strade. Era disarmante vedere l’espressione e lo sguardo perso nel vuoto dei sopravvissuti…».
Chiara Mezzalira, medico pediatra, da oltre 15 anni vive in Africa, prima in Uganda, poi
in Nigeria e infine in Rwanda. Ora, da 7 anni, è responsabile e coordinatrice per AVSI di un
Centro sanitario di cure primarie alla periferia di Lagos, in Nigeria:
«Ero tornata dalla Nigeria da alcuni anni e lavoravo nell’ospedale di Vimercate, quando ho saputo del genocidio. Ho chiesto un’aspettativa di 7 mesi e sono partita per il
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Lucia Castelli, nata a Milano, classe 1957, medico pediatra, dal 2000 responsabile e coordinatrice per AVSI del programma per il recupero psico-sociale degli ex bambini soldato a
Kitgum, in nord Uganda:
«Ho lavorato in Rwanda dal novembre 1994 alla fine del 1995 per AVSI, per un progetto di recupero dei bambini traumatizzati a Nyanza, in un orfanotrofio nella provincia di Butare nel sud del paese, dove erano stati lasciati dai loro genitori o parenti, più di 800 bambini. Si chiamavano bambini “non accompagnati” perché non sapevamo se i genitori, fuggiti e inseguiti dai perpetratori della strage, erano ancora vivi o
no…».
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Rwanda. Ricordo in particolare un ingegnere a cui avevano ucciso la moglie davanti
ai suoi occhi, non dimenticherò mai il suo sguardo, e che stava cercando, da mesi, i
suoi figli, finché li ha trovati nell’orfanotrofio dove operavamo noi, a Nyanza».
Marco Perini, italiano, rappresentante AVSI in Rwanda, con ufficio a Kigali:
«In questi giorni basta andare all’aeroporto di Kigali o cercare una camera in affitto in
un hotel per rendersene conto: taccuini ovunque, macchine fotografiche di ogni tipo,
giacche blu e macchine nere a tutta velocità e se non hai riservato la camera è meglio
cercare un amico o un connazionale compiacente. Kigali, oggi, è un susseguirsi di
cantieri per palazzi in costruzione, senza buchi nelle strade principali, con tanti divieti di sosta a mettere ordine e con l’ordine di sfratto per chi abita in case indecorose....
Ma questo non è il Rwanda della pandemia Aids e della malaria che è ancora la prima
causa di morte e neanche quello dove il divario tra i pochi tantoricchi e i tanti tantopoveri si sta allargando a dismisura…».
Carlo Maria Zorzi, italiano, rappresentante AVSI in Rwanda dal 1997 al 2003. Ora è ad
Haiti:
«Non sono stato un testimone immediato…, ho operato piuttosto nell’ottica dello sviluppo, del lungo termine, sull’evoluzione che ha portato la gente ad essere quella che
è oggi e il paese a ritrovare una certa dimensione interna e verso il mondo esterno…».
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Sierra Leone
Questi bambini ci insegnano
di padre Giuseppe Berton
Padre Giuseppe Berton è nato a Marostica (Vicenza). Missionario saveriano, da oltre
vent’anni vive in Sierra Leone. Per sua iniziativa, nel 1985 è nato il Family Homes
Movement (Fhm), da cui dipende il «Centro d’accoglienza San Michele», un ex villaggio
turistico - devastato dalla guerra - che sorge a Lakka, nei pressi della capitale Freetown. È
qui che il religioso, tra mille difficoltà, cerca di restituire serenità e dignità a centinaia di
orfani ed ex bambini soldato. Un compito improbo. Padre Giuseppe insieme ad altri confratelli fu rapito dalle bande ribelli. Riuscì a fuggire durante un bombardamento. Nella postfazione di un suo volume (Una voce lontana, diario dalla Sierra Leone, Editrice artistica
Bassano, 1999) c’è tutta la sua storia: «Durante la fuga mi nascosi in un gabinetto di lamiere arrugginite. Osservavo da una fessura una mamma. Esposta al pericolo di essere fatta prigioniera, con la possibilità che le venissero amputate le braccia o che venisse uccisa sul posto,
portava sulle spalle un figlioletto e cercava l’altro nella confusione generale. Quell’immagine
rimane per me il simbolo della sofferenza di una nazione, che perde i suoi figli nello strazio
delle madri: che ne sarà di quella madre, di quei bambini, di questo Paese? Spetta a noi operare per i cambiamenti, ma diciamolo pure con coraggio e sincerità: noi missionari, da soli,
non ce la faremo mai».
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Questi bambini ci insegnano. Sanno che solo attraverso l’educazione possono redimersi dal disastro che ha provocato in loro una guerra che li ha svuotati di valori,
incalliti nel male, resi indifferenti ed insensibili alle bellezze della vita.
Una rieducazione lenta e protratta nel tempo. Un convivere con altri bambini cresciuti nella gioia della scoperta quotidiana di un qualche cosa sempre nuovo. Uno svegliarsi al mattino desiderando di incontrare nuove cose. Un correre a scuola per
comunicare nuove gioie. Tutte belle cose che avrebbero fatto vivere loro esperienze di
crescita e dimenticare un passato tormentato, gretto, cattivo, spesso crudele. Non
solo, ma sanno e te lo dicono che solo con l’educazione potranno fare fronte alla vita
ora che si trovano soli.
Mariama bussò alla porta. Con i suoi dodici anni, anche se si era avvolta in vita un
telo che le scendeva ai piedi facendola apparire più adulta, non poteva ingannarmi.
Una ragazzina. Ancora bambina.
Good morning, father!… School!
Un po’ troppo contratto il discorso, ma l’avevo capito.
Vuoi andare a scuola. Già, come cento altre. Ma chi vi ha messo mai in testa che io
possa mandarvi tutti a scuola. Magari lo potessi.
Mariama mi guardava con uno sguardo fisso. Si era bloccata nel suo discorso.
Qualcosa la turbava. Altro che qualcosa.
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«Sono sola. Voglio andare a scuola, perché ora devo badare a me stessa».
«Sola?».
Veniva da lontano, la piccola Mariama, molto lontano ed era in giro da sola da oltre
un mese. I ribelli avevano attaccato il suo villaggio ed era riuscita a nascondersi, ma
dal suo nascondiglio poté vedere tutto. Le violentarono la madre e poi la scannarono. Le uccisero il padre ed il neonato di sua sorella lo schiacciarono sotto i piedi. E
fu la fine violenta anche di sua sorella. Lei seppe rimanere nascosta. Poi ce la fece a
fuggire. Capì che doveva portarsi in capitale. Che doveva incominciare da sola. Un
mese di peripezie ed eccomela alla porta.
Come vorrei potere incontrarla ancora, ma gli scontri militari, il fuggi-fuggi dopo la
presa di Freetown da parte dei ribelli hanno fatto svanire nel nulla anche la piccola
Mariama. Sarà ancora viva? Ne dubito. Sarebbe tornata… per andare a scuola.
Saidu è venuto a trovarmi qualche giorno fa. Era raggiante nella sua nuova uniforme
di una scuola rinomata. Faceva la prima media, ma ci è voluto per arrivarci.
Aveva fatto carriera tra i piccoli “boia” e per la sua bravura, il suo coraggio, lo avevano promosso caporale. Era bravo a mettere in piedi un posto di blocco… e così a
mantenersi ed a mantenere i “suoi”. Quando mi arrivò tra le mani e riuscii a fargli
dimenticare l’arma che portava sempre con sé, incominciai ad “addomesticarlo”, letteralmente “addomesticarlo”. Quando arrivavo in cortile, dalla classe saltava fuori
dalla finestra. E la porta non era molto lontana… ma la finestra era più vicina. Quei
lacrimoni il giorno che, non potendone più, gli dissi che «Enough is enough (basta
così)» e capì che la sua vita con me era corta.
«Me lo dicevi anche tu! Un po’ alla volta! Verrà pure fuori tutta questa droga… un po’
alla volta!».
Aveva ragione lui. La strada era lunga, ma se continuava a volere, se continuava anche
a salti e balzelli ad andare a scuola, un po’ alla volta lo avrei “addomesticato”. Abituare
il corpo e la mente ad una stabilità di condotta, lui che per anni è vissuto d’istinto e
d’improvvisazione, doveva essere difficile.
«Abbi pazienza...», m’implorava.
La scuola l’ha cambiato e se continua così, anche se alquanto in ritardo sulla sua età,
potrà diventare qualcuno. E lui lo sa, ci tiene e ci prova.
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Il recupero dei ragazzi soldato era fondamentalmente basato sulla scuola, per coloro
che ne fossero di età scolastica. Fu difficile, da principio, trovare una scuola che li
accettasse. A parte il fatto che la gente li temeva, presentavano agli insegnanti un vero
problema disciplinare. Vivevano con me a S. Michele, e la scuola era a quattro passi,
non più di dieci minuti a piedi. Fortunatamente a… quattro passi, perché di tanto in
tanto dovevamo intervenire da S. Michele, per aiutare gli insegnanti a restituire alla
scuola la debita disciplina. Il ritorno all’educazione vera e propria progrediva quasi
come una macina di mulino, piano-piano, quasi frantumando vecchie abitudini,
facendo farina e rimpastando anni di vita indisciplinata. Si presentava come un lavoro lento e lungo e la cosa peggiore non poteva essere che il dimenticare che era un
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lavoro lento e lungo. La cosa peggiore era d’incolparli di colpe che non avevano: una
irrequietezza diventata seconda natura.
L’unica salvezza per il mio paese è educare la gente
di Ernest Sesay, insegnante in Sierra Leone6
«L’unica possibilità per la nostra salvezza e sviluppo in Sierra Leone è di educare la
nostra gente in modo che tutti possano avere la libertà che tutto il mondo sta cercando. L’ educazione prima di tutto e sopra ogni cosa». Chi ci parla è Ernest Sesay, 27 anni,
e la sua casa è in Sierra Leone, Africa. È laureato in scienze dell’educazione, sposato
con un figlio, si occupa, con l’aiuto di AVSI, del progetto di una scuola a Freetown.
Dopo essersi laureato, Ernest ha seguito un corso di specializzazione in psicologia, in
modo da poter operare al meglio all’interno dei programmi dedicati al recupero degli
ex bambini soldato. Nato nella cittadina di Bumbuna, Ernest è cresciuto con padre
Berton, il missionario saveriano da oltre 40 anni in Sierra Leone.
Da 18 anni padre Berton ha dato vita alla fondazione Family Homes Movement, un’associazione, sostenuta da AVSI, un movimento di famiglie che riceve in affido i bambini
abbandonati della Sierra Leone. Sono 22 le famiglie che in questi anni, con padre Berton
e la collaborazione di Ernest, hanno già reinserito nella società più di 4.000 bambini.
Nella terra di Ernest, la Sierra Leone, la guerra è finita nel 2001, lasciando un paese
devastato e allo sbando. Molti sono i bambini che, non avendo ritrovato la famiglia,
non sanno cosa fare né dove andare. «Sono tutti i ragazzi che i ribelli del Ruf (Fronte
unito rivoluzionario) hanno rapito, drogato, obbligato a combattere».
Ernest è stato rapito dai guerriglieri del Ruf, ma non ama troppo raccontarlo. «Era il
1999, il periodo durante il quale i guerriglieri eliminavano gli studenti universitari e
rapivano i bambini. Sono rimasto prigioniero un mese nel bush e ho rischiato di essere fucilato. Fortunatamente, poi, sono riuscito a fuggire».
Oggi Ernest è coordinatore al St. Michel’s, il centro di recupero degli ex bambini soldato di padre Berton. «Il nostro centro accoglie i bambini delle guerre, - spiega Ernest
- cerca le famiglie d’origine e svolge un importante lavoro di sostegno psicologico, per
far loro vivere una vita normale».
Quello che sto per raccontare riguarda una delle tante guerre dimenticate nel mondo.
Sto parlando della guerra in Sierra Leone: otto anni di conflitto, dal 1991 al 1999,
dove ci sono state migliaia di morti, mutilati e donne stuprate. Barbarici atti che il
mondo deve conoscere.
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Tratto da Buone Notizie, periodico AVSI.
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I ribelli a Freetown
L’esperienza di Daniel, giovane studente della Sierra Leone in Italia
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Mi chiamo Daniel, ho trenta anni e vivo in Italia da quattro anni. Vivo a Roma e studio all’università dove mi sto laureando in scienza della comunicazione. Sono stato
costretto a lasciare il mio paese, famiglia, parenti ed amici a causa del conflitto (economico?- politico? - civile? - Non so). Mi viene da piangere, quando ricordo l’esperienza vissuta durante la guerra. Non tanto per me ma per quelli che chiamo “sfortunati”. Cioè quelli morti, mutilati, stuprati, ecc. Non riesco a nascondere la mia amarezza per quegli atti feroci. Qualche volta sto male. Mi chiedo perché i ribelli hanno
fatto queste cose.
Era il 6 gennaio del 1999 a mezzanotte circa quando i ribelli del Fronte unito rivoluzionario (Ruf) sono entrati - tornati a Freetown, la capitale, per prendere il controllo
del potere governativo. Quella notte i ribelli hanno usato noi, i civili, come scudi
umani. Hanno sparato all’impazzata contro ogni casa comandando che tutti uscissero fuori casa a marciare. A quelli che per paura si sono nascosti chiudendosi in casa,
gli hanno incendiato le case per farli morire dentro. Potete immaginare che situazione quella notte. Noi eravamo in una casa famiglia, ventuno persone, sei adulti e quindici bambini tra cui due portatori di handicap e un ammalato grave.
Sentendo spari e strilli eravamo tutti presi dal panico ed ognuno usciva di casa prendendo uno, due o tre bambini con sé cercando di scappare, dove non si sapeva. Tutti
piangevano, urlavano nomi ed abbiamo notato che c’erano dei ribelli in mezzo a noi
che sparavano ovunque e ci ordinavano di avanzare verso il cuore della capitale.
La mattina successiva, ci siamo trovati un po’ alla volta tutti nella nostra casa trovandola bruciata fino a terra. Mancavano due dei nostri ragazzi. Proseguendo alla casa
vicino abbiamo trovato il corpo morto di uno di loro. Non sapevamo che fare, dove
andare. Uno dei ragazzi che avevamo appena accolto dall’ospedale che “conosceva” il
vero pericolo dei ribelli ci ha consigliato di spostarci verso la città. Così siamo andati tutti verso la casa della zia del responsabile della casa famiglia. Questo ragazzo,
Gabriel, non sorride mai. Il suo villaggio è stato attaccato e bruciato e lui ha perso
tutti i suoi. È stato portato via dai ribelli che gli hanno tagliato un piede e hanno gettato lui in una gran fogna sparandogli. I ribelli poi sono andati via credendo che fosse
morto. Dopo tre giorni, raccontava Gabriel, passarono da lì alcuni delle forze dell’ovest dell’Africa (Ecomog) che difendevano governo e civili dai ribelli e lo hanno sentito che piangeva. Così sono venuti a soccorrerlo e lo hanno portano a Freetown in
ospedale.
Un altro ragazzo, Abdul, invece è stato preso con una cinquantina di persone dai
ribelli per portare nella loro base nella foresta cose che i ribelli avevano rubato. Dopo
un mese Abdul è riuscito a scappare e venire da noi. Una cosa incredibile, lo avevamo già contato tra i morti.
Abdul tornando a noi non poteva aspettare, era ansioso di raccontarci quello che gli
era accaduto. Ci ha detto: «Ho una profonda e miracolosa esperienza che voglio condividere con voi». Abdul ha proseguito raccontando che quando erano arrivati nella
base dei ribelli, dopo tre giorni e due notti di cammino, la mattina dopo i ribelli avevano deciso di ammazzare tutti i civili che avevano portato le loro cose rubate. Per i
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ribelli del Ruf, ci diceva Abdul, era una routine normale torturare, massacrare e uccidere persone tutte le mattine.
Abdul si è fermato per circa tre minuti tremando e piangendo. Poi ha continuato
dicendo: «Ci hanno messi in fila pronti per ammazzarci. Io ero il numero sette. Tutti
i sei ragazzi prima di me li hanno ammazzati con i machete davanti a noi. Quando
sono arrivati da me, ho pregato loro di farmi dire una preghiera a Dio.
Miracolosamente hanno accettato la mia richiesta e mentre pregavo Dio di salvarmi,
ma che fosse fatta la sua volontà, erano tutti immobili. Dopo alcuni secondi mi hanno
chiesto chi ero e mi hanno lasciato libero con tutti gli altri dopo di me».
Abdul ha poi aggiunto che era «strano e miracoloso come tutto era accaduto, ma da
allora, mi ha fortemente aperto una nuova esistenza di Dio e penso di portare quest’esperienza profonda dentro di me per tutta la mia vita. Noi non lo vediamo Dio fisicamente, però esiste. È come l’aria che respiriamo, non la vediamo però crediamo che
esista e la usiamo». Questo ci aveva raccontato Abdul.
Durante le tre settimane che eravamo nella zona della capitale presa dai ribelli, eravamo in un regno dei morti giorno dopo giorno. Eravamo costretti dai ribelli a mettere
un filo di stoffa bianca nella testa, cantando tutti, e tutte le notti, per loro, dicendo
che non volevamo il governo ma i ribelli. Chi non usciva di casa a cantare, veniva torturato. Allo stesso momento eravamo sotto i bombardamenti delle forze di coalizione
contro i ribelli. Venivano uccisi migliaia di civili usati come scudi umani, noi siamo
stati salvati da un miracolo.
Mi sono rimaste nel cuore due terrificanti scene che non dimenticherò mai. Una è la
notte del 20 gennaio 1999 quando alcuni ribelli drogati sono arrivati nella casa vicina dove ci nascondevamo. Hanno sparato alle porte rompendole e chiedendo delle
ragazze. Quando non hanno trovato delle ragazze, si sono infuriati e hanno cominciato a mutilare mani, piedi, braccia e orecchi con i machete a tutti quelli che hanno
trovato. Noi sentendo dei pianti e urla disperate siamo scappati ovunque nei bagni,
fognature e nella vicina vegetazione.
L’ altra orribile scena è quando le forze della coalizione sono riuscite ad avanzare e a
costringere i ribelli a scappare e lasciare Freetown. In quel momento, i ribelli si sono
rivolti contro i civili ammazzando, torturando e bruciando case e persone. Dal mio
nascondiglio, ho visto i ribelli incendiare due case con gente dentro sparando contro
di loro, e poi buttando una bambina di circa due anni nelle fiamme.
Dopo che le forze della coalizione sono arrivate nella nostra zona, siamo partiti passando in mezzo ai combattimenti e bombardamenti verso lo stadio dove milioni di
persone si erano rifugiate. Camminando, abbiamo visto, ho visto centinaia di corpi
per le strade uno sopra l’altro come dei tronchi. Sono quasi svenuto e quando siamo
arrivati allo stadio, sono stato male per il fetore. Siamo stati allo stadio per una settimana e poi siamo riusciti ad attraversare il mare verso un'altra città, dove c’era l’aeroporto. Da lì siamo partiti per Conakry, la capitale della Guinea.
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
La guerra e l’infanzia
La storia di Jimmy, Sierra Leone
Jimmy Tamba è un ragazzo della Sierra Leone rapito dai ribelli del Fronte Unito
Rivoluzionario mentre stava passando le vacanze con alcuni suoi compagni di scuola. Era il
1996 e Jimmy aveva tredici anni. Da allora per tre anni, fino al ’99, è stato costretto a fare
il soldato. Ecco alcuni stralci del suo intervento alle Nazioni Unite.
itascabili
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Era il 1996 Me la ricordo come una delle peggiori esperienze della mia vita.
Sentendo degli spari provenienti da non molto lontano, io e altre persone corremmo
verso il più vicino cespuglio per nasconderci, ma avvistammo cinque uomini armati
avanzare verso di noi. Cercammo di correre, ma ci dissero di stare fermi, che erano
soldati dell’esercito della Sierra Leone e che erano venuti a liberarci dai ribelli. Ci ordinarono di seguirli e ci diedero due alternative: seguirli o essere uccisi. Così fummo
portati in un accampamento dove c’erano circa 1.000 persone. Non c’era modo di
scappare e io ero triste perché per la prima volta mi trovavo in presenza di uomini
armati. Dopo sei mesi fui trasferito in un altro campo per essere sottoposto con altri
ad un addestramento per diventare guerrigliero. Ci diedero delle pistole e ci dissero
che la pistola era la nostra vita, i nostri genitori, la nostra famiglia e il nostro cibo.
Una delle peggiori esperienze che feci fu quando andammo in missione per procurarci del cibo. Catturammo un uomo di circa 50 anni e gli chiedemmo di indicarci dove
potevamo trovare del cibo, ma lui replicò: «Bambini miei, io sono straniero qui. Non
conosco questa comunità così non so dove trovare del cibo per voi». Il capo pensò
che stesse mentendo e mi ordinò di picchiarlo. Cercai di rifiutare, ma sarei stato ucciso per essermi rifiutato di obbedire. Dopo un lungo periodo senza sentire il rumore
degli spari, i capi dei ribelli dissero che dovevamo attaccare Kabala, nel nord del
Paese. Era il 1999. Avevamo in mente di passare attraverso la grande città di Mongo
Bendugu in cui stazionava il contingente della Guinea. Combattemmo, ci sgombrammo la strada e formammo la nostra base nella città. Combattevamo continuamente.
Io rimasi con gli uomini diretto a Koinadugu, a 10 miglia da Kabala. Gli altri portarono a compimento con successo le loro missioni e stazionarono nella città di Kabala
per tre giorni. Poi vennero scacciati dalle truppe Ecomog e si unirono a noi a
Koinadugu.
Una volta ebbi un amico, un buon amico, un maggiore (Sla/Afrc) a capo delle comunicazioni che era chiamato “Pronto”. Mi chiamò e mi prese l’arma, mi domandò se ero
andato a scuola. Gli raccontai la mia esperienza scolastica. Avevo sedici anni. Mi disse
che voleva mi unissi a lui per insegnarmi ad usare un set di comunicazione. Imparai
molto bene e divenni famoso tra i miei compagni al punto che non mi chiamavano
più col mio nome, ma “Giovane Pronto”. Venni assegnato ai quartieri generali dove
c’erano gli ufficiali graduati. E il mio compito era di passare e ricevere messaggi per
loro. In quel periodo tentai di scappare, ma caddi in un’imboscata. Mi presero e mi
dissero: «Giovane Pronto, vuoi scappare e fare trapelare i nostri segreti?». Dissero che
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
mi avrebbero dato un regalo che non avrei più dimenticato per tutta la vita: fui marchiato a fuoco con le lettere Ruf sulla destra del petto. Nel dicembre del 1998, ci fu
ordinato di attaccare la capitale Freetown. Riuscimmo nell’intento e restammo lì per
tre settimane. Tentai invano di trovare i miei genitori. Poi fummo cacciati in un’area
denominata Okra Hill e facemmo base nella West Side. Restammo lì per circa quattro
mesi fino a quando ci chiamarono per il “cessate il fuoco” a sottoscrivere l’accordo di
pace a Lomé, nel Togo. Fortunatamente per me e gli altri il governo chiese che i ribelli rilasciassero i bambini e le persone anziane nella giungla.
Fui preso sotto la custodia del maggiore che mi portò dai rappresentanti del Family
Homes Movement (Fhm) che si prendono cura dei bambini e delle persone povere. Mi
affidò a padre Berton, fondatore e direttore del Fhm. Padre Berton si prese cura di me
facendomi concludere gli studi liceali e fece di tutto per incoraggiarmi e farmi dimenticare la giungla. Ma ero ancora triste perché i miei amici si allontanavano da me chiamandomi “ribelle” e non c’era modo, per me, di negarlo, perché il segno, il marchio
Ruf era sulla mia pelle. Allora, mentre eravamo ad una conferenza sui bambini vittime di guerra che si teneva a Winnipeg, padre Berton trovò un dottore per cancellare
il marchio dal petto. Non lo dimenticherò mai. Adesso sono felice perché da bambino-soldato sono diventato bambino-studente grazie all’aiuto di Fhm, AVSI, Cause
Canada e Unicef. Ma ancora oggi c’è una cosa che mi tormenta: «Dove sono i miei
genitori, dov’è la mia famiglia?».
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Sudan
I dimenticati del Sudan7
di Claudio Monici
Un giovane cacciatore di etnia lotuko, nudo, arco e frecce in spalla, torna con il carniere pieno. Bottino sette adioro, topi. Non c’è età per andare a caccia nella savana. I bambini diventano grandi quando sono in grado di distinguere tra ciò che è bene e ciò che
è male. Così come il piccolo cacciatore che ci passa accanto, mentre all’imbrunire se ne
torna alla sua capanna. Ha 12 anni e la sua scuola quotidiana è un’escursione in cerca
di cibo. Quello che trova. Per lui, le gazzelle sono ancora troppo veloci. Il suo nome,
nella lingua dei lotuko, significa «notturno», perché quando è nato in questa boscaglia
era notte. Se la fortuna lo accompagnerà, diventerà adulto e dopo arco e frecce, imbraccerà le armi. Che non mancano, dopo più di vent’anni di guerra, in Sud Sudan. Ci
siamo accampati in questo piccolo insediamento di capanne, ai piedi dei monti
Imotong, che fanno da frontiera tra Sud Sudan e Uganda. Due ore di volo da Kampala
(Uganda), a bordo di un «Cessna 206» della «Maf» (Mission Aviation Fellowship), prima
di toccare terra su una striscia di sabbia rossa nel villaggio di Ikotos, contea di Torit.
Altre due ore di jeep per cinquanta chilometri di pista in mezzo alla boscaglia e una
marcia a piedi. La missione è quella di perlustrare, per la prima volta dopo dieci anni,
alcune zone abitate e rimaste isolate, escluse da qualsiasi intervento umanitario.
Difficile sapere quanta gente ci abita. Raggiungiamo Pietro Galli, responsabile emergenze per conto di AVSI… e il medico milanese Andrea Bornati. Sono nel maquis già
da una settimana, ne hanno altre quattro davanti. Raccoglieranno dati e informazioni
per valutare le condizioni di vita della gente in oltre trenta comunità, per poi avviare
un progetto di aiuto già studiato dall’AVSI che punterà su acqua, sanità e istruzione.
Qui mancano le cose più elementari. E se ci sarà la pace dopo gli accordi di Naivasha
in Kenya, la sfida sarà quella di intervenire in tempo per ricostruire il Paese, da zero.
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Una clinica sulla jeep Nella jeep lo spazio è riservato a tre scatoloni di medicinali
che servono al medico per le sue visite. Una clinica mobile che fornisce assistenza in
media a un centinaio di individui, mattina e pomeriggio. Senza pausa pranzo, anche se
il caldo è implacabile. Anche se Pietro e Andrea hanno cinque settimane di tempo, bisogna sfruttare pure i minuti. Soprattutto adesso che la tregua regge. Si beve acqua di
pozzo e si dorme in radure dove lo scorso anno c’è stata un’epidemia mortale di febbre
gialla. La malaria è endemica, il morbillo uccide, in terra strisciano cobra e scorpioni.
Ma non solo: si battono piste dove esiste il serio pericolo delle mine e c’è il rischio di
cadere in una imboscata. Pietro e Andrea per entrare in Sudan hanno attraversato il nord
Uganda in jeep, infestato dai ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra).
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Brano tratto da un articolo di Claudio Monici, apparso su Avvenire dell’8/02/04, qui ripreso per gentile concessione del quotidiano.
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Acqua, primo problema In Sud Sudan, gli adulti sono quasi tutti armati: se non
è la guerra tra nord e sud è per via delle tensioni tribali per il possesso delle mandrie.
La ricchezza del luogo, la moneta da razziare per poter contrarre un matrimonio e
garantire la continuità ancestrale della tribù. È l’acqua il primo dei grandi problemi
del Sud Sudan. Acqua pulita significa salute. I pozzi distano anche una giornata di
marcia a piedi. Molti sono rotti, altri inquinati. Ma la gente beve comunque. Quelli
nuovi non si possono scavare perché non ci sono trivelle e poi come portarle fino a
qua, senza strade asfaltate, nella savana dove spesso non possono atterrare neppure i
piccoli Cessna? A Ikotos vivono 12 mila persone e ci sono solo otto pozzi, la metà
sono rotti. Per scavare un pozzo occorrono 9 mila euro.
Vivere nella boscaglia Quella del Sudan è la più lunga guerra civile mai combattuta, ed è cominciata proprio a Torit. Ha fatto più vittime di Bosnia, Kosovo e Rwanda
messi assieme e provocato milioni di profughi. Troppi costretti a vivere nella boscaglia, dove non si conosce l’uso dell’aratro né del carro. Tutto è rimasto come ai tempi
di Daniele Comboni. «Per muoversi in questi spazi - scriveva un esploratore dell’epoca – bisogna pensare e provvedere a tutto, altrimenti le conseguenze possono essere
fatali». Anche oggi. Poi bisognerà pensare al ritorno dei profughi, 4 milioni quelli
interni, centinaia di migliaia dispersi oltre confine. Bambini come il cacciatore lotuko
non hanno perso solo i loro anni migliori nel cercare di sfuggire alla guerra. Sono
generazioni che hanno perduto qualcosa di molto più importante per il loro futuro:
l’istruzione. Ci hanno pensato gli Antonov del governo di Khartoum a bombardare le
scuole di paglia e legno.
Il ritorno dei guerriglieri All’Equatore il buio scende veloce. Una falce di luna
bianca illumina il passaggio di una mandria di vacche e poi un gruppo di uomini
armati. Sono guerriglieri dell’ Spla, Esercito popolare di liberazione del Sudan. Gli
uomini tornano da quel nero contorno dei monti dove si nascondono i ribelli ugandesi del Lra, Esercito di resistenza del Signore. A meno di trenta chilometri da qui c’è
la città di Torit. Sotto controllo dell’esercito regolare sudanese. Tra Spla e soldati di
Khartoum dal novembre del 2002 è tregua, e c’è molta attesa per una pace che sem-
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Mai visto l’uomo bianco Sotto un grande albero, gli anziani ci danno il permesso
di stendere stuoie e sacchi a pelo. La guida accende il secondo fuoco e nella pentola
ci mette i fagioli, in un’altra già bolle il posho, polenta di farina bianca. Una squadra
di bambini, incantati dalla nostra presenza, se ne stanno immobili, seduti su un
masso. Molti non hanno mai visto l’uomo bianco e nemmeno la nostra lampada a gas.
Le donne per tutta la giornata hanno macinato il sorgo sfregando pietra contro pietra,
oggi come centinaia di anni fa. A schiena curva, avanti e indietro. Giorno dopo giorno, la stessa dieta. Sembra ancora preistoria quando ci si corica circondati da piccoli
fuochi che brillano qua e là, avvolti da un brusio senza volto.
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
bra a portata di mano. Mentre con i ribelli del Lra, per ragioni strategiche sostenuti
dai governativi sudanesi, il fronte resta aperto.
Il rumore del machete Da queste parti l’Lra lo chiamano Tong-tong, una parola che
richiama il rumore provocato dal machete che i ribelli ugandesi sono soliti usare per
mutilare le loro vittime. Nella contea di Torit, vivono 250 mila persone. Ognuna con
un problema, ma tutti portati dalla guerra. Parte in jeep, parte a piedi, visitiamo e ci
accampiamo in sei insediamenti. È la guida di AVSI, il collaboratore sudanese Savio,
che ci presenta ai capi, agli anziani. Aiuta a conquistare la fiducia di uomini che vestono di stracci, maglie senza più forma e pantaloni strappati. L’accoglienza è buona,
soprattutto perché c’è il dottore e dopo anni, finalmente, qualcuno è venuto con le
medicine: per la tenia, la scabbia, la malaria, la vitamina C. Le cose più elementari,
qui introvabili. L’ ospedale più vicino, se così si può definire una struttura dove i
pazienti, spesso dormono all’aperto, è a quattro giorni di cammino. Un’appendicite o
la necessità di un parto cesareo, uccidono prima.
Il volontario e il medico italiani a caccia di vite umane da salvare8
di Claudio Monici
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[…] La schiavitù, in alcune regioni più a nord come il Bahr el Ghazal, non è mai stata
debellata, ma da queste parti il vero padrone sono la povertà e l’isolamento. Di villaggio in villaggio, Pietro trascorre giornate intere a parlare con gli anziani, per indagare
sulle necessità e sui problemi che da più di dieci anni non sono mai stati affrontati da
nessuna agenzia umanitaria. Perché la guerra e l’inaccessibilità di queste sperdute
zone di boscaglia e savana, al confine con l’Uganda, lo hanno impedito.
Qui, dove ancora si vive di baratto, acqua, sanità, scuole, sicurezza alimentare sono i
principali problemi che emergono dalle prime valutazioni. […] «A tutt’oggi - dice
Pietro Galli - nessuno sa quanti insediamenti umani esistono, nascosti sopra i monti
Imotong. Nei prossimi giorni ci arrampicheremo fin lassù per scoprirlo. Sono bisogni
che possiamo riscontrare solo andando tra la gente, anche a piedi, perché talvolta la
jeep è inutile. Ma non sarà solo questa la sfida da affrontare, perché se ci sarà la pace
dovremo far fronte anche al ritorno dei profughi, e qui non c’è alcun servizio per soddisfare le prime necessità. A livello internazionale non è ancora stato predisposto un
piano per identificare un sistema logistico di accoglimento. Solo oggi, dopo vent’anni di
guerra, si comincia a capire quanto questa zona sia stata abbandonata al suo destino:
siamo di fronte a livelli di pura sopravvivenza. Mentre sembra che tutta l’attenzione sia
rivolta solo verso le regioni del Sudan ricche di petrolio». […] Dalla boscaglia sbucano
quattro uomini, trasportano un letto di ferro, sopra c’è una donna che ha la febbre. Sono
in cammino da otto ore. Hanno saputo che c’è un medico italiano. Andrea dice che bisogna portarla con la jeep al primo ospedale accessibile: può avere di tutto, quella donna.
Proprio nella zona lo scorso anno c’è stata una epidemia mortale di febbre gialla. Mentre
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Brano tratto da un articolo di Claudio Monici, apparso su Avvenire dell’8/02/04, qui ripreso per gentile concessione del quotidiano.
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
dall’altra parte dei monti, in Uganda, c’è Gulu dove quattro anni fa è arrivata Ebola. E
Andrea era lì con la sua famiglia. Poi si saprà che è malaria, ma all’ospedale di Ikotos ci
dicono anche che poche ore prima è morto un uomo di febbre gialla. «Con noi abbiamo medicinali per un valore di 1500 euro, penso che alla fine di questa missione riusciremo a visitare almeno tremila persone. Certo non basta a risolvere tutti i problemi,
ma almeno questa gente si accorge che non è sola: condividere i bisogni è il primo passo
per risalire la china della vita». Una china che potrebbe essere percorsa con più energia
se la comunità internazionale si scuotesse dal torpore: con 50 centesimi di euro, neppure il costo di un cono gelato, si può aiutare un malato sudanese.
I resistenti del Sud Sudan9
di Giancarlo Giojelli
Il sangue dei martiri e la fede dei missionari comboniani hanno generato i cristiani sudanesi, più forti dell’islamizzazione forzata.
Quasi 50 anni di guerra La guerra inizia nel 1955, quando sta per essere proclamata l’indipendenza del Sudan. Nel sud cristiano e animista nascono prima i guerriglieri anya-nya e poi l’Spla, il Sudan People Liberation Army, che si ribella al governo
che vuole imporre la sharia, la legge coranica. Il Sudan è l’unico paese al mondo dove
c’è stato un colpo di Stato militare per impedire che fossero attenuati i rigori del fon9
Brano tratto da un articolo di Giancarlo Giojelli, apparso su Tempi del 1/10/2003, qui ripreso per gentile concessione del settimanale.
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itascabili
La mamma che allatta il suo bambino con le gambe fasciate non può avere più di 18
anni. Piange piano nello stanzone maleodorante e buio dell’ospedale di Rumbek, devastato dalla guerra. La mina è scoppiata dietro casa, mentre lei era al mercato. Suo figlio
più grande, cinque anni, è morto. Aveva in braccio il fratellino di pochi mesi, che si è
salvato. Altri bambini piangono, distesi su letti arrugginiti e su stuoie maleodoranti tra
le rovine dell’ospedale. La guerra nel sud del Sudan dura da oltre mezzo secolo. Due
milioni di morti negli ultimi venti anni. Sei milioni di uomini, donne e bambini che
hanno dovuto abbandonare le loro case e vagano per il paese, in un territorio grande tre
volte l’Italia. Qui ci sono solo tre medici stabili e una ventina di volontari per dieci milioni di persone, sterminate dalle malattie: da venticinque anni non si fanno vaccinazioni.
Carovane di mercanti arabi di schiavi fanno irruzione nei villaggi cristiani e portano
via i bambini: è la sorte di almeno diecimila piccoli dinka e nuer (le tribù più diffuse
nel Sud Sudan). Migliaia di bambini hanno affrontato dieci anni fa una marcia di oltre
un anno nella savana e nel deserto per sfuggire ai massacri. Molti sono morti per
fame, annegati tentando di guadare le paludi del Nilo, sbranati dalle belve. Nessuno
li ha mai contati, nessuno ne ha mai parlato. Non è solo una tragedia umanitaria. I
vescovi hanno parlato di genocidio, eliminazione di un popolo, ma sul grido di questa gente è stato steso un velo di silenzio e indifferenza.
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
damentalismo islamico. È accaduto nel 1989. Fuori legge persino i partiti musulmani
moderati. Proibito ai cristiani di predicare ai musulmani. La Chiesa è considerata una
organizzazione non governativa. Nella carta dei diritti dell’uomo la parola “persona” è
tradotta con “musulmano”, gli altri non hanno dignità. Le cose sono peggiorate dopo
la scoperta del petrolio nelle province del sud. Ora il governo arabo vuole a tutti i costi
controllare i territori meridionali e per questo deve “ripulirli” dalle popolazioni cristiane. E ripulire vuol dire sterminare, costringere le famiglie a separarsi, a fuggire, catturare i più giovani, uccidere gli uomini, gettare i cadaveri nei pozzi in modo da avvelenare l’acqua per anni. La tregua, proclamata nel gennaio dello scorso anno su pressione degli Usa, sta per scadere. E si teme che tra poche settimane possano ricominciare
nuovi combattimenti. E la carestia che tre anni fa sterminò 250 mila persone.
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La grande forza della fede Ho viaggiato per tre settimane nell’inferno del Sud
Sudan con i missionari comboniani. Uno di loro, monsignor Cesare Mazzolari, è
vescovo di Rumbek, la sua cattedrale è stata ricostruita da poco, delle altre chiese
restano in piedi solo i muri, la croce sulla facciata e il tabernacolo trafitti dai proiettili. Tra le macerie giocano bambini completamente nudi. Tutti gli edifici in pietra sono
stati bombardati: rasa al suolo la stazione televisiva, il complesso di scuole, che era il
più grande dell’Africa centrale, ridotto ad un ammasso di macerie. Cesare Mazzolari,
proprio come Daniele Comboni, proclamato santo, è vescovo tra le tribù dinka, gli
uomini e le donne altissimi e del colore del bronzo di cui parla il profeta Isaia, nella
Bibbia. Qui, tra le rovine della guerra, sta nascendo qualcosa di nuovo e di grande. Ci
sono storie che spalancano il cuore, come quella di Emmanuel, un ex ragazzo soldato: «Avevo dodici anni, - racconta - ero in un campo profughi in Etiopia. Ci dissero
che bisognava combattere. Ci hanno addestrato e poi siamo andati al fronte. Ho combattuto. Ho visto i miei amici morire, uccisi in combattimento. Io sono stato ferito.
Mi hanno portato all’ospedale, lì sono diventato cristiano. C’era un gruppo di persone che si riuniva tutte le mattine. Ho chiesto loro: “cosa fate?”. Mi hanno detto: “siamo
cristiani. Stiamo pregando”. Erano amici, li vedevo stare insieme. Aiutare gli altri. Ho
cominciato ad andare ai loro incontri di preghiera, a parlare con loro. Ma presto ho
detto al catechista: “come posso diventare cristiano? Ho sparato e forse ho ucciso dei
ragazzini come me”. Ma il catechista mi ha detto: “sei stato battezzato, i tuoi peccati
non esistono più”. Ora sono un seminarista. Voglio diventare sacerdote».
Una speranza per i lebbrosi Fra’ Rosario Iannetti, medico e missionario, opera in
una tenda, visita i malati, istruisce gli infermieri locali, giorno dopo giorno ricomincia la sua difficile missione, e non lo spaventano la dispensa vuota dell’ospedale, i casi
terribili che vede ogni ora, il caldo e la fatica. Nella sua zona, a Mapourdit, più che la
guerra ora uccidono le malattie devastanti. Terribile da vedere il reparto dove sono
ospitati i lebbrosi, la malattia qui ha effetti devastanti. Questi malati, se presi in
tempo, potrebbero guarire senza gravi conseguenze: la lebbra oggi si cura con una
terapia di alcuni mesi. Ma la mancanza di medici rende impossibile affrontare in
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
tempo il male. Le piaghe sono aperte, le dita, le mani e i piedi devastati dal morbo.
La paura e il ribrezzo costringono molti lebbrosi a vivere appartati con le loro famiglie. Visitiamo un villaggio abitato solo da malati. Ed è sorprendente trovarli al lavoro nei campi: stanno arando. «I missionari ci hanno insegnato a coltivare, - ci dicono
sorridendo - ora possiamo dar da mangiare ai nostri figli e non dobbiamo più vivere
di aiuti. Ci sentiamo finalmente uomini». E festeggiano il vescovo che li abbraccia
senza imbarazzo. Le sue parrocchie della diocesi sono guidate da pochi coraggiosi missionari. C’è chi è stato per mesi in prigione, e anche in cella ha continuato a predicare
il Vangelo, chi ha rischiato e rischia la vita. Ci sono catechisti, convertitisi dall’islam,
che sono stati uccisi e crocefissi per rappresaglia. Il primo martire sudanese, padre
Arcangelo Ali, fu torturato e ammazzato nel 1965, in odio alla sua fede. Da allora ce
ne sono stati molti altri. Missionari e martiri. Come padre Ali hanno costruito piccoli
ospedali e scuole, frequentate da migliaia e migliaia di ragazzi. Sono la speranza più
concreta. Suor Mary, una religiosa keniota, insegna ad un gruppo di ragazze: «Le
donne nella cultura tradizionale delle tribù sono sottomesse in tutto agli uomini. Non
hanno nessuna possibilità di studiare, di essere indipendenti. Alla missione imparano
a leggere e scrivere, a cucire le stoffe, imparano le norme di igiene e di alimentazione.
E soprattutto, con l’istruzione, sta cambiando la loro mentalità. Non si sentono più
destinate ad essere inevitabilmente sottoposte all’uomo. Sono più sicure di sé, più indipendenti, più libere». Nei villaggi i cristiani prestano aiuto ai profughi che arrivano
dalle zone dove ancora si combatte: «Noi siamo fuggiti dalle nostre terre - dice un
uomo - perché gli arabi volevano il petrolio. Non eravamo cristiani, ma quando siamo
arrivati qui i cristiani ci hanno aiutato, nonostante fossimo di una tribù diversa. Siamo
diventati cristiani, e la fede ora è la cosa più importante per noi. Qui ci hanno dato
cibo e una terra dove fermarci, ma il più grande aiuto è stata la fede cristiana».
Le cifre, le statistiche non dicono tutto. Monsignor Cesare e gli altri missionari confessano i bambini sotto gli alberi. Il vescovo ha per ogni bimbo un gesto di tenerezza, una carezza sul viso, prima del segno di croce. Domani si rimetterà in viaggio. Non
c’è uomo, donna o bambino che non valga da solo tutto l’Universo e non meriti la
fatica terribile del cammino.
Dopo vent’anni di guerra civile e un milione e mezzo di vittime si continua a morire di fame
e malattie.
«Signore, ti preghiamo, facci la grazia di volare a Ikotos e tornare sani e salvi». La preghiera di padre Simon, missionario volante del Maf (Mission aviation fellowship), sibila tra il tossire rauco del motore e il fruscio dell’elica. Poi il Cessna inizia la sua lotta
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Brano tratto da un articolo di Gian Micalessin, apparso su Il Giornale 8/2/2004, qui ripreso per gentile concessione dell’autore.
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Sudan, la Babilonia del dolore10
di Gian Micalessin
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quotidiana con la forza di gravità, annaspa sulla pista, s’arrampica, stremato come una
mosca d’autunno, tra le termiche del lago Vittoria.
Laggiù Entebbe, l’Uganda, le sorgenti del Nilo in un immenso plastico verde-azzurro.
Quassù, le nubi gonfie di pioggia come un mare in tempesta. Le ali del guscio d’alluminio vi affondano scricchiolando, sobbalzando tra spicchi di cielo. Per due ore la
bussola indica nord, poi una striscia rossastra taglia l’oceano verde. Il Sud Sudan, i
suoi vent’anni di guerra civile, il suo milione e mezzo di cadaveri, le sue anime perdute sono laggiù. Una guerra al crepuscolo dove le armi tacciono da 14 mesi, ma dove
si continua a morire di fame, stenti e malattie.
Il primo approdo a questa Babilonia del dolore è la pista di Ikotos, duemila metri di polvere disegnati ai piedi della grande croce che domina il villaggio. Pietro, Andrea e la
Toyota bianca con i simboli dell’AVSI (Associazione Volontari per il Servizio
Internazionale) sono già lì, nella polvere. Un medico e un ingegnere di un’organizzazione umanitaria cattolica arrivati fin qui per studiare la pace che, forse, verrà. Pace difficile, pace sofferta, forse impossibile. A Naivasha, in Kenya, ne discutono da due anni. Da
una parte il governo di Karthoum del presidente Omar al Bashir, dall’altra i guerriglieri
dell’Spla (Esercito popolare di liberazione del Sudan) di John Garang. Due nemici per
una guerra dai mille volti. La guerriglia dei neri del sud contro i dominatori arabi. La
rivolta delle popolazioni cristiane e animiste contro l’egemonia musulmana di
Khartoum. La lotta per il controllo dell’oro nero venuto alla luce, 25 anni fa, tra le miserie del meridione. Lo scontro spietato di due culture. Quella araba avvinghiata a settentrione alle ultime propaggini dell’arido Sahel. Quella africana di un meridione esteso
quanto Francia e Germania fatto di savane e boscaglie legate al cuore del continente.
Due mondi che nel ’56 la fine del colonialismo inglese lasciò incoerentemente uniti,
dando vita alla più grande e litigiosa nazione africana. Questo matrimonio sofferto e
sanguinoso è vicino alla fine. Sotto la regia degli Stati Uniti, e grazie a una mediazione internazionale in cui l’Italia gioca un ruolo importante, il divorzio prende forma.
Le ricchezze del petrolio verranno divise al 50 per cento. Al nord la sharia continuerà
a dettar legge. A sud dalle montagne del Nuba fino alle savane di questa provincia
d’Equatoria incastrata tra ex Zaire, Uganda e Kenya si sperimenterà una difficile autodeterminazione. L’accordo sembra a portata di mano. A fine gennaio John Garang, il
59enne ribelle delle tribù dinka transitato in vent’anni dal Capitale al Vangelo,
dall’Etiopia di Menghistu all’America di Bush, ha conquistato al tavolo delle trattative anche le ultime province contese. Resta da discutere la divisione dei poteri, poi sei
mesi di transizione per scrivere una nuova Costituzione e sei anni per studiare una
forma federale o la separazione finale.
«Ma il difficile comincia proprio ora, il sud è un mosaico di tribù e dialetti, un mondo
dove dopo vent’anni di guerra non ci sono più strade, né scuole, né pozzi d’acqua
potabile, dove la sanità è una reliquia del passato, dove la legge finisce ai margini di
ogni villaggio. Qui chi non ha vacche per pagarsi una moglie deve rubarle ai vicini o
rinunciare a sposarsi. La guerra con il nord forse finirà, ma il rischio è che si accenda
quella fra le tribù e i villaggi», spiega l’ingegner Pietro Galli. È successo di recente non
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lontano dalla pista di Ikotos. Cinque morti in uno scontro a colpi di mortaio e kalashnikov per difendere le mandrie di un villaggio.
Mentre Pietro parla, la Toyota naviga tra le voragini di questa pista ricamata in un
intreccio di rovi e fogliame, di manghi frondosi e spine aguzze. Una foresta dove la
polvere dei pneumatici è un evento. Dove i kawagia, le pelli bianche, sono ancora
rarità. «Ci sono zone completamente dimenticate dalle organizzazioni umanitarie,
dove solo ora con il cessate il fuoco s’incomincia a valutare la vastità della tragedia»,
spiega questo ragazzone dagli occhi azzurri, che dopo una laurea in ingegneria a
Londra ha lasciato Milano per l’Africa. Prima il nord Uganda, dove i ribelli del Lord
Resistance Army sequestrano i bambini per trasformarli in guerrieri spietati. Poi, dopo
quattro anni e tanta malaria, il Sud Sudan.
Per cinque settimane il suo regno è la contea di Torit, un “hic sunt leones” all’estremo sud
della provincia di Equatoria. Torit, la capitale della contea, il crocevia strategico per il passaggio di aiuti e rifornimenti, è stata riconquistata dai governativi nell’ottobre del 2002,
appena prima dell’inizio delle trattative di pace. Da allora l’Equatoria e la sua gente sono
tornati nella boscaglia. Un mosaico di trenta villaggi, 250 mila anime sperdute nella savana e un’amministrazione ipoteticamente nelle mani dei guerriglieri dell’Spla.
«Un inferno nell’inferno perché i lotuko, la tribù di queste zone, sono i diseredati tra
i diseredati - dice Pietro -, la spina dorsale dell’Spla è cresciuta intorno ai dinka, intorno ai clan del comandante John Garang. Chi controllava la guerriglia convogliava
anche gli aiuti. In un ventennio i miliardi dell’operazione Lifeline gestita dall’Onu
sono stati distribuiti soprattutto nelle loro zone. Continuerà ad essere così, probabilmente, anche quando la nuova pace aprirà il vaso di Pandora della ricostruzione.
Pietro e gli italiani dell’AVSI invece contano di aprire delle strutture permanenti proprio in quest’angolo dimenticato anche dalla misericordia umanitaria. «Ma prima di
metter radici - spiega - bisogna identificare le necessità, capire le condizioni di vita».
La pista per arrivare qui si blocca davanti a una palizzata guardata da uomini armati
di kalashnikov. Qui la voglia di far del bene bisogna sudarsela, faticando a colpi di
machete, trattando con guerriglieri armati, scavalcando voragini senza distruggere
copertoni e balestre. Si va avanti così a venti all’ora di media. Tre ore per meno di sessanta chilometri e, alla fine, la boscaglia si ferma davanti ai monti Imotong. Cime di
duemila metri coperte di giungla e serpenti. Sotto è la preistoria che ritorna.
Itohom è un grumo di tukul, cilindri d’argilla con un tetto di canna e sterpaglia.
Intorno bimbi e ragazzini con archi e frecce, donne inginocchiate sui dirupi a macinare sorgo a colpi di pietra. Sotto il mango più alto, sull’altura che domina il villaggio, Pietro e Andrea discutono con una ventina di guerrieri neri. «Sono i MugnomiGi,
i capi del villaggio, gli uomini più importanti dai 20 ai 40 anni - spiega Pietro -, prima
di muovere un dito dobbiamo spiegare loro cosa vogliamo fare. Saranno loro a darci
il permesso dopo aver discusso con il consiglio dei Muse, gli anziani della comunità».
Poi tra il fetore di stracci, le mosche, l’odore acre di pelli e sudore nero, inizia un’impaziente trattativa. Loro i MugnomiGi che chiedono scuole, strade, acqua. Tutto e subito. Pietro e Andrea che cercano di sapere, capire e far capire. Il pozzo dell’acqua a
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un’ora di cammino da qui, un calvario quotidiano per le donne con le taniche gialle
in bilico sulle teste. Acqua marcia e pance di bimbi gonfie di vermi. Il morbillo che
ha preso a decimarli. L’ agenzia a cui l’Unicef ha delegato, pagando, l’opera di vaccinazione non mette piede qui da due anni. «Per motivi di sicurezza», li giustifica il
Galli, che invece è già qui e ci rimarrà altre tre settimane.
E intanto il morbillo uccide. Dieci, venti bimbi solo nei villaggi intorno a queste montagne, nell’ultimo mese. E l’epidemia - che in Africa non è un’allegra malattia tutte bolle
e brodini, ma un morbo letale - si diffonde e rischia di abbracciare l’intera contea. Pietro
e Andrea l’inseguono da due settimane. Ora le cifre sono un rapporto. Un foglio di carta
da spedire alle Nazioni Unite di Nairobi. Pietro lo piega, lo sigilla con il nastro adesivo,
lo guarda come un messaggio in una bottiglia, affidato ai flutti dell’oceano. «Noi l’abbiamo fatto, forse andrà perso negli ingranaggi del meccanismo umanitario, forse non verrà
nessuno perché la nostra presenza qui non è ancora ufficiale e qualcuno si offenderà.
Probabilmente ci metteranno un mese e il morbillo continuerà ad uccidere, farà strage
in tutta la contea. Ma almeno nessuno potrà dire di non essere stato avvisato».
Uganda
La guerra e l’infanzia - La storia di Agnes
Agnes Gilian Ocitti ha 19 anni, quinta di due fratelli e sei sorelle è nata a Kitgum, nel Nord
Uganda. Nella notte del 10 ottobre ‘96, venne rapita dal College di St. Mary di Aboke insieme ad altre 138 compagne di classe dai ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra).
Due suoi insegnanti, madre Rachele e John Bosco, seguirono nella notte le tracce dei ribelli,
e dopo averli raggiunti ottennero la liberazione di 109 ragazze mentre 30 rimasero nelle
mani del Lra. Tra queste Agnes. Ecco alcuni stralci del suo intervento alle Nazioni Unite.
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Nelle mani dei ribelli Sono rimasta prigioniera per 3 mesi. Con altre compagne di
prigionia, sono stata costretta a prendere parte all’uccisione di un’altra ragazza che
aveva provato a scappare, bastonandola fino alla morte. Durante la prigionia c’è stato
un appello di Papa Giovanni Paolo II per il nostro rilascio. Il comandante era furibondo. Ci chiese perché tutto il mondo stesse parlando delle ragazze di Aboke. Eravamo
forse diverse dagli altri prigionieri? Ci disse che eravamo soldati e che ci saremmo
dovute dimenticare di diventare insegnanti, medici o qualunque altra cosa avessimo in
mente. Ero guardata a vista da una ragazza soldato, Lucy, che iniziò ad odiarmi e a picchiarmi senza motivo. Però mi aiutò involontariamente con una informazione importante: un giorno mi disse che la mattina seguente sarei stata portata in Sudan. Allora
decisi che sarei scappata prima e lo dissi ad Ester, una mia compagna. La mattina successiva, l’esercito ugandese ci stava cercando con un elicottero e ci fu ordinato di buttarci a terra. Ero con Ester. Quando i ribelli ci chiamarono ci fingemmo addormenta-
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In ginocchio dai ribelli
di madre Rachele Fassera
All’epoca dei fatti narrati madre Rachele Fassera era direttrice della Scuola secondaria femminile di Aboke nel distretto di Apac nel Nord Uganda da cui il 10 ottobre 1996 vennero rapite 139 studentesse tra i 13 e i 16 anni. Testo ridotto e adattato dalla relazione originale.
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te. Aspettammo finché l’ultimo gruppo fu transitato, poi pregammo brevemente e
cominciammo a correre verso la strada principale. Fummo fortunate a trovare un
uomo che ci portò con la sua bicicletta fino al distaccamento dell’esercito dove trascorremmo la notte in una capanna. Sono i ricordi più belli che ho della mia vita.
Arrivai a casa la sera del 13 gennaio 1997. Quando mia sorella si accorse che ero io,
mi abbracciò e cominciò a piangere. Poi arrivò mia madre che non poteva parlare.
Disse che pensava fossi già morta. Mio padre arrivò più tardi. Ci guardammo tutti in
faccia tra le lacrime. Non c’erano parole che potessero esprimere i nostri sentimenti. Il
giorno dopo iniziarono a chiedermi tutto della mia prigionia nella boscaglia. Mi chiesero cosa volevo. E mio padre disse che non avrei mai dovuto pensare che mi odiassero. Capita ad alcuni ragazzi rapiti di trovare delle famiglie ostili e timorose di non trovarsi più di fronte allo stesso figlio al ritorno dalla prigionia, dopo i traumi subiti. Ma
i miei genitori mi amavano più di prima. E non si stancavano di dimostrarmelo.
Decisi di tornare ad Aboke perché la scuola mi piaceva e sapevo che lì mi avrebbero
trattato bene. La scuola riaprì il 31 marzo. Ricordo che l’orario fu cambiato in seguito a quanto era accaduto. Ci era concesso trascorrere più tempo libero fuori classe tra
di noi. Potevo parlare con le mie amiche che erano passate attraverso la stessa esperienza e che mi chiedevano delle altre compagne ancora prigioniere. Le suore ci chiesero di pregare tutti insieme per il loro rilascio ogni giorno. Quello che mi ha aiutato
maggiormente a superare gli incubi è stato l’amore della gente intorno a me e il sostegno psicologico ricevuto a scuola, sia dalle suore che da una terapeuta specializzata.
Mi risvegliavo ancora a causa dell’incubo dell’uccisione della ragazza. Non potevo non
sentirmi colpevole. Mi consideravo una criminale, anche se sapevo che ero stata
costretta a compiere quel gesto e non avevo alternative. La condivisione con altri di
questo dramma mi ha aiutato a poco a poco a chiudere questa ferita profondissima.
Adesso mi sento più forte di prima perché ho già fatto esperienza di gran parte dei problemi che ci toccano e so che con l’aiuto di altri, posso superare i momenti difficili nella
vita. Adesso lavoro con AVSI in un programma di sostegno psico-sociale a vittime della
guerra, di rapimenti e traumi, nel distretto di Kitgum. Sebbene si tratti di un lavoro, mi
sta aiutando a condividere la mia esperienza con chi ha sofferto come me e con quelli che
stanno ancora soffrendo. A settembre inizierò a frequentare la Facoltà di Legge, presso
l’Università di Makerere a Kampala. Nel futuro mi piacerebbe diventare un avvocato per
servire sempre di più la gente e vedere che la giustizia può esistere nel mondo. Per iniziare vorrei fare qualcosa per il rilascio delle mie 20 amiche che sono ancora in prigionia.
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Mi sento sempre in dovere di chiedere perdono per le mie omissioni e in particolare
per non essermi mossa prima per fare qualcosa a favore dei centinaia, migliaia, di
bambini e bambine, ragazzi e ragazze che venivano prelevati dai membri del Lord
Resistance Army dalle case, dai villaggi e dalle scuole nel Nord Uganda, in particolare
dai distretti di Gulu e Kitgum, e portati nei campi nel Sudan meridionale.
Questa tragedia è iniziata nel 1988. La nostra scuola di Aboke, nel distretto di Apac
nel Nord Uganda, è stata assalita dal Lra nel marzo 1989 e da quel giorno i nostri
occhi si sono aperti alle sofferenze della nostra gente. Un centinaio dei cosiddetti Lra
- molti dei quali giovani che erano stati rapiti a loro volta - sono entrati intorno alle
otto di mattina e, dopo aver saccheggiato la scuola e la casa, se ne sono andati portandosi via 10 nostre studentesse, 33 seminaristi del vicino Seminario diocesano di
Lira e circa 60 persone e bambini dei villaggi limitrofi.
Li abbiamo seguiti per tentare di riavere le ragazze. Lungo la strada avevano già ucciso cinque persone, bruciato decine e decine di case, rapito altre persone. Abbiamo
visto la disperazione della nostra gente, la desolazione, la paura. Qualcosa è cambiato in me e mi è sgorgato dentro mentre camminavo con due dei nostri insegnanti.
«Sono qui a fare causa comune con voi…» pensavo. È stato lungo quella strada, con
le case bruciate a destra e a sinistra, proprio lì, che sono diventata comboniana, condividendo la vita e la sofferenza della nostra gente, essendo con loro.
Non abbiamo potuto incontrare i ribelli perché avevano combattuto con i militari
governativi. Durante il combattimento molti rapiti erano riusciti a fuggire e, tra questi, sei delle nostre ragazze. La notte precedente erano già state tutte violentate… Con
il vicario della diocesi di Lira abbiamo contattato il cardinale di Kampala, diversi
ambasciatori, i militari e il presidente dell’Uganda. Abbiamo cercato di parlare anche
con gli Lra, attraverso alcuni anziani e persone che li conoscevano. Tra aprile e giugno 1989 altre tre studentesse sono riuscite a rientrare, una - Susan - non è più tornata, sette anni più tardi abbiamo saputo che era stata uccisa in uno scontro a fuoco
con i soldati.
Insicurezza, rapimenti, imboscate e mine per le strade hanno continuato ad essere la
realtà del Nord Uganda. Hanno messo dei soldati a difendere la nostra scuola, ma
diverse volte, quando sentivamo voci che gli Lra erano vicini, mandavamo le studentesse a dormire nei villaggi, per proteggerle e salvarle. Nel frattempo, centinaia e centinaia di bambini e bambine, ragazzi e ragazze venivano portati via da altre parti:
Gulu, Kitgum, Kalongo, Pajule, Namokora, Aliwang, e così per anni. Nel 1994 sembrava possibile una soluzione al conflitto, ma non è stato così, anzi le cose hanno
cominciato a peggiorare per la popolazione per via di continue imboscate, uccisioni
e rapimenti.
Poi è arrivato il 1996. I soldati che proteggevano la scuola di Aboke sono stati trasferiti temporaneamente a circa 20 Km di distanza. Alle due e un quarto del 10 ottobre
un gruppo di Lra è entrato nella nostra scuola e ha portato via dai dormitori 139
ragazze, dai 13 ai 16 anni. Con un giovane insegnante, John Bosco, abbiamo iniziato
a seguirli intorno alle sette del mattino e verso le dieci li abbiamo incontrati. Abbiamo
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camminato con loro per chilometri e reclamato le ragazze. Ne hanno liberate 109 e
trattenute 30. Il loro capo - Mariano - ha rilasciato anche una ragazzina di 10 anni,
che non faceva parte del nostro gruppo. Davanti a questo uomo, che mi diceva: «te
ne do 109 e ne tengo 30», mi sono inginocchiata e ho chiesto: «Mariano, dammele
tutte, tieni qui me, lascia andare loro». Non è stato possibile.
In quel momento, per me, sono diventate vere le parole di Gesù: non c’è amore più
grande che dare la vita. Le ho capite, perché dare la vita non è una decisione, ma
un dono. Sì, ho provato uno dei dolori più grandi della mia vita, dover lasciare nelle
mani degli Lra le trenta studentesse, ma lì e in tutto quanto il Signore mi ha donato di vivere in seguito insieme e in comunione con suor Alba e suor Matilde, i genitori, le studentesse, i maestri e i lavoratori, ho anche sperimentato una trasformazione dentro di me: il mio modo di relazionarmi è diventato più vero, più fraterno,
con tutti.
Dopo essere tornati con le ragazze, suor Alba - preside della scuola - ha dato vita,
insieme ai genitori, all’Associazione dei genitori per la liberazione di tutte le ragazze rimaste nelle mani degli Lra. Abbiamo preparato una lista con i nomi delle giovani ancora prigioniere. Uno dei genitori ha suggerito di contattare subito la Croce
Rossa Internazionale, l’Unicef e Amnesty International. Abbiamo deciso di contattare subito anche i militari e il presidente dell’Uganda. Sapevamo che era urgente
muoversi perché i rapiti venivano portati dagli Lra nei campi del Sudan.
Una delle mamme presenti ha suggerito di pregare molto: un giorno al mese di digiuno e di preghiera per la liberazione e la pace. Anche il Santo Padre, durante la giornata missionaria mondiale del ’96, ha lanciato un appello ai rapitori. Ogni sabato ci
si incontrava con i genitori sotto una pianta, un mango, nel cortile della scuola per
pregare e vedere il da farsi. Con le ragazze della scuola, ogni giorno si recitava il
Rosario davanti alla grotta della Madonna, si pronunciavano i nomi delle trenta studentesse ancora prigioniere e si pregava per la liberazione di tutte le migliaia di ragazzi e ragazze prigionieri degli Lra.
Abbiamo iniziato subito i vari contatti e il nostro pellegrinare, bussando alle porte del
cuore di tanti: il presidente Museveni, sua moglie, i militari, i ministri, il cardinale di
Kampala, il nunzio apostolico, gli anziani del posto, persone che potevano metterci
in contatto con i responsabili tra gli Lra, i portavoce degli Lra che si trovano a Nairobi,
in Kenya, la Croce Rossa Internazionale, l’Unicef, Amnesty International, Human
Rights Watch, diverse ambasciate a Kampala tra cui quelle italiana, americana, inglese, francese, belga, austriaca, tedesca, egiziana, algerina, etiope, dell’Unione Europea
e altre. Siamo stati in Sudafrica dal presidente Mandela, in Libia dal colonnello
Gheddafi, in Sudan dal presidente Bashir. Abbiamo incontrato il segretario generale
delle Nazioni Unite, Kofi Annan, la signora Clinton, la signora Powell, gli ambasciatori dell’Ue a Khartoum, il ministro degli esteri iraniano; siamo andati a Bruxelles al
Parlamento Europeo; nei campi degli Lra in Sudan. La responsabile dei genitori si è
recata a Washington, New York, Ginevra, Italia, Spagna, Kenya, Mozambico.
Abbiamo incontrato alcuni Lra e i loro portavoce. E tante altre persone. A tutti abbia-
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mo chiesto sostegno affinché le nostre figlie e i nostri figli, le migliaia di bambini e
giovani rapiti, venissero liberati.
Sant’Egidio e il Carter Centre hanno cercato di aiutarci. Così AVSI e i membri del
Parlamento Europeo, come Mario Mauro e in particolare Johan Van Hecke con la
moglie Els De Temmerman. Siamo venuti a conoscenza dei centri di accoglienza e riabilitazione dei bambini e giovani che ritornano dalla prigionia a Gulu (World Vision
e Gusco) e a Kitgum. Sono stati realizzati documentari dalla Cnn, dalla televisione
australiana, da Terre des Hommes, dalla televisione italiana e inglese, sono stati scritti articoli e libri.
Abbiamo trovato sempre grande solidarietà. Abbiamo vissuto momenti di grande speranza e momenti di delusione e di scoraggiamento. Quanta speranza, quanta attesa…
Con l’aiuto del Signore, abbiamo sempre sperato di trovare la via della liberazione per
tutti i prigionieri, la via della pace, attraverso il dialogo, tenendo presente che la questione è solamente umanitaria, che stiamo parlando di bambini e bambine, di giovani,
che non dovrebbero mai essere coinvolti nei problemi e conflitti politici ed economici
dei grandi. Sono anni che questi giovani innocenti vengono trasformati in macchine
per uccidere, tendere imboscate, bruciare capanne, rapire altri bambini e giovani.
Ogni 10 ottobre, dal ’96, si tiene una giornata di memoria, preghiera e digiuno per la
pace e la liberazione di tutti i rapiti. Durante una di queste preghiere, Agnese, una
delle 30 ragazze rimaste con gli Lra poi riuscita a fuggire, pregava così: «Signore, io
perdono Kony per quello che ha fatto a me e alle mie compagne, per averci obbligato ad uccidere una bambina, io lo perdono, ma tu tocca il suo cuore, fa’ che liberi tutte
le mie compagne». Tu senti questa preghiera e cosa dici? Ti viene dentro tanta speranza e sai che allora la pace è possibile.
Alcune nostre ragazze sono riuscite a scappare, altre sono state liberate: tutte sono
volute tornare a scuola a terminare i loro studi, molte sono ora all’università; anche
Agnese è all’università e sta studiando per diventare avvocato e dare così il suo contributo per difendere i diritti dei bambini e dei giovani. Due anni fa, ha portato la sua
testimonianza al Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini. Molti dei bambini tornati vengono aiutati a studiare, perché questo è il loro grande desiderio. Ma dei circa
ventimila rapiti in questi anni, moltissimi sono ancora prigionieri, molti sono morti.
Per le ragazze poi il pericolo grave è anche quello dell’Aids. Dal 1996 al 2003 la situazione nel Nord Uganda è peggiorata, l’insicurezza, i rapimenti, le imboscate, le uccisioni non si contano più, non solo nei distretti di Gulu, Kitgum, Pader, ma anche a
Lira, Apac, Soroti. Migliaia di persone si trovano nei campi di protezione, dove purtroppo le condizioni sono davvero precarie.
Tuttavia in Uganda ci sono genitori impegnati per la pace; a Gulu c’è il Gruppo dei
Leader Religiosi per la Pace che comprende cattolici, protestanti e musulmani, con a
capo l’arcivescovo di Gulu, monsignor Odama, che sta facendo di tutto perché si
arrivi al dialogo e alla pace. Sta infatti chiedendo l’intervento dell’Onu, informando
l’opinione pubblica locale e internazionale, domandando aiuto per la popolazione
del Nord Uganda che vive nella paura e nella perenne insicurezza, per i bambini e
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Più forte dell’odio
dal diario di fratel Elio Croce
Fratel Elio Croce è un missionario comboniano, in Africa da oltre trenta anni, responsabile
del servizio logistico dell'ospedale St. Mary Lacor fondato a Gulu dal dott. Piero Corti. Da
molti anni ogni notte gli abitanti della zona riempiono l’ospedale la sera per passare la notte
in un posto sicuro. Fratel Croce ha pubblicato per Ed. Ares Più forte di Ebola ove racconta la battaglia combattuta al St. Mary's Hospital Lacor fra l'ottobre 2000 e il febbraio 2001
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giovani che continuamente sono rapiti, per le migliaia di persone che da anni vivono in campi protetti in condizioni che si fa fatica a descrivere. Chi ascolterà il grido
di aiuto dei genitori, dei leader religiosi, dei giovani rapiti? Mi sono chiesta tante
volte: è possibile che tutti quelli che abbiamo contattato si siano dimenticati di questa tragedia?
Al momento non posso essere fisicamente là con la nostra gente che soffre, anche
se il desiderio è grandissimo dentro di me. Vorrei poter ancora bussare a migliaia di
porte e aiutare a ricordare che ci sono migliaia di bambini prigionieri, vorrei poter
essere là in Sudan dove sono ancora 19 delle nostre ragazze di Aboke, 8 ragazze di
Kalongo e centinaia e centinaia di altre, vorrei poter parlare con Kony…
In tutta questa sofferenza, il Signore mi ha donato una grande fiducia in Lui e nelle
persone. Per me ora è tempo di pregare e pregare molto, perché Lui scelga ed usi
gli strumenti di pace e di bene che possono far terminare questo conflitto in
Uganda; perché sostenga i genitori e i leader religiosi impegnati per la pace; perché
tocchi il cuore di coloro che sono responsabili, di coloro che magari stanno mettendo ostacoli alla pace e li aiuti a pensare al bene dei bambini e dei giovani e a fare di
tutto perché vengano la pace, la riconciliazione e la liberazione di tutti.
Desidero ringraziare di cuore il Signore per quanto mi ha donato in questa sofferenza. Mi è difficile dirlo a parole, ma è diventata per me certezza la sua azione
misteriosa e altrettanto reale nella vita in questi anni: mi ha messo nel cuore il desiderio del dialogo con tutte le parti; il desiderio della pace e riconciliazione e perdono, la convinzione che la pace è possibile; la certezza che nel cuore di ogni persona c’è il seme della bontà, del bene; la benedizione di poter condividere la sofferenza della nostra gente; il desiderio di poter dare la vita per loro. E come ha trasformato me, suor Alba, suor Matilde in questa sofferenza, così ho visto che ha fatto
anche con i genitori e le studentesse.
Signore, io ti ringrazio di tutto, della tua presenza, del tuo aiuto, dei tuoi interventi, delle tue ispirazioni, per le tante persone che hanno cercato di aiutarci, per quanti stanno sostenendo la riabilitazione e l’educazione di centinaia di giovani ritornati a casa dalla prigionia; ti ringrazio per l’impegno, la fede e la speranza dei genitori e dei leader religiosi. In particolare, ti ringrazio del desiderio profondo che mi hai
messo nel cuore: di fraternità, di solidarietà, di fare causa comune, di dare la vita.
Grazie, Signore.
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contro il virus Ebola, una febbre emorragica ad altissima percentuale di contagio e per la
quale non esistono cure. Fratel Croce è l’unico che dà sepoltura ai caduti di entrambe le
fazioni in guerra (militari e ribelli). Sono qui riportati alcuni brevi brani di un suo diario
tenuto tra il giugno e il novembre del 1996.
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7 giugno 1996 Ieri alle due del pomeriggio hanno portato venti soldati feriti, vittime di un attacco a una colonna di sette camion pieni di militari diretti a Kitgum. Il
bilancio complessivo è di settanta morti e più di cento feriti. I ribelli hanno incominciato sparando un Rpg al primo mezzo e poi attaccando tutto il convoglio, su un fronte di due chilometri, con una serrata sparatoria. La colonna era seguita da un autoblindo, ma, quando questa è arrivata per dare soccorso ai primi camion, i ribelli erano
già spariti. In ospedale hanno portato solo i feriti più gravi: gli altri li hanno curati
nelle caserme. Alcuni avevano le braccia fracassate, altri le gambe spezzate, altri ancora l’intestino perforato, altri i glutei squartati. Uno, giunto in ospedale con la scatola
cranica scoperchiata, è in coma, ma non è ancora morto. Nell’attacco sono morti
anche due ufficiali. Un tenente è qui ferito.
Oggi i nostri soldati di Lacor hanno preso tre ragazzi che dicono scappati dai guerriglieri mentre attraversavano a nuoto un fiume in piena. Avrebbero svelato i piani dei
ribelli. Avrebbero anche detto di essere entrati dal Sudan con tante armi avute dagli
arabi. Il piano sarebbe quello di bloccare le strade di Kampala, Arua e Kitgum; successivamente dovrebbero arrivare rinforzi dal Sudan, con l’aiuto dell’aviazione sudanese, per prendere definitivamente la caserma di Gulu.
Gli arabi sudanesi ragionano come Museveni: per risolvere l'annoso problema del
Sudan pensano di dover eliminare le basi in cui i ribelli sudanesi trovano appoggio
logistico e armi. In modo analogo la pensa Museveni, mutatis mutandis: si deve aiutare a tutti i costi il Sud Sudan perché ottenga l'indipendenza dal Nord Sudan arabo,
così che i nostri ribelli non possano, ogni volta che si trovano in difficoltà, avere rifornimento di armi e rifugio.
I ragazzi fermati dai soldati avrebbero aggiunto che tutti i presidi militari della zona
che sono fuori saranno inesorabilmente attaccati, e che anche il Lacor Hospital farebbe bene a mandar via i militari di guardia. La popolazione non avrebbe niente da
temere, a condizione di non collaborare con i militari. Stando ai ragazzi, i ribelli
avrebbero bisogno dell’appoggio della gente e dei giovani in particolare; questi saranno armati con le armi via via conquistate negli scontri con Local defence ed Nra.
14 giugno 1996 - Solennità del Sacro Cuore Gesù Oggi abbiamo avuto una
giornata di ritiro, seguita da un lauto pranzo preparato da padre Larem a Layibi.
Tornati a Lacor verso le 2 del pomeriggio, abbiamo trovato un camion, pieno di militari pesantemente armati, con un carico di quattro morti e sette feriti. Mi hanno riferito che a Parabongo (a quindici chilometri da qui) un altro camion militare è saltato
su una mina. Trasferiva le donne e bambini dei militari in un altro campo. Non conosco ancora i particolari; so solo che c’erano sei donne molto malconce e un giovane -
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16 giugno 1996 Oggi è domenica, e si prega per la pace. Intanto, però, a mezzogiorno, hanno portato sei militari, feriti - dicono - in uno scontro coi ribelli a Otuwal,
vicino ad Aboke, nella regione della tribù lango. Si parla di tre morti e tanti feriti tra
i militari, e di molti morti anche tra i ribelli. Penso alla paura delle suore di Aboke e
alle duecento ragazze della loro scuola. Nell’89 i ribelli avevano portato via le ragazze, e di alcune di loro non si sa ancora niente.
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non so se militare - con una gamba a brandelli e l’altra ridotta male. Il dottor Stefano
mi ha detto che gliela aveva lasciata, ma che temeva di dovergliela amputare in seguito.
Sul camion c’erano anche tre bambine, di cui una di sei mesi; sembra incolume. L’ ho
subito portata all'orfanotrofio perché mi hanno detto che sua mamma era morta sul
colpo. L’hanno chiamata Aloyo, che vuol dire: “ho vinto la morte”. Le altre due sono
sui tre anni. Una è in stato di shock, ma speriamo che non abbia riportato danni neurologici; l’altra ha perso forse un dito.
Padre Piffer da Anaka mi ha detto, via radio, che è andato a raccogliere altri due cadaveri sul posto dove l’altro giorno è scoppiata la mina. Non si erano accorti che mancavano all’appello altre due persone, e le hanno trovate solo oggi, sbalzate dall’urto
della mina a una decina di metri di distanza. Così le vittime dell'altro ieri salgono a
ventitré: una è morta anche qui in ospedale.
I feriti stanno occupando anche il reparto dei tumori, che ha letti liberi in questo
momento, dato che la gente del sud è diminuita, per la paura di venire su da noi. Ciò
nonostante abbiamo una paziente, con un tumore, venuta dal Rwanda.
Il giornale New Vision oggi parla dell'esecuzione dei due anziani. Dice che si chiamano tutti e due Lagony e sono rispettivamente di Koch Goma e di Pagik. Sono
stati uccisi dai ribelli mentre si facevano il bagno in un rigagnolo. Uno dei due secondo il giornale - era il confidente di Joseph Kony e forse è caduto in disgrazia
perché nei suoi discorsi lo sottovalutava e “lo esponeva” (ma non ho capito a che
cosa; forse il New Vision si riferisce al fatto che Kony non accetta trattative con
Museveni, come invece diceva nel periodo prima delle elezioni). Per me, questa esecuzione è stata fatta da qualche faccendiere che vuole che le cose continuino così,
c’è ancora gente che vuole ingrassare succhiando il sangue di questa povera tribù
acholi.
Gli anziani rimasti, adesso, sono pieni di paura, e ho sentito dire che stanno preparando i passaporti per andare in Kenya a riprendere Alice Lakwena. Dicono che solo
lei, grazie ai suoi poteri magici, potrà portare la pace tra gli acholi. Questi sarebbero i
nostri anziani incaricati di dare inizio ai colloqui di pace: l’unica possibilità di pace è
la stregona Alice con i suoi poteri.... Stiamo freschi!
Anche i soldati, dopo la batosta ricevuta sulla strada di Kitgum, sono giù di morale e
non vogliono andare a farsi ammazzare per niente. I vescovi hanno indetto per dopodomani, domenica, una giornata di preghiera per impetrare la pace nel Nord Uganda.
Speriamo che il Signore senta il grido del suo popolo, venga in nostro aiuto e ci doni
la pace.
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20 giugno 1996 Alle cinque di questa sera, mentre ero vicino al cancello dell’entrata dell’ospedale, ho sentito una fucilata, come un sibilo, sparata da molto vicino,
davanti alle botteghe appena fuori dall’ospedale. Ho pensato ad un colpo partito per
sbaglio, ma subito dopo mi hanno spiegato cos’era successo. Si era appena fermato
davanti ai negozi un camion pieno di militari, quando un soldato si è puntato il mitra
sotto il mento si è sparato. La pallottola gli ha fatto scoppiare il cervello. Hanno detto
che non voleva più andare a combattere e così l’ha fatta finita. Requiescat in pace.
Oggi hanno incominciato a passare per Gulu via Anaka i convogli diretti in West Nile.
Padre Piffer ha detto che ad Anaka sono passati più di cento e quaranta camion.
Credono che la strada sia più controllabile da quella parte. Speriamo bene!
Questa mattina ho fatto la conta delle persone che sono entrate per dormire: settecento-cinquanta, quasi tutti ragazzi e ragazze dai cinque ai quindici anni, e qualche
donna con i bambini piccoli.
2 luglio 1996 Ieri sera è aumentato sensibilmente il numero di persone venute a dormire in ospedale. Il motivo è che c’è un grosso gruppo di ribelli accampato nei pressi del fiume Toci. Non si sa ancora il motivo; alcuni dicono che è il gruppo del famoso Otti Lagony, che vuole arrendersi. Sarebbero sui trecento. I militari hanno occupato tutti i loro santuari, come le montagne di Kilak, vicino a Pabò, e anche le colline
di Got Atoo, dove Kony si ritirava per fare i sacrifici propiziatori e avere l’illuminazione. Anche Zoka Forest, altro loro santuario e rifugio, è ora occupata dai soldati.
Sembra che il nuovo comandante, Salim Saleh, faccia sul serio. È il fratello di
Museveni.
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3 luglio 1996 - Festa di S. Tommaso Apostolo Ieri, alle tre del pomeriggio,
hanno combattuto a Olwal, sulla strada che va al nostro dispensario di Amuru. Qui
hanno portato due soldati feriti.
La gente che ieri sera è entrata per dormire era ancora più numerosa dell’altro ieri.
Avendo chiesto il perché, mi è stato spiegato che i soldati stanno spingendo la gente
ad abbandonare i propri villaggi e ad andare in città a Gulu. A parere di altri, invece,
sono i ribelli a dire alla gente di andar via in vista della cosiddetta operazione. Che cosa
abbiano in mente di fare nessuno lo sa. Io credo che, trovandosi in brutte acque,
temono che i civili, se restano nei propri villaggi, possano indicare ai soldati i loro
nascondigli.
4 luglio 1996 Questa mattina abbiamo contato le persone venute a passare la notte
in ospedale: erano 1050, quasi tutti giovani, maschi e femmine, dai tre ai sedici anni,
e qualche mamma con un grappolo di bimbi al seguito. Gli adulti ora dormono fuori.
14 luglio 1996 Domenica. Oggi a Gulu abbiamo ospiti cinque vescovi, in rappresentanza di tutte le parti d’Uganda, venuti appositamente per pregare per la pace insieme al popolo acholi, come messaggeri di pace mandati dal Signore in risposta al grido
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disperato della sua gente. La funzione si è svolta in cattedrale, davanti alle autorità
civili. C’era anche il nuovo ministro Owiny Dolo, che ha preso il posto della Bigombe,
e anche il vescovo protestante di Kitgum.
Tra i vescovi cattolici c’era il vescovo di Masaka, Mons. Ddungu, il vescovo di Soroti,
Mons. Erasmus Wandera, Mons. Paul Kalanda, vescovo di Fort Portal, e il nuovo
vescovo di Nebbi, Mons. John Odama, fino ad ora Rettore del seminario di Alokolum.
È per merito suo che questa giornata ha avuto luogo, dato che all’ultimo raduno della
Conferenza episcopale ha svegliato tutti i vescovi parlando della tragedia che il popolo acholi sta vivendo. E sarà stato senz’altro convincente, perché le cose che ha detto le
ha vissute in prima persona, insieme alla gente e ai suoi seminaristi. Come un buon
pastore, non ha abbandonato le pecore, e anzi il seminario è diventato per tutta la zona
di Alokolum l’ovile dove tutti cercavano scampo da quei lupi diabolici che sono i ribelli. E c’è da dire che Odama non è un acholi ma un logbara. Appartiene cioè a una tribù
contro cui gli acholi, dopo la caduta di Amin, ne hanno fatte di tutti i colori.
La funzione ha avuto dei momenti molto commoventi, specie durante la preghiera dei
fedeli, in cui la gente ha potuto esprimere la propria tragedia, i propri sentimenti più
vivi. Quando pregavano i bambini, molti dei presenti si asciugavano le lacrime. Nella
prima fila c’era una quindicina dei nostri pazienti mutilati, molti dei quali donne e
bambini. Hanno fatto ovviamente molta impressione e suscitato reazioni di sdegno e
appelli perché si smetta di uccidere, si abbassino le armi e si cominci a trattare.
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21 luglio 1996 - Ore 8 am Questa notte, verso le undici, si sono uditi degli spari,
ma non ho dato loro peso, dato che erano lontani. Così anche verso le tre di notte,
quando ho sentito altre raffiche di mitra - questa volta molto più vicine - non ho avuto
difficoltà a riaddormentarmi.
Alle sette, mentre in ospedale iniziava la Messa, una figlia di Manano, nostro autista,
è arrivata tutta agitata dicendo che questa notte i ribelli avevano portato via suo
padre. Il suo villaggio è a meno di un chilometro di distanza dall’ospedale, e mentre
tutta la sua famiglia già da mesi dorme in ospedale, lui e il figlio maggiore, che ormai
è sposato, dormono a casa propria. Verso mezzanotte sono andati a bussare alla sua
porta. Lui ha aperto, anche perché, se non lo avesse fatto, avrebbero buttato giù la
porta o addirittura dato fuoco alla capanna coperta di paglia. I ribelli si sono impossessati subito della sua radio e poi hanno raccolto tutti i vestiti che hanno trovato
(una grossa valigia, con le sue cose più belle e di valore e i vestiti dei suoi bambini,
è nascosta nel deposito delle officine dell’ospedale). Lo stesso hanno fatto nella
capanna dove abita suo figlio. Non sapevano poi come raggiungere un certo posto,
dove sembra avessero il loro campo, e così hanno chiesto al figlio di guidarli. A questo punto, Manano si è offerto lui di portarli, e sono partiti. Volevano venire verso
l’ospedale per ripulire i negozi, ma Manano ha detto loro che era pericoloso, dato che
l’ospedale è pieno di poliziotti e di soldati. Si sono diretti così verso Alokolum. Prima
di arrivare dalle nostre parti avevano ripulito due negozi a For God, vicino alla missione.
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Altri ribelli hanno sparato al Senior Quarter di Gulu. Altri ancora sono passati dietro
la nostra fabbrica di mattoni di Layibi, a Bwoc, e anche da lì hanno potato via della
gente. Dalla Technical School di Minakulu questa notte hanno portato via trenta
ragazzi; tra questi c’era anche il figlio di Elia, quello che lavora alla Procura, ma è riuscito a fuggire, con altri quattro.
Sentita la notizia di Manano, sono subito andato a trovare la moglie e i figli, cercando di far loro coraggio. Ho detto loro che non devono aver paura, perché Manano è
un uomo esperto, che ha fatto per tanti anni il soldato, e che all’inizio di questa guerriglia, nel 1986, era anche lui con i ribelli. Ho raccomandato di pregare il Signore perché lo faccia tornare presto a casa.
Ore 7.30 pm Manano è tornato e, anche se stanco, sembra tranquillo; di solito però
- come abbiamo visto in altri casi simili - lo shock arriva più tardi. È zoppicante, perché durante la marcia forzata di stanotte, camminando al buio, con un pesante sacco
in testa, è caduto in una buca. Dopo essere partiti dal villaggio, i ribelli volevano che
lui indicasse loro la strada per una certa località, a lui sconosciuta. Ci sono stati
momenti di tensione, finché i ribelli non si sono convinti che Manano diceva la verità.
Si sono allora fermati in un altro villaggio e hanno chiesto le indicazioni a una donna
incinta; poi l'hanno lasciata andare. Hanno camminato tutta la notte e finalmente, a
mattino inoltrato, sono arrivati a destinazione, al campo base, vicino a Koc Goma, a
più di quaranta chilometri da qui. Manano ha raccontato che lì hanno capanne,
donne e bambini, e che gli hanno offerto il the coi biscotti. Non facevano altro che
mangiare biscotti; rubati dai negozi, ovviamente. Il loro piano, per questo mese,
sarebbe quello di bloccare la strada asfaltata che viene a Gulu da Kampala e le strade
che portano in West Nile. Avrebbero anche detto di rassicurare quelli del Lacor
Hospital: non faranno niente contro di loro, perché l'ospedale aiuta tutti, senza distinzioni. L’East Acholi, poi, non farà parte del loro campo di azione; la gente potrà quindi muoversi su quelle strade senza paura.
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24 luglio 1996 La notte è passata tranquilla, anche perché hanno mandato, a proteggerci, un bel gruppo di militari scortati da una autoblindo, che ha parcheggiato di
fronte al dispensario nuovo. I giornalisti italiani hanno documentato con la telecamera l’esodo della marea di gente che ha passato la notte in ospedale. Erano senz’altro
più di duemila persone.
27 luglio 1996 Come era da aspettarsi, le persone venute questa notte a dormire in
ospedale erano più di tremila. Oltre ai soliti ragazzi c'erano anche tantissimi adulti donne e uomini.
29 luglio 1996 Anche questa notte è passata tranquilla, benché si siano sentite raffiche di mitra in lontananza. Ho fatto contare le persone entrate in ospedale per dormire: erano duemilacinquecentocinquanta.
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Come se non bastassero i ribelli, certe volte anche i militari ce la mettono tutta per far
soffrire questa povera gente. È capitato anche questa notte. Il fatto è successo nel villaggio del mio magazziniere. Me lo racconta lui stesso: «Sono le due di notte. Vengo svegliato da qualcuno che bussava. Non rispondo: l’ora non è opportuna. Ci sono delle voci.
Dapprima, confuse. Poi però sento che mi chiamano, e chiedono aiuto. È Abalo, la moglie di
Marcello Obita - un mio muratore morto un mese fa di Aids -. "Acaye”, dice,”vieni a salvarmi, perché vogliono uccidermi. Tu che sei RC lasci che mi uccidano davanti alla tua porta?”
Così esco e vedo un militare con il mitra spianato e la donna di Obita col suo bambino in braccio. Il soldato mi intima di dire alla donna di rientrare nella capanna, e che lui non le farà
niente di male. Io gli chiedo che cosa ci faccia in giro a quell’ora; gli dico di non disturbare quella povera donna, che da neanche un mese ha perso il marito, e che, se vuole andare a donne,
vada in città dove vendono birra, e lì troverà le puttane. Dico poi alla donna di rientrare nella
sua capanna, ma lei ha paura che l'uomo la possa seguire. Cerco di convincere quel tale, ubriaco e drogato, a ritornare sulla strada, dove i suoi compagni sono di guardia, e la donna a rientrare nella sua capanna, nella speranza che nel frattempo qualcuno mi senta e venga in nostro
aiuto. Ho saputo poi che alcuni giovani stavano osservando la scena di nascosto, ma nessuno
ha avuto il coraggio di venire allo scoperto. A un certo punto il soldato prende la donna, tentando di trascinarla nella sua capanna. La donna però riesce a liberarsi e si rifugia nella mia
capanna. Mia moglie, capendo che il militare seguirà la donna, si nasconde sotto il letto. Il militare entra nella capanna e io dietro di lui. Il militare allora comincia a gridare che devo uscire, che altrimenti mi ucciderà, che dopo tutto gli acholi sono tutti ribelli e che solo ieri gli hanno
ucciso il Maggiore, e che se la donna spera di essere difesa da me ha fatto male i suoi conti,
dato che lui ha ricevuto l’ordine di uccidere gli acholi e uccidendo me non farebbe altro che il
suo dovere. Io cerco ancora di convincere Abalo ad andarsene nella sua capanna, con la speranza che poi riesca a trovare il modo di scappare. Vorrei poter disarmare il soldato, ma sono
zoppo e, visto che ha tolto la sicura del mitra ed è ubriaco, decido di uscire. Mia moglie, da
sotto il letto, riesce a scappare senza che il militare se ne accorga. L’uomo si avventa sulla
donna facendole cadere a terra il bambino in malo modo. Il bambino scoppia a piangere. Nel
frattempo escono dal loro nascondiglio i giovani che assistevano di nascosto alla scena. Li rimprovero per non essere venuti subito in mio aiuto e cerchiamo di organizzarci. Due di loro, con
una corda si piazzano ai lati della porta. Il bambino continua a piangere forte, mentre la
madre viene violentata. Il tempo passa, ma il soldato non esce. Poi si fa silenzio. Il bambino ha
smesso di piangere. Sentiamo che la madre lo sta consolando. Il soldato, sotto l’effetto dell’alcol, si è addormentato profondamente. Il cognato di Abalo e altri due si avventano su di lui e
lo legano come si deve. Sono ormai le quattro di mattina e decidiamo di aspettare l’alba per
consegnarlo ai suoi capi. Non gli facciamo niente, per paura che poi gli altri militari se la prendano con noi, quasi che fossimo ribelli. Quando arriviamo al loro quartier generale, sotto gli
eucalipti, i soldati lo prendono e cominciano a pestarlo. Ascoltano la nostra versione dei fatti.
Poi la sua. Lui si difende dicendo che era d’accordo sia con la donna che con me, tant’è che gli
avevo anche prestato la mia capanna perché se la facesse con quella donna. Dopo averlo battuto per bene, lo portano in caserma. Dicono alla donna di farsi fare un certificato medico come
prova della violenza subita, per quando lo porteranno in tribunale».
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18 settembre 1996 Ho fatto fare un censimento di tutta la gente presente stamattina in ospedale. Ecco i risultati:
Pazienti
Assistenti dei pazienti
Allieve infermiere
Nursing Aid
Parenti nursing Aid
Infermiere e relativi parenti
Gente rifugiata stabilmente residente
Medici e relative famiglie
Infermiere caposala e parenti
Suore Mary Immacolate di Villa Teresa e personale
Suore Comboniane e Comboniani
458
1343
113
117
48
178
176
90
47
22
11
Totale gente residente fissa
Gente rifugiata solo per la notte
2643
5040
Totale popolazione presente in ospedale 18 settembre 1996
7683
7 novembre 1996 Il numero di persone entrate in ospedale per la notte era cinquemila-trecentocinquanta. Credo che il calo sia dovuto al lungo temporale che ieri sera
ha impedito alla gente di raggiungere l’ospedale. Intanto io sono preso dalla preparazione di nuove tende e dalla costruzione di una quarantina almeno di gabinetti di
emergenza. Fare i lavori in questo periodo non è facile perché materiali da costruzione come mattoni, sabbia, e sassi non si trovano più nei dintorni, e lontano non è prudente andare.
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11 novembre 1996 Questa mattina ho assistito all'esodo della gente. Per una buona
mezz’ora una fiumana ininterrotta di persone usciva dal cancello con i propri miseri
fagotti in testa. Le mamme fanno veramente compassione, con un bambino in braccio, uno legato sulla schiena e uno tenuto per mano; e, in più, un fagotto e una stuoia
di papiro in testa. È una cosa impressionante: non accenna a diminuire e non si ha
idea di quanto debba durare.
28 novembre 1996 Come previsto, questa mattina il numero di persone entrate ieri
sera a dormire in ospedale era cresciuto: ammontava a seimiladuecento unità.
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L’educazione alla pace nell’Uganda del nord
Intervento di Gina Bramucci (AVSI Uganda) tradotto dall’originale in inglese
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Nell’ultima settimana di luglio, dopo che il popolo acholi dell’Uganda del nord aveva
vissuto 13 mesi di violenze crescenti durante una guerra dei ribelli di lungo corso,
l’arcivescovo John Baptist Odama saltò la cena, raggiunse un parcheggio per autobus,
e si preparò per la notte. Portò con sé una coperta sottile per proteggersi dal freddo e
si strinse sotto una veranda quando il cielo cominciò a minacciare pioggia. In questo
punto si sistemò a terra e guardò, attorno a sé, le facce di 2000 bambini.
Loro, i giovani “abbonati della notte” della città di Gulu, compiono questo viaggio al
parcheggio ogni sera. Percorrono miglia dalle loro case per dormire sotto le verande
dei negozi o sotto piccole tettoie. Si accampano sul prato degli ospedali regionali o
sotto i letti dei pazienti del reparto pediatrico. E questa storia si ripete in tutta
l’Uganda afflitta dalla guerra, dove 18 anni di violenza e rapimenti hanno fatto fuggire, secondo alcune stime, 1 milione e 200 mila persone.
Dalla fine degli anni ’80, i ribelli del Lord’s Resistance Army (Lra) hanno costruito un
esercito rapendo migliaia di bambini ed obbligandoli a combattere come soldati. I
gruppi per la difesa dei diritti umani informano che dal giugno 2002, quando la guerra in Uganda del nord ha conosciuto un’escalation di violenza, ne sono stati rapiti
8.500. I genitori, nel disperato tentativo di salvarli, ora li mandano a dormire nei centri per la popolazione o negli ospedali.
L’ arcivescovo Odama, presidente dell’ “Iniziativa di pace dei capi religiosi acholi”
(Arlpi), si recò al parcheggio per mostrare solidarietà ai civili che erano dovuti fuggire, avevano sofferto la fame e subìto perdite a causa della guerra. «Questi sono miei colleghi, compagni “abbonati della notte”» disse a padre Carlos Rodriguez, missionario
comboniano e membro dell’Arlpi. Andava al parcheggio per solidarietà e per attirare
l’attenzione del mondo sul suo popolo. E Odama, che era stato uno dei più fermi
oppositori alla soluzione militare contro l’insurrezione, andava per dare una lezione
di pace.
L’educazione assume una miriade di forme diverse in un contesto di emergenza prolungata. La si vede nell’alunno delle elementari che continua ad esercitarsi con la lettura nonostante lo stomaco vuoto e la stanchezza di una notte insonne; nell’ex bambino soldato che impara il mestiere di falegname così da poter lavorare con il legno
piuttosto che con le pistole; nell’insegnante che volontariamente si ferma dopo gli
orari scolastici per dar vita a un gruppo per la pace con i suoi studenti; nei gesti e
nelle parole dei capi religiosi che vivono come esempio di impegno per la pace; e nelle
facce dei genitori che, di fronte alla minaccia per le nuove generazioni acholi, si uniscono per aiutare i loro figli.
Nel 1996, dopo il rapimento di 139 studentesse dal collegio St. Mary di Aboke
nell’Uganda del nord, i genitori si sono riuniti per condividere il dolore e lanciare un
appello affinché le loro figlie fossero rilasciate. I ribelli hanno liberato 109 ragazze, ma
altre 30 sono rimaste prigioniere. A Lira, i genitori di queste giovani hanno dato vita
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ad una Associazione, la Cpa (Concerned Parents Association), iniziando un lungo processo di avvocatura a livello nazionale e internazionale. Molti non hanno rivisto le
figlie, ma il loro scopo originario si è esteso. Non si tratta più di un’iniziativa solo per
le loro bambine.
Oggi il Cpa ha “succursali” in diverse città comprese nella zona del conflitto, dove i
genitori e gli assistenti sociali dirigono centri di accoglienza per giovani sfuggiti alla
prigionia. Offrono cure mediche e consigli, e lavorano per ricongiungere ogni bambino alla sua famiglia. Al Cpa e negli altri centri dello stesso tipo presenti nella regione,
gli ex soldati raccontano storie di bambini killer più giovani di loro o di aver partecipato ad attacchi contro i loro stessi villaggi. Le ragazzine, date in “mogli” ai comandanti ribelli, talvolta tornano con un “peso” in più – un bambino nato durante la prigionia, figlio di un ribelle, difficile da accogliere in casa per le famiglie. La sfida della
reintegrazione sociale è tra le più difficili.
Lavorando con i bambini, le famiglie e le comunità, i genitori contribuiscono a modificare le dinamiche del conflitto in Uganda, dimostrando che la loro è una scelta pacifica e che quello che chiedono è riavere i loro figli sani e salvi. La succursale dell’associazione a Kitgum, uno dei distretti più duramente colpiti dall’Lra, ha aiutato oltre
800 ex soldati a reintegrarsi solo nei primi nove mesi del 2003; nello stesso periodo
un vicino centro di accoglienza ha ospitato 1.000 residenti.
Nonostante il lavoro cruciale dei gruppi come il Cpa, il futuro di un bambino dopo
la prigionia è carico di incertezze. Anche se fa ritorno in un’area in cui le scuole funzionano ancora, potrebbe risultare molto indietro rispetto ai compagni di classe e non
essere in grado di concentrarsi sulle attività scolastiche. Se una ragazza torna a casa
con un bambino, potrebbe non riuscire a bilanciare il suo nuovo ruolo di madre con
quello di studentessa. Con l’impegno di una comunità intera, tuttavia, anche gli ostacoli più grossi possono essere superati.
Dagli anni ’80, AVSI ha lavorato per migliorare l’accesso all’istruzione e la sua qualità
nella regione, e per rafforzare le risorse umane della comunità fornendo un sostegno
sociale e psicologico. Questo include consulti con professionisti nel caso di grossi
traumi emotivi, attività di sensibilizzazione nella comunità e di supporto educativo e
professionale, e la creazione di un network di volontari di riferimento.
Un altro aspetto fondamentale del lavoro di AVSI è stata la formazione degli educatori, degli operatori sociali, dei leader religiosi e tradizionali attraverso una serie di
workshop. Gli esperti aiutano ad affrontare le molte sfide legate alla protezione di un
bambino durante un conflitto, insegnano i presupposti per la gestione delle classi,
informano sui pericoli rappresentati da Hiv/Aids e dalle mine, educano alla pace e al
rispetto dei bisogni e dei diritti dei minori.
Insieme con i parenti e i capi che cercano di offrire ai bambini una guida e una speranza, AVSI fa un passo in avanti verso un futuro di pace.
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Uganda, bambini pendolari di notte «No alla guerra»11
di Claudio Monici
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Brano tratto da un articolo di Claudio Monici, apparso su Avvenire del 13/2/04, qui ripreso per gentile concessione del quotidiano.
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A piccoli passi, tanto che sembrano formichine raggruppate, timorose di perdersi nel
buio, ogni sera - e sono già due anni -, puntuali alla stessa ora, quando comincia a
imbrunire, migliaia di bambini lasciano le loro casupole di terra e paglia. Compatti
come un piccolo esercito vestito di stracci, convergono verso la città di Kitgum. Terra
dell’etnia acholi nel nord dell’Uganda, al confine con il Sud Sudan. Come portatori
della savana, sulla testa trasportano sacchi o ceste che contengono grinzose coperte di
lana e teli di plastica rammendata. Qualcuno ha con sé i libri della scuola. Anche i più
piccini, strisciando i piedi nella polvere, danno una mano. Barcollando come fossero
ubriachi, trasportano le taniche d’acqua. Mano mano che la luce scompare, le nere
faccine si dissolvono nel buio. Non si vede più nulla, se non quando sulla strada passa
una jeep di qualche organizzazione umanitaria, i cui fari sbiancano centinaia di occhi
e il brusio di colpo si zittisce. A due chilometri dal centro di Kitgum, circa 15 mila
abitanti, capoluogo del distretto che ne conta 280 mila, nonostante le pattuglie militari, non si è già più in zona di sicurezza e molti di questi bambini arrivano anche da
sperduti villaggi a dieci chilometri dalla «main street». Non tutti i genitori li seguiranno. Padri e madri resteranno nelle capanne per preservarle dal saccheggio, per cercare di difendere dalle razzie dei ribelli, armati di panga o arco e frecce, il poco bestiame, qualche gallina o i sacchi di farina di sorgo. I bambini varcheranno i cancelli dell'ospedale governativo o quello di St. Joseph, gestito dall'Associazione Volontari per il
Servizio Internazionale (AVSI). Stenderanno le stuoie sotto le tettoie dei tre capannoni-rifugio fatti costruire da AVSI con l’aiuto di Unicef e Unione Europea, oppure, se
non ci sarà più posto, sotto i portici della via principale. Adesso è stagione secca e si
può anche dormire sdraiati ai margini della strada, purché non soli... Accenderanno
piccoli fuochi e poi cercheranno il sonno. All’indomani riprenderanno la marcia verso
casa: la cenere cosparsa sulla pelle per proteggersi dalle zanzare della malaria li farà
apparire come una lunga processione di fantasmi. Con i loro soliti stracci, a piedi
nudi, torneranno alle loro capanne per mangiare una manciata di fagioli. Nei villaggi
ascolteranno il pianto di qualche genitore oppure si conteranno per sapere se qualcuno lungo il tragitto notturno è stato rapito o violentata e poi andranno a scuola. Per
poi, all’imbrunire, ricominciare la marcia forzata verso quella che sperano rimanga la
salvezza da una vita vissuta sul filo della paura e della morte. Ci sono state notti in
cui Kitgum è stata affollata da più di 12 mila bambini, accampati come una massa di
mosche. I ribelli non sono mai riusciti a entrare nella città, ma il loro raggio d’azione
arriva alla periferia. E comunque sempre a due chilometri dal centro. Vi penetrano a
piccoli gruppi di cinque, otto armati. Entrano nelle case e con la violenza si fanno dire
dalla gente dove possono trovare cibo. Anche l’altra notte è stato così. In una casetta
poco distante da qui hanno però trovato anche tre bambini e se li sono portati via.
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Adesso staranno ancora marciando, ci vuole più di una settimana, legati come schiavi, per raggiungere le basi della guerriglia ugandese in Sud Sudan. Di bambino in
bambino, per decine di volte ripetiamo due domande: dove vai? e perché? Le risposte sono identiche: «Vado a trascorrere la notte come night commuter, perché ho paura
di essere catturato dai ribelli. Molti miei amici sono stati presi e non sono più tornati a casa», dice Patrick Oken, 13 anni. «Per mettere in salvo la mia vita», sussurra
Evelin Odelo, 11 anni. «Per dormire senza quegli incubi in cui la notte arrivano i
ribelli ad assassinare i miei genitori e a catturarmi per farmi diventare un soldato che
uccide», risponde Albino Ojom, 15 anni. Quelle due parole inglesi, night commuter,
significano «pendolare notturno» ed è usata dagli operatori umanitari. Ma è nella lingua locale acholi che si ritrova tutto il senso del dramma che da vent’anni si consuma
nel nord Uganda: «Oring ayela», chi scappa dalla guerra. Appunto i bambini e le bambine dai sei anni di età in su, che un uomo senza scrupoli, che si dice «in contatto
con gli spiriti e intermediario di Dio sulla terra», fa rapire per servirsene come schiavi, concubine e, soprattutto, bambini soldato da schierare in guerra contro il suo stesso popolo e per azioni di saccheggio. Un uomo senza alcuna pietà per chi, sfinito dalla
marcia o malato, chiede un poco di ristoro, così come per chi tenta la fuga dal suo
Esercito di resistenza del Signore (Lra). L’ordine è uno solo: ammazzare i pesi inutili;
ammazzare chi non esegue un ordine di uccidere un altro bambino e chi cerca di
scappare «per essere di esempio a tutti gli altri». Un sedicente «guerrigliero senza
ideologia», che parlando di spiriti buoni e cattivi, di pietre che si trasformano in granate o pallottole che si tramutano in acqua combatte, con l’aiuto del Sudan, il governo del «diavolo» Museveni: «Per purificare il popolo acholi dalle sue colpe e rinnovare una nuova generazione». Più o meno quello che tentò di fare Pol Pot in Cambogia,
con due milioni di vittime innocenti durante il regime dei Khmer rossi. Con la differenza che qui a massacrarsi e a infliggere orrende mutilazioni sono sempre i bambini. Secondo stime e dati incompleti raccolti dalle Nazioni Unite, a cominciare dal
1997 almeno 25 mila bambini sono stati catturati dai ribelli ugandesi del folle Joseph
Kony, che si è attribuito «una missione divina di profondo rinnovamento». La metà,
alcuni dopo anche più di dieci anni di guerra e orrori, sono riusciti a fuggire e a tornare a casa e grazie all’intervento umanitario a riprendere una vita normale, anche se
sempre seguita dai fantasmi della morte vista o inflitta. Nessuno sa quanti di questi
bambini sono morti in combattimento o uccisi dai loro stessi compagni di sventura,
anche se si stima che il movimento di Kony può fare affidamento su meno di 500
effettivi, sparsi in piccoli gruppi in Sudan, e non più di 3 mila, forse 5 mila ragazzini
armati a cui vengono ordinate le razzie in nord Uganda. Ma il terrore seminato da
Kony ha anche provocato un vasto movimento di sfollati interni. Più di un milione e
quattrocentomila persone vivono nei campi di raccolta, accessibili alle organizzazioni
umanitarie solo se scortate dai militari di Kampala. Decine di migliaia sono stati uccisi, violentati o rapiti, mentre guerra e razzia umana continuano.
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I piccoli pendolari in fuga dai sequestri12
di Gian Micalessin
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Brano tratto da un articolo di Gian Micalessin, apparso su Il Giornale del 23/2/04, qui ripreso per gentile concessione dell’autore.
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Arrivano. Facce nere in un imbrunire macchiato dall’argento di luna. Fari scintillanti
di occhioni candidi incolonnati nella polvere. Piedini scalzi, uno in fila all’altro, tra
sbadigli e sbuffi di terra. Piccoli uomini con la tanica gialla dell’acqua in mano. Piccole
donne con la coperta in testa e i fratellini attaccati alle gonnelle di stracci. Che tutti
insieme crescono. Una processione di bimbetti straccioni e senza genitori, che lentamente assedia la città. Saranno tre-quattromila. Ballonzolano allegri verso quel miraggio di luci e case, sembrano un’immane scolaresca in gita notturna. Invece fuggono
dagli orrori della guerra, dalla paura di essere rapiti, dall’incubo della prigionia. La
verità è nascosta sotto quel vocio di grida e risate. «Scappo dai ribelli, non voglio fare la
fine dei miei amici, uno è stato ucciso, uno non è mai tornato, io ho paura, non voglio essere preso»: Kenneth con una mano tiene premuto il fagottino di coperte appoggiate sul
capo, l’altra la allunga davanti alle pupille accecate dai fari della nostra jeep. Ha dieci
anni, ma per lui e i suoi compagni di transumanza la morte, la guerra, la paura del
rapimento sono pane quotidiano. Qui nelle terre acholi dell’Uganda settentrionale li
chiamano “oring ayela”, “quelli che fuggono la guerra”. Una fuga interminabile, che
inizia quando cominci a camminare e si ripete ad ogni calar del sole. Al mattino la
fuga diventa ritorno. «Al tramonto cammino per due ore dal villaggio a qui - spiega
Kenneth - poi all’alba altre due ore per tornare al villaggio e una per andare a scuola. Se
non fai così rischi di essere preso. Perché di notte arrivano i ribelli».
Sono i pendolarini del terrore, il simbolo vivente della tragedia che affligge Kitgum e
gli altri territori settentrionali della Perla d’Africa. Una tragedia solo in parte conseguenza dell’ancestrale rivalità tra gli acholi del nord e le altre tribù. Un dramma che
neppure il resoconto delle spietate guerre per il controllo del Paese - iniziate nel ’79
con la caduta di Idi Amin e conclusesi nel 1989 con l’ascesa al potere di Yoweri
Museveni - basta a spiegare. Così negli ultimi 15 anni questo focolaio di guerra mai
sopito ha raggiunto un’efferatezza e una crudeltà sconosciute anche nel variegato
compendio di atrocità dei conflitti africani. La lotta tribale degli acholi si è trasformata nella follia di un gruppo di ribelli che, per rifondare la purezza della propria stirpe, sogna di sterminarla utilizzando i suoi stessi figli. È la demenziale guerra
dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra, Lord Resistance Army) di Joseph Kony, un
quarantenne visionario vestito di sgargianti tuniche femminili convinto di ricevere
ispirazione dallo Spirito Santo e da un consesso di anime, tra cui spiccano quelle di
due cinesi, tre americani, un congolese e una coppia di sudanesi. In questo cocktail
di follia l’elemento più devastante, il leit motiv di 15 anni di massacri, è il rapimento
dei bambini, il loro addestramento forzato, la loro trasformazione in spietati guerriglieri attraverso una selezione fatta di marce della morte, torture, esecuzioni a colpi
di machete.
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itascabili
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«Secondo le nostre stime e quelle di Human Rights Watch, dall’89 a oggi nel Nord
Uganda sono stati rapiti quasi 25 mila bambini. Quelli tornati a casa sono circa la
metà. Le forze dell’Lra non hanno mai superato i 5 mila effettivi, quindi almeno diecimila bambini sono stati uccisi dai loro rapitori o sono caduti nel corso dei combattimenti con le forze governative». A fornire le cifre di questa mattanza è Lucia Castelli,
47 anni, medico pediatra che qui a Kitgum guida da sette anni le attività dell’AVSI
(Associazione Volontari per il Servizio Internazionale), un’organizzazione non governativa italiana in prima linea nell’assistenza ai bambini vittime della guerra civile nel
Nord Uganda. Un lavoro meticoloso grazie al quale l’AVSI è diventata il punto di riferimento per tutte le agenzie dell’Onu e i donatori internazionali che operano da queste parti. «Ogni notte i bambini costretti al lasciare i villaggi e a correre in città per
trascorrere la notte sono in media più di quattromila. Ma non esistono cifre fisse,
dipende dall’intensità degli scontri e dal numero delle operazioni messe a segno dalla
guerriglia. Chiaramente quando la tensione aumenta cresce, come una marea, anche
il numero dei bambini».
Queste sono notti di alta marea. Dopo un periodo di tranquillità apparente la guerriglia ha ripreso a infiltrarsi dai suoi santuari tra le montagne oltre il confine sudanese
(che dista solo 60 chilometri) e a seminare il terrore. E i pendolari della paura sono
ridiventati un fiume in piena. Kenneth, il bimbetto incontrato alle porte della città, è
diretto all’ospedale di Kitgum. Qui c’è il rifugio preferito da lui, dai suoi fratellini e
dagli amichetti del suo villaggio. L’ ha costruito l’AVSI, come quelli analoghi edificati
all’interno del Saint Joseph Hospital, l’altro centro della città. Sono immensi stanzoni
vuoti in cui i bambini allineano le coperte, affiancano le taniche piene d’acqua per la
notte e tengono il posto per le madri che arrivano dopo qualche ora. «Quando ce ne
andiamo dal villaggio io e i miei fratellini partiamo da soli - racconta Kenneth - papà
non vuole lasciare la casa, preferisce fare la guardia per evitare saccheggi, e mia
mamma resta a preparargli da mangiare. Fra un po’ arriverà anche lei».
Ma nelle notti di marea come questa neppure i rifugi costruiti dalla solidarietà internazionale dentro gli ospedali e le scuole bastano ad accogliere tutti. Allora gli “oring
ayela” rimasti fuori cercano un riparo alternativo. Coperte e taniche, da cui spuntano
mani e piedi tremanti, ricoprono le balaustre e i porticati della cittadina. E alle 23
Kitgum cambia volto e si trasforma in un immenso dormitorio, dove il ronzio delle
falene di mescola al ronfare lieve di questi bimbi perduti.
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Associazione Volontari
per il Servizio Internazionale
AVSI, Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, è una associazione senza scopo di lucro nata
a Cesena nel 1972 e impegnata con progetti di cooperazione allo sviluppo in 35 paesi poveri del mondo
nel solco della Dottrina Sociale della Chiesa.
AVSI è riconosciuta sin dal 1973 come Organizzazione non governativa di cooperazione internazionale
dal Ministero degli Affari Esteri;
- è accreditata dal 1996 presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite di New York (Ecosoc);
- è accreditata con Status consultivo presso Unido di Vienna (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo
Sviluppo dell’Industria);
- è inserita nella Special List delle organizzazioni non governative di ILO a Ginevra (Organizzazione
Internazionale delle Nazioni Unite per il Lavoro).
AVSI è presente in 35 Paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente ed Est Europa con quasi 100 progetti pluriennali nei settori della sanità, cura dell'infanzia, educazione e formazione professionale, recupero
delle aree marginali urbane e ambiente, agricoltura, ed emergenza umanitaria.
Opera in collaborazione e con finanziamenti del Ministero degli Affari Esteri, dell'Unione Europea, delle
agenzie delle Nazioni Unite, UNICEF, UNDP, UNCHS Habitat, di enti internazionali come Banca Mondiale
e Programma Alimentare Mondiale; coopera inoltre con Enti locali, istituzioni di solidarietà internazionale
e associazioni di categoria, imprese e privati cittadini.
Oltre 300 volontari professionalmente qualificati (medici, ingegneri, agronomi, assistenti sociali, psicologi) si sono succeduti nei Paesi d'intervento e si succedono tuttora.
Il 50% circa dei fondi di AVSI provengono da donatori privati. In questa quota sono comprese le oltre
24.000 adozioni a distanza a favore di bambini e ragazzi nel mondo.
AVSI è un Ente Autorizzato dalla Commissione per le Adozioni Internazionali a curare le procedure di
adozione internazionale su tutto il territorio nazionale e nei paesi esteri di Albania, Lituania, Romania,
Kazakhstan, Brasile, Cile, Messico.
AVSI aderisce alla Federazione dell’Impresa Sociale della Compagnia delle Opere.
Elenco progetti di AVSI in Africa in corso nel 2003
Kenya
Nigeria
R.D. Congo
Rwanda
Sierra Leone
Sudan
Uganda
Totale
Socio
educativo
Prevenzione
e tutela
della salute
1
1
Formazione
professionale
e sviluppo PMI
Agricoltura
e ambiente
Aiuto umanitario
di emergenza
1
1
1
1
2
4
1
2
1
2
4
1
1
4
6
Totale
1
2
1
2
1
1
9
17
6
itascabili
Paesi
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Progetti nel dettaglio
Paese
Titolo progetto
Nigeria
Sierra Leone
Uganda
Uganda
Uganda
Centro di educazione nell'area urbana di Lagos
Reinserimento sociale di ex-bambini soldato
Promozione umana in aree urbane e peri-urbane
Educazione, cura e sviluppo di orfani vittime dell'AIDS
Sostegno ed espansione dei servizi di riabilitazione
medica nel Nord Uganda
Formazione di formatori nei settori educativo
e socio sanitario nella città di Lagos
Miglioramento dei servizi ai malati di AIDS
e prevenzione della trasmissione materno-fetale
Centro sanitario di Humure
Promozione dell'impiego giovanile, incentivazione
delle microimprese e formazione alle nuove tecnologie
Miglioramento delle condizioni di vita della popolazione
rwandese con interventi nel settore socio-educativo
ed ambientale
Promozione della sicurezza alimentare
nella contea di Busiro Nord
Intervento a sostegno delle famiglie a rischio
d'insicurezza alimentare nelle zone di Rutshuru e Masisi
Sostegno agli sfollati nella Contea di Torit
Supporto al processo di reintegrazione
degli ex bambini soldato in Nord Uganda
Promuovere lo sviluppo e la capacità
di dialogo delle comunità
Cure mediche in situazioni di emergenza
nella terra degli Acholi
Sicurezza alimentare in situazione di emergenza
nei Distretti di Kitgum e Pader
Nigeria
Uganda
Rwanda
Kenya
Rwanda
Uganda
R.D. Congo
Sudan
Uganda
Uganda
Uganda
Uganda
Ambito
Socio educativo
Socio educativo
Socio educativo
Socio educativo
Prevenzione e tutela della salute
Prevenzione e tutela della salute
Prevenzione e tutela della salute
Prevenzione e tutela della salute
Formazione professionale
e sviluppo PMI
Agricoltura e ambiente
Agricoltura e ambiente
Aiuto umanitario di emergenza
Aiuto umanitario di emergenza
Aiuto umanitario di emergenza
Aiuto umanitario di emergenza
Aiuto umanitario di emergenza
Aiuto umanitario di emergenza
Sostegno a distanza - I dati del 2003
Paesi
itascabili
6
92
Scolarizzazione
e sostegno
materiale
Angola
Burundi
Kenya
Mozambico
Nigeria
R.D. Congo
Rwanda
Sierra Leone
Uganda
50
1639
428
615
424
1397
283
3712
Totale
8548
Attività
ricreative
educative
Accoglienza
residenziale
Sostegno
nutrizionale
e sanitario
Formazione
professionale
303
255
303
50
1849
428
679
424
1439
283
3967
465
9422
210
44
20
42
347
42
20
Totale
bambini
sostenuti
Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
DIESSE
Didattica E Innovazione Scolastica
Una compagnia di insegnanti all’opera
Il Centro per la formazione e l’aggiornamento DIESSE (Didattica e Innovazione Scolastica) è un’associazione professionale di insegnanti e operatori del mondo della scuola, nata a Milano nel 1987.
Lo scopo per cui è sorta è duplice: innanzitutto una corresponsabilità educativa che aiuti a porsi con
più verità e serietà nel proprio lavoro; in secondo luogo una volontà di acquisire una professionalità
sempre più adeguata.
Questo fa nascere in pochissimo tempo, su tutto il territorio nazionale, nuclei di persone che danno
vita a luoghi stabili di incontro, le sedi di DIESSE, che diventano promotrici di iniziative locali.
Attualmente sono attive su tutto il territorio nazionale 52 sedi locali, oltre alla sede nazionale di
Milano e alle sedi regionali che in alcuni casi sono costituite con loro statuto, pur continuando a
richiamarsi agli scopi ideali del centro sorto per primo.
Annualmente circa 5.000 insegnanti partecipano ai corsi di aggiornamento, ai convegni o ai momenti di approfondimento organizzati dalle sedi di DIESSE. Ogni anno, punto di riferimento per tutte le
realtà che si richiamano a DIESSE è un convegno nazionale, durante il quale vengono analizzati e
dibattuti temi di stretta attualità e che vede la partecipazione di centinaia di docenti.
Dal 1991 DIESSE partecipa regolarmente alle periodiche consultazioni del Ministero della Pubblica
Istruzione con le associazioni professionali degli insegnanti. Con decreto del 23 maggio 2002, l’associazione è stata inclusa nell’elenco definitivo dei soggetti qualificati per la formazione del personale docente.
La sede centrale di Milano è diventata nel corso degli anni un luogo al quale pervengono richieste di
aggiornamento riguardanti ogni ordine e grado di scuola. I corsi mantengono la duplice valenza educativa e di qualificazione professionale.
Recentemente si sono costituite Associazioni DIESSE regionali, regolarmente riconosciute, come
quelle di Piemonte, Emilia-Romagna, Marche, Toscana.
DIESSE – Viale Lunigiana, 24 - Milano
tel. 02 67.02.00.55 - fax 02 67.07.30.84 - 02 91.39.09.99
email: [email protected]
itascabili
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
Links
www.avsi.org sito internet di AVSI
www.diesse.org sito internet di DIESSE
www.cdo.it sito internet della Compagnia delle Opere
www.africadaily.com notizie quotidiane sull’Africa dal World News Network
www.alertnet.org informazioni sulle emergenze umanitarie della Reuters Alertnet Foundation
www.allafrica.com notizie e informazioni sull’Africa
www.comboniani.org sito internet dei Missionari Comboniani
www.misna.org Missionary Service News Agency, agenzia giornalistica specializzata nel diffondere notizie e servizi di approfondimento e reportage sul Sud del mondo.
Fonti privilegiate della MISNA sono le migliaia di missionari(e) disseminati nel Sud del mondo
www.missionaridafrica.org sito internet della Società Missionaria dei Padri Bianchi
www.nigrizia.it sito della rivista sull’Africa dei Missionari Comboniani
www.vita.it sito di VITA settimanale esclusivamente dedicato al volontariato e al non profit.
Pubblicazioni di quaderni di approfondimento e di guide al Volontariato, ma soprattutto uno
sguardo aggiornato su quanto è successo durante la settimana
itascabili
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Africa conflitti dimenticati e costruttori di pace
i tascabili
1
Il bambino in situazioni
di conflitto
(inglese/italiano/francese)
i tascabili
2
Educare il bambino,
in famiglia, in comunità,
nel mondo
(italiano/inglese)
i tascabili
3
The Challenge of HIV/AIDS:
Twenty Years of Struggle.
Knowledge and
Commitment for Action
(inglese)
i tascabili
4
Educazione e lavoro
nello sviluppo rurale.
Esperienze da sei paesi
(inglese/spagnolo/italiano)
i tascabili
5
Un’amicizia dell’altro mondo.
Dieci anni di sostegno a distanza
(italiano)
Editore
Realizzazione
AVSI, Associazione Volontari
per il Servizio Internazionale
V.le G. Carducci, 85 - 47023 Cesena (FC)
AVSI - Associazione Volontari
per il Servizio Internazionale
A cura di
Accent On Design - Milano
Progetto grafico
Rodolfo Casadei
Martino Chieffo
Stampato da
Tipografia-Litografia Stilgraf - Cesena
Luglio 2004
La fotografia di copertina è di Silvia Morara
Tutti i diritti riservati
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itascabili
Finito di stampare
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itascabili
per la didattica
www.avsi.org
Africa
Italia
47023 Cesena (FC), Viale Carducci, 85
Tel. +39 0547.360810 - fax +39 0547.611290 - e-mail: [email protected]
conflitti dimenticati
e costruttori di pace
20125 Milano - Via Melchiorre Gioia, 181
Tel. +39 02.6749881 - fax +39 02.67490056 - e-mail: [email protected]
Stati Uniti
The Association of Volunteers in International Service, USA, Inc.
420 Lexington Avenue, Suite 2754-55 - New York, New York 10170
itascabili
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Tel. e fax +1 212 490.8043 - e-mail: [email protected]
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