settembre 2012
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Rivista di riflessioni contemporanee a cura di Salvatore Jemma
Lavorare è un po’ morire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
Roberto Roversi
Nei nostri giorni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
Andrea Paolella
Anche io sono un outlet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
Katia Zanotti
Referendum a Bologna: la parola ai cittadini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
Pasquale Scarpitta
Allo specchio della crisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
Alfredo T. Antonaros
Chi siamo?
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Maurizio Maldini
Dieci riflessioni: dal volantino al qr-code . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
Valter Vecellio
Diario delle notizie perdute . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
Le foto sono di Mattia Di Leva
Lavorare è un po’ morire
(red.)
L’Irlanda è terribilmente demoralizzata in tutto – nei suoi studi, nella sua critica, nella politica e nella vita sociale. Non migliorerà molto
fino a quando non governerà se stessa, ma peggiorerà se non vi sorgeranno spiriti di protesta.
W. B. Yeats (lettera ad Alice Milligan)
Affrontare la questione dell’Ilva di Taranto, o quella della Carbosulcis e dell’Alcoa,
significa approdare al paradigma dell’attuale situazione, italiana o europea che sia,
economica o culturale, etica o morale. Il piano del ragionamento non ammette molte
sfumature: da una parte i lavoratori dell’Ilva, dell’Alcoa, della Carbosulcis, come di
tante altre situazioni meno o per nulla conosciute, che sono costretti a manifestare,
a combattere stracciandosi le vesti per il proprio lavoro – con questo sacrosanto diritto a non ritrovarsi affamati e schiantati contro il cumulo della miseria, un diritto
da sempre così calpestato, soprattutto in questi ultimi decenni, da autentici farabutti mascherati da imprenditori, politici, economisti, saggisti, editorialisti e anche da
qualcuno mascherato da sindacalista –, a battersi votando anche per la propria morte
per avvelenamento e per quella delle proprie famiglie, nel caso dell’Ilva; dall’altra
i minatori sardi, costretti anche loro a un gesto estremo, ma non diverso da quello
appena detto, chiusi nella miniera con esplosivo, minacciando di farsi saltare in aria,
preferendo morire là sotto e subito, piuttosto che su e un po’ alla volta, magari con un
po’ di assistenza; in ultimo, i lavoratori dell’Alcoa, disposti anche loro a tutto (è quanto ripetono in ogni occasione, e qualcosa si è già visto) pur di non barattare il proprio
lavoro con una qualche assistenza.
Questa è la nera tragedia nella quale l’attuale economia di crisi dell’odierno
sistema capitalistico ha gettato e continua a gettare le persone; lottare per la propria
sopravvivenza, sapendo che questo può significare anche la propria distruzione (fisica), cosicché: sì al lavoro, nonostante dia la morte; sì alla morte, se non c’è il lavoro.
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(red.) / Lavorare è un po’ morire
Tutto questo perché oramai, almeno qui nel nostro Paese, nessuno vuole mettere in discussione nulla di ciò ha generato e genera l’attuale situazione, non certo il
padronato, figuriamoci! (chiamiamolo con il nome che si merita, altro che imprenditori) quello si è divorato quantità enormi di denaro pubblico, e ora giura di non volere
più soldi dallo Stato (come la faccia di tolla di Marchionne per la Fiat), anche se non
ce la fa a resistere nel chiedere agevolazioni di ogni genere a un Governo che se non
lo rappresenta, certamente ne condivide tutti gli assunti principali; ma neppure la
cosiddetta opposizione dice qualcosa che faccia sperare in un reale cambiamento: urla
al vento, con molta indignazione e alta prosopopea, con inutili e, alla fine, scoccianti
parole – a partire dall’ineffabile (e, si afferma ultimamente, irresponsabile) Presidente
della Repubblica, giù scendendo.
La rappresentazione appare, per certi versi, tragicamente comica: comica per
l’inarrivabile verve pagliaccesca di tutti; non a caso abbiamo avuto per anni un buffone di prim’ordine a capo del Governo che ha fatto scuola, mentre oggi ne abbiamo
un altro, finto intransigente e rinnovatore dei costumi politici, che dichiara di voler
mandare tutti a quel paese, ma quest’ultima affermazione la volge in maniera un po’
postribolare; uno scaltro manipolatore, alle prese con una sorta di esperimento in
grande stile, per coartare la volontà politica di un numero sempre maggiore di persone attraverso la visione, filtrata dai nuovi media, di magnifiche sorti e progressive
– Bersani, quindi, dovrebbe capire che non si tratta di fascismo verbale, invece di
qualcosa che è sì fascista, eppure in un modo davvero più complesso di quanto che un
battutista come il segretario dei Ds potrebbe riuscire a comprendere –; tragica, invece,
questa rappresentazione lo è per la parte dei lavoratori, quasi in figura di condannati
al proprio destino, senza rappresentanza forte, reale, convinta, abbandonati appunto
alla propria disperazione; cosicché un fatto appare abbastanza chiaro: il progressivo
denudamento dell’attuale democrazia, l’impoverimento delle sue pratiche concrete e,
quindi, la nullità dei risultati che tali pratiche dovrebbero conseguire per conto della
comunità che rappresenta.
Questo Paese è stato condannato, anche auto-condannandosi in vario modo,
da una politica che ha perennemente mediato fino a stravolgere se stessa, rendendo
inconsistenti gli strumenti che dovevano risolvere i problemi volta a volta presenti;
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(red.) / Lavorare è un po’ morire
mediazioni su mediazioni, per cercare di arrivare a non concludere nulla di realmente
incisivo per un’intera società, e questo per accontentare o non scontentare i numerosi
ma delimitati gruppi di potere: l’adagio gattopardesco cambiare tutto per non cambiare
nulla, oggi potrebbe mutarsi in cambiare nulla per ricambiare alcuni.
Qui si traccia l’immagine di una inutile classe politica, ma non una politica o
degli strumenti che dovrebbero agirla, come certuni spingono a credere, una classe
politica che si è ridotta a questo per la meschinità sia personale di ognuno che da
quella collettiva dei partiti, che nella loro attuale rappresentazione non rappresentano
che interessi particolari, di clientele, di scambi personali (non tutti, probabilmente,
sembrano della medesima pasta, ma la differenza oggi minima non è che la proverbiale foglia di fico, che risulta più volgare di quanto vorrebbe nascondere). Di fronte
a questa inutilità, l’unica parola che viene usata da tutti come panacea per ogni male
del Paese è “moderazione”; per un verso o per l’altro, ci riempiono le tasche con la
supposta necessità di «una forza moderata per il Paese, una forza tranquilla per governare, che abbassi i toni della contesa». Moderazione? quella che spinge le persone ad
atti estremi, che toglie il poco dai molti per farne il molto dei pochi? di cosa stanno
parlando quando parlano di moderazione? la moderazione che vede consenzienti solo
i vecchi o nuovi gruppi di potere? o quella che permette a grandi speculatori, sotto il
nome di “mercati”, di prendere per la gola interi popoli? la moderazione di non combinare mai nulla di veramente incisivo, di approntare solo pannicelli (talvolta neppure
caldi) facendo credere che si tratta di un moderno impianto di riscaldamento? la moderazione di mantenere sotto il peso di una crisi sempre più distruttiva le persone?
La moderazione è di chi sta al caldo, protetto da mille sicurezze; gli altri o sono
disperati e sottomessi (fino a che non si ribellano) oppure non possono che essere
estremisti, non solo e non tanto nel senso di essere costretti a compiere i gesti estremi
di cui sopra, purtroppo disperati e, alla fine, solitari e circoscritti; invece nel senso
politico più ampio del termine, di una politica che sa di dover raggiungere il bene per
il Paese che governa, per le persone che lo compongono, per il lavoro che lo arricchisce
e lo rende migliore, e che decide di non arretrare da questi obiettivi. Ma una politica
di questo genere non nasce per partenogenesi, non la si crea senza di un movimento
di protesta e di lotta, che spinga e costruisca uomini e condizioni.
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(red.) / Lavorare è un po’ morire
Per stare, parafrasandolo, con l’esergo sopra proposto: se l’Italia non governerà
se stessa, ma continuerà ad essere eterodiretta da interessi sempre più particolari; se gli
spiriti di protesta che sorgono rimarranno isolati (vedi l’esempio della Fiom, sempre
più messa all’angolo anche dalla propria Confederazione), allora questo Paese, già
demoralizzato in tutto, non avrà più nessuna speranza.
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Nei nostri giorni*
Roberto Roversi
Il mondo attuale è sotto uno stravolgimento epocale, ce ne accorgiamo tutti, con
spavento e sorpresa (talvolta con rare meraviglie), quasi ogni giorno; e intanto poi
ci aspettiamo giorni migliori. Ma perché siano migliori, poco poco almeno, occorre
che ogni persona si adatti con convinzione ad esercitare qualche utile impegno, a
sostenere qualche utile fatica, ad adattarsi a qualche utile rinuncia. Cose dette e
ridette da più parti, in ogni occasione.
Tale il mondo tale l’Italia, con il sovrappeso di essere semi immersa in un
turbinante guazzabuglio, tanto da rendere anche i minuti particolari un rebus spesse volte indecifrabile. E in mezzo a tale confusione l’opposizione parlamentare che
fa? (La domanda mima, per simpatia, una analoga nell’opera di Giordano “Andrea
Chenier” – non ricordo sul momento scena e atto). Fa nulla, proprio nulla di buono,
mi sento di rispondere prontamente.
Per esempio, raccolgo alcuni dati, alcuni riferimenti molto molto semplici ma
a mio parere significativi, molto significativi.
A Bologna. È il primo maggio e non si sente un suono per strada. La strada
è centralissima, di ampia viabilità, e fino a pochi anni fa a quest’ora accoglieva e
disponeva cortei gridanti e vocianti e cantanti con bandiere e bandiere, provenienti
dalla vicina Camera del lavoro. Cortei che davano una scossa, suscitavano un’emozione, suggerivano una aspettazione o un sentimento giusto e forte di lotta sindaca* Questo scritto Roversi lo diede per il n. 3 di Fischia il vento, uno dei vari “fogli” che asssieme abbiamo
curato; era il maggio 2003, ma le cose sembrano dette per l’oggi. Constatare che nulla della situazione
politica appare cambiato, se non in peggio, è una desolazione in parte moderata dalle sue parole, come
fossero arrivate oggi o ieri, per fax o di sua mano, dopo una lunga telefonata serale o una più lunga, ma
pomeridiana, chiacchierata a casa sua.
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Nei nostri giorni
le.Oggi è il primo maggio e per questa strada/stradone non si sente un suono. Poi
vai in piazza (Piazza Maggiore) e il non numeroso popolo di chi ascolta è seduto
sulle sedie allineate, mentre i sindacalisti che parlano o devono parlare (funzionari
di non grande nome) stanno quasi rincantucciati dietro un tavolo (o tavolone) con
i piedi appoggiati a terra.
Invece a Roma, in piazza San Giovanni, hai di fronte agli occhi lo spettacolo
enorme di sette volte centomila giovani, ammassati ma liberi e festanti e quieti, che
resteranno ad ascoltare fino alla sera inoltrata artisti rock e gruppi musicali noti o
esordienti. Questo, a stabilire senza dubbio che per le nuove generazioni i messaggi,
non solo d’amore ma politici e di moralità esistenziale e partecipativa, vanno piuttosto cantati, e cantati bene e in forma nuova – dato che il politichese che scende
sulla pelle degli anziani seduti in piazza come vibrazioni di un calabrone sperduto
e inquieto, in realtà non ha più nemmeno il collante per essere attaccato contro un
muro. Neanche per fare da effimero manifesto ripetitivo e sbadato. Bella ciao, cantata dalla Marini nell’occasione di Roma e ascoltata in grande silenzio, ha contato più
dei vari comizi, a mio parere, tenuti nel corso della giornata in varie città italiane da
impacciati oratori ufficiali. (Tanto che, e gli dei non vogliano, la mia grande aspettativa per Epifani, dopo il regno di Cofferati Primo, è all’inizio, proprio all’inizio di
una delusione).
Seguitando per questa via, e tanto per esemplificare con qualche concretezza, vorrei riferirmi al fascicolo della rivista Aprile dei DS, allegato recentemente
a l’Unità; fascicolo in verità di densa ma noiosissima lettura, che consentiva però
una buona valutazione in merito alle cose scritte e a come sono scritte (e come per
essere realisticamente efficaci dovrebbero essere scritte) dalla parte politica che si
intende e si dovrebbe intendere oppositiva alla mediocre e incattivita maggioranza
di governo. Sulla prima pagina un intervento di Aldo Garzia “Il carro del vincitore”,
ottimo come sostanza e chiaro e preciso nei termini. Precisione nelle indicazioni fitte e necessarie, chiarezza nella dizione e nessuna saccenteria espositiva. Nell’ultima
pagina, la risposta di un leader quasi carismatico come Cofferati alla lettera di un
lettore: acqua fresca, genericità ridondante senza mordente, lettura persa. Leggi e
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Nei nostri giorni
non ricavi nulla. Quale risultato si vuole ottenere con questa scrittura?
Allora; che cosa si dovrebbe fare bene e in fretta, in questo momento, nell’inquieto e parecchio disastrato Paese italiano? E soprattutto per il disastrato popolo
fino a ieri denominato e denominatosi di sinistra? Intanto per Bologna ma poi senza
arroganza ma per convinta partecipazione di uno con tutto, per l’Italia intera; per
questo dolente Paese che ha una pelle di perla ma una veste tutta strascicata, sdrucita, impolverata?
Per Bologna, fuori da ogni magagna verbale, occorrerebbe già adesso avere il
riferimento preciso, e convinto, di un personaggio per cui impegnarsi nel voto. Che
sia subito, fin da adesso, riconoscibile e ascoltabile. Che parlasse subito con noi e per
noi. Ma questo personaggio non si vede, non si sente, forse non c’è; e se c’è non viene
alla ribalta. Lo cercano con la lanterna, ne rimandano di continuo l’identificazione;
mentre sul palcoscenico cittadino resta solitario il personaggio contro cui dovremmo scontrarci. Resta solitario e indenne; e l’unico scorno che gli viene fatto è quello
di contargli i caffè sorbiti al bar della piazza Maggiore nel corso di una mattinata
(vedi “Zero in condotta” del 2 maggio). A questo punto si capisce bene come le armi
oppositive siano davvero spuntate. Sarebbe dunque indispensabile un personaggio, uno solo, con nome e cognome, che meritasse subito stima e rispetto e che potesse e sapesse subito proporre
poche cose essenziali, per rispetto ai cittadini, in merito cioè a casa, sanità, assistenza
agli anziani, lavoro; si intende, ai cittadini residenti di ogni colore. Avendo immediatamente un tale supporto rassicurante, lo sparso e generoso popolo di sinistra
sarebbe anche utilmente sottratto ai cavilli rumorosi e quasi sempre inconcludenti
delle varie consorterie politiche fra cui adesso è dirottato, come una barca senza
timone, seminudo e scompaginato.
Invece, in questa situazione d’emergenza, non a rassicurare almeno, ma ad
appesantire e frastornare, sono in moto sempre le stesse persone, ormai stanche e
deprimenti, con le stesse parole di sempre, con le stesse insinuanti ipocrisie e, in
tante occasioni, con gli stessi baci di Giuda.
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Nei nostri giorni
È anche vero che non c’è mai stato un regno di Saturno su questa terra e dunque
non è poi tanto giusto lacrimare sul presente, dato che il passato non è mai stato un gioiello di giardino. Chi non è più giovane potrebbe raccontarne o ricordarne delle belle, per
mortificarsi ancora. Ma tanti politici allora, anche se figli di buona donna, portavano sulle
spalle il peso di un passato che dava a loro uno spessore emozionante.
Tale generazione è quasi del tutto scomparsa, travolta dal tempo. Adesso, non
avendo più piloti di formula 1 nei box della politica, dobbiamo accontentarci nel migliore
dei casi di meccanici delle gomme. Ma almeno li si vorrebbe specializzati e attenti, professionalmente rassicuranti. Ripeto, troppo spesso non è così. Per un riscontro, leggere
l’Unità. Come si propone adesso. Uno scatenato bisonte, che sopra gli zoccoli ha calzato
scarpette da ballo, ma che non si stanca, senza tirare mai il fiato, di azzannare rivolto verso una porta, mentre nella stanza della politica sfascia le sedie, infrange specchi e vetri e
bicchieri, senza indicare al lettore una controproposta effettiva, senza mai consolarlo con
l’offerta attesa di fili riflessivi ai quali concretamente afferrarsi, che non siano le sponsorizzazioni dei balletti anti–war, le cui effettive conclusioni le abbiamo tutti sotto gli occhi.
Questo per ricordarci che oltre alla mancanza di buoni e nuovi personaggi che
possano correrci in aiuto, ci manca anche un giornale. Ci manca il giornale.
È per questi vuoti reali, vere carenze di sangue, che nel gran lago della sinistra nuotano tanti pesci in forma diversa, dalla carpa paziente e familiare al pescegatto sospettoso
e veloce, ai piccoli pesci destinati a soddisfare la fame di altri pesci, fino ai piraña pronti
ad azzannarti un dito se ti azzardi ad allungarlo nell’acqua. Perché gli dei dell’Olimpo (o
più verosimilmente i nostri errori, verrebbe da chiederci) ci hanno ridotto a questo punto?
Verso giorni che non promettono bene, dato che non sappiamo promettere bene a noi
stessi? Molti problemi (non tutti) volendolo davvero tutti insieme come popolo volenteroso, si potrebbero affrontare e risolverli. Speriamo...
P.S.
Qua in calce, se lo spazio lo può consentire, vorrei aggiungere ancora una
considerazione.
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Nei nostri giorni
Nel grande lago verbale o visivo della televisione, ormai troppo spesso inguardabile o inascoltabile, affiorano talvolta come lampi non aspettati, programmi di
immediata utilità. Uno di questi programmi ha proposto nei giorni scorsi, alla nostra rinnovata attenzione, la drammatica vicenda dell’assassinio di Giacomo Matteotti, nel 1924, compiuto nella pratica da cinque sicari fascisti. Drammatica vicenda,
collegata a tempi violenti e spietati, conosciuta con sgomento sempre rinnovato da
molti ma non da tutti. Era giusto ricordarla ancora. Sono i giorni in cui il fascismo,
che ha trionfato alle elezioni, si trova tuttavia in gravi difficoltà per confermare il
potere appena raggiunto, per collegarsi alle parti sociali economiche, finanziaria, religiose ecc., in quanto al suo interno, come nel ventre di una balena infuriano scontri
feroci, operazioni equivoche, avidità e violenze incontrollabili.
In questo contesto, il solo avversario a viso aperto è Giacomo Matteotti, deputato socialista. In quei giorni il suo primo intervento in Parlamento è di una franchezza spietata, brutale, implacabile; frusta le coscienze e getta sul tappeto dati e
fatti concreti. Il regime che si sta consolidando e Mussolini in cima sono inveleniti,
furibondi, avidi di rivalsa. Ma Matteotti, con il coraggio di chi sa e vuole giocare la
vita dentro la verità, dentro la realtà senza fronzoli e senza inganni, promette che
alla prossima seduta parlamentare porterà prove decisive a conferma di quanto già
affermato e che ha lacerato a fondo come una ferita il corpo del fascismo emerso
come uno squalo nel centro del potere.
Il giorno viene, Matteotti esce di casa e s’avvia a piedi, non nel centro di Roma
ma in una zona verso il lungotevere, ed è solo. Non c’è nessuno, del suo partito, che
lo accompagna; non un altro deputato, non un militante; non ha scorta alcuna in
un momento di pericolo estremo. Va verso la morte, con la sua borsa piena di carte
avvampanti e nessuno lo affianca. Da altri uomini di vertice, che dissentivano dalla
sua intransigenza, è lasciato andare verso una morte certa.
Oggi non c’è un Matteotti a scuotere sul serio le coscienze, ma sono a decine gli uomini di vertice nel campo dell’opposizione, che taroccano come galli da
mattina a sera, indifferenti della torva realtà e solo disposti a sedere sulle scranne
televisive, lacerandosi fra loro, mentre le grandi idee sacrosante sono condannate a
morte. Sole. Dimenticate.
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Anche io sono un outlet
Andrea Paolella
Possono fare dei vestiti che durano in eterno. Ma
preferiscono fare roba scadente così tutti sono
obbligati a lavorare e timbrare il cartellino e a organizzarsi in tristi sindacati e ad agitarsi mentre la
grande rapina continua a Washington e a Mosca.
On the road – J. Kerouac
Tra Genova e Milano dopo la raffineria di Busalla che fa l’aria dolce dolce in quella
valle stretta che è lo Scrivia c’è Serravalle con il suo outlet. All’uscita dell’autostrada
si prende una strada veloce con il guard rail da ogni parte e poi si arriva in un grande
parcheggio senza alberi. All’ingresso si presenta una struttura in acciaio e vetro che
conserva due Ferrari da Formula 1 e una piccola macchina rossa che tutti i bambini
vogliono. Subito aggirato l’angolo si para davanti una torre di mattoni rossi e poco
sotto un baretto e tavolini e una donna grassa di sessanta anni che beve un tè dando
un occhio alle buste e a parte lei e il caldo non c’è nessuno. Sembra un paese ma è di
cartapesta: tante case su due piani. Tanti negozi ma non ci sono porte per salire al
primo piano che è finto. Le finestre sono tutte nere e uguali, senza tende, senza un
mutanda appesa, senza un vaso di fiori che si affaccia di sotto. Sembra un paese ma
non lo è. Hanno disegnato uno stemma bianco con una diagonale azzurra ma non
ha storia quello stemma né rappresenta nessuno: è solo una bizzarria di un designer. Come la finta meridiana, come la fontana falsamente antica di secoli. Sembra il
centro di un paese del mantovano o del ferrarese o del veneziano. Ma non ci sono
chiese e non ci sono funerali né matrimoni. Qui non ci sono i nomi alle vie. Non
c’è un ufficio postale o la targa di un notaio o di un medico o di un avvocato. C’è un
grande corso principale e poi sulla strada ogni tanto un ponticello tra due case che
cosa colleghi non si sa. C’è una bellissima piazza porticata che richiama Piazza dei
Martiri a Bologna. Ma in quello che sembra un paese di meno di cinquemila anime ci sono tutte le grandi marche dell’abbigliamento. Gli sconti richiamano tanta
gente. Chi dalla Riviera Ligure torna verso Milano o il Ticino si ferma qui per fare
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Anche io sono un outlet
acquisti. Rispetto ad una vera città qui tutti si fermano in tutti i negozi: qui non
esiste la passeggiata di piacere perché tutti visitano tutto e vedono e provano tutto
senza dimenticare un negozio. L’outlet non è che la città sublimata dall’ingombro
delle zingare che chine chiedono l’elemosina, dei tossici, dei senzatetto che in un
sacchetto ci tengono la casa. Per tutti loro è troppo difficile arrivare fin qui. Per
estrapolazione se l’outlet diventasse il vero luogo deputato al mercato la città non
sarebbe che un dormitorio, qualcosa di accessorio. Come a Serravalle di outlet se
ne trovano diversi sparsi per l’Italia: Fidenza, Mantova, Bologna, Palmanova, Molfetta... tante finte città tutte uguali funzionali al solo consumo. Mai si erano viste
in Italia città uguali da nord a sud. In questo si realizza l’omologazione pasoliniana:
si confondono le culture nell’unica cultura della merce. L’outlet poi è falsamente
democratico: è un miraggio per tutti ma nei fatti una realtà per pochi: 120 euro per
un vestitino da neonato. Vedendo l’outlet mi prende uno smarrimento, un senso di
miseria e odio (si dico proprio odio) per me stesso mai provati prima. Faccio parti di
questi tempi e questi tempi sono anche io. Mi odio perchè non so quale alternativa
si possa opporre a questi luoghi creduti così dionisiaci. Anche io sono quel finto
tempio romano del Fidenza Village che vende l’intimo per uomo–donna–bambino. Anche io sono un outlet. Sento che quella miseria è la mia. Credo che per una volta
sia giusto generalizzare, sia giusto parlare finalmente di generazione perdutissima. Non esistono salvati ma soltanto sommersi: sommersi da kg di merce, loro stessi
merce infamati dal loro contratto, senza poter contribuire ad una società che non sia
solo merce, prestando la loro giovinezza e la loro intelligenza a muovere merce meglio e più velocemente e con più profitto. L’alternativa non esiste. Quei gruppi che
lanciano sassi o bombe molotov per impedire i lavori di una galleria ferroviaria o
incappucciati liberano beegles dagli esperimenti o mangiano e vestono eco–solidale
a differenza dei cafoni di Silone questi “anti” non sono repressi con il sangue. Ognuno di quei ragazzi nonostante creda di essere diverso non sa di essere preventivato
nel proprio “isolatamente anti”. Perché le singole resistenze sono isolate. Rispetto
alle belle stagioni dei movimenti (sono nato 10 anni dopo e me ne sono perso il
fallimento) oggi si può essere solo “isolatamente anti”. Ma in questo modo anche
questo “isolatamente anti” è colpevole. Ma la cosa strana e perversa è che qualsiasi
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Anche io sono un outlet
ricerca di complici è vana. Anche la politica si è fatta anti: principalmente è invidia
del privilegio più che reale sete di giustizia. Tutti invocano la forca: ma non è repulsione per lo stile di vita ma solo per quella classe dirigente che mette in discussione
il loro essere consumatori, perché è l’essere consumatore che da l’identità. Se prima
era il lavoro che dava l’identità ora è il consumo che la fa da padrone. Questa classe
dirigente è considerata incapace perché minaccia di cambiare le cose per la sua inadeguatezza. Per le strade c’è ricca miseria. Non si muore di fame ma di sogni. Resistono piccole lotte, piccole battaglie vinte davanti a un giudice di pace ma nulla più. Ho letto in alcune interviste ai tarantini in seguito alla vicenda dell’ILVA: «meglio
morire di tumore che di fame». Si deve morire consumatori perché si muore con
dignità solo con l’identità e in questo caso l’identità è solo nel consumo. La cosa
importante è restare merce che compra merce, senza rispetto per la vita. L’identità
di consumatore che difficilmente vacilla anche davanti ai malati in famiglia o tra
gli amici. Questa è la mia e la nostra miseria. Se non siamo consumatori non siamo
niente. Prima si era immersi nelle bellezze della vita: ora la vita non è che un carrello
della spesa da riempire sudando nei weekend.
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Referendum a Bologna: la parola ai cittadini
Katia Zanotti
Art. 33, comma 2:
La Repubblica istituisce scuole statali di
ogni ordine e grado.
Art. 33, comma 3:
Enti e privati hanno il diritto di istituire
scuole ed istituti di educazione, senza
oneri per lo Stato.
Art. 34, comma 1:
La scuola è aperta a tutti.
A Bologna è in corso dai primi giorni di settembre la raccolta di firme per indire il referendum comunale consultivo contro il finanziamento pubblico alle scuole
dell’infanzia private paritarie. Lo scopo dell´iniziativa è quello di chiamare i cittadini
a pronunciarsi direttamente così da orientare, con tutta l’autorevolezza e la forza che
scaturisce dall’esercizio di una pratica democratica e partecipativa, il governo della
città su un tema che è centrale per il futuro della scuola pubblica.
Finalmente la parola ai cittadini quindi su una grande questione, la difesa del
sistema scolastico pubblico, grande perché riguarda il diritto dei bambini all’educazione, e perché il diritto all’educazione coincide con il diritto al futuro per una intera
comunità nazionale; grande, perché in tempi come questi che viviamo nulla è più
sostenuto da una qualche garanzia sicché, di arretramento in arretramento, in questo Paese i diritti conquistati che subiscono un attacco sono numerosi mentre, nel
contempo, le forme della stessa democrazia rischiano lo svuotamento, quando non si
presentano già vuote.
Di questa battaglia a difesa del sistema scolastico pubblico si è fatta carico, a
Bologna, il “Nuovo Comitato Articolo 33” costituito da 400 cittadine e cittadini, non
soltanto genitori, ma anche docenti, precari, studenti, sindacati e Associazioni come
l’Assemblea Genitori e Insegnanti di Bologna, l’Associazione Nuovamente, l’Associazione Per la Sinistra Bologna, la Chiesa metodista Bologna, il Circolo UAAR
Bologna, i Cobas Scuola Bologna, il Comitato bolognese Scuola e Costituzione, il
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Referendum a Bologna
Comitato genitori nidi e materne, il Coordinamento precari scuola Bologna, il CUB
Bologna, la FLC-CGIL, la Fiom Bologna, la Rete Laica Bologna, la Scuola Infanzia
LiberA Tutti e, infine, l’USB Bologna.
In un suo documento della primavera scorsa, il “Nuovo Comitato Articolo 33”
ha chiamato a raccolta tutte le forze della società civile per un impegno comune a
sostegno della scuola pubblica: «Già la voce della Costituzione ribadisce che le scuole
private, salvaguardata la loro libertà, non devono però costituire onere per lo Stato.
In questa primavera 2012 in cui la lista di attesa per le scuole dell’infanzia a Bologna
raggiunge 465 bimbi che ne saranno esclusi , è necessario che quella voce dei padri
Costituenti si levi alta. Perché “la scuola è aperta a tutti”, recita l’articolo 34 della carta
costituzionale. Nessuno escluso.
Con la proposta di referendum, il comitato intende innanzitutto restituire la parola ai cittadini sull’utilizzo delle loro risorse collettive e sulle priorità politiche su cui
indirizzarle. Il primo passo è quindi quello del coinvolgimento e della partecipazione.
(...) Crediamo che le risorse attualmente indirizzate dagli enti pubblici alle scuole paritarie private vadano rivolte alla scuola pubblica comunale e statale. Chiediamo
anzitutto alla città e quindi al Comune di ristabilire nei fatti questa priorità. Nessuna
risorsa deve essere sottratta alla scuola pubblica per finanziare le scuole private».
Il lavorio continuo di smantellamento del sistema educativo e di protezione
sociale, per opera del governo del centro destra e proseguito dal Governo Monti,
destinato a peggiorare con la costituzionalizzazione del pareggio di Bilancio, non ha
trovato a Bologna altrettante continue forme di resistenza al prevedibile massacro
sociale, sia sul piano della iniziativa politica che delle scelte del governo locale, che
avessero l’obiettivo chiaro di garantire l’interesse della comunità e la difesa di beni
comuni irrinunciabili.
È come se ci fosse fra gli stessi amministratori della città l’introiezione più o
meno consapevole, ma pesantemente condizionante, che in fondo non c’era e non c’è
null’altro da fare che tagliare le spese.
A voler ben vedere però c’è ben altro di cui essere preoccupati e, per questo, da
contrastare con determinazione: dietro la affermazione che «non ci sono i soldi e bisogna far quadrare i conti» appare in controluce, ma chiarissima, una vera e propria vi18
Referendum a Bologna
sione strategica di questa Amministrazione, per la quale pubblico e privato appaiono
come identici, dotati di medesima natura e principi fondanti. Usando la pesantezza
della situazione economica, il Comune sta accelerando sulle scelte di privatizzazione
e quindi sulle prospettive che riguardano il futuro del sistema di welfare cittadino.
Basta leggere le dichiarazioni del Sindaco Merola e dell’Assessore alla scuola Pillati
per averne una consistente conferma.
Il fatto è che la scuola non è paragonabile ad altri servizi, e l’importante storia
dei servizi a Bologna, che sono diventati per questa città un dato identitario nel mondo, era lì a dimostrarlo; la colpevole carenza dell’Amministrazione comunale nella
programmazione del servizio sulla base delle previsioni di aumento delle richieste di
accesso alla scuola dell’infanzia, ha fatto sì che il Comune non sia poi riuscito a dare
una risposta positiva a tutte le richieste, una situazione che si sarebbe potuta evitare
se, appunto, ci si fosse adoperati per tempo nel mettere in atto tutte le iniziative necessarie ad ampliare il numero di posti.
Così facendo, si corre il rischio ormai più che concreto della dissipazione di un
grande patrimonio, non solo di qualità dei servizi, ma di quella cultura che si è prodotta e diffusa attorno ai servizi per l’infanzia. Non a caso la stragrande maggioranza
delle famiglie bolognesi chiede l’accesso al servizio pubblico.
Per molte di queste famiglie è di fatto negato, a oggi settembre 2012, il diritto
alla libera scelta, cioè di poter utilizzare il servizio pubblico.
Sono più di 400 i bambini (ma questa Amministrazione comunale non riesce a
fornire dati certi neppure in questo settembre, all’apertura delle scuole materne) che
saranno esclusi dalla scuola dell’infanzia comunale per mancanza di posti.
Così, se questa Amministrazione risponde dirottando le famiglie e i loro bambini verso le scuole private paritarie, tanti genitori sia per ragioni economiche che
culturali non intendono iscrivere i propri figli a queste scuole. Questi genitori , infatti,
chiedono legittimamente che sia rispettato il diritto ad accedere alla scuola dell’infanzia pubblica; chiedono, insieme a tanti altri, che le risorse pubbliche (più di 1 milione di euro, il finanziamento del Comune di Bologna alle scuole dell’infanzia private
paritarie) vengano investite nel sistema delle scuole pubbliche, in modo da garantire
nuovamente il diritto di accesso tutti i bambini: lo prevede la Costituzione, lo deve
19
Referendum a Bologna
garantire la scuola della Repubblica.
L’attuale Amministrazione finge di dimenticare che la scuola pubblica è altra
cosa da quella privata, perché se la prima ha l’obbligo costituzionale di essere pluralista, gratuita, laica, non è così tenuta ad essere la scuola privata, che a Bologna al 90%
è di natura religiosa. Ha assolutamente ragione Nadia Urbinati quando scrive che i
finanziamenti pubblici non rendono pubblica una scuola che privata è e tale rimane,
mentre invece contribuiscono a privatizzare il sistema educativo.
L’Amministrazione comunale dovrebbe poi spiegare ai cittadini perché non ha
rispettato la scadenza del 31 marzo scorso, per chiedere allo Stato ulteriori sezioni
rispetto a quelle già finanziate, presentando la domanda con un grave quanto colpevole ritardo, esattamente l’8 giugno. Successivamente, l’Assessore alla scuola Marilena
Pillati ha invitato nei mesi scorsi le scuole private a farsi carico dei bambini esclusi,
il ché contestualmente non potrà significare altro se non un aumento del costo delle
convenzioni e, quindi, un aumento delle risorse pubbliche alle scuole private paritarie.
Il regime di convenzioni con il Comune è stato più volte oggetto di attenzione
e più volte l’Amministrazione ha pensato di rivisitarlo; l’ultima idea, quella di istituire
un tavolo tecnico con tecnici del Comune e rappresentanti della FISM, l’Associazione delle scuole cattoliche, ha fatto sì che dal Consiglio comunale del giugno di
quest’anno uscisse una delibera che blinda la convenzione con le scuole private per 4
anni. È utile riprendere quanto Piero Calamandrei, con una preveggenza impressionante, diceva negli anni 50, elencando gli strumenti, la cassetta degli attrezzi necessari
a distruggere la scuola della Repubblica: «(1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che
vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la
sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare
che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che
gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico (...) Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione (...) Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni,
di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le
scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito».
20
Referendum a Bologna
Il referendum ha carattere consultivo, non è abrogativo né deliberativo, ma è
una grande occasione di mobilitazione su un tema, quello dell’educazione, che è uno
tra i valori fondativi di una comunità, sia cittadina che nazionale: laicità, convivenza,
pluralità, riconoscimento reciproco, diritti esigibili e irrinunciabili. Lo si vede dal numero di persone che hanno già firmato e che continuano a firmare ai banchetti organizzati in vari luoghi della città; queste persone sono la prova che i cittadini vogliono
ancora essere coinvolti, che credono ancora sia possibile dire e incidere nelle scelte
fondamentali per la città. I poteri più o meno forti della città, al contrario, quelli più
o meno visibili, quelli che amano decidere lontani dal fastidio della comunità di persone, tutti questi oggi sono contro la consultazione referendaria (ma non ci si poteva
aspettare nulla di diverso, ovviamente).
Il testo del quesito referendario:
Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle
bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private.
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Allo specchio della crisi
Pasquale Scarpitta
Ammettere che un ente privato, che società private, possano valutare la solvibilità
degli Stati, o l’affidabilità dei popoli, significa ammettere un ambito di sovranità
limitata degli Stati, intendo dire limitata non dalla Costituzione, ma limitata dal
mercato, definibile come il luogo dell’incontro della domanda e dell’offerta di tutti
beni scambiabili secondo norme giuridiche che regolano le figure contrattuali utilizzate o che vanno successivamente a regolare figure contrattuali nuove introdotte
dall’autonomia delle parti. Lo Stato può non riconoscere la valutazione dell’ente;
la riconosce in quanto accetta le regole del contesto, vale a dire del dato sistema
di mondo di cui vuole essere parte. Ciò posto, e dunque posto che potremmo dire
che nel tempo in cui viviamo, il mercato, come realtà effettuale, pensiero filosofico,
causa determinante delle condizioni materiali del nostro vivere – ciascuno scelga la
definizione che vuole – ha preso il posto che sino all’affermarsi dello Stato di diritto
era del sovrano assoluto, possiamo porci una domanda, ammettendo che le affermazioni che abbiamo appena fatto si intendano come accettate. Come può lo Stato, come possono gli Stati che ne hanno il problema, risolvere la propria crisi fiscale, vale a dire la condizione da cui tutto discende e per la
quale le spese di un Paese superano le sue entrate? Ora comunemente si dice che
se tutti pagassero le imposte dovute tutti pagherebbero meno e lo Stato non si troverebbe a dovere sopportare i brutti voti che gli vengono dati dai suddetti enti che
pongono in essere la valutazione. Se le cose stanno così o posto che stiano così che
cosa deve o può fare lo Stato? Non credo che la soluzione sia quella di attribuire al
comune cittadino quando qualcuno non gli rilascia lo scontrino o la fattura il dovere
di pretendere che l’uno o l’altra gli vengano rilasciati, perché le persone comuni che
non hanno chi fa gli acquisti per loro non possono la sera o il giorno o la mattina
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Allo specchio della crisi
dopo discutere con tutti coloro che non rilasciano scontrini o fatture, molti dei quali
fanno così perché sanno che nulla loro accadrà e che perciò per questo possono essere anche maleducati, perché non è compito dei cittadini fare sì che la legge venga
applicata da parte di chi se ne infischia potendosene infischiare. Perché se ne può
infischiare? La soluzione pure si dice è nel senso civico che occorre avere e praticare. Sì, è vero, ma penso che il senso civico alcuni ce l’hanno, e sono per fortuna credo la
maggior parte, poiché è stato loro inculcato dalla famiglia, da maestri e professori,
e ritengono che rispettare la legge sia un dovere dal quale non è bene discostarsi e
dal quale raramente si discostano; ma penso anche che il senso civico va costruito
in quella forse minore parte di persone che ritengono che sia più utile per loro non
fare lo scontrino o non dichiarare quanto guadagnano, e dunque tengono il relativo
comportamento. Vogliamo allora dare a tutte le persone un interesse concreto, vale
a dire economico, per pretendere un comportamento fiscalmente corretto da chi
ritiene per lui più utile cercare di non pagare le imposte? Si afferma che la soluzione
della crisi che investe alcuni Paesi europei, poiché essa non investe per esempio la
Germania, sia quella di pensare di costruire l’unità politica dell’Europa. Sono d’accordo io che di Europa unita sentivo parlare quando ero bambino da mio padre,
e vedevo mio padre ufficiale postale che, insieme al francobollo sulle buste delle
lettere che si portavano alla posta per essere spedite, applicava una marca simbolica
in distribuzione agli uffici all’epoca con su scritto “Europa unita”. Mi piacerebbe ritrovarla qualcuna di quelle marche! Mi pare sia stato detto che fare l’unione politica
dell’Europa è una fatica di Ercole. Già perché immagino che l’unione politica si costruisce intorno ad una Costituzione comune, e poi se più Paesi vogliono unirsi devono pensare di rendere uguali i propri comportamenti sociali, essi devono scegliere
e credere in un medesimo senso civico e praticarlo. Devo avere letto in una pagina
di approfondimento in un manuale di scienza delle finanze, adottato nei primi anni
del mio insegnamento di discipline giuridiche ed economiche alle scuole superiori,
che negli Stati Uniti il pagamento delle imposte è sentito come contropartita della
tutela della propria vita e dei propri beni che, per esempio ai tempi della frontiera,
spettava allo sceriffo della città e che gli abitanti pagavano per questo; mentre nel
nostro Paese l’imposta è invece sentita come gabella, vale a dire un tributo troppo
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Allo specchio della crisi
oneroso e perciò ingiusto, e per tale ragione il cercare di evitarne il pagamento non
è considerato innanzi tutto come moralmente riprovevole. Comportamenti diversi
perché sostenuti da un differente comune sentire. Allo stesso modo di come l’unità
di un Paese si fa alla condizione che quasi tutti i suoi cittadini pratichino i medesimi
comportamenti sociali. Così l’Italia è divisa perché è attraversata da comportamenti
sociali profondamente differenti. L’Europa com’è potremmo dire che riproduce quel
che succede in Italia. La Germania ha l’euro come l’Italia. I titoli pubblici tedeschi
sono in euro come quelli italiani, però per i nostri titoli i creditori chiedono un interesse più alto di quanto gli stessi creditori chiedono per i titoli tedeschi. Forse è
perché se va tutto a carte quarantotto i creditori dei titoli tedeschi si fidano dell’economia tedesca, forse non altrettanto si fidano di noi. Ma è proprio così?
Oppure la soluzione potrebbe essere chiudere le Agenzie di rating e chiudere
le Borse. Il mondo ne ha fatto a meno per tanto tempo.
Oppure un’altra soluzione – posto che la tredicesima fatica di Ercole, vale a
dire l’unità politica d’Europa, richiederebbe la presenza sulla scena di padri fondatori di tale unità – è forse questa: se non può essere unito ciò che non può stare
insieme, allora ciascun Paese deve seguire la propria via.
Oppure può essere che l’unità dell’Europa non la si vuole.
Voglio riflettere, interrogarmi, pensando ai sacrifici di chi mi ha preceduto,
alla loro ammirevole vita. Quando lo Stato non è in grado di garantire la sicurezza delle persone e l’integrità dei loro beni lo Stato, è ancora sovrano? Qualunque forma di investimento
si consente di fare con il denaro dei cittadini non dovrebbe essere salvaguardata l’intangibilità del capitale? Il banchiere cui affidiamo il nostro risparmio non dovrebbe
essere responsabile dell’uso che ne fa come è razionale che sia?
Chi è in affitto ed ha una casetta che potrebbe sistemare lavorandovi nel tempo libero, farebbe bene a sistemarla per abitarvi e non pagare più l’affitto? Chi ha un
pezzetto di terra che potrebbe coltivare nel tempo che trascorre dinanzi alla televisione o al bar, farebbe bene a coltivarla per ricavarne qualche frutto che altrimenti
deve comprare? Qualcuno deve avermi detto che si ricordava quando a casa sua si
comperava solo il sale. Invece di comperare ai figli tante cose inutili sarebbe bene
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Allo specchio della crisi
mettere da parte, almeno una volta sì ed una volta no, ogni singolo euro che si spende per inutili acquisti? Una montagna è fatta, a ben vedere, di tanti sassolini. Invece
di fare spendere ai figli tutti i soldi che ricevono nelle varie occasioni dai parenti
sarebbe forse meglio condurre i figli ad aprire un libretto di risparmio, inculcando in
loro l’importanza del risparmio? Sarebbe forse una cosa buona incominciare a chiudere la televisione, i telefonini, il computer? Non ho detto gettarli, ma utilizzarli per
ciò che dovrebbero essere considerati: un apparecchio dinanzi al quale trascorrere
qualche ora alla settimana per un momento di relax o di approfondimento, un telefono portatile, uno straordinario strumento di lavoro. Chi non vuole studiare non è
meglio se diventa falegname, fabbro, sarto, calzolaio, impara a pulire macchine per
scrivere, a rimettere in funzione vecchie macchine per cucire? impara a ricamare, a
cucire, a cucinare?
Chi non riesce a fare il lavoro che desidera fare, non è bene che si metta a fare
il primo lavoro che trova? Sì, se si ritiene che qualsiasi lavoro si faccia è un servire
o dovrebbe essere un servire. Alcuni lavori meritano di essere remunerati meglio di
altri che sono o sono ritenuti più facili? Ma questo di più di alcune remunerazioni
rispetto ad altre dovrà avere dei limiti? Io penso di sì, poiché la ricchezza con la
quale si pagano tali remunerazioni è il risultato del lavoro e dei consumi di tutti. E
riconoscendosi che alcuni lavori vengano retribuiti meglio di altri, quando chi li ha
svolti va in pensione, e non svolge più il lavoro che giustificava la sua più alta remunerazione, non dovrebbe avere una pensione uguale a quella di ogni altro lavoratore?
Se la remunerazione di quei lavori altamente remunerati fosse ragionevolmente più
bassa, se per la pensione di chi ha svolto tali lavori si tenesse conto che essi non svolgono più il lavoro che forse giustificava la loro alta remunerazione forse le pensioni
di tutti non potrebbero essere più adeguate? Oppure si crede che la disuguaglianza
nella distribuzione della ricchezza sia un dato non trattabile.
In molte case ci sono due televisori, tre-quattro telefonini, un computer, scatoloni di giocattoli; molte famiglie hanno due automobili, più abbigliamento di
quello forse indispensabile; in quante famiglie si spendono tre quattrocento euro
all’anno per vedere la televisione! Quanto risparmio dalla primavera del Duemila in
poi è finito nelle tasche vai a capire di chi, perché invece di essere portato alla posta
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Allo specchio della crisi
è stato affidato, senza forse la dovuta consapevolezza, a chi ne ha fatto quello che ha
voluto perché tanto non era suo? In quanti in questi ultimi decenni abbiamo vissuto
ed oggi vorremmo continuare a vivere in modo non proporzionato alle nostre reali
possibilità? Oppure si crede che il consumare sia il senso del nostro esistere.
La sera del 2 agosto scorso all’annuncio del Governatore della Banca centrale
europea di potere fare ricorso, se non ho capito male, a misure anche non convenzionali per sostenere l’euro è seguita una reazione direi scomposta dei mercati. Ma
i mercati chi sono?
Invece di tornare all’economia reale la finanza non si tocca.
I ricchi hanno già quasi tutto. Il ceto medio impoverito fa bene a conservare i
pochi risparmi che gli sono rimasti. Non parliamo dei poveri. Si vuole fare ripartire
l’economia per esempio vendendo quello che lo Stato ha, vale a dire i beni che sono
di tutti; ho capito bene! È come dire che una famiglia, per ripianare i debiti dovuti
al suo sistema di vita, invece di cambiare il proprio modo di vivere vende quello che
gli è stato lasciato! Dopo che cosa farà?
La Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti oggi sono al sicuro? Ma lo sono
sino a quando?
Io spero che un giorno «comanderanno quelli che sono veramente ricchi, non
di oro ma di ciò che è necessario per essere felici: una vita buona e saggia (…)»1.
1. Platone, Repubblica, VII, 521, Milano, Mursia, 1990, pag. 230.
27
Chi siamo?
Alfredo T. Antonaros
La festa di fine agosto 2012 del Pd di Bologna. I leader hanno scelto come slogan
Siamo quello che facciamo, copiando quello che il capo della Fiat ha fatto scrivere sulle
porte di Pomigliano. Se parlavano di se stessi (questi leader inossidabili, sempre a
galla, sempre pettinati comunque tiri il vento e ringhi la tempesta) avrebbero dovuto scrivere Facciamo di tutto per continuare ad esserci oppure Noi, tutti insieme, siamo
un mosaico di elementi banali, ma facciamo il possibile perché nessuno se ne accorga. O
sarebbero stati provocanti e sinceri (la forza rivoluzionaria della verità) se avessero
scritto Noi siamo soltanto degli epigoni: la massima energia è dietro di noi, e il minimo
di passione dentro e davanti a noi.
Invece hanno voluto uno slogan che parlasse di noi e, come fanno sempre,
loro sono stati costretti a scegliere una bugia. Loro sanno bene che a tanti di noi è
impedito di fare, e che altri non possono fare ciò che vorrebbero, e che molti sono
costretti a fare lavori duri e sgradevoli e che, in tanti, vorrebbero fare altro, o farlo
meglio o diversamente. E sanno anche che a tanti non è permesso di fare, di lavorare, di muoversi liberamente come vorrebbero, e di avere un posto su un autobus
che vada da qualche parte piacevole, e di fare qualcosa di più e di meglio per i propri
figli. Eppure, ugualmente, gran parte di noi fanno il possibile per essere lo stesso
delle persone dignitose. Anche se, per ora, non fanno, o fanno molto poco, o fanno
cose che non amano, e passano ore dure che la sera pesano. Perché nessuno di noi
è mai solo quello che fa, ma anche quello che, se fosse possibile, vorrebbe fare, e
che sogna di poter fare, e che progetta, appena possibile, di poter costruire, anche
se spesso sono solo giochi con la sabbia. Una volta la sinistra era innamorata di
Spartaco. Spartaco – ce lo raccontavano alle elementari – era lo schiavo, ma non era
mai quello che faceva. Lui, nel profondo del cuore, nella testa, era un uomo libero:
29
Chi siamo?
Spartaco era schiavo ma era anche un ribelle. E quando ha afferrato la spada e ha
rotto le catene era tante cose insieme: uno schiavo, un sovvertitore, un ribelle, la
dimostrazione che cambiare è possibile, l’esempio che si può lottare, perdere ma
che anche questo serve per imparare a combattere. A volte noi siamo anche quello
che avremmo fatto meglio a non fare. Ci sono momenti che restiamo con la testa
bassa, immobili, con le mani in mano, e siamo solo i nostri pensieri, e il rammarico
per come sono andate le cose. O siamo, in certi momenti, solo l’aria che entra ed
esce dai polmoni, sotto la camicia, ma, ugualmente, anche così, siamo vivi. E siamo
parte di un mondo che palpita perchè, anche se non facciamo nulla di particolare,
siamo comunque, sempre, la nostra storia. Ciascuno di noi è anche un mare di ricordi. Anche quando non facciamo proprio un tubo di niente siamo comunque la
nostra memoria. E l’annodarsi uno sull’altro dei nostri errori, perché siamo le nostre
battaglie e le tante cose giuste che ci hanno insegnato le nostre molte sconfitte. E
siamo sempre, comunque, i nostri sogni, e la nostra voglia di volare leggeri, con le
braccia spalancate, tra le nuvole, e il desiderio qualcosa di diverso. Poi, insieme alle
tante cazzate che abbiamo fatto, siamo anche quello che vediamo, se chiudiamo gli
occhi, e pensiamo a una cosa bella. Anche se stiamo lì fermi a non fare nulla, siamo
il desiderio che non ci siano più stronzi in giro che ti dicono cosa fare, e arroganze,
e che tutti imparino a rispettare la dignità che è in ogni persona, ma anche nell’aria,
nella terra, nell’acqua, nelle idee degli altri. E se un giorno l’età e la salute ci impediranno di fare, di andare in bagno con le nostre gambe, di tenere bene il cucchiaio in
mano, è lo stesso: anche allora è bene che i dirigenti impomatati del PD di Bologna
sappiano che noi conserveremo comunque l’orgoglio di sapere che noi siamo. Anche
se non facciamo. Noi siamo comunque. E noi ci sentiamo comunque ancora vivi,
perché sappiamo che noi saremo sempre le cose che amiamo.
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Dieci riflessioni: dal volantino a qr-code
Maurizio Maldini
I
“…Il momento era drammatico.
Poi all’improvviso ritornò la luce
e ritornò l’acqua e si poté fare il pane.
Scomparve la paura
e l’incubo della fame corse via.
Libera felice
Tornò a scalpitare la poesia”.
(Roberto Roversi, News, 1979)
II
Da più di quarant’anni provo a vivere e pensare «con parole di carta, il calamaio e l’inchiostro».
Cosa voglio ottenere? Me lo chiedono e, a volte, me lo chiedo.
Salvare qualche momento fragile di questo difficile navigare?
Usare parole contro? Contro misfatti e collusioni di questa società-catrame. Si, vorrei usare parole col sasso in bocca. Come ha scritto Roberto Roversi;
così bene che non è il caso di dirlo in altro modo.
Quando vedi che si suda sangue sulla terra o senti l’ansia nel cuore di un bambino, non puoi tacere. Almeno a te lo devi scrivere e dire. La poesia è questo dire, ed è terapeutica nel fermare il dolore che provoca
questa società che svuota l’uomo e l’amore.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
III
Però non mi sento un poeta. Quando scrivo non ho leggi, non ho una forma
esatta di scrittura, non ho metro e sintassi. Quando scrivo non ho un sistema di riferimento, non ho un registro poetico, non ho vincoli espressivi. Mi becco le rampogne di Mino Petazzini. Vorrei che la poesia mi permettesse di urlare più forte, senza
strillare ne alzare la voce, per non arrendermi alle forze di questa società sfinita e
sfinente, omologante ed omologata.
Sia in scrittura che in lettura non mi interessa tutta la poesia, ma una piccola
parte: quella che potrei definire della passione civile. Nomade e pagana. Nella poesia edita e pubblicata si trovano grandi lavori, ma complessivamente
prevalgono le ragioni del mercato e dell’industria culturale. Troppe ombre, poca
luce. Così il manoscritto rimane il mio principale luogo di condivisione e comunicazione medianica (pur senza preclusione verso ogni nuova opportunità della information age).
E nel manoscritto c’è sempre anche suono, rumore e colore. Per dare alla parola le sue ombre. Come lo strillo di un sax, spremuto in un
vocoder.
IV
Scrivo da vari anni prevalentemente in viaggio, e nei soggiorni in paesi extraoccidentali. Scrivo sulle tovagliette dell’osteria, come sulla carta intestata dell’albergo.
Ho viaggiato non per turismo, ma per lavoro, e questo ha favorito suggerimenti, pensieri, musiche, parole, perché nel viaggio del migrante aumentano i momenti solitari, ed anche perché ho costruito così il mio lavoro, cioè sapevo che fra
quella gente sarei restato a lungo e sarei tornato a scrivere.
Così è nel viaggio che si vedono le cose peggiori di questa società, quelle che
gridano vendetta.
Nella morte dell’uomo e dei diritti è la genesi delle parole. Da li viene, per
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Dieci riflessioni: dal volantino...
me, la poesia. Da li viene il ritmo, il suono, il rumore, il grido. La disperazione che
impone di dire.
Cerco di fare si che la lingua sia dominata da quelle fratture, da questo presente tragico ed assoluto dal quale l’atto poetico non ha, ne può avere, alcuna autonomia.
Questo muovermi mi ha anche permesso di vivere e scrivere per lungo tempo
in ambiente culturali “stranieri”, dentro un bricolage di significati e significanti, di
forze e rappresentazioni, dominanti e determinanti, nuove per il mio sentire.
V
Ho cominciato così a capire che la mia appartenenza, dal punto di vista cultuale, poteva non coincidere con la mia provenienza geografica, col mio legame con
l’Italia, col mio essere nato in via san petronio vecchio a bologna. Certo: gli antenati
pesano, ma su questo ho cominciato a lavorare.
Ed ho cominciato a pensare anche all’identità culturale di tante immigrazioni che incontravo quando ero qui in Italia. Allo sguardo delle poesie di quei migranti sulle mie poesie. A percepire il cambiamento come un’opportunità e l’identità
come una minaccia, lo spazio del conversare poetico come un luogo di cambiamento personale e sociale. La pratica della poesia come un momento di costruzione del
cambiamento. La poesia provocata da una news del giornale o per i diritti civili era
così un momento di quella lotta, di costruzione di senso per quell’obiettivo. Dava
un’anima in più a quel dispaccio, una consapevolezza che ci/mi collegava ai suoi
protagonisti. In questo contesto i reading degli anni 70, per me, erano e costruivano
anche un passaggio verso una società emergente dominata dalla informazione, dalla
comunicazione, dalla relazione.
VI
Negli anni ci sono state letture ed incontri che mi hanno aiutato a crescere, ad
espormi, ad uscire dal mio io: tante e tanto diverse fra di loro. Ignazio Butitta a Bagheria, che nelle piazze parlava delle cose semplici, ma con
la potenza e la forza morale della poesia; i volantini di Ferruccio Brugnaro a Marghera.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
il Pierrot Lunaire di Schonberg, che, da giovane, avrò ascoltato mille volte;
Cummings, Pessoa, Roberto Roversi. Poi: John Giorno, Laurie Anderson, William Burroughs.
Ed i lavori di alcuni grandi artisti che vivono in Africa, e che, in quarant’anni,
mi hanno fatto percepire la grande ricchezza e complessità di questo Continente.
Oggi è evidente a tutti come la letteratura contemporanea in Africa, e della
diaspora africana, è affollata da grandi talenti, molti di questi fortemente scomodi
per il loro impegno sociale e politico. Penso a Chinua Achebe come a Ken Saro-wiwa. a Dennis Brutus e a Okot
p’Bitek. Marie-Leontine Tsibinda, Virginio Lemos. Tanti artisti plastici contemporanei: da Malangatana, a Bertina Lopes, a Antonio Ole. O cantanti e musici:
Akedengue, Mbilia Bel, Franco, Masekela, Fela Kuti. E tanti li troverete nei miei testi, citati e copiati, come nella vita.
In quei mondi africani la poesia, che ha creato reti e forti legami, che ha
ricostruito processi sociali, rafforzato le comunità, la lealtà agli antenati, è passata
prima per la conquista della libertà e delle lotte di liberazione, poi per la ricostruzione dell’identità culturale di quelle popolazioni, che ora entrano, a pieno titolo,
nel globale e nel moderno.
Un percorso grande col quale mi sono confrontato nel corso degli anni, che mi ha
aiutato in una strada di crescita. Senza alcuna pretesa originalità e novità, ovviamente, con
tutto il trans-culturale che circola…, ed anche la coscienza del valore personalissimo di
questo percorso, davanti alle grandi differenze di culture, arti e persone in Africa.
Ma credo sia sufficiente vedere il percorso della cultura, dell’arte, della poesia in
Africa per capire quale potenziale può mettere sul piatto questo continente; per capire il
reale rapporto che in futuro si potrà sviluppare fra Africa e Progresso. Credo che attraverso questa forza della poesia/musica/arte l’Africa potrà ri-regolare i suoi rapporti con l’occidente, perché il progresso non è solo l’arte di organizzare e
produrre.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
VII
Anche il sociale, portatore di voglia di eguaglianza e solidarietà, che ha accompagnato l’evoluzione della nostra società, richiede una riflessione. Penso che
hanno pesato molto, nel mio modo di scrivere poesia, i luoghi che ho vissuto: quelli
della socialità e per la libertà, delle comunità del 68 e del 77, e dei vari “post”, le
esperienze di speranza nelle grandi crisi umanitarie africane, il buio e la solitudine
fra gli ultimi e gli esclusi, le lune e le luci dell’africa, dell’asia, del latinoamerica, i
movimenti migratori, la società multiculturale. I movimenti sociali hanno in se un forte potere profetico che segna l’anima
e le parole.
L’Africa soprattutto dicevo: umano vs divino, silenzio vs parola, i grandi artisti
fra i rottami e gli avanzi della terra. La tradizione, il moderno. Il mito, l’oralità, le
anime. Nel 1985 la prima biennale d’arte Bantù a Libreville mi ha dato più stimoli
che la lettura di tutti i libri che invadono le mie case: nel convivermi che la pratica della poesia può aiutare il tutto a non essere come prima, e fare si che si parli
dell’uomo, che la sera non passi come un giro in bicicletta.
VIII
Il ’77: anche senza bisogno di esaltarlo, è stato un terremoto destrutturate
che ha liberato l’immaginazione e la volontà di scrittura di tanti giovani. Il movimento ha liberato la parola e la lingua, portato a galla situazioni sociali significanti,
le grandi referenze e le soggettività sociali. La poesia che ha una raccomandazione
sociale, socioculturale, politica, è una poesia che moltiplica, non che conclude. Che
non si esaurisce in ricerche metrico-stilistiche (stilistico-metriche?), ma che esplora
le ragioni e le radici della nostra identità, che affronta le questioni che non smettono
di ripresentarsi.
È una poesia, eterogenea e disomogenea, che ricerca/ricrea il gruppo e la comunità.
Nascono riflessioni e nuove identità, perché i protagonisti già sono in scena;
percorsi inediti vengono a galla. 36
Dieci riflessioni: dal volantino...
IX
In oltre sessant’anni la mia vita è stata abbastanza ibrida, fumosa, meticcia,
stratificata, confusa, complessa, e la mia poesia non poteva essere diversamente. Ma
nell’epoca moderna questo essere ibridi non priva di identità, né esclude il primato di determinati valori; quali, ad esempio, l’essere solidale, l’incontro fra persone/
genti contro l’esclusione sociale; l’impegno a rafforzarsi e confrontarsi, l’impegno
al conversare, a vivere con altre identità culturali; la forza della parola è un grande
strumento di inclusione e costruzione sociale.
X
Dall’inizio degli anni ’70 tutti ci rompono sullo sviluppo della tecnologia
della comunicazione ed informazione; tecnologia che non influenza la società, ma
è la società.
Credo che, da questo punto di vista, la poesia sia un elemento resistente e
rivoluzionario al contempo; importante perché, come la storia di internet dimostra,
nella società di oggi gli utilizzatori sono poi i veri produttori di questa tecnologia, e
perché, alla base di tutto, rimangono la parola, la comunità, i networks. Con la loro
nuova autonomia e forza globale. Oggi in internet non contano più i siti, ma le community. Mi viene così da chiudere con Roversi/Sklovskij/Majakovskij: “Il socialismo
non c’è ancora, bisogna scrivere molto”… anche sfruttando tutte le opportunità della rivoluzione tecnologica in corso. La network society modificherà sempre più i
nostri codici di vita comunicativi, e rafforzerà il valore globale di segno e parola. Anche Majakovskij oggi avrebbe racchiuso una nuvola in un qr-code, dove starebbero almeno metà di queste mie riflessioni.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
Da Quaderni di Campagna 2
Imagens, memórias, terras, gentes e tudo o que pode conter um caderno de viagens.
Images, memories, places, people and every thing that a travel notebook can contain.
Madonna delle vittorie I
1976 – alle donne del nostro appennino
Né uomini santi, né tormento a venire,
ma notti serene, e fuochi.
Nella terra dei mestieri e del lavoro:
parla-mi e guarda-mi
una parola: nerapietra. ma vorrei scrivere: cuore. o graffio.
e dico: cuore al tramonto, cuore fra i pensieri dell’Abate di San Maurizio.
Parlami oppure guardami
prima di porre i vitigni a sovrastare la terra,
fra il prugno ed il cigliegio,
coi tutori di olmo e di moro-gelso, che bruceranno bene nel fuoco
gulavulva pulcino,
gulavulva piccolo pulcino; bella ciao;
è settembre, e l’acino continua ad ingrassare nel campo;
pieno di polvere, e di granuli, e dei sapori di cenereterra,
avanzo di torresotto pietre di maestro che ben descrive Luigi Fantini1
al diavolo, al tavolo: miazzoli, mazzoli-razzoli, rose
cipolla, e graffi di pecorino fritto,
con un rosso dei colli bolognesi, dal colore d’inchiostro,
:profumi di piccoli frutti – rossi, neri,
:sapore potente affinato nel legno.
1 L. Fantini, Antichi edifici della Montagna Bolognese, Vol. I, Bologna, Alfa, 1972, pp. 234-246.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
Mandorle e ciarle sotto il fumo, e il profumo del fico
dei buoni prodotti della nostra terra
terra di gente dura/energia (a suo agio) in vigna e in cantina
vini di legno evidente e di bosco fragrante
dal maturo e deciso merlot, all’antico brio del pignoletto, faccie di gente scolpite nel sasso contadino della fatica.
sensi silenzi
//chiara nel sudore una carezza come pietra penetra
un falco fuggitivo alto, un corvo demone che sogna,
e così che penso ai tuoi sorrisi
fra i tuoi occhi a mandorla
fra questi colli ribelli di solegrandebianco e libertà-muro&memoria
fra queste colline che muovono i miei sogni
(la verità arriva scalza, al collo la bandana rossa di Balella)
amalassunta, come cavallo alato, ci sorvola e piange
con le stelle si posa sulle nuvole e Va.
ma quale immaginazione? Quale lingua, immaginazione, lingua?
Vita: severità e destino, serenità. radici.
grazie. grazie amore mio, grazie della casa in rovina, grazie della pioggia, del vento e
del tempo – i tuoi si, i tuoi no. Schifano e il campo di grano, il pugno chiuso
afgano e africano, i tamburi di Masaniello, la lingua,, scioglie, rosse bandiere
fra gente che non abbandona l’eguaglianza un aquilotto arrampica il vento
e una nuova speranza
grazie della tristezza e di un libro, grazie del suono. del grido,
del tremore umido della tua pelle, grazie angelo dal pugno alzato
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Dieci riflessioni: dal volantino...
pinocchio con le mille pezze di mille colori
sotto la luna imprecisa, inciampo stanco su un fianco, il vino dei colli
trastullo indolente la tua umida luna, che torna e ritorna, d/entro
grazie delle fate e delle streghe, delle invenzioni felici della mia mente,
dei tuoi capelli – neri: parla-mi e guardami, e, senza tremare,
dimmi.
Si. Guarda-mi o parlami, e, con leggerezza e confusione, dimmi.
Sotto la luna bianca e leggera. dimmi.
Apriamo finestre, non ferite
Apriamo finestre, non ferite
Nella terra del dubbio, dell’incertezza,
dove è possibile non obbedire e non credere, ma fare, crescere e pensare.
Nella terra senza fini e senza fedi, dove una pietra vale quanto una pietra.
Nella terra del fare e del far fare, delle cose possibili, dell’eresia e del dubbio,
non della fede ma della libertà, degli abusi dei ricchi, delle lotte dei poveri,
delle cose che contano, delle donne che cantano, fra il caso ed il niente,
fra il niente ed il tuffo,
fino allo schiaffo freddo dell’acqua nel fiume,
per un nuovo tuffo. futuro e speranza.
terra di uomini liberi, di strade che non si può fare a meno di fare,
terra delle buone domande e delle difficili risposte. riflessioni errori delusioni, per fare i conti col mondo,
ribellarsi o rassegnarsi,
terra dove conoscere un sasso o una foglia è più forte del vento, più ricco del sale,
terra di maestri e di scolari che ri/apre finestre non ferite.
Ecco, Dentro questo respiro della vita dimmi.
Ridente in ciclo dimmi
Quando verrò fra le sirene sui poggi in collina
spero di trovare te ad aspettarmi.
Perché i gerani e la malva ci offrano ancora ogni giorno
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Dieci riflessioni: dal volantino...
un’altra vita e un altro sogno.
Dimmi piano, pianissimo, l’impercettibile parola
che si placa, che si svuota, in silenzio nel silenzio, come nella patetica, sino a spegnersi.
amore
Esattamente come scrivere cuore.
Si. Look at me, guarda-mi o parlami, e, con leggerezza e confusione, dimmi:
Vers l’Afrique heure
(Maurizio Maldini. Settembre 1976, all’Osteria del Zappolino2, detta anche cà dei frati,
sulla via longobarda, tappa di ristoro per viandanti e pellegrini,
fra le Ghiaje di Serravalle e le acque del Samoggia3,
fra Bologna la guelfa e Modena ghibellina;
uscendo da Saragozza si prese la porrettana
poi via per vignola e per monte san pietro,
finché non sfiancano le nostre colline e le prime case-torri,
e così che vorrei anche rammentarti la strada ‘che forse potremmo tornarci
dopo quasi diec’anni, forse)
Madonna delle vittorie II
Castenaso 1984 (circa)
A Mari, lei che ha ritrovato, dopo quasi trent’anni, queste parole in giardino,
Dove si parla dei pensieri intercorsi durante l’ascolto di alcune raccomandazioni,
sulla terra e sulle sue bizzarrie, di Delfino Insolera.
una strada dal grande
2 L. Bombici, L’Appennino bolognese, Bologna, CAI, 1881, p. 484.
3 Per nuovi segnali, in Parchi in Bici, a cura della Fondazione VillaGhigi, Bologna, Provincia di Bologna, 2010, pp. 82-83.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
manto, una strada
con tanti nomi, ma quali nomi
io mai li ricordo, li lembro, li rimembro
là sulle montagne nostre
accanto ai fiori
stanno i nomi
della gente e delle case
delle piogge o dei colori
del bosco, delle fonti,
degli amici dei buoi nati e vissuti.
poi c’è una strada dal
grande manto
ove il sasso rotola e raspola
la terra
caccia la foglia, la terra
caccia sasso che rotola via
la cesta dell’idice è acqua
ma potrebbe essere
fasciame e tagliame di navi nella
genova antica,
o castagno come castello di poppa,
o di prua
anime di governo e ballatoi
un sasso?
più forte, non sento!
non sento!
Il sole di fuoco
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Dieci riflessioni: dal volantino...
– rapido e semplice fuoco –
acqua che pende e che balla/riballa
un sasso che torna
raspa che rompe la ruspa
barcolla
monte renzio
solo api e patate ricurve?
ma quali curve!
qua vanno, ritornano e girano al largo
con orari o miglioni di milioni di anni
almeno
dal sogno, dal sonno, alle cose
ma cosa mi diranno domani
della terra dove sono rinato
ma cosa mi diranno domani
di queste crepe nel monte
di queste pietre buone per case e finestre. ma cosa diranno domani di me
del sasso che ho lanciato nel lago
delle foglie d’acacia
o del riccio della foresta.
verranno anche le farfalle
a chiedermi conto
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Dieci riflessioni: dal volantino...
del sasso che doneranno dopodomani
alla casa del fabbro,
al forno nell’orto.
un porto,
un santo,
un walzer con quattrocento mogli.
canta,
canta pure masaniello
canta
scintille ribelli
racconta dal palco che
tutto si posa sul fondo
che tutto scende e poi risorge
si gira e si stira
sbadiglia.
ma quante volte sbadiglia?
sporco uomo, uomo bianco.
terra stanca, terra matta, terra ballerina, terra matta, terra vergine,
terra ricca, terra stagna, terra romana, terra ferma,
terraferma, terraglia, terranova, terra nuova, terra gialla,
terra grassa, terra bruciata, terra di terra, terra grassa, terra mossa,
ventre a terra raso terra
terremoto
ecco, appunto, terremoto, e terremotato sasso.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
casa e terriccio, tellus tellus grande madre, motus terrae,
sasso, fosso, osso scosso, abisso fisso a ridosso di un afflusso sconfitto:
sesso. ingresso represso, depresso, annesso e sconnesso, pressato,
girato, rialzato e portato
da genova al mare dell’idice antico.
ok, okey, ho capito.
pensavo che sassi tornassero a sabbia
per le case ridotte a tinelli e non a brandelli,
pensavo alla carriola e alla pala
pensavo ad ascoltare l’uccello
pensavo all’amore nell’orto
quando non basta l’aratro
pensavo allo stato
alle api
a ca’ di bazzone
alle liane
ma seppelliremo ancora
i gessi di legno
il sale
le anime sul fondo del lago
che poi correranno per angoli strani
fra i denti del gatto
ed un bicchiere di vino.
ah! finalmente un bicchiere di vino!
e una pulce sulla coda di un cane.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
ah! che forza e che tempra!
ora ho un po’ di paura,
e vorrei mettere il dito nel buco
del sasso,
alzare la gamba, salire, guardare il vuoto là, dietro.
mo, ora che so, non ho più paura
e credo che
non l’avrò mai più.
ma cosa credi?
che sia difficile
buttare un monte dal parapetto di casa,
girarlo nel fiume e spingerlo in là
per milioni e miglioni di anni!
macosacredi? chesiadifficile!
me lo hanno spiegato stamane.
fra bismantova e la rugiada dell’alba.
ed ora vedrò la terra ballare,
fra l’autobus ed il portone di casa.
fra le canne sull’idice antico.
fra donne e violenze d’eroi
fra tronchi di mare
e tagli di piante che tornano a sognare.
nel mare, nel fiume del mare.
sull’idice antico.
Madonna delle vittorie III
from me to E&R – bologna 1987
notice/interpretations&readings
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Dieci riflessioni: dal volantino...
(dispatches4: piccoli fuochi cercando di leggere il vento,
stone. smog. silent song;
(e.e. cummings5: gioia senza voce.
solo. una locomotiva di parole6.
(pierrot lunaire e la voce parlata,
da uno spazio di luce sulla luna @
libera atonalità, libertà r/eccitante. der mondfleck.
oraservonoancoraali&paroleperomperelospecchio,
ed officine di vere-vele contro le barriere,
ora come ancora che, con neruda, non-uomini e non-cuori
“arriva(va)no dal cielo a uccidere bambini”,
[and the blood of children ran through the streets //
simplemente, como sangre de niños]
controvento.
Madonna delle vittorie IV
Boké, Guinea Conakry, november ’90
riprendendo da un punto abbastanza vicino alla terra da
potermi ricordare del sole
caldo ritorno in novembre
sulla terra rossa
fra la pioggia finita e l’harmattan che arriva
sul rio nunez e il katacò
10 e 50 latitudine nord
14 e 17 longitudine ovest
4 M. Herr, Dispatches, New York, Knopf, 1977.
5 E. E. Cummings, Poesie Scelte, Milano, Pesce d’Oro, 1958.
6 E. E. Cummings, Poesie, Torino, Einaudi, 1987.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
tornan storielle di vino
minuto champagne nel bicchiere,
secco-elegante,
colore lucido d’oro
sentore di caldi fiori di tiglio, di linfa,
é solo una notte
di sogni visti sul lago
a seccare sulle pianure / a pensare
senza parole e senza cercare un approdo.
/ sono di nuovo cambiato
corri, dunque,
che andiamo.
Poche sono le cose che mi tornano in mente:
il tavolo, le scale, la tua maglietta bianca
riversa sul seno
il fumo del vino e la sera,
una foto che si innamora
nella notte del 1 dicembre
poche cose tornano
e non ho nulla di importante da dire
in questa notte piena di luce
fra canoe ribaltate sulla rive del fiume.
poche cose
e non ho nulla di importante da fare
se non ascoltare una donna che pulisce verdure,
le storie inventate, il colore del fuoco, dell’arachide bollita nell’acqua,
Madonna delle vittorie V – La Canzone del Vent’otto
(Russi, Basse terre di Romagna, 28 maggio 1993)
Bianca e la terra / con il sole
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Dieci riflessioni: dal volantino...
E se c’è il sole c’è il cielo – grigio-luce
Vecchia luce nel cielo per la bambina dagli occhi di sole.
Bianca e il bagliore, come il mare,
e se c’è il mare c’è il villaggio / viaggio villaggio coraggio
sogno mio: la barca, la nostra pagaia, l’antica terra, nostra
Bianca e il villaggio / con la sorgente
E se c’è la sorgente c’è anche la gente //
L’antica gente, mente prudente, nostra
Bianca e il colore, con le stagioni,
e se ci sono le stagioni ci son le canzoni //
le canzoni e i limoni della nostra terra, antica terra, nostra
Bianca e la notte, con le piogge
E se ci sono le piogge ci sono le montagne,
le nostre montagne piene di vento
il picco e le valli, antiche valli
(dove si fa con quello che si ha).
Bianca ti ho visto
Fra i vortici dell’aria, le prime luci, i ritmi, i rumori dell’albero.
E se c’è il vento ci sono i bambini
I bambini che sembrano flauti / i flauti i passaggi
E c’è anche il tamtam che arriva con la sera.
Bianca è la donna / la donna al mercato
Ma il mercato è vuoto, vuoto per la guerra
Per le frontiere dentro il villaggio, fra le sorgenti e le genti
Con la lanterna, la caverna, la cisterna / vuota
Mio generale le vostre guerre
Le vostre frontiere / le vostre armi
Guerriere guerresche // guercie
Mio generale la vostra libertà la nostra terra
Bianca è la femmina
Nata fra il vento e la luce che il giorno rischiara
I rumori dei campi, dei campi fric frac
I rumori della libertà, del fuoco ciac ciac
I rumori del fiume e dei sassi nei nostri calanchi
Galoppanti, ruspanti conchiglie
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Dieci riflessioni: dal volantino...
Rosmarino e timo,
intemperanti / nostri.
Carmina Loanda
After the guns fall silent – Quando le armi tacciono
Angola, Luanda, gennaio 1997 – dicembre 2004
una molteplicità di disordinati episodi
mille, intrecci/remoti, mosaici staccati rotti
con se stessi e con il divenire della storia, mille unità, stelle violate,
fughe, visioni e dolori diversi, battaglie e minuti
parole distratte e imperfette fatte di macchie, straniamenti e cadute
lingua urgente e naturale e barbara e nata negli errori che si incontrano per strada
dove la vita spesso ingoia veleni.
del resto la poesia avrebbe ben poco valore senza viaggio-villaggio e la strada
Come fiori rossi di foresta i nidi dei sogni passano lenti,
dall’acqua del mare alla terra, bianca di sabbia, che brucia nell’aria.
Odori e rumori di sangue, colori e mani bambine.
Poi, debole e timida, una luce sul fondo del cielo – e, subito dietro … il futuro7
Muri sbilenchi di sasso, e di terra, e di canna
secca / seccata / aria di vento africano. Soffia.
Un vecchio, disteso su un sacco di rafia,
riposa. Qualcosa , come una rosa ventosa, grafia.
E ancora mani bambine e gli odori dell’arcobaleno
Piove. e la tenerezza dell’acqua risveglia il
mercato al mattino,
batte l’umido, l’aria sbatte
sulla lingua delle donne
fra le ceste, le zappe, i vivi colori di
polveri-sapori.
Sussurri e sospiri legati e impigliati
all’osso del cocco, alla foglia del mango,
7 Pepetela, A revolta da casa dos ídolos, Lisboa/Luanda, Edições 70, 1980.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
odori di pensieri, sapori di bisbigli fioriti,
corpo penombra, corpo torto e docilmente piegato
vita sottile sul pistillo di un giglio. Voliamo, più tardi, verso il mare, fra mucchi di sale e di venti,
un respiro-rugiada-di-piacere leviga il collo e l’erba al mattino,
mente e cuore.
La pelle scintilla liscia, fisica e fiorita fra
capitomboli gioiosi nell’acqua lucente,
più avanti, alla foce del fiume, si sbattono i panni bagnati e si depongono
al sole, sul sasso caldo,
(pietrificati e incastonati, colori assediati da palme e cespugli arrossati.
Uno scroscio di pioggia schiaccia segreti sulle nostre spalle
il calore del cielo,
ci sorprende,
nubi grigie squarciano sagome scure del vento,
strisce rosse nell’aria mentre
una camicia, inzuppata di ruggine e sudore,
guida una lenta canoa sotto la palma-ventaglio.
Bambini, fra stracci e sacchi di minuto carbone,
brace spenta dalle fatiche di un giorno,
tremano vicino al pantano del fiume. Torna, bianco e luminoso, il cielo. Children in a manger, angeli qualunque, angeli mancati, dagli occhi sgranati
come quelli di klee8 dai fianchi spezzati.
Bambini ancora, dopo l’acqua e la fiaba, sognano, senza voglia di immaginare il
futuro,
di incantarsi nel giorno, di sperare nel tempo,
nudi, per l’emozione, nel paese
che ogni tanto appoggia la valigia e comincia a cantare.
La voce roca e profonda, la voce è una canzone, un’onda del cuore,
8 P. Klee, Angelo mancato, Berna, Fondazione Klee, 1939.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
scoperta, fumo che piange – un amore.
Così chiara, così libera, fra sogni e capricci di sogni.
(Lungo la strada dal vento raschiata, una capanna desolata e lontana. [poi]
Pregherò nella notte della iena e dell’inutile dolore. Pagherò. Sulla strada: amore e calore, o solo rumore.
Sulla stampa locale non mancano deboli dichiarazioni, obbligatoriamente ottimiste,
dei protagonisti:
“isto faz-me lembrar a árvore feticeira – o imbondeiro – que encontramos em toda
parte de África. È uma arvore medicinal, que todo o que ela tem é utilizável em
África. África é representada pôr esta arvore, tão sadia, que alimenta a África subsariana. A seiva que alimenta a África sub-sariana é o troco da arvore e a África do
Norte são as folhas”9.
Cancioneiro I:
“querida madrinha,
viajo amanha para Angola,
subitamente e em segredo”10
viaggio, das ilhas verdes do equador
alla volta della dura città della canzone e del sogno
viaggio
con un involto di panni sotto il braccio11
9 A. B. Beye, “Jornal de Angola”, Luanda, 22 abril 1997. Cronache: L’11 aprile 1997 il insedia a Luanda,
in Angola, il Governo di Unità e Riconciliazione Nazionale (G.U.R.N.). Fra mille difficoltà, frequentatori
di bordelli, associazioni di predatori e bande guerriere, oscenità sfacciate e nobili profumi, i chierici della
prima veglia dicono di aprire una nuova fase politica, di dare vita a una nuova speranza nel processo di
pacificazione del paese e dell’Africa australe.
10 J. E. Agualusa, Nação Crioula, Lisbona, TV Guia Editora, 1997.
11 E. De Amicis, Nella baia di Rio Janeiro, Firenze, Felice Le Monnier editore, 1943.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
verso una terra, dove la vita si è allungata dentro la notte,
e la notte ha fermato il cammino del giorno
verso le cattive infinità del domani12.
Nella terra della guerra
Nella terra delle centro pietre
Nella terra del grande vuoto
che ha cambiato l’odore della legna bruciata,
nella terra del vento e del canneto,
non rimane che parlare dell’uomo con la lingua dell’uomo,
Viaggio, con un fagotto di panni sotto il braccio,
per scrivere e parlare dell’uomo-terra che trema, che brucia
dell’uomo che ha scalato, palmo dopo palmo, con furore, con furore ardente,
l’albero del futuro13 e del diluvio infinito,
nella libera terra dove,
dopo o dia inicial inteiro e limpo14
si è atteso invano il lampo di un vero mattino
per l’uomo dal sesso eretto, maschio / per la donna pube turgido, muschio,
per l’uomo, vagabundo e viageiro, che canta e piange sotto le ali del grande mango,
per i figli dei figli, anime e angeli, che sbarcheranno domani a Palmi o a Crotone
e da palmi o crotone saliranno, con alì dagli occhi azzurri, fino a questa nostra
nordica terra
(vengono in nome del sole e della tempesta, in nome dell’ospitalità concessa,
dell’ospitalità perduta15. 12 J. Patocka, Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra, in In forma di parole, Anno Secondo,
Numero Secondo, Reggio Emilia, Marietti, 1991.
13 B. Davidson, Os Africanos, Lisboa, Edições 70, 1981, p. 324.
14 S. de Mello Breyner Andresen, Raconti esemplari, Bari, Lusitania Libri, 1993.
15 J. Gunther, Africa nera (Iside Africa), Milano, Aldo Garzanti ed.,1960. Cronache: circa 11.000 immigrati portoghesi giunsero nel 1951 in Angola – 4.317.000 abitanti, dei quali 121.000 europei – per
la maggior parte erano di poverissima condizione. Vecchi battelli sconquassati li ammucchiavano sulle
spiagge, e accade molto spesso che essi non riescano a trovare un lavoro corrispondente alle loro attitudini;
essendo troppo orgogliosi per tornare in Portogallo, vanno inevitabilmente a finire nei villaggi indigeni, si
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Dieci riflessioni: dal volantino...
Cancioneiro II:
Viaggio, con un involto di panni sotto il braccio,
per scrivere e parlare,
Anche se mi resta un laccio, straccio, una rabbia e un’angoscia difficile:
uomo/compromesso, uomo/sviato, uomo/negato.
Parola palude. Parola rasoio, parola nome di guerra.
Parola saudade, parola amizade.
Parola persa e labirinto. Parola carne nuda. Provoca. e.
Parola che apre le porte per il cielo e l’inferno.
Parola convento, parola freschezza sapienza.
Solo parola purtroppo, ma vorrebbe essere un urlo.
Pur.
Pur rimane la voglia di trovarlo e sentirlo, fra i sentieri e le case,
nei grandi spazi, nei bracci di mare, nell’aria che ti mette le ali,
nei piedi nudi, nella pelle d’ebano col sale seccato o il sudore,
nelle strade ineguali, nella corsa verso il limite, verso lo sviluppo difficile,
unico signore
della sua povertà, del suo riso amaro, delle sue nebbie e dei suoi odi profondi.
Rimane la voglia di incontrarlo al villaggio, nella terra – la sua terra – di fuoco e di
mine,
in questa terra che scotta, in questa terra di lucertole e spine
in questa terra di morchie e tronchi arrivati dal mare, senza risposte fra mille
domande.
In questa terra che bolle, sotto i piedi scalzi, e una canzone.
simpatia e coltello di un garzone. demone sperone.
e Pur rimane la voglia di parlare dell’uomo.
Rimane la voglia di trovarlo a Luuanda16.
uniscono a donne africane, conducono una vita di stenti, e inselvatichiscono. Nessuno, del resto, fa troppa
attenzione, qui, alla separazione razziale.
16 L. Vieira, Luuanda, Brazil, Ed. Eros-Belo Horizonte, 1965; poi São Paulo, ed. Ática, 1982.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
sotto il sole che bolle e non scalda
sotto la luna piena d’aprile, accesa lassù nel cielo chitarra, nel cielo fiorire di scoglio
alla sera. Le capre ci hanno insegnato a mangiare le pietre
per non smarrirsi, per non morire,
fra i sassi assolati di sassi e di guerra,
punti dai venti e dalla secca, flagello.
La stovigliaia ha donato il proprio cuore all’argilla,
il proprio seno al soldato,
il proprio timido canto
al vecchio, alto, con la pelle di ebano scuro, e la barba bianca,
a un uomo che ama restare, ma deve partire.
Donna che finge l’amore e la favola, il fiume ed il tempo,
donna fiore di breve speranza, sogno, donna elogio del giardino profumato,
Sola. la pastorella attende con un brivido l’alba, c’è il bordo e la strada,
madrugada di cielo e mare,
sguardo stordito dolore dalle case,
occhi scuri e profondi, occhi caldi che piangono dentro,
occhi che guadano il sole, a sud del sole,
che riflettono la terra intera e le nubi grigie di montagna, la goccia di rugiada
la finestra sbracata prima dell’arrivo del vento, bianco branco stanco.
Un corpo che freme, inquieto frammento
corpo-passione cuore senza cuore
Un corpo di passione senza scrivere amore.
Nell’amplesso sfila luce sinuosa emozione elegante del seno
/ taglia violenza cieca leggenda
dei gialli, dei rossi e dei verdi colori di stoffe che abbigliano la stanza pietrosa,
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Dieci riflessioni: dal volantino...
le pareti di terre e paglia-erba seccata/
e tramonti e sentimenti dolcissimi, emozioni felici,
(non c’è respiro ne sguardo, ma un corpo dannato a perdere il mondo
che va, via, è, vita – e non so più se sono stelle o le candele dell’alba;
qualcuno rimetta la musica! e l’orgoglio rosso rubino, languido, / qualcuno ci faccia
volare!
Furori ribelli allegri.
Figura segreta, musica e danza, straordinaria, bella, Maddalena,
notte, colori di terra, corpi, suggestioni di corpi,
luci di sabbia, di mare e deserti, rito e viaggio,
fiori e profumi di fiori, e ancora colori,
Quem chora em mim, dizei – quem chora em nós?17
Forte, come una donna fra il parto e l’amore,
la locandiera ha donato il proprio cuore all’anguilla,
nel sogno e nel crepuscolo amico ha schiuso un canto.
ohoo luandiña, alla fine conoscerai l’huomo che ti porterà per mare,
pelle spazzolata – capanna caniço, sette figli, bastone-sogno e fantasia.
i venti sul fianco, gonfiano l’onda, le luci, le lune del sesso
nella barca scoglio remoto, nella vela di vento presenza, nel nulla un pianto
nella nostalgia del marinaio
una terra si dispera e si uccide. please stand by me d. (è questa un’epoca di eroi, di vario genere)
viola timida e nera, giaciglio malato,
un bimbo un sorriso, una bimba – un lamento.
freme la spalla in un canto, sul letto di pelle di capra seccata
nelle notte dalle ombre corte
che drizzano il manto, il sudore, il capezzolo scuro
nel gioco generoso dell’amore
17 C. Monteiro, “Europa”, in G. Le Gentil, R. Bréchon, Storia della letteratura portoghese”, Bari, Laterza, 1997.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
l’acquafreschiaia, alla luce dell’alba, é rientrata alla casa
con le acque libere del campo,
porta una bandana al collo, dolcissima, melanconica,
qualche ragione per piangere, qualche ragione per amare.
malgrado tutto qua vive un paradiso.
nudo si bagna il pube e il respiro, il labbro
l’anima rotta rodata d’amaro e di sangue di mestruo ferito,
le braccia più scure del mondo
stringono la terra di strada, piove vento, caldo, forte.
la piccola mano ti asciuga la fronte, dolce e solitario singhiozzo,
la pelle furiosa trema, la pelle violenta e furente danza, vibra, nella musica, nel canto,
nell’inno del mare e del mattino sul mare. Le anime alzano le chiome del mango,
le foglie del maschio papaya deposte a smollire la carne del manzo in cucina.
la vivandiera ha donato il proprio cuore all’argilla
Sul vecchio video ballan les coeurs brisés18
maniche lunghe con ricami e perline
sembra che gli occhi scompaian nel nulla
Piangendo, pregando, ridendo, venendo
Sembra che le labbra fiammeggino notte, presto non dormiranno
Smetti pur di suonare cuore!
smetti pur di pulsare stella!
perché non vi è più posto in cielo, ne petali al fiore
vi era un bimbo, un bimbo solo, un bimbo che muore
ne aria, ne acqua, ne terra, solo un bimbo che muore
urlo.
il cielo è rosso di vergogna su queste pietre che attraversano le pietre,
su questa terra che attraversa l’orizzonte ed
18 Les Coeurs Brisés, VHS Pal, Paris, Production Dany Engobo, 1997.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
il cielo.
su questa nera crosta di costa è la mia casa.
terra, rossa di caffè, bianca di cotone,
terra che guarda l’albero indurire,
che ingrigisce i capelli nel vento, o nel velo delle guance scure
uomo natura, uomo sudore, uomo che ha pianto dall’orecchio e dal cuore,
leggo
bambola e uomo e donna si fondono in una silenziosa
piramide d’oro19
per la pace che verrà;
dalla radio del taxi la vecchissima Brigadier Sabari di Alpha Blondy:
la verità non è un canto felice;
fra mille auto e le crepe del marciapiede e rapaz com brinquedos de lata:
il gioco che ride non costa.
e viene voglia di riscrivere Angola, Loanda, Luuanda e cola
e di scrivere lingua di, questa serra
per chi non ha lingua, per chi non ascolta, per chi.
chiedo di riscrivere Angola, Africa, Amore. Ma rispondono gli amici:
je ne sais plus parler20
e viene voglia di vivere insieme:
(si scopre la temperanza, innamorata sapienza
e viene voglia di non essere solo
fra le parole che mancano e la purezza magica degli uccelli
gridi e silenzi allo svegliarsi doloroso del mondo
Dalle torri della Fortaleza21 appare il mercato ed il mare
Tende e banconi, direttamente dal porto
19 E. E. Cummings, Tom, copia n. 671, Milano,Vanni Scheiwiller, 1967.
20 P. P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960.
21 Il forte di São Miguel, conosciuto da tutti come la “Fortaleza”, fu costruito dai portoghesi nella città
di San Paulo de Loanda – che in Kinbundo significa tributo – nel 1575, e da allora è stato al centro di
guerre e commerci.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
Bando e contrabbando nelle acque del Kuanza
Vado nella strada,
nella terra della semba
fra il succo di mango, fra il nero e il bianco
vivo nel paese ove ora si canta
il tempo e il cambiamento22
vado nel paese che vive a sud del sole23
nel paese ove la canzone è figlia di vulva e di donna, e di vero tamburo e…
nel paese ove la poesia è figlia dell’uomo, della fronte sudata dell’uomo, e,
uomo società, uomo sudore, uomo
uomo forte di braccia e gigante alla vista, un
un cane abbaia da ore in mezzo alla strada
vicino a bambini seduti per terra, magliette bucate e piedi striati da polvere-sassi
tetti in lamiera, cinque galline e tanti rifiuti sottovento al mais, ciottoli e ghiaie dal
mare;
è il pane qui che non c’è, è l’acqua per bere e mangiare che è stata rubata dal sole,
[e dall’uomo che è molto più ladro del sole,
regalata al vento dal piombo di schioppo e dell’odio in ritorno
Benguela é la prima tappa dal mare ricurvo e col secco parco di Chimalavera,
la polvere la strada,
Benguela della gente che scioglie parole e chiacchere al mare,
Lobito dalle vecchie spiagge, allegre ore di colore e di sale.
Poi si vola verso Lubango, sulla cresta alta di Sá da Bandeira, chiusa gente dei monti,
Con le montagne sole cotte dal sole. Pareti alte di rocce e ciottoli scuri.
Le fontane antiche del fiume Cunene che corrono rapide e declive.
I quarzi nel planalto di Humpata24, resti di grandi montagne africane, di tetti terrestri
e movimenti, di forze e di danze della terra, di fessure e crepe, di sbilanci e di lanci,
venti a mitraglia per secoli spinti, vento che batte e ribatte dolce nel ritmo,
forza e gioco della forza, della terra che taglia ed innalza,
22 Bonga, Preto e Branco, CD Digital Audio, Lisbona, Vidisco, 1996.
23 S. Vicente, Sul do sol, Porto, Edições ASA, 1989.
24 M. Feio, O relevo do sudoeste de Angola, estudo de geomorfologia, Lisboa, Junta de investigações
cientificas do ultramar, 1981.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
che degrada e rotola giù, rapida e veloce, fino al mare e al deserto di Moçâmedes.
La, nel sud d’Angola, le città, i monti e il mare di Pepetela,
le case degli aviantenati e dei ricordi di chi viaggia lontano,
la polvere del Casseque sulle foglie del mango, gli alberi in cortile, il grande imbondeiro,
“a lavadeira estava a passar roupa a ferro lá dentro
o cozinheiro devia estar arrumar a cozinha e lavar louça”25. 1997 – A Benguela si mangia all’esplanada A Sombra; a Lubango al Cubata
poi dedichi la notte a scrutare le stelle, sempre in movimento come la storia,
o come le idee che si dimenticano. capezzolo scuro.
Un odore di donna, allegro e curioso,
sotto il kaftano, stropicciato e annodato, un cuore antico
eterna donnabambina, corpo fragile di gazzella, curioso ed allegro
gambe fresche e leggere
orecchini, bracciali e collana,
libere labbra dei grandi sentimenti, atlantici capelli dei grandi spazi
sui muri macchie di muffa/colore e cespugli per il fuoco,
la luce non serve
sono luna, sono sole, sono le stelle del cielo africano
sono sole, sono, o luar pieno sui monti ove l’acqua non arriva /dal cielo/
tornano ad apparire gli occhi verdi e corpi snelli
dei neri ghepardi della luna26
sulla riva del fiume si lavano pentole e panni,
bambini e giovani seni bianchi di sapone.
semi pestati al mortaio e il vento accompagna le palme
l’odore della nera padella a terra sul fuoco
code di bimbi e chiacchere festose
25 Pepetela, Lueji, Lisboa, Publicações Dom Quixote, 1990, p. 157.
26 W. B. Yeats, Per amica silentia lunæ, prefazione, Bologna, Il cavaliere azzurro, 1986.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
vado nella polvere che torna ai suoi figli
che gioca nella strada tormentata della riconciliazione,
vado nella terra che torna padrona della terra
nell’acqua padrona dell’acqua
nel fuoco padrone del fuoco e della cenere di fuoco
si tenta Huambo al mattino, fra la cenere e i fiori
nella terra che sta pulendo le rive dei fiumi
la chiglia dei mari, la morchia dalle sponde di Angola –
che cancella la tristezza dall’aria
che ripone i colori e i sorrisi sui muri
la paura nel cesto o in un canto, perché qualcuno, o il vento,
la porti via, con, se. Nella terra sterra chi beve quissangua con gingibre e cola
Torna il lavoro fiorito della campagna, il cielo blu27.
Ecco l’acqua! e le donne danzano/di/gioia28
e dai Luanda! danza!!
e dai! Loanda balla, enjoy Coke!
Luanda moça e menina,
lascia sognare, lascia volare le perline e lo stress
prima della guerra finale del cuore.
L’immondezzaro brucia barattoli e latte fra morchie nere e verdi bucce
sotto il palazzo, all’angolo della strada. papaia
Rua morta, lua torta, negras. le galline e i cortili \ Aqui tem galinha, tem quintal,\
Cheving-gum? – not for me, for you29.
27 A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, Roma, Tascabili economici Newton, 1995.
28 A. Moravia, Viaggi, Milano, Classici Bompiani, 1994.
29 L. Vieira, Luuanda, São Paulo, ed. Ática, 1982, p. 63. Cronache: 17 maggio 1997. Lo Zaire non c’è più,
fra gruppi sparsi di disperati qualcuno ha chiamato congo il Congo di Patrice-Emery Lumumba. Dalle
colline di Kindu e Bukawu i poteri delle pietre, dell’oro e delle armi suonano nuovi venti per l’Africa della
polvere e delle salite, mentre l’europa ha retto il cerino al leopardo criminale.
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Dieci riflessioni: dal volantino...
i sogni di b.
2004 febbraio. ritorno a Luanda sotto le nuvole calde a febbraio,
col mio sacco arrotolato sotto il braccio,
mentre, con l’acqua ed il fango, torna dal monte la mina
nelle strade di Malanje, nelle storte buche del Kwanza Norte
nei villaggi dove lentamente la gente regressa da oltre il confine,
per poi ritorcersi nei campi mina/minaccia, sotto i grandi banani verdi e gialli macchiati rosso e di frutta, / là, quasi vicino alla sorgente dell’acqua
(ma, come nulla fosse successo, continuano i numeri sul mio vecchio taccuino:
in quasi trent’anni di guerra civile 1 ogni 415 angolani s’è beccato una mina,
fa esattamente 34.544,58
più degli abitanti di San Donato, tutti con qualche gamba o braccio o piede …
in meno.
lo hanno calcolato gli amici di Handicap International
34.544 mani, o zappe, o fiori di campo appassiti e bruciati
come la morchia nel vecchio bidone del porto.)
ed a me cosa rimane ora ed ancora da fare?
La grandezza di un albero? i frutti del vecchio baobab?
i sogni di b.? (un muro bianco)
certo, certo le grandi luci di b b (la pagina bianca)
e la voglia di riscrivere cuore (il mercato dei gioielli)
e la voglia di dire parole sotto la luna, (lo schermo bianco del sogno nel mare)
Le parole dette sotto la luna? le carezze di chi? (mille colori)
sotto l’ombra della luna
sotto l’ombra del grande Embondeiro30
30 Si tratta del Nkondo o BaoBab (Adansonia digitata, Linn.).
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Dieci riflessioni: dal volantino...
l’albero anziano del piccolo villaggio, l’albero magico, l’albero della vita e della
medicina,
l’albero delle reti da pesca, delle tazze per liberare la canoa dall’acqua (Mpusu)
l’albero dei grassi feticci, ma anche dei grandi sogni
oggi fatti, come con le paure del piccolo principe (di Saint-Exupéry),
in questo piccolissimo mondo angolano/
ed a me cosa rimane ancora da fare?
Qualche verso graffiato sul vecchio taccuino?
Guardare le grandi acque a Kalandula, con gli arcobaleni che giocano lievi sulla
polvere e sulla forza \dell’acqua? nascono le nuvole a kalandula
misurare i muri di Antonio Ole, i suoi patchwork di arte e di povertà?
Ed a noi cosa rimane oggi da fare?
Forse niente o quasi nulla, nel sole, che rende rovente il ferro della piccola stampella,
calda la plastica di una nuova mano.
Ed a noi cosa rimane ancora da fare?
Raccogliere le rose a N’dalatando, o stringere la mano di una bimba al mercato.
perché a lei si, che, forse, non rimarrà più nulla da fare.
( )
[una volta a questo stesso mercato trovavo solo cocciglie sovietiche,
ma ora è ormai tutto fatto cinese,
perché qualche nuovo mercante sta bussando alla porta del petrolio angolano,
concorrente potente del vecchio caimano americano]
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Diario delle notizie perdute
Valter Vecellio
Sur mes cahiers d’écolier
Sur mon pupître et les arbres
Sur le sable sur la neige
J’écris ton nom
Sur toutes les pages lues
Sur toutes les pages blanches
Pierre sang papier ou cendre
J’écris ton nom
Sur les images dorées
Sur les armes des guerriers
Sur la couronne des rois
J’écris ton nom
Sur la jungle et le désert
Sur les nids sur les genêts
Sur l’écho de mon enfance
J’écris ton nom
Sur les merveilles des nuits
Sur le pain blanc des journées
Sur les saisons fiancées
J’écris ton nom
La scelta è coraggiosa, in linea con una tradizione fatta di ricerca, sperimentazione e
valorizzazione di nuovi talenti. Così anche quest’anno il festival del cinema di Locarno non smentisce la sua fama, e accanto alla tradizionale babele di film provenienti
da ogni angolo dei cinque continenti, dedica uno spazio d’onore alla “rappresentanza”,
particolarmente folta, della cinematografia africana.
Già nelle edizioni passate si erano potute vedere produzioni marocchine e algerine, egiziane e tunisine. Quest’anno però la parte del leone la fanno i film dell’Africa
nera: pellicole “targate” Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Senegal... Prove a volte ingenue e candide, nel loro linguaggio cinematografico, didascaliche e al tempo stesso enfatiche; prove comunque interessanti e
da tenere d’occhio: testimonianza di una vitalità (e anche di una maturità) sorprendenti e che fa ben sperare. Una cinematografia giovane che converrà tenere d’occhio. Le sorprese non mancano.
68
Diario delle notizie perdute
Il Mali è una di queste sorprese. Bamako, film fluviale del regista Abderrahmane
Sissako racconta storia di Malé, cantante in un bar; ha un marito, Malé, Chaka: senza
lavoro, ignavo e a tutto ormai indifferente, il matrimonio sta andando alla malora. In
questo contesto, nel cortile dell’abitazione diviso con altre famiglie, un giorno viene
allestito un tribunale per un processo. È stato avviato un procedimento giudiziario
nientemeno che contro la Banca Mondiale e l’FMI, accusati di essere responsabili del
dramma che sconvolge l’Africa.
Tra arringhe e testimonianze, in un clima surreale, ma non privo di una sua logica, la vita quotidiana scorre normale, se di normalità si può parlare. Bamako diventa
la metafora di un’Africa che rivendica i suoi diritti, stretta tra la morsa di un debito
astronomico che la strangola, e l’inevitabile, indispensabile, adeguamento strutturale
che come pedaggio esige lo snaturamento di una società patriarcale con le sue regole
e tradizioni. Un bel dilemma, che in ogni caso chiede un duro sacrificio. Malé, non a
caso la donna, di questo processo si mostra consapevole, ben decisa a lottare per governarlo; Chaka, non a caso, appare è il paradigma di un mondo apatico e indifferente,
incredulo e impotente, per questo assurdamente abbarbicato a una conservazione che
è solo timore e resistenza inutile al nuovo ineluttabile.
In ogni caso, la novità è costituita da questo tribunale, metafora e simbolo di
una volontà di lottare con le armi della legge e del diritto. La “lezione”, se si vuole, che viene dall’economista peruviano Hernaldo de Soto
Polar (sarà un caso? Anche lui del sud del mondo). Solo il diritto può salvare l’economia e la società, non si stanca di predicare De Soto. Solo un sistema legale dove, per
esempio, le transazioni vengono ufficialmente registrate, può accompagnare miliardi
di persone dentro i canoni dell’economia globale: «Il diritto ha avuto un’importanza
fondamentale, nel creare la prosperità dal dopoguerra a oggi, un periodo durante il
quale il mondo ha creato tanta ricchezza quanto nei due millenni precedenti».
Non meno interessante Guimba, un tyran, une époque, di Cheick Oumar Sissoko. Qui la storia è ambientata nella città di Sitakili, nel deserto del Sahel, oppressa
dal tirannico Guimba Sumbuya. Anche questa una storia di rivolta, di affermazione
e di libertà. Kani fin dalla nascita viene promessa sposa a Janguiné, figlio di Guimba,
che però si innamora della madre, Meya. Guimba, per compiacere al desiderio del
69
Diario delle notizie perdute
figlio ordina che Mambi, marito di Meya, sia esiliato. Da questo fatto privato nasce il
germe della rivolta e della resistenza alla tirannide.
Una vera e propria epopea quella che Souleymane Cissé, primo cineasta
dell’Africa nera premiato a Cannes nel 1987, “canta” nel suo Yeelen: un dramma sulla
principale etnia del Mali, i Bambara, sul filo di una narrazione che mescola invenzione
pura a leggende mitologiche. Niamankoro è il classico eroe che deve superare mirabolanti prove e affrontare una quantità di peripezie, pedaggio per rinnovare una società
condannata al decadimento.
Lavori, come si è detto, la cui cifra potrà a volte apparire ingenua all’occhio
smaliziato di uno spettatore occidentale; che però commetterebbe un grave errore a
guardare queste pellicole con sufficienza: perché rivelano una freschezza narrativa,
una capacità non comune nell’immaginare e rappresentare situazioni complesse, una
ammirevole e discreta padronanza dei mezzi, una sorprendente capacità comunicativa, facendo ricorso a metafore e singole vicende che sono paradigmi di società spesso
anchilosate nella salvaguardia sterile di un passato paralizzante di cui si idealizzano
nostalgicamente inesistenti valori. Lo si dice pensando per esempio a Muna Moto del
camerunese Jean-Pierre Dikongué-Pipe: storia agro-dolce di Ngando e Ndomé, due
ragazzi innamorati l’uno dell’altra; ma Ngando non ha il denaro sufficiente per poter
chiedere, come esige la tradizione, la mano di Ndomé; fa debiti, diventa prigioniero
di uno zio spietato e facoltoso, che non ha avuto eredi da nessuna delle tre mogli,
e si mette in testa di averne da Ndomé, che peraltro già è incinta di Ngando... un
divertente vaudeville che fa pensare a Shakeaspeare, in questa sua Romeo e Giulietta
che strappa applausi e sorrisi per i sorprendenti risvolti e soluzioni stilistiche. Ma lo
stesso si potrebbe dire dell’ironico e beffardo Bal poussière dell’ivoriano Henri Duparc:
“Semidio” Alcacy è un ricco coltivatore di ananas, ha già cinque mogli, quando sul suo
orizzonte appare la giovane, bella e sfrontata Binta, cacciata dalla zia per via del suo
comportamento arrogante. Alcacy s’invaghisce perdutamente di Binta, la vuole impalmare, e la ragazza ci sta, ma a precise condizioni... Inutile dire che per Alcacy sarà
l’inizio di un meritato inferno...
Una cinematografia che ha avuto il suo impulso e sviluppo grazie a quell’autentico vivaio che fu il Festival Panafricano di Ouagadougou, fortissimamente voluto
70
Diario delle notizie perdute
(guarda un po’!) dal presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, e grazie al quale
sono emersi veri e propri talenti: da Gaston Kaboré, autore di opere come Wend Kuni,
odissea di un orfano che cerca le sue radici; o Idrissa Ouédraogo, che con il suo Samba
Traoré racconta la storia di un gangster, che si illude di poter sfuggire al suo passato
e di potersi rifare una vita nel suo villaggio... Aujourdhui, di Alain Gomis, regista di
frontiera (anche per nascita, essendo per metà francese, per metà senegalese) è la cronaca delle ventiquattr’ore di un giovane di Dakar è insieme poeticamente delicata e
struggente, tra sogno, metafora. Amaro, con punte che lo accostano al neo-realismo
italiano La Noire de..., del senegalese Ousmane Sembène: a Dakar c’è un angolo di
strada dove la gente in cerca lavoro viene reclutata da bianchi facoltosi. Diouana è una
di queste persone in cerca di lavoro, sembra fortunata, una coppia francese cerca una
baby sitter, la condizione è accettare di trasferirsi in Costa Azzurra. Il sogno presto si
trasforma in un incubo, la arrogante e spietata coppia costringe Diouana a mille umiliazioni, domestica, cuoca, trofeo esotico tuttofare. Per la povera Diouana ci sarà solo
un modo per evadere da quell’oppressione...
E si potrebbe chiudere – ma il discorso ovviamente è tutt’altro che esaurito
– con Une fenetre ouverte, di Khady Sylla. Nata a Dakar nel 1963, ha pubblicato diversi romanzi e racconti, il più noto Le Jeu de la mer del 1992. Ha anche realizzato
un cortometraggio, Les Bijoux (1997);e due documentari, Colobane Express (2000) e
Une fenêtre ouverte: premio per la miglior opera prima al Festival internazionale del
documentario di Marsiglia (FID): splendido documentario in cui l’autrice, a un passo
dalla malattia, intreccia il suo sguardo con quello di Aminta, in preda alle sue fobie e
al suo male di vivere. Lo stesso sguardo misericordioso che pone con Le Monologue
de la muette: Amy è una delle tante ragazze che in Senegal fanno le donne di servizio,
lavoratrici bambine, visto che spesso hanno meno di dodici anni, senza contratto e
paga, un pugno di cattivo cibo e un letto, vere e proprie schiave il cui destino dipende
dagli umori del padrone di turno. Nell’intimità del suo rifugio forzato Amy dà alla
luce una bimba: inizio di un percorso che non sappiamo se porterà alla sua liberazione
o a nuove umiliazioni. Però è un percorso, e a far da cornice il canto di denuncia e
speranza delle amiche lavandaie che condividono il destino di Amy, la resistenza delle
donne della bidonville della rue 11 nella Medina, la rabbia di cui si fa portatrice e
71
Diario delle notizie perdute
interprete la poetessa slam Fatim Poulo Sy...
Un cinema degli “ultimi” sognante e musicale, poeticamente militante. La base
di un cinema africano con cui sarà bene imparare a fare i conti. Sur tous mes chiffons d’azur
Sur l’étang soleil moisi
Sur le lac lune vivante
J’écris ton nom
Sur les champs sur l’horizon
Sur les ailes des oiseaux
Et sur le moulin des ombres
J’écris ton nom
Sur chaque bouffée d’aurore
Sur la mer sur les bateaux
Sur la montagne démente
J’écris ton nom
Sur la mousse des nuages
Sur les sueurs de l’orage
Sur la pluie épaisse et fade
J’écris ton nom
Sur les formes scintillantes
Sur les cloches des couleurs
Sur la vérité physique
J’écris ton nom
Sur les sentiers éveillés
Sur les routes déployées
Sur les places qui débordent
J’écris ton nom
Sur la lampe qui s’allume
Sur la lampe qui s’éteint
Sur mes maisons réunies
J’écris ton nom
Mettiamola così: se sotto gli occhi vi capita un titolo che dice: «I veleni dal
Nord in Campania, 191 inchieste, nessun colpevole», dovrebbe essere logico e spontaneo cercare di capire di che cosa si tratta; se andando oltre al titolo si apprende che
a proposito di questo enorme business che è costituito dallo smaltimento e occultamento illegale di sostanze altamente inquinanti e praticamente monopolizzato dai
clan della camorra, mai sono stati identificati inquinatori e mediatori, e che c’è un
enorme “buco” nero costituito dalla mancata identificazione delle protezioni e delle
complicità istituzionali e politiche, si fa un salto sulla sedia; se infine a rivelare tutto
73
Diario delle notizie perdute
ciò è una giornalista seria e preparata come Rosaria Capacchione, più volte minacciata dalla criminalità organizzata proprio per la serietà e il rigore delle sue inchieste,
e costretta per questo a vivere sotto scorta, allora vien da chiedersi la ragione di tanta
“indifferenza” e “disattenzione”.
Cosa sostiene Rosaria Capacchione in una lunga e dettagliata inchiesta pubblicata dal quotidiano napoletano Il Mattino (19 agosto)? Che «a voler mettere in fila
le 191 inchieste che hanno attraversato l’Italia delle ecomafie, a voler guardare bene
nelle migliaia di faldoni che le compongono, si scopre che raccontano solo a metà il
fenomeno che ha appestato campagne e coscienze diventando fonte di guadagni pressoché illimitati (tre miliardi di euro nel solo 2010, stando alle stime di Legambiente)
per le consorterie mafiose.
Si scopre, insomma qualcosa che lascia sgomenti, avvilisce: in tutte quelle carte
mancano i nomi che contano: quelli dei mediatori, dei lobbisti che hanno tessuto la
strategia, degli uomini delle istituzioni che hanno consentito, tollerato o coperto il
traffico di rifiuti; degli industriali che hanno cinicamente approfittato della possibilità
di smaltire milioni di bidoni di sostanze che poi hanno inquinato i territori di Giugliano, Villaricca, Villa Literno, Casal di Principe, Maddaloni, Marcianise».
A riunire le 191 inchieste in una sola, si scopre che raccontano, quella che Rosaria definisce “una storia incompiuta, piena di buchi: quelli delle discariche abusive e
quelli delle conoscenze investigative, interrotte quasi sempre a mezza strada”.
Si comincia con una storia che risale, pensate un po’, al 1985: quando un imprenditore, Pietro Colucci racconta di un vorticoso via vai di camion che arrivano
dalle regioni settentrionali e riversano i loro veleni a Sessa Aurunca e a Castelvolturno. I carabinieri fermano decine di camion carichi di rifiuti che sversano illegalmente
l’immondizia nell’impianto di Giacomo Diana: che viene denunciato, ma mai fermato. «Aveva ottenuto» – ma da chi? – «un salvacondotto che si rivelerà necessario al
prosieguo della storia e alla crescita del sistema dei consorzi di bacino».
Tre anni dopo, è il 1988, sulla scena compare Cipriano Chianese, «avvocato di
Parete con entrature importanti nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nel Sisde». L’indomani del suo arresto, il 4 gennaio del 2006, la Dda di Napoli scrive: «Sviluppando alla massima potenzialità le relazioni variamente intessute, ha fornito informazioni
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Diario delle notizie perdute
riservate agli esponenti di vertice e agli affiliati al clan dei Casalesi». Negli atti di
quell’inchiesta è contenuto anche il verbale di perquisizione nella casa di Licio Gelli. Chianese, un nome da tenere in mente: il suo nome già comincia a circolare
nel 1992, con le dichiarazioni del primo “pentito” ecomafioso: Nunzio Perrella da
Fuorigrotta, che aveva abbandonato il traffico di droga per dedicarsi a quello, assai più
redditizio, dei rifiuti: socio in affari di Gaetano Vassallo (che inizia a collaborare con
la giustizia sedici anni dopo), di Gaetano Cerci (parente del capo casalese Francesco
Bidognetti), e di imprenditori liguri e toscani.
Il patto, ricostruisce Rosaria, è siglato a Villaricca, ristorante La Lanterna: lì,
racconta Perrella, la compravendita di rifiuti industriali e tossici diventa “sistema”. Vassallo può raccontare molto di quel patto, fare i nomi di chi si spartisce la torta: «Se
lo ha fatto, quell’elenco è ancora secretato. Il dato di fatto è che a oggi non conosciamo
neppure uno dei committenti dello smaltimento illegale. E neanche gli intermediari».
Non finisce qui. Nel 1995, ricorda Capacchione, l’allora capo della Procura di
Napoli, Agostino Cordova, nel corso di un’audizione in commissione ecomafie, aveva
lasciato intendere che «ci sarebbe stata presto una svolta. Nella ricostruzione della
Dda, Licio Gelli era necessario per l’accordo in quanto in possesso di una fitta rete
di contatti con gli imprenditori del nord Italia che avrebbero dovuto fornire i rifiuti». Massimo Scalia, all’epoca presidente della Commissione, conferma: «“Nel corso delle
audizioni con Cordova abbiamo appreso che per interessarsi di rifiuti in Campania
bisognava passare per Gelli” ma anche per altri appartenenti a logge massoniche. A
chi si riferiva Cordova, si chiede Capacchione: all’imprenditore ligure Ferdinando
Cannavale, che aveva partecipato al tavolo con Perrella e Vassallo? A Gaetano Cerci,
che nel 1991 e nel 1992 era stato ospite di Licio Gelli assieme al camorrista Guido
Mercurio, che a Villa Literno (che ospita buona parte delle ecoballe della penultima
emergenza su piazzole costruite su terreni riferibili al clan Iovine) gestiva un impianto
di rottamazione? Ad altri soggetti i cui nomi sono rimasti sconosciuti?».
Le indagini più recenti rivelano l’esistenza di un accordo stabile tra il gruppo
Zagaria, monopolista del movimento terra e del trasporto dei rifiuti, e il clan Belforte
di Marcianise. All’epoca dell’inchiesta su Pasquale Centore – era il 1999 – funzionario
di banca ed ex sindaco di San Nicola la Strada arrestato per traffico internazionale
75
Diario delle notizie perdute
di droga, assassino reo confesso del padre del giocatore Marco Borriello, di questo
accordo non si sapeva molto e forse fu per questo che sfuggì l’altro collegamento con
Licio Gelli. Nel processo milanese sulla connection era stato coinvolto anche un tale
Andrea Cusano, braccio destro di Centore, titolare della Euro Truck. Nel gennaio
1991 era stato controllato assieme alla moglie nei pressi di Villa Wanda, ad Arezzo. Nello stesso posto era stato trovato anche l’anno successivo, il 29 settembre del 1992. Nel 1997, invece, ai cancelli della residenza aretina del Venerabile viene identificato
Antonio Belforte, cugino del capozona di Marcianise. Si ipotizza che i contatti con
Gelli siano riferibili al traffico di cocaina, nessuno (?) pensa alle ecomafie. Cusano
era un autotrasportatore. E il gruppo Belforte faceva ingresso nel business dei rifiuti
attraverso la Sem, sequestrata tre anni fa. Nessuno, però, ha seguito quella traccia.
La storia c’è tutta, e va a tutto merito di Rosaria avercela raccontata. Ma per
tornare all’inizio: 191 inchieste, migliaia di pagine di faldoni: nessun colpevole…
Sur les formes scintillantes
Sur les cloches des couleurs
Sur la vérité physique
J’écris ton nom
Sur les sentiers éveillés
Sur les routes déployées
Sur les places qui débordent
J’écris ton nom
Sur la lampe qui s’allume
Sur la lampe qui s’éteint
Sur mes maisons réunies
J’écris ton nom
Che Bella Addormentata, il film di Marco Bellocchio presentato ieri alla Mostra
del Cinema di Venezia, fosse destinato a sollevare polemiche – e polemiche anche
pretestuose e strumentali – lo si era messo in conto; ma anche pretestuosità e strumentalizzazioni dovrebbero avere un qualche limite: pudore, se non per buon senso. Personaggi come l’ex ministro Maurizio Sacconi, o l’ex sotto-segretaria Eugenia
Roccella, evidentemente privi di entrambi, questi limiti non sospettano neppure cosa
siano, e si esibiscono in affermazioni spericolate.
Per Sacconi il film di Bellocchio «è tutt’altro che educativo». A parte questa
inquietante concezione dell’arte con funzione educativa e pedagogica, su cosa si fonda
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questo accigliato giudizio? Sacconi il film l’ha visto? No, ammette; ma una persona
che stima sì, «(…) e mi ha riferito di un assoluto disprezzo per la tesi di coloro che
nel dubbio scelsero il principio di precauzione in favore della vita. Nel caso Englaro ci
fu nel Parlamento e nel paese un confronto alto che vide impegnata la buona politica
da una parte e dall’altra. Non sarebbe quindi educativa un’opera nella quale la tesi opposta a quella di colui che l’ha diretta venga descritta come una cinica operazione di
asservimento al capo-partito e attraverso di esso alla chiesa, verso la quale i pregiudizi
di Bellocchio non sarebbero tra l’altro nuovi».
Abbiamo avuto ben modo di vedere – e lo si ricorda perfettamente – la “buona
politica” venuta dalla “parte” che è di Sacconi: dal vergognoso «Eluana è in grado
di procreare» di Silvio Berlusconi, al congestionato Gaetano Quagliariello che urla
nell’emiciclo del Senato all’indirizzo dei senatori del centro-sinistra: «Assassini!».
Poteva esimersi dal dire la sua la ex sottosegretaria Eugenia Roccella? No, la
loquacissima zuava pontificia doveva comunicare la sua riflessione sul film di Bellocchio, una sorta di dovere civico. Ecco quello che ha detto: «Prevedibile, scontato,
anti-cattolico, com’era lecito attendersi; e dominato dai sentimenti dell’anti-politica». Ullallà!
E su cosa si basa un così negativo giudizio? L’ha visto? «Il film non l’ho ancora
visto (…)» ci fa sapere. Anche lei!!! Però «da quello che mi hanno raccontato si tratta
di un film scontato, con una storia prevedibile, e che di fatto non racconta quasi nulla
della vicenda di Eluana». Il film non l’ha visto, e però «(…) da quello che ho capito mi pare sia un film in
cui la politica è raccontata solo in maniera cinica e servile, mentre il film non dà conto
della straordinaria e generosa battaglia politica che è stata fatta sia per salvare la vita
a Eluana, ma anche per impedire che un tribunale potesse decidere della vita e della
morte di una persona».
Proseguendo nella sua recensione del film non visto, Eugenia Roccella sostiene
che «l’ossessione religiosa e anticattolica di Bellocchio: ma questa non è una novità e
può anche far parte della sua libertà creativa (…)» Bontà sua.
Stupirsi? Tutto sommato no. Eugenia Roccella, per esempio, tempo fa, ha trovato tempo e modo per scagliarsi contro una storia di Dylan Dog. Anche in quel caso
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si esibì in giudizi aspri che poi rettificò in qualche modo. Non aveva letto la storia.
Per anni siamo stati governati da personaggi simili: capaci di straparlare di cose
che non conoscono, trinciando giudizi sulla base di quanto altri hanno loro riferito:
la cifra di quello che sono capaci di essere; i guai e i guasti di cui sono stati capaci li si
sta ancora pagando.
Sur le fruit coupé en deux
au miroir et de ma chambre
Sur mon lit coquille vide
J’écris ton nom
Sur mon chien gourmand et
tendre
Sur ses oreilles dressées
Sur sa patte maladroite
J’écris ton nom
Sur le tremplin de ma porte
Sur les objets familiers
Sur le flot du feu béni
J’écris ton nom
Sur toute chair accordée
Sur le front de mes amis
Sur chaque main qui se tend
Si erano precipitati, scodinzolanti, e scagliato i loro “crucifige” nei confronti di
Bella Addormentata, rasentando il ridicolo, perché i loro anatemi erano accompagnati
dall’ammissione che loro il film non l’avevano neppure visto. Il giudizio di Maurizio
Sacconi si fondava sulle confidenze di «persona che stima», quello di Eugenia Roccella «da quello che mi hanno raccontato». Zuavi pontifici in servizio permanente attivo,
sono stati spiazzati proprio oltre-tevere. Perché quasi contemporaneamente la Conferenza Episcopale Italiana non bocciava il film di Marco Bellocchio; anzi, lo definisce
«film complesso che farà discutere… problematico e opportuno per dibattiti».
È una valutazione pastorale articolata e aperta, riferisce l’agenzia AdN-Kronos
in un lungo dispaccio da Città del Vaticano, in cui si possono riscontrare elementi
positivi e critiche, quella proposta dalla Cei sull’ultimo film di Marco Bellocchio, Bella
addormentata dedicato al caso di Eluana Englaro e alle tematiche connesse con l’eutanasia, il fine vita e il dibattito che ne è scaturito in Italia. Nella scheda dell’opera di
Bellocchio a cura della Commissione nazionale valutazione film della Cei, il giudizio
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“pastorale” recita: «il film è da valutare come complesso, problematico e opportuno
per dibattiti». Ancora si spiega che «il film può essere utilizzato in programmazione
ordinaria, ben tenendo presenti le ampie sfaccettature dei temi trattati, che chiamano
in causa sensibilità civili e spirituali, sfere pubbliche e private, istanze politiche difficili
e dolorose». «L’autore» - si legge ancora - «mette il proprio, lungo mestiere al servizio
di un testo quasi ‘semplicÈ e discorsivo e tuttavia punteggiato da notazioni, passaggi,
soluzioni narrative coerenti con il bagaglio culturale e etico del cineasta di Piacenza…
Giusto corredare la visione con supporti critici e, in successive occasioni, approfondire
gli argomenti con contributi e supporti di riflessione». Insomma, il film fa discutere,
non è perfetto, ma questo è anche il suo pregio. Tanto che nella valutazione più strettamente critica dell’opera si afferma: «Intorno agli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro (siamo nel febbraio 2009), Bellocchio costruisce quattro vicende che vorrebbero
essere esemplari della complessità di un dibattito, che chiede certamente a tutti uno
sforzo in termini di dialogo e di reciproco rispetto per superare contrasti ruvidi, aspri,
scostanti che spesso non portano a niente».
Nel film «il pro e il contro rispetto all’applicazione dell’eutanasia svariano dalla
politica alla militanza religiosa, da una opposizione radicale agli eccessi di un’accettazione sorda e fuori misura». Ancora si sottolinea che «non sembra bene amalgamato
l’incontro tra realtà e finzione in questi episodi affidati dal regista ad una rappresentazione elegante e preziosa, lucida nella gestione delle situazioni e al tempo stesso
carica di notazioni non prive di ferma denuncia sociale e politica, tuttavia non privi di
uno sguardo fuori centro e sbrigativo… Una veste narrativa calibrata e meditata tiene
talvolta in secondo piano l’attenzione autentica e sofferta per il problema del fine vita,
per la sofferenza dell’essere umano e per chi a questa sofferenza si dedica». Valutazione
critica attenta, quindi, con qualche rilievo negativo, ma l’interessa per la storia e per
la modalità con cui viene raccontata da Bellocchio, emerge in modo sostanziale dalla
valutazione della Cei.
Chi glielo va a spiegare, ora, a Sacconi e Roccella, secondo i quali Bella Addormentata è un film «tutt’altro che educativo», «Prevedibile, scontato, anti-cattolico,
com’era lecito attendersi; e dominato dai sentimenti dell’anti-politica»?
Sacconi, tetragono, insiste nella sua personale crociata. Così, durante un conve80
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gno dell’associazione “Magna Carta Nordest” a Conegliano, trova il modo di dire che
«è ora che il Parlamento si esprima verificando quale sia la volontà dei rappresentanti
del popolo circa la difesa della vita nelle condizioni di massima fragilità, senza delegare questa decisione fondamentale a tribunali, consorterie o salotti. Sono ormai molti
i sintomi del nichilismo valoriale che ha il potere di affievolire le energie vitali della
società e di incoraggiare il declino economico e sociale. Selezione genetica, eutanasia,
negazione del primato della famiglia naturale, liberalizzazione delle droghe sono temi
di impegno politico per coloro che affermarono di volere una società più libera ove
ogni desiderio diventa diritto pubblico».
Un delirio. I credenti cattolici (e non solo loro, beninteso) può cercare un antidoto nelle pagine di Panorama, che ospita un intervento di Enzo Bianchi, priore della
comunità ecumenica di Bose e spesso voce fuori dal coro del mainstream cattolico. Bianchi racconta del cardinale Carlo Maria Martini, che conosceva bene. «Come per
papa Giovanni era stato detto che era un papa ingenuo e buonista», scrive Bianchi, «così per il cardinale Martini c’è chi dice che era imprudente e addirittura non
consonante con il magistero tradizionale della Chiesa, uno “passato dalla parte dei
babilonesi”. Avendolo conosciuto e frequentato per quasi 40 anni, dico solo che era
un vescovo senza strategie né tattiche né calcoli di politica ecclesiastica, che non fece
mai nulla per diventare vescovo né in seguito per diventare qualcosa di pi: fece solo
ciò che la sua assiduità al Vangelo gli chiedeva, anche di fronte alle contraddizioni e
alle avversità poste davanti a lui da quelli di casa sua, lavorando sempre per l’unità e
la comunione della Chiesa». Quella di Martini, è stata «una Chiesa in dialogo, una
Chiesa chiamata all’unità nella diversità, una Chiesa attenta a incontrare l’altro come
altro, senza imposizioni, senza preconcetti, senza steccati. In altre parole, una Chiesa
secondo lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II…».
Chi scrive non è particolarmente esperto di cose vaticane. Però è immaginabile
che anche al di là del Tevere si sia rimasti impressionati per la imponente folla che
ha partecipato al funerale del cardinale Martini, e forse più d’uno avrà pensato che
non è stato un buon consiglio, quello dato a Benedetto XVI di non prendere parte
personalmente alle esequie, limitandosi a un messaggio; è immaginabile che anche al
di là del Tevere si sia attentamente soppesata l’ultima, postuma intervista rilasciata da
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Martini e pubblicata dal Corriere della Sera, e ancor più la toccante testimonianza
della nipote, pubblicata su vari giornali; e certamente non saranno sfuggiti i sedici minuti di applausi, vera e propria ovazione con cui Venezia ha accolto Bellocchio e cast,
dopo la proiezione di Bella Addormentata. Con buona pace del presidente emerito
della CEI Camillo Ruini, anche di recente ascoltato da Aldo Cazzullo per Il Corriere
della Sera, par essere un’altra l’attuale CEI, quella guidata da Angelo Bagnasco; ed è
immaginabile che si sia compreso che occorre maggiore prudenza, che il popolo dei
credenti non ha l’anello al naso, e quando si deve, sa scegliere e capire secondo buon
senso e misericordia. Così, per tornare alla cronaca spicciola, qualcuno avverta gli
zuavi Sacconi e Roccella che c’è stato un mutamento di rotta e di strategia; e già che
c’è, avverta anche Avvenire, che della CEI è pur sempre l’organo… E ricordi loro che
troppo zelo spesso fa brutti scherzi.
J’écris ton nom
Sur la vitre des surprises
Sur les lèvres attentives
Bien au-dessus du silence
J’écris ton nom
Sur mes refuges détruits
Sur mes phares écroulés
Sur les murs de mon ennui
J’écris ton nom
Sur l’absence sans désirs
Sur la solitude nue
Sur les marches de la mort
J’écris ton nom
Sur la santé revenue
Sur le risque disparu
Sur l’espoir sans souvenirs
J’écris ton nom
Et par le pouvoir d’un mot
Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître
Pour te nommer
Liberté.
(Paul Eluard)
Nel giro di pochi giorni si sono verificati due fatti di grande rilievo politico, e
che avrebbero dovuto avere anche un rilievo mediatico, che invece non c’è stato. Mi
riferisco all’iniziativa che Marco Pannella ha definito «la battitura della speranza»:
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battitura che ha avuto luogo in decine di carceri, ha coinvolto centinaia, migliaia di
detenuti; e che si collega all’altra grande, straordinaria iniziativa di nonviolenza di
massa che sono stati i quattro giorni di digiuno e di silenzio di metà luglio; iniziativa
che ha coinvolto parecchie migliaia di persone dentro e fuori il carcere. Rari i servizi
televisivi, ancora più rare le cronache sui giornali; nessuno dei pur numerosi editorialisti, commentatori, titolari di rubrica, che pure intervengono su tutto e di più, che
abbia prestato la benché minima attenzione a queste due iniziative di nonviolenza di
massa.
E in parallelo, cosa accade? Se per esempio qualche militante del movimento
No TAV si abbandona a gesti violenti, se durante un corteo si incendiano automobili,
cassonetti dell’immondizia o vetrine di banche e agenzie interinali vengono infrante;
o peggio, se degli sciagurati come periodicamente accade, inviano pacchi esplosivi o
feriscono alle gambe dirigenti di azienda e imprenditori, i mezzi di comunicazione
per giorni e giorni diffondono i e i documenti dei violenti, ne propagandano i comunicati e le parole d’ordine; se invece delle gesta sconsiderate di pochi isolati, si tratta di
grandi iniziative nonviolente, le si mortifica ignorandole; il comportamento violento
viene premiato con il massimo della visibilità; quello del nonviolento censurato. Esagero se penso che i responsabili di questo modo di fare, sono complici dei
violenti? Questo, naturalmente, non ci deve far desistere dalla pratica nonviolenta, al
contrario; occorre essere più ostinati, determinati, convinti della giustezza non solo
della causa, ma anche del mezzo, della pratica utilizzate. Però dobbiamo esserne consapevoli e cercare le necessarie contromisure.
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Inviare i dattiloscritti a:
[email protected]
oppure Salvatore Jemma, Piazza Aldrovandi 19, 40125 Bologna.
istànte o instànte dal lat. instàntem part. pres d’instàre sovrastare, e fig. esser vicino,
presente, imminente, pressante (v. Instare).
Come aggett. Che insta, Che incalza; come
sost. Il tempo che preme, ossia Il momento
presente che tosto passa, Attimo.
— Negli uffici: Colui che fa una domanda .
in giudizio.
Deriv. Istantàneo; Istànza.
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