I RACCONTI DEL 2009 Vissi per dieci anni da scrittrice Di Monica Benincà (già pubblicati) LA MALATTIA MENTALE C’era Rosa in giardino quel pomeriggio. La guardai con discreta attenzione seduta in quella panchina in fondo, sotto il salice piangente. Aveva uno sguardo perso, in piena facoltà della sua meditazione. Quasi da stupirsi con quanta caparbietà guardava fisso davanti a sé, il vuoto, del suo pieno interiore. M’avvicinai con discrezione, per non irrompere con troppa irruenza nella vita del momento. L’ascoltai. Parlò all’amica che l’affiancava tacita, in modo molto fugace, ciò che stava conversando la sua mente. La espose a lei, ed io ascoltai. Rosa è sempre stata giudicata malata dalla gente comune nei suoi discorsi filosofici, ci vuole molta concentrazione ed intuito, per comprenderla in tutte le sue sfumature. La esaminai, mentre conversa con sé stessa ad alta voce, nei suoi occhi verdi, spalancati verso l’orizzonte. “Sono quelle cose da ragazzi” disse. “Quelle che rimangono sempre conservate e non si scaldano, non creano scompiglio. Rimangono lì, chiuse in un’indimenticabile atmosfera di delirio, quando davanti t’appaiono immagini variopinte, simili alle scene cinematografiche, oppure logorate dallo stesso sguardo, a volte verde, a volte blu porpora, che alla fine non ha molta importanza. Tanto ti racconti e ti ripeti, che non è un modo di fare, non è un’etimologia, sono custodite opinioni di decisioni prese all’orlo per confermare la congettura di soldi accumulati dal lusso degli avari, per tutelarli di là dagli ideali che prendono spesso nome di fanciulli, oppure arzigogolo, che diventa agogolo. Una speranza che solamente nell’amor per l’anima, scoppia nella maggioranza dei casi nell’omicidio preterintenzionale o nella prostituzione, avvenuta nelle lacrime conservate che rompono il significato dell’amore, per giunger a ciò che è amore. Un sogno, un desiderio, che forse appartiene di più ad un certo ceto, che alle nobili donne costrette a conservare il loro patrimonio… Tra amanti e rise stemperate, guardare il vuoto e chiedersi: “Che cosa prova ora?” … “ Che cosa vede e cosa guarda al di là dalla finestra nel vuoto delle sue indagini?”.” Rimase a guardare quelle visioni e si chiese: “Perché?… Come hanno potuto farlo?! Come?!… Ovviamente non ti degnano di risposta” continuò. “Guardano gli occhi e non conservano la razionalità spaventosa nell’aver costretto qualcuno a fare qualche cosa, oppure ad indurlo in un trabocchetto benestante per comprare anche il suo di cuore, per svergognare anche la nuora, comare, suocero, donna, uomo, bambino, nel pericolo del loro stesso patrimonio e dignità. Un pensiero misero che vola e si spegne nell’enorme difficoltà d’accettare quella realtà che non t’appartiene, che non ti vuole appartenere, che non vuoi assolutamente farne parte, per pagare il prezzo dell’essere vittima del tuo stesso avere, patrimoniale.” Tacque per un momento, pronunciò un discorso disconnesso e poi riprese, con una calma quasi miracolosa di rassegnazione, mentre un leggero venticello giunto all’improvviso, le scompiglia i capelli, ricci e crespi: “Credo che ci siano uomini e donne, destinati a rimanere soli. Poi arriva sempre chi occupa uno spazio nel loro destino fievole e te lo dice, te lo comunica, che quello spazio, era solo dedicato al suo amore. Uno solo nella vita, di chi lo ha calpestato. Oppure di chi non ha mai voluto accettare questo spazio, perché lo volevano rovinare, distruggere, per farla vivere, vergognare, davanti a chi non ha contemplato bene, da chi non ha visto, ed ancora non basta. Assuefatta dai medicinali t’affidi, a chi va in bagno e se ne lava le mani. Guardando il vuoto, ti chiedi: “Chi può mai compiere e volere un delitto così atroce?!”.” Cade una foglia secca dal ramo, ed escono spesso parole come rivoli che non si fermano. Scendono nella sfera della penna a biro e danno alito allo sfogo del momento. E poi si vendono, nella quiete dell’ombra. Lei, silenziosa, amante della tranquillità, non vuole dislocarsi per essere nell’obbligo del dover fare senza volerlo. … “Casa a tentoni da una parte troppo mare troppo deserto dall’altra Troppe stelle visibili”… Dice Ungaretti nell’inizio dell’Ineffabile. Ho capito, chi non ha disgiunto mai la forma dal contenuto ed ha acclamato: “Sono donna, e un’artista, sono un’aruspice e non un auspice”… Tutto sommato, per metà della popolazione non ha molta importanza in ogni momento della loro vita… basta viverla nella loro coscienza e citare le ultime parole, forse un po’ annebbiate e chiuse in se stesse, ma ugualmente parole. Obblighi la tua mente ad essere spesso occupata, così non penso, non vedo e vivo ugualmente, occupato nel nascondere ciò che si prova dando ugualmente noia in un giorno di misera tristezza. Non c’è posto per lui. Nella vita quotidiana d’ogni essere vivente, non c’è posto per lui, ma solo per la fredda e fretta vita giornaliera, da trascorrere ridendo di qualche battuta e riempiendola di cose importanti per l’avvenire. Una famiglia, una casa, scuola, lavoro, salute, soldi, e alla fine del mese pagare le bollette, il cibo e qualche sfizio, mentre il commercio identifica una nuova marca, moda e tattica, per venderti qualche cosa che alla fine comprerà solo per dar lavoro ad altri, solo per darti soddisfazione e piacere, guardando avanti dritto all’obiettivo, inseguire la vita e rincorrerla ogni giorno. Rincorre la vita nella piacevolezza di una famiglia, da conquistare giorno per giorno, oppure un /un’amante da trattenere nei momenti di vuoto per credere di star bene entrambi. Ora per noi è diventato un sogno anche quello. Feci un sorriso ironico. “Sì hai ragione” disse Rosa all’amica spostandosi di lato. “Sono decadente, sono triste, non vivo in pieno, e non sono leggera… se ciò è vero, hai ragione, ma questa è la mia personalità, romantica di un tempo lontano e chiusa in questo, dove anche l’ultimo conoscente, ha preso una brutta strada. Dove il controllo sanitario equivale al nulla. Nonostante la ragione qualifica la consapevolezza, non vuole cambiare, perché il nulla equivale al nulla, e la stasi, alla stasi dei sentimenti. Finché arrivi alla fine a chiederti: “ Chi era?” “Nessuno d’importante!”.” Ci fu un lungo momento di silenzio tra me, Rosa e l’amica assente, quasi immaginaria. Il tempo trascorreva lieto, l’ora si propagava a diventare tarda, e lei riprese: “Tante volte capita, che negli occhi della gente vedo il vuoto ed il desiderio d’essere pieno. Cercano di vendere la felicità, e s’annoiano con chi li mette di fronte alla realtà quotidiana di quest’esistenza trascurata. Diventa troppo pesante, perfino per loro. Credono che una risata nel momento poco opportuno, dia un tocco per sdrammatizzare, oppure gridano. Nel vuoto del mio viso, vedo la mia solitudine, assuefatta, stanca persino d’essere se stessa, con il desiderio di poter sfuggire ed arrampicarsi negli specchi della speranza, tra risa stemperate e grida inutili. Loro vivono soddisfatti di se stessi. Vivono e riempiono le loro giornate, senza pensare ad un amore con l’apostrofo, ma ad un one love da consumare. Altri fanno i loro giochi, così vuoti che riprendono l’assurdità ed il fallimento del momento, scambiano per pazzia la normalità e la normalità per pazzia, perché non ammettono d’aver torto, e poi come se nulla fosse, t’offendono. Accecati dalla loro stessa velocità delle parole, dei tempi che corrono, dei sogni svaniti, svuotati, non pensano. Alcuni non desiderano la felicità d’altri, se non trasformata in invidia portante. Sì può essere… ho torto io, ma quel ragazzo si è schiantato sotto un camion con la sua volontà, correndo ancora salvo per il cavalcavia, inseguito dagli infermieri. Umiliano chi il lavoro non ce l’ha, perché lo hanno assassinato. Uccidono corpi e sogni… solo per denaro, per poi vergognarsene e ricordartelo, che umiltà hanno: “Nessuna!” “Che dignità?” “Nessuna!” Per soldi, per un buco, per una spada, un pezzo di fumo, qualche grammo di coca, tutto farebbe, meno che del bene. Rubano idee solo per far bella figura, e tu, onesto cittadino, speri di salvarti da questa miseria distribuita, da chi soldi ne ha fin troppi. Cerchi di scappare ma dove vai?! Ti usano e ti gettano a piacimento, nemmeno per un caffè freddo, e nemmeno per un caffè nero e secco, nel suo essere aspro ed amaro. Ti ridono in faccia obbligandoti all’odio, ed allo svuotamento del sentimento. Per mafia, droga e soldi, c’è molto peccato. Per una frase, una parola avversa t’appende ad un ramo, impiccato, crocefisso, per una poca speranza di uscire dal gruppo”… Rosa si fermò, ed io ricordai, ricordai, e continuai a ricordare… immagini che m’appaiano davanti di continuo, mentre Rosa discute con il suo destino. Fu come una rivelazione, momento dopo momento, attimo dopo attimo, immagini sopra ad altre immagini e ricordai. Il ricordo costa molta fatica, ma finalmente tutto ha un collegamento logico, unico… inevitabile… C’è un momento tra l’atto del ricordo e l’atto della verità, della comprensione che ti conduce quasi fino alla follia, che diventa rivelazione. Se ne sfugge con la credenza che è per il volere del bene ma nel suo fondamento, c’è molto più peccato di quanto si può credere, Un peccatore t’induce sempre al peccato, inconsapevolmente o consapevolmente. Proteggi gli innocenti ed i colpevoli, perché nella realtà non conosci, non sai, non comprendi più che cos’è vero, finché ritorna tutto al loro posto. … Come dieci anni orsono, nel dirupo che ti conduce alla pazzia, tutto ha un senso compiuto. Una qualche cosa d’apparso dietro ad ogni evento, ed il colpevole che credevi buono, in realtà non lo è per niente. Quanta gente è rimasta impunita?! E’ l’unica domanda che riesco a chiedermi, in questo momento un po’ confuso. Nei ricordi Rosa, iniziò il suo delirio. Senza ironia ed in modo molto nervoso, pronunciò le ultime parole: “… Ti amo, mi diceva casualmente, t’amo… lo sento il sentimento, lo sento forte, non ho alcun dubbio, mi sento viva e non assumo alcun farmaco… la mia amica, la mia amica è colpevole, perché ha scelto, ed ha scelto da che parte stare… un solo vero nome la definisce per quello che è… ma soprattutto malata.” E’ difficile capire la psicologia di un tossicodipendente, ma nella grossa percentuale dei casi sicuramente non è altruista, e non è mai colpa sua. S’estende come un’epidemia, è vittima e carnefice insieme, fino a diventare un vero e proprio suicida. Fece una breve pausa, e poi riprese a parlare: “…Ho collezionato delinquenti per non farmi sentire importante. Alzarli al livello massimo e dimostrarlo che non ci sono colpe da distendere e disseminare, ma le loro azioni da punire.” Si alzò in piedi, di scatto, quasi liberata dal suo assillo, e girandosi di spalle aggiunse: “T’imitano per farti perdere la ragione, e fanno sempre disgraziatamente, troppa pena.” “Certo” risposi. “Fanno schifo anche a se stessi”. Raccolse tutto quello che le apparteneva, e se n’andò. Mentre cammina, allontanandosi dalla mia persona, recupero la consapevolezza dell'essere me stessa, nell’ascoltare ed esaminare Rosa in questo dì. Nella sua follia, c’era sempre qualche cosa che mi attraeva, tanto da provare molta ammirazione. Presi una penna dalla borsa che portai con me. Stranamente in tinta con le scarpe. Tirai fuori il taccuino degli appunti e scrissi: “Un Artista (universalmente parlando) all’inizio della sua carriera, ha spesso paura d’essere giudicato un artista, in qualità d’Artista delle proprie opere, più che come status symbol… appare quasi un miracolo… sono emozioni forti, contrastanti, che qualcuno affoga nell’alcol o nella droga, ma è un vero peccato vedersi rovinare nel proprio ingegno; per questo s’afferma che l’artista sia un po’ matto.” Negli ultimi anni, m’accompagna spesso una civetta. Mia fedele compagna da qualche tempo… chissà quale mistico volere, conduce quest’uccello rapace notturno a farmi compagnia nel lampione sempre poco o per nulla funzionante, in due paesi diversi. Chissà nella mia mente fantasiosa, se c’è qualche alchimia nascosta, a me sconosciuta. Il mondo è magico… ma oggi, mentre ascolto ed ammiro il paesaggio attiguo, nei suoi rumori notturni, insieme al dileguarsi di Rosa è scomparsa anche lei, la civetta. Una mattina ormai lontana, un professore mi disse: “Non odiare mai le cimici, se le bruci senti un odore maggiore, e corri il rischio che sia ancora peggio.” VIOLENZA Perché non si riesce a dire mai scusa e mi dispiace veramente? Perché la persona che ama si sente in colpa quando ha torto? D’improvviso si svegliò, lo guardò nel volto e pensò: “Che diamine stiamo facendo?” In quel preciso momento lo esclamò lui ad alta voce… lei retrocesse, pensò un attimo alla vita, ai suoi pensieri. Così tra un poco senso e la voglia del momento, ebbe paura. Ebbe paura di perdere un’occasione, di anteporre lo sbaglio alla conseguenza del poi, al rimpianto di farlo quello sbaglio, e per come si sarebbe rivoluzionato il suo pensiero e la trasformazione del tutto. Per un istante ebbe anche paura che un giorno sia morta e quel dì sarebbe capitato a breve; stava male, psicologicamente era distrutta, fisicamente non si sentiva molto bene. Le gambe erano sempre più stanche, la respirazione sempre più debole, ma allo stesso tempo si sentiva molto forte egualmente. Lo guardò nel volto e sorrise. Sapeva benissimo che quel momento avrebbe distrutto o costruito un’intesa... non volle pensare molto. Non volle sostanzialmente concedersi del tutto. Si sentì tirare e rispose ad alta voce, semplicemente al suo stesso pensiero: “Ma sì è la vita!” Una risposta stupida. Evitò il peggio, per non dover rimpiangere mai nulla un domani, e per togliersi ogni dubbio e dispiacere nel sentirsi anche sporca dentro. Pensò essenzialmente che tutto potesse durare più a lungo. Tutto poteva aspettare, ma si rese conto che la stanchezza del lavoro, insieme alla tarda nottata passata in discoteca, quel bicchiere in più, il sonno che si era già impossessato del suo corpo, gli tolse le forze per negarsi del tutto. Non seppe nemmeno il perché non ce la fece, psicologicamente si sentì debole. Nel breve tragitto che conduceva una stanza all’altra, c’era una forza incongrua dentro la sua persona, dove cercava di tornare indietro e stendersi nel letto e ricominciare a dormire; ma non ce la fece, la sua risata la innervosì, e continuò a testa bassa con occhi assonnati e gonfi a camminare dritta davanti alla sua persona. Un passo dopo l’altro. Si guardò i piedi e non capì che cosa le stava accadendo. In quel momento nemmeno la vocina che percepiva all’interno della sua mente, riuscì a impedire l’evento. Lo distrusse. Si distrusse. Lo distrusse perché era un pedofilo. Ma lo è tuttora. Tutto questo non bastò. IL BIVIO Manuel stava, ore e ore a guardare il vuoto. Che cosa osservava dritto davanti a sé imperturbabile, non riesco a capacitarmene l’idea. Nei suoi occhi così bui e spenti, la sigaretta piano piano si consumava, e la cenere in poco tempo, era già a terra. Nessun movimento. Lo guardavo in un angolo, guardavo il suo osservare, e lo fotografavo di continuo. Quello sguardo oscuro m’incuriosiva, era come se avesse la percezione concreta che la sua vita sarebbe stata breve e nulla voleva più fare. Solo l’amore, inteso come lo intendeva lui, equivalente al sesso, era l’unico sollievo e vanto della sua vita, nemmeno il lavoro credo, gli destava più di tanto interesse; e quella ragazza che di tanto in tanto gli sedeva accanto per poi sparire per giorni interi, è un portatore di handicap. Quasi tutti cercavano di proteggerla, ma nella realtà era più libera di molti altri; e a chi voleva rinchiuderla in un manicomio o in una prigione, si trovava davanti ad una concreta realtà. Lo guardò con occhi di gabbiano, illuminati dalla speranza d’essere compresa in quelle poche parole dette tra le lacrime soffocanti: “Non abbiate paura per me, io non soffro più di voi, voi correte semplicemente troppo, ed io v’inseguo.” Fece un breve appunto verbale, guardandolo fisso negli occhi, con i gomiti appoggiati in quella scrivania per nulla curata, la schiena un po’ ricurva e la testa protesa in avanti: “Delle volte le peggiori pene e violenze si vivono in ambito familiare, non dev’essere una scusante” si alzò e lo salutò. Non si stupì nemmeno di leggerlo quell’articolo, riportato in un giorno miracoloso di gioia nella sua esistenza per aver passato un altro esame che le era stato sottoposto nella vita, in una civetta, intesa come manifesto di formato ridotto che l’edicola espone per attirare l’attenzione su articoli e notizie di un quotidiano, la morte del suo amico Manuel, avvenuta per causa di un incidente stradale. Finì con la moto sotto ad un camion. La comprò poco tempo prima, una potente Honda Transalp 650 di cilindrata nuova di zecca, una bellissima moto da strada non la solita da Cross/Enduro, con la quale gironzolava per le strade di montagna. Già progettava viaggi, in qualche luogo ignoto ancora da prefissare, con il suo nuovo amico e collega. Così, durante rincasava quando ebbe finito il suo turno di lavoro, con la spavalderia dell’esaltazione data dall’ammirazione dei suoi colleghi, prese la curva “in modo troppo largo”, non si salvò più niente. L’articolo citava, “…I genitori, che serenamente attendevano il figlio per la cena, sono stati avvertiti soltanto dopo la sua morte, poiché l'identificazione non è stata facile: Manuel non aveva con sé né la patente né la carta d’identità. Alle sue generalità, sono riusciti a risalire attraverso il foglio della busta paga, trovato in tasca nei brandelli del giubbotto…” Aspettarono insieme al parroco locale, il nullaosta della Procura della Repubblica, prima di fissare la data funebre. Nell’epigrafe appesa un paio di settimane dopo, vide la sua foto, e pianse come non mai. Pianse per lui, per la vita e per tutto quello che la includeva, per il dispiacere e per la sofferenza di una madre accasciata accanto alla tomba del proprio figlio. Si sedette stanca ed esterrefatta del suo racconto telefonico all’amica Marica, che la scambiò in principio per la sorella, con la preoccupazione che fosse deceduto suo padre, poiché avvertiva qualche acciacco da giorni. Non descrivo nemmeno la sua disperazione del momento, non ci sono parole per il trambusto creato; quasi si sentì in colpa d’averla chiamata per sfogare il suo dispiacere. Si alzò nervosamente, fece un breve giro nelle vicinanze, e si risedette stanca ed esterrefatta durante cercava inutilmente la madre al telefonino mentre la batteria iniziava ad emettere i primi suoni d’allarme, in una sedia di plastica bianca posta in terrazza, con le palpebre gonfie dal pianto e le borse sotto gli occhi, delle notti insonni. Si sedette e pensò: “Ci vuole silenzio per comprendere e per comporre qualche frase, e per comporre ancora ci vuole silenzio. Sono entrata all’università con un sogno mai compiuto, e ne sono uscita disperata. Manuel è finito sotto ad un camion ed è morto quasi all’istante. Ci si chiede tanti perché nella vita, tanti se… ma alla fine sono quasi tutti inutili, è un attimo, solo un attimo e tutto cambia, tutto può finire, tutto può insegnare e tutto può ricominciare. Secondo lo svolgersi di quell’attimo, dell’esito finale, inizia o termina la tua vita. (cit. Dietro La Maschera Sociale – Pensieri 1992 – 1994 – di Monica Benincà - edito Il Filo 2007). Ci sono molte morti in quest’esistenza, c’è chi vive ed è morto dentro, chi muore sul serio e chi impazzisce e non si rende conto d’essere già trapassato. Manuel lo era già deceduto nel sentimento, ma ora lo è per sempre, lì su quell’asfalto insieme alla sua passione. Mi chiesi e mi richiesi come un rimbombo nella mia mente: “Se gli fossi stata più vicina quando mi chiedeva aiuto, se fossi stata più comprensiva, che egoista ed egocentrica”… se …se, se, se… quanti se ci si chiede quando non si può più porre rimedio alcuno. Quando una vita cara si ferma, allora tu trovi il tempo per riflettere, prima, prima non si poteva! L’ultima volta che mi sedetti accanto a lui, era già ubriaco. Mi raccontò che aveva trovato un nuovo lavoro, che era cambiato… avevo avvertito, tutta la sua tristezza. Andarsi ora ad incanalare nel discorso filosofico della morte come trapasso a miglior vita, che si differenzia per riti, culture, popoli e quanto ne compete, non mi sembra il caso, giacché poi si ritorna all’individualismo e al pluralismo dell’essere stelle accese o spente esistenti, una diversa dall’altra nella nostra interiorità. Gesù, rispondimi, come fanno a scegliere il dolore della morte in vita, chi un fisico lo ha sano ma già marcio all’interno?! E’ una domanda sciocca, come molte altre, dove non voglio nemmeno dare risposta, probabilmente perché inconsapevolmente la conosco già, ma mi rifiuto ugualmente di crederci, e non voglio conferme, perché non le cerco. Ho semplicemente paura della verità.” Chiuse gli occhi per un istante, e si riposò. Decise di mettere un temporaneo freno al suo pensiero instabile, e all'assillo che la perseguitava da giorni, di cogliere l’occasione per gioire dell’aria fresca che dolcemente le coccolava il viso, assonnato. In tutta la vita sogna un’abitazione, la sua piccola ed umile dimora, dove sedersi con una seggiola sul ciglio della porta che s’affaccia nel modesto giardino frontale, con l’erba ben tagliata e le siepi elevate che lo circondano. Un muro in mezzo ad un immacolato verde, forse un po’ tetro ma lo vede color speranza. La speranza di una parola, una accanto all’altra, che forma la frase, il verso e la composizione di parole libere, fuoriuscenti ed isolate. Cercò il libretto degli appunti nella borsa che portava con sé, appoggiata sopra al tavolo, anch’esso economico di plastica bianca per resistere alle intemperie esterne. Trattasi di borsa bagaglio che doveva contenere tutti gli accessori mescolati insieme. Lo cercò con dovuta insistenza. Era un taccuino che non raggiungeva nemmeno il formato A5, rosso della passione, della vergogna, dell’imbarazzo, del freddo, della calura e della rabbia. Quando lo trovò lo aprì e con furia bisognosa scrisse: “M’accingo a scrivere senza placare la mia sete di desiderio, nel concludere a me stessa: “Ci sarà mai un uomo al mio fianco, in quest’umile casa dei sogni?” Forse no, forse solo un fantasma che vaga nel credere di far compagnia, ma nella consapevolezza del non ricevere più nulla. Dove nessuna sa, e nessuno può raggiungere, un immenso giardino segreto, un labirinto dei desideri, una corsa sull’albero per costruire la casa dei giochi, mentre le formiche già l’affollano, correndo una accanto all’altra in cerca di cibo; ed alla fine, poter decidere di cucinare il pesce più saporito, in un sugo di pomodoro, con un pezzo d’acciuga, spicco d’aglio, olio d’oliva ed un po’ di prezzemolo.” Assuefatta dai propri pensieri sognò, ed ebbe una visione: scorse una presenza tra la siepe. E’ un piccolo uomo buffo, con gli occhi un po’ tarchiati dal sonno, troppe ore in piedi deve aver passato, e le guance rosse dalla fatica, gli adornano il viso. Nell’immaginazione collettiva sembrava più ad un elfo che ad un vero e proprio essere umano, ma per lei no, risiedeva nella normalità. Storse la testa, la piegò da un lato, e lo guardò con un occhio chiuso ed un aperto, per inquadrarlo nella sua visuale e disse: “Non capisco!” L’uomo continuò a svolgere il suo lavoro, nella monotona routine della giornata. Lei distolse lo sguardo, e riprese a scrivere nel suo taccuino per intitolare la pagina vuota Il Bivio. Giorno 12 Luglio, Auguri papà. Il Bivio Quando mi fermo, mi ritrovo davanti a tutti i miei ideali, ponte della mia strada, del mio percorso, della mia vita, per poi trovarmi un giorno davanti al bivio di una sola strada da scegliere, che dà una direzione, oppure un’inclinazione differente, una curva per proseguire o tornare in dietro. Davanti a quel bivio, quello che trovo più difficile, è il pensiero s’è il caso di calpestarli o no… dover abbassare la dignità di uno scalino nella presa di coscienza che non ce la può fare… il non poter più lavorare per il momento, per non rischiare di danneggiare un intero corpo, uno scheletro con le articolazioni, avvolto da più elementi uniti, membrane, vene, muscoli, legamenti, carne, pelle ed ecc… E comprendere che le corse contro il tempo, non sono fatte più per la mia persona. Finché si corre non ti accorgi nemmeno, non presti attenzione alla pozzanghera ed al fango ove t’immergi inciampando e cadendo, ed il tuo fisico, non ritrova più alcun riscontro. Allora, decidi di fermarti al semaforo rosso, prima che sia troppo tardi, nell’attesa che ritorni il verde. Vedi, che io sia buona, cattiva, gentile o meno, il mio handicap, la malattia che mi riguarda, mi punisce egualmente, non ho bisogno che mi condannano gli altri, lei è egoista, se io non mi prendo cura di lei, lei mi fa pagare tutte le conseguenze. E Finisce: “Io non sono contro l'amore omosessuale, ma sono contro la volgarità e la diffusione di quest'ultima, ove si propaga solo il sesso.” “Una bugia raccontata bene, porta un vero e proprio senso di frustrazione e presa in giro, soprattutto per chi la scopre.” Di fronte ad un bivio, è spesso meglio aspettare, che si dischiuda la via di mezzo. All’improvviso, si trova in balia di un incredibile, desiderio di confidarsi attraverso il suo libretto, righe e sillabe, appaiono pian piano che discende l’inchiostro dalla penna mentre procede per mezzo della sua volontà, attraverso l’unica delizia e gioia d’entrare in fiducia con voi, con il tutto, con se stessa e con chi avrà la curiosità di leggerla. Cede a quest’impulso e nemmeno s’ostina a frenarlo, poiché resti e si trattenga un ricordo, sprazzo della vita, che le permetta di meravigliarsi ancora della sua intimità. … “Ho deciso di sottopormi a tutti gli interventi chirurgici, pur di guarire. Già questo credimi, non è sempre semplice. Mi ricordo nuovamente quella volta che dovetti operarmi al setto nasale, una delle più comuni operazioni che più di uno alla fine, deve sottoporsi… Fui assente per un certo periodo dal mio blog in internet, e con sorpresa, gentilmente, alcuni amici – conoscenti mi chiesero: dove sei finita? Come va principessa?… ed io emozionata ed ancor più convinta, scrissi all’incirca a tutti la medesima storia: “Mi sono assentata per un breve periodo, perché ho dovuto sottopormi alla settoplastica e turbinoplastica, ed il naso non smetteva più d’insanguinare. Aggiungo: finalmente! Proprio perché non ne potevo più, soprattutto dopo un incidente stradale di qualche anno fa. Ho purtroppo avuto un’intubazione difficile, con difficoltà a deglutire, respirare e qualche linea di febbre. I sintomi risiedono nella norma per certi tipi d’interventi simili al mio. Pensate, non posso nemmeno ridere e parlare tanto, proprio io?! E’ un castigo! In fin dei conti, sto guarendo bene. Il giorno che mi hanno tolto i tamponi sono davvero svenuta, ed il mio volto è diventato cereo. Nemmeno da dire la paura che hanno preso i miei successori, ma poi ho appreso che a loro è andata notevolmente meglio. Io lo affermavo che ero un caso un po’ diverso… Sono quasi due settimane che faccio in sostanza niente pur di guarire, ma resisto pochissimo, perché sinceramente parlando, m’annoio come non mai. Così mi diverto a far volare la mia immaginazione e creo con la fantasia. Sono spesso mie compagne di meditazione per fortuna, e per essere sincera, guai a chi s’intromette! Divento subito nervosa, poiché perdo il filo logico del mio pensiero. Ora devo sottopormi ad altri interventi, ma ho deciso d’aspettare ancora qualche anno. Trattasi sempre di un piccolo inferno passeggero per me, dove vivo interamente nella mia mente, nei miei ricordi, nel passato (continuavo a sentire: “La stiamo perdendo…”, ciò che era successo anni fa in pronto soccorso dopo aver bevuto del vino avvelenato), e quando mi hanno svegliata (e già questo è bene, un bel paio di corna scaramantiche sono state d’aiuto), mi sono ritrovata in una specie di trauma psichico di smarrimento e dolore. Poi tutto passa come sempre. Ed aggiungo: che fortuna!” Buona vita a tutti.” Subito sì sentì meglio con la rinnovata speranza di poter uscire dal suo handicap. Dedicò il suo ultimo passo scritto alla propria amica, che quella sera, nel reparto del pronto soccorso, pianse fuori della porta, nella sala d’attesa, per lei perché potesse vivere ancora. Lei lo conservò lì, in un angusto angolo d’affetto ma molto intenso, perché se vive la propria rimembranza, vivono insieme nella condivisione di quel momento, se muore il ricordo, si conclude con la certezza che muore un esiguo frammento d’entrambe. Aneddoto di vita passata. Pensavo all’amore passato non con tristezza e malinconia, ma come un bel ricordo di vita trascorsa e di rinascita… poi di nuovo tutto si è bloccato. Un mese dopo ero stata picchiata da un albanese clandestino nel bagno delle donne… tra l’altro non ero nemmeno stata l’unica… presi il telefono e chiamai l’amore del momento. In ricordo suo pensai, adesso lo tartasso di telefonate anonime. Faccio squillare una sola volta il telefono, poi spengo giusto per dire: “Ho bisogno di te, aiutami.” La notte stessa la passai completamente in bianco, come la successiva e l’altra ancora. E questo a rinvangare il passato. Alle 3:00 del mattino, mi alzai di scatto per rispondere a due soli, singoli squilli di telefono, nella vaga speranza che fosse lui e mi chiedesse di scendere. Vivevo nella costante percezione che fossero solo sogni. Il giorno o meglio la sera seguente gli telefonai ad un’ora decente. Mi feci mille domande su cosa gli avrei detto dopo la sua risposta. Ma furono tre telefonate a vuoto, con l’annuncio della telefonia mobile: “Il cliente da voi chiamato non è raggiungibile”. Così presi la palla al balzo e gli lasciai un messaggio. La risposta non so ancora che cosa sia. Pazienza! Dopotutto se l’hanno santificata qualche motivo ci deve pur essere! D’altronde, queste tipologie di storie bisogna prenderle così, come vengono. Tanto il mio tempo libero, sono goccioline di un sole inafferrabile. Quando vuole io, ci sono. Una volta mi ha pure risposto, ed io ho messo giù. Il cuore mi batteva a mille, mi sono sentita male. Sicuramente avrà un’altra, una di passaggio, come sempre. … Sì, poi con l’ultimo dell’anno, due più due fanno sempre quattro. Non so se questo è brutto, e non m’importa. Meglio lasciar stare, tanto non mi può aiutare ugualmente. Una sera immersa nella mia solitudine scrissi una poesia, intitolata VORREI: “Vorrei piangere come adesso sta piangendo questo cielo. Vorrei consumarmi e poi spegnermi, come la sigaretta che sto fumando. Vorrei non poter pensare più a nulla, spegnermi di continuo, continuando a vivere. Sentirmi un vegetale, dove né il tempo, né l’ora ha più importanza. Star qui distesa nel letto a guardare il soffitto senza vederlo”. La feci leggere a una mia amica, che subito mi disse: “Era ora!” Ovviamente spacciava di nascosto. Scappai. LO ZUCCHERO A VELO La stanza era semibuia, lei si trovava distesa, appisolata nel divano, nel primo pomeriggio. A un certo punto sentì alcuni passi. Si svegliò di colpo dal suo incubo; era come se qualcuno la stava fissando con insistenza frontalmente e poi corresse fuori dalla porta. Odi il rumore dei sassi... Si alzò, disponendosi seduta nel divano, guardando dritta davanti a sé. Si domandò con gli occhi spalancati dalla paura: “Ma che cos’ho in bocca?!” La caramella che stava succhiando prima d’addormentarsi sul divano. La tirò fuori e la buttò nel portacenere. Per un momento, un solo istante ebbe un’enorme paura che qualcuno fosse entrato, e che questa persona fosse riuscita nel suo intento. Da giovane lesse molti diari, che parlano di storie simili. Ragazze che appena uscivano dalla droga si trovavano in regalo ad esempio, una tavoletta di cioccolata, e all’interno una pasticca o della droga. Avvertì dei passi frettolosi simili ad una corsa che si allontanavano fuori dalla porta di casa fino al cancello d’ingresso per poi sparire dietro alla siepe. Subito si alzò e corse a vedere... la porta era spalancata, ma non c’era nessuno. La porta d’ingresso della casa del suo convivente, ha il difetto di aprirsi da sola al primo soffio di vento. E’ una di quelle non proprio moderne, per dire il vero, l’intera casa non è moderna. Per le sue dimensioni posso confermare che dall’esterno sembra più una vera e propria baracca ma Federico all’interno era riuscito ad arredarla con gusto. Andò in cucina ad aprire la credenza e vide che il barattolo dello zucchero a velo tritato era scomparso. Tacque per un momento, non seppe che pensare. Sperò solo che il suo convivente non se la prendesse più di tanto. Prese la decisione di tornare a dormire. Giunse la sera, il suo fidanzato entrò di scatto, corse verso la credenza, aprì l’anta dell’armadietto e disse: “ Dov’è il barattolo dello zucchero a velo?” “Non lo so” rispose lei: “Questo pomeriggio mi sono coricata perché non stavo molto bene.” E continuò: "Ad un certo punto, mi sono svegliata di scatto e ho sentito il rumore dei sassi. Alcuni passi frettolosi, che correvano fuori nel cortile di una persona “X”, ma non saprei identificare chi sia. Non l’ho vista.” Sospirò: “ Poi sono andata verso la credenza per vedere se c’era ancora il barattolo che tu tieni custodito/riposto con cura in alto, e non l’ho più visto”. Ripeté: “Chi sia non lo so, mi dispiace”. Federico prese la giacca e corse fuori. Poi senza dire una parola rincasò dopo un’oretta due, con in mano il barattolo dello zucchero a velo un po’ diverso, tritato. Seguitò a non dire una parola, e come sempre lei evitò di chiedere troppo. Si mise a cucinare per la cena, mentre lui si fece una doccia. Il suo orecchino d’oro sparì, non lo trovò più. Anche se…