SCUOLA 2010 DI LIBERALISMO DI ROMA
CI SENTIVAMO UNA NAZIONE,
DIVENIMMO UNO STATO
COSA RIMANE OGGI
DEL RISORGIMENTO LIBERALE
Considerazioni e prospettive a 150 anni dall’Unità d’Italia
SARO FRENI
Introduzione
“Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il
possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di
povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace
questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei
cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli
uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente
senza scrupoli, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per
altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le
orgogliose verità che ha detto. Collabori.”1
Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra
amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto.” Il
Principe era depresso: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe
poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso,
un secolo, due secoli; e dopo sarà diverso, ma peggiore”2
No, il Principe di Salina non collaborò. E, forse, i Sedàra l'hanno
avuta vinta.
Facili a riconoscersi, sono le pagine del Gattopardo.
Perché abbiamo iniziato con una citazione così sconsolante? Per
cinismo, per fornire argomenti ai neoborbonici, ai revisionisti, ai
sanfedisti, ai nostalgici di tutte le Vandee?
Ovviamente, no.
Non è questo il senso del libro di Tomasi di Lampedusa. Il
Gattopardo è, prima che un libro politico, una riflessione
sull'uomo e sulla sua miserabile condizione terrena. E' la perenne
1 G. Tomasi di Lampedusa – Il Gattopardo, Istituto geografico De Agostini, 1985 (edizione
originale Feltrinelli, 1958), pag. 238
2 Ibid. pag. 242
1
allusione alla precarietà dell'esistenza, continuamente insidiata
dalla preveggenza della morte. Ma certamente è una grande opera
anche politica (non banalmente politicante, non il Libretto Rosso
degli autonomisti) paradossalmente proprio quando mostra i
limiti della politica, la sua ingenua pretesa di risolvere
l'irrisolvibile, le sue generosità vane, le sue soperchierie e le sue
bassezze.
Certo, ogni capolavoro, anche il più antico, dialoga col presente.
Pone quesiti sull'oggi. Interroga il lettore, lo fa riflettere. Anche
sull'attualità: sull'arrivismo dei Sedàra, di tutti i Sedàra d'Italia,
sulle speranze tradite, sulle virtù offese.
Ma Il Gattopardo non è riducibile al gattopardismo. Non ho
scelto di iniziare così, con l'emissario Chevalley e col Principe di
Salina, per poter dire che tutto cambia perché nulla cambi, per
ammiccare all'indignazione, alla polemica facile sui gaglioffi del
trasformismo e del malaffare. Né tanto meno per sostenere che, a
conti fatti, si stava meglio prima.
La ragione è un'altra.
Ed è che Il Gattopardo rivela l'altra faccia del Risorgimento. Non
perché sia un romanzo “dalla parte dei vinti”, giacché vinti e
vincitori si mescolano e si confondono, ma perché rappresenta
l'ombra perenne di scetticismo e di disincanto – di cinismo o di
secolare saggezza – che aleggia sul Risorgimento italiano e su
tutti i “risorgimenti” dell'umanità, cioè su tutti i tentativi di
redimere l'uomo attraverso uno slancio collettivo: inutili anche
quando questo slancio è nobile e disinteressato, anche quando è
sorretto da una grande tensione ideale.
Quel parlare iperbolico e paradossale del Principe spiazza il
povero emissario del Regno, garbato, naif, ottimista e razionale.
E questo, per una ragione molto semplice. Chevalley vede nel
Risorgimento la grande possibilità di riscatto delle miserabili
2
plebi meridionali. Il Principe di Salina scorge solo uno dei tanti
tentativi di svegliare la Sicilia dal suo torpore secolare. E ne
preconizza il fallimento.
Ma il Risorgimento è davvero fallito o no? Le speranze di
Chevalley erano, tutto sommato, ben riposte? Ha prodotto, il
Risorgimento, un'etica civile condivisa? Ha dato vita ad un mito
forte, fondante, creduto e rispettato? Che cosa è rimasto di
quell'eredità oggi, a pochi mesi dal suo centocinquantesimo
anniversario?
Le pagine che seguono non pretendono di offrire risposte a
quesiti così impegnativi. Contengono soltanto, molto più
modestamente, qualche riflessione.
3
Festeggiare?
In fin dei conti, non sarebbe meglio ignorare tutto quanto e
lasciar perdere? Non è preferibile far finta di niente,
dimenticarsene, come si fa con i compleanni indesiderati, quelli
che è meglio non festeggiare perché ricordano l'età, gli acciacchi,
la giovinezza perduta?
E' un paradosso, si capisce. Una nazione, anche la più
scalcagnata, ricorda con orgoglio la sua nascita. Deve farlo. Se
vogliamo, le conviene: la classe politica al potere, in ogni luogo e
in ogni tempo, sfrutta le ricorrenze per pronunciare discorsi
ispirati, tagliare nastri, inaugurare monumenti; in definitiva, per
darsi lustro, suggerendo una continuità tra il passato – glorioso –
e il presente. Si dà fondo a tutta la retorica di cui si dispone,
perché in fondo è una retorica facile, a costo zero. E' una festa. E
il garbo impone che, durante le feste, non si facciano le pulci al
festeggiato, neanche al più mascalzone.
In condizioni normali, dicevo, avviene questo.
Oggi, in Italia, no.
La festa si è trasformata in un processo.
E' come festeggiare l'anniversario di matrimonio nello studio
dall'avvocato divorzista. E il tema del divorzio, della secessione
di fatto, tra una parte e l'altra dell'Italia è il leitmotiv di questi
giorni. Ora, beninteso, non bisogna fare della retorica
patriottarda. Altre nazioni hanno vissuto, e vivono, conflitti ben
più sanguinosi e coltivano nel loro seno forme di separatismo
ben più pericolose di quelle di Umberto Bossi e Raffaele
Lombardo. Quindi – senza sentimentalismi posticci, senza
invocare la Patria ferita – tanto vale sfruttare questo
4
centocinquantenario per rifletterci su. Dovrebbero farlo tutti,
politici e intellettuali, attraverso il sano esercizio critico della
ragione e con l'ausilio della buona storiografia. Anche della
storiografia revisionista? Certo, anche. Ogni solida storiografia è
revisionista. Ogni nuova ricerca mette in discussione le tesi
precedenti: le conferma, le integra, le supera o le confuta.
Altrimenti non è storiografia: è dogma, verità rivelata, atto di
fede.
Ogni interpretazione del Risorgimento, come di tutti gli eventi, è
ben accetta, purché supportata da argomenti razionali e
verificabili.
Ma non sembra accadere nemmeno questo.
Per i politici, è una grana come le altre. Si bussa a quattrini, per
soddisfare qualche clientela nel nome, si capisce, di Mazzini e
Cavour.
Gli intellettuali latitano. Anche perché il Risorgimento non è più
nei loro orizzonti. Una volta ne parlavano, anche solo per
contestarlo, come Gramsci. Ora non più. Nel tempo della
globalizzazione, viene considerato un evento un po' provinciale,
da vecchie zie, un piccolo altarino privato.
Qualcuno, tra i dotti, ha segnato un'eccezione. Soprattutto sulle
pagine del Corriere della Sera, rifugio di liberali che
custodiscono le antiche memorie in modo intelligente e non
stantio. Ne parleremo dopo. Per adesso, basta notare che mai
come adesso il Risorgimento è messo in discussione, contestato,
svillaneggiato. Si dirà: i nemici del Risorgimento ci sono sempre
stati, si può dire che l'anti-Risorgimento nasca col Risorgimento.
Questo è vero, ed è più che comprensibile: ogni fenomeno storico
genera degli sconfitti e quindi dei contestatori, dalla Rivoluzione
industriale alla Rivoluzione francese. Ogni tesi genera un'antitesi.
5
Ma oggi, qui sta la novità, il Risorgimento è contestato da una
buona parte della classe politica di governo. La sua eredità viene
apertamente rifiutata o semplicemente ignorata nei fatti. Nel
passato, il Risorgimento veniva onorato anche da quella parte di
establishment che non ci credeva troppo. Persino i democristiani
dovettero assumerlo nella loro cultura politica, volenti o nolenti.
Tutti, nel passato, dovevano fare i conti col Risorgimento, con la
sua eredità, anche con i suoi limiti. Era un riferimento obbligato.
Per molti anni, la cultura italiana non poté prescindere dalla
riflessione sul Risorgimento. Da Gobetti a Gramsci, da Gentile a
Rosario Romeo, vi fu chi ne mise in luce le manchevolezze e le
pose a base dell'arretratezza italiana, giacché l'Unità aveva
lasciato le masse fuori dalla porta e non aveva offerto una
soluzione alla questione sociale; e chi, al contrario, pur non
negando alcune ombre, lo ritenne un mito a cui abbeverarsi, da
vivificare e rinnovare.
Per molto tempo, anche in ambito accademico, la storia
contemporanea fu, soprattutto, storia del Risorgimento. E, a
livello popolare, non si poteva “parlar male di Garibaldi”.
Adesso, di Garibaldi, alcuni parlano male, ma i più non ne
parlano affatto.
Prevale – almeno, così pare – l'indifferenza.
Forse non è un caso se i preparativi per la celebrazione sembrano
ancora in alto mare. Tra il Comitato per i festeggiamenti e il
governo stanno volando i piatti. Il primo lamenta il disinteresse
dei politici e dell'opinione pubblica; il secondo assume un
atteggiamento rassicurante e fiducioso.
Potrebbe trattarsi di due fatti slegati: un conto è la contestazione
del Risorgimento in sede politica e storiografica, un altro sono le
difficoltà che si incontrano nell'organizzare un evento.
6
Può darsi che tra le due cose non vi sia alcun rapporto, e sarebbe
bene che fosse così.
Ma è anche possibile che un nesso ci sia.
Questa è la tesi di Ernesto Galli della Loggia. E' lui ad aver dato
il la al dibattito con un articolo sul Corriere della Sera, il 20
luglio 20093.
Il punto drammatico sta nella premessa di tutto ciò. Nel fatto evidente che la
classe politica, sia di destra sia di sinistra, messa di fronte a uno snodo
decisivo della storia d'Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità
di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore – e dunque
dovendosi fare un'idea dell'uno e dell'altro, nonché di assumersi la
responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi
in essa – non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea
pensare. E non sa farlo per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà
essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi
l'Italia, e l'essere italiani.
Qualche giorno dopo, Galli della Loggia persiste nella polemica.
E mette in luce un una strana verità.
Paradossalmente, l'Italia è un dato politico reale esclusivamente per la Lega:
ma lo è solo perché oggetto della sua radicale avversione. E' significativo,
peraltro, che perfino alle più ripugnanti proposte leghiste, come quella
recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali, i
suoi avversari, lungi dal contrapporre l'idea d'Italia e di unità nazionale, si
limitino a invocare, come ha invocato il presidente Fini, il “rispetto della
Costituzione”. Quasi che dell'Italia non possa pensarsi altra difesa, ormai, che
quella riservata a un bene “giuridicamente protetto”.
Oggi, insomma, salvo che per la Lega, L'Italia non esiste più per le nostre
culture politiche. Non era così nella prima Repubblica, la quale, pur se nata in
3 E. Galli della Loggia, Noi italiani senza memoria. I 150 anni dell'Unità e il vuoto d'idee in
“Corriere della Sera”, 20 luglio 2009. A questo articolo ne sono seguiti altri sullo stesso
argomento, anche questi pubblicati sul Corriere. L'Italia dimenticata. Le colpe delle classi
dirigenti (31 luglio 2007); Una politica senza cultura. Catalogo di idee modeste e casuali (9
agosto 2009); La politica ha perduto il senso del Paese (14 agosto 2009); La Nazione
abbandonata. Il dibattito sull'idea di Italia (23 agosto 2009).
7
un momento in cui la coscienza nazional-statale era stata messa a dura prova
dalla catastrofe bellica, vide tuttavia la non infeconda dialettica tra culture
politiche ognuna in stretto rapporto con la cultura nazionale e con una forte
idea d'Italia. Si pensi da un lato alla cultura cattolica e a quella comunista,
entrambe legate al dato centrale della nostra storia rappresentato dalla
lontananza delle masse popolari rispetto alla costruzione dello stato unitario –
e dall'altro alla cultura laico-socialista, viceversa appassionatamente
identificata con tale costruzione.4
La lunga citazione è giustificata, credo, da un paio di ragioni. La
prima è che le opinioni espresse dal professore sono fondate e
ragionevoli. La seconda è che queste opinioni, severe e talvolta
urticanti,
hanno
suscitato
un
discussione
pubblica
più
significativa del solito. Insomma, non le solite chiacchiere da
ombrellone5.
La serie di articoli citati addebita alla classe dirigente attuale
delle gravi pecche culturali. L'accusa più significativa riguarda,
mi pare, la totale assenza di consapevolezza storica. E senza
un'idea di fondo, una prospettiva, un progetto, la politica si riduce
a occupazione del potere.
Il potere, in sé, non va criminalizzato. La politica è anche, forse
soprattutto, esercizio del potere; nel limite delle leggi. Ma se il
potere di cui si dispone, non viene messo al servizio non dico di
un ideale – che suona un po' retorico – ma di un almeno uno
straccio di idea, allora la politica diventa poco più che
clientelismo. La costruzione del consenso non è più uno
strumento funzionale a un progetto, ma il progetto stesso: quello,
poco nobile, di occupare le poltrone. Il partito non è più un
4 E. Galli della Loggia, L'Italia dimenticata, in “Corriere della Sera”, 31 luglio 2009
5 Qualche estate fa, in mancanza di meglio, i giornali si posero il fondamentale quesito se Vasco
Rossi fosse di destra o di sinistra. Cfr. G. G. Vecchi, “Vasco e Ligabue non sono con voi”.
Duello tra il Secolo d'Italia e l'Unità in “Corriere della Sera”, 20 luglio 2005. Le prove a carico
di Ligabue, peraltro, erano piuttosto deboli. Si era limitato a concedere, bontà sua, che “ci sono
degli intelligenti a destra”. Tanto è bastato per metterlo in mezzo. Questo, giusto per dire che
Galli della Loggia ha, se non altro, elevato il livello medio delle discussioni balneari.
8
mezzo, ma un fine, e allora diventa una burocrazia di mestissimi
funzionari interessata a perpetuare se stessa, di praticoni della
democrazia, di professionisti della chiacchiera.
Ernesto Galli della Loggia denuncia da tempo questo stato di
cose. La sua tesi si articola, sostanzialmente, in tre punti. Il primo
è quello che abbiamo detto poc'anzi: la perdita di senso dell'idea
nazionale e le colpe di una classe dirigente inadeguata. Il secondo
è la polemica contro la cultura azionista, i suoi eredi, i suoi
ripetitori. Il terzo, collegato ai primi due e sviluppato di striscio
in uno degli articoli che abbiamo riproposto, è la contestazione
dell'approccio sacrale alla costituzione.
I tre argomenti sono in stretta relazione tra di loro.
La cultura azionista, per molti versi apprezzabile e feconda, ha
avuto il limite, secondo Galli della Loggia, di accreditare l'idea
che esistessero due Italie: un'Italia virtuosa e perbene e un'altra
Italia, cialtrona e maggioritaria, da rieducare. Da qui la tentazione
di una pedagogia politica che deve discendere dall'alto. E da qui
anche l'idea perfezionistica, rigorista e torinese di cambiare gli
italiani6: di farne una cosa diversa da quel gregge anarcoide,
superstizioso e privo di senso civico, che sono sempre stati per
antica tradizione.
Gli azionisti non accettavano l'Italia per quella che era e
disegnavano, a loro uso e consumo, una Patria ideale che non era
mai esistita. Un'Italia anti-italiana.
Ma siccome ogni storia è storia contemporanea, Galli della
Loggia non ce l'ha solo con gli azionisti storici, per lo più passati
a miglior vita, ma con loro eredi più o meno spuri.
E qui veniamo alla costituzione repubblicana, di cui i tardoazionisti sono i più tenaci difensori. Galli della Loggia non nega
che la costituzione, in quanto vigente, vada rispettata. Ma
6 Per una ragionata difesa dell'azionismo, cfr. A. Carioti - Maledetti Azionisti, Editori Riuniti,
Roma, 2001
9
respinge l'idea che si debba istituire un culto laico attorno ad
essa. Per questo, il Nostro ha polemizzato con il ministro
Gelmini, quando parve ch'ella volesse inserire un'ora di
“costituzione”,
che
sapeva
troppo
d'indottrinamento,
nei
programmi scolastici7.
Il patriottismo costituzionale di Fini non basta, dice Galli della
Loggia. Bisogna ripensare l'idea di Stato-nazione, un po' troppo
frettolosamente buttata via. E riempirla di significato.
Riempirla di che? In effetti, se la domanda è facile, la risposta è
ardua. Centocinquant'anni sono tanti. Il mondo è cambiato. In che
senso ci si può ancora rifare a Mazzini, Cavour, D'Azeglio?
Parlare di ideologia risorgimentale, oggi, può sembrare un
anacronismo; peggio ancora, un vezzo intellettualistico, buono al
massimo per infiocchettare qualche discorso celebrativo, e nulla
più. Ma forse non è così.
Sergio Romano ha scritto un paio di libri, al riguardo, e un bel po'
di articoli. In un volume – Libera Chiesa. Libero Stato? – il cui
titolo è l'amaro aggiornamento del motto cavouriano8, l'ex
7 Cfr. E. Galli della Loggia, Ma non è un testo sacro e intoccabile, in “Corriere della Sera”, 25
gennaio 2010
8 Denis Mack Smith, nella sua biografia dedicata allo statista, descrive i rapporti tra Cavour e la
Chiesa alla luce della lezione di Machiavelli.
«Uno scrittore italiano ammirato da Cavour era Machiavelli, a suo giudizio il massimo filosofo del
Cinquecento; e quel che trovava in lui particolarmente memorabile era l'invettiva contro il
potere temporale dei papi. Personalmente, abbandonò la credenza dell'infallibilità papale dopo
aver letto Guizot e Benjamin Constant. (…) Durante gli anni trascorsi nell'esercito, Cavour
usava leggere e meditare la Bibbia; ma gli dispiaceva constatare l'insufficienza degli argomenti
razionali in pro della fede, e concluse che per temperamento e forma mentis non avrebbe mai
nutrito alcuna credenza profonda.
«Cionondimeno, era abbastanza pragmatico e opportunista per accettare l'idea che il cattolicesimo
fosse socialmente utile, in specie per quanti, mentalmente più deboli, non erano in grado di
pensare con la loro testa, e potevano pertanto trovare appoggio e conforto nell'osservanza dei
riti e nell'assoluzione. C'era fors'anche un'utilità nel fingere di credere, sì da offrire un buon
esempio alle masse. A quest'atteggiamento si accompagnava un moderato anticlericalismo, che
si cristallizzò nella sua mente quando gli accadde d'imbattersi in vistosi esempi di
comportamenti immorali tra il clero delle campagne. Ostile per istinto e ragione ad ogni specie
di persecuzione, ad opera della Chiesa o contro la Chiesa, l'esperienza lo indusse ad un eguale
ostilità verso l'intervento clericale in politica. Attraverso Toqueville e la Westminster Review,
come pure attraverso l'osservazione diretta in Svizzera, cominciò a conoscere altre società,
dove una libera Chiesa poteva esistere in un libero Stato con vantaggio di entrambi”.»
E più oltre, lo storico inglese, delinea il tratto di tolleranza umana che allontanava Cavour dal
10
ambasciatore lamenta l'abbandono della tradizione laica e coglie
un'eccessiva condiscendenza verso la Chiesa Cattolica: troppi
politici della Seconda Repubblica – è l'idea di Romano – corrono
a baciare le pantofole ai preti, credendo di trarne un vantaggio
elettorale. Questa deriva clericale fa a pugni, sostiene, con i
costumi dell'Italia risorgimentale e post-risorgimentale. La Destra
storica, spiega, era contraria alle pretese clericali per ragioni
hegeliane, che volevano lo Stato al di sopra delle confessioni 9. La
Sinistra, da quella liberale a quella radicale, da quella
repubblicana a quella socialista, era schiettamente anticlericale
per lunga consuetudine, spesso con punte di asprezza che oggi
non oseremmo neppure immaginare. Ma l'Italia di oggi è
irriconoscibile anche rispetto alla tanto vituperata Prima
fanatismo religioso e dal clericalismo petulante e impiccione.
«E' difficile negare ch'egli rimanesse fondamentalmente, seppur moderatamente, anticlericale. Lui
stesso si diceva “antipapista”, e alla vigilia delle elezioni scrisse che non scorgeva nessuna
possibilità di conciliazione tra Chiesa e Stato: in effetti, era rassegnato al perpetuarsi del
“dissidio”. Secondo lui, questo stato di cose offriva anzi dei vantaggi, giacché “non è possibile il
conservare la nostra influenza in Italia se veniamo a patti col pontefice”.
«Malgrado l'ammonimento di Pio IX che soltanto il cattolicesimo offriva la possibilità della
salvezza, Cavour credeva in una politica di tolleranza verso le altre fedi, e tuttora mal sopportava i
dogmi di qualsiasi specie. Aveva constatato che un autentico senso religioso era più sviluppato in
Inghilterra e in Scozia, paesi caratterizzati dalla libertà e da un indulgente tolleranza, mentre nella
cattolica Italia, più che altrove il sentimento religioso languiva. Non gli piaceva il fatto che,
laddove lo Statuto del 1848 sanciva la libertà di culto, l'antiquato codice penale invece la negava, e
che i magistrati tradizionalisti preferissero conformarsi a quest'ultimo piuttosto che ai princìpi
costituzionali.»
D. Mack Smith – Cavour. Il grande tessitore dell'Unità d'Italia, edizione speciale per “Il
Giornale”, (prima edizione Rcs Libri, 1985), pag. 18-19 e 145
9 Giampiero Carocci, in un volume che riesce ad essere un buon profilo della cultura politica
italiana, dal Risorgimento ai giorni nostri, illustra la particolarità del conservatorismo
postunitario.
«Anche i moderati erano in qualche modo anticlericali, e ciò contribuiva a dare alla loro politica,
quanto meno a una loro parte, un fondo radicale. Infatti nel 1882, più con soddisfazione che
come lamentela, Silvio Spaventa ravvisava un carattere radicale nel partito moderato che, privo
dell'appoggio della Chiesa, aveva, sì, creato il nuovo Stato, ma, non avendo a sua disposizione
le forze materiali per conservarlo, cioè la religione, doveva ricorrere a una politica di tipo
radicale che si intrecciava con quella di tipo giacobino cui accenneremo più avanti. Ma molti
dei moderati più autorevoli, I Ricasoli, i Minghetti, gli Jacini, mentre rifiutavano il potere
temporale della Chiesa tenevano, è stato detto, “in altissimo conto il ruolo svolto dai valori e
dall'autorità spirituale nel cementare la comunità sociale”. Essi erano un ibrido, una eccezione
peculiare dell'Italia nel panorama europeo: erano insieme anticlericali e conservatori.
«C'erano due tipi di anticlericalismo: quello di matrice cattolica liberale e quello di matrice laica e
razionalista. L'anticlericalismo dei moderati era del primo tipo, ma essi non si limitarono a
praticare solo questo. Usarono l'ideologia positivista, laica, patriottica, per fare gli italiani e per
educare il popolo delle città, sul quale la Chiesa aveva una presa minore che sui contadini, allo
scopo di tenerlo sotto controllo, ma anche nel tentativo di allargare le basi di consenso dello
Stato liberale». G. Carocci – Destra e sinistra nella storia d'Italia, Laterza, Bari, 2002, pag. 5
11
Repubblica e persino rispetto al Fascismo, che sottoscrisse sì gli
accordi del Laterano, ma con l'intenzione di piegare la Chiesa ad
un progetto nazionale. Sergio Romano conclude con parole
amare e rassegnate il suo saggio, così pertinenti che non
possiamo non citarle per intero.
Non posso offrire al lettore né conclusioni né prospettive. Mi limito a
constatare che è nata in questi ultimi anni un'Italia molto diversa da quella
delle generazioni postunitarie. Non la riconoscerebbero come propria i
cattolici liberali, autori di una buona legge (quella delle Guarentigie), forse la
migliore fra quelle approvate dalle democrazie europee sui rapporti fra lo
Stato e la Chiesa. Non la riconoscerebbe Benito Mussolini, deciso a usare la
Chiesa e il cattolicesimo italiano per un progetto nazionale e imperiale. Non
la riconoscerebbero Sturzo e De Gasperi, sempre attenti a difendere
l'indipendenza civile dei cattolici e le prerogative dello Stato. Non la
riconoscerebbe Bettino Craxi, promotore di un Concordato che ebbe il merito
di limitare il potere della Chiesa nella società italiana. E non la riconosce
come sua, per quel che vale, neppure l'autore di questo libro 10.
Cerchiamo di capire un po' più a fondo, seppur nei limiti di una
breve tesina, in cosa consistesse – e debba consistere oggi –
l'ideologia risorgimentale11. In fondo, a mio parere, la si può
riassumere nella seguente triade: nazione, libertà e laicità.
Questi tre concetti non sono, ovviamente, degli assoluti. Tutti e
tre sono idee storicamente relative.
A cominciare dallo Stato-Nazione, che è un'idea, se vogliamo,
piuttosto recente.
Anche il concetto di libertà pone dei problemi: dobbiamo
intendere la libertà degli antichi o quella dei moderni?
La laicità nasce con la separazione tra il potere politico e il potere
10 S. Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l'Italia da Pio IX a Benedetto XVI,
Longanesi e C., 2005, Milano, pp. 145-146.
11 Sull'ideologia risorgimentale vedi ancora Carocci, op. cit., in particolare il terzo capitolo, La
“nazionalizzazione delle masse” e lo Stato, pag. 26-35
12
religioso, tra reato e peccato: distinzione a cui, peraltro, tanto per
dire della sua relatività, non tutte le civiltà sono giunte, né è detto
che vi giungeranno.
Ma il fatto che queste tre parole siano inevitabilmente legate ad
un contesto storico determinato, non le rende meno attuali. Anche
oggi, credo che l'ideologia risorgimentale, nazionale, laica e
liberale, abbia un senso. Certamente, va ridefinita. Alle tradizioni
politiche bisogna dare continuamente nuova linfa, altrimenti
diventano aride e inutilizzabili. E per farlo è necessario anche
uno sforzo teorico, atto a comprendere che cosa possano
significare, oggi, la nazione, la libertà e la laicità. Quindi, a
queste tre parole, ne aggiungerei una quarta: la cultura.
La nazione, o meglio l'identificazione di questa con lo Stato, è
stata oggetto di molti attacchi. Lo Stato-nazione in generale, è
stato giudicato inservibile come spazio giuridico di garanzia
rispetto ai poteri extrastatuali, come quelli finanziari. Non solo.
Si è cercato di togliergli legittimità culturale, con la
valorizzazione delle piccole patrie, dei localismi, delle culture
regionali.
Non è il caso di affrontare in questa sede un discorso di così vasta
portata. Ma si può proporre questa tesi: che tra il troppo grande (i
poteri, formali o informali, extrastatuali e sovrastatuali) e il
troppo piccolo (il localismo), lo Stato-nazione sia ancora una
dimensione significativa della politica, e possa continuare ad
esserlo.
Poi c'è la Nazione come lingua e cultura, come tradizione e
comunità. Questa parte della teoria è la più criticata, forse anche
con buone ragioni. Si sostiene che le venerabili tradizioni
nazionali siano state spesso il frutto di invenzioni e
contraffazioni. I “costumi secolari” erano in realtà di recentissimo
conio e vennero spacciati per merce antica allo scopo di conferire
13
ai giovani stati nobiltà e prestigio. Insomma, le tradizioni
nazionali sono niente di più di una costruzione umana. Tuttavia,
anche accettando quest'idea, e cioè che le nazioni siano nate su di
una finzione, ciò non toglie che siano una realtà concreta da
secoli, e non se ne possa non tener conto. La bugia, se era tale, è
stata creduta ormai per troppo tempo.
Per di più, l'Italia nacque prima con i poeti che coi ministri.
Esisteva, da un punto di vista culturale, già prima del 1861.
Certo, con tante divisioni e differenze. Ma pochi possono
ritenere,
col
principe
von
Metternich,
che
fosse
solo
un'espressione geografica.
Quando si parla di nazione, poco dopo si arriva al nazionalismo.
E, in effetti, il Risorgimento fu nazionalista. Ma non nel senso
che il termine assunse con Corradini, Federzoni e Coppola. Il
nazionalismo
risorgimentale
non
fu
un
nazionalismo
imperialista12 . Fu un nazionalismo liberale e/o democratico,
rispettoso del principio di autodeterminazione13.
La mia idea è che l'idea di nazione debba avere, innanzitutto, due
12 Sergio Romano, nel saggio summenzionato, delinea bene le differenze tra il nazionalismo
ottocentesco, liberale, e quello novecentesco, imperialista.
«Si cominciano a intravedere così, in occasione della guerra di Libia, le grandi linee di un
nazionalismo populista, molto diverso da quello che aveva “fatto l'Italia”. Il vecchio era
liberale, borghese, elitario, nutrito di cultura storica e umanistica. Il nuovo aveva una più larga
base democratica e una cultura più rozza, enfatica, aggressiva. Il vecchio era cresciuto contro la
Chiesa e aveva assunto in alcune circostanze, per le necessità della battaglia, caratteri
anticlericali. Il nuovo avrebbe ricercato e ottenuto in molti casi la simpatia e il sostegno della
Chiesa. La famiglia nazional-populista italiana è molto grande ed è composta da molti rami.
Prevale, in alcuni di essi, la motivazione nazionale, in altri la motivazione popolare; e a
seconda della motivazione l'Italia può essere “imperiale” o, con una espressione coniata da
Pascoli, “grande proletaria”. Ma vi è quasi sempre, in ogni ramo, una forte componente
cattolica. I nazionalisti sono convinti che il cattolicesimo sia l'identità profonda della nazione
italiana, e quindi una componente indispensabile del loro programma. Una parte della Chiesa è
convinta che le sue radici siano qui, in Italia, e che il controllo delle anime degli italiani sia il
suo vero, irrinunciabile “potere temporale”.» S. Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Op. Cit.
p. 46
13 Denis Mack Smith, forse per evitare confusioni tra il vecchio e il nuovo nazionalismo,
preferisce parlare di Mazzini come un patriota ma respinge la definizione di nazionalista.
«Giuseppe Mazzini non era un nazionalista; era un patriota. Diversamente da quanto è stato
affermato talvolta, già nel 1836 egli usava il termine “nazionalista in senso peggiorativo; con
esso definiva gli sciovinisti, gli xenofobi e gli imperialisti che intendevano usurpare i diritti
degli altri popoli, mentre il patriottismo non era una forma dilatata di egoismo né era fine a se
stesso, ma era sempre subordinato al rispetto dei diritti, preminenti, dell'umanità.»
D. Mack Smith – Mazzini, Rcs Libri, Milano, 2002, pag. 24
14
significati.
In un primo senso significa valorizzazione della propria cultura.
Non in modo grettamente provinciale. Non facendo le barricate
contro i forestierismi, i libri stranieri e gli hamburger. Ma
recuperando la consapevolezza di un primato, se non morale e
civile, almeno culturale e artistico. Questo impone di non
considerare la cultura un orpello, buono solo per far quattrini a
spese dei turisti.
Vabbé, ma che c'entra col Risorgimento?
C'entra.
L'Unità Italiana è stata preceduta dalla lingua italiana. I profeti
dell'Unità sono stati poeti e romanzieri. La cultura italiana
elaborò un mito a cui si abbeverarono i patrioti del Risorgimento
e le élites politiche del post-risorgimento.
La cultura conta, deve contare. Le classi dirigenti si costruiscono
sulla selezione e sull'educazione, politica e intellettuale. Il
Risorgimento non aveva le masse, si disse; ma a noi, oggi,
mancano le élites.
Nazione significa cultura, ma significa anche indipendenza: ed è
questo il secondo aspetto che vorrei approfondire. Parlo della
sovranità dello stato, da difendere dalle ingerenze vaticane e dalle
prepotenze straniere. Durante la Guerra Fredda, l'Italia si era
trovata sotto l'ombrello americano, e fu una fortuna. Talvolta, si
era presa qualche libertà, concedendosi fugaci giri di valzer, tra
furbizie levantine e veementi sussulti d'orgoglio. Ma adesso il
ricatto della gratitudine non ha più senso. L'Italia ha le mani
libere e deve difendere i suoi interessi, senza egoismi ma anche
senza servilismi.
L'altro puntello dell'ideologia risorgimentale è la libertà. E la
libertà è, prima di tutto, libertà della polis. Libertà dell'Italia da
15
rapporti di dipendenza rispetto alle altre nazioni.
L'indipendenza è un'idea risorgimentale a tutto tondo. Anzi, forse,
il primo insegnamento del Risorgimento.
Ma lo Stato, libero tra gli Stati, non deve diventare oppressore dei
suoi cittadini. Questa è l'altra faccia della libertà. La libertà dallo
Stato. E' la cosiddetta libertà liberale. La libertà borghese,
cosiddetta. Una libertà dagli impedimenti, la garanzia dei diritti
fondamentali, quelli di prima generazione.
L'Italia del centocinquantenario, e quella degli anni a seguire,
dovrà conoscere la differenza tra senso dello Stato e statalismo,
accogliere il primo e respingere il secondo.
In ultimo, la laicità. Il Risorgimento fu laico e, molto spesso,
anticlericale. Le nostre radici nazionali affondano in un conflitto
sanguinoso con la Chiesa cattolica. E l'Italia post-risorgimentale
fu preda di un furore irreligioso astioso e virulento. Le acque si
placarono solo con Giolitti, al principio del secolo. Questi era un
maestro di pragmatismo e comprese che i cattolici erano in gran
parte dei leali italiani e potevano essere recuperati allo Stato
liberale con una politica di apertura e di compromesso. Il vero
pericolo veniva da sinistra, dai rossi. Giovanni Spadolini ne parla
in un libro antico e piuttosto noto: Giolitti e i cattolici14. Tutto
sommato, a giudizio del politico piemontese, si poteva far causa
14 Scrive Spadolini: «A Montecitorio, in quell'alba di secolo, pochi e stanchi riflessi della politica
ecclesiastica; nessun dibattito capace di ricordare le gloriose discussioni fra il '60 e il '70; non
più quel ritrovarsi tutti, uomini della consorteria cavouriana o del partito d'azione, seguaci di
Ricasoli o di Bertani, sulla stessa sponda, solidali nell'avvertire la dialettica fra lo Stato e la
Chiesa, nell'identificare la funzione nazionale italiana con l'idea laica, nel contrapporre la
Monarchia al Vaticano. Al contrario. […] La morte di Crispi, l'11 agosto 1901, sembrava quasi
chiudere un ciclo storico, segnare la fine di un mondo attraverso uno dei suoi massimi
rappresentanti, attraverso l'uomo che aveva dominato, bene o male, l'età della “grande peur”,
della grande paura di cattolici e socialisti, di neri e rossi marcianti all'assalto del Quirinale,
minaccianti le basi dello Stato. […] Scendeva nella tomba l'ultimo eroe del Risorgimento, lo
statista caro alla generazione carducciana […] Il Vaticano vedeva scomparire un avversario
tenace e risoluto; ma anche il liberalismo giolittiano vedeva tramontare con lui le ultime
speranze di una politica di reazione, sia pure giustificata in nome dei supremi ideali del
Risorgimento. I cattolici cominciavano a sentirsi cittadini; i cittadini potevano riavvicinarsi al
cattolicesimo. […] Lo Stato di Giolitti non avrebbe alzato un dito in difesa del pensiero di
Giordano Bruno.» G. Spadolini – Giolitti e i cattolici, Oscar Studio Mondadori, 1974, pag. 1519
16
comune con i cattolici moderati, nel nome dell'ordine sociale. La
maggioranza dei cattolici era composta da innocui borghesi, che
non nutrivano più nessun rancore nei confronti dello Stato
unitario. Le generazioni più giovani non avevano vissuto
personalmente quel momento di cesura che fu la lotta tra Stato e
Chiesa, si erano ormai integrati nello Stato liberale, e non
credevano più nel ritorno del Papa Re. Allo stesso tempo, i
nostalgici del potere temporale non avevano più molto seguito:
ormai, erano pochi, anziani e irrilevanti. Tra il 1870 e il 1900,
invece, non si faceva troppa differenza: rossi e neri erano trattati
allo stesso modo. Fu quello il periodo di più acceso
anticlericalismo che l'Italia abbia mai vissuto.
La sponda di Giolitti erano i cattolici moderati: i Meda, i Tittoni.
Un altra corrente era quella dei murriani, i seguaci di Romolo
Murri. Murri non era un nostalgico. Il suo movimento – la
Democrazia Cristiana (nome che avrà più fortuna qualche
decennio dopo) – non aveva nulla da spartire con i vecchi
reazionari. Era un movimento politicamente progressista e
teologicamente modernista. Ma nacque troppo in anticipo sui
tempi e non ebbe l'appoggio della Chiesa, che lo avversò con
severità.
Maggior successo ebbe Luigi Sturzo, con il suo Partito Popolare,
nel 1919.
Piccola parentesi. A quel tempo, il cattolicesimo politico italiano
non era statalista, proprio perché lo Stato, a quel tempo, era lo
Stato liberale. Lo diventerà solo in seguito, nel secondo
dopoguerra, quando la Dc diventerà partito-Stato, dopo la morte
di De Gasperi e l'ascesa dei “cavalli di razza”, Moro e Fanfani.
Ad ogni modo, dicevamo, i rapporti tra Stato e Chiesa si fecero
più civili e culminarono nel Patto Gentiloni, in vista delle
17
elezioni del 1913. Ma ognuno doveva stare al suo posto: “Lo
Stato e la Chiesa sono due rette parallele che non si incontrano
mai”, diceva Giolitti.
Si incontrarono, invece, nel 1929, con i Patti Lateranensi. Questo
evento venne considerato una grande vittoria per Mussolini, che
riconciliò in grande stile l'Italia con la Chiesa cattolica dopo
sessant'anni di inimicizia. Ma fu un successo anche per la Chiesa
che, al di là dei vantaggi economici che trasse dall'accordo,
intravedeva la possibilità di una ritrovata egemonia sulla nostra
nazione.
Certamente, bisognava aspettare. La Chiesa tentò di influenzare
culturalmente il Fascismo, per farne il suo braccio secolare. Ma
non ci riuscì. Il Regime, che propugnava una sua religione
politica, non accettava concorrenti ideologici sul suo stesso
terreno. E l'alleanza con il Nazionalsocialismo paganeggiante
segnò la fine del sogno cattolico di imprimere al Fascismo la sua
impronta.
Ma la Chiesa – che misura la sua opera sul metro dei secoli –
seppe attendere il suo turno. Era stata riammessa nel gioco
politico italiano. E, dopo la guerra, ebbe campo libero. Libero
fino a un certo punto, perché la classe politica repubblicana si
mostrò molto ferma rispetto all'invadenza clericale. Da De
Gasperi in giù. Ne riparleremo.
Quello che ci interessa dire, in questo momento, è che la laicità
dello Stato è un principio di libertà e di dignità nazionale.
In questi ultimi tempi, per la verità, si è molto discusso intorno al
ritorno del sacro e alla nuova dimensione pubblica della
religione. Si è citata l'America, che garantisce la neutralità dello
Stato rispetto alle confessioni, ma che è impregnata di grande
fervore religioso.
Va molto di moda la distinzione tra laicità e laicismo. La laicità
18
sarebbe sana e proficua garanzia di uguaglianza di tutti i cittadini
dinanzi alla legge, al di là del loro credo religioso; l'equidistanza
dello Stato rispetto a tutte le credenze. E quindi andrebbe bene. Il
laicismo sarebbe il volto oscuro e maligno della laicità:
un'ideologia livorosa, dogmatica e integralista, che nasconde una
concezione intollerante verso la religione e la spiritualità. Tra le
altre cose, la laicità consentirebbe a tutti, religiosi e non, di
esprimere ciò che pensano. Il laicismo tapperebbe la bocca agli
uomini di fede e non consentirebbe loro nemmeno di parlare.
La questione è spinosa.
Certamente la laicità può essere considerata una condizione
oggettiva (la laicità dello Stato), mentre il laicismo è un'idea, una
propensione personale, un modo di pensare soggettivo.
Del resto, però, anche sulla laicità va fatta qualche distinzione.
Per esempio, la laicità dello Stato non è la neutralità. Se lo Stato è
laico, vuol dire che ha già scelto una parte. Si risponde che lo
Stato decide per tutti, e i credenti possono scegliere di rinunciare
a certi diritti che lo Stato concede loro, come quello di divorziare,
in nome della loro fede.
Certamente, il cittadino credente può decidere di autolimitarsi.
Ma il deputato cattolico che deve fare? Deve poter votare
seguendo il suo orizzonte di valori o deve votare per forza come
voterebbe Eugenio Scalfari? Del resto, anche il deputato
agnostico o ateo, socialista o radicale, vota secondo i suoi
convincimenti laici. Perché il cattolico non dovrebbe?
Detto ciò, ci si può tuttavia chiedere: in una prospettiva liberale,
si possono mettere ai voti le libertà fondamentali? In altre parole,
si può stabilire, per assurdo, l'istituzione di uno Stato teocratico a
maggioranza? Qui si evidenzia il dissidio tra liberalismo e
democrazia. Perché, se mettiamo tutto ai voti, allora può vincere
anche una maggioranza di fanatici religiosi. Il liberalismo mette
19
un limite, che – nella versione giusnaturalista – sono i diritti
naturali. Ma sui diritti naturali si è tutti d'accordo in linea di
principio, salvo trovarsi su sponde opposte quando si entra nel
concreto. Anche la Chiesa si erge a custode dei diritti naturali, ma
– ad esempio – tra i diritti naturali inserisce il diritto del
concepito. Un principio potrebbe essere quello che ciascuno è
proprietario di se stesso. Quindi, ad esempio, una legislazione
laica dovrebbe consentirgli di morire come crede.
Ma l'aborto? L'aborto lede il diritto del feto. Il feto possiede
diritti? E' un bel problema.
Il progresso scientifico, oltretutto, ha posto nuove questioni.
Insomma, non voglio infilarmi in un questo ginepraio. Tuttavia,
ho fatto questi esempi per dimostrare che la questione della
laicità è molto complicata e che non è più riproponibile alla luce
dei vecchi schemi.
Liberalismo, laicità, laicismo, neutralità, anticlericalismo non
hanno lo stesso significato e non è raro che questi concetti
facciano a pugni..
L'America ha una storia diversa rispetto all'Europa. L'Europa ha
vissuto le guerre di religione. Il sistema europeo è un sistema
concordatario, e questo dà vantaggi alla Chiesa, ma allo stesso
tempo dovrebbe imporle dei vincoli; soprattutto in Italia, per
ragioni geografiche.
La laicità risorgimentale da riproporre oggi, per come la intendo
io, non è – quindi – una scelta di valori. Ma un modo di essere
della classe politica. Che non dovrebbe usare i tanto citati “valori
cristiani” per ragioni di bassa cucina elettorale. Non dovrebbe
parlare ogni due per tre di “radici”, che ormai sono citate più dai
politici
che
dai
giardinieri.
Non
dovrebbe
cercare
la
legittimazione dei vescovi, salvo poi scaricarli quando affermano
20
cose sgradite. Non dovrebbe mostrarsi più papista del Papa, del
resto in modo così falso, stonato e insincero.
I Padri della Patria ne sarebbero inorriditi.
21
Che cosa è rimasto del Risorgimento?
A voler essere malevoli, si potrebbe pure rispondere: niente. Del
Risorgimento non è rimasto nulla. Ma sarebbe solo un giudizio
polemico, sprezzante, liquidatorio.
Però, quando ci si pone certe domande – “Che cosa è rimasto del
Risorgimento?” – significa che, in fondo, ci si aspetta certe
risposte.
Ma, prima di tutto, diciamo cosa fu il Risorgimento.
Esso fu anzitutto un evento storico epocale, fatto di battaglie e di
intuizioni politiche, di carne e sangue, di strateghi e visionari, di
geni della diplomazia e geni dell'azione. Di ragione cavouriana e
sentimento garibaldino (e di mistica mazziniana, ovviamente). E,
per dirla con Machiavelli, di virtù e fortuna.
Ma fu anche pretesto per fraintendimenti e ipocrisie postume, e –
come tutte le vicende storiche – fu presto gravato dalla retorica:
tromboni,
oleografie,
distorsioni
opportunistiche
e
accaparramenti interessati.
Il Risorgimento fu questo, insomma: un'umanissima vicenda,
contraddittoria come tutte le pagine della nostra storia, e della
storia tutta. Piena di ombre, spesso sottaciute per carità di Patria e
altrettanto spesso ingigantite da un revisionismo non genuino. Ma
anche di gesta memorabili, di uomini probi, non privi di difetti
ma nemmeno di grandezze.
La storia è, in fondo, storia di uomini. In questo caso di un primo
ministro smaliziato e realista, ma abbastanza abile da tramutare
persino le disgrazie in opportunità e da fare della follia di un
manipolo di patrioti una risorsa politica, a maggior gloria di Casa
Savoia, una dinastia che, più per ambizioni espansionistiche che
22
per amore delle libertà politiche, si trovò a guidare una
rivoluzione che fu, insieme, liberale e nazionale. E' la storia di un
generale col poncho, digiuno di politica, ma armato di coraggio e
virtù guerriere: Giuseppe Garibaldi. Ed è la vicenda umana e
intellettuale di un profeta della rivoluzione e della repubblica,
tormentato apostolo della democrazia politica e della religione
patriottica, dei doveri e del sacrificio, come Giuseppe Mazzini.
Ma la storia è anche storia di idee. Finora ne abbiamo incontrate
un bel po'. Il costituzionalismo e il liberalismo, innanzitutto.
Senza di essi, la guerra dei Savoia sarebbe stata una semplice
guerra di espansione e di conquista, un capitolo come un altro
della politica di potenza di uno stato nemmeno troppo rilevante
dello scacchiere europeo. Poi c'è la democrazia, la democrazia
mazziniana, tutta permeata di motivi nazionali e insieme
popolari, in nome del principio di autodeterminazione. C'è poi
l'ingenuo e confuso socialismo di Garibaldi, un socialismo non
classista né internazionalista; che poi è la perenne, e in fondo non
ideologica, aspirazione alla redenzione dei miserabili e degli
oppressi.
Senza contare alcuni filoni del pensiero risorgimentale rimasti
marginali, ma non per questo privi di spessore, come il
cattolicesimo liberale – che cercava di conciliare l'amore per la
libertà con la fedeltà ad una Chiesa che si ritenne spogliata dei
suoi beni – e il federalismo di Carlo Cattaneo, il cui
repubblicanesimo è rimasto per anni all'ombra di quello
mazziniano.
Storia e pensiero, dunque. Ma non solo. Il Risorgimento è stato
anche un'altra cosa, forse più importante: un fatto morale.
Nel senso che diede vita ad un mito politico, per dirla con Sorel;
a una formula politica, per dirla con Gaetano Mosca. In altri
termini, fornì ad un'intera classe dirigente una risorsa di
23
mobilitazione politica per giustificare il suo potere, per dare un
senso al suo ruolo.
Non è un caso, e lo vedremo in seguito, che quando, durante l'età
giolittiana, il mito cominciava a scollarsi troppo dalla realtà e
l'entusiasmo era sempre più spento, la crisi del mito di
legittimazione portò con sé una condanna, forse ingenerosa, verso
il ceto politico liberale che fino ad allora, bene o male, aveva
governato l'Italia.
E lo screditamento della classe dirigente liberale rese più facile la
sostituzione di quella élite con un'altra élite: quella dell'orbace e
degli stivaloni.
Era una reazione, in parte, naturale. Del resto, avviene quasi
sempre così. Il mito va rinnovato, vivificato, reso attuale.
Altrimenti deperisce, diventa un guscio vuoto. E così fu per il
Risorgimento. La poesia aveva lasciato spazio alla prosa. Le
bandiere erano state ammainate. Le grandi idealità riposte nel
cassetto.
I periodi di pace, e anche di benessere, sono sempre poco eroici.
Dopo ogni rivoluzione c'è l'ordinaria amministrazione. Talvolta
una buona amministrazione – rigorosa, coscienziosa, attenta – ma
inevitabilmente grigia e burocratica. Il simbolo di questa Italia
modesta e piccina fu considerato Giolitti, di cui si è già detto
qualcosa nelle pagine precedenti. Giolitti aveva tutto per non
piacere ad un popolo ammalato di retorica come quello italiano.
Intanto non aveva fatto le guerre d'indipendenza: era figlio di
madre vedova, ed era rimasto a casa. Ma soprattutto era un uomo
pratico, spiccio, non amava parlare troppo per dire nulla. E
questo non glielo si poteva proprio perdonare. Aveva fatto
carriera nell'amministrazione, era meno colto di Sonnino e meno
spericolato di Crispi. Il suo pragmatismo veniva considerato più
un vizio che una virtù. Il suo maggior avversario, Gaetano
24
Salvemini, lo chiamò “ministro della malavita”, perché amava il
potere, e talvolta ne abusava. Giolitti gli rispose che un sarto,
quando confeziona un vestito, deve adattarlo al committente: e se
l'Italia aveva la gobba, cioè era fatta maluccio quanto a virtù
civili, egli doveva tenerne conto. Salvemini gli rispose che questo
era senz'altro vero, ma che il sarto Giolitti aveva lasciato più
gobbi di quanti ne avesse trovati. In effetti, lo statista di Dronero,
non andava troppo per il sottile. Utilizzava i prefetti per far
vincere i canditati governativi, cioè i suoi fedelissimi. Sapeva
minacciare e lusingare. Conosceva le debolezze degli uomini e le
sfruttava.
Era senz'altro un liberale. Un borghese illuminato per Ansaldo,
suo biografo simpatizzante15; un progressista per i conservatori.
Un Giano bifronte, per la satira: di destra o di sinistra a seconda
delle convenienze e delle situazioni. In realtà era un realista: non
amava le dottrine, i dogmatismi, le ideologie. La sua ideologia
era il potere, da esercitare con senso dello Stato e con sobrietà.
Lo Stato era il suo partito. Fu un dittatore parlamentare, si disse;
prima di vedere, solo qualche anno dopo, che i veri dittatori, del
parlamento sanno fare a meno.
Non amava le parole roboanti, gli immancabili destini, le ore
della Storia. Quando doveva scaldare un pubblico, lo faceva a
malincuore: più per dovere d'ufficio che per convinzione. Come
quando, nel 1911, dovette pronunciare un discorso per celebrare
il cinquantenario dell'Unità, dinanzi all'Altare della Patria. Si
lasciò andare anche lui, gli toccò di essere un po' retorico. Poi,
com'è noto, si festeggiò a suon di cannonate, in Libia.
Credeva agli ideali del Risorgimento, ma diffidava della loro
ostentazione. Il suo liberalismo era empirico, privo di apriorismi,
più tattico che strategico.
15 G. Ansaldo – Il Ministro della buona vita, Casa Editrice Le Lettere - Firenze, 2002
25
I critici scambiarono la sua serietà per cinismo. Vilfredo Pareto
parlò del suo tempo come di quello delle volpi, a cui avrebbe
fatto seguito quello dei leoni. La furbizia avrebbe fatto spazio al
coraggio.16
Certo, non tutto l'armamentario del giolittismo fu benefico. Le
idealità risorgimentali si immiserirono, la disillusione prese
piede. Giolitti non si era mai fatto mai troppe illusioni sugli
uomini, e per questo non lo delusero mai. Ma chi aveva creduto,
ed erano in tanti, in un'epoca di eroismo, sorretta da una profonda
tensione
ideale,
vide
nel
giolittismo
il
contraltare
del
Risorgimento. Tanto il Risorgimento era avventuroso, quanto il
giolittismo era notarile. Così fu che alla decadenza si rispose con
uno slancio di volontarismo. E venne il Fascismo.
Anche il Fascismo si considerava legittimo erede della tradizione
risorgimentale, anzi il suo più credibile interprete.
Questa tesi era cara al più noto e autorevole ideologo del
Fascismo: Giovanni Gentile. Le idee di Gentile non erano
condivise da tutti, all'interno del Fascismo. Anzi 17. Tuttavia, la
sua interpretazione è un esempio di come il Risorgimento fu
usato come strumento di legittimazione da tutti i regimi politici.
Anche da quelli, come il regime di Mussolini, che volevano
rappresentare qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato.
Gentile era già un uomo molto noto, quando divenne ministro
dell'istruzione. Negli anni precedenti si era speso molto, insieme
a Benedetto Croce, nel contrastare l'egemonia del positivismo, e
alla fine i due campioni dell'idealismo italiano la ebbero vinta,
dando il tono al dibattito culturale del loro tempo.
Gentile propugnava una filosofia anti-materialista, per lui il
16 Su Giolitti e i suoi critici, vedi E. Gentile – Le origini dell'Italia contemporanea. L'età
giolittiana, Laterza, 2003
17 Sul gentilianesimo e antigentilianesimo, vedi. A.Tarquini – Il Gentile dei fascisti, Il Mulino,
2009
26
positivismo si identificava con tutte le sue bestie nere:
l'individualismo, lo scetticismo, la massoneria filantropica,
cosmopolita
e
umanitaria.
La
corruzione
degli
ideali
risorgimentali era avvenuta dopo l'avvento al potere della Sinistra
storica, incarnata in una borghesia traffichina e maneggiona,
senza grandezze e senza valori.
La storia d'Italia, a suo giudizio, si divideva in epoche di serietà e
fede, come il periodo risorgimentale, ed epoche decadenti,
magari creative ma di una creatività frivola, da intellettualità
salottiera, priva di impegno civile, pronta a ridere di tutto.
Ammirava Mazzini, democratico sì, ma con una concezione
religiosa della vita e della Patria: Dio e Popolo, sacrificio e
dovere.
Il suo proposito era di staccare il Risorgimento dalle sue radici
rivoluzionarie e individualiste. Gentile era un liberale, si
considerava tale e considerava tale il Fascismo. Ma il suo era il
liberalismo tipico degli hegeliani di destra: Stato forte,
autorevole, superiore alla società e all'individuo. Il suo modello
era la Destra storica e pensava che il Fascismo avrebbe apportato
quei correttivi autoritari che avrebbero reso alla Nazione la gloria
perduta. Non voleva rivoluzioni totalitarie, forse non le
immaginava neppure. Si accontentava di un ritorno alla
monarchia costituzionale pura, già auspicato in passato da Crispi
e Sonnino18.
Anche Crispi e Sonnino, pur così diversi tra di loro, si
inseriscono nella tradizione risorgimentale.
Crispi il Risorgimento l'aveva fatto, da garibaldino. Dopodiché si
era convertito ad un autoritarismo d'ispirazione bismarckiana e
aveva iniziato a coltivare sogni di grandezza coloniale,
miseramente falliti con la disfatta di Adua. Degli ideali di
18 Sulla polemica contro il parlamentarismo e sui tentativi di riforma istituzionale vedi F.
Lanchester, La rappresentanza in campo politico, Giuffrè, 2006, pp. 93-115
27
gioventù conservava ancora l'acceso anticlericalismo di stampo
massonico, molto in voga nell'Italia umbertina.
Sonnino, invece, era un conservatore illuminato. Eterno
avversario di Giolitti, gli facevano difetto il pragmatismo e la
furbizia dell'uomo di potere. Potere che, in effetti, esercitò poche
volte, non tutte con esiti memorabili. Fu il ministro degli esteri
del Patto di Londra e delle trattative di pace, in cui la delegazione
italiana commise vari errori di giudizio, e fu messa nel sacco.
Quando scrisse “Torniamo allo Statuto”, nel 1987 sulla Nuova
antologia, aveva in mente i mali dell'assemblearismo, che voleva
risolvere ripristinando l'antica monarchia costituzionale, cui era
subentrata, di fatto, la monarchia parlamentare.
Sidney Sonnino fu senz'altro ispirato da passione risorgimentale.
Fu tale nello stile e nella sobrietà del tratto. Ma lo fu soprattutto
nella sua avversione per i rossi e i neri, i marxisti e i clericali, che
assediavano il fortino dello Stato liberale.
Crispi, Sonnino e Gentile furono critici accesi della deriva
parlamentare. Certo, ognuno a suo modo e con le sue idee. Gli
ultimi due furono animati dall'ambizione di restaurare una mitica
età dell'oro, che coincideva con il governo della Destra. Crispi
amava, del Risorgimento, il lato populista. Era, se così possiamo
dire, un nazionalista di sinistra.
Ad ogni modo, il mito risorgimentale attraversò il ventennio. Non
lo attraversò indenne: il Risorgimento fu usato, stropicciato,
messo al servizio della propaganda. E ai suoi eroi – Garibaldi,
Mazzini – fu fatta indossare la camicia nera, che lo volessero o
no. Furono tutti considerati precursori del Fascismo. Le
distinzioni sfumavano, si prendeva ciò che era utile a inserire
l'Italia di Mussolini nel solco del Risorgimento. Ad ogni modo, si
tributava un omaggio a dei grandi italiani. Senza troppo
28
preoccuparsi del contesto, senza approfondire. L'Italia era il
Fascismo e il Fascismo era l'Italia: i grandi italiani non potevano
che essere grandi fascisti. Anche senza saperlo.
Si dirà: sono furbizie da regime totalitario. No, sono furbizie di
tutti i regimi, anche di quelli democratici. Basti por mente a
quanto e come fu mistificato il centenario dell'Unità, nel 1961.
Anche allora si stese un velo di omissione su molte cose
imbarazzanti. I quattro Padri della Patria venivano ritratti
assieme. Si taceva, e non poteva essere altrimenti, sul disprezzo e
il malanimo che serpeggiava tra i nostri eroi. Una celebrazione è
una celebrazione, non un convegno di studi, certo. Aggiungiamo
che la storia presenta pure una sua dimensione simbolica, che non
va sporcata con troppe macchie di verità fattuale. Si trattava di
educazione civile, di istillare un po' di senso patriottico. Di
confermarlo, non di seminare dubbi. E passi. Ma alcuni
capovolgimenti, certe giravolte, erano persino ridicole. Come
quando si cercò di passare sotto silenzio il conflitto tra Chiesa e
Stato. Tutto doveva conciliarsi col clima di ritrovata spiritualità
dell'Italia democristiana, tra l'altro in procinto di aprire le porte
del governo al Psi. Ma quei festeggiamenti riuscirono bene. Chi
vi prese parte, da bambino, ne serba ancora un buon ricordo.
Ad ogni modo, torniamo al Fascismo. Il Risorgimento serviva,
era una pagina nobile della storia Patria. Nobile e recente, quindi
non troppo vaga nelle menti degli italiani. Ma era anche un mito
contraddittorio. Ricordava anche un periodo di divisioni, di
lacerazioni, di pagine buie.
Meglio l'antica Roma. Un mito più unificante. Il Fascismo, che
nacque futurista e milanese, divenne presto classico e romano. Le
due anime non si elisero mai: coesistettero. Del resto, esisteva
anche una Roma laica e mazziniana, a pieno titolo risorgimentale.
Il Risorgimento, poi, lo si poteva legare ad un altro evento
29
costitutivo della mitologia fascista: la Grande Guerra, vista come
quarta guerra d'indipendenza contro gli eterni appetiti del
germanesimo.
In questa nostra cavalcata alla buona sul mito del Risorgimento,
passiamo al dopoguerra. Già la Resistenza veniva legittimata
come un nuovo Risorgimento. Un Risorgimento dalle tenebre
oscure della tirannia, che ridonava al paese una nuova dignità
civile. Per molto tempo, la Resistenza fu considerata un nuovo
mito fondativo dello Stato italiano, alla pari del Risorgimento. Un
mito che non conosceva macchie e non poteva subire critiche.
Attraverso la lotta partigiana, gli italiani avevano espiato la colpa
di aver aderito, in massa, al passato regime. Bisognava far
credere di aver, anche noi, vinto la guerra. L'otto settembre non
era – come invece si disse poi – la morte della Patria, ma
piuttosto la sua rinascita. Ovviamente, il racconto della
Resistenza fu parziale e fazioso, come era stato quello del
Risorgimento. Ma non si poteva, nel dopoguerra, sottilizzare
troppo: i miti vivono anche di questo.
Qui è importante dire che gli ideali del Risorgimento, seppur
ammaccati, svolsero un loro ruolo nell'Italia repubblicana. Anche
i marxisti ne fecero uso. Il 18 aprile 1948 i simpatizzanti del
Fronte Popolare dovevano apporre una croce sul rassicurante
faccione di Garibaldi (che, secondo la satira anticomunista, se
capovolto, rivelava le più truci fattezze del maresciallo Stalin).
Il rapporto col Risorgimento rivelava però dei problemi. Un po'
perché presupponeva l'accettazione dell'idea di nazione, e il Pci –
nonostante la svolta togliattiana del '44 – rimaneva un partito
antinazionale. Un po' perché, il partito di maggioranza relativa, la
Dc, non poteva farsi interprete della tradizione risorgimentale,
che era laica e liberale.
Il Psi è un caso a parte. Avrebbe potuto assumere in sé una
30
dimensione nazionale e rivendicare una continuità, per lo meno
ideale, con le aspirazioni di dignità sociale che avevano percorso
certi filoni del Risorgimento. Ma il socialismo e la nazione
facevano fatica a stare assieme. Se vogliamo, il Fascismo nacque
per risolvere l'antinomia: fu l'eresia nazionale che si produsse nel
seno della dottrina socialista. Non che il socialismo non avesse i
suoi eroi patriottici. Vagamente socialista era Garibaldi.
Certamente socialista era Cesare Battisti, eroe e martire
irredentista, che morì ammazzato dagli austriaci durante
quell'appendice di Risorgimento che fu la Grande Guerra. Ma
Cesare Battisti veniva fischiato ai comizi. Non dai nazionalisti o
dai liberali, ma dai suoi stessi compagni. Il Psi – totalmente sordo
al tema nazionale – scelse la strada del neutralismo, nel 1914.
Non fece la guerra ma non seppe fare nemmeno la rivoluzione,
restando a metà del guado. Battisti, socialista e patriota, fu amico
e sodale di Mussolini a Trento, ma lasciò troppi eredi per un solo
legato. La sua memoria fu contesa da fascisti e antifascisti: i
primi rammentavano la sua militanza irredentista, i secondi
sottolineavano la sua fede socialista.
Ma anche nel secondo dopoguerra, non era facile, per il Partito
socialista, rivalutare il patriota trentino: ricordava troppo la
cesura della prima guerra mondiale, il conflitto tra neutralisti e
interventisti. Non solo. C'era anche un altro problema. L'alleanza
col Pci, che impediva ai socialisti una una strada di autonomia e
indipendenza. La scelta frontista fu, per il socialismo italiano,
un'altra occasione mancata per riappacificarsi con la Patria. Nel
1956, dopo la brutale repressione di Budapest, il Psi capì che
doveva divincolarsi dall'abbraccio mortale con i compagni
comunisti, che oltretutto – più organizzati e compatti – stavano
stritolando i socialisti, in una competizione a sinistra che vedeva
il partito di Nenni sempre più soccombente. L'occasione per
31
smarcarsi definitivamente da tutta la tradizione marxista venne
con Craxi. Egli scelse non solo di perseguire una strada di
orgogliosa autonomia dal Pci, ma di tagliare, come si disse, la
barba a Marx. Recuperò forme di socialismo libertario e non
marxista, a cominciare da Pierre-Joseph Proudhon. E si riconciliò
col tema della nazione, facendosi portatore di un'idea di
indipendenza nazionale tipicamente risorgimentale. Bettino Craxi
parlava spesso del Risorgimento, ammirava Garibaldi e citava
Mazzini. Come quando, parlando alla Camera, paragonò il
patriota genovese ad Arafat. Come Mazzini, disse in sostanza,
Arafat combatte con le armi che ha: se è necessario anche con la
guerriglia e il terrorismo.
Craxi immise con forza due temi risorgimentali nel patrimonio
culturale del socialismo: quello della libertà e quello della Patria.
Oppose il tema della libertà al dispotismo comunista. E rilanciò,
in modo asciutto, non retorico, non passatista, il valore della
Nazione, tanto da far parlare di socialismo tricolore. Questo,
insieme ad alcune aperture al Msi e alla sua proposta di grande
riforma dello Stato in senso presidenziale, gli guadagnò la
simpatia di una certa parte della destra intellettuale19.
19 Socialismo tricolore è anche il titolo di un libro del 1983, scritto da Giano Accame, giornalista
e intellettuale di destra recentemente scomparso. Nel testo, Accame si occupa della svolta
patriottica del craxismo e analizza il rapporto storico tra socialismo e nazione. Nota, fra l'altro,
che la vittoria della nazionale ai mondiali di Spagna aveva fatto emergere un nuovo
atteggiamento degli italiani verso il tricolore. Solo dieci anni prima non sarebbe stato possibile
vedere tutti quelle bandiere per le strade. Evidentemente, l'atmosfera era cambiata e l'impresa
degli azzurri era servita a vincere un pudore, un conformismo, che aveva prevalso per tutti gli
anni Settanta. Craxi e gli intellettuali a lui vicini colgono il nuovo senso comune e cercano di
costruire attorno ad esso un'operazione culturale di recupero dell'idea di Patria, per molto
tempo – nel dopoguerra – associata sbrigativamente alla destra e al neo-fascismo.
Su “Critica Sociale”, la prestigiosa rivista teorica del riformismo, si dibatteva intorno ad una
contraddittoria relazione di odio-amore tra la questione nazionale e la questione sociale. Il 22
ottobre 1980, il periodico dedicava al tema venti pagine di contributi. Nella sintesi introduttiva,
si poteva leggere: «Quale origine ha il disagio dei socialisti nell'affrontare la questione
nazionale? Eppure socialismo e nazione – nel senso moderno – sono nati contemporaneamente,
nella Francia rivoluzionaria. Ma il percorso, da allora, è lungo e accidentato. La nazione è
giunta a identificarsi con lo Stato anche nell'Italia unitaria; il socialismo ha oscillato fra una
realistica accettazione (che a volte si è trasformata in passiva acquiescenza) e un atteggiamento
di rifiuto globale, di negazione aprioristica. Se questo discorso può valere in generale, è tanto
più vero se lo si riporta nel contesto delle vicende e della storia del movimento operaio e
socialista italiano. Si è tuttavia accresciuta, attraverso le vicende storiche e la pratica politica di
32
Craxi fu forse l'ultimo uomo politico italiano ancorato alla cultura
del Risorgimento20.
L'ultimo insieme a Giovanni Spadolini, suo predecessore a
Palazzo Chigi. Uomo di vastissima erudizione; professore di
Storia contemporanea; direttore di importanti giornali nazionali,
come il Corriere della Sera; autore di molti volumi di gran pregio
storiografico, Spadolini fu un cultore appassionato e consapevole
del Risorgimento. Fu segretario di un partito, il Pri, che insieme
al Pli era il più accreditato e autorevole custode delle memorie
risorgimentali. Entrambi i partiti, infatti, si richiamavano alla
tradizione laica e nazionale, seppur da versanti diversi. Il primo
valorizzava e si faceva interprete del filone mazziniano,
democratico e di democrazia radicale. L'altro esprimeva il côté
moderato del Risorgimento, il versante conservatore e liberalborghese21.
I due partiti risorgimentali, il Pri e il Pli, erano accomunati,
tutti i giorni, una confidenza e una continuità con lo Stato nazionale e le sue istituzioni, almeno
per questo ultimo trentennio, che ha aumentato di molto i motivi di incontro e ridotto le ragioni
di ostilità fra l'universo morale e sociale [e] politico del socialismo e quello della tradizione
storica unitaria. Da queste considerazioni deriva il nuovo interesse nei confronti di questo
problema e verso quei tentativi che avvicinino mondi sino a ieri così distanti. […] Il socialismo
oggi vuole avere un passato, radici che affondino non solo nella sua storia, ma anche nella
storia più generale. Da qui l'ipotesi di un “socialismo tricolore” anche in Italia, un socialismo
capace di collegarsi, da sinistra, ai movimenti politici e culturali che derivano dal Risorgimento
e che riscoprono oggi affinità col movimento socialista nella sua accezione più tipicamente
italiana, quella riformista e democratica». Cit. in G. Accame – Socialismo tricolore, Editoriale
Nuova, 1983, pag. 40-41.
20 Queste nostre considerazioni su Craxi prescindono, evidentemente, dalle sue colpe sia
giudiziarie che eminentemente politiche. Si tratta di valutazioni che attengono a due piani
diversi.
21 I due partiti hanno subito, nella loro storia, numerose oscillazioni sull'asse destra-sinistra. Il Pri
nasce come partito anti-istituzionale, in quanto contrario alla monarchia, e ha una collocazione
di sinistra, sebbene più moderata rispetto a quella dei socialisti. Nelle campagne del Centro
Italia, i repubblicani rappresentano i mezzadri, laddove i socialisti rappresentano i braccianti.
Dopo la caduta del Fascismo, si fronteggiarono, all'interno del partito, due tendenze: una era la
linea tradizionalista e mazziniana, l'altra proponeva di introdurre il tema della lotta di classe,
assumendo i paradigmi dell'analisi marxista. Durante tutta la Prima Repubblica, il Pri si assestò
su posizioni di centro e di centro-sinistra moderato. Anche il Partito Liberale oscillò tra
conservatorismo borghese e progressismo lib-lab. Si trovò talvolta su posizioni confindustriali
e padronali, durante la segreteria Malagodi, e talaltra espresse orientamenti più di sinistra,
durante la segreteria Zanone. Tuttavia, il Pli non accettò mai la definizione di partito di destra e
si tenne a buona distanza sia dai monarchici sia, soprattutto, dai missini. Questi ultimi, con
Michelini, cercarono di inserirsi nel gioco parlamentare cercando sponde tra i liberali, ma il
giocò non riuscì.
33
insieme ai socialdemocratici, nella definizione di partiti laici
minori. Erano, in effetti, partiti piccoli, ma influenti: sia per la
loro posizione centrista – che li rendeva naturali alleati della Dc –
sia per la loro influenza culturale.
A questo punto, però, ci si potrebbe chiedere: perché il
liberalismo italiano, pur così autorevole, espresse percentuali
elettorali generalmente basse? La mia tesi è tra il minoritarismo
liberale e il declino dell'ideologia risorgimentale ci sia un legame.
Croce, Einaudi, De Nicola, Vittorio Emanuele Orlando: al
liberalismo italiano dell'immediato dopoguerra non mancavano
certo gli uomini, né le idee22. Cito questi nomi anche perché,
quando si trattò di scegliere il Presidente della Repubblica, a
giocarsela furono loro, insieme al repubblicano Carlo Sforza. De
Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato. Einaudi, fu il primo
presidente della Repubblica italiana.
La domanda è: perché non riuscì a spendere questa autorevolezza
a livello elettorale? Perché, insomma, il liberalismo italiano non
riuscì a conquistare le masse? Non certo perché quella liberale sia
un'ideologia elitaria: in altri paesi, il liberalismo ha conquistato il
senso comune ed esprime partiti di una certa consistenza
elettorale. Senza contare che, ancora nel 1921 – quando la società
di massa era già una realtà, così come il suffragio universale
(maschile) – i partiti liberali riportarono un risultato inferiore ai
precedenti, ma ancora apprezzabile, se confrontato con ciò che
sarebbe avvenuto in età repubblicana.
Benedetto Croce cercava di sostenere l'idea che il Fascismo fosse
una parentesi e che la storia d'Italia potesse riprendere il suo
corso dove l'aveva interrotto. Ma così non fu. Le redini del
governo erano, e rimasero, nelle mani della Democrazia cristiana.
22 Forse mancava un “matto”, come come scrisse Mario Ferrara sul “Mondo”. Cfr. Date un
matto ai liberali, in “Il Mondo”, 26 maggio 1951. L'articolo è ora contenuto nell'antologia Il
“Mondo” . Antologia di una rivista scomoda (a cura di G. Carocci), Editori Riuniti, 1997,
Roma, pag. 20-24.
34
La Dc aveva poco a che fare col Risorgimento. Non era
espressione di quella storia, e anzi vide nell'affermazione del
dopoguerra una rivincita sullo Stato liberale e il risanamento di
una ferita. Alla Dc, al suo ceto politico, era generalmente
estraneo il
principio di laicità dello Stato 23. Si adattò a
rappresentare anche la borghesia liberale e non si mise in urto
con i suoi valori, ma il ruolo non gli era congeniale. Peraltro, si
costituì come partito interclassista, nel quale trovavano spazio le
più diverse posizioni: dal conservatorismo alla sinistra solidarista.
Ma il mondo viveva la Guerra fredda, e in funzione
anticomunista, la borghesia italiana si affidò allo scudo crociato.
Che era pur sempre il meno peggio. I partiti risorgimentali
esistevano, ma non bastavano.
Dopo la caduta del muro di Berlino, verrà un'altra storia. Il Pci
cambierà nome. Un paio di anni dopo, l'inchiesta di Mani Pulite
sgretolerà i partiti di governo. Si farà strada un partito antiunitario, come la Lega Nord. E la questione risorgimentale si
porrà in modo diverso. Ma tutto ciò sarà oggetto del prossimo
paragrafo.
23 Oggi, tuttavia, va molto di moda rivalutare De Gasperi, come esempio di laicità e di senso
dello Stato. In effetti, l'uomo non era un clericale. Rimase famosa la sua opposizione alla
cosiddetta “operazione Sturzo”, patrocinata dal Vaticano. Questo gli costò l'ostracismo di Pio
XII, che in seguito gli negherà persino un'udienza. De Gasperi risponderà scrivendo
all'ambasciatore italiano presso la Santa Sede una lettera orgogliosa e risentita.
35
Risorgimento e Seconda Repubblica
Qualche mese fa, Silvio Berlusconi, parlando ad una festa di
partito, consigliò un libro. Leggetelo, disse alla platea.
Generalmente, il Presidente del Consiglio non parla di libri, e
quindi c'è da credere che il volume in questione lo avesse
particolarmente
colpito.
Che
libro
era?
Si
trattava
di
Risorgimento da riscrivere, di Angela Pellicciari: per farla breve,
un libro antirisorgimentale.
Intendiamoci. L'onorevole Berlusconi può leggere quello che
vuole e caldeggiarne l'acquisto in tutte le sedi. Tra l'altro, la
storiografia revisionista – lo abbiamo abbiamo già detto – ci è
molto simpatica.
Ma ci è sembrato un episodio da segnalare. Il Risorgimento, in
questa cosiddetta Seconda Repubblica, non è molto popolare.
La Seconda Repubblica viene fatta nascere, convenzionalmente,
nel 1994, dopo la crisi di regime dei due anni precedenti.
Nasceva sulle ceneri delle ideologie, contro la vecchia politica, la
partitocrazia, le antiche appartenenze, le residue fedeltà. Si
alimentava di miti nuovi e suggestivi: il pragmatismo e la società
civile.
La Storia, di per sé, era un ingombro. Anche perché molti
dovevano far dimenticare la propria, a destra e a sinistra.
La cesura storica avviene nel 1994.
Berlusconi scende in campo, all'inizio dell'anno, e pronuncia un
discorso diventato famoso. “L'Italia è il paese che amo”, e tutto il
resto, compresa la calza sulla telecamera. Dall'altra parte, c'è
Occhetto e la sua gioiosa macchina da guerra, che poi si rivelerà
36
un gioioso macinino. Al centro, penalizzati dalla nuova legge
elettorale e votati all'irrilevanza, Segni e Martinazzoli.
In
quattro
e
quattr'otto,
Berlusconi
assembla
un
improvvisatissimo partito e lo battezza Forza Italia. Il nome è
patriottico, ma allude più al tifo calcistico che al Risorgimento.
Non fa pensare tanto a Cavour e Mazzini, quanto alla nazionale
di Sacchi e Baggio, che si appresta a giocare i mondiali negli
Stati Uniti.
Berlusconi si presenta come l'imprenditore di successo che vuole
dare una sterzata al paese, sulla base di un'ideologia efficientista
e meritocratica, avversa alla sinistra – da allora, tutta
sbrigativamente assimilata al “comunismo” – ma parimenti
lontana dall'inconcludenza della vecchia classe politica di
governo, spazzata via da Tangentopoli, considerata screditata e
corrotta.
Berlusconi, che pure si propone di raccogliere i voti del
pentapartito, cavalca l'indignazione contro il vecchio ceto
politico. Vuole declinare il vecchio moderatismo in forma
liberale, e questo gli guadagna la stima e la fiducia di alcuni
intellettuali che si rifanno a quella tradizione. Prima o poi, ne
rimarranno tutti delusi.
Il nuovo ideale è la società civile, che trova seguaci a destra e a
sinistra. Tra i progressisti, prende la forma di una rivolta morale
degli onesti contro i disonesti: la rivolta morale sublima la rivolta
sociale, la lotta alla corruzione prende il posto della lotta di
classe.
Sul fronte liberal-democratico, la società civile veste i panni
dell'Italia laboriosa e fattiva, che si sveglia presto e non si perde
in chiacchiere, insofferente verso le lentezze della pubblica
amministrazione e della burocrazia, e che crede di dover prendere
in mano direttamente le leve del potere. Le classi più attive, il
37
Nord operoso che paga sempre per gli altri, vogliono far piazza
pulita dei parassitismi e degli sprechi, senza le mediazioni del
ceto politico, considerato una casta di parrucconi e di
azzeccagarbugli. Con il crollo del comunismo, veniva meno
anche la rendita di posizione della Dc, a cui molti avevano dato il
loro voto turandosi il naso. Il malgoverno era pur sempre meglio
dei cosacchi in Piazza San Pietro. Ma, adesso, che il pericolo è
passato, l'elettorato diventa più esigente e non vuole concedere
più cambiali in bianco.
Il mito della società civile, che pure era sorretto da un sacco di
buone intenzioni, si rivelerà una truffa. Da una parte produrrà il
moralismo anti-politico, per il quale vi è una società incorrotta,
perennemente sotto il tallone del potere che si mette sempre
d'accordo ai suoi danni. Dall'altra alimenterà la follia dell'antielitismo, dell'anti-intellettualismo, del populismo, del disprezzo
per ogni forma di mediazione; non concepirà l'esigenza di
costruire classi dirigenti e lascerà spazio a un'armata Brancaleone
di dilettanti allo sbaraglio. Come dire: se questo era il nuovo,
aridatece la Dc.
Ma torniamo al '94. Siamo alle elezioni.
Il nuovo sistema elettorale rende necessario formare delle
coalizioni. Berlusconi imbarca nel suo schieramento la destra
missina, che si presenta con una nuova sigla, Alleanza Nazionale
(che prelude allo scioglimento del partito, che avverrà al
congresso di Fiuggi, nel gennaio 1995), vecchi spezzoni di
moderatismo governativo (liberali, democristiani) e la Lega
Nord. L'alleanza è complessa: al Nord, An è contro il Polo forzaleghista, al Sud si presenta insieme ai berlusconiani.
Berlusconi, com'è noto, vince. Ma l'equilibrio è precario e il
governo va a gambe all'aria dopo sette mesi.
38
Così è nata la Seconda Repubblica, che è poi la Repubblica di
Berlusconi.
Lasciamo perdere se si sia trattato di un esperimento riuscito. Se
il partito liberale di massa abbia tenuto fede alle promesse. Se il
bipolarismo abbia funzionato.
Non è questa la sede per parlarne.
Il punto è che quell'anno finiva un mondo. Morivano i vecchi
partiti, i quali – bene o male – alludevano ad una storia politica. Il
Partito liberale o il Partito repubblicano, pur in un contesto
completamente mutato, riannodavano i fili di una tradizione.
Usurata, mal compresa, anacronistica, ma presente.
Ora non più.
Non tutto il male veniva per nuocere, se vogliamo. La tradizione
risorgimentale poteva diventare un patrimonio condiviso da tutti
gli attori politici; non più rinchiuso dentro gli steccati di uno, due
o tre partiti medio-piccoli.
Il Risorgimento poteva essere svincolato completamente (in gran
parte già lo era) dalla battaglia politica, dall'uso strumentale, dalla
zavorra politicante. Se la Seconda Repubblica si fosse limitata a
questo, non avrebbe fatto male. La Storia va meditata, non usata a
fini di parte. Non si rendeva onore a Garibaldi, quando si
utilizzava il suo volto per la propaganda del Fronte Popolare. Si
faceva un torto a Mazzini, quando si spendeva il suo nome
venerato per ottenere – che so – il ministero delle Poste o la
poltrona di qualche municipalizzata.
Era giusto restituire il Risorgimento alla Storia.
Ma, in realtà, lo si è consegnato all'oblio.
39
La Lega contro l'Unità d'Italia
Quando nacque, sembrava un movimento effimero. Una scheggia
impazzita di umori protestatari, che sarebbero rientrati subito nei
ranghi. Come il Fronte dell'Uomo Qualunque, del quale
condivideva la polemica antipartitocratica, l'appello al popolo
contro la classe politica, il linguaggio schietto e diretto, non privo
di rudezze e volgarità. Adesso, la Lega è al governo, e – come
dimostrano le recenti elezioni amministrative – si espande verso
regioni che le erano sconosciute.
Ma questo già si sa: basta leggere i giornali.
Piuttosto, è interessante indagare il rapporto di questo partito con
l'Unità d'Italia e il Risorgimento. Un rapporto pessimo, com'è
noto.
La sua critica si struttura su tre piani.
Il primo è quello del dibattito storiografico. Garibaldi è il
bersaglio preferito, perché è considerato il maggior colpevole
dell'accaduto. Cioè di quella sciagura chiamata Unità d'Italia. I
politici leghisti e il suo organo di stampa, la Padania, danno
spazio alle tesi della storiografia antiunitaria e si servono di
questa polemica per alludere ai problemi dell'Italia odierna.
Il secondo piano dell'attacco leghista è legato all'assetto
istituzionale scaturito dal Risorgimento: vale a dire, il sistema
centralistico, prefettizio, d'ispirazione napoleonica. Così, uno
degli argomenti più forti della Lega, quando nacque, fu la messa
in discussione della struttura statale e ipotizzò, variamente, la
secessione e il federalismo.
Il revisionismo storiografico e la richiesta della riforma
istituzionale non mettono ancora in questione l'essenza del
40
Risorgimento.24 La ricerca storica è sempre ben accetta, anche e
soprattutto quando propone tesi eccentriche e controcorrente.
Pertanto, si può continuare ad ritenere il Risorgimento una bella
pagina della storia nazionale pur ammettendo che vi furono degli
episodi deprecabili e delle scelte sbagliate. Si può ammirare il
coraggio o la lungimiranza dei Padri della Patria, anche
conoscendo i loro vizi e i loro errori.
Per quanto riguarda la struttura dello Stato, il centralismo non è
un dogma. Poteva essere necessario in quelle circostanze e può
non esserlo adesso. Una diversa distribuzione dei poteri non è
certo in contraddizione col Risorgimento.
Ma il lato più significativo dell'attacco leghista è il terzo. Quello
che riguarda i valori e i simboli. A cominciare dalla bandiera,
passando per l'inno nazionale, per finire con la toponomastica. 25
La Lega è un movimento pragmatico, ma ha sempre riservato un
certo
spazio
alla
dimensione
simbolica
della
politica.
Dall'ampolla del Po in giù. E, dalla sua nascita, ha oltraggiato
tutti i valori del Risorgimento. Le critiche tradizionali al
Risorgimento intendevano metterne in luce l'incompiutezza, non
negavano la bontà del progetto.26 Bossi no. I leghisti, sin dai loro
24 Ovviamente, salvo per la parte che riguarda la secessione, argomento che i leghisti hanno però,
al momento, accantonato.
25 La toponomastica è, al giorno d'oggi, l'ultima trincea delle identità politiche. La classe politica,
priva di fantasia, s'inventa ogni giorno un nuovo motivo di discussione. L'ultima vivacissima
polemica, in ordine di tempo, riguardava la strada da intestare a Bettino Craxi. Così si è
innescato un dibattito che mescolava ragioni politiche e ragioni storiche, dichiarazioni roboanti
e vendette postume, motivi di opportunità e sospetti di opportunismo, accademici e politicanti,
inquisiti e inquisitori, reduci del craxismo e reduci del dipietrismo, nostalgici del garofano e
nostalgici delle manette, giustizieri della penna e avvocati d'ufficio. Insomma, un frullato di
storia, politica e casellario giudiziario.
Si tratta, tutto sommato, di una situazione, in parte, comprensibile. In un'era a bassa intensità
ideologica, incapaci di infiammarsi per la politichetta del giorno per giorno, l'unico modo per
riaccendere gli entusiasmi sopiti e per riaffermare le identità perdute, sembra essere cambiare i
nomi alle strade. Appare gratificante, perché ci si illude di appartenere alla grande storia, in un
periodo di rassegnata quiete. Così, il consigliere comunale Tizio si batte contro Bottai (che da
morto mise in crisi la giunta Rutelli) e l'assessore Caio si vendica di Lenin.
26 Ad esclusione della critica cattolica anti-moderna e temporalista, che vedeva nel Risorgimento
una congiura massonica ai danni della Chiesa. Tuttavia, al di là di questa ed altre posizioni
minoritarie, il grosso della cultura politica italiana – almeno dal secondo dopoguerra in poi –
accettava l'eredità del Risorgimento, ne ricomponeva le cesure attraverso una sua rivisitazione
idilliaca – come la cultura democristiana – o si proponeva di compierne uno nuovo, integrando
41
inizi eversivi e ruspanti, negano che l'Italia sia più di una
espressione geografica. Negano che il nostro popolo sia legato da
una storia e un destino comuni.
Che cosa si è risposto, in questi anni, a questo ribaltamento del
mito risorgimentale?
All'inizio, la Lega non venne presa molto sul serio. Il folklore
delle sue adunate, il linguaggio da osteria, le smargiassate del suo
capo erano troppo dissonanti rispetto ai costumi della vecchia
politica ed era facile considerare queste stramberie con
sufficienza. Tuttavia, quando, in seguito, si dovette fare i conti
con il suo innegabile seguito elettorale, si adottarono vari
atteggiamenti. La sinistra oscillò tra la deprecazione e
l'esaltazione, a seconda delle circostanze. Berlusconi non si
mostrò turbato dai presupposti antiunitari di Bossi, e si propose
piuttosto di placarli, coinvolgendo i leghisti nel Governo, con
alterne vicende. Alleanza Nazionale visse, in principio, con
insofferenza l'alleanza con un partito anti-unitario. Nel '94, come
ricordato, An e Lega correvano separati, al Nord. Nel '96, dopo
un effimero avvicinamento alla sinistra, la Lega si presentò da
sola, contro “Roma Polo e Roma Ulivo”. E così fu attaccata da
entrambi i lati. L'Italia fu attraversata, per qualche anno, da un
impeto di patriottismo, più o meno sincero, contro il partito che
voleva dividere l'Italia. Il Presidente della Repubblica, Oscar
Luigi Scalfaro, si lasciava andare sovente a discorsi pieni di
sentimento e afflato unitario. Fini, nel periodo di maggior
consenso del suo partito, furoreggiava a colpi di tricolore. Persino
le masse nella società, come la cultura marxista.
Il cattolicesimo italiano poteva ancora ospitare, si è già detto, qualche sacca di risentimento, ma
più verso l'ideologia liberale che nei riguardi del Risorgimento come fatto storico, dato ormai
come acquisito. E, ad occhio e croce, era un sentimento riservato a parte della gerarchia
ecclesiastica, meno alla classe politica, quasi per nulla all'uomo della strada. La rottura era stata
ricomposta – anche attraverso una lettura di comodo, che smussava le asperità del conflitto. Ad
ogni modo, con la Dc saldamente al governo, il cattolicesimo italiano aveva riavuto ciò che, a
suo giudizio, gli era stato ingiustamente tolto.
L'anti-risorgimento leghista, invece, è un sentimento molto popolare presso l'elettorato delle
camicie verdi.
42
gli ex comunisti si riscoprirono patriottici. Tra un richiamo e
l'altro all'unità ci fu spazio persino per un ridicolo blitz
dimostrativo di un gruppo autonomista, pur non direttamente
collegato alla Lega, nel maggio 1997, a Venezia. Pur trattandosi
di un episodio da operetta, la cosa fece un certo scalpore, e
rinvigorì il patriottismo di ritorno.
Quegli anni, quelli in cui la Lega attraversò la sua fase
secessionista, videro una compatta reazione della classe politica
sul tema dell'Unità nazionale. Con tutta la retorica del caso. La
La Lega venne demonizzata, anche oltre il giusto. Negli anni
successivi, messi da parte i propositi più forsennati, riuscì tornare
al governo, una prima volta nel 2001 e poi nel 2008,
comportandosi con meno sconsideratezza della prima volta.
Adesso la sua reputazione è migliorata. Non è più il partito antisistema di un tempo. I suoi dirigenti sembrano più posati. La
secessione è stata riposta in un cassetto. Ma la contestazione del
Risorgimento continua. E l'anno prossimo l'Unità nazionale verrà
festeggiata con un partito anti-risorgimentale al governo.
E' un dramma? No.
Un paradosso, però, sì.
Gli altri partiti e la tradizione unitaria
Il simbolo del Pdl è attraversato da un tricolore. Quello del Pd è
colorato, non per caso, di bianco, rosso e verde. Il maggior partito
di governo e il più grande partito d'opposizione mettono ben
chiaro che, quanto a italianità, hanno le carte a posto.
Il Popolo delle libertà, peraltro, è nato dalla fusione tra due partiti
43
che, già nel nome, alludevano all'Italia: Forza Italia e Alleanza
Nazionale: quindi saremmo di fronte al non plus ultra dell'amor
di Patria.
Ovviamente, non è così semplice.
Non si tratta di fare l'esame del sangue ai partiti per testare il loro
grado di patriottismo. Anche perché i partiti non sono tutto: di
questi tempi, che sono tempi – si dice – di disaffezione verso la
politica, i partiti non sembrano rispecchiare fedelmente e
completamente l'intero spettro di opinioni che caratterizza una
società di massa individualista, pluralista e post-ideologica che
pensa con la propria testa. I partiti di oggi non sono i vecchi
partiti d'integrazione di massa, i partiti-chiesa. Ma è interessante
capire come la classe dirigente interpreta la tradizione nazionale.
Poi, eventualmente, si tratta di capire se il popolo la recepisce o
la respinge.
Galli della Loggia, che abbiamo citato, non ravvisa una grande
consapevolezza politico-culturale nel ceto politico attuale. Lo
considera un ceto politico schiacciato sul presente, senza una
conoscenza del passato né una visione del futuro.
Abbiamo assodato, però, che questi partiti ostentano la loro
identificazione con l'Italia.
Ma l'Italia di cui parlano è l'Italia del Risorgimento?
L'Italia del Risorgimento non è un riferimento neutro. Non è
l'Italia in generale. E' una tradizione politica, ben identificabile,
che ha connotati suoi propri e un suo proprio orizzonte di valori,
che abbiamo cercato di abbozzare – con molta approssimazione –
nelle pagine precedenti.
Vediamo, in pochissime righe, come affrontano questo problema,
i due soggetti politici più rilevanti del nostro sistema.
A sinistra, ultimamente, si sogna Obama. Prima si celebrava
44
Zapatero e prima ancora Clinton (passando per un fugace amore
verso Tony Blair e il New Labour). Passando ai suoi riferimenti
italiani, la sinistra è ancorata, principalmente alle vicende della
Prima Repubblica, al legame affettivo con i partiti di
appartenenza (sia esso il Pci o la Dc) e alla lezione dell'ultimo
Bobbio. Del Risorgimento non c'è traccia.
A destra, lo sforzo d'interpretazione più generoso si è avuto dalle
parti di An, con la “Svolta di Fiuggi”. L'esigenza era quella di
ricomporre la frattura Fascismo/Antifascismo, e lo si fece
cercando di leggere la storia nazionale attraverso il paradigma
dell'italianità. L'idea era: siamo figli della cultura italiana, al di là
delle divisioni. Ispiratore della svolta, com'è noto, fu il professor
Domenico Fisichella. Ma più o meno sulla stessa linea si trovava
anche Marcello Veneziani, altro intellettuale d'area, che ne La
rivoluzione conservatrice in Italia sosteneva l'esistenza di
un'ideologia italiana, che si è declinata nel tempo in varie forme
ma che conserva un filo conduttore comune, una sua peculiarità,
un suo tratto specifico.27 An, partito della Nazione, doveva
identificarsi in questa ideologia e darle una rappresentanza.
Ovviamente, chiedo scusa per le semplificazioni a cui sono stato
costretto.
La mia tesi è che i riferimenti politico-culturali dei due partiti più
votati nel Paese siano, in larga parte, estranei al Risorgimento. Se
la sinistra privilegia un ancoraggio rassicurante al progressismo
mondiale, un progressismo dei diritti civili e dell'emancipazione,
la destra è divisa tra la dimensione anti-ideologica, aziendalista e
populista del berlusconismo, estranea ad una vera e propria
riflessione culturale e più legata all'istinto pre-politico e antipolitico del suo leader, e quella più consapevole del
conservatorismo nazionale finiano, che ha sempre coltivato una
27 M. Veneziani – La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco Edizioni, 1994
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ostentata passione patriottica, adesso declinata attraverso le forme
del patriottismo costituzionale e di una cittadinanza fondata sulla
scelta e non sui legami di sangue. Rispetto a questo tentativo
meta-politico, su cui di questi tempi si è molto scritto, vale la
pena di dire due parole. La destra di Fini non può richiamarsi
direttamente alla Destra risorgimentale, saltando a piè pari il
resto. Le sue origini affondano altrove, e con questo altrove – che
poi sono l'esperienza fascista e la testimonianza neo-fascista – ha
provato a fare i conti a Fiuggi. A Fiuggi, come detto, si è deciso
di prendere l'Italia tutta intera, rivendicando una continuità col
suo passato e con la sua tradizione culturale al di là delle
lacerazioni. Tuttavia, per molto tempo, il richiamo alla Patria è
stato poco più di un espediente retorico da comizio. Mentre il
Risorgimento liberale non è un'idea generica di Patria, ma una
ben precisa scelta di valori. Pur nella necessaria elasticità, che si
impone nel definire un'eredità politica, c'è un confine oltre il
quale non si può andare, senza tradire la verità storica. Il
tradizionale clericalismo della destra italiana – pur celato dietro
perentorie affermazioni ghibelline – non può andare d'accordo col
Risorgimento liberale. Le pulsioni autoritarie e anti-pluralistiche
nemmeno. Le politiche servili e sostanzialmente anti-nazionali,
neppure.
L'ultima versione della camaleontica destra finiana sembra
riscoprire la laicità ma la collega ad un vago libertarismo similpannelliano e ad una nebulosa rivendicazione di diritti civili,
piuttosto che alla vigorosa tradizione laica della Destra
risorgimentale.
L'idea della cittadinanza come scelta, invece, si richiama –
implicitamente – ad una interpretazione mazziniana della
comunità nazionale che aveva influenzato pure certe frange del
Fascismo, il quale – prima di far proprio il razzismo biologico –
46
vedeva nella Nazione una comunità di destino, non definito
etnicamente ma spiritualmente e culturalmente.
Tuttavia, il Risorgimento liberale non è tra i primi riferimenti
della destra nuova finiana, che invece ha i suoi modelli altrove,
nella rupture di Sarkozy (rivisitazione pop e sbarazzina della
vecchia passione gollista, emersa anche a Fiuggi) e nel
popolarismo europeo.
Tra i partiti che più valorizzano, al giorno d'oggi, la tradizione del
Risorgimento possiamo annoverare i Radicali. Debitori, già nel
nome, alla tradizione democratica e anticlericale del radicalismo
storico, si ergono a pugnaci paladini della laicità contro le
interferenze vaticane.
Il partito di Pannella ha preso, nel corso degli anni, varie strade
ed ha inseguito i più diversi obiettivi, dalla lotta antipartitocratica a quella contro la fame nel mondo, fino al liberismo
spinto degli anni Novanta, che lo vide convergere con il primo
Berlusconi nel nome della tanto agognata rivoluzione liberale.
Al di là delle tattiche contingenti, però, non ha mai abbandonato
l'anticlericalismo come fattore identitario e di riconoscibilità
politica. Si tratta di un anticlericalismo di marca antica, talvolta
un po' di maniera, ma vivace e coerente.
Storicamente, nella retorica pannelliana, hanno trovato più spazio
i richiami novecenteschi all'anti-totalitarismo che quelli al
Risorgimento, sebbene questi ultimi non manchino, specialmente
quando c'è da celebrare la tradizione laica e i suoi momenti
simbolici, come la Breccia di Porta Pia.
Tuttavia, nella presa di posizione anti-totalitaria che ha
caratterizzato il profilo ideologico del radicalismo italiano si
intravede senz'altro un nucleo di principi per nulla estranei ad un
47
orizzonte di pensiero che si vuole erede del Risorgimento
liberale.
Soffermiamoci un momento su questo aspetto.
Il termine anti-totalitarismo è stato considerato per molti anni
un'eresia, dal momento che metteva su uno stesso piano di
condanna morale il comunismo e il fascismo. Gli eroi della
cultura radicale sono sempre stati quegli intellettuali e scrittori
che si ribellarono a entrambe le dittature e che scelsero la
democrazia: da Ignazio Silone a Ernesto Rossi. Nel dopoguerra,
questa terza via venne perseguita dal gruppo del Mondo, guidato
da Mario Pannunzio, che è stato magna pars del progetto di
rinascita radicale, nel 1955, quando l'ala sinistra del Partito
liberale fece le valige, in polemica contro il conservatorismo
della nuova segreteria. Il movimento, però, ebbe vita breve,
messo in crisi dal cosiddetto caso Piccardi, ma soprattutto privo
di una base di massa. Negli anni '70, il Partito radicale venne
rilanciato dalla genialità e dall'estro politico di Marco Pannella,
che abbandonò lo snobismo un po' salottiero e l'allure britannica
della fase precedente, rivoluzionandone la strategia e la
comunicazione. Fece largo uso di una propaganda irriverente e
originale e usò l'arma del referendum per scardinare il potere
partitocratico. Il leader radicale amava presentare se stesso e il
suo movimento come i veri interpreti dell'antifascismo, tradito –
a suo dire – dai partiti di governo e di opposizione, uniti
nell'abbraccio consociativo. Il nuovo Fascismo era, insomma, la
partitocrazia.
48
La presidenza Ciampi: un nuovo patriottismo
Molti ricorderanno la polemica sui calciatori della nazionale che
non conoscevano le parole del nostro inno e accompagnavano le
sue note con un imbarazzante silenzio o masticando chewing
gum.
Anche quella volta (come nel già citato caso del 1982, di cui
parlava Accame), un fatto della cultura popolare si legò alle
riflessioni, più serie, sull'identità italiana. Alfiere di questo nuovo
patriottismo fu l'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi.
Ciampi sembrava, a prima vista, il meno adatto per un'operazione
del genere. Era un tecnocrate in grisaglia, un ex Governatore
della Banca d'Italia, autorevole, sì, ma di un'autorevolezza
burocratica che alludeva più alla dimensione legale-razionale che
a quella carismatica – per dirla con Weber.
Tuttavia, nonostante qualche inevitabile cedimento alla retorica,
il tentativo di Ciampi ebbe successo e contribuì a ridare un valore
non di parte ai simboli nazionali. Vennero riscoperti il tricolore e
l'inno, la Patria e il Risorgimento.
Fu una scelta meritoria, che consentì al Presidente della
Repubblica – che veniva da una cultura laico-azionista – di
suscitare consensi sia a destra che a sinistra.
E, tra le altre cose, i calciatori presero a cantare Fratelli d'Italia,
pur con molte stonature.
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Conclusioni
All'anniversario dell'anno prossimo, l'ideologia risorgimentale
arriva dunque un po' ammaccata, priva di fascino e di capacità
mitopoietica.
I leghisti la deridono, quando va bene, come una fissazione di
vecchi barbagianni. Gli altri, la cosiddetta sinistra e la sedicente
destra, ne parlano poco, perché hanno poco da dire.
In un periodo in cui tutti si riempono la bocca di valori, i valori
del Risorgimento sono fuori moda. Anche perché, coloro che
credevano in quei valori li praticarono, e non si limitarono a
strombazzarli. Talvolta commisero degli errori, ma li pagarono di
persona.
Forse il tempo edulcora il passato, ma coloro che fecero l'Italia
del Risorgimento appaiono migliori di quelli di oggi, che la
vogliono distruggere.
Gli uomini del Risorgimento ci hanno lasciato un'eredità politica,
che è l'Italia unita, bella o brutta che sia. Ma ci hanno lasciato
soprattutto un costume morale di serietà, di pulizia morale, di
senso dello Stato e di spirito di servizio.
In ultimo, lasciamo la parola a un uomo del Risorgimento nato
nel secolo sbagliato, Indro Montanelli.
Montanelli, che in gioventù era stato prima un fascista convinto e
poi uno scettico frondista, nel dopoguerra – forse per reazione –
scelse la via del disincanto e, talvolta, del cinismo. Si prese gioco
di tutte le illusioni, compresa quella in camicia nera che lo aveva
visto protagonista. E non risparmiò nemmeno il Risorgimento.
Ma davanti ai revanscismi neoguelfi, scattava in lui la molla
50
dell'orgoglio. Così, ad esempio, difendeva i Padri della Patria di
fronte alle acrimoniose accuse di parte clericale. Ed è con le
parole del grande giornalista, che concludiamo questo testo. Non
prima di aver fatto alla nostra Nazione gli auguri di buon
compleanno.
Se non furono degli eroi (anche su questo conveniamo), vorremmo sapere
quali furono gli eroi dell'antirisorgimento e delle masse popolari: forse i
sicofanti che con le loro delazioni mandavano i patrioti – se questa parola ha
ancora un senso – sulle forche, o i briganti sanfedisti di Calabria di Calabria e
Lucania, che perfino gli spodestati Borboni finirono per ripudiare?
“I padri della patria” […] forse non furono grandi padri, ma comunque lo
furono di una patria che – oggi lo vediamo – non ne meritava e non poteva
fornirne di migliori. […] Era fatale che, una volta allentatesi le maglie della
Dc, l'integralismo di un certo mondo cattolico lo avrebbe portato a confluire
sulle posizioni delle leghe. Le ispirazioni sono diverse, ma il nemico è
comune: lo Stato unitario e laico. E questo l'infame da schiacciare in nome di
un'Italia populista e invertebrata, un'Italia di parrocchie, anzi di “fochi”, di
carrocci e di gonfaloni: l'Italia insomma del “Francia o Spagna – basta che se
magna”, quale fu quella del prerisorgimento.
Dileguatosi, o in via di dileguarsi il pericolo comunista, e caduto quello di
Berlino, è questo il Muro che ci dividerà nel prossimo futuro. Da che parte,
nel nostro piccolo stiamo noi, mi sembra superfluo dirlo. Ci stiamo, sia
chiaro, con la piena consapevolezza dei nostri errori passati e presenti e della
nostra intrinseca debolezza. Ma anche con la coscienza che se con noi non c'è
tutto il meglio, contro di noi c'è sicuramente tutto il peggio. 28
28 Si tratta di una replica ad alcune tesi espresse durante meeting di Comunione e liberazione I.
Montanelli – Se questa è storia, in “Il Giornale”, 1 settembre 1990. Citato anche nell'antologia
di articoli montanelliani La stecca nel coro.1974-1994: una battaglia contro il mio tempo,
Rizzoli, 2000, pag. 40-41.
Sul rapporto tra Montanelli e l'ideologia risorgimentale, vedi anche S. Gerbi e R. Liucci –
Montanelli l'anarchico borghese, Einaudi, 2009. Così si esprimono i due autori
“Sin dall'89, anno in cui il leghismo comincia ad acquistare visibilità sulla stampa, non si contano i
sarcasmi di Montanelli su Bossi e la sua scarsa frequentazione del sapone, della grammatica e
dei manuali di galateo. Certo, ammette Indro, le Leghe sono il sintomo di malattie profonde e
radicate: lo sperpero di risorse nel Mezzogiorno, la furia lottizzatrice dei partiti, il parassitismo
di certa burocrazia romana, il degrado figlio dell'immigrazione incontrollata dal Sud del
mondo. E tuttavia il rimedio proposto – lo smembramento dello Stato è più nefasto dei mali da
sanare”. p. 175-176
51
BIBLIOGRAFIA
In ordine di citazione
G. Tomasi di Lampedusa – Il Gattopardo, Istituto geografico De
Agostini, 1985 (edizione originale Feltrinelli, 1958)
A. Carioti - Maledetti Azionisti, Editori Riuniti, Roma, 2001
D. Mack Smith – Cavour. Il grande tessitore dell'Unità d'Italia,
edizione speciale per “Il Giornale” (prima edizione Rcs Libri, 1985)
G. Carocci – Destra e sinistra nella storia d'Italia, Laterza, Bari, 2002
S. Romano, Libera Chiesa. Libero Stato? Il Vaticano e l'Italia da Pio
IX a Benedetto XVI, Longanesi e C., Milano, 2005
D. Mack Smith – Mazzini, Rcs Libri, Milano, 2002
G. Spadolini – Giolitti e i cattolici, Oscar Studio Mondadori, 1974
G. Ansaldo – Il Ministro della buona vita, Casa Editrice Le Lettere Firenze, 2002
E. Gentile – Le origini dell'Italia contemporanea. L'età giolittiana,
Laterza, 2003
A.Tarquini – Il Gentile dei fascisti, Il Mulino, 2009
F. Lanchester, La rappresentanza in campo politico, Giuffrè, 2006
52
G. Accame – Socialismo tricolore, Editoriale Nuova, 1983
A.A. V.V. Antologia di una rivista scomoda (a cura di G. Carocci),
Editori Riuniti, 1997, Roma
M. Veneziani – La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarco
Edizioni, 1994
I. Montanelli – La stecca nel coro. 1974-1994: una battaglia contro il
mio tempo, Rizzoli, 2000
S. Gerbi e R. Liucci – Montanelli l'anarchico borghese, Einaudi, 2009
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Curriculum del concorrente
DATI ANAGRAFICI
Nome: Saro
Cognome: Freni
Residenza: Via 27 luglio, 76 - Messina
Domicilio: Via Arturo Danusso, 23 - Roma
Luogo e data di nascita: Messina, 26 Marzo 1985
FORMAZIONE
• Diploma di maturità presso il Liceo scientifico statale “Archimede” di
Messina nel corso sperimentale linguistico Brocca, con la votazione di
100/100 con menzione
• Diploma di spagnolo conseguito presso l'“Istituto Cervantes”, livello
iniziale, nella sessione di aprile 2003, con la votazione di 95,64/100
• Laurea triennale in Scienze politiche, conseguita presso l'”Università
degli Studi di Messina” con la votazione di 100/100
• Iscritto alla facoltà di Scienze politiche presso l'Università “La
Sapienza” di Roma, corso di laurea magistrale
• Ha frequentato le scuole estive di Eurolab-Laboratorio d'Europa nel
2007, in Romania, e nel 2008, a Messina
LINGUE CONOSCIUTE
• Inglese
• Francese
• Spagnolo
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INDICE
Introduzione...........................................................................................1
Festeggiare?...........................................................................................4
Che cosa è rimasto del Risorgimento?.................................................22
Risorgimento e Seconda Repubblica...........................................36
La Lega contro l'Unità d'Italia....................................................40
Gli altri partiti e la tradizione unitaria.......................................43
La presidenza Ciampi: un nuovo patriottismo............................49
Conclusioni..........................................................................................50
Bibliografia..........................................................................................52
Curriculum del concorrente.................................................................54
55
Scarica

ci sentivamo una nazione, divenimmo uno stato cosa rimane oggi