Presentazione
È un inverno che non dà scampo quello che avvolge nel gelo
e nella neve il piccolo paese di St. Andrew, nel Maine, a pochi
chilometri dal confine canadese. È notte e la foresta ghiacciata
pare sussurrare nell’oscurità.
Luke, giovane medico di turno al pronto soccorso, si ritrova
davanti una ragazza dall’apparente età di diciannove anni e dalla
bellezza eterea e struggente. È atterrita e chiusa nel silenzio, ma
i suoi occhi sembrano gridare. Ha appena ucciso un uomo,
abbandonandone il cadavere nel bosco.
Si chiama Lanny e, con voce appena udibile, sostiene di aver
ucciso quell’uomo perché era stato lui a chiederglielo. Prega
Luke di aiutarla a scappare. Quando il dottore rifiuta, Lanny
afferra un bisturi e si squarcia il petto nudo.
Quello che succede dopo cambierà le loro vite per sempre.
Luke, sconvolto, accetta di aiutarla a scappare oltre confine.
E durante la fuga, lei gli rivela il proprio passato.
Lanny è immortale e ha più di duecento anni.
Il suo è il racconto di una donna travolta da un amore torbido,
appassionato e mai ricambiato abbastanza.
È il racconto di un uomo ossessionato dalla bellezza e dal
bisogno oscuro di possederla, un uomo che trasforma la
passione fisica in uno strumento di dominio.
È il racconto del terribile prezzo da pagare in cambio della
vita eterna.
ALMA KATSU è nata in Alaska, ma è cresciuta in un
piccolo paese del Massachusetts. Il suo lavoro di profiler della
CIA la ispira nell’indagine dei meandri, a volte oscuri,
dell’animo umano. Immortal è il suo primo romanzo.
Immortal
Agartha 269
Nota dell’Autrice
Immortal è un’opera di fantasia, perciò non credo che i lettori
vi si accostino attendendosi accuratezza storica. Tuttavia, vale la
pena di segnalare almeno una delle libertà che mi sono presa.
Non esiste una città chiamata St. Andrew nello Stato del Maine,
ma se un lettore cercasse di localizzarla basandosi sugli indizi
disseminati nel libro, scoprirebbe che se fosse reale sarebbe più
o meno in corrispondenza del luogo in cui, al giorno d’oggi, si
trova la città di Allagash. E secondo le testimonianze storiche,
non vi fu alcun insediamento abitativo in quella zona fino al
1860 circa. Tuttavia, la città acadiana di Madawaska, non molto
lontana, fu fondata nel 1785: ecco perché ho ritenuto di non
discostarmi troppo dalla realtà immaginando che Charles St.
Andrew avesse fondato la sua città in quegli anni.
Parte I
1
Maledetto gelo. Il fiato di Luke Findley rimane sospeso
nell’aria, quasi solidificato, come un nido di vespe congelato,
privato di tutto l’ossigeno. Le mani stringono con forza il
volante; è ancora insonnolito, si è svegliato appena in tempo per
correre all’ospedale a fare il turno di notte. Intorno a lui, i campi
coperti di neve sembrano fantasmi dai riflessi bluastri sotto la
luce della luna, blu come labbra insensibili per l’ipotermia. La
neve è così alta che copre ogni traccia dei ceppi e dei rovi che
solitamente infestano i campi fino a soffocarli. Sembra tutto in
pace, pieno di quiete, ma è soltanto un’impressione ingannevole.
Spesso Luke si è chiesto perché i suoi compaesani si ostinino
a rimanere in quella punta estrema a nord del Maine. È un posto
desolato, gelido, dove è quasi impossibile coltivare la terra.
L’inverno regna per metà dell’anno, la neve si accumula e arriva
fino ai davanzali delle finestre, e un vento gelido sferza i campi
di patate abbandonati.
Di tanto in tanto, capita che qualcuno muoia assiderato e
siccome Luke è uno dei pochi dottori della zona ne ha già visti
parecchi, di casi di congelamento. Un ubriaco (e a St. Andrew
non ne mancano) si addormenta accasciato contro un cumulo di
neve e la mattina dopo è diventato un ghiacciolo umano. Un
ragazzo che pattina sul fiume Allagash incappa in una zona in
cui il ghiaccio è troppo sottile per sostenere il suo peso. A volte,
il corpo viene ritrovato a metà strada verso il Canada, alla
confluenza fra l’Allagash e il St. John. Un cacciatore viene
accecato dalla neve e non riesce più a trovare il sentiero che lo
porti fuori dai grandi boschi a nord e il suo corpo viene ritrovato
seduto contro un tronco, il fucile abbandonato in grembo.
Non è stato un incidente, aveva detto disgustato a Luke lo
sceriffo, Joe Duchesne, quando il corpo del cacciatore era stato
portato in ospedale. Il vecchio Ollie Ostergaard voleva morire.
È stato soltanto il suo modo di suicidarsi. Luke sospetta che se
fosse stato vero, Ostergaard si sarebbe semplicemente sparato in
testa. Morire per ipotermia è un processo lento: c’è tutto il tempo
per ripensarci.
Luke parcheggia il suo furgoncino in un posto libero di fronte
all’ospedale, spegne il motore e intanto si ripromette, per
l’ennesima volta, di andarsene via da St. Andrew. Non deve far
altro che vendere la fattoria dei suoi genitori e poi sarà pronto
per trasferirsi. Anche se non ha ancora idea di dove. Luke
sospira, come d’abitudine, estrae le chiavi dal blocchetto di
accensione e si dirige verso l’entrata del pronto soccorso.
«Ciao, Luke» lo saluta l’infermiera di turno. Lui le passa
davanti, sfilandosi i guanti. Appende il parka nell’angusta sala
dello staff medico e ritorna all’accettazione.
Judy lo blocca. «Ha chiamato Joe. Sta portando qui un
prigioniero, vuole che tu gli dia un’occhiata. Dovrebbe arrivare
da un momento all’altro.»
«Un camionista?» Quando capita qualche guaio, di solito c’è
di mezzo uno dei camionisti delle ditte di trasporto tronchi. Ogni
due per tre vanno al Blue Moon, si ubriacano e poi scoppia la
rissa.
«No.» Judy è distratta, sta facendo chissà che davanti al
computer. La luce del monitor si riflette sulle sue lenti bifocali.
Luke si schiarisce la voce per richiamare la sua attenzione.
«Di che si tratta allora? Qualcuno di qui?»
Luke è stufo marcio di ricucire e rammendare i suoi
compaesani. Sembra quasi che solo gli ubriachi, i rissosi e i
disadattati riescano a sopportare di vivere in quella città
dimenticata da Dio.
Judy finalmente alza lo sguardo dal monitor, puntandosi i
pugni contro i fianchi. «No, stavolta è una donna. E non è di
qui.»
Strano. Capita molto raramente che la polizia porti in
ospedale delle donne, e di solito quando succede vuol dire che
sono le vittime. Una moglie dopo una litigata col marito. O,
d’estate, una turista che si ficca in qualche guaio al Blue Moon.
Ma in quel periodo dell’anno è impossibile che si tratti di una
turista.
Per lo meno è qualcosa di diverso: la notte sembra più
promettente, così. Luke prende una cartellina. «Va bene. Che
altro abbiamo?»
Ascolta distrattamente Judy che fa il riepilogo di quanto è
successo durante il turno precedente. È stata una serata
indaffarata, ma in quel momento, alle dieci di sera, tutto è
quieto.
Piuttosto che ascoltare l’ennesimo aggiornamento sui
preparativi del matrimonio della figlia di Judy, Luke torna nella
saletta ad aspettare da solo lo sceriffo. Non ne può più di lezioni
sul costo dei vestiti da sposa, del catering, dei fioristi. Dille di
scappare, aveva suggerito Luke a Judy, una volta, e lei l’aveva
squadrato come se lui avesse confessato di essere un terrorista.
Per una ragazza, il matrimonio è il giorno più importante
della vita, aveva sbottato Judy. Tu non sai neanche che cosa
voglia dire romanticismo, vero? Non mi sorprende che Tricia ti
abbia chiesto il divorzio.
Lui aveva smesso di precisare ogni volta che non era stata lei
a chiedere il divorzio, ma lui. Tanto nessuno lo ascoltava.
Luke sprofonda nel malconcio divanetto e cerca di svagarsi
con un Sudoku. Ma non può fare a meno di ripensare al tragitto
appena compiuto per arrivare in ospedale: le case affacciate
sulle strade deserte, qualche luce solitaria che brilla nella notte.
Ma cosa fa quella gente chiusa in casa nelle lunghe ore
d’inverno? Siccome è il medico del paese, non ci sono segreti
per Luke. Conosce ogni vizio: sa chi picchia la moglie e chi ha la
mano pesante coi figli. Chi beve troppo e finisce col camioncino
contro un banco di neve. Chi ha una depressione cronica, sfinito
dall’ennesima annata senza raccolto, privo di prospettive future.
I boschi attorno a St. Andrew sono fitti di misteri oscuri. E
ricordano a Luke perché voglia così disperatamente andarsene
da quel posto. È stufo marcio di conoscere tutti quei segreti. E
non sopporta più che tutti sappiano il suo.
E poi c’è quell’altra cosa, quella a cui ultimamente pensa
ogni volta che entra in ospedale. Non è passato molto tempo
dalla morte di sua madre e ricorda ancora perfettamente la notte
in cui la trasferirono nel reparto che, con un eufemismo
evidente, chiamavano «l’ospizio»: stanze piene di pazienti
ormai troppo vicini alla fine per poterli trasferire senza rischi al
centro di riabilitazione di Fort Kent. Le funzioni cardiache erano
scese sotto il dieci per cento e ogni respiro le costava uno sforzo
immane, anche con la maschera d’ossigeno.
Era rimasto seduto accanto a lei tutta la notte, da solo perché
ormai tutti gli altri visitatori se n’erano andati a casa. Quando lei
aveva avuto l’ultimo arresto cardiaco, lui le stava stringendo la
mano. Era ormai sfinita e si era irrigidita per un solo brevissimo
istante, poi la sua stretta si era allentata ed era scivolata via in
silenzio, come il tramonto diventa notte. L’allarme si era
attivato subito: l’infermiera di turno era entrata, ma Luke
l’aveva allontanata con un cenno dalle apparecchiature e le
aveva spente, quasi sovrappensiero. Poi, con lo stetoscopio che
teneva al collo, le aveva controllato battiti e respirazione.
Se n’era andata.
L’infermiera gli aveva chiesto se desiderasse rimanere un po’
da solo e lui aveva detto di sì. Era da una settimana che rimaneva
nel reparto di terapia intensiva con sua madre, giorno e notte, e
ora gli sembrava impossibile, ingiusto, andarsene e lasciarla lì.
Così, rimase seduto accanto al suo letto con lo sguardo perso nel
nulla, o comunque lontano dal corpo nel letto, e intanto cercò di
pensare alle prime cose da fare. Doveva avvertire i parenti:
erano tutti agricoltori che vivevano nella parte meridionale del
paese... Chiamare padre Lymon alla chiesa cattolica, la chiesa
che lui non riusciva più a frequentare... Scegliere una bara...
Troppi dettagli che richiedevano la sua attenzione. Sapeva
benissimo che cosa avrebbe dovuto fare nei giorni seguenti
perché ci era già passato appena sette mesi prima, quando era
morto suo padre. Ma il pensiero di dover riaffrontare tutto da
capo lo sfiniva. Era in momenti come quello che sentiva di più la
mancanza della sua ex moglie. Tricia era un’infermiera ed era
sempre stata un sostegno per lui nei momenti difficili. Era una
persona stabile e concreta, non perdeva mai la testa neanche di
fronte agli eventi più dolorosi.
Ma ormai era inutile desiderare che le cose stessero in
maniera diversa. Ormai era da solo e avrebbe dovuto risolvere
tutto così: da solo. Arrossì per la vergogna ripensando a sua
madre, a come lei avrebbe tanto voluto che lui e Tricia
rimanessero insieme, a come l’aveva rimproverato per averla
lasciata andare. Lanciò uno sguardo colpevole alla madre morta
di fianco a lui.
Aveva gli occhi aperti. Ma solo un minuto prima erano
chiusi.
Luke sentì una stretta al cuore, un brivido di speranza anche
se sapeva benissimo che non significava nulla. Si trattava
soltanto di un impulso elettrico che aveva attraversato i nervi a
mano a mano che le sue sinapsi avevano smesso di funzionare,
come una macchina che scoppietta dal tubo di scappamento
mentre le ultime gocce di benzina alimentano il motore. Allungò
la mano e glieli chiuse.
Si riaprirono una seconda volta, naturalmente, come se sua
madre si stesse svegliando. Luke fu sul punto di balzare in piedi,
terrorizzato, ma riuscì a reprimere l’impulso. In realtà, non era
terrore, ma sorpresa. Riprese lo stetoscopio, si chinò su di lei e le
poggiò la membrana sul petto.
Silenzio. Nessun rumore di sangue che scorre nelle vene,
nessuna eco di respiro. Le prese il polso. Non c’era battito.
Controllò l’orologio: erano passati quindici minuti da quando
aveva dichiarato morta sua madre. Lasciò andare la mano,
riappoggiandogliela sulle lenzuola, e intanto continuò a fissarle
gli occhi aperti. Aveva la distinta impressione che lei
ricambiasse il suo sguardo, che i suoi occhi fossero puntati su di
lui.
E poi, di colpo, la mano di sua madre si alzò dal lenzuolo e lo
cercò. Si aprì verso di lui, col palmo rivolto verso l’alto,
invitandolo a stringergliela. E lui lo fece, chiamandola per
nome, ma subito dopo averla afferrata la lasciò andare. Era
fredda e senza vita. Luke si allontanò dal letto, strofinandosi la
fronte, chiedendosi se avesse le allucinazioni. Quando si voltò a
guardarla, lei era immobile, gli occhi chiusi. Luke aveva il cuore
in gola, il respiro mozzato.
Ci vollero tre giorni prima che si decidesse a parlare con un
altro dottore di quello che era successo. Scelse il vecchio John
Mueller, un medico generico dall’atteggiamento molto
pragmatico, noto perché aiutava a far nascere i vitelli del vicino.
Mueller gli lanciò uno sguardo scettico, come se sospettasse che
Luke avesse bevuto un po’ troppo. Dita dei piedi o delle mani
che hanno spasmi, sì, può succedere, disse, ma quindici minuti
dopo la morte? Movimenti muscolo-scheletrici completi?
Mueller squadrò ancora una volta Luke: era come se ci fosse da
vergognarsi soltanto a parlarne, di cose come quelle. Credi di
averlo visto perché volevi vederlo. Non volevi che lei fosse
davvero morta.
Luke sapeva che non era così. Ma decise di non sollevare mai
più la questione, non con altri dottori almeno.
E comunque, aveva insistito Mueller, che differenza farebbe?
Il corpo si è mosso un po’, e quindi? Credi che lei stesse
cercando di dirti qualcosa? Credi davvero in tutte quelle
sciocchezze della vita dopo la morte?
Ripensarci ora, quattro mesi dopo, provoca a Luke ancora dei
brividi che gli scorrono gelidi lungo le braccia. Riappoggia il
libro dei Sudoku sul tavolino e si massaggia il cranio con la
punta delle dita, cercando di schiarirsi le idee. La porta dello
studiolo si apre, una sottile fessura da cui spunta la voce di Judy:
«Joe sta parcheggiando qui davanti».
Luke esce senza il parka, così che il freddo lo svegli del tutto.
Osserva Duchesne avvicinarsi al cordone del marciapiede
con il suo SUV bianco e nero, lo stemma della polizia di Stato
del Maine stampato sulle portiere anteriori e una minuscola
sirena lampeggiante fissata sul tettuccio. Luke conosce
Duchesne sin dai tempi della scuola. Non erano nella stessa
classe, ma i loro percorsi si erano incrociati a lungo, tanto che
Luke si era ritrovato davanti il volto magro da furetto con gli
occhi piccoli e lucenti e il naso aguzzo di Duchesne per più di
vent’anni.
Tenendosi le mani sotto le ascelle per riscaldarle, Luke
osserva Duchesne aprire la portiera posteriore e afferrare il
prigioniero per un braccio. È curioso di vedere chi abbiano
ammanettato stavolta. Si aspetta di trovarsi di fronte una
motociclista massiccia e mascolina, col volto arrossato e un
labbro spaccato, e lo sorprende invece vedere che si tratta di una
ragazza piuttosto minuta. Forse addirittura un’adolescente. Esile
come un ragazzino, ma con dei lineamenti molto aggraziati e
una capigliatura folta e riccia come quella di un cherubino.
Guardando la donna (o ragazza?) Luke prova uno strano
formicolio, un mormorio dietro gli occhi. Il battito accelera
quasi come se la... riconoscesse? Ti conosco, pensa. Non sa il
suo nome, forse, ma la conosce a un livello molto più
fondamentale, intimo. Che cosa sta succedendo? Luke strizza gli
occhi, osservandola più attentamente. L’ho già vista da qualche
parte? No. Si sta sbagliando.
Mentre Duchesne la sospinge per un braccio, allacciato
all’altro da un paio di manette di plastica, sopraggiunge una
seconda auto della polizia, e un altro agente, Clay Henderson,
scende e prende in consegna la prigioniera, accompagnandola
dentro il pronto soccorso. Quando gli passano davanti, Luke
nota che la camicia della prigioniera è inzuppata da un liquido
nero che emana un odore per lui familiare, un odore salato e
ferrigno. Sangue.
Duchesne si avvicina a Luke, indicando l’altra coppia con un
cenno del mento. «L’abbiamo trovata che camminava sul bordo
della strada camionabile, verso Fort Kent.»
«Era vestita così? Andava in giro senza cappotto, con questo
freddo? Non poteva essere fuori da tanto tempo, allora.»
«Direi di no. Senti, Luke, devi dirmi se è ferita e ha bisogno
di cure. In caso contrario, la porto in centrale e finisce in cella.»
Rispetto alla media dei poliziotti, Luke ha sempre pensato
che Duchesne avesse la mano troppo pesante: ne ha visti di
ubriachi portati dentro da lui in pessime condizioni, con evidenti
lividi sul volto o bernoccoli in testa. Ma questa ragazza è poco
più che un’adolescente, insomma. Che cosa poteva aver mai
fatto di così terribile? «Perché l’avete fermata? La accusate di
non portare il cappotto con questo freddo?»
Duchesne lancia uno sguardo gelido a Luke. Non gli piace
quando lo prendono in giro. «La ragazza è un’assassina. Ci ha
confessato di aver pugnalato a morte un uomo e di aver
abbandonato il suo corpo nei boschi.»
Luke segue alla lettera la procedura, ma riesce a malapena a
pensare a quello che sta facendo. La testa gli pulsa in modo
insopportabile. Punta una luce negli occhi della prigioniera –
sono dell’azzurro più chiaro che lui abbia mai visto, come due
schegge di ghiaccio – per controllare la dilatazione delle pupille.
La pelle della ragazza è appiccicosa al tatto, il battito è rallentato
e respira con fatica.
«È molto pallida» riferisce Luke a Duchesne, mentre si
allontanano dalla barella cui la prigioniera è stata assicurata con
dei lacci ai polsi. «Sembra cianotica, forse sta per entrare in stato
di shock.»
«Vuol dire che è ferita?» chiede Duchesne, scettico.
«Non è detto. Potrebbe trattarsi di un trauma psicologico,
forse dovuto a una colluttazione. Magari proprio con l’uomo che
dice di aver ucciso. Come fai a essere sicuro che non si sia
trattato di legittima difesa?»
Duchesne insacca i pugni sui fianchi e fissa la prigioniera
sulla barella, come se potesse strapparle la verità con la sola
forza del suo sguardo. Sposta il peso da un piede all’altro. «Non
sappiamo un bel niente... Non è che abbia detto molto. Non puoi
semplicemente controllare se ha qualche ferita? Perché se è
illesa viene con me in centrale...»
«Devo toglierle quella camicia e lavarle via tutto il sangue...»
«Datti da fare, allora. Non posso star qui tutta la notte. Ho
lasciato Boucher da solo nei boschi a cercare quel corpo.»
Anche con la luce della luna piena, i boschi sono vasti e
oscuri, e Luke sa bene che l’agente Boucher ha ben poche
speranze di trovare quel cadavere da solo.
Luke pizzica l’orlo del guanto di lattice che indossa per farlo
aderire bene. «Allora vai a dare una mano a Boucher, così
intanto io faccio gli esami del caso...»
«Non posso lasciar qua da sola la prigioniera.»
«Santo Dio, ma guardala» sbotta Luke, indicando con il capo
la ragazza. «Non credo proprio che sia in grado di sopraffarmi e
scappare. Se è questo che ti preoccupa, lascia qui Henderson.»
Entrambi lanciano uno sguardo dubbioso verso Henderson. Il
corpulento agente è appoggiato al bancone, sfoglia un vecchio
numero di Sports Illustrated abbandonato nella sala d’aspetto,
tenendo fra le mani una tazzina di caffè preso alla macchinetta.
Ha la fisionomia di un orso dei cartoni animati e, allo stesso
modo, ne ha l’identica indolenza amichevole. «Non ti sarebbe di
molto aiuto nei boschi... Tranquillo, non succederà niente» dice
Luke con impazienza, allontanandosi dallo sceriffo come se la
decisione ormai fosse presa. Avverte lo sguardo di Duchesne
perforargli la schiena, indeciso se mettersi a discutere con lui.
Ma alla fine lo sceriffo si ritira in buon ordine, dirigendosi
verso le doppie porte scorrevoli. «Tu resta qui con la
prigioniera!» urla a Henderson, calcandosi il pesante cappello di
pelliccia sul cranio. «Io torno ad aiutare Boucher. Quell’idiota
non riuscirebbe a trovarsi il culo nemmeno con una mappa.»
Luke e l’infermiera si dedicano alla donna sulla barella. Lui
soppesa un paio di forbici. «Dovrò tagliarle la camicia per
togliergliela» la avvisa.
«Faccia pure. Ormai è rovinata» mormora lei, con un accento
che Luke non riconosce. La camicia è evidentemente costosa, il
tipo di capo d’abbigliamento che si vede sulle riviste di moda.
Nessuno lo indosserebbe lì a St. Andrew.
«Lei non è di queste parti, vero?» osserva Luke, cercando di
ammorbidirla con qualche chiacchiera generica.
Lei gli osserva il volto ancora una volta, come per valutare se
può davvero fidarsi di lui – o almeno, questa è l’impressione che
ne ha Luke. «A dire il vero, sono nata qui. Ma è successo molto
tempo fa.»
Luke sorride. «Molto tempo per lei, forse. Se fosse davvero
nata qui, la conoscerei. Ho vissuto da queste parti per quasi tutta
la mia vita. Come si chiama?»
Lei non ci casca. «Non può conoscermi» si limita a
rispondere, in tono piatto.
Per qualche minuto l’unico suono che si sente è quello della
stoffa bagnata che viene tagliata, con fatica, le punte acuminate
delle forbici che si fanno strada lentamente attraverso il tessuto
inzuppato. Una volta eseguito il taglio, Luke indietreggia per
permettere a Judy di ripulire la ragazza con della garza bagnata
d’acqua calda. Le strisce di sangue rosso si dissolvono,
rivelando un petto magro e pallido. E senza nemmeno un
graffio. L’infermiera appoggia il forcipe con la garza su un
vassoio metallico, rumorosamente, e poi esce con sussiego dalla
stanza, come se avesse sempre saputo che non avrebbero trovato
niente e che Luke, ancora una volta, avrebbe fatto la figura
dell’incompetente.
Luke distoglie lo sguardo e porge alla ragazza un
asciugamano di carta con cui coprirsi il petto.
«Gliel’avrei detto che non ero ferita. Bastava chiedermelo»
sussurra lei a Luke.
«Allo sceriffo non l’ha detto, però» risponde Luke,
prendendo uno sgabello.
«No. Ma l’avrei detto a te.» Fa un cenno verso il dottore.
«Hai una sigaretta? Muoio dalla voglia di fumare.»
«Mi dispiace, non ne ho, non fumo» replica Luke.
La ragazza lo guarda, i suoi occhi azzurri gli esplorano il
volto.
«Hai smesso tempo fa, ma hai ricominciato. Non che te ne
faccia una colpa, visto tutto quello che hai passato di recente.
Ma se non sbaglio hai un paio di sigarette nella tasca del
camice.»
Per pura reazione istintiva, Luke infila la mano nella tasca e
le sente, sono proprio dove le aveva lasciate. Aveva soltanto
tirato a indovinare ed era stata fortunata o gliele aveva viste in
tasca?
E che cosa intendeva con quel visto tutto quello che hai
passato di recente? Sta soltanto facendo finta di leggergli i
pensieri, sta soltanto cercando il modo di manipolarlo, come
farebbe qualsiasi ragazza intelligente che si fosse cacciata in un
bel guaio. E d’altronde, è assolutamente vero che la
preoccupazione gli si legge in faccia, negli ultimi tempi. Non
riesce a trovare un modo di raddrizzare la sua vita, tutto qui; i
suoi problemi sono troppo legati l’uno all’altro, come
ammucchiati. Per risolverne uno, dovrebbe risolverli tutti.
«Qui è vietato fumare e, nel caso non se ne fosse accorta, lei è
legata alla barella.» Luke fa scattare la punta della sua penna e
prende una cartella. «Siamo un po’ a corto di personale stasera,
quindi avrei bisogno che lei mi fornisse qualche dato per
l’archivio dell’ospedale. Nome?»
Lei fissa la cartella con circospezione. «Non mi va di dirlo.»
«Perché? È scappata di casa? Per questo non me lo vuole
dire?»
Luke la osserva: è tesa, in guardia, ma perfettamente padrona
di sé. Gli è già capitato di assistere pazienti coinvolti in morti
accidentali e di solito sono in preda a crisi isteriche: piangono,
tremano, gridano. Ma questa ragazza trema solo leggermente
per il freddo, coperta com’è soltanto da un asciugamano di carta,
e l’unico segno di nervosismo sono le gambe che ogni tanto
hanno qualche scatto. Eppure basta guardarla in volto per capire
che è sotto shock.
E Luke avverte anche che se la sta prendendo a cuore; o forse
qualcosa di più, qualcosa di alchemico fra di loro, come se lei lo
stesse inducendo a chiederle di raccontargli le cose terribili che
sono successe nel bosco. «Le va di dirmi cos’è successo
stanotte?» le domanda alla fine, avvicinandosi alla barella.
«Stava facendo l’autostop? Forse l’ha tirata su un uomo, quello
nel bosco... e l’ha aggredita? E lei si è difesa?»
Lei sospira e abbandona la testa sul cuscino della barella.
«Niente del genere. Ci conoscevamo. Siamo venuti in città
insieme. Lui...» Si blocca, come se le parole la strozzassero.
«Lui mi ha chiesto di aiutarlo a morire.»
«Eutanasia? Era un malato terminale? Cancro?» Luke è
scettico. Chi vuole uccidersi di solito sceglie un metodo
tranquillo e sicuro: veleno, pillole, il motore della macchina
acceso e una canna da giardinaggio infilata nel tubo di
scappamento. Non chiede a qualcuno di pugnalarlo a morte. Se
il suo amico voleva davvero morire, gli sarebbe bastato rimanere
sotto le stelle tutta la notte, fino all’assideramento.
Luke lancia uno sguardo verso la donna: sta tremando,
coperta soltanto dal velo di carta ospedaliera. «Aspetti, vado a
prenderle un camice e una coperta. Sta morendo dal freddo.»
«Grazie» dice lei, abbassando finalmente lo sguardo.
Poco dopo, lui torna con una consunta gonna di flanella
dall’orlo rosa e una coperta di pile azzurro bambino. Sono colori
tipici del reparto maternità. Le osserva le mani, legate alla lettiga
con lacci di nylon. «Va bene, slegherò una mano alla volta»
dice, liberandole la mano più vicina al vassoio degli strumenti,
dove giacciono un forcipe, delle forbici insanguinate e un
bisturi.
Veloce come una lepre, lei afferra il bisturi con la mano
magra e affusolata. Lo punta verso di lui, lo sguardo folle, le
narici arrossate e dilatate.
«Ehi, vacci piano!» esclama Luke, allontanandosi quanto
basta per uscire dal raggio d’azione del bisturi. «C’è un agente in
fondo al corridoio. Se lo chiamo per te è finita, lo capisci? Siamo
in due, non puoi farcela con un bisturi. Adesso calmati e mettilo
giù...»
«Non chiamarlo» dice lei, col braccio ancora teso. «Non
farlo. Ho bisogno che tu mi ascolti.»
«Ti ascolto.» La lettiga si trova tra Luke e la porta. Lei
potrebbe tagliare il nylon e liberarsi l’altra mano nel tempo che
gli ci vorrebbe per aggirarla e uscire.
«Ho bisogno del tuo aiuto. Non posso finire in cella. Devi
aiutarmi a scappare.»
«Scappare?» Di colpo, Luke smette di preoccuparsi che la
donna lo ferisca col bisturi. Prova soltanto un forte imbarazzo
per aver abbassato la guardia, mettendosi in quella situazione.
«Sei pazza? Non ho alcuna intenzione di aiutarti a scappare!»
«Ascoltami, ti prego...»
«Hai ucciso un uomo stanotte. L’hai confessato tu stessa.
Non posso aiutarti a scappare.»
«Non è stato un omicidio. Voleva morire, te l’ho detto.»
«Ed è venuto qui a farsi ammazzare perché anche lui è
cresciuto qui?»
«Sì» dice lei, un po’ sollevata.
«Allora dimmi chi è, magari lo conosco.»
Lei scuote la testa. «Te l’ho detto, non ci conosci. Nessuno
qui ci conosce.»
«E tu come fai a saperlo? Forse conosciamo qualcuno dei tuoi
parenti...»
«La mia famiglia non vive a St. Andrew da molto, molto
tempo.» Sembra esausta. Ma d’improvviso scatta. «Credi di
sapere tutto, eh? Va bene. Mi chiamo McIlvrae. Conosci
qualcuno con questo cognome? E l’uomo nella foresta si chiama
St. Andrew.»
«St. Andrew come il paese?»
«Esattamente, come il paese» risponde lei con aria di sfida.
Luke avverte una strana sensazione dietro agli occhi, come
un sobbollire di qualcosa che sta venendo a galla. Non è un
ricordo, non ancora... Dove l’ha visto quel cognome, McIlvrae?
È certo di averlo già sentito o visto da qualche parte, ma non
riesce ad afferrare il ricordo.
«Non c’è nessuno di nome St. Andrew qui da, oh, almeno
cent’anni» precisa Luke, infastidito dall’aria saccente di quella
ragazza che insiste ad affermare di essere nata lì, ostinandosi in
una menzogna che non può certo aiutarla in quella situazione.
«Dai tempi della guerra civile, a quanto mi hanno detto.»
Lei agita il bisturi verso di lui per attirare la sua attenzione.
«Ascolta, non sono certo pericolosa. Se mi aiuti a scappare, non
farò del male a nessuno.» Gli parla come a un bambino che non
intenda sentire ragioni. «Voglio mostrarti una cosa.»
Poi, senza preavviso, punta il bisturi verso di sé.
E si incide un profondo taglio nel petto. Un lungo taglio che
parte dal seno sinistro e le arriva al costato, sotto il seno destro.
Per un attimo, Luke resta impietrito. Il taglio si riempie di rosso,
il sangue comincia a sgorgare, i tessuti carnosi iniziano a
fuoriuscire dalla ferita.
«Oddio.» Cosa diavolo c’è che non va in quella ragazza? Ma
è pazza? O è solo istinto suicida? Luke si riscuote dallo stupore e
si avvicina alla lettiga.
«Indietro! Stai indietro» sbotta lei, agitandogli contro il
bisturi. «Devi soltanto guardare. Voglio che guardi.»
Lei sporge il petto, allargando le braccia come per offrirgli
una vista migliore, ma Luke vede benissimo. Solo che non riesce
a credere ai propri occhi.
I margini della ferita si stanno avvicinando, come viticci,
ricongiungendosi, riallacciandosi. Il taglio ha cessato di
sanguinare e si sta rimarginando. La ragazza respira
affannosamente ma a parte questo non mostra alcun segno di
sofferenza.
Luke non è più sicuro di essere sveglio, in piedi sul
pavimento. Quello che sta osservando è impossibile.
Impossibile! Cosa dovrebbe pensare? Sta impazzendo o sta
sognando, addormentato sul divanetto nella sala dei dottori?
Qualsiasi cosa stia succedendo, la sua mente rifiuta di accettarlo
e inizia a chiudersi in se stessa.
«Che cosa...» mormora appena percettibilmente. Ricomincia
a respirare, il petto che si gonfia e si sgonfia freneticamente, il
volto arrossato. Avverte un conato di vomito.
«Non chiamare il poliziotto. Ti spiegherò tutto, te lo giuro,
ma non chiamare aiuto. Okay?»
Luke barcolla. D’un tratto, il silenzio del pronto soccorso lo
avvolge. Non è nemmeno più certo che ci sia ancora qualcuno da
chiamare. Dov’è Judy, dov’è il poliziotto? È come se la fata
della bella addormentata fosse entrata di soppiatto in quell’ala
dell’ospedale e avesse lanciato un incantesimo facendo
scivolare tutti quanti nel sonno più profondo. Oltre la porta della
saletta c’è il buio, le luci vengono abbassate durante il turno di
notte. I rumori sempre presenti – l’eco delle risate di un
programma televisivo, il ticchettio metallico del distributore di
bevande – sono scomparsi. Non si sente il ronzio della
lucidatrice che lentamente percorre i corridoi deserti. Ci sono
soltanto Luke e la sua paziente e il suono attutito del vento che
sferza le pareti e le vetrate dell’ospedale, cercando di aprirsi una
strada.
«Che cos’è stato? Come hai fatto?» le chiede Luke, incapace
di nascondere l’orrore nella propria voce. Si rimette sullo
sgabello per non accasciarsi sul pavimento. «Che cosa sei tu?»
Quell’ultima domanda sembra colpirla come un pugno allo
sterno. Lei china il capo e i riccioli biondi le nascondono il viso.
«Questa... Questa è l’unica cosa che non so spiegarti. Non so più
che cosa sono. Non ne ho idea.»
È impossibile. Cose come quella che ha appena visto
semplicemente non succedono. Non c’è nessuna spiegazione
plausibile. Si tratta di una mutante? È fatta di un materiale
sintetico autoriparante? È forse una specie di... mostro?
Eppure sembra normale, pensa il dottore, e il cuore prende di
nuovo ad accelerare e il battito gli rimbomba nelle orecchie. Il
pavimento di linoleum comincia a ondeggiare sotto i suoi piedi.
«Io e lui siamo tornati qui perché questo posto ci mancava.
Sapevamo che tutto sarebbe stato diverso, che non avremmo
visto nessuno di quelli che conoscevamo perché se ne sono
andati tutti, ma sentivamo la mancanza di quello che avevamo
una volta» spiega la donna con tono malinconico, lo sguardo
perso oltre il dottore, come se parlasse da sola.
La sensazione che lui aveva provato quando l’aveva vista per
la prima volta quella sera – il formicolio, il mormorio dietro gli
occhi – li unisce ancora, facendo vibrare l’aria di una sottile
corrente elettrica. Vuole sapere. «Va bene» dice con voce
tremante, le mani strette alle ginocchia. «È una follia, ma... Vai
avanti. Ti ascolto.»
Lei trae un profondo respiro e chiude gli occhi per un
momento, come se stesse per tuffarsi sott’acqua. E poi inizia.
2
Territorio del Maine, 1809
L’inizio è l’unica cosa che ha senso, per me, quindi è
dall’inizio che partirò. Lo conservo scolpito nella memoria, per
paura che vada perduto nel corso del mio viaggio, nell’infinito
svolgersi del tempo.
Il mio primo ricordo chiaro e distinto di Jonathan St. Andrew
risale a un’assolata domenica mattina. Eravamo in chiesa. Lui
era seduto in fondo al banco riservato alla sua famiglia, nelle
prime file. A quel tempo aveva solo dodici anni, ma era già alto
come gli uomini del villaggio. Alto quasi come suo padre,
Charles, l’uomo che aveva fondato il nostro piccolo
insediamento.
Mi avevano raccontato che, un tempo, Charles St. Andrew
era stato un ardito capitano dell’esercito, ma ora era un uomo di
mezz’età con un ventre prominente, da benestante.
Jonathan non seguiva con particolare attenzione la funzione,
ma del resto molto probabilmente ben pochi di noi la seguivano.
La messa domenicale durava almeno quattro ore, e arrivava a
otto se il prete si sentiva particolarmente ispirato ed eloquente,
quindi nessuno avrebbe potuto affermare in tutta onestà di aver
ascoltato con devozione ogni parola del sacerdote. Nessuno,
tranne forse la madre di Jonathan, Ruth, seduta al suo fianco
sulla panca grezza dallo schienale rigido. Ruth veniva da una
famiglia di teologi di Boston e avrebbe rimproverato a dovere il
pastore Gilbert se il suo sermone non fosse stato
sufficientemente rigoroso. Per lei, tutte le anime erano a rischio,
e senza alcun dubbio le anime di quella cittadina sperduta nelle
terre selvagge, lontane dall’influenza benefica della civiltà,
correvano rischi ancor maggiori.
In ogni caso, Gilbert non era un fanatico e di solito il suo
limite erano quattro ore, quindi sapevamo tutti che presto
saremmo stati congedati e saremmo potuti uscire a goderci il
sole di quel meraviglioso pomeriggio.
Osservare Jonathan con adorazione: era questo il passatempo
preferito dalle ragazze del villaggio. Ma quella particolare
domenica era lui a guardare: non faceva niente per nascondere i
suoi sguardi verso Tenebraes Poirier. Non le staccava gli occhi
di dosso da almeno dieci minuti: i suoi occhi castani e ferini
erano puntati sul viso grazioso di Tenebraes e sul suo collo da
cigno, ma soprattutto sul suo seno, che a ogni respiro andava a
gonfiare lo stretto calicò del suo corpetto. Evidentemente non lo
turbava per nulla il fatto che Tenebraes avesse diversi anni in più
di lui e che fosse stata promessa a Matthew Comstock sin da
quando ne aveva soltanto sei.
Sarà amore? Me lo chiesi guardandolo dall’alto della
balconata, dove io e mio padre sedevamo insieme alle altre
famiglie povere. Quella domenica eravamo solo io e mio padre;
il resto della mia famiglia era alla chiesa cattolica dall’altra parte
del villaggio, a praticare la fede di mia madre, che proveniva da
una colonia acadiana su a nordest. La guancia appoggiata
all’avambraccio, tenevo gli occhi incollati su Jonathan, con la
devozione che solo una ragazzina perdutamente innamorata sa
mostrare. A un certo punto, mi parve perfino che Jonathan non si
sentisse bene, poiché deglutiva con difficoltà. Finalmente staccò
lo sguardo da Tenebraes, che sembrava essere ignara dell’effetto
che aveva sul figlio prediletto del villaggio.
Se Jonathan era davvero innamorato di Tenebraes, allora
tanto valeva che mi gettassi dalla balconata, davanti a tutti i miei
compaesani. Perché anche se avevo soltanto dodici anni sapevo
con certezza assoluta di amare Jonathan con tutto il mio cuore;
sapevo che se non avessi potuto trascorrere tutta la mia vita con
lui, tanto valeva rinunciare alla vita stessa. Aspettai la fine della
messa, seduta tranquilla a fianco di mio padre, con il cuore che
mi martellava il petto, le lacrime che mi riempivano gli occhi,
continuando a ripetermi che ero una mammoletta, che non
dovevo preoccuparmi per qualcosa che probabilmente non
significava niente.
Quando la messa finì, mio padre, Kieran, mi prese per mano e
mi accompagnò giù dalle scale per raggiungere i nostri vicini sul
prato. Era una sorta di ricompensa per aver sopportato tutta
quanta la messa: l’opportunità di parlare con i vicini, di avere un
po’ di svago dopo sei giorni di lavoro duro e monotono. Per
alcuni, era l’unica occasione di contatto umano, a parte la
famiglia, in tutta la settimana, l’unica occasione per sentire le
ultime novità e per spettegolare. Io rimasi dietro mio padre, che
chiacchierava con un paio di vicini, e sbirciai da dietro le sue
gambe per vedere se individuavo Jonathan, sperando in cuor
mio di non vederlo con Tenebraes. Era vicino ai suoi genitori, da
solo, lo sguardo impietrito e fisso sulle loro nuche. Era chiaro
che non vedeva l’ora di andarsene, ma tanto valeva sperare che
nevicasse a luglio: le chiacchiere dopo la messa duravano di
solito minimo un’ora, anche più se il tempo era clemente come
quel giorno, e i più coriacei avrebbero dovuto essere
praticamente trascinati via con la forza. In più, suo padre era
doppiamente gravato dall’impegno perché molti degli uomini
del villaggio aspettavano proprio la domenica per parlare con
l’uomo che era proprietario delle loro case, o che comunque era
in posizione tale da poter migliorare in qualche modo la loro
sorte, se lo avesse voluto. Povero Charles St. Andrew, soltanto
molti anni dopo avrei capito il peso che gli toccava portare.
Dove trovai il coraggio di fare quello che feci in quel
momento? Forse fu la disperazione, la determinazione a non
lasciare Jonathan a Tenebraes, che mi spinse ad allontanarmi
silenziosamente da mio padre. Quando mi fui assicurata che non
avesse notato la mia assenza, mi affrettai ad attraversare il prato
per raggiungere Jonathan, sgusciando fra i crocchi di adulti in
chiacchiera. Ero minuta a quell’età, e bastavano le voluminose
gonne delle mie compaesane per nascondermi alla vista di mio
padre. Finalmente, arrivai al cospetto di Jonathan.
«Jonathan. Jonathan St. Andrew» lo chiamai, ma le mie
parole suonarono orrendamente stridule.
I suoi meravigliosi occhi scuri si posarono su di me, su di me
soltanto, per la prima volta, e il mio cuore perse un battito. «Sì?
Che cosa vuoi?»
Che cosa volevo? Ora che finalmente avevo ottenuto la sua
attenzione, non sapevo proprio cosa dirgli.
«Sei una McIlvrae, vero?» disse Jonathan, con diffidenza.
«Nevin è tuo fratello.»
Arrossii ricordando l’accaduto. Perché non ci avevo pensato
prima di avvicinarmi a lui? La primavera precedente, Nevin
aveva teso un agguato a Jonathan davanti al droghiere e gli
aveva fatto sanguinare il naso prima che alcuni adulti li
separassero. Nevin nutriva un odio imperituro verso Jonathan,
per ragioni che lui soltanto conosceva. Mio padre si era
formalmente scusato con Charles St. Andrew per quella che era
vista come una banale scaramuccia fra ragazzi, senza nulla di
particolarmente inquietante. Quello che nessuno dei due padri
sapeva era che Nevin avrebbe sicuramente ucciso Jonathan a
mani nude se ne avesse avuto la possibilità.
«Che cosa vuoi? È una delle trovate di Nevin, questa?»
Sbattei le palpebre. «Io... Io volevo chiederti una cosa.» Ma
non riuscivo a parlare in presenza di tutti quegli adulti. Era solo
una questione di tempo, prima o poi i genitori di Jonathan si
sarebbero accorti che c’era una ragazzina in mezzo a loro e si
sarebbero chiesti che diavolo volesse da loro la figlia di Kieran
McIlvrae e se i fratelli McIlvrae nutrissero davvero strane
intenzioni nei confronti del loro Jonathan.
Gli presi la mano con le mie. «Vieni con me.» Lo condussi
attraverso la folla fin dentro al vestibolo vuoto della chiesa e, per
ragioni che non saprò mai, lui mi seguì. Stranamente, nessuno
notò che ce n’eravamo andati, nessuno ci urlò di fermarci
impedendoci di andar via insieme. Nessun adulto ci seguì per
farci da chaperon. Era come se anche il destino avesse cospirato
affinché io e Jonathan potessimo vivere il nostro primo
momento insieme da soli.
Entrammo nel vestibolo, camminando sull’ardesia gelida,
immergendoci nell’atmosfera appartata e tenebrosa di quel
posto. Le voci di fuori sembravano lontanissime, ci giungevano
solo mormorii e frammenti di conversazioni. Jonathan si agitò,
confuso.
«Allora, cos’è che vuoi dirmi?» mi chiese con una punta di
impazienza.
La mia intenzione era di chiedergli di Tenebraes. Volevo
chiedergli di tutte le ragazze del villaggio, volevo sapere quali
gli piacessero e se era stato promesso a una di loro. Ma non ci
riuscii; le domande mi rimasero incastrate in gola e mi salirono
le lacrime agli occhi.
E così, per pura disperazione, mi avvicinai a lui e posai le mie
labbra sulle sue. Capii la sua sorpresa dal modo in cui si tirò
leggermente indietro, prima di riprendere il controllo della
situazione. E a quel punto, fece qualcosa di totalmente
inaspettato: ricambiò il mio bacio. Si chinò verso di me,
afferrandomi le labbra con la sua bocca, inebriandomi del suo
respiro. Fu un bacio violento, famelico, goffo. Fu migliore di
quanto avessi mai sognato. Prima che avessi il tempo di
spaventarmi, mi spinse contro il muro, la sua bocca sempre sulla
mia, e si addossò a me finché non sentii qualcosa, tra le
allacciature delle sue bretelle, sotto l’orlo della sua giacca.
Emise un lamento, il primo lamento di piacere che sentii
provenire da un’altra persona. Senza dirmi una parola, mi prese
la mano e la portò in basso e lo sentii rabbrividire mentre
emetteva un altro lamento.
Ritirai di scatto la mano. Mi formicolava tutta. Lo sentivo
ancora nel mio palmo.
Stava ansimando, cercando di riprendere il controllo, non
capiva perché mi fossi sottratta a lui. «Non era questo che
volevi?» mi chiese osservandomi con preoccupazione in volto.
«Mi hai baciato tu.»
«Io...» Parlavo a scatti. «Io volevo solo chiederti... di
Tenebraes...»
«Tenebraes?» Indietreggiò, sistemandosi i vestiti. «Che cosa
c’entra Tenebraes? Che differenza...» Si interruppe, forse perché
aveva capito di essere stato osservato in chiesa. Scosse il capo,
come per allontanare da sé la nozione dell’esistenza stessa di
Tenebraes Poirier. «E tu come ti chiami? Che sorella McIlvrae
sei?»
Non potevo fargli una colpa della sua incertezza: ce n’erano
tre. «Lanore» gli risposi.
«Non è proprio un nome bellissimo, vero?» disse, senza
rendersi conto che bastano poche parole per ferire a morte il
cuore di un’adolescente. «Ti chiamerò Lanny, se non ti dispiace.
Lanny, sei proprio un bel guaio di ragazza.» Il tono era
scherzoso, per farmi capire che non era arrabbiato con me. «Non
te l’ha detto nessuno che non sta bene provocare un ragazzo in
questo modo? Specialmente uno che non conosci?»
«Ma io ti conosco. Tutti ti conoscono» ribattei, allarmata che
potesse ritenermi frivola. Lui era il figlio maggiore della
famiglia più ricca e importante del villaggio, proprietaria della
falegnameria che dava lavoro a tutti... Era ovvio che tutti lo
conoscevano. «E poi, so di amarti. Sarò tua moglie, un giorno.»
Jonathan alzò un sopracciglio, scettico. «Un conto è sapere
come mi chiamo, ma come puoi essere certa di amarmi? Come
puoi aver scelto proprio me? Non mi conosci per niente, Lanny,
eppure vuoi essere mia.» Si lisciò la giacca un’altra volta.
«Dovremmo tornar fuori prima che qualcuno venga a cercarci. E
sarebbe meglio se non ci vedessero insieme, non credi? Vai tu
per prima.»
Per un secondo, rimasi immobile, sconvolta, in preda alla
confusione. Sentivo addosso le tracce del suo desiderio di poco
prima, il suo bacio, la mia mano stretta attorno a lui. E
comunque, aveva frainteso totalmente: non avevo mai detto di
voler essere sua.
Gli avevo semplicemente comunicato che lui era mio.
«Va bene» dissi, e la mia delusione doveva essere palese
perché Jonathan mi rivolse il suo sorriso più smagliante.
«Non preoccuparti, Lanny. Aspetta domenica prossima. Ci
vedremo dopo la messa, te lo prometto. Forse riuscirò a
convincerti a darmi un altro bacio.»
A questo punto credo che dovrei raccontarti di Jonathan, del
mio Jonathan. Solo così potrai capire perché ero così sicura della
mia devozione.
Era il primogenito di Charles e Ruth St. Andrew. I due furono
così contenti di avere un figlio maschio che gli diedero subito un
nome e lo battezzarono entro il primo mese, senza alcun timore,
in un tempo in cui la maggior parte dei genitori non ci pensava
nemmeno a dare un nome a un bambino prima che dimostrasse
di avere qualche possibilità di sopravvivenza. Sua madre era
ancora in convalescenza a letto quando suo padre organizzò una
grande festa: vennero tutti gli abitanti del villaggio a bere punch
al rum e tè zuccherato, e a mangiare torte e biscotti alla melassa;
il padre ingaggiò un violinista acadiano, ci furono risate e
musica. La festa fu organizzata talmente a ridosso della nascita
del bambino che tutti pensarono che Charles stesse sfidando il
diavolo: provaci a venire a prendere mio figlio! Provaci
soltanto, e vedrai che cosa ti aspetta!
E fu subito manifesto, fin dai primissimi giorni, che Jonathan
era un bambino fuori dal comune. Eccezionalmente intelligente,
eccezionalmente forte, eccezionalmente sano e, soprattutto,
eccezionalmente bello. Le donne sedevano rapite accanto alla
culla, si accapigliavano per tenere in braccio a turno quel
perfetto fagottino di carne con tutti quei sottili e folti riccioli
neri, fingendo che fosse loro. Anche gli uomini, fino al più duro
e rude dei taglialegna che lavoravano alla falegnameria di St.
Andrew, giungevano a una commozione insolita se si trovavano
in presenza del bambino.
Quando Jonathan raggiunse i dodici anni non c’era modo di
negare che ci fosse qualcosa di soprannaturale in lui, e sembrava
altrettanto immediato attribuire questa qualità soprannaturale
alla sua bellezza. Era una meraviglia. Era la perfezione
incarnata. Non c’erano molti di cui si potesse dirlo, a quel
tempo, in quell’epoca; la gente finiva spesso sfigurata per le
cause più diverse: il vaiolo, o un incidente, o un’ustione davanti
al camino; oppure erano secchi secchi per la malnutrizione,
sdentati a trent’anni, sgraziati per via di un osso rotto che non
era stato steccato a dovere, con cicatrici, paralitici, scabbiosi per
la scarsa igiene e, nella terra di boschi in cui vivevamo noi, privi
di qualche arto per via del congelamento. Ma non c’era un solo
segno a sfigurare Jonathan. Era diventato alto, dritto come un
fuso, con le spalle ampie, maestoso come gli alberi sulla sua
proprietà. La sua pelle era immacolata come panna appena
montata. Aveva capelli neri lisci e dritti, lucenti come le ali di un
corvo, e i suoi occhi erano scuri e profondi come gli abissi del
fiume Allagash. Era una meraviglia per gli occhi.
Ma è davvero una benedizione avere un ragazzo come
Jonathan che vive nel tuo villaggio? Povere noi ragazze; prova a
immaginare l’effetto che può avere un ragazzo come Jonathan
sulle ragazze di un piccolo villaggio, in una conventicola di
anime così ristretta che c’erano ben pochi altri svaghi ed era
impossibile evitare di avere un qualsiasi contatto con lui. Era
una tentazione onnipresente e impossibile da sfuggire. C’era
sempre la possibilità di incrociarlo, mentre usciva dal droghiere
o mentre attraversava un campo apparentemente per fare
un’innocua commissione, ma in realtà messo sulla nostra strada
dal diavolo in persona per fiaccare la nostra resistenza alle
tentazioni. Non aveva nemmeno bisogno di essere presente per
impossessarsi dei nostri pensieri: quando sedevamo a
chiacchierare con le nostre sorelle o le nostre amiche,
ricamando, prima o poi una raccontava a voce bassa dell’ultima
volta in cui aveva posato lo sguardo su Jonathan. A quel punto
lui era l’unico argomento di cui avremmo parlato. Forse
eravamo in parte colpevoli noi stesse del sortilegio che ci
attanagliava, perché nessuna di noi ragazze riusciva a smettere
di essere ossessionata da lui, che fosse per un incontro casuale
(«Ti ha rivolto la parola? Cosa ti ha detto?» chiedevano le altre
ragazze) o semplicemente per averlo intravisto in giro per il
villaggio, così che anche un dettaglio insignificante come il
colore del suo panciotto veniva discusso per ore infinite. Ma
quello a cui in realtà pensavamo, tutte noi, era il modo in cui ti
scrutava da capo a piedi con quell’impertinenza tutta sua, il
modo in cui gli angoli delle sue labbra si incurvavano all’insù
quando era assorto, e quanto ciascuna di noi avrebbe dato la vita
pur di essere stretta fra le sue braccia almeno una volta, soltanto
una. E non erano soltanto le ragazzine a subirne il fascino.
Specialmente quando raggiunse l’adolescenza, a quindici, sedici
anni, faceva sembrare gli altri uomini del villaggio tutti
consunti, grezzi, troppo grassi o troppo secchi, e anche le mogli
più irreprensibili cominciarono a guardarlo con occhi diversi. Si
capiva dal modo in cui lo fissavano estasiate, lo sguardo
famelico, le guance arrossate, le labbra mordicchiate, il suono
eterno della speranza racchiuso in un sospiro improvviso.
Lui aveva anche un’aura di indefinibile pericolosità che
metteva addosso una voglia incontrollabile di toccarlo, come
quando una vocina ti sussurra in testa di afferrare un ferro
rovente. Sai che non potrai che uscirne ferita, ma non riesci a
resistere. Devi provarlo sulla tua pelle. Non ti importa quello che
succederà dopo, l’insopportabile dolore della carne lacerata, il
morso implacabile del fuoco che ti assale ogni volta che sfiori la
ferita. Quella cicatrice, che porterai per il resto della tua vita,
marchierà a fuoco il tuo cuore. Assuefatta all’amore, non
commetterai mai più la stessa imprudenza nello stesso modo.
Sotto questo aspetto, io ero invidiata e insieme presa in giro:
invidiata per tutto il tempo che trascorrevo insieme a Jonathan,
presa in giro perché avevo chiarito a tutti che non c’era niente di
sentimentale o romantico fra di noi. Questo non faceva che
confermare alle altre ragazze che io non avevo abbastanza virtù
femminili per suscitare l’interesse di un uomo. Ma io non ero
diversa da loro. Sapevo benissimo che Jonathan aveva la
capacità di darmi alle fiamme con un solo istante della sua
attenzione, come carta avvicinata al fuoco. Una ragazza poteva
essere annichilita in un istante di amore divino. La vera
domanda era: ne valeva la pena?
Potresti chiedermi se amavo Jonathan per la sua bellezza, e ti
risponderei: è una domanda priva di senso, perché la sua grande,
straordinaria bellezza era una parte inseparabile dal tutto. Gli
conferiva la calma sicurezza di sé – che qualcuno avrebbe potuto
ritenere sprezzante arroganza – e i modi naturali e disarmanti
con il gentil sesso. E se fu la sua bellezza ad attirare il mio
sguardo per la prima volta, non mi scuserò mai per questo, né mi
scuserò per il mio desiderio di farlo mio per sempre. Ammirare
una tale bellezza equivale istantaneamente a desiderare di
possederla; è lo stesso desiderio che anima ogni collezionista. E
io non ero certo l’unica. Quasi tutte le persone che facevano la
conoscenza di Jonathan cercavano di possederlo. Era la sua
maledizione, ma anche quella di chi lo amava. Perché era come
essere innamorate del sole: splendente e inebriante quando gli
stavi vicino, ma altrettanto impossibile da possedere in via
esclusiva. Amarlo era impossibile, ma anche non amarlo.
Così, caddi nella maledizione di Jonathan, intrappolata in
quella rete di seduzione.
E bastò questo per causarci un destino di sofferenza.
3
Durante l’adolescenza, io e Jonathan diventammo amici. Ci
incontravamo la domenica dopo la messa e agli eventi sociali
come i matrimoni o perfino i funerali, quando rimanevamo in
disparte rispetto alle persone in lutto e ci scambiavamo sussurri
e pensieri, oppure decidevamo di non curarci delle apparenze e
scappavamo nei boschi, così da poterci concentrare l’uno
sull’altra. Gli adulti scuotevano la testa in segno di
disapprovazione e senza dubbio qualcuno iniziò a spettegolare
su di noi, ma le nostre famiglie non fecero niente per
interrompere la nostra amicizia. O quantomeno, se lo fecero, noi
non ne venimmo mai a conoscenza.
Fu in quel periodo che, lentamente, mi resi conto che
Jonathan era più solo di quanto avessi immaginato. Gli altri
ragazzi cercavano la sua compagnia molto meno di quanto io
avessi dato per scontato, e Jonathan, da parte sua, quando veniva
avvicinato da qualcuno in pubblico, spesso faceva di tutto per
evitarlo. Mi ricordo che un giorno di primavera, mentre
andavamo a una adunanza in chiesa, Jonathan vide che stavamo
per incrociare un gruppo di ragazzi suoi coetanei e mi fece
cambiare strada. Non sapevo come interpretare la cosa e, dopo
averci pensato un po’ con ansia, decisi di chiederglielo.
«Perché hai voluto che prendessimo questa strada?» gli
domandai. «È perché ti vergogni di farti vedere con me?»
Lui esplose in una risata di scherno. «Non essere stupida,
Lanny. Anche adesso mi vedono con te. Tutti ci vedono
camminare insieme.»
Era vero, a ben pensarci, e ne fui sollevata. Ma non riuscii a
lasciar perdere la questione. «Allora è perché non ti piacciono
loro, quei ragazzi?»
«Non è che non mi piacciono...» mi rispose, stizzito.
«Allora perché...»
Mi interruppe. «Perché mi fai tutte queste domande? Senti,
fidati di me: è diverso per noi ragazzi, Lanny. Tutto qui.» Iniziò
ad accelerare il passo, e dovetti alzarmi la gonna di qualche
centimetro per stargli dietro. Non mi aveva spiegato che cosa
intendeva, non mi aveva detto esattamente cosa fosse diverso
per i ragazzi. Era tutto diverso, per quel che ne sapevo io. Tanto
per cominciare, i maschi potevano andare a scuola, sempre che
le loro famiglie potessero permettersi di pagare il compenso del
tutore, mentre le ragazze potevano aspirare al massimo
all’istruzione che le loro madri decidevano di impartire di
persona: i mestieri domestici, e cioè il cucito, le pulizie, la
cucina, forse leggere qualcosa dalla Bibbia. I ragazzi potevano
azzuffarsi, correre e giocare a chiapparello senza l’impedimento
delle gonne lunghe, andare a cavallo. Certo, dovevano anche
farsi le ossa – una volta, mi raccontò Jonathan, suo padre gli
aveva fatto riparare le fondamenta della loro ghiacciaia, di pietra
e malta, così che imparasse anche a fare il muratore – ma
comunque, dal mio punto di vista, la vita dei ragazzi era più
spensierata.
«Vorrei tanto essere nata maschio» borbottai, quasi senza
fiato per lo sforzo di stare al suo passo.
«No che non vuoi» mi rispose senza voltarsi.
«Non vedo proprio cosa...»
A quel punto si voltò di scatto verso di me. «E cosa mi dici di
tuo fratello Nevin allora? Io non gli piaccio molto, vero?» Mi
arrestai, colpita. No, Nevin non vedeva certo di buon occhio
Jonathan, da sempre, per quanto mi ricordavo. Mi tornò alla
mente la volta in cui aveva litigato con Jonathan, quando era
tornato a casa con delle macchie di sangue secco in volto e mio
padre, benché rimanesse in silenzio, era stato evidentemente
orgoglioso di lui.
«Perché credi che tuo fratello mi odi?» mi chiese.
«Non ne ho idea.»
«Non gli ho mai fatto niente, ma mi odia lo stesso» continuò
Jonathan, sforzandosi di nascondere il tono ferito della sua voce.
«Ed è così con tutti i ragazzi. Mi odiano. E anche qualcuno degli
adulti. Lo so, lo sento. Ecco perché li evito, Lanny.» La
confessione sembrava averlo spossato, era come svuotato.
«Ecco, adesso lo sai» concluse e poi scappò via, lasciandomi
sbalordita a osservarlo scomparire.
Per tutta la settimana ripensai a quello che mi aveva detto.
Avrei potuto chiedere a Nevin da dove gli fosse nato tutto
quell’odio verso Jonathan, ma farlo avrebbe significato
riattizzare un vecchio motivo di litigio fra noi. Naturalmente, lui
non sopportava il fatto che io fossi diventata amica di Jonathan e
ormai avevo capito che era meglio non azzardarmi a chiedergli
niente. Probabilmente mio fratello pensava che Jonathan fosse
altezzoso e arrogante, che ostentasse la sua ricchezza e che si
aspettasse, ricevendole peraltro, delle attenzioni speciali. A
parte la sua famiglia, io conoscevo Jonathan meglio di chiunque
altro – anzi, forse meglio dei suoi stessi familiari – quindi
sapevo perfettamente che erano tutte falsità... tranne l’ultima,
ma non era certo colpa di Jonathan se gli altri lo trattavano in
modo diverso. E anche se Nevin non l’avrebbe mai ammesso,
nel suo sguardo d’odio vedevo chiaramente il desiderio di
sfigurare Jonathan, di rovinare per sempre la bellezza del suo
volto, di far crollare dal suo piedistallo il figlio prediletto del
villaggio.
A suo modo, Nevin voleva sfidare Dio, sconfiggerlo, porre
rimedio a quella che secondo lui era un’ingiustizia che Dio in
persona aveva commesso deliberatamente per umiliarlo,
costringendolo a vivere sotto ogni punto di vista all’ombra di
Jonathan.
Ecco perché Jonathan era scappato via mentre andavamo in
chiesa, perché era stato costretto a condividere con me la sua
vergogna, e forse credeva che una volta venuta a conoscenza del
suo segreto lo avrei abbandonato. Quanto ci aggrappiamo alle
nostre paure, quando siamo bambini! Come se ci fosse stata una
qualsiasi forza in cielo o in terra che avrebbe potuto impedirmi
di amare Jonathan. Al contrario, questa sua paura mi fece capire
che anche lui aveva dei nemici e dei detrattori, che anche lui era
costantemente sottoposto al giudizio degli altri e che aveva
bisogno di me. Io ero la sola amica con cui avrebbe potuto
sentirsi libero di essere se stesso. E non era una libertà a senso
unico: per dirla in parole semplici, Jonathan era l’unica persona
che mi trattava come se io fossi importante. E avere l’attenzione
del ragazzo più desiderato del villaggio non è cosa da poco per
una ragazza praticamente invisibile tra i suoi coetanei. Come
poteva tutto questo non farmelo amare ancora di più?
E fu proprio questo che gli confessai la domenica seguente,
quando mi avvicinai a lui e lo presi sottobraccio mentre
camminava lungo i confini del prato, da solo. «Mio fratello è
uno stupido» mi limitai a dirgli, e continuammo a camminare
senza bisogno di dirci altro.
L’unica cosa su cui non cambiai idea rispetto a quella nostra
conversazione era che avrei preferito esser nata maschio. Ci
credevo pienamente. Mi era stata inculcata dal comportamento
dei miei genitori, dalle usanze che regolavano le nostre vite, in
base alle quali le ragazze non valevano quanto i maschi e le
nostre vite erano destinate a essere molto meno importanti. Per
esempio, Nevin avrebbe ereditato la fattoria da mio padre, ma se
non avesse avuto l’inclinazione o la forza di allevare bestiame,
avrebbe potuto andare a fare l’apprendista dal fabbro o lavorare
come taglialegna per i St. Andrew. Anche se limitate, almeno lui
aveva delle scelte. In quanto donna, le mie opzioni erano molte,
molte meno: sposarmi e avere una casa e una famiglia tutte mie,
rimanere a casa e assistere i miei genitori nella loro vecchiaia, o
andare a fare la serva a casa di qualcun altro. Se per qualche
ragione Nevin avesse rifiutato di ereditare la fattoria,
presumibilmente i miei genitori l’avrebbero lasciata al marito di
una delle loro figlie, ma anche quello dipendeva dalla volontà
del marito in questione. Un buon marito avrebbe tenuto conto
dei desideri della moglie, ma non tutti lo facevano.
Un’altra ragione, la più importante a mio modo di vedere, era
che se fossi stata un maschio sarebbe stato molto più facile
essere amica di Jonathan. Quante cose avremmo potuto fare
insieme se io non fossi stata una ragazza! Avremmo potuto
andare a cavallo verso l’avventura senza un adulto che ci
sorvegliasse. Avremmo potuto passare insieme tutto il tempo
che volevamo senza che nessuno si insospettisse o lo ritenesse
un fatto su cui spendersi in opinioni non richieste. La nostra
amicizia sarebbe stata naturale, innocente, talmente ordinaria
che nessuno si sarebbe preso la briga di giudicarla. Avrebbe
potuto crescere spontaneamente.
Guardandomi indietro, ora capisco che fu un periodo molto
difficile per me, che ero ancora intrappolata nell’adolescenza
pur muovendo i primi incerti passi nell’età adulta. C’erano cose
che volevo da Jonathan, ma ancora non sapevo nominarle e per
districarmi avevo soltanto le mie goffaggini da bambina. Gli ero
vicina ma volevo esserlo ancora di più, in un modo per me
inafferrabile. Quando vedevo come guardava le ragazze più
grandi, comportandosi con loro in modo diverso che con me,
credevo ogni volta di morire per la gelosia. In parte, era dovuto
all’intensità delle attenzioni di Jonathan, al suo grande fascino.
Riusciva a farti sentire il centro del suo mondo. I suoi occhi,
quegli abissi scuri e insondabili, si posavano sul tuo volto ed era
come se lui esistesse per te, per te soltanto. Forse era
un’illusione, dovuta soltanto alla gioia di averlo così vicino.
Comunque fosse, il risultato era sempre lo stesso: quando
Jonathan distoglieva la sua attenzione da te, era come se il sole
fosse scomparso improvvisamente dietro una nuvola e un vento
freddo e tagliente ti colpisse alla schiena. Non riuscivi a
desiderare altro che il suo ritorno, per essere di nuovo illuminata
dalle sue cure.
E lui cambiava di anno in anno. Quando si lasciava andare,
rivelava aspetti che non avevo mai visto prima, o che forse non
avevo notato. Poteva diventare rozzo, specialmente se pensava
di non avere addosso gli occhi di una donna. Si comportava con
la stessa volgarità dei taglialegna che lavoravano per suo padre,
parlava in modo sboccato come se avesse avuto esperienza di
tutte le intimità che possono esistere tra un uomo e una donna.
Tempo dopo avrei scoperto che a sedici anni era stato sedotto e
aveva cominciato a sedurre, prendendo così parte (in maniera
relativamente precoce, vista l’epoca in cui vivevamo) al grande
ballo segreto degli amanti che animava St. Andrew, un mondo
nascosto agli occhi di chi non sapeva dove guardare per
scoprirlo. Ma erano segreti che non riusciva a condividere con
me.
Io sapevo soltanto che la mia fame di Jonathan cresceva e a
volte sembrava oltre la mia possibilità di controllo. Sapevo
soltanto che c’era qualcosa nel suo sguardo ardente, nel suo
mezzo sorriso, nel modo sapiente in cui carezzava la gonna di
seta di una donna quando pensava che gli altri non se ne
accorgessero, che mi faceva desiderare che guardasse e
carezzasse me nello stesso modo. E quando ripensavo alle cose
rudi che gli avevo sentito dire, volevo che fosse rude anche con
me. In realtà ero soltanto una ragazzina sola e confusa che
desiderava disperatamente un’intimità carnale (anche se quel
tipo di passione era ancora un mistero per me) e – lo capisco
soltanto adesso – la mia ignoranza mi avrebbe condotto alla
rovina. Avevo una fretta disperata di essere amata. Non posso
dare tutta la colpa soltanto a Jonathan. Spesso siamo noi stessi a
causare la nostra caduta.
4
Ospedale della contea di Aroostook, oggi
Il fumo si avviluppa attorno alle luci accese dentro la stanza. I
polsi della prigioniera sono liberi e lei è seduta sulla lettiga, con
lo schienale rialzato. Una sigaretta si consuma fra le sue dita.
Due mozziconi, consunti fino al filtro, giacciono accartocciati
sul fondo di una padella sulla lettiga che li separa. Luke si
abbandona sullo schienale della sedia e tossisce, la gola riarsa
dal fumo. La mente è ottenebrata, come se avesse preso narcotici
per tutta la notte, precipitando in un sogno alimentato dai
farmaci, e si stesse risvegliando soltanto ora dalla trance.
Un rintocco di nocche sulla porta lo fa alzare in piedi più
veloce di uno scoiattolo che risale un albero. Sa che è il
caratteristico bussare delle infermiere subito prima di entrare
nelle stanze, senza aspettare il permesso. Blocca la porta con il
suo corpo, in modo che si apra soltanto di pochi centimetri.
Lo sguardo gelido di Judy, deformato dalle lenti dei suoi
occhiali, lo percorre da capo a piedi. «Ha chiamato l’obitorio. È
appena arrivato il corpo. Joe vuole che chiami il medico legale.»
«È troppo tardi ormai. Di’ a Joe che non c’è motivo di
chiamare il medico legale proprio adesso. Può benissimo
aspettare fino a domattina.»
L’infermiera incrocia le braccia. «Mi ha detto anche di
chiederti notizie della prigioniera. È pronta ad andare o no?»
Luke si rende conto del trabocchetto. Si è sempre ritenuto una
persona onesta, eppure non riesce ad affidare la prigioniera alle
braccia della giustizia, non ora. «No, non è ancora pronta. Non
può prenderla in consegna ora.»
Judy lo fissa così intensamente che sembra vedergli
nell’anima. «E perché no? Non ha neanche un graffio.»
La menzogna gli affiora alle labbra con facilità inattesa. «È
sotto shock, ha avuto delle convulsioni. Ho dovuto sedarla.
Devo assicurarmi che non abbia una reazione allergica ai
sedativi.» L’infermiera sospira rumorosamente, come se sapesse
– non sospettasse, ma sapesse per certo – che lui sta facendo
qualcosa di disgustoso al corpo della ragazza, approfittando
della sua incoscienza. «Lasciami lavorare, Judy, okay? Chiama
Joe e digli che mi farò sentire quando sarà stabilizzata.» Le
sbatte la porta in faccia.
Lanny sposta la cenere delle sigarette con il mozzicone
acceso, evitando volontariamente di incrociare il suo sguardo.
«Jonathan è qui. Ora non hai più bisogno di credermi sulla
parola» dice, posando la cenere nella padella e indicando la
porta con un cenno del capo. «Vai. Vai in obitorio e guarda tu
stesso.»
Luke si agita sullo sgabello. «Anche se c’è un cadavere
nell’obitorio, l’unica cosa che prova è che tu hai davvero ucciso
qualcuno stanotte.»
«Non capisci. C’è molto di più. Lascia che te lo mostri» dice,
scostando la manica a campana del camice ospedaliero per
rivelare un fine disegno al tratto inciso sulla pelle bianchissima
del suo tricipite. Lui si avvicina per osservare più da vicino e
capisce che si tratta di un tatuaggio piuttosto rudimentale, in
inchiostro nero. È la sagoma di un animale, un rettile, inscritto in
uno stemma nobiliare. «Lo troverai nello stesso punto sul corpo
di Jonathan...»
«Un tatuaggio identico?»
«No» commenta lei, sfiorandosi il tatuaggio col pollice. «Ma
è delle stesse dimensioni ed è stato fatto dalla stessa persona.
Riconoscerai la somiglianza. Sembra fatto con spilli intinti
nell’inchiostro... ed è stato fatto proprio così. Il suo assomiglia a
due comete che si rincorrono, con le code un po’ allungate.»
«Che cosa significano le comete?» le domanda Luke.
«Che io sia maledetta se lo so» replica, risistemandosi il
camice. «Vai, ora. Vai a guardare Jonathan e poi torna e dimmi
se non mi credi.»
Luke Findley la lega nuovamente alla lettiga – in modo un
po’ improvvisato, del resto non usa quasi mai quei legacci per
pazienti riottosi – e poi si alza dallo sgabello. Si insinua
attraverso le porte scorrevoli, dopo aver controllato che nessuno
lo noti uscire. L’ospedale è ancora al buio, tranquillo, ci sono
solo flebili echi di movimenti nelle chiazze di luce che
illuminano la postazione delle infermiere in fondo al corridoio.
Le sue scarpe scricchiolano sul lindo pavimento di linoleum. Si
affretta a scendere le scale, dirigendosi verso nord attraverso un
corridoio al pianterreno che conduce all’obitorio.
Per tutto il tempo la tensione lo attanaglia. Se qualcuno
dovesse fermarlo e chiedergli che cosa ci fa lontano dal pronto
soccorso, gli direbbe semplicemente che... Non ha idea di che
cosa direbbe. Luke non è mai stato bravo a mentire. Si ritiene
una persona fondamentalmente onesta e sincera, anche se non
gli è servito a molto nella vita. Nonostante la sua innata onestà e
la paura di essere colto sul fatto, però, ha acconsentito alla folle
idea della prigioniera soltanto perché è curioso di vedere se
davvero il morto è l’uomo più bello mai apparso su questo
pianeta. Vuole vedere com’è fatto.
Apre le pesanti porte dell’obitorio. Luke sente della musica –
è l’assistente che fa il turno di notte all’obitorio, un ragazzo di
nome Marcus; gli piace tenere la radio sempre accesa – ma non
vede nessuno. Sulla scrivania si notano tracce di lavoro recente
(la lampada è accesa, ci sono fogli e documenti sparsi, la carta di
una gomma da masticare, una penna senza tappo), ma non c’è
traccia di Marcus.
L’obitorio è piccolo, in consonanza con le scarse necessità
della cittadina. Sul retro c’è una camera refrigerata, ma i
cadaveri vengono conservati in quattro nicchie incassate nel
muro subito dopo la porta d’ingresso. Luke trattiene il respiro e
afferra la maniglia di uno dei cassettoni, massiccia e pesante
come le chiusure dei vecchi furgoni di surgelati.
Nella prima nicchia trova il corpo di un’anziana; non la
riconosce, probabilmente proviene da una delle città più remote
della contea. Il corpo tarchiato della donna e i suoi capelli
bianchi gli fanno tornare in mente sua madre, e per un attimo
rievoca l’ultima conversazione lucida che avevano avuto. Lui
era seduto accanto al letto, nel reparto di terapia intensiva, e lei
con occhi velati aveva cercato di incrociare il suo sguardo, poi
con la mano aveva afferrato la sua in cerca di conforto. «Mi
dispiace così tanto che tu sia stato costretto a tornare a casa per
prenderti cura di noi» gli aveva detto. Sua madre non aveva mai
chiesto scusa di niente, a nessuno, per una semplice ragione: si
era imposta di non fare mai nulla per cui poi doversi scusare.
«Forse siamo rimasti alla fattoria troppo a lungo... Ma tuo padre
si ostinava, non voleva arrendersi...» A quel punto si era
fermata, incapace di mostrare slealtà nei confronti del marito, un
uomo così testardo che, anche il giorno in cui era morto, la
mattina era uscito con gambe tremanti per mungere le vacche.
«Mi dispiace che la tua famiglia ne abbia pagato le
conseguenze...» Luke ricorda di aver cercato di spiegarle che il
suo matrimonio stava già finendo, ben prima che si
ritrasferissero a St. Andrew, ma sua madre non aveva voluto
sentire ragioni. «Non hai mai voluto rimanere a St. Andrew, sin
da quando eri piccolo. So che non sei felice di essere qui ora.
Una volta che me ne sarò andata, Luke, non farti scrupoli. Vai.
Fatti una nuova vita.» Aveva cominciato a piangere
stringendogli convulsamente la mano. Poche ore dopo, era
piombata nell’incoscienza e non ne era più riemersa.
Luke impiega un minuto buono a rendersi conto di aver
lasciato aperta la nicchia, rimanendo in piedi lì davanti,
immobile, tanto a lungo che il petto gli si è quasi congelato. È
come se sentisse la voce di sua madre. Un brivido lo percorre. Fa
rientrare il carrello scorrevole dentro la cella, poi chiude lo
sportello. Gli ci vuole un altro minuto buono per ricordarsi cosa
ci fa in quel luogo.
Nella seconda cella trova una sacca per cadaveri, nera, e con
un certo sforzo riesce a estrarre il carrello. Le cerniere si
separano con un suono gracchiante, come quando si apre il
velcro.
Luke scosta i lembi della sacca e rimane paralizzato. Ha visto
molti cadaveri, negli anni, e sa bene che la morte non rende certo
più belli. I corpi sono più o meno sfigurati a seconda delle
modalità del decesso. A volte ci sono lividi e chiazze scolorite,
altre volte i corpi sono affetti da un pallore bluastro. C’è solo
una costante: i lineamenti sono privi di espressione, spenti. Il
volto dell’uomo che ha davanti è quasi bianco, punteggiato da
tracce di foglie scure e umide. I capelli neri sono appiccicati alla
fronte, gli occhi sono chiusi. Ma non ha alcuna importanza.
Luke si rende conto che potrebbe stare a osservarlo per tutta la
notte. È magnifico, anche da morto. La sua bellezza toglie
dolorosamente il fiato.
Proprio quando sta per spingere il carrello nella cella
incassata nella parete, Luke si ricorda del tatuaggio. Lancia uno
sguardo alle sue spalle nel caso Marcus sia tornato alla scrivania
senza che lui l’abbia sentito, poi si affretta ad aprire
ulteriormente la sacca, spostando i vestiti, per scoprire il braccio
dell’uomo. E, proprio come aveva detto Lanny, scorge due sfere
intrecciate con le code che svettano in direzioni opposte. Il tratto
è identico, per dimensioni e per le linee esitanti, fatte
manualmente, a quello del tatuaggio della ragazza.
Dopo aver rimesso tutto a posto, Luke riattraversa l’ospedale
vuoto e rientra nel pronto soccorso. Per tutto il tempo, la sua
mente si affolla di dubbi e domande. È come materia e
antimateria, due verità che non possono coesistere, se non
annullandosi a vicenda. Sa di aver visto ciò che ha visto nella
stanza, quando Lanny si è tagliata: è successo davvero. Eppure,
è impossibile. Ha toccato con la propria mano il punto esatto
della ferita sul petto di Lanny, prima e dopo il taglio. Sa che non
c’è nessun trucco. Ma quello che ha visto con i propri occhi non
può essere successo davvero.
A meno che lei non dica la verità. E poi, quell’uomo
bellissimo nell’obitorio, i tatuaggi... Tutto questo gli dà la
sensazione che, per una volta, dovrebbe lasciarsi andare.
Ascoltare. Ma lui resiste: è un uomo di scienza, non è pronto ad
abbandonare di schianto tutto ciò che ha imparato.
Però è anche curioso. Vuole saperne di più.
Poco dopo Luke irrompe attraverso la porta della stanza nel
pronto soccorso in penombra – l’agitazione gli pervade di
energia il petto, come farfalle chiuse in un vaso – e trova la
prigioniera rannicchiata sulla lettiga, illuminata dal taglio
discendente della luce e ancora avvolta in spire di fumo. Sembra
un angelo caduto, pensa Luke, con le ali recise.
Lanny lo osserva con ansia. «Allora l’hai visto? Non è
esattamente come ti avevo detto?»
Luke annuisce. Una bellezza come quella è una droga di
tutt’altra specie rispetto a quelle conosciute. Si strofina il volto,
respira a fondo.
«Adesso capisci» dice Lanny con solennità. «E se mi credi,
Luke, aiutami. Slegami» dice, inarcando la schiena e
porgendogli i polsi legati, col viso delizioso rivolto verso di lui.
«Devi aiutarmi a scappare.»
5
St. Andrew, 1811
Forse il nostro destino sarebbe stato diverso, migliore, per me
e Jonathan, se io fossi nata maschio. Avrei preferito che la nostra
rimanesse sempre e soltanto un’amicizia. Avremmo passato
tutta la vita entro i confini del nostro piccolo villaggio; non sarei
mai incappata nelle sventure che mi accaddero in seguito, non
avremmo mai dovuto sopportare il peso del terribile destino che
ci è stato imposto. Le nostre sarebbero state vite piccole, forse,
ma piene, gratificanti, complete, e io sarei stata felice.
Ma non ero un maschio, ero una femmina e, per quanto lo
volessi, non c’era modo di cambiare questo fatto. Di fronte a me
c’era la misteriosa transizione da ragazza a donna, per me
insondabile quanto il trucco di un prestigiatore. Chi avrei dovuto
prendere a esempio? Mia madre, Theresa, non era in grado di
offrirmi la guida di cui avevo disperatamente bisogno. Era
troppo modesta e sottomessa per i miei gusti. Non mi andava di
fare quella vita. Volevo di più. Tanto per cominciare, volevo
sposare Jonathan, e non pareva proprio che mia madre potesse
aiutarmi a diventare il tipo di donna che poteva conquistare uno
come Jonathan.
C’erano segreti che non tutte le donne conoscevano. Per
fortuna, al villaggio, abitava una donna che quei segreti li
conosceva tutti. Una donna sul cui conto circolavano diverse
voci, il cui nome suscitava un sorriso enigmatico sui volti degli
uomini (purché pronunciato quando le loro mogli non erano
presenti). Una donna diversa da tutte le altre. Dovevo trovare il
modo di far sì che condividesse i suoi segreti con me.
Lungo un sentiero ben tracciato, nascosto all’ombra della
forgia del fabbro, c’era un piccolo cottage. Era quasi invisibile,
ma chi fosse riuscito a notarlo avrebbe pensato a un capanno
degli attrezzi o a un deposito in cui conservare il ferro grezzo.
Era troppo malmesso e angusto per essere una dimora, eppure
non sembrava abbandonato, e la stradina che conduceva
all’ingresso mostrava ogni giorno di più segni di passaggio. Di
sicuro non poteva abitarci più di una persona, e la legge che
vietava di vivere da soli era ancora prevalente, all’alba del
diciannovesimo secolo, in quello squallido avamposto puritano
in cui abitavamo (perché eravamo senza dubbio dei puritani; i
padri fondatori del villaggio erano cresciuti nel Massachusetts
ed eravamo abituati a mescolare religione e legge). In ogni caso,
nell’estrema punta settentrionale di quello che sarebbe diventato
lo Stato del Maine, l’unica ragione a sostegno dell’editto contro
chi viveva da solo era la pura necessità: era impensabile che una
persona da sola riuscisse a sopravvivere in un ambiente così
ostile. All’opposto, in una città più rigidamente puritana, a
nessuno era consentito vivere da solo perché, nella solitudine, si
rischiava di cedere alle tentazioni. Commettere atti impuri.
L’editto contro la vita solitaria dava il diritto di controllare i
propri vicini, ma gli abitanti di St. Andrew tenevano fieramente
alla propria indipendenza e a quella che oggi chiamate privacy.
E in effetti in quel piccolo cottage qualcuno viveva da solo.
Una donna, giunta quasi al limite dell’età feconda, ancora bella
ma di una bellezza che stava appassendo. Raramente si faceva
vedere in paese, ma quando si avventurava per le strade in pieno
giorno, gli abitanti le giravano alla larga. Gli uomini facevano di
tutto per non incrociare il suo sguardo, mentre le donne
facevano frusciare le loro lunghe gonne e cambiavano strada.
Alcune la fissavano con aperta ostilità.
Ma di notte era tutto diverso. Coperti dalle tenebre, erano in
molti a farle visita regolarmente. Uomini – uno alla volta, solo di
rado due insieme – sgattaiolavano lungo il sentiero e bussavano
sommessamente alla sua porta. Se nessuno rispondeva, il
visitatore sapeva di doversi sedere sul gradino e aspettare, con le
spalle alla porta, facendo finta di non sentire i suoni che
provenivano dall’interno. Dopo un po’, i suoni lasciavano il
posto a mormorii di conversazione e poi al silenzio; un minuto
dopo la porta si apriva e il nuovo visitatore poteva entrare.
Quelli che sapevano della sua esistenza la chiamavano
Magdalena. Era il nome che lei stessa si era data quando era
arrivata al villaggio, sette anni prima. Nessuno aveva messo in
dubbio quel nome inusuale, all’epoca. Era giunta insieme a un
piccolo gruppo di viaggiatori provenienti dai territori del
Canada francese. Quando gli altri se n’erano andati, lei era
rimasta. Aveva detto di essere una vedova e di aver deciso di
trasferirsi in un posto dal clima più mite, sempre se i cittadini di
St. Andrew le avessero accordato il permesso di stabilirsi fra
loro.
E fu così che il fabbro si offrì di riattare il suo vecchio
capanno, trasformandolo in una piccola ma accogliente casetta.
Le buone donne del paese la aiutarono a sistemarsi, portandole
tutto ciò di cui non avevano più bisogno: uno sgabello
traballante, del tè avanzato, una vecchia coperta. I mariti le
portarono ramoscelli e legna da ardere. Quando le chiesero che
cosa avrebbe fatto per mantenersi – ricamo, tessitura... o forse
era una levatrice e sapeva anche come curare e guarire? – lei si
limitò a sorridere con modestia e abbassò la testa, come a dire:
«Io? Che abilità potrei mai avere? Mio marito mi trattava come
fossi una preziosa bambola di porcellana. Come potrebbe farsi
strada nel mondo una povera vedova inetta come me?» Le buone
donne si allontanarono perplesse, scuotendo la testa, senza
sapere che cosa pensare se non che Dio provvedeva per tutti i
suoi figli, inclusa una donna innocente che sembrava contare
sulla generosità infinita della gente di quella cittadina solitaria e
ostile.
Ma alla fine Magdalena non dovette dipendere a lungo dalla
carità degli altri. Misteriosamente, provviste iniziarono a
comparire sull’uscio, non richieste. Una ciotola di burro, uno
staio di patate, una caraffa di latte. La legna da ardere si
ammucchiava davanti all’ingresso posteriore. E poi, i soldi: era
una delle pochissime persone del villaggio a possedere del
denaro vero, delle monete che depositava, contandole ad alta
voce, sul bancone del droghiere quando ordinava le provviste. E
che ordinazioni insolite: bottiglie di gin, tabacco. I vicini
notarono che le lanterne, da lei, rimanevano accese fino a tardi,
illuminando l’unica minuscola finestra del cottage: stava sveglia
tutta la notte a fumare tabacco e a bere gin, forse?
Alla fine, furono i taglialegna a portarla allo scoperto, i
boscaioli che lavoravano per Charles St. Andrew facendo una
sola annata. Un anno intero in cui erano lontani dalle loro mogli.
Uomini come loro sapevano fiutare la presenza di donne come
Magdalena dalla parte opposta del villaggio, anche all’altro capo
della valle se il vento era favorevole. Prima uno, poi un altro, e
poi ciascuno di loro, a turno, dopo il calar del sole si avventurava
fino all’uscio di Magdalena. Non che i taglialegna fossero i suoi
unici clienti: loro però pagavano in contanti, non con uova o
pancetta. Ma per via delle lingue lunghe dei taglialegna, la voce
si sparse per tutto il paese, come acqua sporca rovesciata da un
barile rimasto sotto la pioggia, e più di una buona moglie levò le
sue ire. Magdalena non reagì. Non di giorno, almeno. Nemmeno
quando una moglie indignata la insultò apertamente, faccia a
faccia.
Le mogli, dopo aver reclutato il pastore, organizzarono una
protesta per farla espellere dal villaggio. La sua presenza era un
segnale: il peccato delle grandi metropoli stava contagiando
anche il piccolo avamposto di St. Andrew. Era proprio il genere
di cose da cui i coloni avevano cercato di allontanarsi. Il pastore
Gilbert si recò in visita presso Charles St. Andrew, poiché era il
datore di lavoro dei taglialegna, gli unici clienti di Magdalena di
cui ci si potesse lamentare pubblicamente.
Per quanto comprendesse le ragioni del pastore e
simpatizzasse per la sua causa, Charles fece presente che c’era
un altro lato della questione, un fatto che riguardava i servizi
offerti da Magdalena e che i cittadini benpensanti stavano
trascurando. I taglialegna agivano spinti da un istinto
assolutamente naturale – e, sebbene malvolentieri, il pastore non
poté che concordare – e per di più erano lontani miglia e miglia,
giorni e giorni, dalle loro spose. Senza Magdalena, come
avrebbero potuto comportarsi quegli uomini per soddisfare i
loro istinti? Forse la presenza di Magdalena era una salvezza,
per tutte le mogli e le figlie del paese.
Avvenne così che fu stabilita una sorta di diffidente tregua tra
la prostituta e le donne virtuose, una tregua che durava ormai da
sette lunghi anni. In tempi di crisi, lei si rendeva utile, che alle
altre piacesse o meno. Faceva la sua parte curando i malati e i
morenti, dava da mangiare ai viaggiatori depredati, metteva
qualche moneta nella cassetta della carità della chiesa quando
nessuno la vedeva entrare.
Non potevo impedirmi di pensare che doveva mancarle la
compagnia di un’altra donna, anche se lei rispettosamente si
teneva sulle sue e non intratteneva alcuna conversazione con i
suoi concittadini.
La vera natura della situazione di Magdalena era un mistero
per molti bambini e ragazzi. Vedevamo che le nostre madri
evitavano quella donna enigmatica. Per lo più i bambini
credevano che fosse una strega o una creatura soprannaturale di
qualche tipo. Ricordo le loro grida di scherno, ricordo che di
tanto in tanto qualcuno le lanciava addosso una manciata di
ciottoli. Non io: anche da piccola, avvertivo qualcosa di
magnetico in lei. Stando alle convenzioni, io non avrei mai
dovuto aver niente a che fare con lei. Mia madre non era
particolarmente rigida, ma donne come lei non diventavano
amiche delle prostitute, men che meno le loro figlie. Eppure, è
esattamente ciò che feci.
Accadde una domenica, durante un sermone particolarmente
lungo. Mi scusai e sgusciai fuori per andare in bagno. Ma invece
di affrettarmi a tornare sulla balconata di fianco a mio padre,
indugiai a godermi il calore di quella prima giornata di sole
dell’estate. Vagai fino al fienile di Tinky Talbot per vedere la
nuova nidiata di maialini, rosa con macchie nere, ricoperti di
peluria riccia e ruvida. Accarezzai i loro musi curiosi, ascoltai i
loro flebili grugniti.
Poi guardai di lato, lungo il sentiero – era la prima volta che
mi trovavo così vicina al misterioso cottage – e notai Magdalena
su una sedia, dietro alla piccola fioriera della veranda, con una
pipa lunga e annerita fra le labbra. Anche lei si stava godendo il
sole, avvolta in una coperta, i capelli scandalosamente sciolti
sulle spalle. Le parti di lei non avvolte nella coperta erano magre
e delicate, le ossa della clavicola, leggere come quelle di un
uccello, si intravedevano sotto una pelle che sembrava carta
velina. Niente cipria in volto, solo una traccia di nerofumo agli
angoli degli occhi e un’ombra di colore sulle labbra.
Era diversa da tutte le altre donne del villaggio. Bastava il suo
atteggiamento a dimostrarlo: seduta da sola, sotto il sole,
contenta di sé e senza vergognarsi di oziare. In fondo, non
veniva a messa; quello era il suo modo di godersi la domenica,
mentre tutti gli altri erano chiusi in chiesa o nella sala della
congregazione.
Alzò la mano a schermarsi gli occhi dal sole. «E tu chi sei?»
In quel momento, presi la mia decisione. Avrei potuto tornare
in chiesa di corsa, e invece mossi qualche timido passo verso di
lei. «Non mi conoscete, signora. Mi chiamo Lanore McIlvrae.»
«McIlvrae.» Soppesò il cognome, concludendo che, no, non
lo conosceva, il che voleva dire che mio padre non era fra i suoi
clienti. «No, mia cara, credo proprio di non aver avuto il piacere
di fare la tua conoscenza.» Le feci un inchino e lei sorrise.
«Mi chiamo Magdalena, anche se credo che tu lo sappia già,
questo, vero? Chiamami pure Magda.» Vista da vicino, era
molto bella. Si alzò, sistemandosi la coperta, e notai che sotto
aveva ancora il corsetto da notte e un velo di lino bianco fermato
sul seno da un nastro rosa. A casa nostra dominava la praticità, la
concretezza: mia madre non aveva un capo di abbigliamento
femminile neanche lontanamente simile alla delicata sottoveste
di Magda. L’insieme della sua bellezza e di quell’abbigliamento
mi folgorò. Era la prima volta che provavo quel misto di
bramosia e invidia verso un’altra persona.
Si accorse che fissavo la sua sottoveste e un sorriso complice
le spuntò in volto. «Aspetta qui soltanto un minuto» mi disse,
poi scomparve dentro la casa. Quando riapparve, mi tese un
nastro di velluto rosa. Tu non puoi capire che tesoro prezioso mi
stesse regalando; tessuti lavorati come quello erano merce
rarissima nella nostra arida cittadina, e fronzoli come un nastro
di velluto erano ancora più rari. Era la stoffa più morbida che
avessi mai toccato e la cullai fra le mie mani come se fosse un
coniglietto.
«Non posso accettare un dono di questo valore» le dissi,
anche se era evidente il mio desiderio di poterlo fare.
«Sciocchezze» disse lei, ridendo. «È solo un pezzo di nastro
di un vecchio vestito. Che cosa vuoi che me ne faccia io?»
mentì. Mi osservò accarezzare il velluto con palese gioia.
«Tienilo. Insisto.»
«Ma i miei genitori mi chiederanno dove l’ho preso e...»
«Tu risponderai che l’hai trovato per caso» mi suggerì, anche
se entrambe sapevamo che non potevo farlo. La bugia sarebbe
stata troppo implausibile. Eppure, non riuscivo a convincermi a
restituire a Magda il nastro. Fu contenta quando strinsi le dita
attorno al suo dono e sorrise, ma non di trionfo: di solidarietà.
«Siete molto generosa, madamigella Magda» dissi,
rivolgendole un nuovo inchino. «Ora devo tornare a messa, o
mio padre crederà che mi sia successo qualcosa.»
Lei alzò il mento e puntò il naso sottile verso la
congregazione. «Ma certo, cara. Hai ragione. Non devi far
preoccupare i tuoi genitori. Spero però che tornerai a farmi
visita, signorina McIlvrae.»
«Lo farò. Prometto.»
«Bene. Adesso vai, su.» Trottai lungo il sentiero, alzando la
gonna per evitare le pozzanghere. Prima di svoltare l’angolo,
lanciai uno sguardo indietro: Magda era tornata a sedersi e
dondolava contenta, lo sguardo perso nei boschi.
Riuscii a malapena ad attendere la domenica seguente per
sgattaiolare via durante la messa e tornare a far visita a Magda.
Avevo nascosto il nastro nella tasca della mia seconda
sottogonna, dove potevo infilare la mano per accarezzare di
nascosto il velluto. Il nastro mi ricordava Magda; la ammiravo
proprio perché era così diversa da mia madre e dalle altre donne
del villaggio.
C’era soprattutto una cosa in lei che meritava la mia
ammirazione, anche se non la capivo veramente: il fatto che non
avesse un uomo. Non c’era nemmeno una donna del villaggio
che vivesse senza un uomo a fianco, ed era sempre l’uomo il
capofamiglia. Magda era l’unica donna di St. Andrew che
rappresentava se stessa, anche se da quello che avevo visto lo
faceva raramente. Dubitavo che partecipasse alle assemblee
cittadine. Eppure continuava a vivere secondo la sua sola
volontà e alle sue condizioni. E sembrava farlo con successo. E
questo mi pareva una cosa meritevole di molta ammirazione.
La domenica seguente riuscii a trovare una scusa per
allontanarmi ancora dalla messa (anche se mio padre mi scoccò
un’occhiataccia) e corsi fino al cottage di Magda. La trovai sul
patio, stavolta. Non era più vestita in modo semplice. Indossava
una bellissima camicetta a righe e una giacchetta di lana viola,
un colore insolito. L’insieme era di un’eleganza deliziosa, come
se volesse fare una buona impressione su qualcuno. Su di me.
Ero lusingata.
«Buongiorno, madamigella Magda» la salutai correndole
incontro, leggermente affannata.
«Buona domenica a te, signorina McIlvrae.» I suoi occhi
verdi scintillavano. Chiacchierammo per un po’ e lei mi chiese
della mia famiglia; le indicai la nostra fattoria. Proprio quando
stavo pensando che avrei dovuto tornare a messa, lei mi disse,
timidamente: «Ti chiederei di entrare in casa, ma suppongo che i
tuoi genitori non approverebbero. Visto chi sono io. Non
sarebbe... appropriato».
Sapeva che morivo dalla curiosità di vedere l’interno del suo
cottage. Casa sua, la testimonianza della sua fiera indipendenza!
La mia coscienza mi richiamò all’ordine, intimandomi di tornare
in chiesa da mio padre... Ma come potevo rinunciare a
quell’opportunità? «Ho soltanto un minuto...» dissi seguendola
su per i gradini e attraverso la porta di ingresso.
Ai miei occhi apparve come l’interno di un cofanetto di
gioielli, ma, in realtà, doveva essere abbastanza cadente e
sciatta. La piccola camera da letto era dominata da un letto
stretto, su cui era posata una magnifica coperta ricamata in
giallo e rosso. Sul davanzale dell’unica finestra erano messe in
fila delle bottiglie di vetro, che proiettavano riflessi verdi e
marroni sul pavimento. Sparuti gioielli erano posati dentro una
ciotola di ceramica ornata di piccole rose rosa. I suoi vestiti
erano appesi a ganci sulla porta posteriore: era un assortimento
di gonne di vari colori, lunghe fusciacche, sottogonne con le
balze. Non una, ma due paia di delicati stivaletti da donna erano
allineati a lato della porta. La mia unica delusione fu che la
camera era soffocante, l’aria impregnata di un profumo
muschiato che ancora non riconoscevo.
«Quanto mi piacerebbe vivere in un posto così» osservai,
facendola ridere.
«Ho vissuto in posti migliori, a dire il vero, ma questo può
andare» disse, sedendosi.
Prima che la lasciassi, Magda mi diede due consigli da donna
a donna. Il primo era che una donna dovrebbe sempre mettere
via dei soldi per sé. «Il denaro è molto importante» mi disse,
mostrandomi il posto in cui conservava un borsellino pieno di
monete. «I soldi sono l’unica strada per avere il controllo della
propria vita, per una donna.» Il secondo era che una donna non
dovrebbe mai tradire un’altra donna per via di un uomo.
«Succede continuamente» mi spiegò con tono triste. «E si può
capirlo, visto che sembra che, a questo mondo, solo gli uomini
siano importanti. Ci fanno credere che l’unico valore di una
donna risieda nell’uomo che ha al suo fianco, ma non è così. E
comunque, le donne devono appoggiarsi l’un l’altra, perché
dipendere da un uomo è una follia. Gli uomini non sanno far
altro che deludere.» Chinò il capo, ma potrei giurare di aver
visto delle lacrime nei suoi occhi.
Stavo per alzarmi dal pavimento e uscire quando qualcuno
bussò alla porta. Un uomo corpulento entrò prima che Magda
gliene desse il permesso e io lo riconobbi: era uno dei
taglialegna di St. Andrew.
«Ciao, Magda, credevo fossi da sola e volessi compagnia,
visto che tutti sono a messa stamattina... Chi è questa?» Si
bloccò quando mi vide e un ghigno si allargò sul suo volto
segnato dalle intemperie. «Hai una nuova ragazza, Magda?
Un’apprendista?» Mi prese per il braccio come se non fossi una
persona ma un oggetto da possedere.
Magda si frammise tra me e lui e manovrandomi abilmente
mi condusse all’uscita posteriore. «È una mia amica, Lars
Holstrom, e non sono affari che ti riguardano. Vedi di tenere le
tue manacce lontane da lei. Tu vai, ora» disse poi rivolta a me,
spingendomi oltre la soglia. «Forse ci rivedremo la settimana
prossima.» E prima di rendermene conto mi ritrovai in mezzo a
una pila di foglie secche, con rami caduti che scricchiolavano
sotto i miei piedi. La porta di legno mi si chiuse in faccia e
Magda si dedicò ai suoi affari, il prezzo della sua indipendenza.
Mi affrettai attraverso il sottobosco fino al sentiero, poi corsi per
tornare alla sala della congregazione. Giunsi proprio mentre i
parrocchiani spuntavano alla luce del sole. Mio padre me
l’avrebbe fatta pagare cara, stavolta, ma ne era valsa la pena.
Magda era la custode di tutti i misteri della vita e sentivo che
qualunque prezzo avessi dovuto pagare per continuare a
imparare da lei, ne sarebbe valsa la pena.
6
Un pomeriggio d’estate, quando avevo quindici anni, l’intera
cittadinanza si radunò nel pascolo dei McDougal per ascoltare
un predicatore itinerante. Vedo ancora i miei concittadini
incamminarsi verso il campo dorato, l’erba alta splendere al
sole, sbuffi di polvere che si sollevano dietro i loro passi. A
piedi, a cavallo o in carrozza, quasi tutti gli abitanti di St.
Andrew si recarono al campo dei McDougal quel giorno, anche
se potrei giurare che non era semplicemente per un rigurgito di
zelo religioso. Anche i predicatori itineranti erano una rarità
nelle nostre zone: una delle pochissime occasioni di svago che ci
aiutasse a riempire la tristezza di un interminabile giorno
d’estate in quel posto desolato.
Quel predicatore, in particolare, sembrava apparso dal nulla e
in pochi anni aveva radunato un folto seguito, costruendosi la
reputazione di oratore fiero e ribelle. C’erano voci secondo le
quali aveva causato uno scisma nei fedeli della città più vicina –
Fort Kent, a un giorno di cavallo verso nord – mettendo i
congregazionalisti più conservatori contro una nuova fazione di
riformisti. Come se non bastasse, circolavano già da tempo voci
sulla prossima costituzione in Stato autonomo del Maine, che si
sarebbe così separato dal Massachusetts, quindi c’era
un’atmosfera di tensione – religiosa e politica – che sembrava
preludere a una rivolta contro la religione che i coloni avevano
portato con sé dal Massachusetts.
Fu mia madre a convincere mio padre ad andare, pur non
avendo alcuna intenzione di convertirlo: voleva soltanto stare
lontana dalla cucina almeno per un pomeriggio. Dopo che ebbe
steso una coperta sul prato, attendemmo che il sermone
cominciasse. Mio padre si accomodò di fianco a lei, con aria
diffidente, guardandosi attorno per vedere chi c’era e chi no. Le
mie sorelle rimasero vicine a mia madre, rimboccandosi
pudicamente le gonne sotto le gambe; Nevin si era allontanato
non appena la carrozza si era fermata, andando in cerca degli
altri ragazzi che vivevano nelle fattorie vicine alla nostra.
Io rimasi in piedi a osservare la folla, con una mano a
proteggermi gli occhi dai forti raggi del sole. C’erano tutti,
alcuni con delle coperte come mia madre, altri con del cibo nei
cestini. Stavo cercando Jonathan, come al solito, ma non mi
sembrò che fosse presente. La sua assenza non era certo una
sorpresa: sua madre era probabilmente la più ardente
congregazionalista del villaggio, e la famiglia di Ruth Bennet St.
Andrew non avrebbe mai voluto aver niente a che fare con
quella follia riformista.
Poi però scorsi una sagoma scura nascosta nell’ombra degli
alberi... Sì, era Jonathan, che si teneva ai margini della radura a
cavallo del suo inconfondibile stallone. Non fui l’unica a
notarlo; ci fu un percepibile sommovimento in alcune parti della
folla. Chissà come ci si deve sentire a rendersi conto che decine
di persone ti fissano rapite, con gli sguardi che seguono i
contorni delle tue lunghe gambe ai fianchi del cavallo, le tue
forti mani che afferrano le redini. C’era così tanto desiderio
incandescente nei petti di molte donne presenti sulla radura, quel
giorno, che è un miracolo che l’erba secca non abbia preso
fuoco.
Lui guidò il cavallo verso di me e, liberatosi delle staffe con
un calcio, smontò dalla sella. Odorava di cuoio e di terra arsa dal
sole e io avrei voluto poterlo toccare, anche solo sfiorargli la
manica bagnata del suo sudore. «Che cosa sta succedendo?» mi
chiese, levandosi il cappello e passandosi la manica sulla fronte.
«Non lo sai? C’è un predicatore itinerante in città. Non sei
qui per ascoltarlo?»
Jonathan alzò lo sguardo oltre di me per osservare la folla.
«No. Ero fuori per controllare il prossimo lotto da disboscare. Il
vecchio Charles non si fida del nuovo agrimensore. Secondo lui,
beve troppo.» Strizzò gli occhi per vedere ancora meglio quali
ragazze lo stessero osservando. «La mia famiglia è qui?»
«No, e non credo che tua madre approverebbe la tua presenza
qui. Il predicatore ha una tremenda reputazione. Potresti finire
all’inferno soltanto per averlo ascoltato.»
Jonathan mi sorrise. «È per questo che sei qui? Non riesci a
reprimere il desiderio di finire all’inferno? Se proprio vuoi la
dannazione eterna, ci sono modi molto più piacevoli per
raggiungerla che non ascoltare un predicatore ingannevole.»
C’era un messaggio nello scintillio dei suoi profondi occhi
castani, ma non sapevo interpretarlo. Prima che potessi
chiedergli spiegazioni, lui rise e disse: «Pare che ci sia qui tutta
la città. È un vero peccato che non possa trattenermi, ma hai
ragione, mia madre me la farebbe pagare molto cara se lo
venisse a sapere». Inforcò la staffa e rimontò agilmente sulla
sella. Poi si chinò verso di me con fare protettivo. «Ma tu cosa ci
fai qui, Lanny? Non ti sono mai piaciuti i sermoni. Sei qui
perché speravi di incontrare qualcuno? C’è qualche giovanotto
che ha attirato la tua attenzione?»
Fu una sorpresa assoluta per me. Il suo tono malizioso, lo
sguardo indagatore. Non mi aveva mai lasciato intendere che gli
interessasse sapere se mi piaceva un altro ragazzo. «No» risposi,
ma ero senza fiato, a malapena capace di proferire una parola.
Lentamente, afferrò le redini e le alzò, quasi soppesandole
come stava soppesando le parole da dirmi. «So che arriverà il
giorno in cui ti vedrò con un altro ragazzo; la mia Lanny con un
altro ragazzo... E non mi piacerà. Ma è giusto così.» Non ebbi il
tempo di riprendermi dallo shock e dirgli che poteva impedirlo,
lo sapeva benissimo, sapeva come... Lui voltò il cavallo e si
dileguò fra gli alberi, lasciandomi confusa a osservare la sua
ombra scomparire. Era un enigma, per me. Mi trattava per lo più
come la sua migliore amica, non mi toccava mai in modo
inappropriato, ma poi c’erano volte in cui il suo sguardo
sembrava esprimere un invito, o la sua frenesia nascondere
un’ombra di desiderio. Potevo sperare che fosse così?
Ormai se n’era andato e non potevo indugiare oltre in quei
pensieri o sarei ammattita.
Mi appoggiai a un albero e vidi il predicatore farsi largo tra la
folla finché non giunse in un piccolo spiazzo libero, davanti a
tutti. Era più giovane di quanto pensassi – Gilbert era l’unico
prete che conoscevo e quando era arrivato a St. Andrew aveva
già i capelli bianchi e l’aria perennemente corrucciata – e
camminava con la schiena dritta, sicuro che Dio e la giustizia
fossero dalla sua parte. Era bello in modo inatteso e perfino
sconveniente per un prete, e le donne sedute più vicino a lui
pigolarono come uccellini quando lui le gratificò con un sorriso
candido e ampio. Eppure, guardandolo osservare la folla, mentre
si preparava a cominciare (con una sicurezza che sembrava
indicare che tutti già gli appartenevano), provai un brivido
oscuro, come se stesse per succedere qualcosa di orribile.
Iniziò a parlare. La sua voce era forte e chiara. Raccontò i
suoi pellegrinaggi attraverso tutto il territorio del Maine,
descrivendo ciò che aveva visto. Il nostro territorio stava
diventando una copia del Massachusetts, con i suoi costumi
elitari. Un manipolo di uomini ricchi controllava il destino di
tutti gli abitanti. E questo che vantaggi aveva mai portato
all’uomo comune? Erano tempi difficili. Uomini semplici,
grandi lavoratori, costretti a indebitarsi sempre più. Uomini
onesti, padri e mariti, messi in prigione e le loro terre vendute
senza lasciar nulla alle loro mogli e ai loro figli.
Fui sorpresa di vedere teste annuire fra la folla.
Quello che la gente voleva, quello che i veri americani
volevano, specificò con enfasi agitando la sua Bibbia nell’aria,
era la libertà. Non avevamo combattuto e sconfitto i britannici
solo perché altri padroni prendessero il posto del re. I proprietari
terrieri di Boston e i mercanti che vendevano la loro merce ai
coloni non erano altro che ladri e usurai esosi, e la legge era
piegata al loro servizio. I suoi occhi scintillarono mentre
osservava gli astanti, incoraggiato dai loro mormorii di assenso,
e intanto camminava lungo la macchia di erba schiacciata. Non
ero abituata a sentire parole di dissenso pronunciate così
apertamente in pubblico e il successo che quel predicatore
sembrava avere in quel momento mi fece sentire una punta di
allarme.
Improvvisamente mi resi conto che Nevin era vicino a me,
osservava i volti dei nostri concittadini. «Ma guardali, tutti a
bocca aperta...» disse, deridendoli. Non c’era alcun dubbio che
avesse ereditato il temperamento critico di nostro padre.
Incrociò le braccia sul petto e sbuffò.
«Sembrano molto interessati a quello che sta dicendo»
osservai.
«Ma tu non sai nemmeno cosa sta dicendo!» Nevin socchiuse
gli occhi e mi fissò. «Non capisci niente, vero? Ma certo che no,
sei solo una stupida ragazzina. Ovvio che non capisci nulla.»
Corrugai la fronte e mi portai i pugni ai fianchi, ma non
replicai perché su una cosa Nevin aveva ragione: non sapevo di
che cosa stesse veramente parlando quell’uomo. Non avevo la
minima idea di quel che stesse succedendo nel mondo al di là dei
confini del nostro villaggio.
Nevin indicò un gruppetto di uomini che se ne stavano in
disparte rispetto alla folla. «Li vedi quelli là?» mi domandò.
Erano Tobey Ostergaard, Daniel Daughtery e Olaf Olmstrom.
Erano tre degli uomini più poveri del villaggio, anche se
qualcuno meno caritatevole avrebbe potuto osservare che erano
anche i tre più incapaci.
«Stanno meditando qualche guaio, quelli là» mi spiegò
Nevin. «Sai cosa vuol dire ’indiani pallidi’?»
Anche la ragazza più ignorante del villaggio avrebbe saputo
dire a che cosa si riferisse quell’espressione. Tempo prima era
arrivata la notizia di una rivolta a Fairfax: dei cittadini vestiti da
indiani avevano impedito al messo comunale di portare
un’ingiunzione a un contadino in arretrato coi pagamenti.
«Sta per succedere lo stesso qui» aggiunse Nevin, annuendo.
«Ho sentito Olmstrom e Daughtery e altri che ne parlavano a
nostro padre. Si lamentavano perché i Watford facevano pagare
troppo...» I dettagli sfuggivano alla capacità di comprensione di
Nevin; nessuno si prendeva la briga di spiegare a dei ragazzi che
cosa significassero i conti e i ricarichi del droghiere. «Secondo
Daughtery è una congiura contro la gente comune» recitò a
memoria Nevin, con un tono che lasciava intendere che secondo
lui forse Daughtery era nel giusto.
«Quindi? Che mi importa se Daughtery non paga i suoi debiti
ai Watford?» sbottai, fingendo che non mi interessasse. In realtà,
dentro di me ero sconvolta dal pensiero di qualcuno che
volontariamente non onorasse i suoi debiti, dato che mio padre
ci aveva insegnato che un simile comportamento sarebbe stato
riprovevole e che solo una persona priva di dignità l’avrebbe
fatto.
«Potrebbe avere delle pericolose conseguenze per il tuo
bello, Jonathan» disse Nevin con tono canzonatorio, ben felice
di avere l’occasione per prendermi in giro su Jonathan. «Non
sono mica soltanto i Watford che andranno incontro a dei guai se
le cose vanno storte. Il capitano è proprietario delle loro case...
Che cosa succederebbe se loro rifiutassero di pagare l’affitto?
Quegli uomini hanno combattuto per ben tre giorni a Fairfax. Ho
sentito che hanno spogliato il poliziotto e l’hanno picchiato con
dei bastoni, e poi l’hanno fatto tornare a casa a piedi nudo come
un verme.»
«Ma noi a St. Andrew non abbiamo nemmeno il messo
comunale» dissi, preoccupata dal racconto di mio fratello.
«Probabilmente il capitano radunerà i suoi taglialegna più
grossi e forti e li manderà da Daughtery a farsi dare i soldi.»
C’era un’aria di soggezione nelle parole di Nevin; il suo rispetto
per l’autorità e il desiderio di vedere la giustizia prevalere – tratti
ereditati da mio padre, senza ombra di dubbio – sembravano più
forti del suo desiderio di vedere Jonathan cadere in disgrazia.
Daughtery e Olmstrom... Il capitano e Jonathan... perfino la
compassata signora Watford e il suo altrettanto altezzoso
fratello... mi sentii umiliata dalla mia ignoranza e provai un
invidioso rispetto per la capacità di mio fratello di percepire il
mondo in tutta la sua complessità. Mi domandai che cos’altro
non sapessi, non capissi.
«Credi che nostro padre si unirà a loro? Lo arresteranno?»
sussurrai, terrorizzata.
«Il capitano non è proprietario di casa nostra» mi informò
Nevin con disdegno, visto che non lo sapevo. «Nostro padre è il
proprietario. Ma credo che sia d’accordo con quello che sta
dicendo quel tipo.» Indicò col mento il predicatore. «Nostro
padre è venuto in questi territori, come tutti gli altri, pensando
che qui sarebbe stato libero. Ma le cose non sono andate
esattamente così. Molti faticano a tirare avanti, e intanto i St.
Andrew sono sempre più pieni di soldi. Lo ripeto» aggiunse,
scalciando il terreno e sollevando una piccola nube di polvere
secca, «il tuo bello rischia di andare incontro a dei guai.»
«Non è il mio bello» replicai stizzita.
«Oh, ma tu lo vorresti eccome, che fosse il tuo ragazzo» mi
aizzò lui. «E Dio solo sa perché, poi. Mi sa che c’è qualcosa che
non va in te, Lanore, se sei così infatuata di quel bastardo.»
«Sei solo geloso, ecco perché lo odi.»
«Geloso io?» biascicò Nevin. «Di quel bellimbusto?» Fece
una risata sarcastica e preferì andarsene piuttosto che ammettere
che avevo ragione.
Circa una trentina di nostri concittadini seguì il predicatore a
casa dei Dales dall’altra parte del promontorio; lì, disse lui,
avrebbe continuato a parlare con quelli che fossero davvero
interessati. I Dales avevano una casa piuttosto grande, ma ci
stavamo comunque stretti. Tutti, però, accettavamo la scomodità
di buon grado pur di ascoltare altre parole di quell’oratore così
affascinante. La signora Dales accese un fuoco nell’ampio
camino della cucina, perché anche se eravamo in estate la sera
faceva comunque freddo. Fuori il cielo era diventato scuro, color
pervinca con una fascia rosa brillante all’orizzonte.
Nevin era furioso con me. Avevo implorato i miei genitori di
consentirmi di ascoltare il predicatore e mio padre aveva
acconsentito a patto che ci fosse un adulto con me. Quindi aveva
ordinato a Nevin di accompagnarmi. Mio fratello era diventato
rosso in viso e fumante di rabbia, ma non poteva rifiutare niente
a mio padre, quindi si era rassegnato a seguirmi con passo
infuriato fino dai Dales. Nonostante tutto il suo attaccamento
alla tradizione, tuttavia, Nevin aveva un tratto ribelle e non
potevo fare a meno di pensare che fosse segretamente contento
di avere una scusa per ascoltare il resto del discorso.
Il predicatore si mise in piedi accanto al camino della cucina
e ci studiò uno per uno. Aveva un ghigno selvaggio in volto. Da
vicino, notai che sembrava ancor meno un uomo di Chiesa di
quanto avessi pensato vedendolo da lontano, nel campo.
Riempiva la stanza della sua presenza, tanto che l’aria sembrava
rarefatta e opprimente, come in cima alle montagne. Iniziò
ringraziandoci per essere rimasti con lui. Perché aveva serbato
un grande segreto per noi, per quelli che seguendolo avevano
dimostrato di voler conoscere la verità. E la verità era che la
Chiesa – qualunque fosse la singola confessione, che nelle
nostre terre era per la maggior parte il congregazionalismo – era
il problema più grande, l’istituzione più elitaria, e serviva
soltanto a mantenere lo status quo.
La sua affermazione suscitò una smorfia di disapprovazione e
di rimprovero da parte di Nevin, che si vantava di andare alla
messa cattolica con nostra madre, invece che a chiacchierare coi
padri fondatori del villaggio e le famiglie più abbienti nella sala
della congregazione.
Dobbiamo liberarci dei precetti della Chiesa, proseguì il
predicatore, lo sguardo sempre scintillante e ferino, uno sguardo
che visto da vicino appariva molto meno pacifico. Dobbiamo
affidarci a nuovi precetti, più in sintonia con i bisogni dell’uomo
comune. E il primo precetto di cui sbarazzarci, il più antico, è
l’istituto del matrimonio, disse.
In quel momento, dentro quella piccola stanza con trenta
persone accalcate, c’era un silenzio di tomba.
Il predicatore assediava la cerchia degli astanti come un lupo.
Ci assicurò di non essere contro l’amore fra uomo e donna, un
amore del tutto naturale. No, lui si ribellava ai limiti legali del
matrimonio, al legame indissolubile. Era una cosa contro natura,
sostenne, acquistando sicurezza di parola in parola visto che
nessuno ancora gli aveva urlato di stare zitto. È nella nostra
natura esprimere i nostri sentimenti verso le persone che
sentiamo affini a noi stessi. Come figli di Dio, avremmo dovuto
praticare un «matrimonio spirituale», insistette: scegliere
compagni o compagne con cui sentiamo un legame spirituale.
Compagni?, chiese una donna, alzando la mano. Più di un
marito? O di una moglie?
Gli occhi del predicatore si illuminarono. Sì, avevamo sentito
bene: compagni e compagne, perché un uomo aveva diritto ad
avere tante mogli quante spiritualmente ne voleva, e lo stesso
per una donna. Lui stesso aveva due mogli, spiegò, ma aveva
incontrato mogli spirituali in ogni città che aveva visitato.
Il gruppo fu attraversato da un risolino nervoso e l’atmosfera
della stanza vibrò di desiderio trattenuto.
Lui si infilò i pollici sotto i risvolti del soprabito. Non si
aspettava certo che le menti illuminate di St. Andrew fossero
convinte facilmente dal matrimonio spirituale, sulla sola base
della sua parola. No, si aspettava che riflettessimo su quell’idea,
che ragionassimo sul modo in cui consentivamo alla legge di
regolare in tutto e per tutto le nostre vite. Solo guardandoci
dentro avremmo capito se quello che ci stava dicendo era la
verità.
Poi batté una volta le mani e il suo volto smise di essere serio,
e quando sorrise sembrò un’altra persona. Ora però basta con
questi discorsi, disse. Lo avevamo ascoltato tutto il pomeriggio,
era giunto il momento di divertirci un po’. Cantiamo qualche
inno dei più allegri, alziamoci in piedi e balliamo!
Quella sì che era una rivoluzione rispetto ai soliti sermoni –
inni allegri? Danze? La sola idea era eretica. Eppure, dopo
soltanto un momento di esitazione, parecchie persone si
alzarono e cominciarono a tenere il tempo battendo le mani e a
cantare qualcosa di più simile a una canzone da marinai che a un
inno.
Diedi di gomito a mio fratello. «Portami a casa, Nevin.»
«Hai sentito abbastanza, vero?» disse lui, tirandosi su in
piedi. «Sì, anch’io. Sono stufo marcio di ascoltare le
sciocchezze di quell’uomo. Aspettami qui, vado a chiedere una
lanterna ai Dales. La strada sarà tutta al buio, ormai.»
Rimasi in bella evidenza accanto alla porta, augurandomi che
Nevin facesse in fretta. Eppure, le parole del predicatore mi
rimbombavano ancora nelle orecchie. Avevo visto gli sguardi
delle donne, tra il pubblico, quando lui le guardava. Il sorriso le
illuminava tutte. Si immaginavano insieme a lui, o forse con un
altro uomo del villaggio con cui sentivano un legame
spirituale... E non potevano fare a meno di sperare che in
qualche modo quei desideri si realizzassero. Il predicatore aveva
espresso l’idea più folle mai concepita, un abominio morale.
Eppure era un uomo di Chiesa, un predicatore. Aveva parlato in
alcune delle chiese più importanti delle città costiere, a quanto
dicevano le voci che l’avevano preceduto. Questo non gli
conferiva forse una qualche autorità?
Sotto i miei vestiti, mi sentii avvampare di calore e di
vergogna, perché a dire la verità anche a me sarebbe piaciuto
godere della libertà di condividere le mie passioni con qualsiasi
uomo desiderassi. Naturalmente, in quel momento l’unico uomo
che desideravo era Jonathan, ma come potevo escludere che
prima o poi ne avrei incrociato un altro? Forse qualcuno
altrettanto affascinante e attraente del predicatore? Capivo bene
perché le donne lo trovassero intrigante; quante mogli spirituali
aveva incontrato il predicatore nei suoi viaggi? mi chiesi.
Mentre stavo sulla porta, persa nei miei pensieri, osservando i
miei vicini danzare un reel (era la mia immaginazione o gli
uomini e le donne continuavano a lanciarsi sguardi di desiderio
mentre passavano gli uni accanto alle altre sulla pista da ballo
improvvisata?), mi accorsi all’improvviso della presenza del
predicatore accanto a me. Con il suo sguardo penetrante e i
lineamenti marcati, era molto attraente e sembrava
perfettamente consapevole del suo potere seduttivo. Sorrise,
mostrandomi gli incisivi bianchissimi e affilati.
«Vi ringrazio per esservi unita a me e ai vostri concittadini
questa sera» disse, chinando il capo. «Ne deduco che anche voi
siete una ricercatrice spirituale desiderosa di un’illuminazione
superiore, signorina...?»
«McIlvrae» risposi, indietreggiando di mezzo passo.
«Lanore.»
«Reverendo Judah Van der Meer.» Mi prese la mano e strinse
leggermente la punta delle mie dita. «Che cosa ne pensate del
mio sermone, signorina McIlvrae? Mi auguro che non vi abbia
turbato troppo» disse, e i suoi occhi ebbero nuovamente un
guizzo, come se si divertisse a provocarmi. «E che la franchezza
con cui espongo le mie convinzioni non sia stata eccessiva.»
«Turbata da cosa, reverendo?» risposi con voce soffocata.
«Dal concetto di matrimonio spirituale. Sono certo che una
giovane donna come voi possa trovarsi d’accordo con il
principio a fondamento di questo concetto, e cioè rendere
giustizia alle proprie passioni. E se non erro, voi mi parete una
donna animata da passioni grandi e profonde.»
Mentre parlava il suo sguardo diventava sempre più
veemente – questo sono sicura di non essermelo immaginato –
percorrendo il mio corpo da capo a piedi con la medesima
sicurezza che avrebbe avuto se avesse usato le mani. «E ditemi,
signorina Lanore, voi mi sembrate dell’età giusta per prendere
marito. La vostra famiglia vi ha già costretta alla schiavitù del
fidanzamento? Sarebbe un vero peccato se una giovane donna
bella come voi dovesse passare il resto della vita in un letto
matrimoniale con un uomo per il quale non prova attrazione. È
un vero peccato trascorrere tutta la propria vita senza sapere che
cosa vuol dire l’autentica passione fisica», e i suoi occhi
scintillarono ancora, come se fosse sul punto di avventarsi su
una preda, «perché tale passione non è nient’altro che il dono più
grande di Dio ai suoi figli.»
Il cuore mi stava per esplodere nel petto e mi sentivo come un
coniglio intrappolato da un lupo. Poi però d’un tratto lui rise, mi
poggiò una mano sul braccio – provocandomi un brivido che mi
salì fino alla nuca – e mi si fece vicino, abbastanza da sentire il
suo respiro sul mio volto e uno dei suoi riccioli sfiorarmi la
guancia.
«Oh, mi sembrate sul punto di svenire! Credo che abbiate
bisogno di un po’ d’aria fresca... Vi va di venire fuori con me?»
Mi teneva già per il braccio e non attese la mia risposta, ma mi
condusse in fretta sul patio. L’aria notturna era molto più
frizzante e fredda di quella pesante dentro la casa e respirai a
fondo più volte finché il mio corsetto non mi impedì di
inspirarne di più.
«Vi sentite meglio ora?» Dopo che ebbi annuito, continuò:
«Devo dirvi, signorina McIlvrae, che mi ha reso felice vedere
che vi univate a noi in questo contesto più intimo. Ho sperato
che lo faceste. Vi ho notata nel campo, questo pomeriggio, e ho
capito subito che dovevo conoscervi. Ho avvertito un immediato
legame con voi. L’avete percepito anche voi, vero?» Prima che
potessi replicare, mi prese la mano fra le sue. «Ho trascorso
quasi tutta la mia vita viaggiando per il mondo, spinto dal
bisogno di conoscere persone diverse. E di tanto in tanto mi è
capitato di incontrare persone straordinarie. Persone la cui
eccezionalità è visibile anche da una parte all’altra di un campo
pieno di gente. Persone come voi.»
Aveva uno sguardo febbrile e selvaggio, come di chi insegue
un pensiero senza riuscire a metterlo a fuoco, e io iniziai a
provare paura. Perché aveva scelto me? O forse non ero stata
scelta, forse lo diceva a tutte le ragazze sufficientemente
impressionabili da prendere in considerazione la sua idea di
matrimonio spirituale. Si addossò a me in modo troppo
familiare, oltre i confini della decenza, e sembrava godesse del
mio imbarazzo.
«Eccezionale? Reverendo, voi non mi conoscete affatto.» Lo
spinsi da parte, ma lui continuò ostinato a rimanermi di fronte.
«Non c’è niente di straordinario in me.»
«Oh, sì che c’è, invece. Riesco a sentirlo. E anche voi lo
sentite.
Avete una sensibilità speciale,
un’indole
particolarmente primordiale. Lo vedo nel vostro viso così
grazioso e delicato.» La sua mano mi sfiorò la guancia, come se
provasse un impulso irresistibile a toccarmi. «Voi traboccate di
desiderio, Lanore. Una creatura sensuale. Voi bruciate di ardore,
di desiderio di conoscere il legame fisico tra uomo e donna... È
la prima cosa in cima ai vostri pensieri. La vostra fame è
evidente. Forse c’è un uomo in particolare che...?»
Certo che c’era, era Jonathan, ma pensai che il reverendo
intendesse scoprire se desideravo lui. «Questi non sono discorsi
appropriati, reverendo.» Feci un passo di lato e cercai di
aggirarlo. «Ora credo che dovrei tornare dentro...»
Lui mi afferrò nuovamente il braccio. «Non volevo mettervi a
disagio e se l’ho fatto me ne scuso. Non ne parlerò più... Ma vi
prego, ascoltatemi ancora un minuto. Devo farvi una domanda,
Lanore. Quando sono arrivato sul campo oggi pomeriggio e vi
ho vista, ho notato che stavate parlando con un giovane a
cavallo. Un ragazzo di straordinaria bellezza.»
«Jonathan.»
«Sì, è quello il nome che mi hanno riferito. Jonathan.» Il
reverendo si passò la lingua sulle labbra. «I vostri concittadini
mi hanno detto che questo giovanotto potrebbe simpatizzare con
le mie vedute filosofiche. Vorrei che voi me lo presentaste.»
Avvertii un formicolio alla nuca. «Perché volete conoscere
Jonathan?»
Lui fece una risata nervosa. «Be’, come vi ho spiegato, da
quanto mi hanno detto sembra un discepolo perfetto per me, il
tipo d’uomo che può davvero apprezzare la verità delle mie
parole. Potrebbe sposare la mia causa e forse diffondere la mia
dottrina qui, in queste terre selvagge.» Lo guardai negli occhi e
per la prima volta notai la sua perversione: quell’uomo amava il
caos e la distruzione. Voleva seminare quella stessa perversione
dentro Jonathan, così come cercava di seminarla in ogni città
che visitava. Come aveva sperato di seminarla in me.
«I miei concittadini si stanno divertendo alle vostre spalle,
temo. Voi non conoscete Jonathan, ma io sì, meglio di chiunque
altro. Non credo che gli interesserebbero molto le vostre teorie.»
Non so perché provai il bisogno di proteggere Jonathan da
quell’uomo. Ma c’era qualcosa di minaccioso nel suo interesse
per lui.
Il reverendo non gradì la mia risposta. Forse sapeva che stavo
mentendo, o forse non accettava di essere ostacolato nei suoi
piani. Mi fissò a lungo, cercando di intimorirmi, mentre pensava
a quale mossa attuare per ottenere quello che voleva. E per la
prima volta pensai di essere veramente in pericolo: quell’uomo
sembrava capace di qualsiasi cosa. Proprio in quel momento,
Nevin apparve di fronte a noi con una torcia accesa in mano, e
per una volta fui contenta di vederlo.
«Lanore! Ti stavo cercando. Sono pronto, andiamo, dai!»
urlò.
«Buona notte» dissi, allontanandomi dal reverendo, con la
speranza di non incontrarlo mai più. Sentii il suo sguardo feroce
sul mio collo mentre io e Nevin ce ne andavamo.
«Contenta della tua piccola gitarella culturale?» mi abbaiò
Nevin mentre ci dirigevamo verso la strada principale.
«Non è stato come mi aspettavo.»
«Lo credo bene. Quell’uomo è un pazzo, probabilmente per
via delle malattie che si porta dietro» disse Nevin, alludendo alla
sifilide. «Eppure, ho sentito che ha un sacco di seguaci a Saco.
Mi chiedo come mai si sia spinto così a nord.» A Nevin non
venne in mente che quell’uomo poteva essere stato costretto
all’esilio dalle autorità. Forse nella sua follia aveva concepito
visioni e grandiose predizioni e aveva messo strane e pericolose
idee in testa a ragazzine suggestionabili, minacciando persone
che non erano così disposte a fare quello che lui voleva.
Mi avvolsi più stretta nello scialle. «Apprezzerei molto se tu
non riferissi a nostro padre quello che ha detto il predicatore...»
Nevin fece una risata maligna. «Non credo proprio che lo
farò. Riesco a malapena a ricordarmi le blasfemie di
quell’uomo, figuriamoci ripeterlo a nostro padre. Poligamia,
figuriamoci! ’Matrimonio spirituale’! Non so che cosa farebbe
nostro padre, probabilmente riempirebbe me di frustate e
chiuderebbe te nel granaio finché non compi ventun anni
soltanto per aver ascoltato i discorsi di quell’eretico.» Scosse il
capo. «Ti dirò una cosa, però. Di certo gli insegnamenti di quel
predicatore si adatterebbero bene al tuo Jonathan. Ha già preso
come mogli spirituali metà delle ragazze del villaggio.»
«Basta parlare di Jonathan» dissi, tenendo per me lo strano
interesse del reverendo per Jonathan, in modo da non dare
ulteriori conferme alla pessima opinione di Nevin su di lui.
«Lasciamo perdere tutta questa storia.»
Rimanemmo in silenzio per tutto il resto della lunga
camminata verso casa. Nonostante il freddo notturno, mi sentivo
ancora avvampare per lo sguardo lascivo del predicatore,
ripensando al momento in cui avevo intuito la sua vera natura.
Non sapevo come interpretare il suo interesse verso Jonathan o
la sua affermazione circa la mia «sensibilità speciale». Era così
palese il mio desiderio di sperimentare l’unione fra uomo e
donna? Eppure quel mistero costituiva l’essenza stessa
dell’esperienza umana; era poi così contro natura o immorale
che una ragazza fosse così curiosa di sperimentarlo? I miei
genitori e il pastore Gilbert probabilmente la pensavano così.
Camminai lungo la strada deserta sentendomi agitata,
eccitata da tutti quei discorsi sul desiderio. Il pensiero di
conoscere Jonathan, o altri uomini del villaggio, in quel modo, il
modo in cui Magda conosceva gli uomini, mi faceva sentire
calda e umida dentro. Quella sera si era risvegliata la mia vera
natura, anche se ero troppo ingenua per rendermene conto,
troppo innocente per capire che avrei dovuto sentirmi allarmata
dalla facilità con cui il desiderio poteva accendersi dentro di me.
Avrei dovuto combatterlo con più fierezza, ma forse non
sarebbe servito a niente. La nostra vera natura alla fine vince
sempre.
7
Gli anni passarono, in apparenza indistinguibili l’uno
dall’altro. Ma c’erano sottili eppur evidenti differenze: io ero
sempre meno incline a seguire le regole stabilite dai miei
genitori e agognavo una mia indipendenza; crescendo, avevo
sviluppato una forte insofferenza verso l’atteggiamento
sentenzioso dei miei concittadini. Quel carismatico predicatore
fu arrestato a Saco, condotto in giudizio e imprigionato, ma
riuscì a scappare e scomparve misteriosamente. Tuttavia, la sua
uscita di scena non bastò a calmare le acque, che in realtà appena
sotto la superficie continuavano a ribollire. C’era una corrente di
rivolta nell’aria, palpabile anche in una cittadina isolata come St.
Andrew. Si parlava sempre più insistentemente di indipendenza
dal Massachusetts, di fondazione di uno Stato autonomo. Se i
proprietari terrieri come Charles St. Andrew si preoccupavano
delle possibili conseguenze negative sui loro affari, lo
nascondevano bene e non lo mostravano a nessuno.
Il mio interesse verso faccende importanti come queste
crebbe col tempo, anche se avevo ben poche occasioni per
soddisfare la mia curiosità. Gli unici argomenti di conversazione
adatti a una giovane donna, a quanto pareva, erano confinati
all’ambiente domestico: come preparare una morbida pagnotta
alla melassa o mungere una vacca non più giovane, come cucire
alla perfezione, quale fosse il modo migliore per curare la febbre
a un bambino. Tutte prove per stabilire il nostro valore come
future spose, immagino, ma a me interessavano ben poco
competizioni di quel tipo. C’era soltanto un uomo che volevo
come marito e a quell’uomo non interessava per niente quanto
fosse morbida una fetta di pane.
Tra le varie incombenze domestiche, quella che detestavo di
più era fare il bucato. Per i carichi leggeri di vestiti, bastava
andare al ruscello ed era semplice lavarli, strizzarli e farli
asciugare. Ma diverse volte all’anno dovevamo fare un lavaggio
completo e totale, il che voleva dire preparare un fuoco nel
cortile, metterci sopra un grosso calderone e poi far bollire,
lavare e asciugare indumenti per tutto il santo giorno. Era una
fatica disperata: infilare le braccia nell’acqua bollente con la
liscivia, strizzare pesanti indumenti di lana, stenderli ad
asciugare sui cespugli o appesi ai rami degli alberi. Bisognava
scegliere con cura il giorno del bucato, perché doveva esserci
bel tempo e non ci dovevano essere altre faccende urgenti da
sbrigare.
Mi ricordo uno di quei giorni, era l’inizio dell’autunno del
mio ventesimo anno. Mia madre, insolitamente, aveva detto a
Glynnis e Maeve di aiutare mio padre nel raccolto del fieno e di
fronte alle proteste aveva insistito che io e lei ce la saremmo
cavate benissimo a fare il bucato da sole. Quella mattina era
particolarmente silenziosa e tranquilla, il che non era da lei.
Mentre aspettavamo che l’acqua bollisse, armeggiò con
l’attrezzatura per il bucato: la sacca di liscivia, la lavanda
essiccata, i bastoni che usavamo per muovere i vestiti a bagno
nel calderone.
«È venuto il tempo che io e te facciamo un discorso serio e
importante» disse infine mia madre, mentre eravamo accanto al
calderone a osservare le bolle salire in superficie. «È tempo di
cominciare a pensare a una vita tutta tua, Lanore. Non sei più
una bambina. Ormai hai abbondantemente l’età per sposarti...»
A dire il vero, la stavo quasi per superare, quell’età, e da
tempo mi chiedevo che intenzioni avessero i miei genitori in
proposito. Non avevano organizzato un fidanzamento per
nessuno dei loro figli.
«... perciò dobbiamo parlare di come fare col signorino St.
Andrew.» Trattenne il fiato e mi osservò, sbattendo le ciglia.
Alle sue parole, il mio cuore mancò un battito. Che ragione
aveva di fare il nome di Jonathan in quel contesto se non perché
lei e mio padre avevano intenzione di organizzarmi un
fidanzamento con lui? Rimasi senza fiato per la gioia e la
sorpresa – quest’ultima per via del fatto che sapevo che mio
padre non stimava i St. Andrew, non più. Erano cambiate molte
cose da quando tante famiglie avevano seguito Charles St.
Andrew a nord. I suoi rapporti con la cittadinanza – con gli
uomini che si erano affidati a lui – ormai erano molto tesi.
Mia madre mi guardò con franchezza. «Ti parlo da madre che
ti vuole bene, Lanore: devi interrompere la tua amicizia con il
signorino Jonathan. Voi due non siete più bambini. Continuare
in questo modo non può che danneggiarti.»
Non sentii più gli schizzi di acqua bollente sulle mie braccia,
né il calore del calderone arrossarmi il volto. Ricambiai il suo
sguardo, sconvolta.
Lei si affrettò a riempire quel silenzio colmo di orrore.
«Lanore, devi capire... Quale altro ragazzo potrebbe volerti
quando è talmente chiaro che tu sei innamorata di Jonathan?»
«Non sono innamorata di Jonathan. Siamo soltanto amici»
borbottai.
Lei fece una risatina gentile, che però mi ferì ugualmente il
cuore. «Non puoi negare il tuo amore per Jonathan. È evidente,
mia cara, così come è evidente che lui non prova lo stesso per
te.»
«Non c’è niente che lui dovrebbe provare, mamma. Siamo
soltanto amici, te lo giuro» protestai.
«Lo sanno tutti delle sue relazioni...»
Mi passai una mano sulla fronte imperlata di sudore. «So
tutto. Lui mi dice ogni cosa...»
«Ascoltami, Lanore» mi implorò, voltandosi verso di me
anche se io cercavo di distogliere lo sguardo. «È facile
innamorarsi di un uomo così bello come Jonathan, o così ricco,
ma devi resistere. Tra te e Jonathan non è destino.»
«E tu come puoi dirlo?» La protesta mi uscì dalle labbra
anche se non avevo intenzione di dire niente del genere. «Non
puoi sapere quale sarà il futuro mio e di Jonathan.»
«Oh, povera ragazza, non dirmi che ormai vedi soltanto lui.»
Mi afferrò le spalle e mi scosse. «Non hai alcuna speranza di
sposare il figlio del capitano. La famiglia di Jonathan non lo
permetterebbe mai, mai. E nemmeno tuo padre lo accetterebbe.
Mi spiace da morire che tocchi a me dirti la dura verità, ma...»
Non c’era bisogno che me lo dicesse. Naturalmente, mi
rendevo perfettamente conto che le nostre rispettive famiglie
erano di diverso status sociale, e sapevo che la madre di
Jonathan nutriva grandi ambizioni per lui per quanto riguardava
il suo matrimonio. Ma è quasi impossibile uccidere i sogni di
una ragazza e io cullavo quel sogno da tutta la mia vita. A volte
mi pareva di essere nata col desiderio di Jonathan dentro di me.
Avevo sempre segretamente creduto che un amore così potente e
sincero come il mio alla fine sarebbe stato premiato, e ora
venivo costretta ad accettare l’amara verità.
Mia madre prese il lungo bastone per rimescolare gli abiti nel
calderone e si rimise al lavoro. «Tuo padre ha intenzione di
iniziare a cercarti un fidanzato, quindi capisci bene che devi
porre termine alla tua amicizia con Jonathan. Dobbiamo
sistemare te prima di poter sistemare le tue sorelle» continuò,
«quindi comprendi l’importanza di quello che ti sto dicendo,
vero, Lanore? Non vuoi che le tue sorelle rimangano per sempre
da sole, vero?»
«No, madre» risposi, disperata. Le voltavo ancora le spalle,
lo sguardo perso in lontananza, cercando di trattenere le lacrime,
quando notai del movimento nella foresta oltre la nostra casa.
Poteva essere qualunque cosa, benigna o malevola: mio padre e
le mie sorelle che rientravano dal raccolto, qualcuno che si
spostava da una fattoria all’altra, cervi che brucavano. Seguii
con lo sguardo la figura finché non riuscii a distinguerla
chiaramente, grande e scura e lucente. Non era un orso. Era un
cavallo, con un cavaliere. C’era soltanto un cavallo nero nel
villaggio e apparteneva a Jonathan. Perché mai Jonathan
cavalcava verso di noi se non per vedermi? Ma oltrepassò casa
nostra, dirigendosi verso i nostri vicini, Jeremiah e Sophia
Jacobs, che si erano appena sposati. Non c’era alcuna ragione
per Jonathan di fare visita a Jeremiah, non che io sapessi.
Alzai la mano per sistemarmi dei ciuffi ribelli sotto la
cuffietta. «Mamma, sbaglio o mi avevi detto che Jeremiah
Jacobs non sarebbe stato a casa questa settimana? Non è andato
via?»
«Sì che è andato» mi rispose distratta, continuando a
mescolare l’acqua. «È a Fort Kent a esaminare un paio di cavalli
da tiro; ha detto a tuo padre che sarebbe tornato la settimana
prossima.»
«E ha lasciato Sophia da sola, quindi?» La figura evanescente
era scomparsa dal mio campo visivo, persa nell’oscurità della
foresta.
Mia madre mormorò un assenso. «Sì, ma lui sa che non c’è
ragione di preoccuparsi. Sophia è al sicuro, per una settimana
sola.» Col bastone, sollevò dal calderone un indumento fradicio
e fumante di vapore. Lo presi e lo portai sotto un albero, dove
appendevamo tutti gli indumenti di lana insieme. «Promettimi
che lascerai perdere Jonathan e che non cercherai più la sua
compagnia» fu l’ultima cosa che mi disse sull’argomento. Ma io
stavo pensando alla piccola casetta a due piani della nostra
vicina, con il cavallo di Jonathan che attendeva impaziente al di
fuori.
«Prometto» dissi a mia madre, mentendo con disinvoltura,
come se si trattasse di una faccenda da nulla.
8
Mentre l’autunno avanzava e le foglie diventavano color
ruggine e dorate, la relazione fra Jonathan e Sophia Jacobs non
accennava a cessare. In quei mesi, i miei incontri con Jonathan
furono più rari che mai, e dolorosamente brevi. Non era certo
colpa di Sophia – Jonathan e io avevamo diversi impegni che ci
avrebbero tenuti comunque lontani – ma io le davo la colpa di
tutto. Che diritto aveva di appropriarsi in quel modo delle sue
attenzioni? Per come la vedevo io, lei non meritava di stare con
lui. Il suo peccato principale era che era sposata, e proseguendo
in quella relazione stava costringendo Jonathan a uscire dal
solco della morale cristiana. Stava condannando all’inferno
anche lui, oltre che se stessa.
Ma non era solo questa la ragione per cui lei non meritava
Jonathan. Sophia non era certo la ragazza più bella del paese;
stimavo che ce ne fossero almeno altre venti, di età più o meno
uguale, che erano più belle di lei, anche escludendo me stessa
per pura modestia. In più, non aveva né la posizione sociale né la
ricchezza per ambire a essere una compagna adeguata per un
uomo dello status di Jonathan. Le sue abilità domestiche non
erano certo brillanti: sapeva cucire abbastanza bene, ma le torte
che faceva e portava in chiesa erano farinose e mal cotte. Sophia
era intelligente, senza dubbio, ma se qualcuno avesse cercato le
donne più intelligenti del villaggio il suo nome non sarebbe stato
certo fra i primi a venire in mente. Perciò su che basi aveva il
coraggio di prendersi Jonathan, che meritava soltanto il meglio?
Io rimasi a tessere l’ultimo lino dell’estate, arrovellandomi
nel frattempo sugli strani sviluppi di quella faccenda,
maledicendo Jonathan per la sua incostanza. Dopo tutto, quel
giorno nel campo dei McDougal non aveva forse detto che
sarebbe stato geloso se io mi fossi messa insieme a un altro
ragazzo del villaggio? Eppure, era lui a corteggiare
segretamente Sophia Jacobs. Una ragazza meno malata d’amore
di me avrebbe potuto trarre delle conclusioni ben precise da tutto
questo, ma io non ci riuscivo. Preferivo credere che Jonathan
avrebbe comunque scelto me, se solo avesse saputo dei miei veri
sentimenti. La domenica, dopo la messa, vagavo da sola,
lanciando sguardi non ricambiati verso Jonathan, sperando di
potergli un giorno dire quanto ardentemente lo desiderassi. Mi
incamminavo sui sentieri che conducevano verso la residenza
dei St. Andrew chiedendomi cosa stesse facendo Jonathan in
quel momento, e nei miei sogni a occhi aperti cercavo di
immaginarmi le sue mani sul mio corpo, il suo corpo nudo sul
mio, i suoi baci. Adesso arrossisco a pensare al modo ingenuo in
cui allora vedevo l’amore! Ero una vergine con un’idea
dell’amore ancora casta e cortese.
Senza Jonathan, ero profondamente sola. Ed era
un’anticipazione di come sarebbe stata la mia vita una volta che
Jonathan si fosse sposato e avesse ereditato l’azienda di famiglia
e io fossi toccata in moglie a un altro uomo. Ciascuno di noi due
sarebbe stato sempre più assorbito dalla sua vita e i nostri
cammini non si sarebbero mai più incrociati. Ma quel giorno
non era ancora arrivato, e Sophia Jacobs non era sua moglie. Era
soltanto un’intrusa che pretendeva di reclamare il suo amore.
Fu solo dopo la prima gelata che Jonathan un giorno venne a
cercarmi. Com’era cambiato. Sembrava invecchiato di anni. O
forse aveva perduto la spensieratezza che lo aveva sempre
animato: ora era serio. Adulto. Mi venne a cercare nel campo;
ero lì con le mie sorelle, a raccogliere l’ultimo fieno lasciato a
essiccare al sole estivo per portarlo nel granaio, dove
conservavamo l’erba medica che avrebbe nutrito le vacche
durante il lungo inverno.
«Lasciate che vi aiuti» disse, saltando giù da cavallo. Le mie
sorelle, vestite come me con abiti logori e con fazzoletti
annodati sul capo per tenere a bada i capelli, lo guardarono di
traverso e ridacchiarono.
«Non essere ridicolo» gli dissi, prendendo il suo bel cappotto
di lana e le brache di pelle di daino. Raccogliere il fieno era un
lavoro faticoso ed estenuante. E comunque, mi bruciava ancora
il suo abbandono e mi ripetei che non volevo accettare niente da
lui. «Dimmi perché sei qui e basta» gli comunicai secca.
«Temo che le mie parole siano per te soltanto. Non potremmo
fare almeno due passi insieme?» mi chiese, sorridendo alle mie
sorelle per mostrare che non intendeva certo mancar loro di
rispetto. Gettai a terra il mio forcone, mi sfilai i guanti e mi
incamminai in direzione degli alberi.
Lui si affrettò a seguirmi, conducendo il suo cavallo al
seguito per una redine. «È parecchio tempo che non ci vediamo,
vero?» esordì in modo poco convincente.
«Non ho tempo per i convenevoli» gli risposi. «Come hai
visto, ho del lavoro da fare.»
Lui abbandonò subito ogni finzione. «Ah, Lanny. Non sono
mai stato capace di nasconderti niente. Mi sei mancata, ma non è
per questo che sono qui oggi. Ho bisogno di un tuo consiglio.
Non sono mai stato bravo a giudicare i miei problemi mentre tu
sembri sempre capace di vedere le cose con chiarezza e trovare
una soluzione, non importa quale sia la natura del problema.»
«Puoi anche smetterla di lusingarmi» dissi, asciugandomi il
sudore con una manica lurida. «Non sono certo il re Salomone.
Ci sono persone ben più sagge in questo villaggio cui potresti
rivolgerti, quindi il fatto che tu sia venuto da me significa che ti
sei ficcato in qualche guaio di cui non osi parlare a nessun altro.
Forza, sputa il rospo. Che cos’hai combinato stavolta?»
«Hai ragione. Non c’è nessuno cui possa rivolgermi, tranne
te.» Jonathan distolse il suo bellissimo volto dal mio sguardo,
imbarazzato. «Si tratta di Sophia, so che l’hai capito, e so che il
suo è l’ultimo nome che vorresti sentire...»
«Non ti immagini nemmeno quanto» borbottai, rimboccando
un angolo della gonna alla vita per allontanare l’orlo dal terreno.
«In questi mesi siamo stati abbastanza felici insieme, Lanny.
Non l’avrei mai creduto possibile. Siamo così diversi, eppure...
La sua compagnia mi è immensamente gradita. Ha un carattere
indipendente, e non ha timore alcuno di far valere le sue
opinioni.» Continuò a parlare, senza accorgersi che io invece mi
ero bloccata, a bocca aperta. Perché, io invece non avevo il
coraggio delle mie opinioni? Certo, forse non gli avevo detto
come la pensavo su tutti gli argomenti, ma non avevamo parlato
da amici, da pari? Il fatto che ritenesse il comportamento di
Sophia così peculiare, così unico, mi faceva impazzire. «Ed è
ancora più straordinaria considerando la famiglia da cui
proviene» proseguì lui. «Mi racconta certe cose su suo padre... È
un ubriacone, un giocatore d’azzardo, e picchia regolarmente la
moglie e le figlie.»
«Tobey Ostergaard» dissi. Mi sorprendeva che Jonathan non
sapesse nulla della pessima reputazione di Tobey, ma questo
dimostrava ancora una volta quanto fosse isolato dal resto della
comunità. Tutti sapevano dei problemi di Ostergaard. Nessuno
lo riteneva un buon padre, né un buon capofamiglia. Incapace di
lavorare la terra o allevare bestiame, Tobey si era ridotto a
scavare tombe nel fine settimana per guadagnare qualcosina, che
poi di solito spendeva per ubriacarsi. «Il fratello di Sophia è
scappato di casa un anno fa» dissi a Jonathan. «Ha litigato col
padre e Tobey l’ha colpito al volto con la vanga del cimitero.»
Jonathan sembrò sinceramente impressionato. «La sua
infanzia difficile ha indurito il temperamento di Sophia, eppure
non è diventata cinica e amara, nemmeno dopo il suo disgraziato
matrimonio. Si pente amaramente di aver acconsentito
all’unione, specialmente ora che...» Le sue parole si spensero nel
nulla.
«Ora che... cosa, Jonathan?» insistei, con la paura alla gola.
«Mi ha detto che è incinta» sbottò Jonathan, voltandosi
finalmente verso di me. «Giura che il bambino è mio. Non so
cosa fare, sono disperato.»
Aveva il terrore dipinto in volto e, sì, anche il timore per
avermi confessato la verità. L’avrei preso a schiaffi se non fosse
stato così evidente che non era sua intenzione ferirmi. Eppure,
avrei voluto rimproverarlo aspramente: era da mesi che andava
avanti con quella donna sposata, che cosa si aspettava? Era già
strano che non fosse successo prima. «Che cosa pensi di fare?»
gli chiesi.
«Sophia ha intenzioni chiarissime: vuole che ci sposiamo e
che cresciamo il bambino insieme.»
Mi sfuggì una risata sarcastica. «Dev’essere impazzita. La
tua famiglia non lo permetterebbe mai.»
Mi lanciò uno sguardo fuggevole ma così carico di rabbia da
farmi pentire della mia osservazione.
«Dimmi» proseguii in tono più conciliante, «cosa vorresti
fare tu?»
Jonathan scosse il capo. «Te l’ho detto, Lanny, non riesco a
prendere una decisione su questa faccenda.» Non sapevo se
credergli, comunque. C’era una nota di esitazione nelle sue
parole, come se ci fossero pensieri cui non osava dare voce.
Sembrava molto cambiato rispetto al Jonathan che conoscevo, il
mascalzone che aveva intenzione di rimanere libero da legami il
più a lungo possibile.
Se solo avesse saputo il conflitto interiore che il suo dilemma
mi suscitava. Da un lato, sembrava così disperato e disarmato,
incapace di vedere una via d’uscita, che non potevo che provare
pietà per lui. Dall’altro, il mio orgoglio era ferito come pelle
appena squarciata da un taglio. Mi mossi attorno a lui,
mordendomi una nocca. «Be’, cerchiamo di vedere le cose in
modo chiaro e spassionato. Sai benissimo come lo so io che ci
sono rimedi precisi per faccende come questa. Deve andare dalla
levatrice e...» Pensai a Magda: di certo lei avrebbe saputo come
cavarsela in situazioni come quella, visto il lavoro che faceva.
«Ho sentito che basta bere una pozione fatta con certe erbe per
risolvere il problema.»
Rosso in volto, Jonathan scosse ancora il capo. «Non vuole.
Vuole tenere il bambino.»
«Ma non può! Sarebbe una follia esporre così il suo
tradimento!»
«Se un comportamento come questo equivale a follia, allora,
sì, è pazza.»
«Ma... e tuo padre? Hai preso in considerazione l’idea di
rivolgerti a lui per un consiglio?» Il suggerimento non era del
tutto campato in aria: Charles St. Andrew era noto per andare a
caccia di servette e probabilmente si era già trovato almeno un
paio di volte nella situazione di Jonathan.
Ma Jonathan sbuffò come un cavallo ritroso. «Credo che
dovrò confidarlo al vecchio Charles, ma non ne sono certo
impaziente. Lui saprebbe cosa dire a Sophia, ma ho paura delle
conseguenze.» Il che voleva dire, immaginai, che Charles St.
Andrew avrebbe costretto suo figlio a interrompere ogni
relazione con Sophia e, bambino o meno, non si sarebbero più
visti. O peggio, avrebbe potuto insistere perché Jeremiah
sapesse la verità, e Jeremiah avrebbe potuto chiedere il divorzio
alla moglie adultera e fare causa a Jonathan. Oppure avrebbe
potuto estorcere denaro ai St. Andrew in cambio del suo silenzio
e crescere il bambino come suo, ma pagato da loro. Era difficile
prevedere come sarebbero andate le cose se fosse intervenuto il
vecchio St. Andrew.
«Mio caro Jonathan» mormorai, cercando freneticamente il
consiglio giusto da dargli. «Sono addolorata per questo tuo...
incidente. Ma prima di andare da tuo padre, lasciami riflettere
per un giorno. Forse mi verrà in mente una soluzione.»
«Mia adorata Lanny» rispose, lanciando uno sguardo indietro
verso le mie sorelle, che ora ci erano nascoste da un cumulo di
balle di fieno. «Come sempre, sei la mia salvezza.» Prima che
potessi rendermi conto di quello che stava succedendo, mi prese
per le spalle e mi attirò a sé, facendomi alzare sulle punte dei
piedi per baciarmi. Ma non fu un bacio amichevole: la forza del
suo bacio mi ricordò che poteva evocare il mio desiderio a suo
piacimento. Io ero sua. Mi tenne stretta eppure tremava.
Eravamo entrambi senza fiato quando mi lasciò. «Sei il mio
angelo» mi sussurrò con voce roca all’orecchio. «Senza di te
sarei perduto.»
Si rendeva conto dell’effetto delle sue parole su una persona
disperatamente innamorata di lui? Mi chiesi se non l’avesse
fatto per convincermi a risolvere il guaio in cui si era ficcato, o
se fosse venuto da me semplicemente per cercare rassicurazioni
dall’unica ragazza che sapeva per certo che l’avrebbe sempre
amato, a prescindere da quello che combinava. Mi piaceva
pensare che una parte di lui mi amasse e che fosse dispiaciuto di
avermi delusa. Non posso però affermare di conoscere con
certezza quali fossero le sue intenzioni in quel momento; credo
che non lo sapesse nemmeno lui. In fondo, era soltanto un
ragazzo e si era messo in seri pasticci per la prima volta in vita
sua; forse Jonathan era così ingenuo da credere che se Dio gli
avesse perdonato quell’imprudenza, lui si sarebbe messo sulla
retta via e si sarebbe accontentato dell’unica ragazza che
l’avrebbe amato senza riserve.
Rimontò sulla sella e rivolse un educato cenno di saluto alle
mie sorelle, poi diresse il cavallo verso casa sua. E prima ancora
che lui giungesse al limitare del campo e sparisse dalla mia vista,
io elaborai un piano. Ero una ragazza intelligente, ma soprattutto
non c’era niente che potesse fermarmi quando si trattava di
Jonathan.
Decisi di fare visita a Sophia e di parlarle in privato. Aspettai
di aver chiuso le nostre galline nel pollaio per la notte, così che
la mia assenza non venisse notata, prima di dirigermi verso la
fattoria dei Jacobs. La loro proprietà era molto più tranquilla
della nostra, forse perché avevano meno bestiame e perché
c’erano soltanto marito e moglie a prendersi cura di tutto. Mi
intrufolai nel granaio, sperando di evitare Jeremiah e di trovare
Sophia da sola, e fu così. Stava chiudendo le loro tre cenciose
pecore dentro la stalla per la notte.
«Lanore!» Ebbe un moto di sorpresa e si portò le mani sul
cuore. Era vestita troppo leggera per stare all’aperto, con
soltanto uno scialle di lana sulle spalle invece che un mantello
per tenere a bada il gelo. Sophia doveva sapere della mia
amicizia con Jonathan e solo Dio sa che cosa lui le avesse detto
di me (o forse era stupido credere che lui rivolgesse anche un
solo pensiero a me quando era in sua compagnia). Mi guardò
con il gelo negli occhi, senza dubbio preoccupata del motivo per
cui ero andata da lei. Dovetti sembrarle ancora una bambina,
anche se avevo soltanto pochi anni in meno di lei; ma non ero
ancora sposata e vivevo a casa dei miei genitori.
«Perdonami per essere venuta da te senza preavviso, ma
dovevo parlarti da sola» le dissi, guardandomi attorno per
accertarmi che suo marito non fosse nei paraggi. «Parlerò
chiaro, non c’è tempo per le smancerie. Credo tu sappia perché
sono venuta qui a parlare con te. Jonathan mi ha detto...»
Lei incrociò le braccia e il suo sguardo si fece d’acciaio. «Te
l’ha detto, vero? Doveva proprio vantarsi con qualcuno di
avermi messa incinta?»
«Niente del genere! Se credi che sia contento che tu stia per
avere un figlio...»
«Non un figlio. Suo figlio» mi corresse. «E so benissimo che
non è contento.»
Vidi un’occasione. Mi ero chiesta che cosa avrei detto a
Sophia sin dal momento in cui Jonathan se n’era andato a
cavallo il giorno prima. Jonathan era venuto da me perché gli
serviva qualcuno che non avesse paura di affrontare Sophia al
posto suo. Qualcuno che le facesse capire la debolezza della sua
posizione. Sophia si sarebbe resa conto che io capivo
perfettamente quello che avrebbe dovuto affrontare; ci sarebbe
stato meno spazio per congetture e ricatti sentimentali. Non lo
facevo perché odiavo Sophia, mi ripetei, né perché non
sopportavo che lei avesse usurpato il mio posto a fianco di
Jonathan. No, io avevo capito perfettamente la natura di Sophia.
E stavo salvando Jonathan dalla trappola di quella astuta
megera.
«Con tutto il rispetto, posso chiederti quali prove hai che il
bambino sia veramente di Jonathan? Abbiamo soltanto la tua
parola e...» Lasciai sospesa la frase, così che fosse lei stessa a
coglierne le implicazioni.
«E tu chi sei, l’avvocato di Jonathan?»
Non raccolsi la sua provocazione e lei avvampò di vergogna.
«Sì, hai ragione, potrebbe essere anche di Jeremiah, ma io so che
è di Jonathan. Lo so.» Si portò le mani al ventre, anche se ancora
non mostrava alcun segno di gravidanza.
«E ti aspetti che Jonathan si rovini la vita solo perché tu sei
convinta che...»
«Rovinare la sua vita?» urlò. «E la mia allora?»
«Giusto, la tua» dissi, raddrizzando la schiena più che potevo.
«Hai pensato a che cosa succederebbe se tu accusassi
pubblicamente Jonathan di essere il padre di tuo figlio?
Otterresti soltanto di far sapere a tutti che sei una donna facile...»
Sophia sbuffò, voltandosi di scatto e allontanandosi da me,
come se non volesse sentire una sola parola di più.
«... e lui negherà tutto. Negherà di essere il padre del tuo
bambino. E chi ti crederà, Sophia? Chi potrebbe mai credere che
Jonathan St. Andrew abbia scelto di andare con te quando
avrebbe potuto avere qualsiasi donna del villaggio?»
«Jonathan mi rinnegherà?» mi domandò incredula. «Non
sprecare il fiato, Lanore. Non mi convincerai mai che il mio
Jonathan possa rinnegarmi.»
Il mio Jonathan, aveva detto. Le guance mi si infiammarono,
il cuore prese a martellarmi. Non so dove trovai la forza di dire a
Sophia le cose orrende che le dissi in quel momento. Fu come se
un’altra persona fosse rimasta nascosta dentro di me, una
persona con capacità che non avevo mai sognato di possedere, e
questa persona fosse stata evocata con la stessa facilità con cui si
evoca un genio della lampada. Fui accecata dalla rabbia; sapevo
soltanto che Sophia stava minacciando Jonathan, minacciava di
rovinargli la vita, e non avrei permesso a nessuno al mondo di
recargli danno. Non era il suo Jonathan, era il mio. Lo avevo
reclamato anni prima, nel vestibolo della chiesa, e per quanto
potesse sembrare stupido, sentii la possessività crescermi
dentro, feroce e primordiale. «Non farai altro che renderti
ridicola. La donna più sciatta di St. Andrew che sostiene che lo
scapolo più desiderato del villaggio è il padre del suo bambino,
non quel rozzo di suo marito. Quell’allocco che lei disprezza.»
«Ma è davvero figlio di Jonathan» mi rispose con aria di
sfida. «E lui lo sa. Non si preoccupa delle sorti del sangue del
suo sangue?»
Quello mi fermò; avvertii una punta di senso di colpa. «Fai
una bella cosa, Sophia, e dimentica questo folle piano. Hai già
un marito, digli che il bambino è suo. Sarà contento della
notizia. Sono sicura che Jeremiah vuole dei bambini.»
«Sì che li vuole, ma li vuole suoi» sibilò. «Non posso mentire
a Jeremiah su una cosa come questa.»
«E perché no? Gli hai già mentito sulla tua fedeltà, no?»
osservai sprezzante. Il suo odio verso di me in quel momento era
così tangibile che pensai mi avrebbe assalito come un serpente.
Era giunto il momento dell’affondo decisivo, quello al cuore.
La guardai dalla testa ai piedi con occhi socchiusi. «Sai bene che
la punizione per un’adultera è la morte. È ancora questa la
posizione della Chiesa al riguardo. Se vuoi proprio ostinarti
nella tua decisione, pensaci bene. Segnerai il tuo destino.» Era
una minaccia vuota: nessuna donna sarebbe stata messa a morte
per adulterio a St. Andrew, né in alcuna città di frontiera, dove le
donne in età fertile erano scarse. La punizione di Jonathan, nel
caso remoto in cui i cittadini avessero deciso che era colpevole,
sarebbe stata di pagare la tassa sui figli illegittimi e forse di
essere ostracizzato dai benpensanti del villaggio per qualche
tempo. Sarebbe stata senza dubbio Sophia a sopportare il
fardello maggiore.
Sophia si aggirò in cerchio in preda all’agitazione, come se
stesse dando la caccia a degli aguzzini invisibili. «Jonathan!»
urlò, anche se a voce non sufficientemente alta perché il marito
potesse sentirla. «Come puoi trattarmi così? Ti credevo un uomo
d’onore... Credevo che fossi l’uomo giusto... Invece, mandi da
me questa vipera» disse, guardandomi con occhi assassini pieni
di lacrime, «perché faccia il lavoro sporco al posto tuo. E tu non
credere che non sappia perché lo fai» sibilò, puntandomi un dito
addosso. «Tutti sanno che sei innamorata di lui e che lui non ti
vuole. La tua è soltanto gelosia. Jonathan non ti avrebbe mai
mandata qui a trattarmi così.»
Mi ero preparata, sapevo di dover restare calma. Arretrai di
qualche passo, allontanandomi da lei come se fosse pazza e
pericolosa. «Ma certo che mi ha detto di venire da te, altrimenti
come potrei sapere che sei incinta? Ha perso ogni speranza di
condurti alla ragione e ha chiesto a me di parlarti, da donna a
donna. E da donna ti dico: so che cos’hai in mente. Stai facendo
di tutto per migliorare la tua posizione, per scambiare tuo marito
con un uomo più ricco. Forse non c’è nemmeno un bambino in
arrivo. Mi sembri uguale a prima. E per quanto riguarda il mio
rapporto con Jonathan, la nostra è un’amicizia speciale, pura e
casta e più forte del legame tra fratello e sorella, anche se non mi
aspetto certo che una come te lo capisca» aggiunsi in tono
altezzoso. «Non sembri nemmeno capace di immaginare una
relazione con un uomo che non comporti alzare le gonne.
Pensaci bene, Sophia Jacobs. Hai creato tu questo guaio e la
soluzione è in mano tua. Scegli la via più facile. Dai un figlio a
Jeremiah. E non avvicinarti mai più a Jonathan: non vuole avere
più niente a che fare con te» conclusi con decisione, poi me ne
andai. Sulla via verso casa, tremai di freddo e di trionfo, i nervi
incendiati nonostante il gelo della notte. Avevo fatto ricorso a
tutto il mio coraggio per difendere Jonathan e l’avevo fatto con
una determinazione che non credevo di possedere. Raramente
avevo alzato la voce in vita mia, e non avevo mai imposto il mio
modo di vedere con tanta forza a nessuno. Rendermi conto di
avere un tale potere dentro di me mi spaventava, ma era anche
una scoperta eccitante. Attraversai i boschi verso casa
alleggerita e accalorata, sicura che qualsiasi cosa fosse in mio
potere.
9
Fu il rumore improvviso a svegliarmi la mattina seguente. Un
tiro di schioppo, un pallettone, polvere da sparo. A quell’ora del
mattino, uno sparo poteva voler dire soltanto una cosa: guai. Un
incendio nella casa di un vicino, una battuta di caccia, un
terribile incidente. Quello sparo proveniva dalla fattoria dei
Jacobs. Lo capii appena lo udii.
Mi tirai la coperta sul volto, fingendo di essere ancora
addormentata, ascoltando i mormorii che provenivano dalla
camera da letto dei miei genitori al piano di sotto. Udii mio
padre alzarsi, vestirsi e uscire. Mia madre lo seguì,
probabilmente avvolgendosi in una coperta mentre iniziava le
faccende mattutine, accendendo il fuoco e mettendo una pentola
d’acqua a bollire. Mi rialzai a sedere sul letto, riluttante ad
appoggiare i piedi sul pavimento gelido e iniziare una giornata
che si annunciava strana e sfortunata.
Mio padre rientrò con un’espressione scura in volto. «Vestiti,
Nevin. Devi venire con me» disse rivolto al corpo raggomitolato
sotto le coperte al piano terra. Nevin rispose grugnendo.
«Devo proprio?» lo sentii chiedere con voce assonnata.
«Devo dar da mangiare al bestiame...»
«Verrò io con te, padre» dissi dal pianerottolo, vestendomi in
fretta. Il mio cuore batteva così forte che sarebbe stato
impossibile rimanere a casa ad aspettare notizie su quello che
era successo. Dovevo andare con mio padre e vedere di persona.
Durante la notte era caduta la neve, la prima nevicata della
stagione, e cercai di schiarirmi la mente mentre camminavo
dietro a mio padre, concentrandomi soltanto sul seguire le orme
che lasciava nella neve fresca. Il mio fiato si condensava
nell’aria frizzante e una goccia di muco mi colò dalla narice fin
sulla punta del naso.
Nell’avvallamento di fronte a noi c’era la fattoria dei Jacobs,
una scatoletta marrone al centro di una vasta distesa bianca. La
gente aveva iniziato a raggrupparsi lì, ne vedevo le sagome
scure stagliarsi contro la neve, e altri arrivavano da tutte le
direzioni, a piedi o a cavallo. A quella vista, il mio cuore
accelerò ulteriormente i battiti.
«Stiamo andando dai Jacobs?» chiesi a mio padre, che mi
dava le spalle.
«Sì, Lanore» mi rispose seccamente, anche se non per
maleducazione: mio padre era un uomo di poche parole.
Io riuscivo a malapena a trattenere la preoccupazione. «Che
cosa credi che sia successo?»
«Lo scopriremo presto» mi rispose pazientemente.
C’era un rappresentante di ogni famiglia della comunità,
tranne i St. Andrew, ma loro vivevano dall’altra parte del
villaggio e non potevano aver sentito lo sparo. Tutti erano vestiti
a casaccio: vestaglie, orli di camicie da notte che spuntavano da
sotto il cappotto, capelli spettinati. Seguii mio padre attraverso
la piccola folla finché non riuscimmo a farci largo sino alla porta
d’ingresso, dove trovammo Jeremiah inginocchiato nella neve
fresca e fangosa. Si era vestito di fretta, le bretelle male
agganciate, gli stivali slacciati, una coperta sulle spalle. Il suo
vecchio fucile, l’arma che aveva provocato l’allarme, giaceva
appoggiato al sostegno della palizzata. Il suo volto massiccio e
sgraziato era contorto dal dolore, gli occhi arrossati, le labbra
screpolate e sanguinanti. Di solito era un uomo così impassibile:
fu sconvolgente vederlo ridotto così.
Il pastore Gilbert si fece largo fino alla prima fila di
spettatori, poi si accucciò e parlò quietamente all’orecchio di
Jeremiah. «Che cosa succede, Jeremiah? Perché hai lanciato
l’allarme?»
«Non riesco a trovarla, padre...»
«Chi?»
«Sophia. Se n’è andata.»
Il tono sommesso della sua voce provocò un’ondata di
mormorii nella folla, ognuno che sussurrava qualcosa
all’orecchio del vicino, tranne me e mio padre.
«Andata?» Gilbert posò le mani sulle guance di Jeremiah,
cullandogli il volto. «Cosa vuol dire che se n’è andata?»
«Se n’è andata, oppure qualcuno l’ha presa. Quando mi sono
svegliato, non l’ho trovata in casa. Né nel cortile, né nel granaio.
Il suo mantello non c’è, ma tutte le altre sue cose sì.»
Sentire che Sophia, nonostante fosse infuriata e non avesse
niente da perdere, non aveva detto niente della mia visita a
Jeremiah mi tolse un peso dal petto che non mi ero accorta di
avere. In quel momento, Dio mi perdoni, non ero preoccupata
per una donna che vagava nei boschi, ma per il mio ruolo in
quello che era accaduto.
Gilbert scosse il capo canuto. «Jeremiah, sicuramente si è
soltanto allontanata per qualche minuto, forse per fare una
passeggiata. Presto tornerà a casa e le dispiacerà tantissimo aver
dato a suo marito una preoccupazione.» Ma mentre lo
ascoltavamo sapevamo tutti che si sbagliava. Nessuno si sarebbe
sognato di alzarsi la mattina presto e fare una passeggiata con
quel freddo.
«Calmati, Jeremiah. Lascia che ti portiamo dentro, al caldo,
prima che il gelo ti uccida. Resta qui con la signora Gilbert e la
signora Hibbins, si prenderanno cura di te mentre noi andiamo
in cerca di Sophia, non è vero, cari vicini?» disse Gilbert con
convinzione forzata, aiutando l’uomo a rialzarsi e rivolgendosi a
tutti noi. Il pettegolezzo cominciava a passare di bocca in bocca,
da marito a moglie, da vicino a vicino: allora la sposina ha
lasciato il marito? Ma nessuno ebbe il coraggio di fare qualcosa
che non fosse accogliere il suggerimento del pastore. Le due
donne accompagnarono Jeremiah, barcollante e confuso, dentro
la casa, e noi ci dividemmo in gruppi. Cercammo impronte nella
neve che partissero dalla casa, sperando che le tracce di Sophia
non fossero state cancellate dalla folla che aveva risposto allo
sparo di allarme di Jeremiah.
Mio padre trovò una fila di piccole impronte che potevano
essere di Sophia e io e lui iniziammo a seguirle. Con lo sguardo
fisso sulla neve, i miei pensieri vorticavano. Che cosa aveva
indotto Sophia a lasciare la sua casa quella mattina? Forse aveva
riflettuto sulle mie parole tutta la notte e quella mattina aveva
deciso di affrontare Jonathan. Come poteva la sua scomparsa
non essere legata alla nostra discussione? Il cuore mi batteva
forte. Seguimmo le impronte che io temevo conducessero a casa
dei St. Andrew, ma a un tratto la neve scomparve sotto il fitto
degli alberi, e con essa le tracce di Sophia.
Io e mio padre proseguimmo comunque, senza una direzione
precisa; il sottobosco era spoglio e duro, con qualche foglia
caduta e qualche sprazzo di neve qua e là. Non sapevo se mio
padre stesse seguendo indizi del passaggio di Sophia – rami
spezzati, foglie calpestate – o se stesse proseguendo per puro
senso del dovere. Camminavamo paralleli al fiume Allagasi, che
riecheggiava alla nostra sinistra. Di solito trovavo rilassante il
rumore dell’acqua sulle rocce, ma non quel giorno.
Sophia doveva aver avuto una forte motivazione per
avventurarsi tutta sola nei boschi. Solo i più temerari degli
abitanti osavano addentrarsi nella foresta da soli, perché era
facile perdersi in quel panorama tutto uguale, senza punti di
riferimento. Ettaro dopo ettaro di foresta selvaggia, un ripetersi
di betulle e abeti e pini, intervallati regolarmente da massi che
spuntavano dal terreno, coperti di muschi variopinti o screziati
di licheni verde pallido.
Forse avrei dovuto dire qualcosa a mio padre, fargli capire
che il suo gesto di buon vicinato era inutile perché con ogni
probabilità Sophia era andata a incontrare un uomo, un uomo
con cui non aveva il diritto di vedersi. Magari in quel momento
era al sicuro e al caldo in una camera da letto con quell’uomo,
mentre noi stavamo al freddo e al gelo a cercarla. Mi immaginai
Sophia affrettarsi lungo il sentiero, allontanandosi dall’infelicità
di casa sua per congiungersi col suo amante, Jonathan. Jonathan,
buono di cuore e confuso, che l’avrebbe sicuramente accolta. Il
mio stomaco si contorse al pensiero di lei accoccolata sul letto di
Jonathan, al pensiero che aveva vinto lei e io avevo perso e
ormai Jonathan era suo.
A un certo punto svoltammo verso il fiume e procedemmo
seguendone la riva. Mio padre si fermò un secondo, aprendo un
piccolo foro nel ghiaccio per dissetarsi. Tra un sorso e l’altro, mi
osservò, non senza curiosità.
«Non so quanto ancora dovremo cercare. Forse è meglio se
vai a casa, Lanore. Non sono posti per ragazze, questi. Stai
congelando.»
«No, no, padre, voglio provare a continuare ancora un po’...»
Sarebbe stato impossibile rimanere a casa ad attendere le
notizie. Sarei impazzita o avrei abbandonato ogni decenza per
precipitarmi a casa di Jonathan e affrontare Sophia. Me la
immaginavo, fiera e trionfante. In quel momento, non avevo mai
odiato nessuno quanto odiavo lei.
Fu mio padre a vederla per primo. Perlustrava con gli occhi la
strada davanti a noi, mentre io riuscivo soltanto a tenere lo
sguardo sul terreno abbacinante. Trovò il corpo congelato
intrappolato in un gorgo alle radici di un albero, seminascosta in
un groviglio di canne e viti selvatiche. Galleggiava prona,
incastrata in un ammasso di tife congelate, il suo delicato corpo
disteso, le pieghe della sua gonna e i suoi capelli che affioravano
sulla superficie dell’acqua. Il suo mantello giaceva abbandonato
sulla riva del fiume, ripiegato con cura.
«Non guardare, figlia» disse mio padre, afferrandomi per le
spalle per farmi voltare. Non riuscivo a staccarle lo sguardo di
dosso.
Mio padre lanciò l’allarme. Io rimasi come un automa a
fissare il cadavere. Altri uomini impegnati nella ricerca
arrivarono attraverso i boschi, seguendo il richiamo di mio
padre. Due di loro si addentrarono nell’acqua gelida per
strappare il corpo dall’abbraccio dell’erba ghiacciata e dal
sottile velo di ghiaccio che aveva iniziato a reclamare i suoi
resti. Allargammo il mantello sul terreno e vi adagiammo il
corpo. La stoffa bagnata aderì alle sue gambe e al busto. La sua
pelle era tutta blu e grazie al cielo aveva gli occhi chiusi.
Gli uomini la avvolsero nel mantello e a turno lo presero per
gli angoli e lo usarono come una slitta per riportare il corpo di
Sophia a casa. Io camminavo qualche passo indietro. Mi
battevano i denti e mio padre si avvicinò e mi strofinò le braccia
tentando di darmi un po’ di calore, ma era inutile perché tremavo
dal terrore, non dal freddo. Mi tenevo le braccia strette attorno
allo stomaco, temendo di sentirmi male di fronte a mio padre. La
mia presenza attenuò la discussione fra gli uomini, che si
trattennero dal chiedersi perché Sophia si fosse tolta la vita.
Furono tutti d’accordo, comunque, sul fatto che al pastore
Gilbert non bisognava dire niente del mantello ripiegato sulla
riva. Non avrebbe mai saputo che si trattava di suicidio.
Quando io e mio padre arrivammo a casa, corsi al camino e
mi ci addossai tanto che il fuoco minacciò di scottarmi il volto,
ma nemmeno quel calore riusciva a farmi smettere di tremare.
«Non così vicina» mi rimproverò mia madre aiutandomi a
togliere il mantello, temendo che potesse prendere fuoco per una
scintilla. Ne sarei stata felice. Meritavo di morire arsa viva come
una strega, dopo quello che avevo fatto.
Poche ore dopo, mia madre venne da me, si fece coraggio e
mi disse: «Vado dai Gilbert per aiutarli a... preparare Sophia.
Credo che dovresti venire con me. È ora che inizi a prendere il
tuo posto fra le donne di questo villaggio e impari alcuni dei
doveri che ci si aspetta da te».
Mi ero cambiata, indossando una pesante vestaglia da notte, e
giacevo accoccolata accanto al camino dopo aver bevuto una
tazza di sidro caldo allungato col rum. L’alcol aveva contribuito
a rendermi insensibile, a smorzare il bisogno di urlare e
confessare le mie colpe, ma sapevo che sarei crollata se fossi
stata costretta ad affrontare il corpo di Sophia, anche in presenza
di altre donne del paese.
Mi rialzai dal pavimento poggiandomi sul gomito. «Non
posso... Non sto bene... sto ancora congelando...»
Mia madre mi toccò la fronte con la punta delle dita, poi la
gola. «Casomai, direi che stai bruciando di febbre...» Mi studiò
con attenzione, scettica, poi si rialzò e si mise il mantello sulle
spalle. «Va bene, per stavolta, visto quello che hai passato...»
Lasciò cadere la frase. Mi guardò ancora una volta, in un modo
che non riuscii a interpretare, poi uscì.
In seguito mi raccontò quello che era successo a casa del
pastore, come le donne avevano preparato il corpo di Sophia per
la sepoltura. Prima l’avevano deposto accanto al fuoco per farlo
scongelare, poi avevano asciugato l’acqua del fiume dal suo
volto e le avevano delicatamente pettinato i capelli. Mia madre
mi descrisse il bianco della sua pelle dopo tutto quel tempo
nell’acqua del fiume, le piccole ferite rosse dovute alle rocce che
l’avevano escoriata quando il suo corpo era stato trascinato dalla
corrente. La vestirono col suo abito migliore, di un giallo così
pallido da sembrare avorio, impreziosito da ricami che lei stessa
aveva fatto e adattato alla sua figura magra con degli spilli. Non
fece menzione del corpo di Sophia, niente di anormale, nessun
segno di rigonfiamento dell’addome. Se qualcuno aveva notato
qualcosa in tal senso, era stato attribuito all’acqua che la povera
ragazza aveva ingoiato mentre affogava. E poi un sudario di lino
era stato adagiato all’interno di una semplice bara di legno. Due
uomini, rimasti lì in attesa intanto che le donne completavano il
lavoro, avevano quindi preso la bara, l’avevano messa su un
carro e l’avevano scortata fino a casa di Jeremiah, dove sarebbe
rimasta in attesa del funerale.
Mentre mia madre, con tranquillità surreale, mi descriveva le
condizioni del corpo di Sophia, ebbi la sensazione che dei chiodi
mi si conficcassero in tutto il corpo, invitandomi a confessare la
mia malvagità. Ma riuscii a mantenere il controllo, anche se a
malapena, e piansi apertamente mentre mia madre parlava,
nascondendomi gli occhi con una mano. Mia madre mi
accarezzò la schiena come se fossi tornata bambina. «Che
succede, Lanore, tesoro mio? Perché sei così sconvolta per
Sophia? È una cosa terribile e poi lei era una nostra vicina di
casa, certo, ma non credevo che la conoscessi così bene...» Mi
mandò sul soppalco con una borsa d’acqua calda e poi
rimproverò mio padre per avermi portata nel bosco. Io mi
sdraiai, con la borsa calda sulla pancia, anche se non mi dava
alcun sollievo. Rimasi sveglia tutta la notte ad ascoltare i suoni
del buio: il vento, gli alberi, le braci che si spegnevano...
sussurravano un nome: Sophia.
Come era successo per il suo matrimonio, il funerale di
Sophia fu una cerimonia in sordina, a cui parteciparono soltanto
sua madre e qualche suo parente, suo marito e pochi altri. Era
una giornata gelida e coperta, con un presagio di neve nell’aria.
Aveva nevicato ogni giorno da quando Sophia si era suicidata.
Io e Jonathan osservammo la scena dalla collina che dava sul
cimitero. Guardammo i partecipanti in lutto raccogliersi attorno
alla fossa profonda e scura. In qualche modo erano riusciti a
scavare anche se il terreno era ghiacciato, e non potei fare a
meno di chiedermi se era stato suo padre, Tobey, a scavarle la
fossa. I presenti, figure nere che si stagliavano contro un campo
innevato sullo sfondo, si agitavano senza posa, mentre Gilbert
pronunciava la preghiera d’addio. Il mio volto era teso e gonfio
dopo giorni di pianto ininterrotto, ma in quel momento, in
presenza di Jonathan, non mi scendeva alcuna lacrima. Mi
sembrava assurdo spiare il funerale di Sophia, io che avrei
dovuto inginocchiarmi di fronte a Jeremiah chiedendo il suo
perdono, io che ero responsabile della morte di sua moglie,
come se l’avessi spinta io stessa nel fiume.
Di fianco a me, Jonathan era chiuso nel silenzio. Alla fine
iniziò a nevicare, come se una tensione a lungo trattenuta
finalmente esplodesse. Piccoli fiocchi che danzavano nell’aria
gelida per poi posarsi sul cappotto di lana nera di Jonathan e sui
suoi capelli.
«Non riesco a credere che non c’è più» disse, per la
ventesima volta quella mattina. «Non riesco a credere che si sia
tolta la vita.»
Le parole mi si strozzarono in gola e tacqui. Qualsiasi cosa
avessi detto sarebbe stata inutile, di nessuna consolazione e,
soprattutto, falsa.
«È tutta colpa mia» disse infine lui, con voce spezzata,
portandosi una mano al volto.
«Non puoi fartene una colpa se è successo.» Cercai di
consolarlo ripetendogli le stesse parole che avevo ripetuto a me
stessa incessantemente per tutti quei giorni, mentre giacevo a
letto, in preda alla febbre e al senso di colpa. «Sai bene che la
sua vita è stata sfortunata, sin da quando era piccola. Chi può
sapere quali afflizioni la tormentassero, e da quanto tempo? Alla
fine hanno avuto la meglio. Non può certo essere colpa tua.»
Fece due passi avanti, come se non desiderasse altro che
essere lì con lei nella sua fossa. «Non posso credere che covasse
pensieri suicidi, Lanny. Era felice con me. Mi sembra
impossibile che la Sophia che ho conosciuto per tutto quel
tempo stesse combattendo contro il desiderio di uccidersi.»
«Non si può mai sapere. Forse aveva litigato con Jeremiah...
Forse è successo dopo l’ultima volta che l’hai vista...»
Lui serrò gli occhi con forza. «Se c’era qualcosa che la
preoccupava, era la mia reazione quando mi ha detto del
bambino. Non ci sono dubbi. Ecco perché mi incolpo, Lanny,
per il modo sconsiderato in cui ho reagito alla notizia. Tu mi
avevi detto» disse poi alzando il volto all’improvviso e
guardandomi negli occhi, «mi avevi detto che avresti pensato a
un modo per dissuaderla dal tenere il bambino. Ti prego, Lanny,
dimmi che non sei andata da Sophia con quelle intenzioni...»
Colta di sorpresa, indietreggiai. Nei giorni precedenti avevo
pensato più volte di dirgli tutto, tormentata com’ero da un senso
di colpa che mi avvelenava come la peggiore delle malattie.
Dovevo raccontarlo a qualcuno, non era il genere di segreti che
un’anima può trattenere senza recare un danno irreparabile al
corpo, e se c’era qualcuno al mondo con cui potevo parlare,
quello era Jonathan. L’avevo fatto per lui, in fondo. Era venuto
da me in cerca di aiuto e io avevo fatto quello che andava fatto. E
ora avevo un disperato bisogno di assoluzione. E lui me la
doveva, quell’assoluzione.
Ma quando prese a scrutarmi con quei suoi occhi scuri e
caparbi, capii di non poterglielo dire. Non ora, non quando
soffriva così aspramente, quando sarebbe stato preda delle sue
emozioni. Non avrebbe compreso. «Cosa? No, non mi è venuto
in mente nessun piano. Perché mai avrei dovuto affrontare
Sophia da sola, comunque?» mentii. Non era mia intenzione
mentire a Jonathan, ma mi aveva colto di sorpresa, la sua
domanda era stata come una freccia puntata al mio cuore con
precisione soprannaturale. Un giorno gliel’avrei detto, decisi,
ma non in quel momento.
Jonathan tormentò il suo cappello a tricorno fra le mani.
«Credi che... Pensi che dovrei dire la verità a Jeremiah?»
Afferrai Jonathan per le spalle e lo scossi vigorosamente.
«Sarebbe una cosa orribile, per te così come per la povera
Sophia. E che bene farebbe mai a Jeremiah, ora? Servirebbe
soltanto a placare la tua coscienza. Otterresti soltanto di rovinare
l’immagine che Jeremiah ha di lei. Lascia che seppellisca
Sophia ritenendola una brava moglie che gli è stata fedele.»
Lui guardò le mie piccole mani che lo tenevano per le spalle.
Era insolito per noi avere un contatto fisico come quello, ora che
non eravamo più bambini, poi mi guardò negli occhi con
un’espressione tanto addolorata che non riuscii a trattenermi. Mi
accasciai sul suo petto e lo trassi a me, pensando soltanto che
aveva bisogno di conforto, in quel momento, il conforto di una
donna, anche se non ero Sophia. Mentirei se dicessi di non aver
trovato conforto anch’io stretta nel suo caldo abbraccio, sebbene
non ne avessi alcun diritto. Mi bastò toccarlo per sentire un
pianto di felicità nascermi dentro. Tenendo il suo corpo stretto al
mio, immaginavo che mi avesse perdonato per il tremendo
peccato che avevo compiuto ai danni di Sophia, anche se
naturalmente lui non ne sapeva niente.
Avrei continuato per sempre a tenere la guancia appoggiata al
suo petto, ascoltando i battiti del suo cuore attraverso gli strati di
lana e lino, inspirando il suo odore. Non avrei mai voluto
staccarmi dal mio Jonathan, ma mi accorsi che aveva abbassato
gli occhi su di me e quindi alzai il mento e ricambiai il suo
sguardo, pronta a sentirlo dire ancora che amava Sophia. E in
quel momento decisi che se avesse ancora una volta pronunciato
il suo nome, avrei confessato la mia colpa. Ma lui non lo fece.
Invece, avvicinò la sua bocca alla mia e la tenne sospesa per un
istante, prima di baciarmi.
Il momento che avevo tanto atteso passò in un lampo. Ci
insinuammo sotto gli alberi, a qualche passo di distanza.
Ricordo il meraviglioso calore della sua bocca sulla mia, la sua
fame, la sua forza. Ricordo le sue mani che slacciavano il nastro
che chiudeva la mia camicetta sul petto. Mi spinse contro un
albero e mi morse il collo mentre si affaccendava a slacciarsi le
brache. Mi alzai le gonne così che potesse afferrarmi con le mani
sui fianchi. Se ho un rimpianto, è quello di non aver nemmeno
potuto intravedere il suo membro a causa di tutti i vestiti che ci
ingombravano, il cappotto e il mantello, la gonna e la sottoveste.
Ma d’un tratto lo sentii dentro di me, un calore che si spingeva a
fondo, sempre più a fondo. Si chinò su di me, sfregandomi
contro la corteccia dell’albero. E alla fine, il suo lamento di
piacere nelle mie orecchie mi suscitò un brivido, perché voleva
dire che gli era piaciuto, e non mi ero mai sentita così felice e
temevo che non lo sarei stata più come in quel momento.
Attraversammo la foresta insieme sul suo cavallo, io ero
dietro di lui e lo tenevo stretto in vita, come quando eravamo
bambini. Scegliemmo i sentieri meno frequentati per non essere
visti insieme senza un accompagnatore. Non ci dicemmo
nemmeno una parola e per tutto il tempo io tenni il volto
arrossato contro il suo cappotto, cercando di dare un senso a
quello che era appena accaduto. Sapevo di tantissime altre
ragazze del villaggio che si erano date a un uomo prima del
matrimonio – e spesso quell’uomo era proprio Jonathan – e le
avevo sempre disprezzate. Ora ero diventata come loro. Una
parte di me sentiva che avevo disonorato me stessa. Ma un’altra
parte sapeva che non avevo avuto scelta: avrebbe potuto essere
la mia unica possibilità di conquistare il cuore di Jonathan e
dimostrare che eravamo fatti l’uno per l’altra. Non potevo
lasciarmela sfuggire.
A un certo punto fermò il cavallo, io smontai dalla sella, gli
carezzai la mano e poi mi incamminai lungo il breve tratto che
conduceva a casa mia. Tuttavia, mentre camminavo, fui assalita
dai dubbi. Che cosa aveva significato per lui quello che
avevamo fatto? Era solito andare a letto con tante ragazze senza
preoccuparsi delle conseguenze; perché credevo che con me
sarebbe stato diverso? E i suoi sentimenti per Sophia? O, per
quanto mi riguardava, il mio debito morale nei confronti della
donna che avevo spinto al suicidio? Era come se l’avessi uccisa
io stessa e ora eccomi a fornicare con il suo amante. Non poteva
esistere un animo più corrotto del mio.
Mi fermai qualche minuto prima di entrare in casa, per
riprendere il controllo, inspirando profondamente l’aria fredda.
Non potevo permettermi di crollare di fronte alla mia famiglia.
Non c’era nessuno con cui potessi parlare di quello che era
accaduto. Avrei dovuto tenere tutto nascosto finché non mi fossi
calmata a sufficienza per rifletterci sopra razionalmente. Celare
dentro di me la colpa, la vergogna, l’odio verso me stessa.
Eppure, allo stesso tempo mi sentivo colma di un’eccitazione
vibrante perché, anche se non lo meritavo, avevo ottenuto quello
che avevo tanto desiderato. Sospirai, scrollai la neve dal
mantello, mi raddrizzai e con passo deciso mi avviai verso il
cottage della mia famiglia.
10
Ospedale della contea di Aroostook, oggi
Suoni nel corridoio.
Luke controlla il suo orologio: le quattro di mattina. Non ci
vorrà molto prima che l’ospedale si riempia. Le mattine sono
sempre frenetiche, per via degli incidenti sul lavoro così
frequenti alle fattorie: una costola frantumata dal calcio di una
mucca durante la mungitura, una scivolata su una pozzanghera
ghiacciata durante la sistemazione di una balla di fieno. E poi
alle sei c’era il cambio di turno.
La ragazza lo guarda come un cagnolino guarderebbe un
padrone di cui non si fida. «Allora mi aiuterai? O lascerai che
quello sceriffo mi porti alla stazione di polizia?»
«E cos’altro potrei fare?»
Il volto della ragazza si colora. «Non puoi lasciarmi andare.
Chiudi gli occhi, io sparirò. Nessuno ti potrà dare la colpa. Potrai
dir loro che sei andato al laboratorio, che mi hai lasciato da sola
non più di qualche secondo, ma quando sei tornato io ero
scomparsa.»
Joe dice che è un’assassina, pensa Luke. Posso lasciar libera
un’assassina?
Lanny gli prende la mano. «Sei mai stato così profondamente
innamorato di qualcuno che avresti fatto qualsiasi cosa ti avesse
chiesto? Che più di ogni altra cosa vuoi la sua felicità?»
Luke è sollevato che lei non possa leggergli dentro perché
non è mai stato così altruista. È stato fedele, certo, ma non è mai
stato capace di dare senza avvertire una punta di risentimento, e
non sa dire come si senta per questo.
«Non sono una minaccia per nessuno. Ti ho spiegato perché
ho... fatto quello che ho fatto a Jonathan.»
Luke fissa quegli occhi azzurri come il ghiaccio e li vede
riempirsi di lacrime. Viene percorso da un brivido che parte
dalla nuca e gli arriva dentro, al ventre. Il dolore della perdita si
impossessa di lui con estrema velocità, gli succede sempre da
quando sono morti i suoi genitori. Sa che lei sta provando la sua
stessa tristezza e per un momento sente che sono insieme in quel
pozzo di dolore senza fondo. E lui è stanco di essere prigioniero
del dolore – la perdita dei suoi genitori, la fine del suo
matrimonio, la sua intera vita – così stanco che sa di dover fare
qualcosa per liberarsene, e di doverlo fare ora o mai più. Non sa
perché sta per fare quello che sta per fare, ma sa di non poterci
pensare troppo, altrimenti non farà mai niente.
«Aspettami qui. Torno subito.»
Luke percorre di soppiatto il corridoio fino allo spogliatoio
dei medici. Dentro il suo armadietto grigio e malconcio trova un
paio di camici, messi lì alla rinfusa e dimenticati da chissà
quanto tempo. Fruga in un altro paio di armadietti e trova un
camice da laboratorio bianco, una cuffia chirurgica e,
nell’armadietto della pediatra, un paio di scarpe da tennis da
donna così vecchie che hanno le punte incurvate. Luke prende
tutto e lo porta nella saletta.
«Ecco, mettiti su questa roba.»
Prendono la via più breve verso il retro dell’ospedale,
attraversando corridoi di servizio fino ad arrivare all’area di
carico e scarico del magazzino. Un infermiere in arrivo per il
turno di giorno li saluta con un cenno mentre attraversano il
parcheggio, ma quando Luke ricambia il saluto sente il braccio
appesantito dalla tensione. Solo quando sono nel parcheggio di
fianco al suo pickup Luke si ricorda di aver lasciato le chiavi nel
suo parka, dentro la sala dei dottori.
«Maledizione. Devo tornare indietro, non ho le chiavi.
Nasconditi fra gli alberi, torno subito.»
Lanny annuisce in silenzio, tremante di freddo e stretta nel
leggero camice di cotone.
Il percorso dal parcheggio all’entrata delle ambulanze è il più
lungo della sua vita. Luke si affretta per via del freddo ma anche
dei nervi a fior di pelle. Judy o Clay potrebbero essersi già
accorti che se n’è andato. E se Clay è ancora addormentato nella
sua branda, Luke potrebbe svegliarlo quando entra a prendere le
chiavi e allora lo coglierebbero sul fatto. Ogni passo diventa
sempre più difficile finché non si sente come uno sciatore
sull’acqua trascinato a fondo perché qualcosa si è rotto all’altro
capo della fune.
Spinge le pesanti porte a vetro, così teso che tiene le spalle
incassate. Judy, alla postazione delle infermiere, ha
un’espressione corrucciata e non alza nemmeno gli occhi dallo
schermo del computer quando gli dice: «Dove sei stato?»
«A fumarmi una sigaretta.»
Ora Judy gli dedica la sua attenzione. Lo fissa con occhi a
spillo come quelli di un corvo. «E da quando hai ricominciato a
fumare?»
Luke si sente come se avesse fumato due pacchetti in una
notte, quindi quello che ha detto a Judy non gli sembra
nemmeno una bugia. Decide di ignorarla. «Clay è già sveglio?»
«Non l’ho visto. La porta della saletta è ancora chiusa. Forse
dovresti svegliarlo, non può mica dormire qui tutto il giorno.
Sua moglie si starà chiedendo che cosa gli sia successo.»
Luke si blocca. Vorrebbe fare una battuta, agire come se
fosse tutto nella norma di fronte a Judy, ma del resto Luke non
ha mai fatto battute a Judy in passato e non sembrerebbe affatto
nella norma se ne facesse una ora. La sua incapacità di mentire e
di coprire le sue tracce lo rende ancora più nervoso. Si sente
come se fosse caduto dentro il sottile velo di ghiaccio sopra il
lago e stesse affogando, riempiendosi i polmoni di acqua gelida,
ma Judy non nota niente. «Ho bisogno di un caffè» borbotta
Luke e poi si allontana.
La porta della sala è a pochi passi di distanza. Nota
immediatamente che è socchiusa e che dentro è tutto al buio. La
apre ancora un po’ e distingue chiaramente la branda vuota dove
dovrebbe trovarsi il poliziotto.
Il sangue gli affluisce alle orecchie, le ghiandole della gola
gli si gonfiano fino a quattro volte la grandezza normale e non
riesce più a respirare. È peggio che affogare: gli sembra che lo
stiano strangolando.
Il suo parka è appeso alla sua destra, alla parete. Non deve far
altro che infilare la mano dentro la tasca. Il suono tintinnante gli
conferma che le chiavi sono proprio dove devono essere.
Torna indietro con passo deciso. A testa bassa, le mani
sprofondate nelle tasche del suo camice da laboratorio, decide di
non passare dal corridoio di servizio, che gli farebbe allungare la
strada, e invece si dirige verso l’ingresso delle ambulanze. La
testa di Judy scatta in su quando Luke le passa di fianco.
«Pensavo fossi andato a farti un caffè.»
«Ho dimenticato il portafoglio in macchina» le dice lui senza
voltarsi. È quasi giunto alla porta d’ingresso.
«Hai svegliato Clay?»
«È già sveglio» le risponde Luke, aprendo la porta con la
schiena. Dall’altra parte della hall c’è il poliziotto, che sembra
essersi materializzato non appena è stato fatto il suo nome.
Anche lui vede Luke e alza un braccio come per chiamare un
taxi. Clay vuole parlare con lui e inizia ad andargli incontro,
facendogli ampi cenni... Fermati, Luke. Ma Luke non si ferma.
Spingendo con tutto il suo peso sull’anca, richiude di schianto la
porta.
Il freddo gli sferza il volto quando sbuca all’aperto,
riemergendo alla sua vera vita. Ma che cosa sto facendo?
Questo è l’ospedale in cui lavoro. Conosco ogni sedia di
plastica, ogni lettiga, come se fossero casa mia. Che cosa sto
facendo? Sto davvero mandando a gambe all’aria la mia vita
per aiutare una sospetta omicida a scappare? Sto impazzendo?
Eppure continua, spinto da un irresistibile formicolio nelle vene
che lo attraversa tutto come una pallina da flipper,
costringendolo a proseguire. Si affretta attraverso il parcheggio,
frenetico ed esitante, come se cercasse di rimanere in piedi
scendendo a perdifiato lungo un declivio, consapevole di
sembrare un pazzo.
Luke scruta con ansia il suo pickup più avanti, ma non la
vede, è scomparsa, non c’è nemmeno l’ombra del verde
ospedaliero del suo camice a dargli un segno. Sulle prime lo
prende il panico: come ha potuto essere così stupido da lasciarla
da sola là fuori? Eppure, un piccolo barlume di speranza gli si
accende in petto quando si rende conto che se la prigioniera è
scomparsa sono scomparsi anche i suoi guai.
Un attimo dopo lei è li davanti a lui, esile, eterea, un angelo
vestito in camice ospedaliero... E il suo cuore sobbalza nel
vederla.
Luke infila la chiave nel blocchetto di accensione mentre
Lanny si accuccia sul sedile, cercando di non guardare il dottore
per non innervosirlo ulteriormente. Finalmente il motore si
accende e il pickup si allontana dal parcheggio, lanciandosi sulla
strada.
La passeggera tiene lo sguardo fisso davanti a sé, come se
concentrandosi potesse impedire che li scoprano. «Sono
alloggiata al capanno dei Dunratty, sai dov’è?»
Luke non crede alle sue orecchie. «E pensi che sia saggio
andarci? Credo proprio che ormai la polizia abbia scoperto dove
stavi. Non è che in giro ci siano molti turisti in questo periodo
dell’anno.»
«Per favore, proviamo a passare di là. Se qualcosa ci
insospettisce proseguiremo, ma io ho lì tutte le mie cose. Il
passaporto, i soldi, i vestiti. Scommetto che non hai niente in
casa che possa andarmi bene.»
È più minuta di Tricia ma più grande delle ragazze.
«Vinceresti la scommessa» ammette. «Passaporto hai detto?»
«Vengo dalla Francia, è lì che vivo ora.» Si raggomitola sul
sedile come un gatto che cerca di conservare il calore. Di colpo,
Luke sente le proprie mani sul volante enormi, goffe, gonfie. Sta
perdendo il controllo per via dello stress e deve concentrarsi per
non abbandonare il volante e finire in un fosso.
«Dovresti vedere la mia casa a Parigi. È come un museo,
piena delle cose che ho collezionato in questi lunghi, lunghi
anni. Vuoi che ci andiamo insieme?» La sua voce è dolce e calda
come liquore e quell’invito è intrigante. Luke si chiede se stia
dicendo la verità. A chi non piacerebbe andare a Parigi a vivere
in una casa piena di ricordi magici? Luke avverte la tensione
sciogliersi, la spina dorsale e il collo cominciano a rilassarsi.
In quella zona della foresta ci sono capanni da caccia come
quello dei Dunratty dovunque. Luke non ha mai dormito in un
capanno del genere, ma si ricorda di averne visto l’interno in un
paio di occasioni quando era bambino, per qualche ragione che
non riesce a ricordare. Sono vecchi capanni che risalgono agli
anni Cinquanta, messi in piedi con assi e chiodi, arredati con
mobili di recupero e linoleum, pieni di feci di topi. La ragazza
indirizza Luke verso l’ultimo cottage sul vialetto ghiaioso dei
Dunratty. Le finestre sono scure, le luci spente. «Dammi una
carta di credito, così apro quella porta.»
Appena entrati tirano le tende e Lanny accende la luce. Ogni
superficie che toccano è ghiacciata. I suoi effetti personali sono
sparsi ovunque, come se gli abitanti fossero stati costretti a
scappare via nel cuore della notte. Ci sono due letti, ma solo uno
è sfatto, le coperte e le lenzuola in disordine e il cuscino
spiegazzato sembrano prove di colpevolezza. Su un tavolino
traballante, che un tempo doveva far parte di un set da cucina,
c’è una fotocamera digitale collegata da un cavo a un computer
portatile. Sul comodino ci sono bottiglie di vino aperte e
bicchieri coperti di impronte e tracce di rossetto.
Sul pavimento due valigie aperte. Lanny si accuccia vicino a
una di esse e inizia a riempirla, mettendo dentro anche il
computer e la macchina fotografica.
Luke agita le chiavi dell’auto, nervoso e impaziente.
La ragazza chiude la cerniera della valigia, si rialza e poi si
dedica alla seconda valigia. Tira fuori un maglione da uomo e se
lo porta al volto, annusandone profondamente l’odore.
«Va bene, ora posso andare.»
Quando ripercorrono il vialetto di ghiaia e passano davanti
alla reception (sicuramente chiusa a quell’ora, il giovane
Dunratty ancora di sopra a dormire), Luke crede di vedere la
tendina rossa di percalle muoversi, come se qualcuno li stesse
osservando. Si immagina Dunratty in accappatoio, con una tazza
di caffè in mano, che sente per la seconda volta un rumore di
ruote sulla ghiaia e si affaccia per vedere chi stia passando di là.
Riconoscerà il mio pickup?, si chiede Luke. Ma no, non era
niente, soltanto un gatto sul davanzale. Non serve a nulla
immaginare guai ancora peggiori di quello in cui si trova.
Luke è a disagio quando la ragazza si cambia i vestiti in auto,
mentre lui guida, ma poi ricorda che tanto l’ha già vista nuda.
Lei si infila dei jeans e un maglione di cashmere più bello di
qualsiasi capo abbia mai indossato sua moglie. Getta sul
tappetino dell’auto il camice ospedaliero.
«Tu ce l’hai il passaporto?» chiede poi a Luke.
«Certo. A casa.»
«Andiamo a prenderlo.»
«Come? Vuoi che partiamo per Parigi così all’improvviso,
come se niente fosse?»
«E perché no? Ci penso io ai biglietti, pagherò tutto io. I soldi
sono l’ultimo dei problemi.»
«Credo che dovrei farti arrivare in Canada, subito, prima che
la polizia spicchi un mandato di arresto. Siamo a un quarto d’ora
dal confine, non di più.»
«Ma tu hai bisogno del passaporto per passare il confine?
Hanno cambiato le regole, no?» chiede la ragazza, con una nota
di panico nella voce.
Luke stringe le mani sul volante. «Non saprei... È da un po’
che non passo il confine... Oh, va bene, andiamo a casa mia. Ma
soltanto per un minuto.»
La fattoria si trova nel mezzo di un campo, come un bambino
troppo stupido per rientrare al caldo. Il pickup si inerpica
ondeggiando lungo la strada fangosa, ora congelata e piena di
spigoli, come ghiaccioli.
Passano dalla porta posteriore ed entrano in una cucina triste,
sciatta, che non è cambiata di una virgola negli ultimi quindici
anni. Luke accende la luce ma nota che non fa differenza
nell’illuminazione della stanza. Tazze da caffè sporche
giacciono sul tavolino della colazione, briciole scricchiolano
sotto i piedi. Tutto quel disordine lo mette enormemente in
imbarazzo.
«Questa era la casa dei miei genitori. Vivo qui da quando
sono morti» spiega. «Non mi piaceva l’idea di vendere la
fattoria a uno sconosciuto, ma non riesco a tenerla come
facevano loro. Ho venduto il bestiame un mese fa. Ho trovato
qualcuno che seminerà i campi la prossima primavera. Mi
sembra un peccato lasciare che tutto vada in rovina.»
Lanny si aggira per la cucina, passando un dito sul bancone di
formica, sullo schienale di vinile di una sedia. Si ferma davanti a
un disegno appeso al frigo con una calamita, fatto da una delle
sue figlie quando era all’asilo. Una principessa su un pony; il
pony si riconosce solo perché somiglia vagamente a un cavallo,
ma la principessa è irriconoscibile: un mucchietto di capelli
biondi, due macchie di blu per gli occhi, una gonna rosa. Se non
fosse per la gonna, potrebbe essere Lanny.
«Chi l’ha disegnato? Ci sono bambini in casa?»
«Non più.»
«Sono andati via con tua moglie?» tira a indovinare. «Non
c’è nessuno che si prenda cura di questa casa?»
Lui fa spallucce.
«Non hai alcun motivo di rimanere qui» dice lei, affermando
l’ovvio.
«Ho ancora dei doveri» risponde lui, perché è così che è
abituato a pensare alla propria vita. Non riuscirebbe a vendere la
fattoria, non in quel momento di mercato in crisi. Ha il suo
mestiere, anche se non gli rimangono che anziani di cui
prendersi cura, ora che i figli e i nipoti si trasferiscono tutti
altrove. Il numero di pazienti diminuisce di mese in mese.
Luke sale al piano superiore, entra in camera da letto e prende
il suo passaporto dentro il cassetto di un comodino. Quando sua
moglie l’ha lasciato, si è trasferito nella camera da letto dei suoi
genitori: la sua stanza di quando era bambino è stata anche la
camera da letto sua e di sua moglie, e non vuole più avere niente
a che fare con quella parte della sua vita.
Apre il passaporto. Non l’ha mai usato. Non ha mai avuto il
tempo di viaggiare, non da quando aveva fatto il tirocinio, e in
ogni caso non è mai uscito dagli Stati Uniti in vita sua. Non è
mai stato in uno di quei posti lontani che sognava durante
l’adolescenza, quando passava lunghe ore sul trattore facendo
castelli in aria. Quel passaporto intonso lo fa sentire in
imbarazzo di fronte a una persona che invece è stata in tutti quei
posti esotici. La sua vita avrebbe dovuto essere diversa.
Trova Lanny in sala da pranzo a osservare le foto di famiglia,
poggiate in basso sul ripiano di una libreria. Sua madre aveva
tenuto sempre lì le foto, esposte, e lui non aveva avuto il
coraggio di metterle via, ma solo sua madre conosceva le
persone ritratte in quelle foto e i loro legami di parentela con lui.
Vecchie foto in bianco e nero, che ritraevano austeri scandinavi
morti da un pezzo, ormai, sconosciuti l’uno all’altro. C’è
soltanto una foto a colori, in una cornice di legno, che ritrae una
donna con due figlie. È in mezzo alle altre foto, come se il suo
posto fosse proprio quello.
Luke spegne le luci e regola il termostato molto basso, quanto
basta per impedire alle tubature di ghiacciare. Controlla le
serrature, anche se non sa perché si prenda la briga di farlo. Ha
intenzione di tornare a casa subito dopo aver accompagnato
quella ragazza oltre il confine, ma quando tocca l’interruttore
con la mano sente un groppo in gola. Sembra un addio – e spera
che un giorno lo sia, è da tanto tempo che lo pianifica e se lo
immagina nei momenti in cui recupera il senno, e spera di farlo
un giorno, forse quella primavera, quando sarà in grado di
pensare più chiaramente – ma in quel momento sta soltanto
aiutando una ragazza nei guai, una ragazza che non ha nessun
altro cui rivolgersi. Oggi non partirà, oggi tornerà indietro.
«Sei pronta?» le chiede, agitando ancora una volta le chiavi
della macchina. Ma Lanny allunga una mano e prende un
libricino, tanto piccolo da starle nel palmo. La sovraccoperta
non c’è più e la copertina è consunta agli angoli, tanto che il
cartone sottostante è visibile, come un bocciolo che spunta dal
tessuto giallo. Luke ci mette un minuto buono a riconoscere il
libro: era il suo preferito quando era piccolo e sua madre deve
averlo conservato per tutti quegli anni. La pagoda di giada, un
classico della letteratura per l’infanzia, come Kipling ma non
Kipling, storia ambientata in un paese esotico, con tanto di
principessa cinese e principessa europea, o comunque
occidentale, con illustrazioni a penna e inchiostro fatte
dall’autore stesso. Lanny scorre le pagine.
«Conosci quel libro?» le chiede. «Da piccolo lo adoravo, si
vede da come è consumato. La rilegatura è quasi a pezzi. Non
credo che sia ancora ristampato.»
Lei glielo porge aperto, indicando una delle illustrazioni. È
lei. Indossa vestiti dell’epoca e ha i capelli raccolti sulla nuca,
ma la forma a cuore del volto è inconfondibile, così come i suoi
occhi, il suo sguardo vagamente arrogante e divertito. «Ho
conosciuto Oliver, l’autore, quando entrambi vivevamo a Hong
Kong. All’epoca era soltanto un funzionario inglese, noto per
essere un ubriacone che chiedeva a tutte le mogli degli ufficiali
di posare per il suo piccolo ’progetto’, come lo chiamava. Ma io
ero l’unica che aveva acconsentito; pensavano tutte che fosse
scandaloso e che si trattasse semplicemente di un suo
stratagemma, soltanto una scusa per portarci da sole nel suo
appartamento.»
Lui sente il respiro mozzarglisi in gola e il cuore perdere un
battito, poi un altro. La ragazza nell’illustrazione è la stessa che
si trova davanti, ora, in carne e ossa, ed è come un incantesimo
per lui stare di fronte a qualcuno che fino a quel momento ha
visto soltanto in un disegno su un libro. Come un fantasma che
di colpo prende corpo. Per un momento, teme di essere sul punto
di svenire.
In un attimo lei gli si avvicina e lo spinge verso la porta.
«Sono pronta. Andiamo.»
11
St. Andrew, 1816
Avevo realizzato un desiderio profondo del mio cuore: che
Jonathan mi vedesse come una donna, come un’amante. Ma
niente più di questo. Vivevo in uno stato di incertezza perché da
quell’emozionante e sconvolgente pomeriggio non ero più
riuscita a mettermi in contatto con lui.
Perché era sopraggiunto l’inverno.
Gli inverni non vanno mai sottovalutati nella parte del Maine
in cui vivevamo. Venivamo assaliti da bufera dopo bufera, e la
neve ci metteva al massimo un paio di giorni per arrivare fino
alla vita, impedendo ogni spostamento. Ogni attenzione, ogni
energia veniva dedicata a mantenersi caldi, a sfamarsi e a
prendersi cura del bestiame. Per sbrigare le faccende all’aperto
bisognava sempre farsi largo nella neve, ed era una fatica
immane. Non si faceva in tempo a spalare un percorso fino al
granaio e al pascolo, o a spaccare il ghiaccio sul fiume quanto
bastava per raccogliere l’acqua da dare al bestiame o da usare in
casa, illudendosi che si potesse tornare alla normalità (o
quantomeno a una routine accettabile) che una nuova tempesta
di neve si abbatteva sulla vallata.
Io rimanevo seduta per ore davanti alla finestra a osservare la
strada carrozzabile, coperta da neve intonsa alta più di mezzo
metro. E pregavo, pregavo con ardore che la neve si depositasse
e si compattasse abbastanza perché potessimo camminarci
sopra, così avremmo potuto ricominciare ad andare a messa la
domenica. Era la mia unica opportunità di vedere Jonathan.
Avevo bisogno che lui acquietasse le mie paure, volevo sentirgli
dire che non aveva fatto l’amore con me solo perché non poteva
più avere Sophia, ma perché mi desiderava. Forse perché mi
amava.
E finalmente, dopo diverse settimane di prigionia in casa, la
neve si consolidò alla profondità giusta e mio padre mi disse che
la domenica seguente saremmo andati al villaggio. Mentre in
qualsiasi altro periodo dell’anno quella notizia sarebbe passata
quasi inosservata, stavolta sembrava che nostro padre ci avesse
detto che saremmo tutti andati a un grande ballo. Io, Maeve e
Glynnis trascorremmo i giorni in un turbinio di eccitazione a
decidere che cosa avremmo indossato, come togliere una
macchia dalla camicetta preferita, chi di noi avrebbe sistemato i
capelli all’altra. Perfino Nevin sembrava impaziente che
arrivasse domenica per poter uscire dalla nostra piccola casa.
Io e mio padre lasciammo le mie sorelle, mio fratello e mia
madre alla chiesa cattolica e poi con il calesse raggiungemmo la
sala della congregazione. Mio padre sapeva perfettamente il
vero motivo per cui andavo a messa con lui e non con mia madre
e gli altri, perciò doveva avere più di un sospetto sul motivo per
cui ero più agitata del solito mentre ci avvicinavamo al salone. E
dopo la messa, siccome la neve sul prato era troppo profonda per
fermarsi a chiacchierare, la gente rimase all’interno della sala,
affollando le navate, i corridoi e perfino le scale. L’aria vibrava
del chiacchiericcio di tutta la gente che, rimasta troppo a lungo
al chiuso con la propria famiglia, non vedeva l’ora di poter
parlare con qualcun altro.
Mi insinuai tra la folla, cercando Jonathan. Captai frammenti
di conversazione dei miei vicini – che squallore, che noia
infinita, quanto erano tutti stufi marci di mangiare piselli
essiccati e melassa e carne sotto sale – ma mi rimbalzavano
addosso come granelli di nevischio. Attraverso una stretta
finestra intravidi il cimitero e la tomba di Sophia. Il terreno
smosso si era ormai adagiato e la neve caduta sulla fossa giaceva
più in basso di qualche centimetro rispetto al manto, marcando
un’irregolarità nel paesaggio.
Finalmente vidi Jonathan. Anche lui si stava districando fra la
folla, come se a sua volta mi stesse cercando. Ci incontrammo ai
piedi della scala che portava alla balconata, circondati dai vicini,
consapevoli di non poter parlare liberamente. Qualcuno avrebbe
origliato.
«Come sei affascinante oggi, Lanny» osservò Jonathan con
cortesia. Una frase innocente, alle orecchie di un ascoltatore
casuale, ma il Jonathan che conoscevo sin dall’infanzia non mi
aveva mai fatto un complimento, sarebbe stato come fare un
complimento a un altro ragazzo.
Non riuscii a ricambiare la sua cortesia; riuscii soltanto ad
arrossire.
Si chinò verso di me e mi mormorò all’orecchio: «Queste
ultime tre settimane sono state insopportabili. Stasera, un’ora
prima del tramonto, vai al tuo granaio, farò in modo di
incontrarti lì».
Naturalmente, date le circostanze, non riuscii a chiedergli
niente, né tanto meno a ottenere le rassicurazioni di cui il mio
fragile cuore aveva tanto bisogno. E, a essere sincera, non credo
che qualsiasi cosa mi avesse detto mi avrebbe impedito di
incontrarlo. Ardevo dal desiderio di stare con lui.
Quel pomeriggio, le mie paure furono placate. Per un’ora mi
sentii al centro dell’universo. Era tutto quello che avevo sempre
desiderato. Tutto quello che era Jonathan, anima e corpo, era
presente in ogni suo tocco, dal modo in cui armeggiò con i nastri
e i legacci che chiudevano i miei vestiti, alle sue dita che
delicatamente mi passavano tra i capelli, ai suoi baci sulle mie
spalle, che mi davano i brividi. Dopo, rimanemmo accoccolati a
riprendere possesso dei nostri corpi, ed era meraviglioso essere
chiusa nel suo abbraccio, sentirlo addosso a me, come se anche
lui volesse impedire a qualsiasi cosa di intromettersi fra di noi.
Non c’è felicità uguale a quella di ottenere ciò che hai tanto
desiderato, per cui hai tanto pregato. Ero esattamente dove
avevo sempre voluto essere, ma ero anche dolorosamente
consapevole di ogni secondo che passava. La mia famiglia si
sarebbe chiesta che fine avevo fatto.
Con estrema riluttanza, allontanai le sue braccia dalla mia
vita. «Non posso rimanere, devo tornare a casa... Anche se a
volte vorrei che ci fosse un posto tutto mio in cui rifugiarmi, un
posto diverso da casa mia.»
Volevo soltanto dire che non avrei mai voluto lasciare il suo
dolce abbraccio, ma mi uscì una verità diversa, qualcosa che da
tempo tenevo dentro di me. Me ne vergognavo, era una paura
segreta che non avrei mai dovuto ammettere, ma ormai le parole
mi erano scappate di bocca e non c’era modo di rimangiarsele.
Jonathan mi guardò interrogativo. «Perché dici così, Lanny?»
«A volte... A volte mi sembra di non appartenere alla mia
famiglia.» Mi sentii stupida a doverlo spiegare a Jonathan, forse
l’unica persona del nostro villaggio cui l’amore non era mai
mancato, l’unico che non si era mai sentito immeritevole di
felicità. «Nevin è l’unico figlio maschio, quindi i miei genitori lo
venerano. E un giorno erediterà la fattoria. Poi ci sono le mie
sorelle... sono così carine; tutti al villaggio le ammirano per
questo. Le loro prospettive sono buone. Ma io...» Non riuscivo a
confessare nemmeno a Jonathan la vera radice della mia paura:
che a nessuno interessasse davvero la mia felicità, che io non
stavo a cuore a nessuno, nemmeno ai miei genitori.
Mi tirò giù accanto a lui, nel fieno, e mi strinse fra le braccia,
trattenendomi quando cercai di sfuggirgli, o piuttosto non
sfuggire da lui ma dalla mia stessa vergogna. «Non sopporto di
sentirti dire queste cose, Lanny... Io ho scelto te, no? A quanto
pare sei l’unica con cui sto bene, l’unica con cui posso essere
davvero me stesso. Se potessi, passerei tutta la vita con te. Mio
padre, mia madre, i taglialegna, i capisquadra... Rinuncerei a
tutto, a tutti loro, per poter stare con te, solo io e te, insieme, per
sempre.»
Naturalmente, divorai le sue parole. Oltrepassarono la mia
vergogna e mi si conficcarono in testa, come un sorso di whisky
particolarmente forte. Non voglio essere fraintesa: in quel
momento era davvero convinto di amarmi con tutto il cuore e io
ero certa della sua sincerità. Ma adesso, con la saggezza che ho
conquistato a caro prezzo, capisco quanto eravamo stupidi a
dirci cose così pericolose. Eravamo arroganti, ingenui,
credevamo che ciò che provavamo in quel momento fosse vero
amore. Ripensandoci ora, capisco che stavamo soltanto
riempiendo l’uno i vuoti dell’altra, così come la marea spinge la
sabbia dentro le fenditure di uno scoglio. Entrambi – o forse ero
soltanto io? – curavamo le nostre ferite con quello che
proclamavamo amore vero. Ma, alla fine, la marea riprende
sempre quello che ha sospinto a riva.
Jonathan non avrebbe mai potuto darmi quello che aveva
dichiarato di desiderare. Non poteva ripudiare la sua famiglia e
rinunciare alle sue responsabilità. E non c’era bisogno che mi
dicesse che i suoi genitori non mi avrebbero mai accettata come
sua moglie. Ma quel tardo pomeriggio, al freddo nel granaio,
avevo tutto l’amore di Jonathan solo per me e a quel punto ero
pronta a fare di tutto per tenermelo stretto. Mi aveva dichiarato il
suo amore, io ero sicura di amarlo: era la prova che eravamo fatti
per stare insieme e che, fra tutte le anime dell’universo creato da
Dio, noi eravamo legati l’uno all’altra. Legati dall’amore.
Nei due mesi che seguirono, ci potemmo incontrare in quel
modo soltanto altre due volte, molto poco per due amanti. In
entrambe le occasioni, parlammo poco (lui solo per dirmi quanto
gli fossi mancata); facevamo subito l’amore, con fretta dettata
dalla paura di essere scoperti ma dovuta anche al freddo. Ci
spogliavamo quanto osavamo e usavamo le mani e le bocche per
massaggiare, accarezzare e baciare. Ogni volta, ci univamo
come se fosse l’ultima per ciascuno di noi. Forse presentivamo il
futuro di infelicità che ci stava per assalire alle spalle, un conto
alla rovescia di secondo in secondo prima che ci avvolgesse nel
suo abbraccio mortale. Entrambe le volte, ci separammo in tutta
fretta, quando ancora sentivo il suo odore sotto i miei vestiti, un
calore al ventre e le guance arrossate, tanto che speravo che i
miei genitori mi credessero ammalata per il freddo.
Ogni volta che ci separavamo, comunque, i dubbi tornavano
a logorarmi. Avevo l’amore di Jonathan, per il momento, ma che
importanza aveva? Se c’era qualcuno che conosceva i
precedenti di Jonathan, ero io. Aveva amato anche Sophia,
eppure io ero riuscita a fargliela dimenticare, a quanto sembrava.
Potevo illudermi che mi sarebbe sempre stato fedele, potevo
scegliere di chiudere gli occhi e buttarmi, come fanno molte
donne, e sperare che col tempo tutto si sarebbe sistemato. La mia
fiducia cieca era animata anche dall’ostinata convinzione che
fosse Dio stesso a sancire i legami d’amore, a prescindere da
quanto potessero essere sconvenienti, improbabili o dolorosi, e
l’uomo non poteva opporvisi. Dovevo avere fede nel mio amore,
credere che mi avrebbe permesso di superare qualsiasi
imperfezione dell’amore che Jonathan provava per me. E
l’amore, in fondo, altro non è che fede, e ogni fede viene messa
alla prova prima o poi.
Adesso so che solo gli stupidi cercano rassicurazioni
nell’amore. L’amore ci chiede così tanto che, in cambio,
cerchiamo di avere la garanzia che durerà per sempre.
Chiediamo l’eternità, ma chi può prometterla davvero? Avrei
dovuto accontentarmi dell’amore solido e fraterno che Jonathan
aveva provato per me quando eravamo ragazzini. Quello sì che
era un amore eterno. E invece tentai di trasformare i suoi
sentimenti per me in quello che non erano e così facendo rovinai
l’unica cosa eterna e meravigliosa che avevo.
A volte gli eventi peggiori accadono sotto forma di
un’assenza. Un amico che non viene a trovarci quando è solito
farlo, e che poco dopo rinnega la sua amicizia. Una lettera tanto
attesa che non arriva, seguita poco tempo dopo dalla notizia di
una morte prematura. E, nel mio caso, quell’inverno, la
cessazione del mio ciclo mestruale. Prima un mese. Poi, un
secondo mese.
Pregai che ci potesse essere un’altra causa. Maledissi lo
spirito di Sophia, sicura che fosse la sua vendetta. Ma una volta
evocato, comunque, lo spirito di Sophia non fu così facile da
contenere.
Sophia iniziò ad apparire nei miei sogni. A volte intravedevo
semplicemente il suo volto stridente tra la folla, pieno di accusa,
poi spariva. In un sogno ricorrente, ero con Jonathan e a un certo
punto d’improvviso lui mi abbandonava, distogliendo lo
sguardo come in risposta a un comando invisibile, ignorando le
mie preghiere perché rimanesse. Poi ricompariva in compagnia
di Sophia, camminavano mano nella mano e io li vedevo da
lontano e capivo che per Jonathan non esistevo più. Da quei
sogni mi svegliavo sentendomi ferita e abbandonata.
Il sogno peggiore mi faceva svegliare di soprassalto, come se
un cavallo mi scalciasse, e dovevo soffocare le urla per non
destare le mie sorelle. Gli altri sogni probabilmente erano frutto
dei miei sensi di colpa, ma quello non poteva essere altro che un
messaggio dall’oltretomba di Sophia in persona. In quel sogno,
camminavo lungo il viale principale di un villaggio deserto, col
vento alle spalle. Non c’era nessuno in vista, nessuna voce,
nessun segno di vita, nessuno che tagliava la legna, nessun
rumore di ferro battuto dalla bottega del fabbro. E di colpo mi
ritrovavo nei boschi innevati, seguendo la riva dell’Allagash. Mi
fermavo in una rientranza del fiume e vedevo Sophia in piedi
sulla riva opposta. Si è appena suicidata: la pelle è blu, i capelli
sono stopposi e ghiacciati, i vestiti inzuppati le pesano addosso.
È l’amante dimenticata, che si decompone nella tomba, ed è a
sue spese che io ho trovato la felicità. Il suo sguardo cadaverico
si posa su di me e poi lei indica le acque. Non dice una parola,
ma so che cosa mi vuole dire: buttati nell’acqua, poni fine alla
tua vita e alla vita del tuo bambino.
Non osavo parlare della mia condizione a nessuno della mia
famiglia, nemmeno alle mie sorelle con le quali solitamente mi
confidavo. Mia madre osservò in un paio di occasioni che
sembravo sempre preoccupata e intrattabile, anche se poi ci
scherzava sopra e diceva che a giudicare dal mio
comportamento dovevo soffrire parecchio per via delle
mestruazioni. Se solo avessi potuto parlarle della mia
situazione... Ma dovevo la mia lealtà a Jonathan. Non potevo
rivelare la nostra relazione ai miei genitori senza prima
consultarmi con lui.
Aspettavo il momento in cui avrei rivisto Jonathan alla messa
della domenica, ma la natura intervenne ancora una volta.
Passarono diverse settimane prima che la strada per il villaggio
fosse nuovamente praticabile. E, a quel punto, sentivo il mio
tempo scadere: se fossi stata costretta ad aspettare ancora per
molto, non sarei stata più in grado di nascondere il mio segreto.
Pregavo ogni secondo perché Dio mi concedesse la grazia di
poter parlare con Jonathan ancora una volta e presto.
E il Signore udì le mie preghiere perché finalmente spuntò il
primo sole d’inverno e splendette per giorni e giorni di fila, tanto
che molta della neve caduta di recente si sciolse. E finalmente,
una domenica, riuscimmo a sellare il cavallo e a montarlo. Ci
avvolgemmo in mantelli, sciarpe, guanti e coperte e ci
ammassammo sul fondo del calesse, stretti stretti, per andare al
villaggio.
Nella sala della congregazione, ebbi l’impressione che tutti
mi guardassero. Dio sapeva della mia condizione, naturalmente,
ma mi parve che tutti al villaggio ne fossero a conoscenza.
Temevo che il mio addome mostrasse i primi segni di
rigonfiamento e che gli occhi di tutti fossero puntati
sull’inusuale gonfiore sotto la mia gonna. Ma era troppo presto
perché si vedesse, e comunque era improbabile che qualcuno
potesse notare qualcosa di strano sotto tutti i vestiti invernali che
indossavo. Rimasi vicina a mio padre e per tutta la messa mi
nascosi dietro una colonna, augurandomi di essere invisibile.
Attendevo soltanto il momento in cui avrei finalmente potuto
parlare con Jonathan da sola, dopo la messa.
Non appena il pastore Gilbert ci congedò, mi affrettai giù
dalle scale senza aspettare mio padre. Mi fermai sull’ultimo
gradino, cercando Jonathan. E alla fine spuntò e si fece largo
verso di me. Senza dire una parola, gli afferrai la mano e lo
trascinai dietro la scalinata, dove potevamo parlare più
tranquillamente.
Quella mossa inattesa lo rese nervoso, e si guardò alle spalle
per controllare che nessuno avesse notato che ci eravamo
appartati senza un accompagnatore. «Buon Dio, Lanny, se credi
che possa baciarti qui...»
«Ascoltami. Sono incinta» gli confessai di schianto.
Lui lasciò cadere la mia mano e il suo bellissimo volto fu
attraversato da una serie di espressioni diverse: shock, sorpresa e
poi un’incalzante comprensione che lo fece impallidire. Anche
se non mi ero certo aspettata che la mia notizia lo rendesse
felice, il suo silenzio mi terrorizzò.
«Jonathan, ti prego, dimmi qualcosa. Non so cosa fare.» Lo
presi per il braccio.
Lui mi guardò di sottecchi, poi si schiarì la voce. «Mia cara
Lanny, non so che cosa dire...»
«Non è questo che una ragazza nelle mie condizioni si vuole
sentir dire!» Mi spuntarono le lacrime agli occhi. «Dimmi che
non sono da sola, dimmi che non mi abbandonerai. Dimmi che
mi aiuterai a capire che cosa fare.»
Lui continuò a guardarmi stralunato e poi con palese
riluttanza e tensione mi disse: «Non sei da sola».
«Non puoi immaginare quanta paura ho avuto per tutto
questo tempo, costretta a tenermi questo segreto, a casa,
incapace di parlarne con qualcuno. Sapevo che dovevo dirlo a te
per primo, Jonathan, te lo dovevo.» Parla, parlami, lo implorai
con lo sguardo. Dimmi che confesserai il tuo ruolo nel mio
disonore ai nostri genitori e che mi renderai giustizia. Dimmi
che mi ami ancora. Dimmi che mi sposerai. Trattenni il fiato, le
lacrime che mi scendevano copiose sulle guance, sul punto di
svenire per il desiderio di sentirgli pronunciare quelle parole.
Ma Jonathan non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia.
Abbassò lo sguardo sul pavimento. «Lanny, devo dirti una cosa,
ma, credimi, preferirei morire piuttosto che darti questa notizia
proprio ora.»
Mi sentii mancare la terra sotto i piedi e un impeto di terrore
mi assalì, facendomi ricoprire di sudori freddi. «Che cosa ci può
essere di più importante di quello che ti ho appena detto?»
«Sono stato fidanzato ufficialmente. L’accordo è stato chiuso
questa settimana. Mio padre è nella hall a dare l’annuncio
proprio in questo momento, ma dovevo trovarti e dirtelo io
stesso, prima. Non volevo che lo sentissi da qualcun altro...» Le
parole gli morirono in gola quando si rese conto di quanto poco
contasse la sua cortesia per me in quel momento.
Quando eravamo ragazzini scherzavamo spesso sul fatto che
Jonathan non fosse ancora stato fidanzato ufficialmente. Quella
faccenda dei matrimoni combinati era difficile da gestire in un
piccolo villaggio come St. Andrew. I migliori potenziali mariti e
mogli venivano assegnati molto in fretta, i loro matrimoni
venivano combinati quando ancora erano bambini di sei anni,
perciò se una famiglia non agiva prontamente rischiava di non
trovare più nessun candidato papabile. Si sarebbe potuto pensare
che un ragazzo ricco e altolocato come Jonathan sarebbe stato
un candidato perfetto per qualsiasi famiglia del villaggio con
figlie da maritare. E lo era, eppure non era mai stato combinato
un matrimonio, nemmeno per le sue sorelle. Jonathan sosteneva
che fosse per via delle ambizioni sociali di sua madre: non
reputava nessuna delle famiglie del villaggio all’altezza dei suoi
figli. Avrebbero sicuramente trovato di meglio fra i soci del
marito o attraverso i legami della sua famiglia a Boston. Negli
anni c’erano state ripetute indagini in tal senso, alcune
sembravano più fruttuose di altre, ma alla fine erano sfumate
tutte le opportunità e Jonathan era arrivato a vent’anni senza una
promessa sposa.
Mi sentivo come se mi avessero aperto il ventre con un
coltello da macellaio. «E chi è lei?»
Lui scosse il capo. «Non è questo il momento di parlarne.
Dovremmo parlare della tua condizione, ora, e...»
«Chi è lei? Esigo di saperlo!» gridai.
Il suo sguardo ebbe un momento di esitazione. «È una delle
McDougal. Evangeline.»
Anche se le mie sorelle erano amiche delle figlie dei
McDougal, non riuscivo a ricordarmi quale fosse Evangeline,
perché erano tante. I McDougal avevano sette figlie, una vera e
propria tribù, tutte molto graziose in un modo un po’ severo che
faceva trasparire la loro ascendenza scozzese, alte e robuste, con
capelli rossi e ricci selvaggi, pelle lentigginosa che scintillava
come rame al sole d’estate. Conoscevo anche la signora
McDougal: una donna pratica e sempre di buon umore, con lo
sguardo scaltro, forse più in gamba del marito, che se la cavava
con la sua fattoria, sebbene tutti sapessero che era stata lei a far
girare gli affari e ad aver innalzato il livello sociale della
famiglia. Cercai di immaginarmi Jonathan insieme a una donna
come la signora McDougal, e mi venne la tentazione di gettarmi
ai suoi piedi.
«E hai intenzione di accettare il fidanzamento?» gli chiesi.
«Lanny, non so cosa dire... Non credo di potermi rifiutare...»
Mi prese per mano e cercò di trascinarmi indietro verso un
angolo più in ombra. «Il contratto con i McDougal è già stato
firmato, gli annunci sono stati fatti. Non so come potrebbero
reagire i miei genitori rispetto alla nostra... situazione.»
Avrei potuto discutere con lui, anche furiosamente, ma
sapevo che sarebbe stato tutto inutile. Il matrimonio era un
contratto d’affari a tutti gli effetti, sottoscritto per incrementare
le possibilità finanziarie delle famiglie coinvolte.
Un’opportunità come quella, unire le proprie sorti a quelle della
famiglia St. Andrew, non sarebbe stata gettata al vento con
facilità, di certo non per un peccatuccio così comune come una
gravidanza extramatrimoniale.
«Mi addolora dirtelo, ma incontreremmo forti obiezioni al
nostro matrimonio» mi spiegò Jonathan, il più gentilmente
possibile. Io scossi la testa, affranta: non c’era bisogno che me lo
dicesse. Mio padre era rispettato al villaggio per la sua indole
quieta e per il suo giudizio, ma noi McIlvrae non avevamo molto
altro a nostro favore come promesse spose, eravamo povere e
poi metà della nostra famiglia era cattolica.
Dopo un po’, gli chiesi con voce roca: «E questa
Evangeline... è quella dopo Maureen?»
«È la più giovane» mi rispose Jonathan. Poi, dopo un
secondo di esitazione, aggiunse: «Ha quattordici anni».
La più giovane. Mi ricordavo della bambinetta che le sue
sorelle si portavano dietro quando venivano a casa nostra per
lavorare al punto croce con Maeve e Glynnis. Era una
bambolina tutta rosa, con sottili capelli dorati e una malaugurata
inclinazione a piangere a ogni piè sospinto.
«Quindi il fidanzamento è ufficiale ma la data delle nozze, se
lei ha solo quattordici anni, dev’essere ancora lontana...»
Jonathan scosse il capo. «Il vecchio Charles vuole che ci
sposiamo il prossimo autunno, se possibile. E comunque entro la
fine dell’anno.»
Io rimarcai l’ovvio. «Vuole disperatamente che tu abbia un
erede che porti avanti il nome di famiglia.»
Jonathan mi abbracciò le spalle, tenendomi stretta, e io avrei
tanto voluto rimanere aggrappata a quel calore e a quella forza
per sempre. «Dimmi, Lanny, cosa vorresti che facessimo?
Dimmelo e farò del mio meglio per soddisfare il tuo desiderio.
Vuoi che dica tutto ai miei genitori e chieda loro di rompere il
contratto di fidanzamento e liberarmi?»
Mi avvolse una gelida tristezza. Aveva detto quello che
volevo sentirmi dire, ma si vedeva benissimo che aveva paura
della mia risposta. Anche se non aveva alcun desiderio di
sposare Evangeline, ora che l’inevitabile contratto era stato
siglato si era rassegnato a onorarlo. Non voleva che prendessi
sul serio la sua offerta. E con ogni probabilità sarebbe stato
comunque inutile: per la sua famiglia io ero inaccettabile. Suo
padre voleva un erede, certo, ma sua madre avrebbe insistito per
avere un erede concepito nel matrimonio, un bambino libero da
ogni scandalo. I genitori di Jonathan avrebbero insistito perché
lui sposasse comunque Evangeline McDougal, e una volta che si
fosse sparsa la voce della mia gravidanza, io sarei stata rovinata.
Ma c’era un’altra via d’uscita. Non avevo detto la stessa cosa
a Sophia pochi mesi prima?
Strinsi la mano di Jonathan. «Potrei andare dalla levatrice.»
Un’espressione di gratitudine gli si dipinse in volto per un
attimo. «Se è quello che vuoi.»
«Cercherò... cercherò di andarci il prima possibile.»
«Posso aiutarti con le spese» mi disse, rovistando nelle sue
tasche. Tirò fuori una pesante moneta e me la mise in mano. Fui
nauseata, per un istante, e resistetti all’impulso di
schiaffeggiarlo. Sapevo che ero soltanto arrabbiata. Osservai la
moneta per qualche attimo, poi la infilai nel guanto.
«Mi dispiace tanto, Lanny» mormorò, baciandomi sulla
fronte.
Lo stavano cercando, il suo nome riecheggiava dalla sala
della congregazione. Sgusciò via per rispondere al richiamo
prima che ci scoprissero insieme, e io mi trascinai di nuovo su
per le scale fino alla balconata, per vedere che cosa stesse
accadendo. La famiglia di Jonathan era radunata nella navata
davanti al loro banco, quello più vicino al pulpito, la piazza
d’onore. Charles St. Andrew era in cima alla navata, le braccia
rialzate. Stava facendo un annuncio e sembrava più piccato del
solito. Era ridotto così dall’autunno precedente, diceva che era
per la troppa stanchezza o forse per il troppo vino (casomai, era
una combinazione di troppo vino e troppe servette). Ma era
come se da un giorno all’altro fosse diventato vecchio, grigio,
con la pelle afflosciata. Si stancava facilmente, si addormentava
durante la messa non appena il pastore Gilbert apriva la Bibbia.
Ben presto non si diede nemmeno più la briga di partecipare ai
consigli cittadini e iniziò a mandare Jonathan al suo posto.
Nessuno di noi, a quel tempo, poteva immaginare che stesse
morendo. Aveva costruito lui quel villaggio, in fin dei conti, e
con le sue stesse mani. Era indistruttibile, un colono coraggioso,
un uomo d’affari di straordinarie capacità. Ripensandoci,
probabilmente era quello il motivo per cui aveva insistito perché
Jonathan si sposasse in fretta e avesse dei figli: Charles St.
Andrew aveva capito che il suo tempo su questa terra stava per
scadere.
I McDougal percorsero a grandi falcate la navata per unirsi a
lui nell’annuncio formale. Il signore e la signora McDougal
sembravano due oche seguite dalle loro ochette, tutte in fila e più
o meno in ordine d’età. Sette ragazze, alcune tutte in ghingheri,
altre più disordinate, con lacci e nastri che sfuggivano ribelli dai
loro corpetti.
E ultima della fila la più piccola della famiglia, Evangeline.
Mi salì un groppo in gola quando la vidi: era bellissima. Non era
certo una robusta ragazza di campagna; Evangeline era nell’età
incerta in cui si è ancora una ragazzina, ma sul punto di
diventare una donna. Era aggraziata e slanciata, con piccoli seni
e fianchi appena arrotondati, e labbra da cherubino. I capelli
erano rimasti dorati e le cadevano sulle spalle e sulla schiena in
lunghi boccoli. Era evidente perché la madre di Jonathan avesse
scelto Evangeline: era un angelo mandato in terra, una creatura
celestiale degna delle attenzioni del suo figlio maggiore.
Fui sul punto di scoppiare a piangere, lì in chiesa davanti a
tutti, invece, mi morsi il labbro e la osservai avvicinarsi a
Jonathan, rivolgergli un lieve cenno di saluto, lanciandogli un
timido sguardo da sotto il suo cappellino. E lui, pallido in volto
come non mai, ricambiò il saluto. L’intera congregazione notò
quel breve scambio e capì che cosa si erano comunicati in un
battito di ciglia.
«Era ora che gli trovassero una moglie» borbottò qualcuno
dietro di me. «Adesso magari la smetterà di andar dietro a tutte
le ragazze che gli capitano a tiro come un cane in calore.»
«Ma è uno scandalo! Quella è poco più di una bambina e...»
«Stai zitta, su. Hanno soltanto sei anni di differenza, e ci sono
in giro mariti ben più vecchi delle loro mogli...»
«È vero, tra pochi anni non farà differenza, quando lei ne avrà
diciotto o venti. Ma adesso ne ha quattordici! Pensa se fosse tua
figlia, Sarabeth! Vorresti vederla sposata al figlio di St.
Andrew?»
«Santo Dio, no di certo!»
Sotto, le altre figlie dei McDougal si erano disposte a
semicerchi attorno a Jonathan e ai loro genitori, mentre
Evangeline era rimasta educatamente un passo indietro a suo
padre. Non è il momento di essere timida, pensai in quel
frangente, sporgendomi come se potessi sentire quello che si
dicevano laggiù. Sei la futura sposa. Quel bellissimo uomo sarà
tuo marito, l’uomo che ti porterà a letto con sé ogni sera. È un
uomo difficile da amare, devi dimostrare di essere all’altezza
del compito. Vai al suo fianco. E alla fine, dopo diverse
insistenze dei genitori, lei fece qualche timido passo,
spostandosi dall’ombra del padre, come un puledro appena nato,
ancora instabile sulle gambe. Fu solo quando furono fianco a
fianco che me ne resi conto appieno: era davvero soltanto una
bambina. Me li immaginai a letto insieme, e lui sembrava
schiacciarla col suo peso. Era così minuta e tremava come una
foglia non appena qualcuno le rivolgeva la parola.
Lui le prese la mano e le si avvicinò. C’era qualcosa di
galante nei suoi gesti, un senso di protezione. Ma poi Jonathan si
chinò su di lei e la baciò. Non era uno dei suoi tipici baci, quelli
così impressi nella mia memoria, così intensi che li avvertivi in
tutto il corpo, fino alle punte dei piedi. Aveva dimostrato di
accettare il contratto di matrimonio baciandola davanti alle loro
famiglie e a tutta la congregazione. E davanti a me.
Fu in quel momento che capii il messaggio di Sophia nei miei
sogni. Non mi stava invitando a uccidermi per contrappasso a
quello che avevo fatto a lei. Mi stava dicendo che se continuavo
ad amare Jonathan, come aveva fatto lei, mi attendeva una vita
di delusioni e sofferenze. Un amore troppo intenso può
diventare velenoso e causare grande infelicità. Ma quale può
mai esserne la cura? È possibile rinnegare il proprio desiderio? È
possibile smettere di amare qualcuno? È più facile annegarsi,
sembrava volermi dire Sophia; più facile scegliere un suicidio
d’amore.
Tutto questo mi passò per la mente mentre li guardavo dalla
balconata, con le lacrime agli occhi e le unghie affondate nel
tenero legno di pino del pilastro cui ero appoggiata. Ero molto in
alto rispetto alla sala della congregazione, abbastanza in alto per
gettarmi. Ma non lo feci. Anche in quel momento di
disperazione, ero consapevole della nuova vita che portavo
dentro di me. Così, mi voltai, corsi giù dalle scale e fuggii da
quella scena straziante.
12
Tornai a casa sul calesse, con mio padre, chiusa nel silenzio.
Lui continuava a osservarmi di sottecchi, ma io ero tutta avvolta
nel mantello e nella sciarpa e tremavo al punto di battere i denti
nonostante il sole d’inverno splendesse e ci irradiasse. Lui non
disse niente, probabilmente attribuendo il mio malumore e il
mio malessere alla notizia del fidanzamento di Jonathan. Ci
fermammo alla cadente chiesa cattolica e trovammo mia madre,
le mie sorelle e Nevin che ci attendevano in piedi nella neve, con
le labbra blu e pieni di rimproveri per averli fatti aspettare così
tanto.
«Ora basta. Il nostro ritardo è dovuto a buone ragioni» disse
mio padre in un tono che non ammetteva repliche. «Oggi, dopo
la messa, è stato annunciato il fidanzamento di Jonathan.»
Fortunatamente, furono tanto accorti da non esultare per la
notizia in mia presenza. Le mie sorelle mi lanciarono sguardi
fuggevoli, mentre mio fratello si limitò a commentare: «Povera
ragazza, chiunque sia».
Quando arrivammo alla fattoria, Nevin sciolse le briglie al
cavallo mentre mio padre andò a controllare il bestiame, e le mie
sorelle approfittarono del bel tempo per occuparsi delle galline e
delle pecore. Io seguii mia madre dentro casa. Lei si affaccendò
in cucina, iniziando a preparare la cena, mentre io, ancora
avvolta nel mantello, mi abbandonai su una sedia davanti alla
finestra.
Mia madre non era una stupida. «Vuoi una tazza di tè,
Lanore?» mi chiese, davanti al camino.
«Non fa niente, lascia stare» le risposi, cercando in tutti i
modi di nascondere il groviglio di tristezza che mi imprigionava.
Dandole la schiena, udii il clangore della grossa pentola appesa
a un gancio sopra il fuoco e il rumore dell’acqua versata dal
secchio di acqua fresca.
«So che sei sconvolta, Lanore. Ma sapevi che questo giorno
prima o poi sarebbe arrivato» mi disse poi, decisa ma gentile allo
stesso tempo. «Sapevi che un giorno o l’altro il signorino
Jonathan si sarebbe sposato, così come un giorno ti sposerai tu.
Te l’avevamo detto che non era opportuno legarti a lui con
un’amicizia così forte. Adesso capisci perché.»
Mi concessi una lacrima, dato che lei non poteva vedermi in
volto. Mi sentivo sfinita, come se uno dei tori nel campo mi
avesse calpestato e colpito per un giorno intero. Dovevo farmi
aiutare da qualcuno; in quel momento, seduta lì, capii che sarei
morta se avessi continuato a tenere tutto dentro. Ma la vera
domanda era: di chi potevo fidarmi nella mia famiglia?
Mia madre era sempre stata amorevole con noi, difendendoci
quando l’indole rigida di mio padre prendeva il sopravvento e i
suoi rimproveri diventavano troppo pesanti. Era lei stessa una
donna e aveva avuto sei gravidanze, e aveva seppellito due
bambini nel cimitero. Se c’era qualcuno che poteva capire come
mi sentivo e proteggermi, era lei.
«Mamma, ti devo confessare una cosa, ma ho paura di come
potreste reagire tu e mio padre. Ti prego, promettimi che mi
vorrai ancora bene dopo che ti avrò detto quello che devo dirti»
la implorai con voce tremante.
Le sfuggì un grido soffocato, seguito dal rumore del
cucchiaio che cadeva sul pavimento, e capii che non c’era
bisogno che dicessi altro. Nonostante tutti i consigli, nonostante
le suppliche e i rimbrotti, le sue peggiori paure si erano avverate.
Ordinarono a Nevin di attaccare nuovamente il cavallo al
calesse e di andare con le mie sorelle dai Dales, dall’altra parte
della vallata, e rimanere lì finché non sarebbe venuto mio padre
a prenderli. Io rimasi da sola con i miei genitori, in casa, al buio
del tramonto, seduta su uno sgabello al centro della stanza,
mentre mia madre piangeva sommessamente vicino al fuoco e
mio padre mi girava intorno con passi furiosi.
Non avevo mai visto mio padre così arrabbiato. Era paonazzo
in volto, le mani strette a pugno tanto da sbiancare. Credo che
l’unica cosa che lo trattenne dal picchiarmi furono le lacrime che
mi scendevano copiose.
«Come hai potuto farlo?» mi urlò addosso. «Come hai potuto
concederti al figlio dei St. Andrew? Sei davvero pari alle puttane
di strada? Ma che cosa ti è preso?»
«Lui mi ama davvero, padre...»
Quelle parole furono una provocazione di troppo per mio
padre; si lanciò in avanti e mi schiaffeggiò in volto. Perfino mia
madre trattenne il fiato per la sorpresa. Il dolore mi indolenzì il
mento, ma fu la forza della sua rabbia a sconvolgermi.
«È questo che ti ha detto? E tu sei così stupida da credergli,
Lanny?»
«Ti sbagli. Mi ama davvero...»
Tirò indietro il braccio per colpirmi una seconda volta, ma si
fermò. «Ma non credi che abbia detto la stessa cosa a qualsiasi
ragazza pur di farla cedere ai suoi desideri? Se i suoi sentimenti
per te sono autentici, come mai si è fidanzato con la figlia dei
McDougal?»
«Non lo so» singhiozzai, asciugandomi le lacrime dalle
guance.
«Kieran» intervenne mia madre, secca, «non essere crudele.»
«È una dura lezione» le rispose mio padre, guardandola da
sopra una spalla. «I McDougal mi fanno pena, ed è una vera
vergogna per la piccola Evangeline, ma io non vorrò mai e poi
mai un St. Andrew come genero.»
«Jonathan non è cattivo» protestai.
«Ma ascoltati! Stai difendendo l’uomo che ti ha messa incinta
e non ha nemmeno la decenza di essere qui, di fianco a te, a dare
la notizia alla tua famiglia!» sbraitò mio padre. «Immagino che
quel bastardo sappia della tua condizione...»
«Sì, lo sa.»
«E il capitano? Credi che abbia avuto il coraggio di dirlo a
suo padre?»
«Io... non lo so.»
«Ne dubito» disse, ricominciando a camminarmi attorno, i
tacchi che risuonavano minacciosi sul pavimento di pino. «Ed è
meglio così. Non voglio avere niente a che fare con quella
famiglia. Mi hai capito bene? Niente a che fare. Ho preso la mia
decisione, Lanore: ti manderemo a partorire lontano. Molto
lontano.» Alzò gli occhi e non mi sfiorò nemmeno con lo
sguardo mentre parlava. «Tra qualche settimana ti manderemo a
Boston, non appena le strade saranno praticabili, in un posto
dove potrai partorire. Un convento.» Guardò mia madre, che
annuì, con lo sguardo abbassato in grembo. «Le suore gli
troveranno una casa, una casa di bravi cattolici, così tua madre si
metterà il cuore in pace.»
«Volete togliermi il mio bambino?» Feci per alzarmi dallo
sgabello, ma mio padre mi spinse giù a sedere.
«È naturale. Non puoi tornare a St. Andrew con il frutto della
tua vergogna. Non sopporterò mai che i nostri concittadini ti
vedano come un’altra delle tante conquiste del giovane St.
Andrew.»
Ricominciai a piangere disperata. Il bambino sarebbe stata
l’unica cosa di Jonathan che mi sarebbe rimasta, come potevo
abbandonarlo?
Mia madre mi si avvicinò e mi prese la mano. «Devi pensare
alla tua famiglia, Lanore. Pensa alle tue sorelle. Pensa alla
vergogna se al villaggio si venisse a sapere. Chi mai vorrebbe
che suo figlio sposasse una delle tue sorelle dopo che tu ci hai
disonorati tutti?»
«Non vedo perché le mie colpe dovrebbero ricadere sulle mie
sorelle» risposi con voce roca, ma dentro di me sapevo che era la
verità. I benpensanti del nostro villaggio avrebbero fatto soffrire
tremendamente le mie sorelle, e i miei genitori, per i miei errori.
Alzai la testa. «Quindi... Non direte al capitano che sono
incinta?»
Mio padre smise di camminare e si voltò a guardarmi. «Non
darò mai al vecchio bastardo la soddisfazione di sapere che mia
figlia non è riuscita a resistere a suo figlio.» Scosse il capo.
«Puoi pensare il peggio di me, Lanore. Io prego soltanto di fare
la cosa giusta per te. So soltanto che devo cercare di salvarti
dalla rovina completa.»
Ma io non provai alcuna gratitudine. Non volevo essere
mandata via. Egoista come sono, il mio primo pensiero non andò
alla mia famiglia e al loro dolore ma a Jonathan. Sarei stata
costretta a lasciare la mia casa e non avrei mai più visto
Jonathan. Il solo pensiero mi lacerava il cuore come una lama.
«Devo proprio andarmene?» domandai, con voce rotta dalla
disperazione. «Perché non posso andare dalla levatrice? Così
potrei rimanere. Nessuno lo saprebbe.»
Lo sguardo gelido di mio padre a quel punto mi ferì più
profondamente di un altro schiaffo. «Io lo saprei, Lanore. Io lo
saprei e tua madre lo saprebbe. Altre famiglie potrebbero
perdonarlo, ma... Noi non possiamo lasciartelo fare. Sarebbe un
peccato gravissimo, peggiore perfino di quello che hai già
commesso.»
Quindi non soltanto ero una pessima figlia e un burattino
inerme nelle mani di Jonathan, ma nel mio cuore albergava
anche un istinto di assassina miscredente. In quel momento avrei
voluto morire, ma la vergogna non basta a uccidere. «Capisco»
dissi, asciugandomi le lacrime ormai fredde dal volto, decisa a
non piangere più di fronte a mio padre.
Oh, quanta vergogna, quanta paura provai quella notte. Oggi,
ripensandoci, mi sembra così ridicola quella vergogna, quel
terrore. Ma in quel tempo, ero soltanto un’altra vittima, alla
mercé della religione e del buon costume, tutta tremante e
piangente nella casa dei miei genitori, schiacciata dai precetti di
mio padre. Ero una piccola anima inerme sul punto di essere
mandata in esilio nel mondo scuro e crudele. Mi ci sarebbero
voluti anni per perdonare me stessa. Quella notte, invece, pensai
che la mia vita era finita. Mio padre mi riteneva una puttana e un
mostro, e mi stava allontanando per sempre dall’unica cosa che
contasse per me. Non credevo di poter continuare a vivere.
Il periodo più duro dell’inverno alla fine passò. Le giornate
brevi e buie iniziarono ad allungarsi e i cieli perennemente
coperti, del colore della flanella consunta, iniziarono a schiarirsi.
Mi chiesi se anch’io cambiavo a poco a poco come il bambino
dentro di me o se i miei cambiamenti corporei erano soltanto
frutto della mia immaginazione. In fin dei conti, ero sempre stata
magra e nella situazione in cui mi trovavo avevo perso ogni
appetito. I miei vestiti non mi stavano stretti come mi ero
aspettata, ma forse era soltanto il mio senso di colpa che mi
faceva immaginare tutto. In certi momenti mi chiedevo se
Jonathan stesse pensando a me, se sapesse che mi avrebbero
cacciata via e se fosse addolorato per avermi abbandonata. Forse
dava per scontato che avessi fatto quello che gli avevo detto, che
fossi andata dalla levatrice e avessi abortito. Forse era distratto
dal suo imminente matrimonio. Non avevo modo di saperlo; non
mi era più permesso andare alla messa della domenica, né con
mia madre né con mio padre, e quindi mi era stata sottratta
l’unica possibilità di vedere Jonathan.
I giorni passarono con terrificante monotonia. Mio padre mi
tenne occupata ogni minuto, da quando ci svegliavamo nella
penombra del nuovo giorno fino a quando poggiavo la testa sul
cuscino la sera. Le notti non mi davano sollievo, perché sognavo
sempre più spesso Sophia: si rialzava dalle gelide acque
dell’Allagash, si levava per aria come fumo dalla sua tomba nel
cimitero, si aggirava intorno alla mia casa nel buio come un
fantasma tormentato. E forse il suo fantasma trovava un leggero
conforto nella mia disperazione.
Ogni sera prima di andare a dormire mi inginocchiavo di
fianco al letto e mi chiedevo se sarebbe stato blasfemo chiedere
a Dio di sollevarmi da quella pena. Se l’esilio era la punizione
per i miei orrendi peccati, non avrei dovuto accettare la mia
croce invece di osare chiedere perdono a Dio?
A mano a mano che l’inverno svaniva e il giorno del mio
allontanamento si avvicinava, le mie sorelle diventavano sempre
più tristi. Trascorrevano più tempo possibile con me e non
parlavano mai della mia partenza, ma si sedevano al mio fianco,
mi abbracciavano, poggiavano la loro fronte sulla mia.
Lavoravano alacremente con mia madre per rammendarmi i
vestiti, perché non volevano mandarmi via con l’aspetto della
rozza contadina, e mi avevano fatto perfino un nuovo mantello
utilizzando la lana della primavera precedente.
Non c’era modo di rimandare per sempre l’inevitabile e una
notte, quando il disgelo era definitivamente iniziato nella
vallata, mio padre mi disse che era tutto pronto e organizzato.
Sarei partita la domenica seguente sul carro del droghiere,
scortata dal maestro cittadino, Titus Abercrombie. Da Presque
Isle avremmo preso la carrozza fino a Camden, poi la nave fino a
Boston. L’unico baule che possedevamo fu riempito con le mie
cose e lasciato davanti alla porta di casa, e un foglio con su scritti
i nomi di tutti quelli che avrei dovuto contattare (il capitano
della nave, la madre superiora del convento) fu cucito alla
fodera di una sottoveste. Mi diedero anche tutte le monete che
riuscirono a racimolare. Le mie sorelle passarono l’ultima notte
accoccolate al mio fianco nel nostro grande letto, non volevano
lasciarmi andare.
«Non capisco perché nostro padre voglia mandarti via.»
«Non ha voluto ascoltarci, l’abbiamo pregato in ginocchio,
ma non ha voluto.»
«Ma ti rivedremo? Verrai ai nostri matrimoni? Sarai al nostro
fianco quando ci sarà il battesimo dei nostri figli?» Le loro
domande mi fecero salire le lacrime agli occhi. Le baciai
delicatamente sulla fronte e le strinsi a me.
«Ma certo che ci rivedremo. Starò via soltanto per poco
tempo. Adesso non piangete più, eh? Succederanno talmente
tante cose mentre sarò via che non vi accorgerete nemmeno
della mia assenza.» Loro piansero ancora di più e negarono,
giurando che avrebbero pensato a me ogni giorno. Lasciai che
piangessero fino allo sfinimento e che si addormentassero,
mentre io rimasi sveglia per tutta la notte, cercando di trovare un
po’ di pace prima dell’alba.
Quando, all’alba, arrivammo, i cocchieri stavano assicurando
i cavalli ai carri, vuoti perché avevano scaricato tutta la merce –
farina, pezze di tessuti diversi, aghi, tè – al negozio dei Watford
il giorno precedente. C’erano tre grossi carri e sei uomini
muscolosi che sistemarono gli ultimi finimenti ai cavalli,
osservando timidamente la mia famiglia radunata attorno a me.
Le mie sorelle erano strette a mia madre, e tutte piangevano.
Mio padre e Nevin rimasero in piedi in disparte, rigidi e freddi.
Uno dei cocchieri tossì, riluttante a intromettersi ma ansioso
di partire in orario.
«È ora di andare» disse mio padre. «Voi salite in carrozza,
ragazze.» Attese che mia madre mi abbracciasse un’ultima
volta, mentre Nevin aiutava il cocchiere a caricare il mio pesante
baule sul pianale del carro vuoto. Mio padre si rivolse a me.
«Questa è la tua opportunità di redimerti, Lanore. Dio ha
scelto di darti un’altra possibilità, ma vedi di non sprecare la sua
generosità. Io e tua madre pregheremo che tu partorisca senza
problemi, ma non pensare nemmeno di rifiutare l’aiuto delle
suore a trovare un posto per il tuo bambino presso un’altra
famiglia. Ti ordino di non tenere il bambino, e se tu invece
riterrai di non obbedire ai miei ordini, tanto vale che tu non
rimetta mai più piede a St. Andrew. Se non diventerai una
cristiana timorata di Dio, non voglio più avere niente a che fare
con te.»
Sconvolta, mi avvicinai al carro, dove c’era Titus ad
attendermi. Con dignità e cortesia, mi aiutò a salire sul pianale al
suo fianco. «Mia cara, è un piacere scortarti fino a Camden»
disse in tono rigido e formale, ma amichevole, lo stesso tono che
Jonathan prendeva sempre in giro. Non conoscevo bene Titus
perché non avevo mai frequentato le sue lezioni; potevo
giudicarlo soltanto in base a quello che Jonathan mi aveva
raccontato di lui. Era un vecchio gentiluomo, piuttosto fragile,
con il fisico dello studioso: braccia e gambe storte, lo stomaco
che nel corso degli anni era diventato prominente. Aveva perso
ormai quasi tutti i capelli e quelli rimasti erano grigi, e
formavano dei ciuffi attorno al cranio pelato simili a quelli di
Benjamin Franklin. Era uno dei pochi uomini del villaggio a
portare gli occhiali, con una montatura sottile di fil di ferro, che
facevano apparire i suoi occhi ancora più piccoli e umidicci.
Titus trascorreva le estati a Camden a insegnare latino ai figli di
suo cugino in cambio di ospitalità, poiché tutti gli studenti di St.
Andrew lavoravano nelle fattorie di famiglia fino all’inizio della
scuola, in autunno.
C’era un altro passeggero, uno dei taglialegna di St. Andrew
che si era ferito e stava tornando a Camden per trascorrere la
convalescenza in compagnia della sua famiglia. Aveva la mano
avvolta in bende di stracci puliti. Quando il carro si mise in
moto, iniziai a piangere furiosamente, ricambiando i frenetici
gesti di saluto di mia madre e delle mie sorelle.
A mano a mano che il carro arrancava e sferragliava
allontanandosi dal villaggio, il dolore nella gola e al cuore
diventò sempre più intenso, mentre guardavo l’unico posto al
mondo che conoscevo rimpicciolire nella distanza e dicevo
addio all’unico uomo che avessi mai amato.
13
Fort Kent Road, oggi
Il confine non è poi così lontano. Anche se sono trascorsi
anni dall’ultima volta che ci è venuto, da quando ci aveva
portato malvolentieri la sua famiglia per una vacanza, Luke è
sicuro di riuscire a trovare la strada senza l’aiuto della mappa.
Prende stradine secondarie, che sono più lente e allungano il
percorso, ma ritiene che in questo modo le probabilità di
incrociare una pattuglia della polizia di Stato siano minori.
Siccome gli agenti sono pochi, non vengono mandati a
sorvegliare anche le strade secondarie o a piantonare le città più
piccole. Invece le autostrade sono le più problematiche: eccessi
di velocità, TIR sovraccarichi oltre i limiti di legge, tutte
contravvenzioni che permettono di spiccare multe e far
guadagnare lo Stato, anche se non molto.
Afferra il volante esattamente al centro e guida con una sola
mano. La sua passeggera ha lo sguardo ostinatamente incollato
alla strada e si mordicchia il labbro inferiore. Quando fa così,
sembra ancora di più un’adolescente che nasconde la
preoccupazione sotto un velo di impazienza.
«Senti» dice lui, cercando di alleggerire la tensione, «ti
dispiace se ti faccio un paio di domande?»
«Fai pure.»
«Be’... dimmi, come ci si sente a essere... quello che sei?»
«Non è niente di speciale.»
«Davvero?»
Lei si appoggia allo schienale e posa il gomito sul bracciolo.
«Non mi sento diversa, o almeno, non per quanto mi ricordi.
Non ho notato alcun cambiamento, non di giorno in giorno,
almeno, non in modi significativi. Non è come avere dei
superpoteri o cose simili. Non sono un personaggio di un
fumetto.» Sorride per fargli capire che non ritiene stupida la sua
domanda.
«E quello scherzetto che mi hai fatto al pronto soccorso,
quando ti sei tagliata... Ti ha fatto male?»
«Non molto. Il dolore quasi non c’è, è più che altro un
torpore, forse come se ti facessero un intervento chirurgico con
poca anestesia. Solo la persona che ti rende così può farti del
male, può davvero farti provare del dolore. Ma è passato tanto di
quel tempo che quasi non ricordo più che cosa sia il dolore...
quasi.»
«È stata una persona a renderti così?» le domanda Luke,
incredulo. «E com’è successo?»
«Ci arriverò» gli risponde ancora sorridendo. «Abbi
pazienza.»
La rivelazione che quel miracolo è opera dell’uomo dà a
Luke le vertigini, come se vedesse il panorama da una
prospettiva completamente diversa e inedita. Rende tutto ancora
più implausibile, impossibile, e quindi ancor più probabile che si
tratti di un inganno da parte di una ragazza manipolatrice.
«E comunque» prosegue lei, «sono praticamente la stessa di
prima, a parte il fatto che... non mi stanco mai. Il mio fisico non
si stanca più. Ma la stanchezza emotiva, quella la provo ancora.»
«Depressione?»
«Sì, probabilmente è così. Ci sono un sacco di ragioni,
suppongo. Più che altro, di tanto in tanto mi assale l’inutilità
della mia vita, la vita di chi non ha altra scelta se non continuare
a vivere, giorno dopo giorno. Che senso c’è a sopportare tutto
questo da soli, mi chiedo, se non per farmi soffrire, per
costringermi a ricordare tutte le cose orrende che ho fatto o il
modo in cui ho trattato le altre persone? Non è che possa farci
molto, ormai. Non posso tornare indietro nel tempo e annullare i
miei errori.»
Non è la risposta che Luke si attendeva. Rimette la mano sul
volante e lo sente vibrare quando passano su un tratto di asfalto
rovinato. «Vuoi che ti prescriva qualche medicina?»
Lei ride. «Antidepressivi, intendi? Non credo che
servirebbero a molto.»
«Le medicine non ti fanno più effetto?»
«Diciamo che nel tempo ho sviluppato una forte resistenza.»
Si allontana da lui e guarda fuori dal finestrino. «L’unico modo
per sfuggire alla propria mente, a volte, è l’annullamento della
coscienza.»
«Annullamento? Intendi alcol o droghe?»
«Possiamo smetterla di parlare di queste cose?» dice, con
voce tremula.
«Certo. Hai fame? Probabilmente è da un bel po’ che non
mangi... vuoi che ci fermiamo a farci un boccone? Vicino a Fort
Kent c’è un posto dove fanno delle ciambelle deliziose...»
Lei scuote il capo indifferente. «Non ho mai fame. Non più.
Posso stare settimane intere senza nemmeno pensare a
mangiare. O a bere.»
«E dormire? Vuoi fare un sonnellino?»
«Non dormo nemmeno. Me ne dimentico. Dopo tutto, la cosa
più bella del dormire è avere a fianco qualcuno, no? Un corpo
caldo, un peso sul materasso accanto a te. Dà molto conforto,
non credi? Sentire i respiri all’unisono, sincronizzati. È il
paradiso.» Intendeva forse dire che non c’era un uomo nel suo
letto da tanto tempo?, si chiese Luke. E allora, quell’uomo
morto all’obitorio, il letto sfatto al capanno che cosa
significavano? Forse si stava soltanto prendendo gioco di lui,
mascherando la sua vera natura.
«Ti manca tua moglie a letto con te?» gli chiese dopo un po’,
sondandolo.
Certo che gli mancava, anche se sua moglie si agitava molto
nel sonno e spesso lo svegliava quando si spostava o gesticolava
mentre sognava. Per le stesse ragioni, lui adorava vederla
addormentata a letto quando tornava tardi dopo un turno lungo
in ospedale, e osservava il suo corpo snello ed elegante
drappeggiato dalle coperte che ne disegnavano le curve. I capelli
biondi sparsi attorno alla testa, la bocca socchiusa; c’era
qualcosa, nel guardarla senza che lei se ne accorgesse, che gliela
faceva sembrare meravigliosa, e il ricordo di quei momenti di
intimità gli fece salire un groppo in gola. È troppo da confidare a
una sconosciuta, la sua solitudine, i suoi rimpianti, così decide di
tacere.
«Da quanto tempo ti ha lasciato tua moglie?» gli chiede
Lanny.
«Quasi un anno, ormai. Sta per sposare l’amore della sua
adolescenza. È tornata nel Michigan. E si è presa le nostre due
bambine.»
«È... è terribile. Mi dispiace.»
«Non sprecare la tua pietà con me. A quanto pare, tu devi
affrontare molto di peggio.» Lui ha di nuovo quella strana
sensazione, la stessa che ha provato fuori dall’obitorio,
disorientato dal conflitto tra il racconto di quella donna e il
mondo come l’ha sempre conosciuto. Com’è possibile che dica
la verità?
Proprio in quel momento, gli sembra di intravedere le strisce
bianche e nere di un’auto della polizia nel retrovisore e svolta a
destra. Da quanto tempo li stava seguendo senza che lui se ne
accorgesse? La polizia è già sulle loro tracce? Quel pensiero è
particolarmente inquietante per un uomo come lui che non ha
mai avuto guai con la legge.
«Che succede?» gli chiede Lanny, raddrizzandosi. «Sta
succedendo qualcosa, lo capisco dalla tua espressione.»
Luke continua a guardare dal retrovisore. «Stai tranquilla.
Non voglio che ti allarmi, ma penso che ci stiano seguendo.»
Parte II
14
Boston, 1817
Il viaggio verso sud a bordo del carro del droghiere richiese
due settimane. Sfiorammo il limitare orientale delle Great North
Woods e passammo sufficientemente lontani dal monte
Katahdin da non vederne la cima innevata, poi seguimmo il
fiume Kennebec giù fino a Camden. Fu un viaggio solitario
attraverso quella parte dello Stato che, se oggi è ancora poco
popolata, all’epoca era praticamente deserta. Incontrammo
giusto qualche cacciatore e a volte ci accampammo con loro la
notte, con i cocchieri che non vedevano l’ora di bere un po’ di
whisky con qualcuno.
I cacciatori che incrociammo erano più che altro del Canada
francofono e spesso erano tipi riservati, duri, e quel mestiere si
adattava alla perfezione alla loro indole di eremiti o comunque
di uomini gelosi della propria indipendenza. Alcuni di loro mi
sembrarono mezzi pazzi; parlavano da soli borbottando cose
strane in modo inquietante mentre pulivano e oliavano i loro
attrezzi prima di mettersi a lavorare sulla selvaggina che
avevano catturato. Mettevano gli animali morti congelati
accanto al fuoco dell’accampamento fino a quando non si
riscaldavano a sufficienza, poi estraevano i loro coltelli a lama
stretta e iniziavano a scuoiarli. Guardarli mentre aprivano e
scuoiavano gli animali fino a scoprire la carne rossa e umida mi
fece venire la nausea. Non mi andava per nulla di sedermi
accanto a loro, così sgattaiolavo fino ai carri con Titus e lasciavo
i cocchieri a bersi il whisky con i cacciatori, riscaldati
dall’abbraccio del falò.
Anche se ero affranta dal mio esilio, avevo sempre voluto
vedere il mondo al di là del mio villaggio. St. Andrew non era
certo una cittadina raffinata, ma l’avevo sempre ritenuta civile a
confronto di molte altre zone del nostro territorio, che erano in
buona parte prive di insediamenti umani. A eccezione dei
cacciatori, incontrammo ben poche altre persone nel viaggio
fino a Camden. Gli indiani nativi di quella zona si erano
trasferiti anni prima, anche se ne erano rimasti alcuni a vivere
negli insediamenti dei bianchi o a lavorare coi cacciatori.
Giravano voci di coloni che avevano deciso di vivere come gli
indiani, abbandonando le loro città per vivere in accampamenti,
a imitazione dei nativi, ma erano pochi e di solito si arrendevano
al primo inverno.
Il viaggio attraverso le Great North Woods minacciava di
essere oscuro e misterioso. Il pastore Gilbert ci aveva messi in
guardia dagli spiriti maligni che li infestavano in attesa dei
viaggiatori. I taglialegna giuravano di aver visto troll e goblin.
C’era da aspettarselo, visto che per la maggior parte
provenivano dai paesi scandinavi, dove quelle credenze popolari
erano comuni. Le Great North Woods rappresentavano la natura
selvaggia, la parte di quella terra che aveva resistito
all’invadenza dell’uomo. Addentrarsi lì voleva dire rischiare di
esserne fagocitati, di tornare a essere l’uomo primitivo che
ciascuno di noi ancora portava dentro di sé. Per lo più, quando
erano in pubblico gli abitanti di St. Andrew mostravano di non
dar peso a queste dicerie; eppure, nessuno osava avventurarsi
nei boschi di notte.
Alcuni dei cocchieri si divertivano a spaventare gli altri
raccontando storie attorno al falò, racconti di fantasmi nei
cimiteri o di demoni incontrati su un certo sentiero attraverso la
foresta. Quando facevano così cercavo di girare alla larga, ma
spesso non era possibile perché c’era soltanto un fuoco e tutti gli
altri volevano divertirsi un po’. A giudicare dalle loro storie, o
quei cocchieri erano molto coraggiosi oppure erano dei bugiardi
terribili, perché nonostante le loro storie di fantasmi vagabondi e
spiriti urlanti e cose simili, facevano ancora quel mestiere,
guidando un carro per lunghe, interminabili strade solitarie e
selvagge.
Quei racconti parlavano soprattutto di fantasmi, e
ascoltandoli mi colpì il fatto che tutti gli spettri sembravano
avere una sola cosa in comune: perseguitavano i vivi perché
c’era qualcosa di irrisolto che si erano lasciati indietro nella vita
terrena. Che fossero stati uccisi o si fossero suicidati, i fantasmi
si rifiutavano di passare oltre la vita perché sentivano ancora di
appartenere a questo mondo, non all’altro. Che fosse perché
volevano vendicarsi della persona responsabile della loro morte,
o perché non riuscivano a separarsi dalla persona amata, i
fantasmi rimanevano vicini alle persone che avevano avuto
accanto nei loro ultimi giorni. E naturalmente, non potei fare a
meno di pensare a Sophia. Se c’era qualcuno che aveva tutti i
diritti di tornare indietro come fantasma, era lei. Si sarebbe
arrabbiata quando, diventata fantasma, si fosse accorta che la
persona responsabile del suo suicidio aveva lasciato il villaggio?
O mi avrebbe seguita? Forse mi aveva maledetta dall’oltretomba
ed era lei la responsabile della mia tragica situazione. Ascoltare
le storie di quei cocchieri non fece altro che rinforzarmi nella
convinzione di essere condannata alla dannazione per la mia
malvagità.
Perciò fui sollevata e rallegrata quando iniziammo a
incontrare piccoli insediamenti con più frequenza: voleva dire
che ci stavamo avvicinando alla parte più popolata, a sud, e non
sarei stata ancora a lungo in balia di quei cocchieri. E in effetti,
pochi giorni dopo aver trovato il fiume Kennebec, arrivammo a
Camden, una grande città sul mare. Era la prima volta che
vedevo l’oceano.
Il carro lasciò me e Titus al porto, poiché quelli erano gli
accordi con mio padre, e io corsi fino all’estremità del molo più
lungo e rimasi a fissare le vaste acque verdi per parecchio
tempo. L’odore era peculiare, era il profumo dell’oceano, salato,
denso e aspro. Il vento era molto freddo e forte, così forte che mi
era quasi impossibile prender fiato. Mi sferzava il volto e mi
annodava i capelli, come se volesse sfidarmi. Allo stesso tempo,
l’oceano era completamente diverso da qualsiasi cosa avessi
visto fino a quel momento. Conoscevo le acque, certo, ma
soltanto quelle del fiume Allagash. E anche nei punti in cui era
più ampio, si riuscivano sempre a vedere la riva opposta e gli
alberi oltre di essa. Al confronto, con il suo orizzonte infinito, la
distesa di acqua dell’oceano sembrava la fine del mondo.
«Sai, i primi esploratori che arrivarono in America erano
convinti che sarebbero caduti oltre il bordo della Terra» mi disse
Titus, ricordandomi che c’era lui al mio fianco ora.
La marea verdastra e immensa mi terrorizzava ma allo stesso
tempo mi ipnotizzava, e non riuscii ad allontanarmene fino a
quando il gelo non mi penetrò nelle ossa.
Il maestro mi accompagnò fino all’ufficio della capitaneria di
porto, dove trovammo un vecchio dalla pelle paurosamente
incartapecorita. Ci indicò la piccola nave che mi avrebbe portata
fino a Boston, ma mi avvisò che la partenza era prevista a
mezzanotte, quando la marea sarebbe scesa. Non mi avrebbero
fatto salire a bordo se non pochi minuti prima di levare le
ancore. Mi suggerì di aspettare in una taverna, dove avrei potuto
mangiare qualcosa e forse sarei anche riuscita a convincere il
padrone a lasciarmi appisolare su un letto libero fino all’ora
della partenza. Impietosito dal fatto che riuscivo a malapena a
farmi capire, credo, non soltanto perché in fondo ero una rozza
contadina ma anche perché ero ammutolita dal terrore, mi diede
perfino indicazioni per raggiungere una taverna vicina al porto.
Se già Camden era così grande e terrificante, come potevo
sperare di cavarmela a Boston?
«Signorina McIlvrae, devo protestare. Lei non può rimanere
priva di una scorta in una taverna, né posso lasciarla da sola per
le strade di Camden la notte» disse Titus. «Purtroppo però sono
atteso a casa di mio cugino e non posso rimanere con lei per il
resto del giorno.»
«Ho forse altra scelta?» gli domandai. «Se può alleggerirle la
coscienza, mi accompagni fino alla taverna e controlli di
persona se è un posto rispettabile. Poi potrà fare ciò che la
coscienza le detta. In questo modo, non sentirà di esser venuto
meno alle sue promesse a mio padre.»
L’unica taverna che avevo visto fino a quel momento era il
piccolo cottage dei Daughtery a St. Andrew. Quella taverna era
gigantesca al confronto: c’erano due cameriere, lunghi tavoli
con panche e cibo caldo. Anche la birra era molto più saporita, e
capii con una fitta di dolore di quante cose la gente del mio
villaggio fosse priva. Quell’ingiustizia mi colpì, anche se non mi
sentivo affatto privilegiata per la mia scoperta, in quella
situazione. Mi sentivo affranta e avvertivo la nostalgia di casa,
ma nascosi tutto questo a Titus che, impaziente di avviarsi per la
sua strada, concordò sul fatto che non sembrava un posto di
malaffare e mi lasciò alle cure dell’oste.
Dopo aver mangiato, subendo le occhiatacce dei forestieri
che entravano nel pub, accettai l’invito dell’oste e mi sdraiai su
una branda nel magazzino in attesa dell’ora della partenza. A
quanto pareva, accadeva di frequente che i passeggeri delle navi
attendessero la partenza proprio in quel pub e l’oste era abituato
a offrire loro un letto su cui dormire. Mi promise che mi avrebbe
svegliata dopo il tramonto, perfettamente in tempo per arrivare
al porto.
Mi sdraiai sulla branda, nel magazzino che non aveva
nemmeno una finestra, e non mi rimase altro da fare che pensare
alla mia situazione. Fu solo in quel momento, rannicchiata al
buio, con le braccia strette al petto, che capii di essere sola al
mondo. Ero cresciuta in un luogo in cui tutti mi conoscevano e
non c’era alcun dubbio su quale fosse il mio posto o su chi si
sarebbe preso cura di me. Afflitta, piansi grosse lacrime che mi
striarono le guance. In quel momento pensai che mio padre non
poteva trovare una punizione peggiore per me.
Mi svegliai nell’oscurità al suono delle nocche dell’oste che
battevano sulla porta. «È ora di svegliarsi» mi disse dall’altro
lato della porta. «Altrimenti la vostra nave partirà senza di voi.»
Lo pagai con qualche moneta che prelevai dalla fodera del
cappotto, accettai la sua offerta di accompagnarmi fino alla
capitaneria di porto e rifeci all’indietro il percorso dal
lungomare al molo.
La sera era calata repentinamente, così come la temperatura,
e la foschia aveva iniziato a sopraggiungere dall’oceano.
C’erano poche persone per le strade e quelli che erano ancora in
giro si stavano affrettando a tornare alle loro case per ripararsi
dal freddo e dalla nebbia. L’effetto di insieme era inquietante,
come se stessi camminando attraverso una città di morti. L’oste
fu cortese con me nonostante fosse così tardi, e seguii con lui
l’eco della marea fino al porto.
Attraverso la nebbia intravidi la nave che mi avrebbe portata
fino a Boston. Il ponte era punteggiato di lanterne che
illuminavano i preparativi per il levate l’ancora: marinai che si
arrampicavano sugli alberi e aprivano alcune delle vele; botti
che venivano fatte rotolare lungo una plancia per essere
immagazzinate nella stiva, con la nave che ondeggiava
leggermente a ogni spostamento di peso.
Ora mi rendo conto che si trattava di un cargo piuttosto
insignificante e anche piccolo, ma all’epoca mi sembrò
maestoso quanto una nave di linea inglese o un baghlah arabo,
non avendo mai visto prima altri vascelli. La paura e
l’eccitazione mi salirono alla gola, e da quel momento in poi mi
avrebbero sempre accompagnata, la paura dell’ignoto e un
insopprimibile desiderio di avventura, mentre salivo lungo la
plancia sul ponte della nave, un passo dopo l’altro,
allontanandomi sempre più da tutto ciò che avevo conosciuto e
amato, e avvicinandomi sempre più alla mia misteriosa nuova
vita.
15
Diversi giorni dopo la nave si avvicinò al porto di Boston.
Quel pomeriggio attraccammo, ma io attesi il tramonto per
sgattaiolare sul ponte. Era tutto quieto ormai: gli altri passeggeri
erano sbarcati non appena la nave era stata ormeggiata e il
carico, a quanto sembrava, era già stato tutto trasportato a terra.
L’equipaggio, o almeno quelli che riconoscevo, non si vedeva
da nessuna parte, probabilmente erano tutti a terra a godersi i
benefici della civiltà in una delle taverne affacciate sul porto. A
giudicare dal loro numero sulla strada, le taverne erano parte
integrante di tutto il giro d’affari della navigazione, ancor più
importanti del legname o delle tele da vela.
Avevamo attraccato molto in anticipo rispetto all’orario
previsto grazie ai venti favorevoli, ma era solo questione di
tempo prima che il convento venisse avvisato e mandasse
qualcuno a prendermi. E, in effetti, il capitano mi aveva lanciato
un paio di occhiate curiose mentre mi aggiravo sottocoperta,
chiedendosi evidentemente perché non fossi ancora scesa, e
giunse perfino a offrirmi un passaggio per condurmi a
destinazione, nel caso non fossi sicura della strada.
Non volevo andare al convento. Nella mia mente lo
immaginavo come un posto a metà fra una casa di correzione e
una prigione. Doveva essere la mia punizione, un luogo il cui
scopo era «correggermi» con ogni mezzo possibile, guarirmi dal
mio amore per Jonathan. Mi avrebbero tolto il mio bambino, il
mio unico e ultimo legame con l’uomo che amavo. Come potevo
lasciare che succedesse?
Dall’altra parte, però, ero terrorizzata all’idea di scappare e
cavarmela da sola. Le incertezze che avevo affrontato a Camden
erano centinaia di volte peggiori a Boston, che mi sembrava una
città enorme e brulicante di vita. Come avrei fatto a orientarmi?
A chi avrei mai potuto rivolgermi per avere aiuto, per trovare un
posto in cui stare, soprattutto vista la mia condizione?
Improvvisamente mi sentii la contadina ignorante che ero,
completamente fuori posto.
La codardia e l’indecisione mi avevano impedito di scappare
subito dalla nave, ma alla fine fu il pensiero di perdere il mio
bambino che mi fece decidere di fuggire. Avrei preferito
dormire in vicoli sudici e guadagnarmi da vivere pulendo
pavimenti piuttosto che lasciare che mi portassero via il mio
bambino. Frenetica e impaurita, mi addentrai per le vie di
Boston con soltanto la mia piccola cartella, lasciando il mio
baule alla capitaneria di porto. Speravo di poterlo recuperare in
seguito, quando avessi trovato un posto in cui stare. A meno che
il convento non lo confiscasse a mio nome dopo aver scoperto
che ero fuggita.
Anche se avevo atteso il tramonto per allontanarmi di
soppiatto dalla nave, fui sorpresa e spaventata dalla quantità di
attività ancora in corso. C’era gente a fiotti che usciva dai pub e
si riversava per le strade, affollando i marciapiedi o accalcandosi
sulle carrozze. Carri carichi di botti e di scatole grandi quanto
bare correvano per le strade affollate. Io arrancai su per una via e
giù per un’altra, scansando altri pedoni, evitando i carri,
incapace di memorizzare le strade in modo utile a orientarmi,
incapace di dire dopo un quarto d’ora di cammino da che parte
fosse il porto. Iniziai a ritenere Boston una città dura e triste:
centinaia di persone mi erano passate accanto quella notte, ma
nessuna di loro si era accorta della mia espressione terrorizzata,
dello sguardo perso, del mio vagabondare senza meta. Nessuno
mi aveva chiesto se avevo bisogno di aiuto.
Il tramonto lasciò il posto all’oscurità della notte. Accesero i
lampioni. Il traffico iniziò a scemare a mano a mano che la gente
tornava a casa per cena, e i negozianti tiravano giù le tende e
chiudevano le porte. Il panico mi assalì nuovamente al cuore:
dove avrei dormito quella notte? E la notte seguente, e quella
dopo ancora? No, mi dissi, non devo pensare troppo al futuro o
cadrò nella disperazione. Era già abbastanza preoccupante
pensare a come cavarmela quella prima notte. Dovevo
escogitare un piano altrimenti avrei cominciato a rimpiangere di
non essermi arresa all’idea del convento.
La risposta era un pub o una locanda. Il più economico
possibile, pensai, accarezzando le poche monete che mi erano
rimaste. Il quartiere in cui ero finita sembrava residenziale e mi
sforzai di ricordare dove avevo visto l’ultima taverna. Era vicino
al porto? Probabilmente sì, eppure esitavo a tornare indietro,
convinta che sarebbe stata la dimostrazione che non sapevo
quello che stavo facendo e che mi ero cacciata in un guaio al di
là delle mie possibilità. Non ero affatto sicura della direzione da
cui ero venuta, comunque. Psicologicamente, era meglio
continuare a muoversi in un nuovo territorio.
Ero così sfinita che rimasi in mezzo alla strada a pensare alla
mia prossima mossa, incurante del traffico che in una zona più
affollata della città mi avrebbe travolto. Assorta nelle mie
preoccupazioni, mi ci volle più di un minuto per rendermi conto
che una carrozza si era fermata vicino a me e c’era qualcuno che
mi stava chiamando a gran voce.
«Signorina! Dico a voi, signorina!» disse una voce
dall’interno della carrozza. Ed era una lussuosa carrozza,
infinitamente più elegante dei rozzi calessi cui ero abituata in
campagna. Il legno scuro riluceva lucido e tutte le rifiniture
erano estremamente delicate e scolpite con maestria. Era tirata
da una coppia di possenti cavalli bai, addobbati riccamente
come cavalli da circo, ma equipaggiati con finimenti neri come
un corteo funebre.
«Dico, forse non parlate inglese?» Un uomo si sporse dal
finestrino della carrozza. Indossava un vistoso cappello tricorno
sormontato da piume color borgogna. Era chiaro di carnagione e
biondo, con un volto allungato e aristocratico, ma la bocca
sembrava avvizzita e corrucciata, come a esprimere un costante
malcontento. Lo guardai, sorpresa che uno sconosciuto così
elegante si stesse rivolgendo proprio a me.
«Oh, lascia che ci provi io» disse una donna dall’interno della
carrozza. L’uomo col cappello si ritirò dal finestrino e una
donna prese il suo posto. Se l’uomo era pallido, lei era ancora
più pallida, con la pelle color della neve. Indossava un vestito
marrone molto scuro, di taffettà moiré, ed era forse quello che
conferiva al suo incarnato quell’aria esangue. Era una donna
stupenda ma in qualche modo inquietante, con denti appuntiti
velati da labbra tese in un sorriso forzato. I suoi occhi erano di
un blu così chiaro che sembravano di lavanda. E da quel che
riuscivo a vedere, i suoi capelli – parzialmente nascosti da un
cappello particolarmente elaborato, appeso sulla sommità del
capo a un’angolatura impossibile – erano del color dei
ranuncoli, raccolti strettissimi intorno al capo.
«Non aver paura» mi disse, prima ancora che mi rendessi
conto di avere davvero paura, un po’. Arretrai e lei aprì la
portiera della carrozza e scese in strada, in un fruscio di stoffa
inamidata e gonne voluminose e vaporose. Il suo abito era il più
elegante che avessi mai visto, adorno di gale e minuscoli fiocchi,
attillato sul suo vitino da vespa. Indossava guanti neri e sporse
una mano verso di me, lentamente, come se avesse paura di
spaventare un cagnolino impaurito. L’uomo col cappello fu
raggiunto da un altro uomo, che prese il posto della donna al
finestrino della carrozza.
«Stai bene? Io e i miei amici non abbiamo potuto fare a meno
di notare, passando, che sembri totalmente smarrita.» Il suo
sorriso si riscaldò leggermente.
«Io... Be’, è solo che...» balbettai, imbarazzata dal fatto che
qualcuno mi avesse scoperto, e allo stesso tempo ansiosa di
trovare qualcuno che mi aiutasse, che mi mostrasse un’ombra di
calore umano.
«Sei appena arrivata a Boston?» disse il secondo uomo nella
carrozza, sporgendosi dal finestrino. Sembrava infinitamente
più gentile del primo, con i suoi capelli scuri e gli occhi
altrettanto scuri ma gentili, che invitavano a fidarsi.
Annuii.
«Hai un posto in cui stare? Perdonami, ma hai proprio l’aria
di un’orfana. Senza casa, senza amici?» Mentre lui mi faceva
queste domande, la donna mi accarezzò il braccio.
«Vi ringrazio per la vostra preoccupazione» dissi. «Forse
potreste indicarmi il pub più vicino...» proseguii, spostando
nervosamente il peso della cartella che tenevo in mano.
A quel punto, l’uomo alto e arrogante era sceso dalla
carrozza. Mi prese la borsa. «Faremo di meglio. Ti daremo noi
un posto in cui stare. Per stanotte.»
La donna mi prese per il braccio e mi guidò verso la carrozza.
«Stiamo andando a una festa. A te piacciono le feste, vero?»
«Io... io non so...» balbettai, allarmata. Come era possibile
che tre persone evidentemente ricche spuntassero dal nulla a
salvarmi? Mi sembrò naturale, perfino prudente, essere scettica.
«Non dire assurdità. Come fai a non sapere se ti piacciono le
feste o no? A tutti piacciono le feste. Ci sarà da mangiare e da
bere, soprattutto da bere. E ci divertiremo. E alla fine, ci sarà un
bel letto caldo ad attenderti.» L’uomo arrogante lanciò la mia
cartella sul pianale della carrozza. «E poi hai forse offerte
migliori? Preferisci dormire per strada? Non credo proprio.»
Aveva ragione e, se soffocavo il mio istinto che mi lanciava
allarmi, dovevo ammettere che non avevo altra scelta. Arrivai
perfino al punto di convincermi che quell’incontro fortuito era
un segno della sorte. Le mie preghiere erano state ascoltate,
almeno per il momento. Indossavano vestiti costosi e
sembravano facoltosi: era decisamente improbabile che
intendessero derubarmi. Né mi sembravano assassini. Il motivo
per cui fossero così desiderosi di portare una sconosciuta
raccattata per strada a una festa era un completo mistero, in ogni
caso, ma mi sembrava azzardato dubitare troppo della mia
buona sorte.
Per parecchi minuti rimanemmo in un silenzio teso, mentre
percorrevamo le strade di Boston. Ero seduta fra la donna e
l’uomo dall’aria gentile coi capelli scuri, e cercai di non
mostrare che avevo notato lo sguardo inquisitore dell’uomo
biondo. Quando non riuscii più a trattenere la mia curiosità,
chiesi: «Scusatemi, ma per quale motivo esattamente richiedete
la mia partecipazione a questa festa? Non sarà infastidito il
padrone di casa all’arrivo di un’ospite non invitata?»
La donna e l’uomo arrogante sghignazzarono come se avessi
fatto una battuta. «Oh, non devi preoccuparti. Il padrone di casa
è un nostro amico, vedi, e si dà il caso che sappiamo con
certezza assoluta che adora intrattenersi con ragazze carine
come te» disse il biondo, poi rise di nuovo. La donna gli picchiò
il dorso della mano col ventaglio.
«Non far caso a questi due» disse l’uomo coi capelli scuri.
«Si stanno prendendo gioco di te. Hai la mia parola che sarai più
che benvenuta. Hai detto tu stessa che hai bisogno di un posto in
cui passare la notte e, se i miei sospetti sono veritieri, hai anche
bisogno di dimenticare i tuoi dispiaceri per una notte. E forse, là
dove stiamo andando, troverai anche qualcos’altro di cui hai
bisogno» disse, e i suoi modi erano così gentili che mi sentii
rassicurata. C’erano molte cose di cui avevo bisogno, ma più di
ogni altra cosa in quel momento volevo fidarmi di lui. Volevo
credere che lui sapesse meglio di me ciò di cui avevo bisogno,
poiché io non ne avevo idea.
Sferragliammo su e giù per le vie nella carrozza nera. Io
continuai a guardare attenta dal finestrino, cercando di
memorizzare il percorso, come un bambino in una favola che ha
bisogno di ritrovare la strada di casa. Fu una perdita di tempo;
non avevo alcuna speranza di ricordarmi il tragitto, non nelle
condizioni in cui mi trovavo. Alla fine la carrozza si fermò
davanti a un edificio di mattoni e pietra, tutto illuminato a festa,
così imponente da lasciarmi senza fiato. Ma a quanto sembrava
la festa non era ancora iniziata; non c’era attività alcuna, niente
uomini e donne vestiti da sera, nessun’altra carrozza che risaliva
il vialetto.
Dei servitori aprirono le porte della magione e la donna ci
precedette, come se fosse la padrona di casa, sfilandosi i guanti
un dito alla volta. «Dov’è lui?» chiese bruscamente a un
maggiordomo in livrea.
I suoi occhi puntarono brevemente verso l’alto. «Al piano di
sopra, signora.»
Mentre salivamo le scale, mi sentii sempre più imbarazzata e
a disagio. Ero lì vestita con una specie di tonaca, sciatta e fatta in
casa. Avevo addosso tutti gli odori della nave e del mare e i miei
capelli erano arruffati e impiastricciati di salsedine. Abbassai lo
sguardo e vidi ai miei piedi le scarpe rozze e semplici incrostate
del fango delle strade, con le punte consumate.
Sfiorai il braccio della donna. «Io non dovrei essere qui. Non
sono in condizioni di presentarmi a una festa elegante. Non sarei
nemmeno degna di fare la sguattera in una casa elegante come
questa. Credo sia meglio se me ne vado e...»
«Rimarrai finché non ti verrà dato il permesso di andartene.»
Si voltò di scatto e mi conficcò le unghie nell’avambraccio,
facendomi sussultare dal dolore. «Adesso smettila di
piagnucolare e seguimi. Ti garantisco che stanotte ti divertirai.»
Il suo tono mi rese chiaro che il mio divertimento era l’ultima
cosa che le interessasse.
Tutti e quattro irrompemmo contemporaneamente in una
camera da letto, enorme, grande quanto tutta la casa della mia
famiglia a St. Andrew.
La donna ci guidò dritti fino al guardaroba, dove trovammo
un uomo in piedi, le spalle rivolte a noi. Era evidentemente il
padrone di casa, e c’era un servitore al suo fianco. Il padrone
indossava calzoni alla zuava di velluto blu e ai piedi aveva delle
eleganti babbucce. Non aveva ancora indossato il cappotto,
quindi ebbi la possibilità di vedere il suo reale aspetto senza che
lo paludasse un vestito sartoriale su misura. Non era alto e
atletico come Jonathan – che era ancora la misura del mio ideale
di uomo – ma aveva comunque un fisico magnifico. Una schiena
ampia e spalle possenti spuntavano da una vita relativamente
sottile. Doveva essere incredibilmente forte, a giudicare dalle
sue spalle, come alcuni dei taglialegna di St. Andrew, solidi e
forti. Poi si voltò e io cercai di trattenere un’esclamazione di
sorpresa.
Era molto più giovane di quanto mi aspettassi, poco più di
vent’anni, poco più grande di me. Ed era bello in modo non
convenzionale, quasi selvaggio. Aveva una carnagione
olivastra, che non avevo mai visto nei nostri villaggi di scozzesi
e scandinavi. La sua barba e i suoi baffi neri ornavano una
mascella squadrata ed erano leggeri, come se si fosse rasato da
pochi giorni. Ma la cosa più sorprendente erano i suoi occhi,
verdi e screziati di grigio e oro. Erano belli come due gioielli,
eppure il suo sguardo era feroce e ipnotico.
«Abbiamo portato un’altra attrazione per la tua festa»
annunciò la donna.
Il suo sguardo mi percorse come un paio di mani ruvide.
Dopo una sola occhiata, mi sentii come se non avessi più alcun
segreto di fronte a lui. La bocca mi si seccò e le ginocchia mi
cedettero.
«Questo è il nostro ospite» disse la donna da dietro le mie
spalle. «Inchinati, sempliciotta. Sei in presenza di un nobile.
Questo è il conte cel Rau.»
«Mi chiamo Adair.» Mi porse la mano, come per impedirmi
di inchinarmi. «Siamo in America, Tilde. So che gli americani
non vogliono aristocratici nel loro paese e quindi non si
inchinano di fronte a nessuno. Non possiamo aspettarci che gli
americani si inchinino di fronte a noi.»
«Siete appena arrivato in America?» Chissà come, trovai il
coraggio di rivolgermi a lui.
«Due settimane fa.» Lasciò andare la mia mano e si rivolse al
suo servitore.
«Dalla Romania» aggiunse l’uomo basso e scuro. «Sai dove
si trova?»
Cercai invano una risposta. «No, temo di no.» Sentii altre
risate provenire da dietro di me.
«Non è importante» disse Adair, il padrone di casa,
rimproverando i suoi servitori. «Non possiamo certo aspettarci
che qualcuno qui conosca la nostra patria. La nostra casa è ben
più lontana delle sole miglia di terra e mare che ci siamo lasciati
alle spalle. È in un altro mondo rispetto a questa terra. Ecco
perché sono venuto qui, perché è un altro mondo.» Fece un gesto
verso di me. «Tu. Hai un nome?»
«Lanore.»
«Sei di qui?»
«Di Boston? No, sono arrivata oggi. La mia famiglia...» Un
groppo in gola mi bloccò per un istante. «La mia famiglia vive
nel territorio del Maine, su al Nord. Ne ha sentito parlare?»
«No» mi rispose.
«Allora siamo pari.» Non so dove trovai il coraggio di
scherzare così con lui.
«Sì, forse lo siamo.» Lasciò che il servitore gli sistemasse la
cravatta, osservandomi con curiosità prima di rivolgersi al trio.
«Non statevene lì impalati» disse. «Preparatela per la festa.»
Mi condussero in un’altra stanza, colma di bauli ammassati
su altri bauli. Aprirono i coperchi, frugando finché non
trovarono dei vestiti adatti a me: un bell’abito di cotone rosso e
un paio di babbucce di raso. L’abbinamento non era dei migliori,
ma comunque sia si trattava di indumenti molto più eleganti di
qualsiasi altra cosa avessi mai indossato. Ordinarono a un
servitore di preparare velocemente un bagno e mi ingiunsero di
ripulirmi bene ma in fretta. «Questi li bruciamo» disse il biondo,
indicando con un cenno i miei vestiti, che giacevano
abbandonati sul pavimento. Prima di lasciarmi a fare il bagno, la
donna bionda, che continuava a incutermi timore, mi mise in
mano un calice colmo di vino rosso. «Bevilo» mi disse, «devi
essere assetata.» Lo svuotai in due sorsi.
Quando uscii dal bagno, avevo già capito che il vino era stato
drogato. Mi sembrava che i pavimenti e le pareti si muovessero e
dovetti concentrarmi al massimo per riuscire a scendere le scale
fino al salone. A quel punto molti ospiti erano già arrivati, per lo
più uomini vestiti a puntino con parrucche e maschere che ne
occultavano i lineamenti. Il trio era scomparso e io ero rimasta
sola. Nel mio confuso stupore, passai di stanza in stanza,
cercando di capire che cosa stesse succedendo, mentre il vociare
della festa mi circondava da ogni parte. Mi ricordo di aver visto
qualcuno giocare a carte in un ampio salone, uomini seduti a
gruppi di quattro o cinque ai tavoli tra risate e imprecazioni a
mano a mano che le monete venivano depositate sul tappeto
verde. Continuai a vagare a caso, uscendo ed entrando in stanza
dopo stanza. Barcollando, passavo per un corridoio e uno
sconosciuto cercava di prendermi per mano, ma io strattonavo e
mi allontanavo più velocemente che potevo, dato il mio
disorientamento. C’erano giovani uomini e donne dall’aria
confusa, senza maschere, tutti molto belli, che gli invitati
prendevano e portavano via da qualche parte.
Iniziai ad avere le allucinazioni. Mi convinsi che stavo
sognando e che nel sogno ero finita in un labirinto. Non riuscivo
nemmeno a parlare: le parole mi uscivano in fiotti incoerenti e
comunque nessuno sembrava intenzionato a darmi ascolto. Non
pareva esserci via d’uscita da quella festa infernale, nessun
modo di tornare per le strade, che in confronto mi sembravano
più sicure. Proprio in quel momento, sentii una mano leggera sul
mio gomito e svenni.
Quando mi svegliai, giacevo di schiena su un letto e c’era un
uomo sopra di me, mi stava quasi soffocando. Il suo volto era
innaturalmente vicino al mio, il suo alito caldo mi sferzava il
volto. Rabbrividii sotto il suo peso e udii un lamento di dolore
sfuggirmi dalle labbra, ma il dolore era distante, attutito dalla
droga. Capii istintivamente che in seguito mi sarei ricordata
tutto. Cercai di chiamare aiuto, ma una mano sudaticcia mi serrò
la bocca, le dita salate infilate fra le mie labbra. «Stai buona,
bambina» grugnì l’uomo sopra di me, con gli occhi mezzi
chiusi.
Sopra la sua spalla, vidi qualcuno che ci osservava. C’erano
uomini mascherati seduti su sedie ai piedi del letto, con dei calici
in mano, che ridevano e incitavano l’uomo ad andare avanti.
Seduto in mezzo a quel gruppo, a gambe accavallate, c’era il
padrone di casa. Il conte. Adair.
Mi svegliai di soprassalto. Mi trovavo in un letto enorme in
una camera oscura e silenziosa. Il minimo movimento che
facevo svegliandomi era sufficiente a scatenare scosse di dolore
lancinante in tutto il mio corpo. Mi sentivo rigirata come un
calzino, tesa e indolenzita, insensibile dalla vita in giù. Il mio
stomaco era agitato da una marea di bile. Avevo il volto gonfio e
anche la bocca, con labbra tirate e screpolate. Sapevo quello che
mi era successo la notte precedente, e il dolore che mi
attanagliava ne era la prova. Ora avevo bisogno soltanto di
sopravvivere.
Poi lo vidi, sdraiato a letto al mio fianco. Adair. Quando
dormiva, il suo volto assumeva un’espressione di beatitudine.
Da quanto riuscivo a vedere, era nudo, anche se coperto dalle
lenzuola dalla vita in giù. La sua schiena mi era visibile e mi
parve percorsa da vecchie cicatrici, tracce di una selvaggia
punizione tempo addietro.
Mi sporsi oltre il bordo del letto e, aggrappandomi al
materasso, vomitai sul pavimento.
I miei conati svegliarono il padrone di casa. Si lamentò per il
doposbronza, o così pensai, e si portò una mano alla tempia. I
suoi occhi verdeoro si aprirono incerti.
«Buon Dio, sei ancora qui» mi disse.
Lo assalii, furiosa, alzando un pugno per colpirlo, ma mi
scansò facilmente, quasi con indolenza, con un movimento del
braccio possente. «Non fare la stupida» mi avvertì, «o ti spezzo
in due come un fiammifero.»
Ripensai agli altri uomini e donne che avevo visto la sera
prima. «Dove sono tutti gli altri?» domandai.
«Hanno preso i loro soldi e se ne sono andati, suppongo»
borbottò Adair, passandosi una mano tra i capelli arruffati.
Arricciò il naso avvertendo l’odore acre del mio vomito. «Fai
venire qualcuno a pulire» mi ordinò alzandosi.
«Non sono la tua serva. E non sono nemmeno una...» Mi
sforzai di trovare una parola che nemmeno sapevo esistesse.
«Non sei una puttana?» Tolse una coperta dal letto e se
l’avvolse attorno. «Be’, non sei nemmeno una vergine.»
«Questo non vuol dire che volessi essere drogata e abusata da
un gruppo di uomini.»
Adair non disse niente. Strinse la coperta attorno alla vita,
fece qualche passo fino alla porta e chiese urlando un servitore.
Poi si voltò ad affrontarmi. «Quindi credi che ti abbia trattato
male? E che cosa pensi di farci? Potresti raccontare la tua storia
alla polizia e ti rinchiuderebbero in galera con l’accusa di
prostituzione. Ti suggerisco di ritirare i tuoi soldi e farti dare
qualcosa da mangiare giù nelle cucine prima di sparire.» Poi
inclinò il capo, osservandomi per la seconda volta. «Tu sei
quella che Tilde ha trovato per strada, quella che non aveva un
posto in cui andare. Be’... non sia mai detto che non sono un
uomo generoso. Puoi stare qui per qualche giorno, con noi.
Riposati e cerca di riprenderti, se vuoi.»
«E cosa devo fare per avere qualcosa da mangiare, lo stesso
della notte scorsa?» gli chiesi acida.
«Sei impertinente a rispondermi così, te ne rendi conto? Sei
sola al mondo, nessuno sa che sei qui. Potrei mangiarti in un sol
boccone, come un coniglietto, un piccolo delizioso coniglietto
arrosto. Non ti spaventa neanche un po’?» Mi derise, ma colsi
una scintilla di approvazione nel suo sguardo. «Vedremo che
cosa ci viene in mente.» Si abbandonò su un divano,
avvolgendosi nella coperta. Per essere un aristocratico, aveva i
modi di un ruffiano.
Feci per alzarmi a cercare i miei vestiti, ma non appena ci
provai mi sentii mancare e la stanza iniziò a girarmi intorno.
Ricaddi sul letto proprio mentre entrava un servitore con degli
stracci e un secchio. Non fece nemmeno caso a me, si chinò e
pulì la chiazza del mio vomito. Fu solo in quel momento che
sentii le fitte al ventre, una sensazione sperduta in un oceano di
dolore. Ero coperta da capo a piedi di graffi, scorticature e lividi.
Il dolore interiore era stato causato senza dubbio da ciò che mi
aveva causato le ferite esteriori: le mani di un bruto.
Ero intenzionata a scappare da quella casa a ogni costo, fossi
anche stata costretta a strisciare sulle ginocchia. Ma non riuscii
ad andare oltre i piedi del letto. Collassai, sfinita e dolorante.
Sarebbero passati mesi e mesi prima che riuscissi a lasciare
quella casa.
16
Contea di Aroostook, oggi
In questo periodo dell’anno, l’alba possiede una cromia tutta
sua, un giallo-grigio impolverato simile alla patina del tuorlo di
un uovo sodo. Luke è convinto che aleggi sulla terra come una
nebbia venefica, come la maledizione di un fantasma, ma sa che
probabilmente non è nient’altro che un’illusione creata dalle
molecole d’acqua sospese nell’aria del mattino. Che sia un
fenomeno di rifrazione o un’antica maledizione, conferisce alla
mattina un aspetto del tutto particolare: il cielo giallastro sembra
una volta di nuvole basse avvolte in ombre gravide di presagi
oscuri, uno sfondo sul quale gli alberi spogli si stagliano in toni
di grigio e marrone.
Dopo aver notato la macchina della polizia nello specchietto
retrovisore, Luke ha deciso che non è prudente proseguire il
viaggio verso il confine canadese a bordo del suo pickup. È
troppo riconoscibile, con la targa personalizzata da medico e gli
adesivi della vecchia scuola di Jolene che riportano come la
figlia del guidatore sia un’allieva meritevole della scuola
elementare Allagash River. (E da quando, si era chiesto Luke,
mentre Patricia insisteva perché applicassero gli adesivi sul
paraurti del suo pickup, c’erano albi d’onore nelle scuole
elementari?) Quindi hanno trascorso l’ultima mezz’ora a
rientrare a St. Andrew, sfrecciando su strade a senso unico per
raggiungere la casa di qualcuno di cui lui pensa di potersi fidare.
Inizialmente Luke ha chiamato col suo cellulare per chiedere se
era possibile prendere in prestito una macchina, ma più che altro
per capire se la polizia era andata in giro a chiedere di lui.
Si ferma davanti a una grande fattoria ristrutturata appena
fuori dai confini di St. Andrew. La casa è splendida, una delle
più ampie e meglio tenute, con particolari di rilievo come i salici
che decorano il portico e le lanterne solari disposte lungo il
vialetto d’accesso. La casa appartiene a un dottore arrivato in
ospedale non molto tempo prima, un anestesista di nome Peter,
che si è trasferito dalla città per crescere i figli in campagna,
convinto che lì non ci sia criminalità né droghe. È un ingenuo
patologico, il prototipo del bravo ragazzo, anche per Luke che,
ancora scosso e suscettibile per i recenti problemi, si era
allontanato da tutti negli ultimi mesi.
Quando Luke bussa alla porta d’ingresso, Peter gli apre
avvolto in un accappatoio e in pantofole, con un’espressione
preoccupata. Sembra essere stato svegliato di soprassalto dalla
telefonata di Luke, e per questo Luke prova un forte imbarazzo.
Pete posa una mano sul braccio di Luke, fermandolo
all’ingresso. «Va tutto bene?»
«Scusa, so che la mia è una richiesta strana» dice Luke,
spostando il peso da un piede all’altro, a testa china. Si è
esercitato mentalmente a pronunciare questa menzogna negli
ultimi dieci minuti. «È solo che... La figlia di mia cugina è
venuta a stare da me per qualche giorno e io ho promesso a sua
madre che l’avrei riportata a casa in tempo per farle prendere il
pullman della gita scolastica. Solo che il mio pickup fa dei
rumori strani e temo di non riuscire a portarla fin lassù e poi
tornare...» La voce di Luke trasmette la giusta quantità di
inettitudine e di rimorso per aver arrecato disturbo a un amico,
dimostrando così una sorta di innocente svagatezza benevola
che solo un orco respingerebbe al mittente.
Peter alza lo sguardo oltre la spalla di Luke e osserva il
pickup parcheggiato in fondo al lungo vialetto d’accesso, dove –
Luke lo sa benissimo – vedrà Lanny in piedi accanto alla
portiera, la valigia ai suoi piedi. È troppo lontana perché Peter
riesca a vederla bene, nel caso in cui la polizia più tardi venga a
interrogarlo. Lei fa un piccolo cenno di saluto a Peter.
«Non hai appena finito il turno?» Peter torna a scrutare Luke,
così intensamente che sembra lo stia esaminando per vedere se
ha i pidocchi. «Non sei stanco?»
«No, sto bene. È stata una notte tranquilla e sono riuscito a
dormire un po»’ mente. «Starò attento.»
Peter estrae le chiavi da una tasca e le lascia cadere nella
mano aperta di Luke. Quando Luke cerca di dargli in cambio le
chiavi del suo pickup, Peter si impunta.
«Non c’è bisogno che mi lasci le chiavi, tanto non starai via a
lungo, vero?»
Luke scrolla le spalle, cercando di apparire indifferente.
«Meglio che te le lasci, nel caso tu abbia bisogno di spostarlo o
qualcosa del genere. Non si sa mai.»
Il portone del garage a tre posti si alza lentamente e Luke
controlla il portachiavi, scoprendo così che Peter gli sta
affidando un SUV nuovo fiammante, grigio acciaio. Sedili in
pelle riscaldati e un lettore DVD con schermi sul retro dei sedili
anteriori, per intrattenere i bambini nei lunghi viaggi. Si ricorda
di come i colleghi, all’ospedale, avevano preso in giro Peter il
primo giorno che era arrivato a bordo di quel SUV, perché era
un mezzo così inusuale in quella zona. Entro il terzo inverno, la
sua carrozzeria grigia lucente sarebbe stata corrosa dal sale
sparso sulle strade.
Luke fa retromarcia, esce dal garage e si ferma in fondo al
vialetto, facendo salire Lanny. «Bella auto» osserva lei,
allacciandosi la cintura di sicurezza. «Tu sì che sai come fare
affari, vero?»
Lei canticchia qualcosa sottovoce mentre Luke conduce
l’auto lungo la strada, dirigendosi ancora una volta verso la
dogana al confine canadese – stavolta riparato dietro vetri
oscurati. Non saprebbe dirne il motivo, ma sente che non tornerà
indietro appena passato il confine, è quello il motivo per cui ha
lasciato le chiavi del suo pickup ammaccato all’amico. Non che
Peter abbia bisogno di quel catorcio: ha altre macchine a
disposizione se deve andare da qualche parte. Eppure, questo fa
sentir meglio Luke, come se avesse lasciato un deposito o avesse
fatto un dono in buona fede, perché sa che ben presto Peter
cambierà opinione su di lui e sulla loro amicizia.
Lanny incontra lo sguardo di Luke mentre si immettono in un
incrocio deserto. «Grazie» gli dice, la voce colma di gratitudine.
«Sembri il tipo d’uomo che detesta chiedere favori, perciò...
Voglio che tu sappia che apprezzo ciò che stai facendo per me.»
Luke si limita ad annuire, chiedendosi fino a che punto
arriverà e quanto gli costerà aiutarla a scappare.
17
Boston, 1817
Mi svegliai in un letto diverso, in una camera diversa. Seduto
accanto al letto c’era l’uomo dai capelli neri che avevo visto
nella carrozza; aveva tra le mani una ciotola piena d’acqua e una
pezza bagnata da premere sulla mia fronte.
«Bentornata fra i vivi» disse quando aprii gli occhi. Sollevò
la pezza dalla mia fronte e la inzuppò d’acqua nella ciotola.
Una luce fredda spuntava dalla finestra dietro di lui, perciò
capii che era giorno, ma che giorno? Alzai il lenzuolo per
osservarmi e vidi che indossavo una semplice vestaglia da notte.
Mi avevano dato una piccola camera tutta per me, chiaramente
destinata a un membro anziano della servitù.
«Perché sono ancora qui?» chiesi con voce roca.
Lui ignorò la mia domanda. «Come ti senti?»
Il dolore mi assaliva a ondate sorde e aspre, incendiandomi il
ventre. «Come se mi avessero pugnalato con una lama
arrugginita.»
Lui corrucciò leggermente la fronte, poi prese una tazza di
brodo dal pavimento. «La cosa migliore per te è che tu stia a
completo riposo. È probabile che tu abbia una perforazione lì
dentro da qualche parte» indicò vagamente il mio stomaco, «e
devi guarire il prima possibile, altrimenti ti verrà un’infezione.
L’ho visto succedere già altre volte. È pericoloso.»
Il mio bambino. Mi alzai a sedere. «Voglio vedere un
medico. O una levatrice.»
Lui infilò un cucchiaio nel brodo chiaro, facendo tintinnare il
metallo contro la porcellana. «È troppo presto per questo.
Aspettiamo un po’ per vedere se per caso peggiora.»
Mentre mi tamponava con la pezza bagnata e mi faceva bere
il brodo, rispose alle mie domande. Innanzi tutto, mi raccontò di
sé. Si chiamava Alejandro ed era il figlio più giovane di una
nobile famiglia spagnola di Toledo. Essendo il figlio minore,
non aveva alcuna speranza di ereditare le proprietà della
famiglia. Il secondogenito era entrato nelle forze armate ed era
diventato capitano di un magnifico galeone spagnolo. Il
terzogenito era a servizio del re di Spagna e presto sarebbe stato
mandato come ambasciatore in una terra straniera. In questo
modo, la famiglia aveva obbedito ai doveri che la tradizione
imponeva nei confronti della propria nazione e del re; Alejandro
era libero di trovare la sua strada e, dopo vari incidenti di
percorso e coincidenze del destino, si era trovato con Adair.
Adair, spiegò, era un vero e proprio aristocratico del vecchio
mondo, ricco come un principe di un piccolo Stato, poiché era
riuscito a mantenere la proprietà dei beni e delle terre che erano
appartenuti alla sua famiglia per secoli. Stanco del vecchio
mondo, era venuto a Boston a caccia di novità, perché aveva
sentito tanti racconti sul nuovo mondo e ora voleva conoscerlo
di persona. Alejandro e gli altri due che erano nella carrozza –
Tilde, la donna, e Donatello, il biondo – erano cortigiani di
Adair. «Ogni altezza reale ha una corte» disse Alejandro, con il
primo dei molti ragionamenti circolari che avrebbe espresso nel
tempo. «Dev’essere circondato da persone beneducate, di alto
lignaggio, che facciano in modo che i suoi bisogni siano
soddisfatti. Noi siamo il filtro fra lui e il mondo là fuori.»
Donatello, spiegò, veniva dall’Italia, dove era stato assistente
e musa di un grande artista il cui nome io non avevo mai sentito
prima. E Tilde... Il suo passato era un mistero, confessò
Alejandro. L’unica cosa che sapeva di lei era che proveniva da
una terra a nord, fredda e nevosa come la mia. Tilde era già con
Adair quando Alejandro si era unito alla corte. «Lui ascolta
praticamente soltanto lei. E Tilde ha un carattere feroce e
imprevedibile, quindi bisogna stare sempre attenti con lei» mi
ammonì, intingendo il cucchiaio nel brodo.
«Non credo proprio che rimarrò qui un minuto di più del
necessario» dissi, aprendo la bocca verso il cucchiaio. «Me ne
andrò non appena starò meglio.» Alejandro non commentò,
apparentemente concentrato nell’infilarmi il cucchiaio di brodo
in bocca.
«C’è un altro membro della corte di Adair» disse poi,
affrettandosi ad aggiungere: «Ma probabilmente non la
incontrerai mai. Lei è... solitaria. Non sorprenderti se credi di
vedere un fantasma».
«Un fantasma?» Mi si drizzarono i capelli sulla nuca, al
ricordo dei racconti di fantasmi dei cocchieri, quei morti
tormentati in cerca dei loro amori perduti.
«Non è veramente un fantasma» mi rimbrottò. «Anche se
potrebbe sembrarlo. Sta sempre sulle sue, e l’unico modo di
vederla è incontrarla per caso, come quando si vede un cervo
nella foresta. Non parla e non ti darà retta se cercherai di parlare
con lei. Il suo nome è Uzra.»
Nonostante fossi grata ad Alejandro per avermi rivelato
quanto sapeva, quelle informazioni mi fecero sentire a disagio,
perché dimostravano sempre più quanto io fossi ignorante,
cresciuta com’ero in un villaggio sperduto. Nessuno mi aveva
mai parlato di quelle terre lontane e non avrei saputo nominare
nemmeno un grande artista. La cosa più inquietante era quella
Uzra. Non avevo alcuna voglia di conoscere una persona che si
comportava in tutto e per tutto da fantasma. E che cosa le aveva
fatto Adair per indurla a non parlare più? Le aveva forse
mozzato la lingua? Non avevo alcun dubbio che lui sapesse
raggiungere tali vette di crudeltà.
«Non capisco perché ti sei dato il disturbo di raccontarmi
tutto questo» dissi. «Tanto non rimarrò qui.»
Alejandro mi osservò col sorriso innocente di un chierichetto
e lo sguardo scintillante. «Oh, soltanto un modo per passare il
tempo. Vuoi altro brodo?»
Quella notte, comunque, quando udii Adair e i suoi tirapiedi
procedere maestosamente lungo il corridoio, pronti a uscire la
sera, strisciai fuori dal letto e mi fermai sul pianerottolo a
osservarli. Erano bellissimi, avvolti in velluto e broccati,
incipriati e pettinati da servitori che avevano impiegato ore a
prepararli con cura. Tilde, con brillanti appuntati nei suoi folti
capelli biondi e le labbra dipinte di rosso; Dona, con una cravatta
bianca immacolata annodata fin sotto il mento, ad accentuare il
collo aristocratico e il mento appuntito; Alejandro, con il lungo
vestito nero e l’aria perennemente addolorata. Si scambiavano
battute con perfidia e arguzia, pavoneggiandosi come uccelli dal
piumaggio sontuoso.
Ma soprattutto osservai Adair, perché era magnetico. Un
selvaggio agghindato con un vestito da gentiluomo. Fu in quel
momento che lo capii: era un lupo travestito da agnello, che
usciva a caccia col suo branco di sciacalli per attirare una preda
nella sua trappola. Cacciavano per puro divertimento, così come
erano andati a caccia di me. Lui era il lupo, io la lepre con il
collo tenero e soffice facilmente spezzabile dal suo morso
feroce. Dopo che un valletto gli ebbe poggiato il mantello sulle
spalle, Adair si voltò per uscire, alzando lo sguardo su di me,
come se avesse sempre saputo che ero lì a guardarlo. Mi rivolse
un sorriso che mi fece arretrare di colpo, barcollante. Avrei
dovuto aver paura di lui – avevo paura di lui – eppure ero
impietrita, folgorata. Una parte di me desiderava essere una di
loro, voleva essere al braccio di Adair mentre lui e i suoi
adoratori uscivano per divertirsi, per essere oggetto
dell’ammirazione altrui come era giusto che fosse.
Quella notte, fui svegliata dal loro rientro e non mi sorpresi
quando Adair entrò nella mia camera, mi tirò su e mi portò a
letto con lui. Nonostante la mia malattia, quella notte mi prese e
io lasciai che lo facesse, arrendendomi all’eccitazione del suo
corpo sopra il mio, di lui dentro di me, della sua bocca sulla mia
pelle. Mentre mi possedeva mi sussurrava nell’orecchio, più
lamenti che parole, e riuscii a capire soltanto «non puoi negarti a
me» e «mia», come se quella notte mi stesse reclamando come
sua proprietà. Dopo, giacqui accanto a lui, rabbrividendo mentre
un senso di soggezione mi percorreva tutta.
La mattina seguente, quando mi svegliai nel silenzio della
mia piccola stanza, mi accorsi che il dolore al ventre era
notevolmente peggiorato. Cercai di alzarmi e camminare, ma
ogni passo era accompagnato da una fitta all’addome e perdevo
sangue e feci; non riuscivo a immaginare di arrivare alla porta
d’ingresso, figuriamoci trovare qualcuno che mi accogliesse, là
fuori. Ora di sera, la febbre mi era salita vertiginosamente e nei
giorni seguenti entrai e uscii da un sonno tormentato, ogni volta
svegliandomi più indebolita di prima. La mia pelle diventò
pallida e sensibile, i miei occhi cerchiati di viola. Se i tagli e le
ferite mi stavano guarendo, succedeva molto più lentamente di
quanto fosse percepibile. Alejandro, l’unico che veniva al mio
capezzale, mi disse la sua diagnosi scuotendo il capo. «Hai le
interiora perforate.»
«Ma guarirò facilmente, vero?» gli chiesi, colma di speranza.
«Non se subentra una setticemia.»
Ignorante com’ero delle complessità dell’anatomia, sapevo
comunque che se il dolore era indicativo della serietà del
problema, allora il mio bambino era in pericolo. «Un medico» lo
implorai, stringendogli la mano.
«Ne parlerò con Adair» mi promise lui.
Poche ore dopo, Adair irruppe nella mia camera. Non notai
nemmeno un barlume di riconoscimento dei piaceri che
avevamo condiviso la notte precedente. Prese uno sgabello, lo
avvicinò al bordo del letto e iniziò a esaminarmi, premendo le
dita sulla mia fronte e sulle guance per sentire la temperatura.
«Alejandro dice che le tue condizioni non migliorano.»
«Ti prego, chiama un dottore. Ti ripagherò un giorno, non
appena riuscirò a...»
Schioccò la lingua come a dire che il costo non era
importante. Sollevò una delle mie palpebre, poi saggiò i
rigonfiamenti sotto la mascella. Quando finì, si alzò dallo
sgabello.
«Torno fra un momento» disse e lasciò la camera.
Mi riappisolai e mi svegliai quando tornò con in mano un
vecchio boccale scheggiato. Mi aiutò a sedermi e mi porse il
boccale. Il contenuto puzzava di marcio e di erbacce bollite e
sembrava liquido di palude.
«Bevi» mi ordinò.
«Che cos’è?»
«Ti farà stare meglio.»
«Sei un dottore?»
Adair mi guardò con un vago disprezzo. «Non sono quello
che tu considereresti un dottore, no. Diciamo che ho studiato la
medicina tradizionale. Se fosse rimasto a bollire un po’ più a
lungo, sarebbe stato più bevibile, ma non c’era tempo»
aggiunse, come se non volesse che io sminuissi le sue abilità
solo perché il gusto di quell’intruglio non era all’altezza.
«Vuoi dire che sei una levatrice?» Inutile dire che le levatrici
– anche se spesso erano le uniche persone con qualche
competenza medica nei villaggi – non avevano compiuto alcuno
studio, perché alle donne non era consentito di frequentare
lezioni di medicina all’università. Le donne che diventavano
levatrici imparavano come far nascere i bambini e come
preparare medicine con le erbe e le bacche attraverso un
apprendistato, spesso dalle loro madri o da una parente.
«Non proprio» mi rispose piccato, evidentemente non
prendeva le levatrici più seriamente dei dottori. «Adesso bevi.»
Feci come mi aveva ordinato, pensando che non avrebbe
acconsentito a farmi visitare da un dottore se era arrabbiato con
me per non aver provato prima il suo rimedio. Fui sul punto di
vomitarglielo tutto addosso; l’intruglio era untuoso e amaro,
così aspro che sembrò incrostarmi i denti. «Adesso riposati un
altro po’, e tra qualche ora vedremo come stai» mi disse,
allungando una mano per prendere il boccale.
Gli afferrai il polso. «Adair, dimmi...» Ma di colpo persi il
coraggio di proseguire.
«Che cosa devo dirti?»
«Non capisco il tuo comportamento con me... L’altra notte...»
Arricciò la sua bellissima bocca in un sorriso crudele. «È così
difficile da capire?» Mi aiutò a sdraiarmi di nuovo sul cuscino e
poi mi rimboccò la coperta fin sotto il mento. Distese
delicatamente la coperta sul mio petto e mi sfiorò i capelli. La
sua espressione di derisione si addolcì e per un momento tutto
ciò che vidi fu il suo volto da ragazzino e un’ombra di gentilezza
nei suoi occhi verdi. «Non capisci che mi sono affezionato a te,
Lanore? Ti sei rivelata sorprendente, per certi versi. Di sicuro
non la stracciona che Tilde ha raccolto per strada. Sento
qualcosa in te... In qualche modo, tu sei uno spirito affine, anche
se non ho ancora capito che cosa ci sia in te che me lo fa pensare.
Ma lo capirò, prima o poi. Ora però devi pensare a guarire.
Vediamo se l’elisir funziona. Cerca di riposarti. Qualcuno più
tardi verrà a controllare come stai.»
La sua rivelazione mi sorprese. A giudicare da quella notte
insieme, tra di noi c’era una reciproca attrazione. Desiderio
fisico, semplicemente. Da un lato, mi faceva sentire onorata che
un nobiluomo, un uomo ricco e con un titolo aristocratico, fosse
interessato a me; dall’altro, però, era pur sempre un sadico e un
egocentrico. Nonostante ci fossero tutti i motivi di allarmarsi,
accettai l’affetto di Adair, anche se non era nient’altro che un
sostituto di ciò che veramente avevo desiderato, da un altro
uomo.
Il mio stomaco si acquietò, il retrogusto amaro dell’elisir
scomparve. Avevo un nuovo interrogativo che mi agitava, ora.
La mia curiosità non riuscì a combattere la pozione di Adair,
comunque, e ben presto caddi in un sonno pacifico.
Trascorsero un’altra notte e un altro giorno, ma nessun
dottore venne a visitarmi e iniziai a chiedermi a che gioco stesse
giocando Adair. Da quando aveva confessato il suo interesse per
me, non era più tornato a trovarmi; inviava servitori nella mia
camera con ulteriori dosi dell’elisir, ma nessun dottore
comparve alla mia porta. Trascorse trentasei ore, iniziai a
dubitare nuovamente delle sue intenzioni.
Dovevo andarmene da quella casa. Se fossi rimasta, sarei
morta in quel letto, e il mio bambino sarebbe morto con me.
Dovevo trovare un dottore, o qualcuno che fosse capace di
rimettermi in sesto, o quanto meno di tenermi viva fino al parto.
Quel bambino era l’unica prova dell’amore di Jonathan per me e
io ero determinata a far sì che quella prova sopravvivesse alla
mia morte.
Mi trascinai giù dal letto per recuperare la mia cartella, ma
mentre cercavo a tentoni sotto il letto e in un armadio, mi accorsi
che la mia sottoveste era bagnata, gelida e appiccicaticcia sulle
mie gambe. Mi avevano tolto la biancheria e mi avevano avvolto
in un manto, per raccogliere le mie feci e i miei umori. La stoffa
era fradicia e puzzolente; non potevo certo avventurarmi in
strada in quelle condizioni senza esser presa per pazza e portata
in manicomio. Dovevo trovare dei vestiti, il mio mantello, ma
mi avevano portato via tutto.
Naturalmente, sapevo dove avrei potuto trovare qualcosa da
indossare. La stanza piena di bauli, dove mi avevano portata
quella prima, fatidica notte.
Fuori dalla mia stanza c’era silenzio, si sentiva soltanto il
mormorio della conversazione fra due servitori che aleggiava
sulle scale. Il corridoio era vuoto. Barcollai fino alle scale, ma
ero così debole, febbricitante e tremante che dovetti trascinarmi
sulle mani e sulle ginocchia per giungere al piano superiore. Una
volta arrivata, mi appoggiai al muro per riprendere fiato e
orientarmi. Qual era il corridoio che conduceva alla stanza dei
bauli? I corridoi mi sembravano tutti uguali e c’erano così tante
porte... Non avevo né il tempo né le forze per provare ad aprirle
tutte...
Mentre ero bloccata lì, prossima alle lacrime per la
frustrazione e il dolore, cercando di aggrapparmi alla mia
decisione di scappare, la vidi. Vidi il fantasma.
Scorsi un movimento con la coda dell’occhio. Diedi per
scontato che si trattasse di una sguattera che ritornava nell’ala
della servitù, nella parte superiore dell’attico, ma la figura che si
stagliava davanti a me sul pianerottolo non era certo una
sguattera.
Era minuta ed eterea. Se non fosse stato per il suo seno pieno
e i suoi fianchi arrotondati, si sarebbe potuto scambiarla per una
bambina. Le sue forme da donna erano avvolte in un costume
esotico fatto di seta finissima, pantaloni arcuati e una tunica
smanicata troppo piccola per coprirle adeguatamente il petto. E i
suoi seni erano meravigliosi, perfettamente rotondi, sodi e alti.
Bastava guardarli per capire quanto dovessero essere pesanti fra
le mani, il tipo di seni capace di suscitare il desiderio di qualsiasi
uomo.
Oltre alle sue forme lussuriose, era bellissima in volto. I suoi
occhi a mandorla erano esaltati da un cerchio di kohl. I suoi
capelli erano un’infinita varietà di rame, avorio e oro, acconciati
in boccoli indomiti fino in fondo alla schiena. Alejandro mi
aveva descritto perfettamente il colore della sua pelle: cannella,
screziata di mica che la rendeva brillante, come se fosse fatta di
una pietra preziosa sconosciuta. Mi ricordo adesso ogni
dettaglio perché in seguito a quell’episodio la vidi molte altre
volte, e sapendo perfettamente che era fatta di carne e ossa, ma
in quel momento avrei potuto giurare che si trattava di
un’apparizione evocata dalla mente di un uomo per incarnare la
perfetta fantasia sessuale. Era una vista che sconvolgeva al
punto da mozzare il fiato. Ebbi paura che, se mi fossi mossa,
sarebbe scomparsa improvvisamente. Invece, mi guardò con la
stessa cautela con cui la osservavo io.
«Ti prego, non andartene. Ho bisogno del tuo aiuto.» Esausta,
mi appoggiai al corrimano. Lei arretrò di un passo, i suoi piedi
nudi non facevano alcun rumore sul tappeto.
«No, no, ti prego, non lasciarmi. Sto male e devo andar via da
questo posto. Per favore, ho bisogno che mi aiuti, altrimenti non
ne uscirò viva. Ti chiami Uzra, vero?» Sentendo il suo nome,
indietreggiò ancora, muovendosi come se danzasse, si voltò e
scomparve nell’oscurità in cima alle scale dell’attico. Non so se
le forze mi abbandonarono in quel momento o se fu la mia
determinazione a scemare mentre lei si allontanava da me, ma
scivolai a terra. Il soffitto ondeggiava sopra di me, come una
lanterna che ruota libera appesa a una corda arrotolata, prima in
una direzione, poi in quella opposta. Allora calò il buio.
Sentii un mormorio, dita che mi toccavano.
«Che cosa ci fa fuori dalla sua stanza?» Era la voce di Adair,
aspra e bassa. «Hai detto che non sarebbe stata in grado di
alzarsi dal letto.»
«A quanto pare è più forte di quel che sembra» borbottò
Alejandro. Qualcuno mi sollevò e io mi sentii priva di peso,
sospesa.
«Riportala lì dentro e stavolta chiudi a chiave la porta. Non
deve lasciare questa casa.» La voce di Adair iniziò ad
allontanarsi. «Morirà?»
«E come diavolo faccio a saperlo?» borbottò Alejandro, poi a
voce più alta, così che stavolta Adair potesse sentirlo, disse:
«Suppongo che dipenda da te».
Dipende da lui? mi chiesi mentre scivolavo di nuovo
nell’incoscienza. E come poteva essere che dipendesse da lui la
mia sopravvivenza? Non ebbi il tempo di interrogarmi oltre su
quella strana conversazione, perché caddi di nuovo in un oblio
di leggerezza e silenzio.
18
«Sta morendo. Non passerà la giornata.»
Era la voce di Alejandro, anche se le sue parole non erano
intese perché io le udissi. Battei le ciglia. Lo intravidi in piedi
accanto a Adair, al mio capezzale. Entrambi erano a braccia
conserte, sembravano rassegnati ed erano scuri in volto.
Eccola, dunque: era la fine, senza appello. E ancora non
avevo alcuna idea di che cosa avessero intenzione di fare con
me, non sapevo perché Adair si fosse preso la briga di
ingannarmi sul suo affetto per me, o riempirmi con strane
pozioni rifiutandomi l’assistenza di un dottore. Ma a quel punto,
il suo strano comportamento non faceva più alcuna differenza
per me: stavo per morire. Se era il mio corpo che volevano – per
dissezionarlo, per fare qualche esperimento, per usarlo in un
rituale satanico – nessuno avrebbe potuto fermarli. In fondo, che
cos’ero se non una vagabonda senza un soldo e senza nessuno al
mondo? Non ero nemmeno una loro serva; valevo ancor di
meno, ero una donna che aveva permesso che degli estranei
facessero con lei quello che volevano in cambio di un tetto sopra
la testa e del cibo. Avrei voluto piangere di
autocommiserazione, ma la febbre mi aveva lasciato asciutta,
senza più lacrime.
Non potevo che concordare con la previsione di Alejandro:
dovevo essere in punto di morte. Un corpo non poteva provare
tanto dolore e sopravvivere. Mi sentivo un fuoco dentro, ogni
singolo muscolo bruciava. Ero sfinita dalle fitte. Ogni respiro mi
faceva scricchiolare le costole come un soffietto arrugginito. Se
non fossi stata così atterrita all’idea di lasciare che il figlio di
Jonathan morisse con me e così impaurita all’idea dei gravi
peccati che avevo commesso e per i quali sarei stata giudicata,
avrei pregato Dio di concedermi la grazia di morire.
Avevo un solo rimpianto, ed era che non avrei mai più rivisto
Jonathan. Avevo creduto così fermamente che fossimo destinati
a stare insieme che mi sembrava inconcepibile l’idea di essere
separata per sempre da lui, di morire senza poter allungare la
mano e toccare il suo volto, di non averlo al mio fianco a
stringermi la mano mentre esalavo l’ultimo respiro. La gravità
della mia situazione divenne reale per me solo in quel momento:
la mia fine stava per arrivare, non c’era niente che potessi fare,
nessun patto con Dio che potesse cambiare il mio destino. E ciò
che volevo sopra ogni cosa era rivedere Jonathan.
«È una tua decisione, a questo punto» disse Alejandro a
Adair, che non aveva ancora proferito una parola. «Se lei ti
piace. Dona e Tilde hanno già chiarito la loro posizione in
proposito e...»
«Non è questione da mettere ai voti» ringhiò. «Nessuno di
voi ha il diritto di dire alcunché su chi può unirsi a noi o meno.
Voi continuate a esistere solo perché a me piace così.» Avevo
udito correttamente? Credetti di no; le sue parole erano confuse
e mi rimbombavano in testa. «E continuate a servirmi solo per
mia volontà.»
Adair si avvicinò a me e mi passò una mano sulla fronte
imperlata di sudore. «La vedi la sua espressione, Alejandro? Sa
che sta morendo e sta combattendo. Ho visto la stessa
espressione sul tuo volto, su quello di Tilde... È sempre la
stessa.» Mi posò le mani sulle guance. «Ascoltami, Lanore. Sto
per farti un raro dono. Capisci? Se non intervengo, morirai.
Quindi, ecco il nostro patto. Sono pronto ad afferrarti quando
morirai e a riportare la tua anima in questo mondo. Ma questo
significa che apparterrai a me interamente, non soltanto con il
tuo corpo. Possedere il tuo corpo è questione da poco, posso
farlo quando voglio. Voglio di più da te; voglio la tua anima, la
tua fiera anima. Sei pronta ad accettarlo?» mi chiese,
scrutandomi negli occhi in cerca di una risposta. «Preparati» mi
disse poi. Non capivo assolutamente di che cosa stesse parlando.
Si fece ancora più vicino, come un prete pronto a raccogliere
una confessione. Aveva in mano una fiala di argento, sottile
come il becco di un usignolo, ed estrasse il tappo, più simile a un
ago che a un tappo. «Apri la bocca» mi ordinò, ma io ero
raggelata dal terrore. «Apri quella maledetta bocca» ripeté, «o ti
spezzo la mascella.»
Nella mia confusione, pensai che mi stesse offrendo
l’estrema unzione – in fondo, provenivo da una famiglia
cattolica – e io desideravo ardentemente un’assoluzione per i
miei peccati. Perciò aprii la bocca e chiusi gli occhi, rimanendo
in attesa.
Lui strusciò il tappo sulla mia lingua. Quasi non me ne
accorsi, tanto era sottile quello strumento, ma la mia lingua
perse immediatamente ogni sensibilità e in bocca avvertii un
sapore orrendo. Mi venne un conato di bava e iniziai ad avere le
convulsioni; lui mi strinse la bocca, costringendomi a tenerla
chiusa. Mi bloccò con forza sul letto, contenendo le mie
convulsioni. Il sangue mi riempì la bocca, reso amaro e aspro
dalla pozione che mi aveva depositato sulla lingua. Mi aveva
forse avvelenato per accelerare la mia morte? Ero persa nel mio
stesso sangue e non riuscivo a sentire nient’altro. Una parte di
me udì Adair mormorare parole che per me non avevano alcun
senso. Ma ero invasa dal panico, e mi era impossibile ragionare.
Non mi importava che cosa stesse dicendo o cosa mi stesse
facendo, ero completamente sotto shock.
Il mio petto si contrasse, il dolore e il panico erano strazianti.
I miei polmoni non funzionavano più. Pompa, soffietto
arrugginito, per l’amor di Dio! Non riuscivo a respirare. Adesso
so che il mio cuore si stava fermando ed era incapace di far
funzionare i miei polmoni. Istintivamente portai le mani sul
ventre, attorno al piccolo rigonfiamento che aveva appena
iniziato a farsi notare.
Adair si immobilizzò di colpo, con l’espressione di chi ha
finalmente colto la verità. «Mio Dio, è incinta! Nessuno di voi se
n’era accorto?» ruggì, voltandosi e agitando il braccio verso
Alejandro, dietro di lui. Il mio corpo stava cessando ogni
funzione, pezzo dopo pezzo, e la mia anima era in preda al
terrore, in cerca di un posto in cui rifugiarsi.
E poi di colpo tutto finì.
Mi svegliai.
Naturalmente, la prima cosa che pensai fu che quell’episodio
terribile era stato tutto un sogno o che forse avevo superato la
fase acuta della malattia e ora stavo guarendo. Trovai un
conforto momentaneo in quelle spiegazioni, ma dentro di me
non potevo negare che mi era successo qualcosa di tremendo, di
irreparabile. Se mi sforzavo di concentrarmi, mi venivano in
mente visioni offuscate di qualcuno che mi teneva giù sul
materasso, qualcun altro che portava via una grande bacinella di
rame piena di sangue denso e maleodorante.
Mi risvegliai nel mio povero letto nella piccola stanza. Ora
però la camera era gelida, il fuoco era spento da chissà quanto
tempo. Le tende dell’unica finestra erano tirate, ma si
intravedeva una lama di cielo coperto. Il cielo aveva quella tinta
grigiastra tipica degli autunni del New England, ma anche i
piccoli sprazzi di luce erano sottili e polverosi, eppure mi
facevano male gli occhi a guardarli.
La gola mi bruciava come se fossi stata costretta a bere acido.
Decisi di alzarmi a cercare un po’ d’acqua, ma quando mi misi a
sedere, ricaddi immediatamente sulla schiena, con la stanza che
mi vorticava attorno. La luce, il mio equilibrio, tutto mi
provocava attacchi di nausea, come un invalido fiaccato da una
lunga malattia.
A parte la mia gola e il mal di testa, il resto del mio corpo
pareva fresco. I muscoli non mi bruciavano più per la febbre. I
miei movimenti erano rallentati, come se mi avessero lasciata a
galla in acque gelide per giorni e giorni. Una cosa molto
importante era cambiata in me e non c’era bisogno che nessuno
mi dicesse di cosa si trattava: il mio bambino non era più con
me. Era morto.
Impiegai quasi mezz’ora a uscire dalla stanza, abituandomi
pian piano a stare in piedi e poi a camminare. Mentre muovevo
piccoli passi lungo il corridoio, verso le camere da letto dei
cortigiani, udii distintamente i rumori della quotidianità attorno
a me con una precisione quasi animalesca: parole sussurrate tra
amanti a letto; il russare del maggiordomo che dormiva nel
guardaroba della biancheria; il suono dell’acqua che veniva
prelevata dal calderone, forse per preparare il bagno a qualcuno.
Mi fermai davanti alla porta di Alejandro, barcollante,
cercando di trovare il coraggio di entrare e pretendere che mi
spiegasse che cos’era successo a me e al mio bambino mai nato.
Alzai la mano per bussare, ma mi bloccai. Qualsiasi cosa mi
fosse accaduta, era seria e irrevocabile. Sapevo benissimo chi
aveva tutte le risposte e decisi di andare direttamente alla fonte:
dall’uomo che aveva messo il veleno sulla mia lingua, che aveva
sussurrato incantesimi nelle mie orecchie e che aveva provocato
tutto quel cambiamento in me. L’uomo che, con ogni
probabilità, mi aveva tolto il mio bambino. E in nome del mio
figlio mai nato, dovevo essere forte.
Mi voltai e andai fino in fondo al corridoio. Alzai ancora una
volta la mano per bussare e poi ci ripensai. Non sarei entrata da
Adair come un servitore, chiedendo il permesso di rivolgergli la
parola.
Le porte si aprirono con una sola spinta. Conoscevo quella
stanza e le abitudini dei suoi occupanti, e andai direttamente
verso il cumulo di cuscini dove solitamente dormiva Adair.
Giaceva sotto una coperta di zibellino, immobile come un
cadavere, gli occhi aperti e lo sguardo fisso sul soffitto.
«Sei tornata fra noi, vedo» disse, più una dichiarazione che
un’osservazione. «Sei tornata fra i vivi.»
Ero terrorizzata da lui. Non sapevo spiegarmi che cosa mi
avesse fatto, o perché non fossi scappata quando Tilde mi aveva
invitato a salire sulla carrozza, o come mai avevo permesso che
tutto ciò accadesse. Ma era giunto il momento di affrontarlo.
«Che cosa mi hai fatto? E cos’è successo al mio bambino?»
Il suo sguardo si spostò, posandosi su di me, feroce come
quello di un lupo. «Stavi morendo per un’infezione e io ho
deciso che non volevo lasciarti andare, non ancora. E tu non
volevi morire. L’ho visto nei tuoi occhi. Una volta che ti ho dato
la pozione, non c’era modo di salvare tuo figlio.»
I miei occhi si riempirono di lacrime. Dopo tutto quello che
era accaduto – l’esilio da St. Andrew, essere sopravvissuta a
quella tremenda infezione – il mio bambino mi era stato tolto,
senza troppi pensieri. «Che cosa hai fatto... Come hai fatto a
impedirmi di morire? Hai detto di non essere un dottore...»
Si alzò dal letto e indossò una vestaglia di seta. Mi afferrò il
polso e prima che potessi rendermi conto di ciò che stava
accadendo, mi trascinò fuori dalla sua camera e giù per le scale.
«Quello che ti è accaduto non può essere spiegato. Può soltanto
essere mostrato.»
Mi portò nelle stanze comuni sul retro della casa. Quando
incontrammo Dona nel salone, Adair schioccò le dita verso di
lui e disse: «Vieni con noi». Mi portò nella stanza dietro la
cucina dove c’erano i pentoloni giganteschi utilizzati per
preparare le pietanze ai tanti ospiti e altre attrezzature da cucina
inconsuete: griglie per il pesce a forma di vergine di ferro; teglie
per i dolci e formine; e un barile di acqua presa dalla cisterna e
tenuta lì per gli usi domestici. L’acqua scintillava, nera e
lucente, nel barile.
Adair mi spinse fra le braccia di Dona e indicò il barile con un
cenno del capo. Dona alzò gli occhi al cielo mentre si tirava su la
manica destra e poi, fulmineo come una massaia che afferra il
pollo da ammazzare per la cena, mi prese per il collo e mi spinse
la testa nell’acqua. Non ebbi tempo di prepararmi e i miei
polmoni si riempirono d’acqua immediatamente. Dalla forza
della sua stretta, capii che non aveva alcuna intenzione di
lasciarmi andare. Non potei far altro che divincolarmi e agitarmi
sperando di riuscire a rovesciare il barile, o di indurlo ad avere
pietà di me. Perché Adair mi aveva salvato dall’infezione e dalla
febbre se ora voleva vedermi affogare?
Mi urlò qualcosa; sentii la sua voce attraverso lo sciacquio,
ma non riuscii a capire le sue parole. Un tempo infinito sembrò
passare, ma sapevo che doveva essere un’illusione. Si diceva
che quando uno sta morendo sperimenta ognuno dei suoi ultimi
secondi di vita con estrema chiarezza e distinzione. Ma ormai
l’aria nei miei polmoni era finita e la morte sarebbe sopraggiunta
da un momento all’altro. Ero appesa alla mano di Dona che mi
teneva sott’acqua, intirizzita dal freddo e terrorizzata, in attesa
della fine. E non desideravo altro che riunirmi al mio bambino
perduto, altro che, dopo tutto quello che mi era accaduto,
arrendermi. Trovare finalmente la pace.
Dona tirò su la mia testa dal barile e l’acqua mi scorse lungo i
capelli, bagnando tutto il pavimento. Mi costrinse a stare dritta.
«Allora? Che cosa ne pensi?» mi chiese Adair.
«Hai appena cercato di uccidermi!»
«Però non sei affogata, giusto?» Porse a Dona un
asciugamano, che lui usò per asciugare il braccio bagnato,
stizzito. «Dona ti ha tenuto sott’acqua per cinque minuti buoni,
eppure tu sei qui ancora viva. L’acqua non ti ha ucciso. Come
credi che sia accaduto?»
Sbattendo le palpebre per togliermi l’acqua gelida dagli
occhi, mormorai: «Non... non lo so».
Il suo sorriso sembrava quello di un teschio. «È perché ora sei
immortale. Non puoi più morire.»
Mi accovacciai accanto al camino acceso nella camera da
letto di Adair, che mi porse un bicchiere e una bottiglia di
brandy e si sdraiò a letto, lasciandomi a fissare le fiamme. Lui
non bevve. Non volevo credergli e non volevo niente da lui. Se
non potevo ucciderlo per avermi tolto il mio bambino, allora non
avevo altra scelta che scappare il più lontano possibile da lui e da
quella casa. Ma ancora una volta, non riuscivo a muovermi né a
pensare chiaramente tanta era la paura, e gli ultimi sprazzi di
buon senso mi convinsero a non fuggire. Dovevo ascoltare
quello che aveva da dirmi.
Accanto al letto c’era uno strano apparecchio fatto di ottone e
di vetro, con tubature e contenitori – ora so che era un narghilé,
ma in quel momento era solo un affare esotico che emetteva
volute di fumo. Adair succhiò la pipa ed esalò una lunga e sottile
spira di fumo che salì fino al soffitto. Il suo sguardo si fece
vacuo e le sue membra si rilassarono.
«Adesso capisci?» mi domandò. «Non sei più mortale. Sei
oltre la vita e oltre la morte. Non puoi morire.» Mi porse la pipa
del narghilé, poi la riprese quando io non accettai. «Non c’è
modo in cui qualcuno ti possa uccidere: né con un pugnale, né
con un fucile, o un coltello, o un veleno, né con l’acqua né col
fuoco. Nemmeno seppellendoti sotto un cumulo di terra.
Nemmeno la malattia e la fame possono farti morire.»
«Ma come può essere?»
Fece un altro lungo tiro dalla pipa, trattenendo il fumo dentro
di sé per un momento prima di lasciarlo sfuggire via in una
densa nuvoletta. «Come abbia avuto origine tutto questo non
saprei dirtelo. Ci ho pensato e ripensato, ho pregato, ho cercato
di sognare la soluzione utilizzando qualsiasi tipo di droga. Non
ho mai trovato una risposta. Non so come spiegarlo e alla fine ho
smesso di cercare una spiegazione.»
«Mi stai dicendo che nemmeno tu puoi morire?»
«Ti sto dicendo che sono vivo da centinaia di anni.»
«Ma chi mai può essere immortale nel Creato di Nostro
Signore?» mi chiesi. «Gli angeli sono immortali.»
Adair sbuffò. «Sempre gli angeli, sempre Dio. Com’è
possibile che quando qualcuno sente una voce parlargli, è
sempre convinto che sia la voce di Dio?»
«Intendi dire che è opera di Satana?»
Si grattò il ventre piatto. «Intendo dire che ho cercato una
soluzione e nessuna voce me l’ha data. Né Dio né Satana si è
preso il disturbo di spiegarmi come questo... questo prodigio
possa far parte dei loro piani. Nessuno di loro mi ha ordinato di
fare come comandavano. Da tutto ciò posso soltanto dedurre che
io non sono il servitore di nessuno. Non ho nessun padrone.
Siamo tutti immortali: Alejandro, Uzra e gli altri. E sono stato io
a rendervi tutti così, è chiaro?» Trasse un’altra lunga boccata
dalla pipa, si sentì un gorgoglio d’acqua e la sua voce possente si
abbassò fin quasi a un sussurro. «Hai trasceso la morte.»
«Ti prego, smetti di ripeterlo. Mi stai spaventando.»
«Ti ci abituerai, e molto presto non avrai mai più paura di
niente. Non ci sarà più niente di cui aver paura. C’è soltanto una
regola che devi seguire, una sola persona cui devi obbedire, e
quella persona sono io. Perché io ora possiedo la tua anima,
Lanore. La tua anima e la tua vita.»
«Adesso ti devo obbedire? Questo vorrebbe dire che tu sei
Dio?» sbottai, osando essere sfrontata con lui.
«Il Dio che ti hanno abituato a adorare ti ha abbandonata.
Ricordi cosa ti ho detto prima che tu ricevessi il dono? Ora sei in
mio possesso e lo sarai per sempre. Io sono il tuo Dio e se non
credi in me e hai il coraggio di sfidarmi, di mettere alla prova
quello che ti sto rivelando, ti invito a farlo. Prova a
sconfiggermi.»
A quel punto, avevo lasciato che mi conducesse a letto e non
protestai quando si sdraiò al mio fianco. Mi passò il bocchino
del narghilé e accarezzò i miei capelli umidi mentre io inalavo il
fumo denso. La droga mi avvolse nei suoi effetti, cullandomi, e
le mie paure crollarono come un bambino esausto. Adesso che
ero assonnata e sfinita, Adair si comportò in modo quasi gentile.
«Non ho alcuna spiegazione da darti, Lanore, ma c’è una storia.
Ti racconterò questa storia, la mia storia. Ti dirò come sono
diventato quello che sono e forse a quel punto capirai.»
19
Ungheria, 1349
Non appena Adair vide lo sconosciuto, capì con un infallibile
brivido di precognizione che il vecchio era lì per lui.
Per i lavoratori nomadi con cui viaggiava la famiglia di
Adair, il tramonto segnava l’inizio dei festeggiamenti. Quando
calava la sera, allestivano giganteschi falò per godersi l’unico
momento della giornata in cui erano liberi. Le lunghe ore
trascorse a lavorare nei campi erano passate e quindi si
radunavano per dividere il cibo e le bevande e per intrattenersi
l’un l’altro. Suo zio non era ancora ubriaco e suonava brani
popolari con il suo violino da quattro soldi, accompagnando il
canto della madre di Adair e delle altre donne. Qualcuno portava
un tamburello, qualcun altro una balalaika. Adair sedeva
insieme a tutta la sua famiglia, i suoi cinque fratelli e le due
sorelle, insieme alle mogli del fratello maggiore. La sua felicità,
quella sera, fu ancora più profonda quando vide, oltre il fuoco
scoppiettante, che Katarina si stava avvicinando alla cerchia,
insieme alla sua famiglia.
Lui e la sua famiglia erano nomadi, così come la famiglia di
Katarina e tutti gli altri della carovana. Un tempo erano stati
servi di un nobile magiaro, ma lui li aveva abbandonati e traditi,
lasciandoli preda dei banditi. Erano scappati dai villaggi a bordo
dei loro carrozzoni e da quel momento non avevano mai smesso
di vagare, lavorando come braccianti in ogni luogo in cui fosse
tempo di raccolto, scavando fossati, occupandosi dei campi,
afferrando al volo qualsiasi opportunità di lavoro si presentasse.
In quel periodo, il regno magiaro e quello rumeno erano in
guerra e i nobili magiari sparsi nelle campagne erano troppo
pochi per proteggere i nomadi, ammesso che ne avessero
l’intenzione.
Non era passato così tanto tempo da quando erano stati
costretti a scappare dalle loro case perché Adair non si
ricordasse più com’era dormire in una casa, la notte, avere per lo
meno quella piccola barriera di sicurezza. I suoi fratelli Istvan e
Radu erano neonati quando la sua famiglia era stata costretta a
fuggire e non avevano alcun ricordo della vita precedente, più
felice. Adair si dispiaceva che i suoi fratellini non avessero
sperimentato i bei tempi, ma a guardarli sembravano a loro
modo più felici del resto della sua famiglia e la malinconia che
attanagliava i loro genitori e fratelli li lasciava perplessi.
Lo sconosciuto era apparso all’improvviso, quella sera, ai
margini del loro accampamento. La prima cosa che Adair notò
di lui fu che era molto vecchio, praticamente un corpo consunto
sorretto a malapena dal bastone, e quando si avvicinò vide che
sembrava ancor più vecchio. La sua pelle era avvizzita e sottile,
come la buccia di un’albicocca marcia, tutta coperta di
macchioline di vecchiaia. I suoi occhi erano velati da una
filigrana lattiginosa eppure erano stranamente acuti, penetranti.
Aveva una folta capigliatura bianca, tanto lunga da cadergli
sulla schiena in una treccia. Ma a colpirlo più di ogni altra cosa
furono i vestiti, che erano di taglio rumeno e fatti di stoffa
pregiata. Chiunque fosse, era ricco e, anche se molto anziano,
non dimostrò alcun timore nell’introdursi in un accampamento
di zingari da solo e di notte.
Si fece largo fra la gente e si posizionò al centro della cerchia,
accanto al falò. Perlustrò con lo sguardo tutta la folla e Adair
sentì il sangue raggelarglisi nelle vene. Adair non era diverso da
tutti gli altri ragazzi dell’accampamento: ignorante, sporco,
denutrito. Sapeva che non c’era ragione per cui il vecchio
scegliesse lui, ma il suo presentimento era così intenso che si
sarebbe alzato e sarebbe scappato via se il suo stupido orgoglio
infantile non gliel’avesse impedito. Non aveva fatto niente a
quel vecchio, quindi perché avrebbe dovuto scappare da lui?
Dopo aver scrutato in silenzio uno a uno i volti illuminati
dalla tremula luce del falò, il vecchio sfoderò un sorriso
sgradevole, alzò una mano e indicò direttamente Adair. Poi
guardò il gruppo degli anziani. A quel punto, ogni attività era già
interrotta, la musica e le risate erano sfumate nel silenzio. Tutti
gli occhi erano puntati sullo sconosciuto e poi su Adair.
Fu suo padre a rompere il silenzio. Si fece largo fra i fratelli e
le sorelle di Adair e afferrò quest’ultimo per il braccio, quasi
staccandoglielo dalla spalla. «Che cos’hai combinato stavolta?»
sibilò tra i denti radi. «Alzati, forza! Vieni con me!» Costrinse il
figlio ad alzarsi in piedi. «E voi che cosa state a guardare?
Tornate ai vostri stupidi racconti e alle vostre stupide canzoni!»
Poi trascinò via Adair, seguito dagli sguardi attoniti di Katarina
e della famiglia di Adair.
I due si recarono all’ombra del fogliame di un albero, seguiti
dallo sconosciuto, lontani dalle orecchie indiscrete
dell’accampamento.
Adair cercò di scongiurare il guaio che gli si era abbattuto
addosso, qualsiasi esso fosse. «Chiunque tu stia cercando, giuro
che non sono io. Mi confondi con un altro.»
Suo padre gli tirò un ceffone. «Cos’hai combinato? Hai
rubato una gallina? Hai preso patate o cipolle dai campi?»
«Te lo giuro, non lo conosco» farfugliò Adair portandosi una
mano alla guancia colpita e indicando l’anziano con l’altra.
«Non lasciare che la tua colpevole immaginazione prenda il
sopravvento. Non sono qui per accusare il ragazzo di alcun
crimine» disse il vecchio al padre di Adair. Osservò sia Adair sia
suo padre con disprezzo, come se fossero mendicanti o
ladruncoli. «Ho scelto tuo figlio, voglio che venga a lavorare
con me.»
A suo credito, il padre di Adair accolse con sospetto
quell’offerta. «E a che cosa ti potrebbe mai servire? Non ha
nessuna abilità. Sa soltanto lavorare i campi.»
«Ho bisogno di un servitore. Un ragazzo con la schiena forte
e le gambe resistenti.»
Adair di colpo vide la sua vita prendere una piega imprevista
e indesiderata. «Non sono mai stato un servitore in una casa.
Non saprei nemmeno...»
Un secondo schiaffo di suo padre fermò le parole di Adair.
«Cerca di non far capire quanto poco vali» lo rimproverò il
padre. «Puoi sempre imparare, anche se non è che tu sia molto
bravo ad apprendere.»
«Andrà bene, lo sento.» Lo sconosciuto girò lentamente
attorno a Adair, esaminandolo come se fosse un cavallo in
vendita al mercato nero. Lasciava una scia di profumo dietro di
sé, un odore secco e affumicato, come incenso. «Non mi serve
qualcuno svelto di mente, solo uno in grado di aiutare un fragile
vecchio ad affrontare le necessità quotidiane. Ma...» A quel
punto, il suo sguardo si fece più severo e il suo contegno divenne
nuovamente altezzoso. «Vivo lontano da qui e non ho intenzione
di ripetere questo viaggio. Se tuo figlio vuole cogliere
quest’opportunità, deve partire con me stanotte stessa.»
«Stanotte?» Adair sentì un groppo in gola.
«Sono pronto a ripagarti la perdita del contributo di tuo figlio
al bilancio familiare» disse lo sconosciuto al padre di Adair. E a
quelle parole, Adair capì di essere perduto, perché suo padre non
avrebbe mai rifiutato dei soldi. A quel punto, sua madre si
avvicinò a loro, mantenendosi all’ombra dell’albero,
tormentandosi la gonna con i pugni stretti. Attese con Adair
mentre il padre e lo straniero contrattavano il prezzo. Una volta
che ebbero raggiunto l’accordo sulla somma da pagare e il
vecchio si fu allontanato per preparare il suo cavallo, la madre di
Adair si scagliò sul marito.
«Che cosa stai facendo?» urlò, pur sapendo benissimo che
suo marito non avrebbe mai cambiato idea. Non serviva a niente
litigare con lui.
Ma Adair aveva motivi più forti per combattere e non aveva
niente da perdere, perciò aggredì il padre. «Perché mi fai
questo? Arriva uno sconosciuto al campo e tu gli vendi uno dei
tuoi figli come se niente fosse? Che cosa sai di lui?»
«Come osi mettere in dubbio le mie decisioni?» rispose
l’uomo, dandogli uno schiaffo tanto violento da spedirlo a terra.
Il resto della famiglia si era allontanato dal falò e stava a
guardare, appena fuori dalla portata del padre. Non c’era nulla di
nuovo per loro nel vedere il padre picchiare uno dei fratelli, ma
era comunque sconvolgente. «Sei così stupido che non
riconosceresti una buona opportunità nemmeno se ci sbattessi
contro. Quest’uomo è evidentemente molto ricco. Sarai il
servitore di un uomo ricco. Vivrai in una casa, non in un
carrozzone, e non dovrai più lavorare nei campi. Se pensassi che
il vecchio accetterebbe, gli chiederei di prendere anche un altro
dei miei figli. Forse Radu non è così cieco da non vedere la
buona sorte quando si presenta, lui.»
Adair si alzò lentamente da terra, rosso di vergogna. Suo
padre gli mollò uno scappellotto sulla nuca, tanto per chiarire
ulteriormente. «Adesso prepara le tue cose e di’ addio a tutti.
Non fare aspettare quell’uomo.»
Sua madre fissò il marito in volto. «Ferenc, cosa sai
dell’uomo a cui stai affidando nostro figlio? Che cosa ti ha detto
di sé?»
«So quanto basta. È il medico di corte di un conte. Vive in
una casa nella tenuta del conte stesso. Adair dovrà servirlo per
sette anni. Passati i sette anni, Adair potrà scegliere se andarsene
o rimanere al suo servizio.»
Adair fece i calcoli a mente: passati sette anni ne avrebbe
avuti ventuno, metà della sua vita. In quel momento, stava
entrando nell’età giusta per sposarsi ed era impaziente di seguire
le orme dei fratelli maggiori, avere una moglie, dei figli, essere
accettato come uomo. Come servitore, non avrebbe potuto
sposarsi né gli sarebbe stato concesso di avere dei figli; la sua
vita sarebbe stata come sospesa, proprio nel periodo cruciale. E,
una volta liberato, sarebbe stato troppo vecchio. Quale donna
l’avrebbe mai desiderato a quel punto?
E la sua famiglia? Dove sarebbero stati in capo a sette anni
tutti loro? Erano nomadi, si spostavano in cerca di lavoro, di un
rifugio, per sfuggire al cattivo tempo. Nessuno di loro sapeva
leggere o scrivere. Non sarebbe mai stato capace di ritrovarli. E
perdere la sua famiglia era impensabile. Erano l’ultima feccia
della società, tenuti alla larga da tutti. Ma una volta partito al
servizio di quello sconosciuto, come avrebbe potuto
sopravvivere senza di loro?
Sua madre scoppiò a piangere. Sapeva altrettanto bene di
Adair che cosa comportava quella faccenda. Ma suo padre non
arretrò di un passo. «È la cosa migliore! Lo sapete benissimo.
Ma guardiamoci, riusciamo a malapena a guadagnare
abbastanza per nutrire i nostri figli. È meglio che Adair impari a
prendersi cura di se stesso.»
«Quindi siamo tutti un peso per te!» sbottò Radu. Aveva due
anni meno di Adair ed era il più sensibile della famiglia. Corse
da Adair e avvolse le braccia sottili attorno alla vita del fratello,
bagnando con le sue lacrime la camicia consunta di Adair.
«Adair è un uomo ora e deve trovare la sua strada a questo
mondo» disse il padre a Radu, e poi, rivolgendosi a tutti, disse:
«Adesso basta con questi piagnistei! Adair deve preparare le sue
cose».
Adair viaggiò tutta la notte, a cavallo con lo sconosciuto,
come gli era stato ordinato. Lo sorprese scoprire che il vecchio
possedeva un cavallo magnifico, degno di appartenere a un
cavaliere, tanto possente da far vibrare il terreno al suo passo.
Adair capì che erano diretti a occidente, addentrandosi nel
territorio rumeno.
Verso l’alba, oltrepassarono il castello del conte a servizio
del quale era il medico. Non aveva niente di poetico. Era
costruito per resistere agli assedi, squadrato e solido, circondato
da abitazioni sparse e recinti di pecore e bovini. Campi coltivati
si estendevano in tutte le direzioni. I due cavalcarono per altri
venti minuti attraversando una fitta foresta finché non giunsero
di fronte a un piccolo torrione di pietra, seminascosto fra gli
alberi. Il torrione sembrava umido, coperto di muschio che
cresceva selvaggiamente senza i raggi del sole a tenerlo a bada.
A Adair il torrione sembrò più una prigione che una casa,
apparentemente senza nemmeno una porta ricavata nella sua
terrificante facciata.
Il vecchio smontò da cavallo e diede ordine a Adair di
prendersi cura dell’animale prima di raggiungerlo all’interno.
Adair si trattenne più che poté con l’imponente cavallo,
togliendo la sella e le redini, portandogli dell’acqua, strofinando
la sua schiena sudata con della paglia secca. Quando non poté
più evitarlo, raccolse la sella ed entrò nel torrione.
All’interno l’aria era quasi troppo fumosa per vederci
chiaramente; c’erano un piccolo fuoco acceso nel camino e solo
una sottile finestra simile a una feritoia per far uscire il fumo.
Guardandosi attorno, Adair vide che il torrione era un’unica e
ampia stanza circolare. Per terra, accanto alla porta, c’era una
donna che dormiva su un mucchio di paglia. Aveva almeno dieci
anni più di Adair e un aspetto matronale, con mani ampie e
grassocce e lineamenti quasi asessuati. Dormiva circondata
dagli attrezzi tipici del suo sesso: ciotole e cucchiai di legno
ritorti, pentole e secchi; un’asse di legno a fare da tavolo, tutta
unta e consumata; pile di scodelle di legno che fungevano da
piatti; orci di vino e birra. Trecce di peperoncini e aglio erano
appese a ganci nel muro di pietra, accanto a salsicce e a un filone
di pane di segale raffermo.
Dalla parte opposta c’era un tavolo coperto di barattoli e
bottiglie, fogli di carta, un calamaio di inchiostro con diverse
penne e delle cose strane su cui Adair non aveva mai posato gli
occhi prima: dei libri, rilegati con una copertina di legno. Dietro
al tavolo si trovavano cestini colmi di strani artefatti provenienti
dalla foresta: radici secche e impolverate, pigne, manciate di
ortiche, grovigli di erbacce. Sullo sfondo, Adair notò una
scalinata che conduceva di sotto, probabilmente a un gelido
sotterraneo.
All’improvviso Adair si ritrovò di fianco il vecchio che lo
scrutava. «Immagino che tu voglia sapere come mi chiamo.
Sono Ivor cel Rau, ma puoi chiamarmi ’padrone’.» Mentre si
toglieva dalle spalle il pesante mantello e si riscaldava le mani
davanti al focolare, il medico gli spiegò che proveniva da una
famiglia di nobili proprietari terrieri rumeni ed era l’ultimo
maschio della sua famiglia. Anche se un giorno avrebbe
ereditato il castello di famiglia e la terra che lo circondava, da
giovane aveva deciso di intraprendere una carriera diversa ed era
andato a Venezia a studiare medicina. Nei decenni trascorsi
come medico di corte era stato a servizio di diversi conti e
perfino re. Adesso era giunto al termine di una lunga carriera, al
servizio del conte cel Batrin, il nobile rumeno che possedeva il
castello che avevano visto prima. Il medico spiegò a Adair di
non averlo preso con sé per insegnargli le arti mediche, ma
perché voleva che lo assistesse, raccogliendo erbe e altri
ingredienti per unguenti e pozioni, oltre a svolgere le mansioni
di casa e aiutare la governante, Marguerite.
Il vecchio frugò in un baule aperto fino a trovare una vecchia
e malconcia coperta di lana grezza. «Preparati un letto di paglia
vicino al fuoco. Quando Marguerite si sveglierà ti darà da
mangiare e ti riferirà i tuoi ordini per la giornata. Cerca di
riposarti, perché voglio che tu sia pronto per stanotte quando mi
sveglierò. Oh, e non sorprenderti se Marguerite non ti ascolta né
ti rivolge la parola: è sordomuta dalla nascita.» Poi il vecchio
prese una candela, che era stata accesa e posata sul tavolo,
pronta per il suo ritorno, e zoppicò fino alla scalinata in
penombra. Adair eseguì i suoi ordini e si accoccolò accanto al
fuoco, addormentandosi ancor prima che il bagliore della
candela svanisse nel fondo delle scale.
Furono i movimenti della governante a svegliarlo. Interruppe
quello che stava facendo per guardare apertamente Adair mentre
si alzava da terra. Adair la trovò ancor più brutta di quanto aveva
intuito mentre lei dormiva: era sgraziata, con un volto mascolino
e la fisionomia massiccia di un bracciante. Lei porse a Adair una
ciotola di brodaglia fredda e dell’acqua e, quando lui finì di
mangiare, lo condusse al pozzo e gli porse un secchiello,
mimandogli le istruzioni. Sempre in quel modo, gli fece
prendere l’acqua per la cucina e per il bestiame e tagliare la
legna per il falò. Poi, quando lei andò a lavare i panni in una
grande tinozza di legno, Adair cercò di appisolarsi un po’,
ricordando le ammonizioni del padrone.
Furono le mani di Marguerite a svegliarlo di colpo; lo
scuoteva per le spalle, indicando le scale. Era giunta la sera e, là
sotto, il vecchio si stava alzando. La governante si aggirò
accendendo candele nella stanza principale e poco dopo il
vecchio salì lentamente e silenziosamente dalle scale,
stringendo la stessa candela tozza di quella mattina.
«Ti sei svegliato. Bene» disse il medico trascinandosi fino a
Adair. Si mise alla scrivania e sfogliò alcune pagine ricoperte di
scritte indecifrabili. «Accendi il fuoco» ordinò, «e prendi un
calderone. Devo preparare una pozione, stanotte, e tu mi
aiuterai.» Ignorando il suo nuovo servitore, il medico iniziò a
frugare tra le file di barattoli, ognuno coperto da un telo cerato e
chiuso da un laccio, portandoli uno a uno alla luce del camino
per leggerne l’etichetta, scartandone alcuni per tenerne altri.
Quando il calderone fu appeso e scaldato dalle fiamme, Adair
aiutò il vecchio a portare i barattoli in prossimità del fuoco.
Seduto lì accanto, osservò il medico misurare manciate di
ingredienti nella mano avvizzita per poi buttarle nel pentolone.
Adair riconobbe alcune piante ed erbe, ormai secche e ridotte in
polvere, ma altri ingredienti gli erano del tutto sconosciuti.
Artiglio di pipistrello? O forse di ratto? La cresta di un gallo?
Tre piume nere, ma di che uccello? Da un barattolo serrato con
forza, il medico versò un liquido denso e scuro che emetteva un
odore putrescente non appena esposto all’aria. Da ultimo,
aggiunse una brocca d’acqua, poi si voltò verso Adair.
«Tienilo d’occhio con attenzione. Falla bollire, poi spegni il
fuoco e fai in modo che la pozione non si raggrumi troppo.
Dev’essere densa come catrame, hai capito?»
Adair annuì. «Posso chiedere a cosa serve questa pozione?»
«No, non puoi chiederlo» rispose, poi parve ripensarci. «Col
tempo apprenderai, quando sarai abbastanza saggio. Adesso io
esco. Bada alla pozione secondo le mie istruzioni. Non
allontanarti dal torrione e non addormentarti.» Adair osservò il
vecchio prendere il mantello da un gancio e scivolare fuori nella
notte.
Fece come gli era stato ordinato, seduto tanto vicino al fuoco
da non poter fare a meno di inalare le fetide esalazioni del
liquido che ribolliva. Il torrione era avvolto nel silenzio, a parte
Marguerite che russava, e Adair la osservò per un po’, notando
l’ampio ventre che si alzava e si abbassava, la paglia che
crepitava quando lei si girava nel sonno. Quando si stancò di
quel misero intrattenimento, andò alla scrivania del medico e
studiò le pagine scritte a mano, desiderando di possedere la
capacità di leggerle. Pensò di provare a convincere il vecchio a
insegnargli a leggere; di certo il medico avrebbe ritenuto utile
che il suo servitore avesse quella capacità.
Di tanto in tanto, Adair saggiava il contenuto del pentolone
con un cucchiaio di legno, valutandone la densità, e quando gli
parve corretta, prese l’attizzatoio e lo usò per spostare i legni in
fiamme ai lati del camino, lasciando sotto il calderone soltanto
le braci ardenti. A quel punto, ritenne di potersi rilassare, perciò
si avvolse nella coperta logora e si appoggiò al muro. Il sonno lo
tormentava, come una birra deliziosa che aveva appena
assaggiato e che avrebbe voluto bere ancora, pur non potendolo
fare. Le pensò tutte per riuscire a stare sveglio: camminò in
cerchio sul pavimento, bevve acqua gelida, fece flessioni. Dopo
un’ora di simili trucchetti era ancora più esausto di prima e sul
punto di accasciarsi sul pavimento, svenuto, quando di colpo la
porta si aprì e il vecchio entrò. Sembrava rinvigorito dalla sua
escursione, i suoi occhi appannati parevano quasi scintillare.
Controllò dentro il calderone. «Molto bene. La pozione mi
sembra pronta. Togli il calderone dal sostegno e lascialo a
raffreddarsi nel focolare. Domattina dovrai versare la pozione in
quel vaso e coprirla con un foglio di carta. Adesso riposati, è
quasi l’alba.»
Passarono così parecchie settimane. Adair era contento che si
fosse stabilita una routine, perché lo aiutava a non pensare alla
perdita della sua famiglia e della sua amata Katarina. Di mattina
aiutava Marguerite e di pomeriggio riposava. La sera la
trascorreva preparando pozioni o unguenti, oppure ad ascoltare
il vecchio che gli insegnava a riconoscere e a raccogliere gli
ingredienti. Conduceva Adair nel bosco per cercare una certa
pianta o un certo seme al chiar di luna. Altre sere, invece, Adair
le trascorreva ad arrotolare ritagli di pelle e ad appenderli alle
travi vicino al focolare. Quasi ogni notte il medico spariva per
qualche ora e tornava sempre prima dell’alba, andandosi a
ritirare nella sua camera, sottoterra.
Passati un paio di mesi, il medico prese a mandare Adair al
villaggio che circondava le mura del castello per barattare un
orcio di unguento con cibo, abiti, attrezzi di ferro o stoviglie.
Adair era arrivato al punto di desiderare ardentemente la
compagnia di altre persone, se non altro per risentire la propria
voce. Ma gli abitanti del villaggio si allontanavano sempre
quando capivano che lui lavorava per il medico. Se anche
capivano che Adair era solo come un cane e che avrebbe fatto di
tutto per parlare con qualcuno, non si muovevano a compassione
e facevano in modo che il baratto fosse rapido e senza fronzoli.
All’incirca in quel periodo, qualcosa cambiò nel rapporto tra
Marguerite e Adair, con estrema vergogna di quest’ultimo. Un
pomeriggio, quando si era appena svegliato e si stava
rivestendo, lei si era avvicinata al suo letto e aveva iniziato a
toccarlo. Senza attendere incoraggiamenti, lo aveva spinto di
nuovo sulla paglia, palpandogli il petto sotto la tunica, poi gli
aveva infilato le mani nei pantaloni. Dopo avergli provocato
un’erezione, si era sollevata le gonne impolverate e si era
accucciata su di lui. Non c’era alcuna delicatezza nei suoi
movimenti, né in quelli di Adair. Nessuna pretesa che fosse altro
che uno sfogo meramente fisico per entrambi. Mentre stringeva
la sua carne fra le mani, Adair cercava di immaginare che
Marguerite fosse la sua Katarina, ma non c’era modo di
ingannarsi fino a quel punto: quella donna era grossa quanto un
orso, Katarina invece era esile e delicata, e aveva occhi scuri e
incantevoli. Quando tutto finì, Marguerite emise un suono
gutturale allontanandosi da Adair, si abbassò le gonne e riprese
le sue solite faccende.
Lui rimase sul letto di paglia, lo sguardo perso nel soffitto,
chiedendosi se il medico li avesse sentiti e, in caso affermativo,
quale sarebbe stata la sua reazione. Forse anche lui sfogava i
suoi appetiti con Marguerite... No, era impossibile. Adair
immaginò che il vecchio si rivolgesse a qualche giovane
sprovveduta del villaggio per soddisfare i suoi pruriti, durante le
sue escursioni notturne. Forse nel tempo anche lui avrebbe
potuto fare lo stesso. Per il momento, a quanto pareva quello
doveva essere il suo strano stile di vita; per lo meno, non era
estenuante come il lavoro nei campi e poi c’erano le promesse di
un miglioramento della sua situazione, se fosse riuscito a
convincere il vecchio a insegnargli le arti mediche. Anche se
Adair sentiva ancora terribilmente la mancanza della sua
famiglia, trovava un conforto nella routine e nella promessa di
un futuro migliore. Decise perciò di rimanere ancora lì per un
po’, a vedere che cosa il destino avesse in serbo per lui.
20
Dopo aver passato mesi al servizio del medico senza avere
alcun contatto con altre persone a parte il vecchio e Marguerite,
giunse finalmente la notte in cui Adair avrebbe fatto la sua prima
visita al castello. Non che Adair ci tenesse particolarmente a
entrare nella fortezza di un nobile rumeno. Provava soltanto
odio nei confronti di quei maledetti che avevano razziato i
villaggi magiari, distrutto le case della sua gente ed espropriato
le loro terre. Tuttavia, non poteva fare a meno di provare una
certa curiosità; Adair non era mai stato nell’abitazione di un
uomo ricco, non era mai entrato dentro le mura di un castello,
aveva sempre e solo lavorato nei campi. Pensò di poterlo
sopportare se fosse riuscito a immaginarsi che il proprietario del
castello fosse magiaro, non rumeno. Allora avrebbe potuto
ammirare le stanze sontuose e gli orpelli lussuosi.
Il suo incarico quella notte era trasportare un grosso barattolo
contenente una pozione che avevano preparato la sera
precedente. Come al solito, lo scopo della pozione gli era stato
tenuto segreto. Adair attese vicino alla porta mentre il medico si
affaccendava a cercare la veste migliore. Alla fine scelse una
tunica ricamata con fili d’oro e trapuntata di gemme colorate, a
testimonianza del fatto che si trattava di un’occasione speciale.
Il medico cavalcò il suo destriero e Adair arrancò dietro di lui,
tenendo l’urna sulla schiena come se fosse una donna anziana
che non riusciva più a camminare dritta. Il minaccioso ponte
levatoio sopra il fossato fu abbassato per consentire il loro
passaggio, e furono scortati fin dentro un ampio salone da una
squadra di soldati del conte. C’erano guardie allineate lungo le
pareti.
Era in corso una festa nel salone. Il medico raggiunse il conte
a capotavola e Adair si accucciò in fondo alla stanza, contro una
parete, ancora abbracciato all’urna. Riconobbe alcuni degli
emblemi sugli scudi appesi alle pareti; appartenevano alle tenute
per cui aveva lavorato in passato. Il dialetto del conte gli era
familiare, ma Adair non riusciva a capire di che cosa stessero
parlando perché usavano troppe parole rumene. Anche un
sempliciotto come Adair comprese che cosa significava quella
combinazione di fatti: il conte era originariamente un magiaro,
ma si era alleato con gli oppressori rumeni per salvare la propria
vita e le proprie ricchezze. Ecco perché gli abitanti del villaggio
evitavano lo stesso Adair: probabilmente credevano che anche
lui fosse un traditore, un simpatizzante rumeno.
Aveva appena raggiunto questa conclusione quando il
vecchio gli chiese di avvicinarsi con l’urna. Adair gliela portò.
Poi, allontanato con un cenno della mano da parte del medico,
tornò nell’angolo. Il medico sollevò il panno cerato affinché il
conte potesse esaminare il contenuto dell’urna. Il nobile chiuse
gli occhi e inspirò profondamente, come se quelle esalazioni
pestilenziali fossero dolci come un campo di fiori selvatici. I
cortigiani del conte presero a ridere e gioire, come se sapessero
che stava per succedere qualcosa di eccitante. Adair trattenne il
fiato alla prospettiva di poter finalmente capire lo scopo di
almeno una delle pozioni misteriose. Di colpo, lo sguardo del
vecchio lo trafisse.
«Credo che il ragazzo non debba stare qui; questo posto non
fa per lui» disse a una delle guardie. «Forse potete trovare un
modo migliore di impiegare il suo tempo, insegnandogli un paio
di cose sull’arte militare. Potrebbe trovarsi a dover difendere
questo castello, un giorno, o quantomeno a salvare la mia
vecchia e inutile pelle.» Adair fu condotto via in mezzo a risate
di scherno e portato in un cortile dove alcune guardie oziavano.
Non erano né cavalieri né soldati professionisti, ma semplici
guardie. Comunque, erano molto più esperti di Adair nell’uso
della spada e della lancia. Con la scusa di fargli fare pratica, per
due ore si divertirono un mondo a massacrarlo, mentre lui
cercava di difendersi con quelle armi poco familiari. Quando gli
fu consentito di rientrare nel salone del conte, le braccia gli
dolevano per tutti gli affondi con la spada spuntata, la più
pesante che le guardie avessero trovato, ed era pieno di lividi e
graffi.
La scena nel grande salone non era quella che si era atteso. Il
conte e i suoi vassalli sembravano semplicemente ubriachi,
ondeggiavano sulle sedie o erano caduti a terra, con gli occhi
chiusi e un sorriso istupidito sul volto, i corpi abbandonati,
rilassati. Notarono a malapena il congedo del medico, che
condusse Adair attraverso il cortile. Nell’alba grigia,
attraversarono da soli il ponte levatoio e si inoltrarono nella
foresta. Adair arrancò dietro il cavallo del vecchio ed era così
stanco da essere grato di non doversi riportare in spalla l’urna.
Il mistero delle arti del medico a poco a poco iniziò a
occupare i pensieri di Adair. Da un lato, Adair era grato di avere
un posto asciutto e caldo in cui dormire e non dover più lavorare
fino allo sfinimento e, un giorno, alla morte precoce nei campi.
A differenza di tutta la sua famiglia, aveva tre pasti al giorno e
mangiava tutto quello che poteva: stufato, uova, di tanto in tanto
carne alla brace. Aveva una compagna di letto, perciò non c’era
rischio che l’astinenza forzata lo facesse impazzire. Dall’altra
parte, però, Adair non poteva fare a meno di vedere tutto questo
come un patto col diavolo, anche se era stato stretto contro la sua
volontà: c’era un prezzo da pagare per una vita relativamente
agiata come quella che stava facendo. E Adair sentiva che presto
gli sarebbe stato presentato il conto.
Una sera, ricevette il primo segnale del pagamento dovuto. Il
medico condusse Adair e Marguerite nei boschi. Camminarono
a lungo, e siccome non avevano nient’altro da fare se non
mettere un piede davanti all’altro, Adair ne approfittò per
rivolgere qualche domanda al vecchio.
«Posso chiedervi, padrone, perché lavorate sempre e solo di
notte?» domandò, assicurandosi di sembrare il più timido e
ingenuo possibile.
Sulle prime il vecchio grugnì e basta, come se non la
ritenesse una domanda degna di risposta. Ma dopo qualche
attimo – perché in fondo chi non ama parlare di sé, per quanto
possa essere stupida la domanda? – si schiarì la voce per
rispondere. «È una questione di abitudine, immagino... Questo è
il tipo di lavoro che è meglio svolgere lontano dagli occhi
indiscreti delle altre persone.» Il medico respirava con più
affanno, ora, perché stavano percorrendo un leggero pendio;
riprese a parlare solo quando arrivarono in cima. «Il fatto è,
Adair, che questo è un lavoro che si deve fare di notte perché la
notte è potente, capisci? È dall’oscurità che queste pozioni
traggono la loro forza.» Lo disse con estrema noncuranza, come
se fosse un fatto noto a tutti, e Adair capì che avrebbe soltanto
dimostrato la propria ignoranza se avesse chiesto ulteriori
spiegazioni, quindi si azzittì nuovamente.
Alla fine giunsero in un posto così selvaggio e fitto di
vegetazione che pareva che nessun essere umano ci avesse mai
posato gli occhi. Attorno alle radici dei pioppi e dei larici
proliferava una strana pianta con larghe foglie a forma di
ventaglio appese a steli nodosi che svettavano nell’erba, come a
rivolgere un saluto al trio di visitatori di quella notte.
Il medico indicò a Marguerite di seguirlo. La condusse vicino
a una delle piante, le fece mettere le mani attorno a una di esse e
le segnalò di attenderlo lì immobile. Poi si allontanò da lei,
chiamando Adair e dicendogli di seguirlo. Si allontanarono fino
a quando la governante non fu quasi scomparsa nell’oscurità;
soltanto il suo grembiule bianco splendeva alla luce della luna.
«Copriti bene le orecchie e stai attento, altrimenti ne pagherai
le conseguenze» spiegò a Adair. Poi indicò a gesti a Marguerite
di tirare forte, e lei eseguì, facendo leva con tutto il suo peso in
un unico movimento. Nonostante avesse le mani premute sulle
orecchie, Adair ebbe la netta impressione di sentire un lamento
sfuggire dalla pianta quando le sue radici furono strappate dal
terreno. A quel punto Adair guardò il medico e abbassò le mani,
sentendosi in imbarazzo.
Marguerite trotterellò come un cane al seguito del padrone e
li raggiunse, portando con sé la pianta. Il medico gliela tolse
dalle mani e spazzò via il terriccio dalle radici sottili. «Sai di che
cosa si tratta?» chiese a Adair mentre ispezionava la spessa
protuberanza a cinque punte, più grande del palmo di una mano
di un uomo adulto. «È una radice di mandragola. Vedi che è a
forma di essere umano? Queste sono le gambe, queste le braccia
e questa qui è la testa. Hai sentito il suo urlo quando lei l’ha
strappata dalla terra, vero? È un suono che può uccidere chi lo
sente.» Il medico agitò la radice verso Adair. In effetti sembrava
un uomo tozzo e un po’ deforme. «Ecco cosa devi fare quando ti
tocca raccogliere radici di mandragola: ricordatelo bene per
quando ti manderò a prenderne. Alcuni medici si servono di un
cane nero per tirar su le radici, ma quando sentono l’urlo i cani
muoiono, proprio come gli esseri umani. Per fortuna non
dobbiamo preoccuparci dei cani, visto che abbiamo Marguerite,
giusto?»
Adair non gradì che il medico lo coinvolgesse in quel
discorso canzonatorio su Marguerite. Si chiese, rosso di
vergogna, se il vecchio sapesse di loro due e se avesse scelto di
lasciare che Adair si comportasse così con lei. In effetti, il
medico avrebbe potuto fare paragoni con il modo brusco in cui
lui stesso trattava la governante, sfruttandola come un bue per
tirar fuori una radice dal terreno e, anche se era sordomuta, era
chiaro che lui aveva così poco riguardo per la vita altrui da non
curarsi per niente se lei moriva o meno estraendo le radici.
Certo, era anche possibile che l’urlo della mandragola non
potesse davvero ucciderla e che lui avesse raccontato quella
storia a Adair soltanto per spaventarlo. Ma Adair archiviò quello
scampolo di informazione sulla mandragola nella sua memoria,
insieme agli altri frammenti di saggezza che il medico aveva
condiviso con lui. Forse un giorno gli sarebbe tornato tutto utile.
Quel poco di emozione che Adair aveva inizialmente provato
per la sua nuova vita iniziò a evaporare a mano a mano che la
sua routine quotidiana fatta di silenzio e solitudine cominciò a
renderlo sempre più infelice. Ispezionò attentamente le bottiglie
e i barattoli nello studio del medico, poi esaminò tutto ciò che
c’era nella stanza più grande, fino a conoscere a menadito ogni
angolo del piano superiore del torrione. Aveva però conservato
sufficiente buon senso da non osare avventurarsi nel sotterraneo.
Senza chiedere il permesso del medico, però, Adair prese a
salire a cavallo il pomeriggio per osservare la campagna
circostante. Si diceva che era per il bene del cavallo, per
mantenerlo in forma dato che il medico lo cavalcava di rado. Ma
a volte, quando metteva diverse miglia fra sé e la sua piccola
prigione, sentiva una voce che lo induceva in tentazione,
suggerendogli di fuggire, di continuare a cavalcare senza mai
voltarsi indietro. In fondo, come avrebbe fatto il vecchio a
rincorrerlo senza un cavallo? A ogni modo, Adair sapeva anche
che con tutto il tempo che era passato da quando era arrivato al
torrione, non sarebbe stato in grado di rintracciare la sua
famiglia, e senza una famiglia da cui fare ritorno non aveva
alcun senso fuggire. Lì aveva cibo e un tetto sopra la testa. Se
fosse scappato, non avrebbe avuto niente e, per tutto il tempo
che ancora doveva al medico, sarebbe stato un fuggitivo. Dopo
interminabili momenti passati a osservare tutte le strade che
conducevano lontano dalla sua piccola prigione, sebbene con
riluttanza faceva voltare il cavallo e tornava al torrione.
Tuttavia, col tempo, Adair iniziò a pensare che il medico lo
stesse prendendo a cuore. La notte, quando lavoravano a una
pozione, sorprendeva il medico a guardarlo meno duramente del
solito. Il medico iniziò a spiegare a Adair qualcosa in più sui
contenuti dei barattoli, mentre sbriciolava semi essiccati o
divideva le erbe da conservare. Rivelava i nomi delle piante più
strane e le loro proprietà. Era imminente una seconda visita al
castello, un appuntamento che sembrava interessare
particolarmente al medico, che si strofinava contento le mani
mentre camminava nervosamente per la stanza.
«Abbiamo un nuovo ordinativo dal conte, e dobbiamo
iniziare i preparativi stanotte stessa» spiegò smanioso mentre
Adair appendeva il mantello del vecchio a un gancio sulla porta.
«Iniziare cosa, padrone?» chiese Adair.
«È una richiesta speciale da parte del conte. Si tratta di un
compito molto difficile, ma ho già fatto qualcosa di simile in
passato.» Percorreva a grandi falcate le assi del pavimento,
raccogliendo barattoli di ingredienti per posarli sul tavolo da
lavoro. «Prendi il calderone più grande e ravviva il fuoco, si sta
spegnendo.»
Adair osservava dal focolare. Come prima cosa, il medico
selezionò un foglio in particolare fra le sue ricette scritte a mano
e lo rilesse velocemente, poi lo appoggiò a un barattolo per
poterlo consultare agevolmente. Mentre misurava gli ingredienti
e li gettava nel calderone che si stava riscaldando, di tanto in
tanto lanciava occhiate di controllo al foglio con la formula. Tirò
giù dagli scaffali ingredienti che non aveva mai usato prima.
Strani pezzi di animali: musi avvizziti, lembi di pelle
incartapecorita, grumi di carne mummificata. Polveri, cristalli
scintillanti bianchi come l’avorio o gialli come il rame. Misurò
una precisa quantità d’acqua e la versò, poi chiese a Adair di
appendere il pesante calderone allo spiedo sopra il fuoco.
Quando l’acqua iniziò a bollire, il medico prese una manciata di
polvere gialla da una fiala e la gettò sul fuoco: si infiammò in
una vampata di fumo, emettendo l’inconfondibile odore di
zolfo.
«È la prima volta che vedo questa pozione, vero, padrone?»
chiese Adair.
«Esatto.» Fece una pausa. «È una pozione che rende
invisibile chiunque la beva.» Studiò il volto di Adair in cerca di
una reazione. «Che cosa ne pensi, ragazzo? Pensi che una cosa
simile sia possibile?»
«Non ho mai sentito niente del genere.» Ormai aveva
imparato che era meglio non contraddire esplicitamente il
vecchio.
«Forse potrai constatarlo con i tuoi occhi. Il conte ha
intenzione di far bere questa pozione ai suoi uomini migliori,
che diventeranno invisibili per una notte. Riesci a immaginare
che cosa possa portare a compimento un esercito che non può
essere visto da nessuno?»
«Sì, padrone» rispose Adair e da quel momento in poi iniziò a
guardare le pozioni e gli incantesimi del medico sotto una luce
diversa.
«Bene. Adesso vedi di tener d’occhio il calderone e lascia che
evapori tutta l’acqua, come hai già fatto altre volte. Quando sarà
evaporata, devi togliere il calderone dal fuoco e lasciarlo
raffreddare. A quel punto potrai andare a dormire, non prima.
Questi ingredienti sono rari e di alcuni erano le ultime porzioni
rimaste, perciò non ci possiamo permettere di rovinare tutto, è
chiaro? Controlla ogni cosa con attenzione» disse voltandosi per
scendere le scale. «Vedrò se hai fatto tutto bene al tramonto.»
Adair non ebbe alcun problema a rimanere sveglio quella
notte. Rimase seduto a schiena dritta contro la dura pietra del
muro, alle prese con la consapevolezza che il vecchio aveva
preso in giro sia lui sia suo padre. Non era un medico, ma un
alchimista, forse un negromante. Non c’era da meravigliarsi che
gli abitanti del villaggio gli stessero alla larga. Non era soltanto
perché era al servizio di un traditore come il conte. Avevano tutti
paura del vecchio, e con buone ragioni: probabilmente era in
combutta col diavolo. Dio solo sapeva che cosa sospettassero sul
conto di Adair.
La pozione non era come tutte le altre e impiegò tantissimo a
rassodarsi. Solo verso l’alba l’acqua era sufficientemente
evaporata. Ma nelle ultime ore della notte, osservando un tenue
filo di vapore sollevarsi dal calderone, lo sguardo di Adair
continuò a tornare sulla risma di fogli scritti a mano sulla
scrivania. Di certo in quella pila c’erano formule molto più
interessanti – e profittevoli – di quella per ottenere l’invisibilità
per una notte. Il vecchio probabilmente sapeva come preparare
filtri amorosi infallibili e amuleti capaci di procurare ricchezza e
potere a chi li possedesse. E di certo qualsiasi alchimista sapeva
come trasformare il ferro in oro. Anche se Adair non sapeva
leggere le formule, non dubitava di poter scovare qualcuno che
lo sapesse fare in cambio di una percentuale dei ricavi.
Più ci pensava più si infervorava. Avrebbe potuto nascondere
i fogli nella manica della sua veste e sgusciare oltre Marguerite,
che da un momento all’altro si sarebbe alzata. Poi avrebbe
camminato tutto il giorno, allontanandosi più che poteva dal
torrione. Considerò brevemente l’idea di prendersi il cavallo, ma
lì il suo coraggio si fermò. Rubare un bene prezioso come un
cavallo era un reato capitale. Il vecchio avrebbe potuto
reclamare legalmente la vita di Adair. Ma le formule... Anche se
il vecchio fosse riuscito a rintracciare il suo servitore,
probabilmente non avrebbe mai osato condurlo a giudizio
davanti al conte. Il medico non avrebbe mai voluto che gli
abitanti del villaggio venissero a sapere quanto in realtà fosse
potente, o che il suo sapere esoterico era scritto su fogli che
potevano essere rubati o distrutti.
Adair sentì il cuore martellargli il petto, in un crescendo,
finché non divenne impossibile ignorare la tentazione. Fu quasi
un sollievo cedere.
Adair arrotolò stretti tutti i fogli che osò prendere e se li infilò
su per la manica. Proprio in quel momento Marguerite iniziò ad
agitarsi. Prima di uscire, tolse il calderone dallo spiedo e lo
lasciò a raffreddarsi sul focolare spento. Una volta fuori, scelse
un percorso che conosceva bene, che l’avrebbe condotto in
territorio ungherese, a una fortezza che i rumeni avrebbero
esitato parecchio ad assaltare. Camminò per ore, maledicendo la
propria impetuosità, perché non aveva pensato a portarsi dietro
delle provviste. Quando avvertì i primi sintomi di debolezza, e il
sole iniziava a levarsi in cielo, decise di aver camminato
abbastanza e si rifugiò in un granaio nel mezzo di un campo. Era
un posto desolato, immerso nel nulla, non c’era nemmeno
bestiame in vista. Adair ritenne di essere giunto a distanza di
sicurezza, nessuno sarebbe venuto a cercarlo lì. Si addormentò
nel fieno da uomo libero.
Fu svegliato da una mano stretta alla gola, che lo costrinse ad
alzarsi in piedi e poi, inspiegabilmente, lo sollevò da terra.
All’inizio Adair non vide chi fosse l’aggressore perché era notte
fonda, ma quando i suoi occhi misero a fuoco, la sua mente si
rifiutò di credere a ciò che vedeva. L’uomo che lo stava tenendo
era magro... avvizzito... ma in meno di un minuto Adair capì che
era il vecchio. Lo capì dal suo odore, un misto di zolfo e
putrescenza.
«Ladro! È così che ricambi la mia ospitalità? È così che
ricambi la mia fiducia?» urlò il medico con voce rabbiosa, poi
scagliò Adair a terra con tale forza che lo spedì sul fondo del
granaio. Prima che quest’ultimo riuscisse a riprendere fiato, il
vecchio gli era di nuovo addosso. Lo afferrò per le spalle e,
ancora una volta, lo sollevò da terra come se niente fosse. Adair
era in preda al dolore e alla confusione: il medico era un
anziano; come poteva un vecchio debole come lui sollevarlo da
terra con tanta facilità? Doveva essere un’illusione,
un’allucinazione indotta dal colpo alla testa. Adair ebbe un solo
minuto per pensarci prima che il vecchio lo scagliasse di nuovo
a terra per poi iniziare a colpirlo e scalciarlo. I colpi erano
tremendamente pesanti. La testa di Adair rimbombò di fitte di
dolore e per un attimo il ragazzo ebbe la certezza di essere sul
punto di svenire. Sentì che il vecchio lo sollevava e lo
trasportava sulle spalle, avvertì l’aria sibilare tutto attorno a sé.
Stavano viaggiando a una velocità impressionante, a cavallo, ma
gli sembrava impossibile che il vecchio destriero fosse capace di
raggiungere tali velocità. Doveva essere tutta un’illusione, si
disse, prodotta da qualche elisir che il vecchio lo aveva costretto
a bere mentre era svenuto. Era una cosa troppo diabolica, troppo
spaventosa per essere reale.
Ancora intontito, Adair sentì l’aria rallentare e i loro corpi
riprendere il proprio peso. Poi lo assalirono gli odori: l’umidità
muschiosa del torrione, i residui di erbe bruciate e di zolfo che
ancora permeavano l’aria. Un terrore cieco si impadronì di lui.
Cadendo per terra, dischiuse appena gli occhi e sprofondò nella
disperazione quando vide che, sì, era davvero tornato nel
torrione, era davvero tornato nella sua prigione.
Il vecchio gli si avvicinò. Ma era diverso: forse era
un’illusione ottica, dovuta alla sua posizione, ma gli sembrò più
alto e più minaccioso, per nulla simile al vecchio medico che
conosceva. La mano dell’uomo scattò ad afferrare l’attizzatoio.
Poi si allungò per prendere la coperta malconcia dal letto di
paglia di Adair. Lentamente, deliberatamente, il vecchio avvolse
la coperta attorno all’attizzatoio e poi si avvicinò ancora di più a
Adair.
Adair vide il braccio alzarsi, ma distolse lo sguardo quando
l’attizzatoio calò su di lui. La coperta attutì il colpo, impedendo
al ferro di spezzare le ossa al ragazzo. Ma quei colpi erano di una
violenza che Adair non aveva mai provato prima, ben diversi dai
pugni e dagli schiaffi che aveva preso da suo padre, tutt’altra
cosa rispetto alle nerbate o le cinghiate. La sbarra di ferro
schiacciò i muscoli, frollandogli la carne fino a entrare in
contatto con le ossa. Si abbatté su di lui ancora, e ancora, e
ancora, sulla schiena, sulle spalle, sulla spina dorsale. Adair
rotolò cercando di sfuggire ai colpi, ma l’attizzatoio lo raggiunse
comunque sul costato, sullo stomaco, sulle gambe. Presto il
ragazzo non sentì neppure più il dolore, incapacitato a muoversi,
persino a rabbrividire mentre i colpi continuavano a piovergli
addosso. Respirare era straziante, perché vampate di dolore
incandescente gli aggredivano le costole a ogni respiro, e gli
organi gli sembrarono liquefarsi come per la forza di un
incendio. Stava morendo, ne era sicuro. Il vecchio l’avrebbe
picchiato a morte.
«Potrei tagliarti una mano, sai? È così che si puniscono i
ladri. Ma a che cosa mi serviresti poi con una mano sola?» Il
medico rimase in piedi, rigido, gettando finalmente da parte
l’attizzatoio. «Forse ti mozzerò la mano quando avrai finito di
servirmi, così che tutti sappiano che razza di ladro sei. O forse
non ti libererò quando saranno trascorsi i sette anni che mi devi.
Forse ti terrò per altri sette, come punizione per il tuo crimine.
Come hai potuto pensare di sfuggirmi e di potermi portar via ciò
che mi appartiene?»
Le sue parole non fecero alcuna differenza. Il vecchio si
illudeva, pensò Adair, a pensare che il suo servo sarebbe
sopravvissuto. Non sarebbe arrivato vivo all’alba, figuriamoci
altri sette anni. Un fiotto liquido gli percorse gli intestini e gli
organi interni, risalendogli su per la gola, nella bocca. Il sangue
gli sgorgò dalle labbra, finendo sul pavimento di legno per poi
strisciare verso i piedi del vecchio in un rivolo denso e scuro. Gli
usciva sangue da ogni orifizio.
Adair sbatté gli occhi. Il vecchio aveva smesso di parlare e lo
stava fissando con quello sguardo penetrante che gli era proprio.
Si chinò, strisciando sul pavimento verso il ragazzo, come una
lucertola o un serpente, attaccato a terra, finché non fu addosso a
Adair, con la bocca aperta, la lingua in fuori che ondeggiava,
esplorava. Intinse un dito lungo e ossuto nel rivolo di sangue che
usciva dalla bocca di Adair. Un lungo filamento rosso colò dalla
punta del dito mentre se lo portava alla bocca e lo leccava. Si
passò la lingua sui denti e un leggero sospiro di piacere gli
sfuggì dalle labbra. A quel punto Adair perse i sensi e fu grato
per questo. Ma l’ultima cosa che vide, mentre perdeva
conoscenza per quella che, ne era sicuro, sarebbe stata l’ultima
volta, furono le dita del vecchio che gli carezzavano il volto e si
infilavano nei suoi capelli intrisi di sudore e di sangue.
21
Quella mattina, Marguerite trovò Adair in condizioni orribili.
Il corpo del ragazzo si era preparato a morire, quella notte: le sue
viscere si erano svuotate, il sangue aveva inzuppato i suoi vestiti
ed era colato sul pavimento, tanto che la schiena si era attaccata
a terra e la governante dovette impiegare numerosi stracci
imbevuti di acqua calda per riuscire a liberarlo.
Giacque sul pagliericcio privo di conoscenza per parecchi
giorni e quando si svegliò scoprì di essere cosparso di macchie
nere e violacee, gialle e verdognole ai bordi, e che la pelle gli
faceva male soltanto a sfiorarla. Ma in qualche modo Marguerite
lo aveva ripulito da tutto il sangue ed era riuscita a mettergli
addosso una vestaglia pulita.
Adair continuò a riprendere conoscenza per poi perderla, con
pensieri incoerenti che gli danzavano in mente. Ci fu anche un
momento orribile in cui gli parve di sentire che qualcuno lo
stava toccando, che delle dita gli stavano sfiorando il volto, le
labbra. Un’altra volta gli sembrò che qualcuno lo facesse girare
a pancia in giù e gli alzasse la vestaglia sulla schiena. Forse era
Marguerite che lo puliva delicatamente, perché era
impossibilitato ad alzarsi per usare il pitale. Non riusciva a
muoversi e a fare resistenza, non poté far altro che accettare
quella violazione della sua intimità, vera o immaginata che
fosse.
L’olfatto fu il primo senso a ricominciare a funzionare e
Adair iniziò a riconoscere gli odori nell’aria, filtrati dal sapore
metallico che sentiva sulla lingua, dovuto al sangue, e dal sapore
gelatinoso del sego bovino. Quando aprì gli occhi, e ci volle
qualche secondo prima che riuscisse a mettere a fuoco, prima di
avere la certezza di non essere diventato cieco, ciò che lo
circondava divenne reale e il dolore lo assalì nuovamente. Le
costole gli dolevano, il ventre sembrava ridotto in poltiglia e le
viscere liquefatte, e ogni respiro gli provocava fitte lancinanti.
Ritrovò la voce solo perché non riuscì a impedirsi di urlare per la
sofferenza. Scostò le coperte, cercando inutilmente di alzarsi.
Marguerite si affrettò al suo capezzale e gli mise la mano
sulla fronte, poi gli mosse i piedi e le mani, per capire se i
movimenti gli provocavano fitte di dolore, segno di qualche
frattura, e se quindi era ancora in grado di muoversi o aveva
degli arti paralizzati. In fondo, a che cosa sarebbe servito se non
fosse stato più in grado di muovere una gamba o un braccio?
Gli portò del brodo e poi lo ignorò per il resto del pomeriggio
mentre svolgeva le solite faccende. A lui non rimase che giacere
lì a guardare il soffitto, misurando il trascorrere del tempo dallo
spostamento di un riquadro di luce dal soffitto giù su una parete,
contando alla rovescia le ore che lo separavano dal tramonto e
dal risveglio del vecchio. Adair trascorse quel tempo in preda al
terrore dell’attesa: sarebbe stato meglio morire la notte
precedente, pensò, piuttosto che svegliarsi in un corpo così
devastato. Quanto ci sarebbe voluto per riprendersi? si chiese.
Sarebbe stato ancora in grado di muoversi bene, una volta
guarite le sue ossa? Si sarebbero ricomposte bene le fratture o
sarebbe stato zoppo o gobbo per il resto della sua vita? Per lo
meno il suo volto sembrava essere stato risparmiato, non era
sfigurato da cicatrici. Nella sua furia, il vecchio non l’aveva mai
colpito alla testa; se l’avesse preso lì con l’attizzatoio, gli
avrebbe spaccato il cranio in due.
Quando il rettangolo di luce svanì, segnalando l’arrivo del
tramonto, Adair capì che il suo tempo era scaduto. Decise di
fingere di essere addormentato. Perfino Marguerite capì che
stava per succedere qualcosa e si affrettò a preparare il giaciglio
mentre il vecchio saliva le scale, ma il medico la interruppe,
prendendola per il braccio e indicando Adair, per chiederle
come stesse. La donna aveva visto Adair chiudere gli occhi e
ricadere nel sonno, per cui si limitò a scuotere il capo e se ne
andò a letto, tirandosi la coperta sulle spalle.
Il vecchio si avvicinò al letto di Adair e si accovacciò. Adair
cercò di mantenere il respiro regolare e calmo e di controllare il
tremito, in attesa di capire che cosa avrebbe fatto il vecchio. Non
dovette aspettare molto: la mano ossuta e gelida gli toccò le
guance, poi il pomo d’Adamo, per poi scivolargli sul petto,
velocemente, e fermarsi sul ventre piatto. Non fece altro che
sfiorare i suoi lividi, eppure Adair riuscì a stento a non
raggomitolarsi per il dolore.
La mano però non si fermò; passò sull’addome e poi ancora
più in basso, e Adair fu quasi sul punto di urlare dal male. In
qualche modo, però, riuscì a rimanere stoicamente immobile
quando le dita del vecchio trovarono quello che stavano
cercando e iniziarono a carezzare, a massaggiare, a muoversi
con decisione. Ma prima che il membro di Adair rispondesse
agli stimoli, le dita si ritirarono e, senza degnarlo di uno sguardo,
il vecchio aprì la porta del torrione e uscì nella notte.
Il panico che assalì Adair fu quasi sufficiente a indurlo ad
alzarsi dal letto, nonostante le sue condizioni. Fu assalito
dall’impellenza di fuggire ma non poteva, non riusciva a
controllare le braccia e le gambe non gli rispondevano
nemmeno. Il vecchio era molto più forte di quel che sembrava;
Adair era inerme al suo cospetto già quando era in piena salute;
in quelle condizioni sarebbe stata impossibile qualsiasi
resistenza. Umiliato e disperato, Adair si rese conto che non
c’era niente che potesse fare per salvarsi, non in quel momento.
Non poteva far altro che sopportare qualsiasi cosa il medico
decidesse di infliggergli.
Trascorse i giorni seguenti ripensando al lavoro che aveva
svolto per il medico, agli elisir e agli unguenti che aveva
preparato, chiedendosi se per caso fra di essi ci fosse qualcosa
che avrebbe potuto impiegare per difendersi. Erano progetti
senza speranza, anche se servirono per aiutarlo a memorizzare
gli ingredienti di quei potenti elisir: le dosi, quale odore
avessero, la consistenza. Ma non sapeva a che cosa servissero
tutte quelle misture. Tranne una. Quella dell’invisibilità.
Riuscì a fingere incoscienza per altri due giorni, poi il medico
scoprì il suo gioco. Gli saggiò gli arti e le giunture esattamente
come aveva fatto Marguerite, poi preparò una pozione e gliela
fece colare in bocca. Fu quell’elisir a scoprire il gioco di Adair,
perché era amara e bollente e gli provocò le convulsioni.
«Mi auguro che tu abbia imparato la lezione, così che dal tuo
inganno almeno ne venga fuori qualcosa di buono» ringhiò il
medico avvicinandosi alla scrivania. «E la lezione è questa: non
riuscirai mai a scappare da me. Ti troverò ovunque andrai. Non
potrai mai allontanarti abbastanza, non c’è posto al mondo in cui
tu possa nasconderti da me. La prossima volta che cercherai di
sfuggirmi con l’inganno e di sottrarmi un servizio per il quale ho
pagato o di rubare ciò che è mio e solo mio, questo piccolo
episodio, al confronto, ti parrà una punizione leggera. Se solo
avverto che sei sleale con me, ti incateno al muro di questo
torrione e tu non vedrai mai più la luce del giorno. Sono stato
chiaro?» Il vecchio non sembrava minimamente disturbato dallo
sguardo d’odio puro di Adair.
Dopo qualche settimana, Adair riuscì ad alzarsi dal letto e
zoppicare per la stanza con l’aiuto di un bastone. Siccome le
costole gli scricchiolavano ogni volta che tentava di alzare un
braccio, il ragazzo non poteva aiutare Marguerite nei suoi
mestieri, ma riusciva ad assistere il medico la sera. Comunque,
ogni conversazione fra di loro cessò: il vecchio abbaiava i suoi
ordini e Adair faceva in modo di uscire dal suo campo visivo
non appena li aveva eseguiti.
Dopo un paio di mesi, con dosi regolari della pozione
ustionante, Adair era guarito prodigiosamente, al punto tale che
riusciva a prendere l’acqua dal pozzo e a tagliare la legna.
Poteva correre, anche se non per molto, ed era sicuro di poter di
nuovo cavalcare, se si fosse presentata l’opportunità. A volte,
mentre raccoglieva erbe nella foresta e si spingeva fino al
limitare della collina, guardava l’ampia vallata verde e gli
balenava in testa la tentazione di riprovare a scappare. Non
desiderava altro che essere libero dalle grinfie del vecchio,
eppure... La nausea lo assaliva alla sola idea di essere punito di
nuovo e, pervaso da pensieri suicidi, tornava al torrione.
«Domani devi andare al villaggio e trovare una ragazza molto
giovane. Dev’essere vergine. Non devi chiedere informazioni a
nessuno, e fai in modo di non attirare l’attenzione. Limitati a
individuare la ragazza, poi torna e dimmi dove abita.»
Il panico lo prese alla gola. «Come faccio a sapere se una
ragazza è vergine? Devo forse esaminarle...»
«Ovviamente devi trovarne una molto, molto giovane. Ma,
come per ogni esame, sarò io a farlo» disse con tono raggelante.
Il vecchio non gli diede altre spiegazioni e, ormai, Adair non
ne aveva bisogno. Sapeva per certo che ogni ordine del medico
era animato dal male più assoluto, ma non poteva certo opporsi.
Di solito, recarsi al villaggio era una rara distrazione: poteva
cogliere scampoli di vita familiare, anche se non della sua
famiglia... Ma quel viaggio evocava soltanto cattivi presagi.
Giunto al villaggio, Adair indugiò vicino alle case cercando di
non farsi notare, per spiare gli abitanti. Ma era un piccolo
villaggio e loro lo conoscevano. Non appena individuava dei
bambini che giocavano o svolgevano qualche incombenza
domestica, i genitori li portavano via o gli rivolgevano occhiate
minacciose.
Temendo la reazione del medico al suo fallimento, Adair
prese un sentiero che non conosceva per tornare indietro al
torrione, sperando che gli portasse fortuna. La strada lo
condusse a una radura in cui, con sua somma sorpresa, si
trovavano alcuni carrozzoni non molto diversi da quello in cui
aveva vissuto con la sua famiglia. Un gruppo di zingari era
giunto al villaggio e il cuore di Adair si gonfiò di speranza; forse
la sua famiglia era venuta a cercarlo. Ma aggirandosi fra i
braccianti, si accorse di non conoscerne nessuno. C’erano
bambini di tutte le età, comunque, maschietti con le guance
rosee e femminucce dal viso grazioso. E poiché lui era della
stessa razza, poteva mescolarsi liberamente a loro, anche se
nessuno lo conosceva.
Sarebbe davvero riuscito a compiere un atto così diabolico?
si chiese, col cuore che gli rimbombava nelle orecchie,
scrutando i volti che lo circondavano. Stava per darsi alla fuga,
sopraffatto dalla ripugnanza verso se stesso – come poteva
scegliere la vittima da consegnare nelle mani di quel mostro? –
quando andò a sbattere contro una bambina, una ragazzina che
gli ricordò tantissimo la sua Katarina, la prima volta che l’aveva
incontrata. La stessa pelle bianca come il latte, gli stessi occhi
scuri e penetranti, lo stesso sorriso attraente. Fu come se fosse
stato il fato a prendere la decisione, non lui. L’istinto di
sopravvivenza prevalse.
Il medico si rallegrò alla notizia e diede ordine a Adair di
tornare all’accampamento degli zingari quella sera, quando tutti
dormivano, prendere la ragazza e portargliela. «È un segno del
destino, no?» lo derise il vecchio, pensando che forse Adair
avrebbe così accettato meglio quello che stava per fare. «La tua
gente ti ha venduto, ti ha cacciato via senza un attimo di
esitazione. Adesso hai l’occasione di vendicarti.»
Ma invece di convincere Adair che era suo pieno diritto
rapire la ragazza, quel ragionamento non fece altro che farlo
infuriare. «Perché vi serve quella ragazza, padrone? Che cosa ne
farete di lei?»
«Non hai alcun diritto di pensare. Devi soltanto obbedire»
ringhiò il vecchio in risposta. «Hai appena cominciato a guarire,
giusto? Sarebbe un peccato romperti di nuovo le ossa.»
Il ragazzo pensò di pregare Dio perché intervenisse, ma in
quel momento le preghiere erano inutili. Adair aveva tutte le
ragioni di credere che lui e la ragazza fossero condannati dal fato
e che niente avrebbe potuto salvarli. Perciò attese la sera e tornò
all’accampamento. Passò di carrozzone in carrozzone, spiando
dalle finestre o dal riquadro di vetro delle porte finché non
individuò la ragazza, che dormiva accoccolata come un gattino
su una coperta. Trattenendo il fiato, aprì la porta, entrò e prese la
ragazza, quasi sperando che urlasse e svegliasse i genitori, anche
se ciò avrebbe voluto dire che sarebbe stato colto sul fatto. Ma la
ragazzina continuò a dormire fra le sue braccia, come in preda a
un sortilegio.
Adair corse via. Dall’accampamento non provenne alcun
rumore: nessun passo, nessun suono di alcun tipo dall’interno
del carrozzone dei genitori, nessun allarme dall’accampamento.
La ragazza iniziò ad agitarsi fra le sue braccia e Adair non trovò
di meglio da fare per acquietarla che stringerla ancora più stretta
al cuore che sembrava scoppiargli in petto, sperando così di
calmarla. Rimpiangendo di non avere il coraggio di disobbedire
agli ordini demoniaci del vecchio, Adair attraversò di corsa i
boschi, piangendo per tutto il tempo.
Eppure, quando fu in vista del torrione, un coraggio nato
dalla disperazione si impossessò di lui. Non poteva portare a
compimento quell’ordine, non gli importava come avrebbe
pagato la sua disobbedienza. I piedi rallentarono l’andatura,
quasi di volontà propria, e in pochi passi aveva fatto dietrofront.
Quando raggiunse il limitare della radura, la ragazza si era
svegliata, anche se restava in silenzio, con una strana
espressione di fiducia in volto. Adair la calò gentilmente a terra
e si inginocchiò di fianco a lei.
«Torna dai tuoi genitori. Di’ loro che devono andar via
subito, immediatamente, da quel villaggio. C’è un male oscuro
all’opera qui, e una disgrazia si abbatterà su di voi se non seguite
il mio avvertimento» le disse.
Lei alzò una mano e gli sfiorò le lacrime sulle guance. «A
nome di chi devo portar loro questo messaggio?»
«Il mio nome non è importante» rispose lui, ben sapendo che
se anche gli zingari avessero conosciuto il suo nome e fossero
tornati a cercarlo, con l’intenzione di punirlo per essersi
introdotto di nascosto nel loro accampamento per rapire una
bambina, non l’avrebbero certo trovato. A quel punto, sarebbe
già stato ucciso.
Adair rimase inginocchiato nell’erba e guardò la ragazzina
correre indietro, verso il suo carrozzone. Avrebbe voluto correre
anche lui, correre verso la foresta e continuare a correre, ma
sapeva che non sarebbe servito a niente. Tanto valeva tornare al
torrione e accettare la sua punizione.
Quando Adair aprì la porta del torrione, trovò il vecchio
seduto alla sua scrivania. L’aspettativa dipinta sul volto del
medico lasciò subito il posto alla solita espressione di disprezzo
e delusione quando si rese conto che Adair era da solo.
Il medico si alzò e all’improvviso sembrò più alto e
imponente, come una quercia. «Mi hai deluso, a quanto pare.
Non posso dire di essere sorpreso.»
«Sarò anche il vostro schiavo, ma non sarò mai un assassino.
Non lo farò mai!»
«Sei ancora debole, molto debole. Sei un codardo. Ho
bisogno che tu sia più forte di così. Se fossi convinto che non
potrai mai esserlo, ti ucciderei stanotte stessa. Ma non ne sono
convinto. Non ancora, almeno... Perciò, stanotte non ti ucciderò,
no. Mi limiterò a punirti.» Il medico colpì il suo servitore con
tanta forza che Adair cadde a terra e svenne. Quando tornò in sé,
si rese conto che il vecchio gli teneva sollevato il capo e gli
puntava un calice alla bocca.
«Bevilo.»
«Cos’è, veleno? È così che mi ucciderete?»
«Ti ho già detto che non ti ucciderò stanotte. Questo non vuol
dire che io non abbia altri piani in mente. Bevilo!» ripeté con
forza, guardandolo con occhi di brace mentre Adair sbirciava
dentro la tazza. «Bevilo e non sentirai dolore.»
Adair avrebbe bevuto volentieri del veleno, a quel punto,
perciò inghiottì il liquido che il medico gli versò in bocca. Una
strana sensazione lo pervase rapidamente, non troppo diversa
dallo stordimento che gli avevano provocato le pozioni curative
del vecchio. Iniziò con un formicolio agli arti, poi in tutto il
corpo. Impossibilitato a controllare i propri muscoli, Adair si
abbandonò a terra, le palpebre pesanti come se fosse in preda
alla paralisi, il respiro affannato. Quando il formicolio giunse
alla nuca, un ronzio assordante gli fece capire che stava per
accadere qualcosa di soprannaturale.
Il vecchio rimase in piedi davanti al suo servitore, valutando
la situazione con occhi gelidi, inquietanti. Poi Adair sentì che
veniva sollevato e portato via, avvertì il proprio corpo
rimbalzare a ogni passo. Giù, giù dalle scale, nel sotterraneo in
cui non era mai stato prima, nella camera del vecchio, e quando
si rese conto di dov’era Adair fu avvolto da un terrore cieco. Era
un posto freddo, l’aria era stantia. Una vera e propria prigione,
immonda. I vermi si aggrovigliavano negli angoli. Il vecchio
adagiò il giovane su un giaciglio, un vecchio materasso
maleodorante e ammuffito. Adair avrebbe voluto strisciare via,
ma era intrappolato in un corpo che non rispondeva ai suoi
comandi.
Per nulla imbarazzato, il vecchio salì sul letto e iniziò a
spogliare il suo prigioniero, alzandogli la veste sopra la testa,
slacciandogli la cintura. «Stanotte hai oltrepassato il limite. Da
stanotte, non ci sarà niente che non farai per me. Ti darai a me,
completamente, e non ti farai più stupide illusioni.» Abbassò le
brache del giovane e afferrò la biancheria che gli copriva
l’addome. Adair chiuse ancora una volta gli occhi. Il vecchio
frugò con le dita fra i suoi peli pubici. Adair si sforzò di
combattere l’erezione mentre il vecchio gli manipolava il pene.
Dopo quello che gli parve un lunghissimo tempo, il vecchio
mollò la presa e portò le mani al volto di Adair. Gli premette le
guance, poi la pelle sotto gli occhi. Il giovane cercò di opporsi
come poteva, narcotizzato com’era, a quell’orrenda violazione.
«Adesso, caro il mio stupido ragazzo... Se non mi obbedirai,
ti soffocherò. Devi pur respirare, dico bene?» Serrò una mano
sul naso di Adair, togliendogli l’aria. Adair trattenne il fiato più
che poté, chiedendosi nel suo stordimento se sarebbe soltanto
svenuto o forse morto... Ma, alla fine, i riflessi presero il
sopravvento e aprì la bocca in cerca d’aria. Quando la aprì, il
vecchio la violò. Grazie al cielo, la droga iniziò a rendere
incoerente l’orrore che gli stava accadendo e l’ultima cosa che
avrebbe ricordato in seguito sarebbe stata il vecchio che gli
diceva di sapere tutto dei suoi rapporti con Marguerite e che
sarebbero terminati. Non avrebbe più permesso che Adair
sprecasse la sua energia e il suo seme con un’altra persona.
22
La mattina dopo Adair si svegliò al piano superiore, sul suo
solito giaciglio di paglia, con i vestiti arruffati. La nausea lo
assalì subito, anche per via della droga che era stato costretto ad
assumere. Ricordava gli avvertimenti del vecchio, ma non aveva
alcuna idea delle libertà che si fosse preso in seguito. Ebbe la
tentazione di correre giù e di pugnalare a morte il vecchio nel
suo letto: l’idea gli balenò in mente per non più di un secondo.
Sapeva che era all’opera qualcosa di soprannaturale, di arcano: i
poteri del vecchio andavano oltre ogni ragionevole aspettativa e
quindi non sarebbe stato certo possibile ucciderlo così.
Trascorse il giorno tentando di trovare il coraggio di
scappare. Ma un terrore ormai familiare lo teneva incatenato a
quel luogo. Un dolore freddo e sordo alle ossa gli rammentava il
prezzo della disobbedienza. Perciò, quando il sole ebbe percorso
l’arco del cielo e iniziò a calare l’oscurità, Adair si accucciò in
un angolo, lo sguardo puntato verso la scalinata.
Il vecchio non fu sorpreso di trovare il suo servitore ancora lì.
Un ghigno feroce gli comparve in volto, ma non si avvicinò a
Adair. Si occupò delle sue faccende come al solito e poi prese il
mantello dal gancio. «Andrò al castello stanotte, per un incarico
speciale. Se sai cos’è meglio per te, se davvero l’hai capito, al
mio ritorno ti troverò qui.» Quando uscì, Adair si accasciò
accanto al focolare, rimpiangendo come non mai di non avere il
coraggio di gettarsi fra le fiamme.
La vita proseguì a quel modo per mesi e mesi. Le punizioni
corporali divennero una routine, anche se il vecchio non usò più
l’attizzatoio. Adair capì ben presto che i pestaggi non erano
legati a specifiche ragioni; era così sottomesso che non ve n’era
alcun motivo. Servivano soltanto per mantenerlo al suo posto e
perciò non sarebbero mai terminati. Anche le molestie
proseguirono, sporadicamente. Il medico faceva in modo che
Marguerite mettesse la droga nel cibo di Adair o nell’acqua per
agevolare la cosa, ma un giorno il giovane se ne accorse e iniziò
a rifiutare il cibo. A quel punto il vecchio lo picchiò e lo
costrinse a bere la pozione narcotizzante, fino a ridurlo
all’impotenza.
Poi anche la perversione del medico accelerò. Forse aveva
rotto qualche argine invisibile: ora che si abbandonava ad atti
così immorali ed empi, non c’era modo di fermarlo. O forse il
vecchio era sempre stato così. Adair si domandava se non avesse
ucciso il suo precedente servitore e non fosse andato a cercare
lui perché ne prendesse il posto. Il conte iniziò a mandare una
servetta al vecchio, di tanto in tanto, perché lui ne abusasse.
Qualche sfortunata ragazzina, catturata dagli uomini del conte
durante le loro razzie in territorio ungherese. La ragazza di turno
veniva condotta nel sotterraneo del medico e incatenata al letto.
Le sue urla salivano per tutto il giorno al piano superiore,
tormentando Adair, punendolo perché non scendeva nella tana
del medico a liberarla.
A volte, dopo che il vecchio era uscito per i suoi
vagabondaggi notturni, Marguerite mandava Adair di sotto con
del cibo per la povera prigioniera. La prima volta che accadde
non se la sarebbe dimenticata per il resto della sua vita.
Riluttante, si era introdotto quasi strisciando nella camera e
aveva visto la poveretta, nuda sotto le lenzuola, tremante di
terrore e incapace di rendersi conto della sua presenza. Non
chiese al giovane di liberarla. Paralizzata dalla paura, non si
avvicinò nemmeno al cibo. Adair si vergognò di scoprirsi
eccitato, lo sguardo impossibilitato ad allontanarsi dalle forme
femminili affusolate che si intuivano sotto le coperte, il ventre
piatto che si gonfiava e sgonfiava a ogni respiro intriso di
terrore. Nonostante la compassione per le sue disgrazie e gli
orribili ricordi di quanto era accaduto a lui stesso in quel letto,
non riuscì a impedirsi di provare desiderio. Lussuria. Non osò
violentarla solo perché era di proprietà del vecchio, perciò, pur
tremante di desiderio, non la sfiorò neppure e tornò di sopra.
Le ragazze di solito morivano entro tre giorni e il vecchio
lasciava che fosse Adair a occuparsi del cadavere. Toccava a lui
sollevare le membra fredde dal letto e trasportarle nella foresta.
Giacevano a terra come statue cadute mentre lui scavava la
fossa, quindi le interrava, le copriva di calce viva e poi di terra
scura. La morte della prima ragazza lo riempì di vergogna, di
odio per se stesso e di disperazione, tanto che non la guardò
nemmeno mentre le scavava la fossa.
Ma dopo la seconda, e poi la terza, la quarta, Adair scoprì che
qualcosa in lui era cambiato e che il suo desiderio – che
riconosceva essere abominevole – aveva ormai superato la paura
di commettere qualcosa di profano. Con mani tremanti, si arrese
al desiderio di toccare quei seni o passare la mano sui loro corpi.
Ogni volta che doveva prenderne in braccio una per seppellirla,
il petto del cadavere lo toccava e con un brivido lui avvertiva la
reazione del proprio corpo. Ma non si spinse mai oltre, non
commise mai quell’atto che ancora trovava più repellente che
affascinante, perciò a quei corpi furono risparmiate ulteriori
molestie.
Trascorsero diversi anni a questo modo. I pestaggi e gli stupri
si diradarono, forse perché Adair era diventato più forte e più
muscoloso negli anni e questo dava meno coraggio al vecchio. O
forse la ragione era che ormai non era più un ragazzino e il
medico non era più attratto da lui.
Dopo un inverno particolarmente freddo e rigido, il vecchio
annunciò che si sarebbero recati in Romania in visita alle sue
proprietà. Fu mandato un messaggio al suo vassallo, quello che
amministrava in sua vece le sue terre, affinché preparasse i conti
e sistemasse tutto per l’arrivo del medico e per la sua ispezione.
Il conte accordò il permesso di partire, e fu acquistato un
secondo cavallo, così che Adair potesse montarlo per il lungo
viaggio. Quando giunse il momento di partire, si portarono
poche provviste, qualche vestito e due piccoli bauli chiusi a
chiave. Si misero in cammino dopo il tramonto, dirigendosi a
oriente nel cuore della notte.
Dopo sette notti di viaggio, erano nel cuore del territorio
rumeno. Avevano attraversato un passo alle pendici dei Carpazi
per giungere alla tenuta del vecchio. «Il nostro viaggio è
terminato» annunciò il medico a Adair, indicando con un cenno
il tenue bagliore che proveniva da un castello poco distante. Il
castello era munito di alte torrette agli angoli di un quadrato di
mura. Il profilo minaccioso era nitidamente visibile alla luce
della luna. L’ultimo tratto di cammino li condusse attraverso
campi fertili, vigneti aggrappati ai fianchi delle montagne,
bestiame addormentato nelle radure. Gli imponenti cancelli si
aprirono all’arrivo dei due; una consorteria di servitori li
attendeva nel cortile, con le torce sollevate sopra il capo. Alla
testa del gruppetto c’era un uomo più anziano, con una pelliccia
che avvolse attorno alle spalle del vecchio non appena scese da
cavallo.
«Il signore ha fatto buon viaggio, mi auguro» disse con la
solerzia di un prete, seguendo il medico su per gli ampi gradini
di pietra.
«Sono qui, ora, no?» rispose bruscamente il vecchio.
Adair colse ogni dettaglio della proprietà mentre entravano.
Il castello era imponente, molto vecchio ma ben tenuto. Adair
notò che tutti i servitori avevano negli occhi lo stesso sguardo di
terrore che era convinto di avere anche lui. Un servitore lo prese
per un braccio e lo condusse alle cucine, dove gli diede una
portata di carne alla brace e di pollame; poi lo portarono in una
piccola camera. Quella notte, per la prima volta da tanto tempo,
dormì su un vero e proprio materasso di piuma, sotto coperte
orlate di pelliccia.
Adair arrivò ad amare quel periodo lontano dal torrione.
Viveva nello sfarzo, più di quanto avesse immaginato per
chiunque, figuriamoci per un contadinotto come lui. Libero dal
regime di schiavitù che aveva subito nel torrione, trascorreva la
maggior parte dei giorni a vagare per il castello, mentre il
medico era impegnato nell’amministrazione della proprietà e
pareva aver perso ogni interesse per lui.
Il custode, Lactu, se lo prese a cuore. Era un uomo gentile e
sembrava aver riconosciuto il fardello inespresso che il servitore
del medico portava. Dato che Lactu parlava anche ungherese,
Adair, per la prima volta da quando era stato ceduto al vecchio,
poté fare una vera conversazione. Lactu discendeva da una
stirpe di servitori che da generazioni lavoravano per il medico.
Gli spiegò di non ritenere strano che il medico fosse lontano per
la maggior parte del tempo: i signori di quella proprietà erano
padroni assenti da generazioni; per tradizione, andavano a
servizio del re di Romania. Nell’esperienza di Lactu, il medico
tornava all’incirca ogni sette anni per prendersi carico delle
faccende più importanti.
Tramite il custode, Adair ebbe accesso a tutte le camere
«speciali» del castello. Poté così vedere la stanza in cui erano
conservati gli abiti da cerimonia del vecchio, ammassati in varie
casse, e la dispensa, con file e file di damigiane contenenti vino
fatto proprio in quella tenuta. Quella che lo riempì di meraviglia,
tuttavia, fu la camera del tesoro, in cui erano raccolti tutti i beni
accumulati dalla dinastia dei cel Rau in anni di conquista:
corone e scettri, gioielli con pietre preziose incastonate, monete
di ogni tipo. Alla vista di tutti quei tesori e quelle ricchezze,
Adair ripensò alle formule alchemiche scritte dal vecchio...
Quell’enorme castello così lontano era uno spreco. Era un
crimine possedere un tesoro così vasto e non farne uso.
Passarono settimane in cui Adair incontrò raramente il
medico. Ma una notte, il vecchio convocò Adair perché
assistesse a una cerimonia nel salone centrale. Il giovane lo
osservò firmare editti che avrebbero vincolato chiunque vivesse
nella sua tenuta. Accanto alla sua mano destra c’era un pesante
sigillo: Lactu prendeva ciascun proclama, lo leggeva ad alta
voce e poi posava il foglio davanti al medico, perché apponesse
la sua firma. Poi il custode faceva colare della cera scarlatta
sotto la firma, e il vecchio imprimeva il sigillo con lo stemma
familiare: un dragone che brandiva una spada. In seguito Lactu
spiegò a Adair che era quel sigillo a tramandare il dominio dei
cel Rau: siccome i signori spesso morivano lontano dalla loro
tenuta e senza aver nominato i propri eredi davanti alle autorità
rumene, o anche solo con la testimonianza del custode, la firma
da sola non aveva alcun valore. Chiunque fosse in possesso del
sigillo veniva riconosciuto come proprietario della tenuta.
Le settimane diventarono mesi. E Adair sarebbe stato ben
contento di non tornare in Ungheria. Si godeva un duplice
beneficio: essere trattato come un figlio prediletto e non dover
più subire le attenzioni del medico. Durante il giorno, se non
aveva altre incombenze, si esercitava nella scherma con le
guardie, o faceva cavalcate nei borghi circostanti per osservarne
i costumi. Discuteva con Lactu di ciò che aveva visto,
approfondendo così la sua conoscenza della tenuta e dei suoi
molti aspetti, come la coltivazione delle terre, la produzione del
vino, l’allevamento del bestiame. Adair sapeva che il custode
aveva per lui un occhio di riguardo, eppure non osò mai
confessargli i dettagli della sua vita al torrione. Ricambiava
l’affetto dell’uomo, ma ne temeva il giudizio, qualora fosse
venuto a conoscenza dei tormenti che aveva sopportato, o se
avesse scoperto che aveva assistito il vecchio nella pratica delle
arti oscure. Avrebbe tanto voluto svelare a Lactu la natura
malvagia del loro padrone, ma non riusciva a trovare un modo di
farlo senza parlare di sé, e non voleva perdere l’affetto di Lactu.
Una notte, a stagione inoltrata, Adair fu svegliato da una
presenza nella sua camera. Mentre accendeva una candela
sapeva di non essere da solo, ma fu comunque spaventato
quando vide il medico ai piedi del suo letto.
Il cuore gli batté forte al ricordo degli orrori di cui era capace
il vecchio. «Padrone, mi avete colto di sorpresa. Avete bisogno
dei miei servigi?»
«È da tanto che non ti vedo, Adair. Volevo guardarti... Ma
giuro che quasi non ti riconosco più» disse, con il solito tono di
voce simile a un basso ringhio. «Vivere qui ti fa bene. Sei
cresciuto. Sei più alto e più forte.» Nel suo sguardo balenò
un’eco delle antiche tentazioni, uno sguardo che Adair non
avrebbe più voluto vedere.
«Ho imparato molto durante questo soggiorno» disse Adair,
volendo dimostrare al medico che non aveva approfittato del
tempo libero per oziare. «La vostra tenuta è magnifica. Non
riesco a capire come facciate a starne lontano.»
«La vita qui è troppo tranquilla per i miei gusti. Credo che,
col tempo, anche tu arriveresti a pensarla così. Ma sono venuto
da te stanotte per dirti che non rimarremo qui ancora a lungo.
L’estate si sta avvicinando rapidamente e in Ungheria hanno
bisogno di me.»
Le parole del vecchio allarmarono Adair. Aveva sempre
saputo che il tempo lì sarebbe finito prima o poi, ma si era
concesso di sognare che sarebbe durato per sempre. Adair cercò
di non mostrare il panico mantenendo un’espressione ferma. Nel
frattempo, il vecchio si avvicinò al letto per scrutarlo da vicino.
Afferrò le coperte e le sfilò, rivelando il petto e l’addome di
Adair. Adair si irrigidì, attendendo l’orrendo tocco del vecchio,
che però non giunse. Invece, il vecchio si limitò a osservarlo,
famelico. Si accontentò di guardarlo, perlustrando però con gli
occhi ogni centimetro del suo giovane corpo. Forse si fermò
perché vide che Adair era molto cresciuto. In ogni caso, dopo un
minuto si voltò e uscì dalla stanza, in silenzio.
23
Tornati al torrione del vecchio, Adair si aspettava che la vita
sarebbe andata avanti come prima, ma questo si rivelò subito
impossibile. Troppe cose gli erano accadute. Lo possedeva
un’idea che non riusciva a scacciare dalla testa, specialmente
durante il giorno quando il medico non era lì a dominare i suoi
pensieri. Adair non riusciva a dimenticare quello che aveva visto
alla tenuta del padrone: il massiccio castello, i campi rigogliosi,
il tesoro, i servitori, i servi della gleba... Mancava soltanto un
signore che governasse il tutto, e sulla sua strada c’erano
soltanto due cose: il sigillo, nascosto da qualche parte nel
torrione, e la morte del vecchio.
Il sigillo poteva trovarlo, se avesse cercato bene. Ma uccidere
il vecchio era tutt’altra faccenda. Adair ci aveva pensato più
volte nei suoi anni di prigionia, aveva esaminato qualunque
ipotesi in ogni dettaglio, ma aveva sempre rinunciato. Era
un’impresa disperata. Ogni volta che il vecchio gli aveva messo
le mani addosso, per rabbia o per desiderio, il servitore aveva
represso la vergogna e l’umiliazione giurando a se stesso che un
giorno gliel’avrebbe fatta pagare. Ma era il ricordo del brutale
pestaggio con l’attizzatoio e dei mesi di agonia che ne erano
seguiti a trattenerlo.
Tuttavia erano passati anni da quell’episodio e Adair era
cresciuto molto. Il medico ora esitava prima di picchiarlo e,
anche se continuava a guardarlo con desiderio, i suoi approcci
erano più rari e più calcolati. Adair odiava quell’uomo da lungo
tempo, ormai; un odio che era diventato parte di lui, come il
respirare. I suoi pensieri diventarono sempre più ossessivi, il
bisogno di vendicarsi sempre più feroce e impossibile da
trattenere. Non si era reso conto di quanto fosse cambiato finché,
una sera, non si trovò a dover seppellire un’altra giovanetta
morta. Guardò il suo corpo delizioso e si rese conto che anche
l’ultimo tabù era crollato. Avrebbe potuto facilmente accanirsi
contro quel cadavere, ma quello che desiderava veramente era
accanirsi contro il corpo senza vita del medico prima di
seppellirlo nel terreno umido. E, soprattutto, avrebbe gioito nel
farlo. Non avrebbe provato alcuna paura, alcuna repulsione.
Aveva perso l’ultimo briciolo di umanità che gli era rimasto.
Ogni resistenza era scomparsa, strappata via uno strato alla
volta, come per un animale scuoiato da un cacciatore esperto.
Era pronto a scontrarsi con il vecchio, e quel pensiero gli fece
provare il primo empito di felicità dopo anni e anni.
Per prima cosa decise di non agire da solo. Adair aveva
bisogno di trovare l’appoggio degli abitanti del villaggio che già
odiavano il medico, alleato dell’oppressore rumeno. Sarebbe
bastato individuare quelli che odiavano maggiormente il loro
padrone e indirizzarli a scatenare la loro furia sul vecchio, un
bersaglio più facile del conte. Se fosse riuscito a dimostrare che
il medico aveva commesso dei crimini contro gli abitanti del
villaggio, crimini che il conte non avrebbe potuto giustificare, a
quel punto il conte stesso sarebbe stato costretto a farsi da parte,
anche nel caso in cui la vendetta avesse assunto la forma
dell’esecuzione. Si trattava di trovare le persone giuste,
scegliere il crimine giusto, e trovare le prove necessarie per
incastrare il vecchio.
Un giorno, Adair andò nel villaggio in cerca delle autorità
religiose. Gli sembrava l’approccio migliore. Nel monastero
trovò un giovane monaco che, risparmiato dai lavori nei campi,
aveva ancora la pelle rosea come quella di un neonato. L’uomo
sembrò sorpreso di trovarsi di fronte il servo del maledetto
medico, ma quando Adair si gettò ai suoi piedi, implorando il
suo aiuto, il giovane monaco non poté rifiutare. Si sedettero uno
accanto all’altro, soli nel monastero, e il monaco ascoltò Adair
confessargli i suoi rimorsi poiché era il servitore dell’oppressore
del villaggio. Adair spiegò di essere stato costretto a servirlo,
contro la propria volontà. Poi, senza indugiare sui dettagli,
espresse tutta la sua disperazione per essere costretto a eseguire
gli ordini di un despota così empio e malvagio. Quando il
monaco iniziò a rassicurarlo – con esitazione, sulle prime, ma
poi con parole sempre più convinte – Adair capì di aver trovato
l’alleato di cui aveva bisogno. Come tocco finale, allora accennò
agli oscuri peccati che il medico e il conte avevano commesso. Il
monaco gli disse che poteva tornare quando voleva, ogni volta
che avesse avuto bisogno di sgravarsi la coscienza.
E così fece Adair. La seconda volta che andò dal monaco, gli
raccontò di come il medico lo avesse costretto a rapire una
bambina. Il monaco impallidì paurosamente e indietreggiò
orripilato, come se avesse di fronte una vipera. Adair descrisse il
punto in cui si erano accampati gli zingari e il monaco confermò
che un giorno erano spariti di colpo, senza alcuna spiegazione.
«Sono convinto che intendesse usare la bambina per una delle
sue pozioni infernali, ma a che scopo e per quale motivo non
saprei dirlo. Dev’esserci lo zampino del diavolo in persona,
perché sia necessario un sacrificio umano, vero?» domandò
Adair in tono incredulo, cercando di sembrare il più innocente e
ingenuo possibile.
A quel punto, il monaco lo implorò di fermarsi. Si rifiutava di
credere a quel racconto. «Giuro che è tutto vero» disse Adair,
inginocchiandosi. «Posso portare delle prove. Posso portare le
pergamene su cui sono scritti gli incantesimi. Basterebbero
come prova?» Il monaco, sconvolto, riuscì soltanto ad annuire.
Adair sapeva che sarebbe stato abbastanza semplice trafugare
le formule dal torrione durante il giorno, mentre il medico
dormiva, ma l’indomani, quando si preparò a raccogliere le
prove, scoprì che gli tremavano le mani. Non essere stupido, si
rimproverò. Sono passati anni. Sei un uomo o soltanto un
ragazzino spaventato? Stufo di essere tormentato dalla paura e
dall’umiliazione, afferrò i fogli con decisione, li arrotolò stretti e
se li infilò su per la manica. Senza dire una parola a Marguerite,
si diresse verso il monastero.
Gli occhi del giovane monaco si illuminarono quando lesse le
parole sbiadite sulla pergamena. Si scusò con Adair per aver
dubitato delle sue parole e gli restituì i fogli, consigliandogli di
riportarli rapidamente al torrione e di avvertirlo nel caso in cui il
medico iniziasse a pianificare un altro orrendo crimine. In ogni
caso, aveva bisogno di tempo. Bisognava elaborare un piano per
catturare l’eretico che, dopotutto, era un alleato del loro signore.
Adair protestò: il medico era alleato del diavolo in persona e non
meritava un solo altro giorno di libertà. Ma la risoluzione del
monaco era vacillante; evidentemente faticava a trovare il
coraggio di compiere una mossa così azzardata contro il conte.
Per rinsaldare la sua decisione, Adair gli promise di tornare con
altre prove di stregoneria.
Quella sera, rimanere accanto al medico fu un’agonia. Adair
sussultava ogni volta che il vecchio gli lanciava un’occhiata,
sicuro che si sarebbe accorto che lui aveva toccato le sue
preziose pergamene. Mentre il vecchio frugava tra i fogli in
cerca della formula di cui aveva bisogno, Adair tremava, certo
che il vecchio avrebbe trovato qualcosa fuori posto: un angolo
piegato, una macchia, l’odore di lavanda e di incenso del
monastero. Ma il vecchio proseguì tranquillamente con il suo
lavoro.
Poco dopo mezzanotte, il vecchio alzò lo sguardo dal tavolo
di lavoro.
«Vuoi ancora imparare a leggere, ragazzo?» chiese in tono
gentile. Adair trovò sospetto che il vecchio tirasse fuori
quell’argomento, così all’improvviso. Eppure, se Adair avesse
risposto diversamente, il vecchio si sarebbe accorto che
qualcosa non andava. Perciò disse: «Certamente, padrone».
«Tanto vale cominciare stanotte. Vieni qui, ti insegnerò
alcune delle lettere su questa pagina.» Il vecchio gli fece segno
con l’indice. Con un senso di costrizione in petto, Adair si alzò
dal pavimento e si avvicinò a lui.
Il medico guardò lo spazio che li separava. «Più vicino,
ragazzo, da lì non vedi niente.» Indicò un punto sul pavimento,
vicino a lui. Adair si accostò, con la fronte imperlata di sudore.
Non appena si accomodò chinandosi sul foglio, il vecchio
allungò una mano e gli strinse la gola in una morsa d’acciaio.
Non riusciva a respirare. Le dita gli serravano la trachea.
«Stanotte sarà una notte molto importante per te, Adair,
ragazzo mio. Molto importante» aggiunse in tono suadente. Poi
all’improvviso si alzò dalla sedia e sollevò Adair da terra
tenendolo per la gola. «Non credevo che ti avrei tenuto al mio
servizio così a lungo. Avevo pianificato di ucciderti molto
prima. Ma nonostante il tuo primo grave tradimento, mi sono
affezionato a te. Hai sempre avuto una certa bellezza selvaggia e
sei stato più leale di quanto ritenevo possibile. Sì, ti sei rivelato
migliore di quel che pensavo la prima volta che ti ho visto.
Perciò ho deciso di tenerti con me come servitore. Per sempre.»
Schiantò Adair contro il muro di pietra come se fosse una
bambola di pezza, e la testa del giovane cozzò contro la parete.
Le forze lo abbandonarono. Il vecchio lo sollevò e lo portò di
nuovo giù dalle scale, nel segreto del suo sotterraneo.
Adair perse e riprese conoscenza più volte mentre giaceva sul
letto, avvertendo la mano del vecchio sul suo volto. «Ho un
dono prezioso per te, mio ribelle contadinotto. Credevi che non
riuscissi a leggere il tuo sguardo, vero? Ma ovviamente
potevo...» Adair fu assalito dal panico alle parole del vecchio.
Iniziò a temere che riuscisse a leggergli i pensieri e che scoprisse
il patto con il monaco. «Ma una volta ricevuto questo dono, non
potrai mai più rifiutarmi niente, per il resto della tua vita. Questo
dono ci unirà per sempre, vedrai...»
Il vecchio si avvicinò ancora di più, osservando il suo servo
con occhi infuocati. Fu a quel punto che Adair notò un amuleto
che pendeva al collo del medico, appeso a un laccio di cuoio. Il
vecchio lo afferrò con la mano raggrinzita e strappò il cordino,
nascondendo poi l’amuleto alla vista di Adair con entrambe le
mani. Ma Adair era riuscito a vederlo alla fioca luce della
candela e aveva scorto un lungo ago che fungeva da tappo per
una fiala sottile. Sulla punta dell’ago era aggrappata una spessa
goccia di liquido viscoso color rame. «Apri la tua maledetta
bocca indegna» gli ordinò il medico, con l’ago sospeso sopra le
labbra di Adair. «Stai per ricevere il più prezioso dei doni. Molti
uomini ucciderebbero o darebbero tutte le loro ricchezze per
averlo. E io invece sto per sprecarlo con una nullità come te! Fai
come ti ordino, cane ingrato, prima che cambi idea!» Non aveva
bisogno di insistere: l’ago era talmente sottile che si insinuò
facilmente tra le labbra di Adair, per quanto fossero serrate, e il
vecchio lo spinse fino a pungergli la lingua.
Fu lo shock, più che il dolore, a spingere Adair a ribellarsi al
medico, lo shock dello strano torpore che gli pervase il corpo.
Ma fu gelato dal terrore. Istantaneamente si rese conto di esser
posseduto da qualcosa di satanico. Poi la pressione calò
inesorabilmente e il suo cuore prese a battere sempre più forte,
cercando disperatamente di irrorare di sangue le membra
intorpidite e il cervello. Per tutto il tempo, il vecchio lo schiacciò
a terra, pesante come un macigno, mormorando parole
inintelligibili, nella lingua del demonio, mentre combinava
qualcos’altro, stavolta con un ago e dell’inchiostro. Adair cercò
di scrollarsi di dosso il vecchio ma non riuscì a scansarlo e in
capo a un minuto non ebbe più nemmeno la forza di provarci. I
suoi polmoni erano al collasso, non riusciva nemmeno a
respirare. In preda alle convulsioni, iniziò a tossire e soffocare,
agitandosi sul suo letto di morte, sopraffatto dal gelo che lo
attanagliava improvvisamente... Adair si sentiva come se lo
stessero seppellendo vivo, imprigionato in un corpo che cadeva
giù, sempre più giù, abbandonandolo.
Ma una strenua volontà, dentro di lui, si oppose alla morte. Se
fosse morto, il vecchio non sarebbe mai stato punito e, più di
ogni altra cosa, Adair voleva assicurarsi che lo fosse.
Il medico studiò il volto di Adair nelle convulsioni della
morte. «Sei così forte. Hai una grande volontà di sopravvivere, e
questo è un bene. Che sia l’odio per me ad alimentarti. È ciò che
mi aspetto, Adair. Il tuo corpo sta per attraversare le ultime fasi
della morte; questo ti terrà occupato per un po’. Resta
immobile.»
Quando il corpo di Adair non riuscì più a combattere, iniziò a
morire. Si irrigidì, intrappolando la mente di Adair al suo
interno. Mentre giaceva lì, il medico iniziò a raccontare di come
aveva iniziato a praticare l’alchimia. Non si aspettava certo che
Adair, un semplice contadino, capisse il potere seduttivo della
scienza. Ma la sua formazione di medico aveva soltanto aperto
una porta. Il vecchio era andato oltre l’alchimia. Si era unito ai
pochi, ai più astuti e coraggiosi, che avevano osato spingersi
oltre i segreti del mondo naturale per esplorare quelli del mondo
soprannaturale. Trasmutare il ferro in oro era soltanto
un’allegoria, non lo capiva Adair? Gli autentici visionari non
cercavano il modo di trasformare gli elementi terrestri in
qualcosa di più prezioso, ma di trasformare la natura stessa
dell’uomo! Attraverso la purificazione mentale e la dedizione
totale alla conoscenza dell’alchimia, il medico era assurto ai
ranghi degli uomini più potenti e sapienti del pianeta.
«Posso comandare l’acqua, il fuoco, la terra e il vento. Hai
potuto vederlo con i tuoi stessi occhi, sai che è vero» si vantò.
«Posso rendere un uomo invisibile. Ho le stesse forze che avevo
da giovane, e questo ti ha sorpreso, vero? In verità, sono più
forte di quanto ero una volta. Posso arrivare ad avere la forza di
venti uomini! E ho sottomesso il tempo stesso. Il dono che ti ho
dato» il suo volto assunse di colpo un’espressione odiosa di
superiorità e di soddisfazione «è l’immortalità. Tu, mio quasi
perfetto servitore, sarai sempre al mio servizio. Non mi
deluderai mai. Non morirai mai.»
Adair ascoltò quelle parole e sperò di averle fraintese.
Servirlo per sempre! Desiderò che la morte lo portasse via.
Sopraffatto dal panico, non udì la fine del discorso, ma non
importava.
Prima che l’oscurità lo intrappolasse, riuscì però a cogliere un
ultimo frammento. Il medico stava dicendo che c’era soltanto un
modo per sfuggire all’eternità. Per trovare la morte, bisognava
che a ucciderlo fosse la stessa persona che lo aveva trasformato.
Il suo creatore. Il medico.
24
Quando Adair si svegliò, scoprì di essere ancora nel letto del
medico. Il vecchio giaceva accanto a lui, in un sonno simile alla
morte. Adair si alzò, in preda a una sensazione completamente
nuova. Era come se tutto fosse cambiato mentre dormiva, ma
non sapeva come e quanto. Alcuni cambiamenti gli furono
subito evidenti: la vista, per esempio. Riusciva a vedere
perfettamente al buio. Scorgeva i ratti che si agitavano agli
angoli della camera, scavalcandosi l’un l’altro mentre correvano
lungo le pareti. Sentiva ogni suono come se si trovasse a pochi
centimetri dalla fonte, e ogni rumore era separato e distinto. Ma
l’olfatto era potenziato più di tutti gli altri sensi: ogni odore
reclamava con forza la sua attenzione, e soprattutto uno, dolce e
speziato, con un sentore di rame, che pervadeva l’aria. Non
riusciva a identificarlo, nonostante lo tormentasse.
Qualche minuto dopo, il medico si agitò e poi scattò a sedere.
Notò lo stupore di Adair e rise. «È parte del dono, capisci.
Meraviglioso, vero? Hai i sensi ipersviluppati degli animali,
ora.»
«Cos’è questo odore? Lo sento dappertutto.» Adair guardò le
proprie mani, poi il letto.
«È il sangue. I ratti ne sono pieni, e come vedi ce n’è
dappertutto. Poi c’è Marguerite, che dorme di sopra. Ma puoi
anche sentire l’odore dei singoli minerali nelle rocce, nei muri
che ti circondano. La terra dolce, l’acqua trasparente, tutto è più
chiaro, più nitido. È il dono. Ti eleva al di sopra degli uomini
comuni.»
Adair si accasciò, inginocchiandosi sul pavimento. «E tu? Tu
sei come me? È così che hai ottenuto i tuoi poteri? Puoi vedere
tutto?»
Il vecchio fece un sorriso enigmatico. «Sono come te, mi
chiedi? No, Adair, io non mi sono sottoposto alla tua stessa
trasformazione.»
«E perché no? Non vuoi vivere per sempre?»
Scosse il capo, come se avesse a che fare con uno stupido.
«Non è così semplice come esaudire un desiderio. Potrebbe
andare al di là della tua comprensione. A ogni modo, io sono un
vecchio e porto addosso tutti i segni dell’anzianità. Non vorrei
mai vivere tutta l’eternità in questa condizione.»
«Se è così, allora come pensi di riuscire a trattenermi,
vecchio? Adesso che mi hai reso più forte che mai, non potrai
più picchiarmi. E Dio sa che non mi molesterai mai più! Come
puoi sperare di riuscire a tenermi legato a te?»
Il vecchio si avvicinò alle scale, lanciandogli uno sguardo
dietro le spalle. «Non è cambiato nulla fra di noi, Adair. Credi
veramente che ti avrei fatto un simile dono solo per darti il
potere di liberarti di me? Sono ancora più forte di te. Posso
spegnere la tua vita esattamente come se fosse la debole
fiammella di una candela. E sono il solo al mondo che può
ucciderti, ricordatelo.» Il medico scomparve nell’oscurità.
Adair rimase sulle ginocchia, tremante, senza sapere in quel
momento se credere alle parole del vecchio e anche allo strano
potere che sentiva scorrergli nelle vene e in tutto il corpo.
Guardò il punto, sul suo braccio, in cui aveva visto all’opera il
vecchio con ago e inchiostro, pensando che potesse trattarsi di
un’illusione. Ma no, non lo era. C’era uno strano tatuaggio ora,
due cerchi che danzavano uno attorno all’altro. Quel disegno gli
era stranamente familiare, ma non riusciva a ricordare dove
l’avesse visto in precedenza.
Forse il medico aveva ragione. Forse Adair era troppo
stupido per comprendere qualcosa di così difficile. Ma la vita
eterna era l’ultima cosa che gli interessava in quel momento.
Non gli importava di vivere o morire. Non voleva altro che
riuscire a convincere il monaco a portare a compimento il suo
piano e non gli interessava se, in cambio, ci avrebbe rimesso la
vita.
Adair trovò il monaco nella cappella, a pregare alla luce di
una candela. Rimanendo per un attimo nell’ingresso, si chiese se
la sua trasformazione recente in qualcosa di soprannaturale non
gli impedisse l’ingresso in un luogo sacro. Se avesse cercato di
superare la soglia sarebbe stato scagliato indietro da una schiera
di angeli che gli avrebbero negato il permesso di entrare? Dopo
un profondo respiro, fece un passo. Non accadde niente. A
quanto sembrava, Dio non aveva alcun potere su una creatura
come quella che lui ora era diventato.
Il monaco vide Adair e corse da lui, conducendolo in un
angolo in penombra. «Allontanati dall’ingresso, ci potrebbero
vedere» disse. «Che cos’hai? Sembri sconvolto.»
«Lo sono. Ho scoperto qualcosa di ancor più terrificante di
quanto vi ho raccontato finora, padre. Qualcosa sul conto del
medico che non sapevo fino alla scorsa notte.» Adair si chiese se
non stesse scherzando col fuoco. Eppure, era convinto di essere
sufficientemente astuto da riuscire a intrappolare il medico
senza essere travolto anche lui.
«Peggio dell’essere un adoratore di Satana?»
«Lui... Lui non è umano. Ora è una delle creature di Satana.
Si è rivelato a me nel pieno del suo potere maligno. Voi siete
stato istruito dalla Chiesa, sapete che esistono cose che non
appartengono a questo mondo, creature demoniache che
tormentano i poveri mortali per garantire un divertimento a
Satana. Qual è la cosa peggiore che potete immaginare, padre?»
Con sollievo, Adair vide che sul volto del monaco non
compariva scetticismo, né incredulità. Il monaco era diventato
bianco come un cadavere e tratteneva il fiato, terrorizzato,
ricordando forse le terribili storie che aveva udito nel corso degli
anni, le morti inspiegabili, i bambini scomparsi nel nulla.
«Si è trasformato in un demone, padre. Non potete
immaginare cosa significhi vivere accanto a una tale malvagità,
che ti prende alla gola, con il puzzo dell’inferno nel suo alito. E
la forza di Lucifero nelle sue mani.»
Il monaco alzò un dito, chiedendogli di tacere. «Un demone!
Ho sentito parlare di demoni che camminano fra gli uomini, che
prendono diverse forme. Ma mai, mai nessuno ne ha affrontato
uno ed è sopravvissuto.» Gli occhi del monaco schizzarono dalle
orbite e si allontanò da Adair. «Eppure tu sei qui, di fronte a me,
vivo. Per quale miracolo?»
«Mi ha detto di non essere pronto a prendere anche la mia
vita, che aveva ancora bisogno dei miei servigi, così come di
quelli di Marguerite. Mi ha ammonito di non scappare, ha detto
che avrei subito le peggiori torture se avessi tentato di fuggire,
ora che so...» Adair non dovette fingere di rabbrividire.
«Che demonio!»
«Sì. Padre, credo che possa essere il diavolo in persona.»
«Dobbiamo portar via te e Marguerite da quella casa
maledetta all’istante. Le vostre anime sono in pericolo, per non
parlare delle vostre vite.»
«Ma non possiamo correre un simile rischio, non prima di
aver elaborato un piano. Marguerite è al sicuro. Non l’ho mai
visto alzare le mani su di lei. E per quanto riguarda me... C’è ben
poco che mi possa fare che non mi abbia già fatto.»
Il monaco sospirò. «Figliolo, può sempre toglierti la vita.»
«La mia sarebbe soltanto una delle moltissime vite che ha
spezzato.»
«Sei disposto a rischiare la tua vita pur di liberare questo
villaggio dalla sua immonda presenza?» gli domandò.
Adair arrossì di odio. «Mille e mille volte.»
Gli occhi del monaco si riempirono di lacrime. «Molto bene,
figliolo, allora procederemo. Parlerò con i miei compaesani –
con discrezione, te lo assicuro – e vedremo su chi potremo
contare per dare addosso al medico.» Si alzò e accompagnò
Adair alla porta. «Tieni d’occhio questo edificio. Quando
saremo pronti ad agire, appenderò un telo bianco alla lanterna.
Abbi pazienza fino a quel momento e sii forte.»
Passò una settimana, poi una seconda. A volte Adair si
chiedeva se il monaco non avesse perso il coraggio e fosse
scappato dal villaggio, troppo codardo per affrontare il conte.
Adair approfittò di ogni occasione per ispezionare il torrione in
cerca del sigillo che il vecchio aveva adoperato per autorizzare i
proclami, durante il soggiorno nei suoi domini. Ma dopo la
cerimonia al castello, il sigillo sembrava svanito nel nulla, anche
se Adair sapeva bene che il medico non avrebbe corso il rischio
di nasconderlo in un posto che non sarebbe stato in grado di
raggiungere quando ne avesse avuto il bisogno. Di notte, una
volta che Marguerite si era addormentata e il vecchio era uscito
dal torrione, Adair apriva ogni scatola, ogni cesta e ogni baule,
ma non trovò mai il pesante timbro d’oro appeso al cordino
sottile.
Proprio quando Adair fu sul punto di non riuscire più a
contenere la sua impazienza, giunse la notte in cui un panno
bianco sventolò dalla lanterna della chiesa.
Il monaco era all’ingresso del monastero, aggrappato a un
alto candelabro come se fosse un’arma. Sembrava cambiato
rispetto all’ultima volta in cui Adair l’aveva visto, il suo
incarnato non era più quello di un bambino. Le sue guance, un
tempo piene come quelle di uno scoiattolo, ora erano scavate. I
suoi occhi, un tempo limpidi e innocenti, ora erano scuri e
sofferti, per via di ciò che sapeva.
«Ho parlato con gli uomini del villaggio e sono con noi»
disse, prendendo Adair per il braccio con fare cospiratorio e
trascinandolo nell’ombra del vestibolo.
Adair cercò di contenere la propria gioia. «Qual è il vostro
piano?»
«Ci raduneremo domani a mezzanotte e marceremo sul
torrione.»
«No, no, non a mezzanotte» lo interruppe Adair, posando una
mano sul braccio del monaco. «Per coglierlo di sorpresa, è
meglio agire a mezzogiorno. Come ogni creatura del male, il
medico di notte è attivo, mentre di giorno dorme. Avrete più
possibilità se agite di giorno.»
Il monaco annuì, anche se il suggerimento sembrò turbarlo.
«Sì, capisco. Ma come possiamo fare con le truppe del conte?
Non rischiamo di essere scoperti da loro se agiamo di giorno?»
«Le guardie non si avvicinano nemmeno al torrione, mai. A
meno che qualcuno non lanci l’allarme, non avete niente da
temere dagli uomini del conte.» Questo non era del tutto vero.
Era capitato parecchie volte che le guardie si recassero al
torrione durante il giorno, ma soltanto per una ragione:
consegnare una giovanetta al vecchio. Ma quelle consegne non
erano comunque frequenti. Vero, era da parecchio tempo che il
conte non mandava una servetta, quindi le probabilità erano a
sfavore, tuttavia... Adair calcolò che comunque valesse la pena
di rischiare, perciò decise di non menzionare nemmeno questo
rischio al monaco, che avrebbe potuto utilizzarlo come scusa per
rinunciare.
«Certo, certo...» Il monaco annuì, gli occhi sbarrati.
Mi sta sfuggendo, pensò Adair. «E che intenzioni avete con il
vecchio, una volta che l’avrete catturato?»
Il monaco sembrò colpito. «Non spetta a me determinare la
sorte di quell’uomo...»
«Invece sì, padre. È vostro dovere, come uomo di Dio.
Ricordate quello che dice il Signore a proposito delle streghe:
’Non permetterete loro di vivere’.» Strinse forte il braccio
dell’uomo mentre parlava, come per instillargli coraggio nelle
vene.
Dopo un lungo momento, il monaco abbassò lo sguardo. «La
folla... non posso garantire che sarò in grado di controllare la
rabbia della gente. Dopo tutto, c’è molto odio verso il medico...»
spiegò, con voce piena di rassegnazione.
«Questo è vero» disse Adair, in tono conciliatorio. «Non
potete essere soltanto voi responsabile di ciò che succederà,
padre. È la volontà di Dio.» Dovette reprimere la risata folle che
gli sorgeva dentro. L’odiato vecchio finalmente avrebbe avuto
quel che meritava! Forse Adair da solo non aveva il potere
sufficiente per sconfiggere un alleato del diavolo, ma di certo il
medico non sarebbe stato in grado di opporre resistenza a metà
villaggio.
«Avrò bisogno di un altro giorno per avvertire gli uomini del
cambiamento dei piani, per spiegare che è meglio compiere
l’assalto durante il giorno» aggiunse il monaco.
Adair annuì.
«Dopodomani, dunque, a mezzogiorno.» Il monaco ebbe un
singulto di terrore e si fece il segno della croce.
Un giorno. Adair aveva a disposizione soltanto un giorno per
trovare il sigillo, altrimenti avrebbe corso il rischio che a
trovarlo e ad appropriarsene fosse qualcuno del villaggio.
Ritornò al torrione, cercando di allontanare il panico. Dove
poteva trovarsi quel maledetto oggetto? Adair aveva cercato
dappertutto, aveva esaminato perfino gli abiti del vecchio ed era
arrivato al punto di tirar fuori uno a uno i tessuti conservati nei
bauli per assicurarsi che non fosse nascosto là in mezzo. Quel
pensiero aumentò la sua disperazione, vide tutti i suoi piani
crollare, uno dopo l’altro. Non sarebbe mai riuscito a sfuggire
dalle grinfie del medico, non sarebbe mai andato a vivere in quel
castello lontano, non avrebbe mai rivisto la sua famiglia o
l’amata Katarina. Tanto valeva morire, pensò. Lo sconforto era
tale che avrebbe chiesto al vecchio di avere pietà di lui e
ucciderlo, ma il suo odio ancora superava quella disperazione,
per quanto abissale.
Il vecchio era alla scrivania quando Adair tornò dal suo
appuntamento segreto. Alzò velocemente lo sguardo su di lui
quando entrò.
«Dovrò recarmi al villaggio domani; devo procurarmi la
biada per i cavalli» disse Adair al vecchio, e un secondo dopo un
pensiero, una possibilità, gli venne in mente.
Il vecchio picchiettò le dita sul tavolo. «Dovrai attendere un
giorno. Preparerò un cataplasma che porterai con te, per
barattarlo con il borgomastro in cambio di qualche buon taglio
di quercia...»
«Chiedo perdono, ma per colpa della mia disattenzione le
riserve di biada sono finite. Non c’è cibo da diversi giorni e
l’erba è troppo rada per saziare i cavalli ancora a lungo. Non
posso attendere. Con il vostro permesso, ne comprerò soltanto
una piccola quantità, quanto basta per sfamare i cavalli questa
settimana, e andrò dal borgomastro la settimana seguente,
quando il cataplasma sarà pronto.»
Adair trattenne il fiato, attendendo la reazione del vecchio,
perché se si fosse opposto sarebbe stato difficile trovare in poco
tempo un’altra scusa per indurlo a rivelare dove conservasse il
denaro e i preziosi. Il vecchio scosse il capo di fronte
all’incompetenza del suo servitore, poi si alzò e scese dalle
scale. Adair sapeva che non era prudente seguirlo, perciò si
limitò ad ascoltare, con l’attenzione di un segugio, ogni suono,
ogni indizio. Nonostante lo spesso pavimento di travi, sentì che
scavava e poi spostava qualcosa di voluminoso. Il suono
metallico di monete. Poi di nuovo qualcosa che veniva spostato.
Alla fine, il vecchio ricomparve dalle scale e gettò una piccola
sacca di pelle sul tavolo. «Questo ti basterà per la settimana.
Assicurati di fare un buon affare» ringhiò.
Quando, poco dopo, il vecchio uscì per la notte, Adair si
affrettò a scendere nel sotterraneo. Il pavimento lurido non
recava tracce di alcun tipo e fu solo dopo un’attenta ricerca che
Adair individuò il punto in cui il vecchio si era messo all’opera,
lungo il muro, un punto umido e ammuffito coperto di
escrementi di topo. Lo sporco era stato grattato via da una delle
pietre. Adair si inginocchiò e afferrò gli angoli della pietra con la
punta delle dita, estraendola dalla parete. In un piccolo anfratto
riuscì a intravedere un fagotto di tela ruvida, che estrasse e
srotolò. Dentro c’era una sacca piena di monete e, avvolto in un
fazzoletto di velluto, il sigillo del regno dei suoi sogni.
Adair prese tutto e rimise la pietra al suo posto. Inginocchiato
nel lordume, lasciò che l’entusiasmo del successo lo pervadesse,
felice di aver trovato il sigillo e di aver ottenuto una vittoria
contro il suo oppressore dopo tutte le ingiustizie che aveva
subito.
Allora gli venne in mente suo padre, e pensò che avrebbe
dovuto ucciderlo, invece di lasciare che picchiasse sua madre e i
suoi fratelli.
E che non avrebbe dovuto lasciare che lo vendessero come
uno schiavo.
Avrebbe dovuto approfittare di ogni occasione per cercare di
scappare, senza mai arrendersi, senza mai smettere di provarci.
Avrebbe dovuto uccidere il maledetto conte. Non meritava di
vivere, era un nemico dei magiari e un eretico, alleato di un
emissario di Satana.
Avrebbe dovuto aiutare Marguerite a scappare, condurla
presso una famiglia benevolente o in un convento, trovare
qualcuno che si prendesse cura di lei.
Riguardo al sigillo, Adair pensò che non stava commettendo
un furto. Il medico era in debito verso di lui. Quel regno sarebbe
stato il giusto tributo. E il medico gliel’avrebbe dato. Oppure
sarebbe morto.
Nel giorno designato, Adair studiò i movimenti del sole nel
cielo con la stessa attenzione di un falco che sorveglia un topo in
un campo. Il monaco e la folla sarebbero arrivati al torrione in
capo a un’ora o due. Aveva un unico dubbio: doveva stare lì a
godersi la fine del medico?
Era una tentazione folle. Quanto avrebbe voluto vedere i
paesani trascinare a forza il vecchio fuori dal suo letto immondo
e condurlo sotto la luce del sole, guardare il suo volto contorto
dalla sorpresa e dal terrore. Ascoltare le sue urla mentre lo
sbattevano a terra, lo prendevano a bastonate, lo tagliavano a
fettine con le falci. Quanto avrebbe voluto incitare la folla a fare
razzia del torrione, a sfondare i bauli, spaccare le bottiglie,
mandare in mille pezzi i vasi con tutti i preziosi ingredienti e
schiacciare tutto sotto i piedi, e poi dar fuoco a quel posto
maledetto.
Anche se era in possesso del sigillo, Adair non poteva certo
andare al castello del vecchio senza sincerarsi che questi non
l’avrebbe inseguito. Ma c’era una buona ragione per scomparire
prima che la folla giungesse: e se in qualche modo il vecchio
fosse scampato alla morte? E se la folla avesse perso il coraggio
di agire o se il vecchio avesse bevuto anche lui la pozione
dell’immortalità? Dopo tutto, non aveva mai detto apertamente
di non averla presa. Se fosse rimasto lì, Adair avrebbe corso il
rischio di essere implicato nella faccenda. Non ci sarebbe stato
modo di negare il proprio coinvolgimento nella congiura se il
medico fosse sopravvissuto e l’avesse scoperto. Era più
prudente allontanarsi e conservare un minimo di possibilità di
negare tutto.
Andò da Marguerite, che stava pelando le patate in un
secchio d’acqua, le tolse le patate dalle mani e cercò di condurla
verso la porta. Lei oppose resistenza, da quell’anima innocente
che era, ma Adair la costrinse e la obbligò ad aspettare mentre
sellava il vecchio destriero del medico. Era sua intenzione
portare Marguerite al sicuro, al villaggio. In quel modo, lei non
sarebbe stata presente durante la rivolta. Era meglio così.
Sarebbe tornato lui solo a controllare l’esito della vicenda.
Il sole stava tramontando quando Adair si avviò di nuovo
verso il torrione. Procedette lentamente, lasciando che il
destriero assumesse un’andatura lenta lungo un sentiero tra gli
alberi poco battuto. Non aveva intenzione di incappare negli
abitanti del villaggio di ritorno dalla spedizione, ancora eccitati
e assetati di sangue.
A quel punto notò un pennacchio di fumo nero all’orizzonte,
ma ora che giunse al torrione era diventato una nebbia scura.
Incitò il cavallo, attraversando nubi di fumo, finché non arrivò
alla familiare radura davanti al torrione di pietra.
La porta era stata divelta dai cardini e il terreno davanti
all’ingresso era stato ripetutamente calpestato. Il recinto del
bestiame era stato abbattuto e l’altro cavallo era scomparso.
Adair scese dal destriero e con cautela si avvicinò alla porta
aperta, nera e minacciosa come un teschio.
All’interno, strisce di fuliggine si arrampicavano sulle pareti
come in cerca di una scappatoia. La devastazione era come se
l’era immaginata: frammenti di coccio e di vetro ovunque sul
pavimento; calderoni, secchi e pentole capovolti; la scrivania
fatta a pezzi. E tutte le formule erano sparite, insieme ai resti del
vecchio. A meno che... Il sangue gli si raggelò nelle vene al
pensiero che forse la folla aveva davvero perso il coraggio.
Iniziò a setacciare fra le macerie, rovesciò mobili, frugò sul
pavimento tra i cenci e i pochi beni sopravvissuti al saccheggio
dei bauli. Ma non trovò niente del vecchio, nemmeno un
orecchio. Dovevano esserci dei resti – un frammento d’osso, un
teschio spaccato – se davvero gli abitanti del villaggio erano
riusciti a farlo a pezzi.
Ma altre e più terribili alternative gli vennero alla mente:
forse il medico era riuscito a scappare nella foresta o a
nascondersi da qualche parte all’interno del torrione. Dopo tutto,
se aveva costruito una nicchia nascosta dietro una pietra, chi
poteva dire che non avesse creato una camera segreta? O forse,
ancora peggio, si era allontanato con un incantesimo, o era stato
risparmiato dal diavolo in persona, mosso a compassione verso
un servitore così fedele.
Con il panico che gli attanagliava la gola, Adair scese di
corsa le scale fino al sotterraneo. La scena, lì sotto, era ancora
più spaventosa che sopra. L’aria era piena di fumo nero. A
quanto sembrava, era da lì che era partito l’incendio. La stanza
era completamente vuota, a parte un letto di cenere dove prima
c’erano il materasso e le coperte.
Ma Adair sentiva l’odore della morte nascosto nel fumo e si
avvicinò alle ceneri, si accovacciò e iniziò a setacciare i resti.
Trovò frammenti di ossa, brandelli di pelle e grumi di carne,
ancora bollenti. E finalmente individuò un pezzo di teschio, con
un frammento di pelle ancora attaccato e una ciocca di capelli.
Alzatosi in piedi, si tolse la cenere dalle mani come meglio
riuscì. Si prese del tempo prima di lasciare per sempre il
torrione, osservando il posto in cui aveva trascorso cinque anni
di tormenti. Era un peccato che le mura di pietra non potessero
essere abbattute con il fuoco. Non prese niente, tenne soltanto i
vestiti che indossava e, naturalmente, il sigillo e la sacca di
denaro che aveva in tasca. Alla fine, uscì dall’ingresso sventrato,
afferrò le redini del destriero, montò in sella e si diresse a est,
verso la Romania.
Adair visse nella tenuta del medico per molti anni, anche se la
proprietà non passò direttamente nelle sue mani come aveva
sperato. Quando giunse al castello da solo, senza il medico, il
giovane si presentò al cospetto del custode, Lactu, e gli disse che
il medico era morto. Aveva mentito quando aveva detto di avere
una moglie e un figlio, spiegò: una copertura atta a mascherare
le sue reali tendenze sessuali. Privo di eredi, dunque, il medico
aveva lasciato tutto al suo fedele servitore nonché compagno per
tutti quegli anni, spiegò Adair, e mostrò il sigillo.
Lactu assunse subito un’espressione dubbiosa. Disse che la
sua richiesta avrebbe dovuto essere esaminata dal re di Romania
in persona. Se Adair non era discendente di sangue del medico,
il re aveva il diritto di decidere come disporre della sua
proprietà. La decisione del re impiegò anni ad arrivare e non fu a
favore di Adair. Gli fu consentito di rimanere nella tenuta e di
prendere il nome della dinastia, ma il re gli tolse la proprietà
delle terre.
Giunse così il giorno in cui Adair non fu più in grado di
rimanere. Lactu e tutti gli altri erano invecchiati, mentre lui era
rimasto uguale al giorno in cui era tornato al castello senza il
vecchio. Perciò, per non destare sospetti, era giunto il momento
di sparire per qualche tempo, evitare di attirare l’attenzione e
forse tornare dopo qualche decennio, spacciandosi per il proprio
figlio, munito del sigillo d’oro.
Decise di andare in Ungheria, di seguire il cuore e di
rintracciare la sua famiglia. Adair desiderava ardentemente
rivederli, a parte suo padre, certo, che odiava, secondo solo al
medico. Ormai sua madre doveva essere vecchia e
probabilmente viveva col figlio maggiore, Petu. Gli altri
dovevano essere adulti, con figli. Moriva dal desiderio di
rivederli e di scoprire che cosa fosse successo loro.
Impiegò due anni a rintracciare la sua famiglia. Iniziò le
ricerche partendo dal luogo in cui era stato venduto e con
estrema fatica ricostruì i loro spostamenti, basandosi sulle poche
informazioni che otteneva da persone presso cui avevano
lavorato o dai vicini. Alla fine, mentre sopraggiungeva il
secondo inverno da quando si era messo in cerca, si fermò vicino
al lago Balaton ed entrò a cavallo in un villaggio, in cerca di
volti simili al suo.
Trovò un accampamento di tende ai confini del paese e provò
una sensazione strana. Finalmente gli sembrava di essere vicino
a qualcuno che conosceva. Scese da cavallo, si insinuò nella
notte fino ad arrivare nei pressi dell’accampamento e prese a
sbirciare in giro. Avvicinando un occhio a una fessura di un
capanno, intravide volti familiari.
Anche se erano cambiati nel tempo, erano diventati più pieni
e rotondi, e avevano delle rughe, riconobbe quei volti. I suoi
fratelli erano raccolti attorno al fuoco, a bere vino e a suonare il
violino e la balalaika. Con loro c’erano delle donne che Adair
non riconobbe, probabilmente le loro mogli, ma non c’era
traccia di sua madre. Finalmente, intravide Radu. Quant’era
cresciuto. Alto, col petto largo... Come avrebbe voluto
irrompere nel capanno, prendere il fratello tra le braccia e
ringraziare Dio che fosse ancora vivo, che gli fosse stato
risparmiato il tormento infernale che lui invece aveva sofferto.
Poi Adair si avvide che Radu sembrava più vecchio di lui, che
tutti i suoi fratelli lo sembravano. E poi vide una donna
avvicinarsi sorridente a Radu, che le cinse la vita e la trasse a sé.
Era Katarina, ormai donna, bellissima e innamorata di Radu, il
fratello che assomigliava di più a Adair. Solo che ora era più
vecchio.
In piedi al buio e al freddo, Adair ancora bruciava dal
desiderio di abbracciare i suoi familiari, di far loro sapere che
non era morto per mano del medico... Poi la terribile verità lo
assalì di colpo. Come avrebbe potuto spiegar loro tutto quello
che gli era successo e ciò che ancora lo attendeva? Il fatto che
non sarebbe mai invecchiato. Che non era più un mortale, come
loro. Che era diventato qualcosa che non sapeva nemmeno
spiegare.
Adair girò attorno al capanno, si avvicinò all’ingresso e
depositò un sacchetto di monete davanti alla porta. Era denaro
sufficiente a permetter loro di cambiare vita. Ci sarebbe voluto
tempo, ma avrebbero saputo accettare la loro buona sorte e
ringraziare Dio per la sua generosità e la sua compassione. E a
quel punto Adair sarebbe già stato a diversi giorni di distanza, a
nord, fra la gente di Buda e di Szentendre, a cercare di venire a
patti col proprio destino.
Alla fine del racconto, mi ero ritratta dall’abbraccio di Adair.
Gli effetti del narcotico iniziavano a scemare. Non sapevo che
cosa provare per lui, se un profondo rispetto o un cieco terrore.
«Perché mi hai raccontato tutto questo?» gli chiesi,
sfuggendo al suo tocco.
«Consideralo un avvertimento» rispose enigmaticamente.
25
Confine del Maine, oggi
Luke esce dall’autostrada e percorre una strada dall’asfalto
sconnesso e impolverato, con il motore del SUV che, a regimi
bassi, spinge il veicolo su per la strada piena di solchi. Giunti a
una curva, parcheggia accanto al vialetto d’accesso ma lascia il
motore acceso. Il panorama è perfettamente visibile perché
d’inverno gli alberi sono spogli; lui e la sua passeggera riescono
a vedere con chiarezza il confine tra Stati Uniti e Canada poco
lontano. Sembra un cantiere giocattolo: un’enorme distesa di
gabbiotti e di aree di sosta affollate di camion e automobili,
l’aria satura di gas di scarico.
«È lì che dobbiamo andare» dice, indicando oltre il
parabrezza.
«È gigantesco» risponde la ragazza. «Pensavo che saremmo
passati da un confine meno attrezzato, con due guardie e un cane
a ispezionare le auto con una torcia.»
«Sei sicura di voler andare fino in fondo? Ci sono altri modi
per arrivare in Canada» osserva Luke, anche se non è affatto
sicuro che sia giusto incoraggiarla a infrangere altre leggi.
Ma lo sguardo che lei gli rivolge gli arriva dritto al cuore,
come quello di un bambino che cerca sicurezza dai genitori.
«No, mi hai portato fin qui e ho fiducia in te. So che riuscirai a
farmi attraversare il confine.»
Avvicinandosi al checkpoint, Luke inizia a mostrare segni di
nervosismo. C’è poco traffico oggi ma, comunque, la
prospettiva di rimaner seduti in coda per un’ora lo atterrisce.
Ormai la polizia deve aver diramato un bollettino su di loro; una
sospetta di omicidio in fuga e il dottore suo complice... Per un
momento è sul punto di uscire dalla coda, ma si ferma all’ultimo
secondo, le mani strette e tremanti sul volante.
La ragazza lo guarda, anche lei nervosamente. «Tutto bene?»
«Ci stanno mettendo troppo...» borbotta Luke, tutto sudato
nonostante l’aria fredda dell’inverno.
«Va tutto bene» lo rassicura lei.
D’improvviso, una luce verde si accende davanti alla fila
accanto alla loro e Luke, reagendo con sorprendente rapidità,
sterza e accelera, indirizzando la macchina verso il confine, con
gli agenti doganali che smistano il traffico. Taglia la strada a
un’altra macchina che era in attesa due posizioni davanti a loro e
si insinua. La donna al volante dell’altro veicolo gli mostra il
dito medio, ma Luke non ci fa caso. Frena di colpo di fronte
all’agente doganale.
«Andiamo di fretta, eh?» dice il poliziotto, mascherando il
suo interesse con un atteggiamento noncurante mentre prende
dalle mani del dottore la sua carta d’identità. «Di solito diamo la
precedenza alla prima della fila quando apriamo un’altra
corsia.»
«Mi scusi, agente» dice brusco Luke. «Non sapevo che...»
«La prossima volta se ne ricordi, okay?» risponde l’altro in
tono amichevole, senza nemmeno alzare lo sguardo mentre
esamina la sua patente e poi il passaporto di Lanny. È un uomo
di mezz’età, con un’uniforme blu scuro e una casacca con le
tasche piene: un walkie-talkie, penne a non finire e altri
ammennicoli. In mano tiene una cartellina e un aggeggio
elettronico che pare una specie di scanner. La sua collega, una
donna più giovane di lui, fa il giro attorno alla macchina con
un’asta in cima alla quale c’è uno specchietto, come se si
aspettasse di individuare una bomba a tempo agganciata al
fondo del SUV. Luke ne segue i movimenti nello specchietto
retrovisore, con i nervi a fior di pelle senza alcuna particolare
ragione.
Poi ci arriva, di colpo: se gli chiedono i documenti della
macchina, saranno guai. Perché non è registrata a suo nome.
Non è lei il proprietario del veicolo? gli chiederà l’agente.
Ma capita ogni giorno che qualcuno prenda in prestito una
macchina da qualcun altro, si dice Luke, cercando di
rassicurarsi. Non è mica contro la legge.
Va bene, lasci soltanto che controlli nel registro per verificare
che non sia rubata...
Luke pensa: Non chiedermi il libretto di circolazione, non
chiedermelo, non chiedermelo, ti prego... Come se rivolgendo
quel mantra silenzioso all’agente potesse impedirgli di farsi
venire quell’idea. Se il nome di Luke è registrato nel database
della polizia in qualche modo – ricercato, fermarlo per
interrogatorio – le loro possibilità di fuga si estingueranno
definitivamente. Quel difetto nel piano che aveva elaborato
rende Luke ancora più nervoso perché lui non ha mai avuto guai
con la giustizia, mai, nemmeno da ragazzo, e non è capace di
ingannare le autorità. Ha paura di arrossire, e di sudare, e di
apparire troppo nervoso e...
«Lei è un medico, dunque?» gli domanda l’agente accanto al
finestrino, facendo sussultare Luke e attirando la sua attenzione.
«Sì, sono un chirurgo.» Stupido, si rimprovera subito. Non
gliene frega niente di sapere in che cosa sei specializzato. È la
sua vanità di medico a saltar fuori, come un bambino viziato che
richiede attenzioni.
«Per quale ragione vi state recando in Canada?»
Prima che Luke possa trovare una risposta, Lanny si sporge
per farsi vedere dal poliziotto. «A dire il vero mi sta facendo un
favore. Sono stata sua ospite per un po’ e adesso è giunta l’ora
che vada a sfruttare qualche altro lontano parente. E piuttosto
che scaricarmi su un autobus, è stato così generoso da insistere
per portarmi lui stesso.»
«Ah. E dove abita suo cugino?» chiede l’agente con un tono
inquisitivo ben mascherato dall’apparente gentilezza.
«Lac-Benne» risponde la ragazza con scioltezza. «Cioè,
dobbiamo incontrarci a Lac-Benne. Ma lui abita vicino a
Québec.» Conosceva il nome di un paesino vicino: a Luke
sembra un miracolo. Inizia a rilassarsi un po’.
L’agente rientra nel gabbiotto e, attraverso il vetro di
plexiglass tutto graffiato, Luke lo osserva. L’uomo si china
davanti a un monitor, probabilmente per inserire i loro dati. A
stento Luke resiste alla tentazione di schiacciare l’acceleratore e
scappare. Non c’è niente che potrebbe fermarlo, nessuna sbarra
automatica, nessuna griglia dentata sull’asfalto che possa
bucargli le gomme e fermare la loro fuga.
Improvvisamente, l’agente è di nuovo accanto al suo
finestrino. Gli porge il passaporto e la patente. «Ecco fatto...
Buon soggiorno in Canada, allora» dice, facendo loro cenno di
proseguire, con lo sguardo già rivolto alla macchina in fila dietro
di loro.
Luke trattiene il fiato fino a quando l’immagine della
stazione di frontiera non scompare dallo specchietto retrovisore.
«Perché eri così preoccupato?» Lanny ride, guardandolo di
sbieco. «Non siamo mica terroristi o contrabbandieri che
cercano di portare sigarette oltre confine. Siamo soltanto due
bravi cittadini americani che vanno a farsi un pranzetto in
Canada.»
«No che non lo siamo» risponde Luke, ma anche lui sta
ridendo, sollevato. «Mi dispiace, non sono abituato a sotterfugi
come questi.»
«No, scusami tu, non volevo ridere di te. So che non ci sei
abituato. Te la sei cavata alla grande, comunque.»
Gli stringe la mano.
Si fermano in un motel anonimo, che non fa parte di una
catena, alla periferia di Lac-Benne. Luke aspetta in macchina
mentre Lanny si reca alla reception. La osserva parlare con il
vecchio alla cassa, che si muove lentamente, approfittando più
che può di quella che probabilmente sarà l’unica occasione della
mattina di parlare con una bella e giovane ragazza. Poi, Lanny
esce e sale sul SUV. Fanno il giro e parcheggiano davanti a una
camera sul retro che dà su un filare d’alberi e su un campo da
baseball. La loro è l’unica macchina nel parcheggio.
Una volta entrati nella camera, Lanny si dà da fare frenetica:
svuota la valigia, controlla il bagno, si lamenta della qualità
degli asciugamani. Luke si siede sul letto, di colpo è troppo
stanco per stare in piedi. Si sdraia sul copriletto di poliestere e
fissa lo sguardo sul soffitto. La stanza gli gira attorno come una
giostra di carnevale.
«Che succede?» Lanny si siede accanto a lui sul bordo del
letto, posandogli la mano sulla fronte.
«Semplice stanchezza, credo. Quando faccio il turno di notte,
di solito vado a letto non appena arrivo a casa.»
«Allora, dai, cerca di dormire un po’.» Gli sfila le scarpe da
ospedale senza slacciarle.
«No, dovrei tornare indietro. È solo mezz’ora di viaggio»
cerca di opporsi lui, ma non si muove. «Devo riportare la
macchina...»
«Stupidate. E poi, alla frontiera potrebbero insospettirsi se tu
tornassi subito a casa così.» Gli mette addosso una coperta, poi
fruga nella sua valigia ed estrae un sacchettino di plastica
contenente la marijuana più profumata che Luke abbia mai
sentito.
In pochi minuti, lei prepara una voluminosa canna con
estrema destrezza, la accende e fuma con avidità. Lascia uscire il
fumo lentamente, con gli occhi chiusi, e il suo volto si rilassa,
soddisfatto. Luke pensa che un giorno gli piacerebbe suscitarle
quella stessa espressione.
Lanny gli porge la canna. Dopo un attimo di esitazione Luke
la prende e se la porta alle labbra. Aspira e trattiene il fumo, lo
sente diffondersi nei lobi cerebrali, avverte le orecchie tapparsi.
Gesù, questa roba è forte. Molto.
Tossendo, restituisce la canna a Lanny. «È un bel po’ di
tempo che non ne fumo una. Dove l’hai presa questa roba?»
«In paese. A St. Andrew.» La sua risposta lo inquieta e allo
stesso tempo lo sorprende, gli ricorda che ci sono mondi
invisibili proprio sotto il suo naso. Ma è contento di non aver
saputo che lei aveva della droga con sé quando hanno
attraversato il confine, altrimenti sarebbe stato ancora più
nervoso.
«Lo fai spesso?» le chiede indicando la canna.
«Non riuscirei a sopravvivere senza. Non hai idea di quanti
ricordi mi affollino la mente... Vita dopo vita, rimorso dopo
rimorso... Cose che ho visto altre persone fare. Cose che non
riuscirei a dimenticare senza questa roba.» Osserva la canna fra
le sue dita. «Ci sono state volte in cui avrei voluto stordirmi con
questa roba e rimanere svenuta per, non so, decenni. Dormire e
basta. Fermare tutto. Ma non c’è modo di eliminare i brutti
ricordi. Non è fare le cose che è difficile, è difficile convivere
con quello che hai fatto.»
«Come l’uomo nell’obitorio...»
Lei poggia l’indice sulle labbra di Luke per impedirgli di
andare avanti con quel discorso. Ci sarà tempo dopo, per
parlarne, pensa Luke. E in effetti, lei ha tutto il tempo che vuole
davanti a sé per venire a patti con l’irreversibilità di quanto ha
fatto all’amore della sua vita, e il pensiero la tormenterà ogni
minuto di ogni giorno. Non c’è abbastanza marijuana al mondo
per sollevarla da quel peso. Sarà l’inferno.
Quello che ha fatto lui sembra ben poca cosa al confronto.
Eppure, allunga la mano e chiede la canna.
«Tornerò a casa» dice, come se volesse convincere lei.
«Faccio soltanto un pisolino. Non voglio guidare con questo
sonno. Ma devo tornare... ho cose da fare, scadenze... la
macchina di Peter...»
«Certo» dice lei.
Quando il dottore si sveglia, la camera del motel è permeata
di una luce grigiastra. Il sole sta tramontando ma i lampioni non
si sono ancora accesi. Luke rimane immobile, non si alza a
sedere, cerca di riprendere contatto con la realtà. Per parecchi
minuti, si sente intontito e non riesce a ricordare dove si trovi e
perché tutto gli appaia così estraneo. È accaldato e sudato, sotto
la coperta, e si sente come la vittima di un rapimento, trascinata
fuori da un’auto, bendata e scaraventata in una camera
d’albergo, senza alcuna idea di dove si trovi.
Piano piano, mette a fuoco la camera. La sconosciuta è seduta
a un tavolino e guarda fuori dalla finestra. È assolutamente
immobile.
«Ehi» dice Luke, per farle sapere che è sveglio. Lei si volta,
con un leggero sorriso sulle labbra.
«Ti senti meglio? Ti prendo un bicchiere d’acqua.» Si alza e
va nel cucinotto. «C’è soltanto acqua del rubinetto. Ne ho messa
un po’ nel frigo per farla raffreddare.»
«Quanto tempo ho dormito?» Luke prende il bicchiere; è
piacevolmente freddo e vorrebbe posarselo sulla fronte. Si sente
febbricitante.
«Quattro, cinque ore.»
«Oh, Cristo, farei meglio a mettermi in strada. Presto mi
cercheranno, se non lo stanno già facendo.»
«Che fretta c’è? Hai detto che non c’è nessuno a casa ad
aspettarti» gli risponde la ragazza. «E poi non hai un
bell’aspetto. Forse quella roba era troppo forte per te. Forse è
meglio se rimani sdraiato e se riposi un altro po’.»
Lanny prende il suo computer portatile dal piano della
cassettiera ricoperta di formica tutta sbrecciata e si avvicina a
lui. «Ho scaricato queste foto dalla macchina fotografica mentre
dormivi. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere vederlo. Cioè,
so che l’hai già visto, hai visto il suo corpo, ma forse ti
interessano comunque...»
Luke sussulta a quel discorso un po’ macabro, non gli fa
piacere ricordare il cadavere all’obitorio e il suo rapporto con
Lanny, ma quando lei gli porge il computer lo prende. Nella
penombra del tramonto, le immagini sono splendenti e
coloratissime sullo schermo. È l’uomo che ha visto sul tavolo
dell’obitorio ma non c’è paragone. In quelle foto è vivo, intero,
magnifico. Gli occhi e il volto risplendono di vitalità.
Ed è incredibilmente bello. Tanto che a vederlo Luke avverte
una strana tristezza. La prima foto dev’essere stata scattata
all’interno di un’automobile, con il finestrino abbassato. I suoi
lunghi capelli neri svolazzano attorno al volto e ha gli occhi
socchiusi perché sta sorridendo alla donna che ha scattato la
foto, ride per qualcosa che Lanny ha detto o fatto. Nella foto
seguente è a letto, il letto che devono aver condiviso
nell’alloggio dei Dunratty, la testa su un cuscino bianco, e
ancora i capelli sul volto, ciglia così lunghe da sfiorargli le
guance, la carnagione perfetta, gli zigomi alti. Uno scorcio di
collo e di clavicola si intravede sotto un lenzuolo bianco crema.
Dopo un minuto trascorso a guardare una foto dopo l’altra,
Luke capisce che la cosa più bella dell’uomo nella foto non è il
suo volto perfetto. Non è la sua bellezza. È qualcosa nella sua
espressione, una magica interazione fra lo sguardo luminoso e il
sorriso. È che è felice di trovarsi con la persona che gli sta
scattando le foto.
Luke sente un groppo in gola e restituisce il computer a
Lanny, brusco. Non vuole più guardare quelle foto.
«Lo so» dice la ragazza, con voce strozzata, dando sfogo alle
lacrime. «Muoio al pensiero che non c’è più. Per sempre. La sua
assenza è come una cavità nel mio cuore. Un sentimento che
albergava dentro di me da duecento anni mi è stato strappato via.
Non so come fare ad andare avanti. Ecco perché ti chiedo... ti
prego, resta con me un altro po’. Non riesco a rimanere da sola.
Diventerei pazza.» Appoggia il computer sul pavimento, poi
prende la mano di Luke. Lui la sente piccola e calda nella sua. Il
palmo è umido, ma Luke non capisce se sia lui o lei a sudare.
«Non so come ringraziarti per quello che hai fatto per me» gli
dice guardandolo negli occhi, fino in fondo all’anima, come se
riuscisse a vedere ciò che si agita dentro di lui, nel profondo. «Io
non... non ho mai... Insomma, nessuno è mai stato così gentile
con me. Nessuno ha mai corso un rischio simile per me.»
D’improvviso, la bocca di Lanny è sulla sua. Lui chiude gli
occhi e sprofonda con tutto il suo essere nella bocca calda e
umida di lei. Ricade sul letto da cui si è appena alzato, con il
peso quasi impercettibile di lei sul suo petto e sente una parte di
sé spezzarsi in due. Ciò che sta facendo in qualche modo lo
disgusta, eppure non ha desiderato altro che questo dal momento
in cui l’ha vista. Non tornerà a St. Andrew, non adesso almeno.
La seguirà. Come potrebbe abbandonarla proprio ora? Lei ha
bisogno di lui, e quel bisogno lo ha agganciato come un uncino
al cuore, e ora lo sta trascinando con sé senza sforzo ed è
impossibile resistere. Si sta gettando da una rupe in acque nere e
profonde. Non riesce a vedere sul fondo, non sa che cosa lo
aspetti, ma sa che niente al mondo potrebbe fermarlo.
26
Boston, 1817
Dopo aver ascoltato la storia di Adair, mi ritirai nella mia
camera, terrorizzata e affranta. Mi arrampicai sul letto e mi
raccolsi in posizione fetale. Ero atterrita dal ricordo di quello
che mi aveva raccontato e cercai di dimenticarmene.
Alejandro bussò e quando non ebbe risposta spinse la porta
con un gomito ed entrò portando un vassoio con tè e biscotti.
Accese alcune candele – «Non puoi star chiusa al buio, Lanore,
è da fantasmi» – e poi mi posò una tazzina e un piattino accanto
al braccio, ma io non volevo saperne delle sue cortesie. Finsi di
avere lo sguardo perso fuori dalla finestra, su un tranquillo
vicolo di Boston, ma in verità non vedevo assolutamente niente.
Ero ancora accecata dalla rabbia e dalla disperazione.
«Su, mia cara, non essere così triste. Lo so che fa paura.
Anche io ero terrorizzato quando è successo a me perché era...
sconosciuto. Un mistero, un buco nero e profondo.»
«Ma, Alej... Che cosa siamo diventati?» gli chiesi, stringendo
il cuscino al petto.
«Tu sei te stessa, Lanore. Non sei diventata parte di un
mondo magico. Non puoi attraversare i muri come un fantasma
o far visita a Dio in cielo. Dormiamo e ci svegliamo, facciamo
tutto quello che fa un normale essere umano. L’unica differenza
è che un mortale si chiede, di tanto in tanto, quale sarà il suo
ultimo giorno su questa terra. Ma io e te... I nostri giorni non
finiranno mai. Continuiamo e continueremo per sempre a essere
testimoni di quello che succede attorno a noi.» Disse tutto
questo con impassibilità, come se l’interminabile scorrere dei
giorni lo avesse privato di qualsiasi emozione. «Quando Adair
mi spiegò quello che mi aveva fatto, volevo uccidermi. Volevo
fuggire da questa terribile incognita, anche se ciò comportava
porre fine alla mia vita con le mie stesse mani. Ma era l’unica
cosa che non potevo fare.
«Ma perdere anche il tuo bambino, come conseguenza... Non
riesco nemmeno a immaginare quanto ti possa far soffrire.
Povera Lanore. La tristezza un giorno passerà, davvero»
proseguì con il suo inglese cantilenante, ancora marcato
dall’accento spagnolo. Bevve un sorso di tè e poi mi osservò
attraverso il vapore che saliva dalla tazza. «Ogni giorno che
passa allontana sempre più il tuo passato e la vita con Adair
diventa sempre più familiare. Sei parte della nostra famiglia.
Poi, un giorno, ti verrà in mente qualcosa della tua vecchia vita –
un fratello, una sorella, la casa in cui vivevi, un giocattolo che
adoravi – e ti accorgerai di non provare più rimpianto. Sarà
semplicemente qualcosa che ti è successo tanto tempo prima,
tanto che non sembrerà nemmeno appartenerti. E a quel punto
capirai che il cambiamento è completo.»
Gli lanciai uno sguardo da sopra la spalla. «Quanto tempo ci
vuole perché la sofferenza cessi?»
Alejandro sollevò una zolletta di zucchero con un paio di
pinzette sottili e la lasciò cadere nella tazza. «Dipende da quanto
sei incline al sentimentalismo. Io ho un cuore tenero. Adoravo la
mia famiglia e ne ho sentito la mancanza per anni e anni dopo la
mia trasformazione. Ma Dona, per esempio, con ogni probabilità
non si è mai guardato indietro. Non ha lasciato niente di prezioso
dietro di sé. La sua famiglia l’aveva abbandonato quando era
soltanto un ragazzo, perché era un sodomita» disse Alejandro,
abbassando la voce a un sussurro su quelle ultime parole, anche
se in quella casa eravamo tutti sodomiti, se non peggio. «La sua
vita era povera e incerta. Linciaggi. Fame. Prigione. No, non
credo proprio che abbia rimpianti.»
«Io non penso che la mia sofferenza passerà mai. Mio figlio
non c’è più! Rivoglio mio figlio. Rivoglio la mia vita.»
«Non potrai mai riavere tuo figlio, lo sai» disse con
gentilezza, avvicinandosi a me per accarezzarmi il braccio. «Ma
perché mai rivorresti la tua vita, piccola? Da quanto mi hai detto,
non hai niente e nessuno da cui tornare. La tua famiglia ti ha
cacciato di casa. Ti hanno abbandonato quando più avevi
bisogno di loro. Non vedo niente che tu possa rimpiangere.»
Alejandro mi fissò coi suoi occhi neri e gentili, come se potesse
evocare la risposta dalle profondità del mio cuore. «Quando ci
troviamo nei guai, spesso ci manca la nostra famiglia. Ma anche
questo passerà.»
«A dire il vero, c’è una cosa...» mormorai.
Si sporse verso di me, ansioso di ascoltare la mia confessione.
«Un amico. C’è un amico di cui sento particolarmente la
mancanza.»
Alejandro era, come lui stesso aveva detto, un animo gentile e
malinconico. Chiuse gli occhi, come un gatto addormentato su
un davanzale al sole, invitandomi silenziosamente a raccontargli
la mia storia. «Sono sempre quelli di cui si sente di più la
mancanza. Parlami di questo amico speciale.»
Da quando avevo lasciato St. Andrew, avevo cercato in tutti i
modi di non pensare a Jonathan. Era oltre le mie possibilità
riuscire a non pensare mai a lui, perciò mi permettevo qualche
breve indulgenza, per esempio qualche minuto prima di
addormentarmi, e ricordavo il calore della sua guancia arrossata
appoggiata alla mia, il modo in cui la mia schiena veniva
percorsa da un brivido quando lui mi stringeva in vita e mi
reclamava a sé. Era già abbastanza difficile controllare le mie
emozioni quando Jonathan era soltanto un’apparizione
evanescente ai confini dei miei ricordi. Ma rievocarlo di
proposito, volontariamente, era più di quanto potessi sopportare.
«Non posso. Non ci riesco. Mi manca troppo» dissi ad
Alejandro.
Lui si appoggiò allo schienale della sedia. «Questo amico è
tutto per te, vero? È l’amore della tua vita. È il padre del tuo
bambino.»
«Sì» dissi. «L’amore della mia vita.» Alejandro attese che
proseguissi, il suo silenzio era come una redine che mi tirava per
il collo, così andai avanti. «Si chiama Jonathan. Sono
innamorata di lui da quando eravamo bambini. Tutti dicevano
che era troppo bello per mettersi con me. La sua famiglia
possiede l’intero villaggio. Non è un posto grande, né ricco, ma
tutti quelli che ci abitano dipendono dalla famiglia di Jonathan
per sopravvivere. E poi, è un uomo bellissimo...» Arrossii.
«Penserai che io sia una persona così superficiale...»
«Per niente!» disse in tono amichevole. «Nessuno è immune
alla seduzione della bellezza. Ma in sincerità, Lanore, come
poteva quell’uomo essere così bello come dici? Pensa a Dona,
per esempio. È così bello che è riuscito a conquistare uno dei più
grandi artisti che l’Italia abbia mai conosciuto. Il tuo Jonathan è
forse più bello di Dona?»
«Se lo vedessi capiresti. Al suo confronto Dona sembrerebbe
uno gnomo.»
Questo strappò una risatina ad Alejandro; a nessuno di noi
piaceva molto Dona, così vanitoso e insopportabile. «Cerca di
non farti mai sentire da Dona a dire queste cose! Bene, ma... che
cosa mi dici di Adair? È o non è un bellissimo uomo? Hai mai
visto occhi come i suoi? Sono come quelli di un lupo...»
«Adair ha un certo fascino.» Un fascino animale, pensai,
senza dirlo ad alta voce. «Ma non c’è paragone, Alej. Credimi.
Comunque non ha alcuna importanza. Non rivedrò mai più
Jonathan.»
Alejandro mi accarezzò la mano. «Non dire così. Non si sa
mai. Forse accadrà.»
«No, non riesco a immaginare di tornare a casa, non adesso.
Non è come mi ha raccontato Adair? Come potrei mai spiegar
loro quello che mi è successo?» Feci una risata di scherno.
«Ci sono dei modi... Non potresti più vivere con loro. No,
quello sarebbe fuori discussione. Ma una breve visita... Se tu
rimanessi soltanto per poco tempo...» Si mordicchiò il labbro
inferiore, con fare assorto.
«Non darmi delle false speranze. È crudele da parte tua.» Le
lacrime mi salirono agli occhi. «Per favore, Alejandro. Devo
riposare. Ho un mal di testa terribile.»
Mi posò per un attimo le dita sulla fronte. «No, non hai la
febbre... Dimmi, questo mal di testa... È come un continuo
prurito alla base del cervello?» Annuii. «Sì? Be’, mia cara, è
meglio che ti ci abitui. Non è mal di testa: è parte del dono. Sei
connessa a Adair adesso.»
«Connessa a Adair?» ripetei.
«C’è un legame fra voi due, e quel prurito è lì per
ricordartelo.» Mi si avvicinò con fare cospiratorio. «Ricordi
quando ti ho detto che sei cambiata soltanto per un aspetto, che
non sei una creatura magica? Be’, invece siamo un po’ tutti
magici, giusto un pochino. A volte penso che siamo come
animali, sai? Devi aver notato che adesso tutto sembra più
nitido, che riesci a sentire il più piccolo rumore, che ogni odore
ti assale l’olfatto. Tutto questo è parte del dono. La
trasformazione ci rende migliori. Siamo potenziati. Riuscirai a
sentire una voce provenire da lontano e capire così chi sta
arrivando a farti visita. Riuscirai a sentire l’odore della ceralacca
e a capire che quella persona ti sta portando una lettera. Col
tempo, smetterai di far caso a questi poteri, ma agli altri
sembrerà che tu sappia leggere nel pensiero, che sia capace di
magie!
«La seconda cosa che devi sapere è che non sentirai mai più
dolore. Ha a che fare con l’immortalità, credo. Non avrai mai più
l’impulso della fame o della sete. Certo, ci vuole tempo prima
che la sensazione di dover mangiare o bere scompaia... Ma
potresti stare a digiuno per settimane senza sentire il morso allo
stomaco, e senza svenire o sentirti debole. Potrebbe passarti
sopra un cavallo e non avvertiresti altro che un leggero disturbo
dove ti si è rotto un osso, ma la sensazione passerà in un
secondo, il tempo che l’osso guarisca da solo. Adesso è come se
tu fossi fatta di terra e di vento e potessi ripararti da sola.» Le sue
parole mi fecero rabbrividire: dentro di me sapevo già che era
così. «E la connessione con Adair, il prurito alla mente, è un
memento del tuo potere perché soltanto lui può renderti di nuovo
mortale. Solo per mano sua tu potrai sentire dolore. Ma ogni
danno che dovesse infliggerti sarebbe temporaneo, a meno che
non sia lui stesso a scegliere diversamente. Può importi qualsiasi
cosa con la sola volontà, dolore, ferite, perfino la morte. Per mia
mano, per mia volontà. Sono queste le parole che usa nel suo
incantesimo. Sono queste le parole che ti legano a lui per
sempre.»
Mi portai una mano sulla pancia; aveva ragione a proposito
del dolore. Il muto pulsare che avevo avvertito nel mio ventre
svuotato era scomparso del tutto.
«Sono sicuro che te l’ha detto. E devi credergli: adesso, lui è
il tuo Dio. Vivi o muori solo per suo capriccio. E...» Per un
momento la sua espressione si addolcì, come se stesse
abbassando ogni difesa. «E dovresti stare attenta con Adair. Ti
ha dato quello che ogni mortale vuole, ma solo finché tu gli sarai
sottomessa. Se lo farai infuriare, non esiterà un secondo a
toglierti tutto. Non scordarlo mai.»
Ben presto capii che, lo volessi o meno, ormai facevo parte di
quella strana famiglia e avrei fatto meglio a individuare al più
presto il mio posto in essa. La mia vita era cambiata
irrevocabilmente e dovevo trovare un modo per tirare avanti.
Adair, da parte sua, aveva centinaia d’anni di esperienza. Gli
altri che aveva scelto erano rimasti tutti con lui, probabilmente
per una buona ragione.
Mi ripromisi anche di dimenticare Jonathan. Ero convinta
che non l’avrei mai più rivisto, nonostante quello che aveva
detto Alejandro. La mia vecchia vita era finita in tutti i sensi:
Boston era diversa da St. Andrew quanto la crema lo è
dall’acqua, e non ero più una povera sprovveduta di campagna
con una vita di stenti e delusioni davanti a sé. Avevo perso il
bambino, l’ultima cosa che mi legava a Jonathan. Tanto valeva
lasciarmi tutto alle spalle in un sol colpo.
In pochi giorni mi accorsi che i ritmi di quella casa erano
diversi da tutto ciò che avevo sperimentato nella mia piccola e
laboriosa cittadina puritana. Tanto per cominciare, nessuno in
quella casa, a parte la servitù, si svegliava prima di
mezzogiorno. E in ogni caso, ognuno dei cortigiani di Adair
rimaneva nella sua camera fino alle due, le tre, anche se si
sentivano dei suoni dietro le loro porte: mormorii, risate
improvvise, una sedia che strisciava sul pavimento. Alejandro
mi spiegò che in Europa si faceva così: la sera, la parte più
importante della giornata, era dedicata agli eventi sociali – cene,
balli, giochi da tavola – e il giorno veniva trascorso a prepararsi
con cura, a vestirsi a puntino, a pettinarsi e a scegliere il vestito
più adatto alla serata. Si erano portati dietro dall’Europa alcuni
servitori selezionati, quelli esperti nelle acconciature e nel
mantenere un guardaroba alla moda. Lo ritenevo uno stile di vita
decadente, ma Alejandro mi assicurò che la pensavo così solo
perché ingannata dalla mia educazione americana e puritana.
C’era una ragione, dopotutto, se i puritani erano scappati
dall’Inghilterra in cerca di un nuovo mondo, mi fece notare.
Il che mi porta al secondo aspetto strano della casa di Adair:
nessuno sembrava avere uno scopo nella vita. Non c’erano affari
di cui occuparsi e nessuno mai discusse di soldi in mia presenza.
Nessuno parlava del vecchio continente, nessuno ricordava le
vite passate (come mi disse Alejandro, «Lasciamo riposare i
morti»). Non arrivava nessuna lettera, solo inviti da membri
dell’alta società di Boston, curiosi di incontrare un nobile
europeo. Il vassoio all’ingresso traboccava di inviti a feste,
salotti e tè pomeridiani.
L’unico argomento che interessava Adair e il suo entourage,
il solo impegno che affrontavano con una certa serietà, la
preoccupazione che riempiva le loro giornate, era il sesso. Ogni
membro della conventicola aveva un compagno di giochi, per
una sera o per una settimana. Poteva essere uno snob incontrato
a un ricevimento o un lacchè noleggiato per la notte. C’era un
flusso costante di donne che affollava la casa, volgari prostitute
o rampolle di buona famiglia particolarmente licenziose.
Nessuno, in quella casa, andava mai a letto da solo. Ma né
Alejandro né Donatello sembravano interessati a me. Quando
chiesi ad Alejandro se mi trovasse attraente, rise e mi disse di
non fare l’ingenua.
La famiglia era interamente dedita unicamente alla ricerca e
alla sperimentazione del piacere. Tutto ciò che mi circondava
era l’antitesi dell’educazione che avevo ricevuto da parte dei
miei genitori, immigrati di discendenza scozzese e scandinava,
in un luogo aspro e ostile. Alla lunga, il loro lassismo mi avrebbe
disgustato, ma sulle prime tutto quel lusso, che nemmeno
immaginavo esistesse, riuscì a sedurmi. St. Andrew era un
villaggio di biancheria fatta a mano e di mobili di pino grezzo.
Ora vivevo circondata da raffinatezze, e ogni nuova tentazione
era migliore della precedente. Mangiavo e bevevo cibi di cui
non avevo mai sentito parlare, indossavo abiti e gonne fatti di
tessuti esotici provenienti dall’Europa e realizzati su misura da
un sarto. Imparai a ballare e a giocare a carte. E mi diedero da
leggere dei romanzi che mi aprirono a ulteriori nuovi mondi.
Adair adorava le feste e siccome la sua presenza era ancora la
novità del momento, a Boston, ce n’era una a cui andare quasi
ogni sera. Lui portava ovunque con sé tutto l’entourage e
lasciava che Alejandro, Dona e Tilde seducessero i bostoniani
con i loro modi da vecchio mondo, i vistosi abiti all’ultima moda
parigina, viennese e londinese, e i racconti sull’aristocrazia
decadente dell’Europa.
A lasciare davvero stupefatti tutti quegli snob, comunque, era
Uzra, quando Adair la costringeva a venire con noi. Lei si
avventurava all’aperto avvolta in un velo di tessuto bordeaux
che la copriva dalla testa ai piedi. Una volta arrivati alla festa, il
drappo cadeva a terra svelando Uzra in uno dei suoi costumi,
con un corpetto aderente di organza e un gonnellino di veli, gli
occhi cerchiati di kohl, catenelle di ottone attorno alla vita nuda,
ai polsi e alle caviglie. I veli di seta erano di colori vistosi ma
leggerissimi e lei era praticamente nuda a confronto con le altre
donne, bardate con strati e strati di sottogonne, corsetti e calze.
Uzra tintinnava dolcemente mentre camminava, lo sguardo
basso, consapevole di essere ammirata da sguardi lascivi, come
una bestia esotica. Le donne coprivano con una mano la loro
bocca spalancata per la sorpresa, e gli uomini... L’atmosfera
inevitabilmente si riempiva dell’odore muschiato del desiderio e
tutti si davano da fare per risistemarsi i vestiti, cercando con
estrema goffaggine di nascondere la propria erezione. In
seguito, Adair spesso ci raccontava, ridendo, delle assurde
proposte che riceveva: uomini che offrivano imponenti somme
di denaro pur di passare un’ora da soli con l’odalisca. Avrebbero
dato anche l’anima se lui gliel’avesse chiesto, commentava
Adair quando eravamo tornati a casa dopo la festa e ci
radunavamo attorno al tavolo in cucina, accanto al camino
ancora tiepido, a bere una bottiglia di vino.
«Tu potresti avere lo stesso effetto» mi disse in privato una
sera Adair, la voce come una carezza di velluto, mentre
salivamo le scale per ritirarci nelle nostre camere. «Il desiderio
maschile è un’arma potente. Può annichilire anche il più forte
degli uomini. Quando un uomo vede una donna che lo conquista
col suo fascino, è pronto a rinunciare a tutto per averla.
Ricordatelo bene, Lanore: a tutto.»
«Rinunciare a tutto per me? Sei pazzo. Nessuno ha mai
rinunciato a qualcosa pur di avermi» risposi seccata, ripensando
a come Jonathan non era stato capace di opporsi alla sua
famiglia per stare con me. Nel mio empito di
autocommiserazione, non fui equa con lui, lo sapevo, ma ero
stata ferita dal mio amato infedele e ne soffrivo ancora.
Adair mi guardò con occhi intensi e appassionati e disse una
cosa che non avevo mai preso in considerazione. «È triste
sentire queste parole a proposito di qualsiasi donna, ma è ancora
più triste se si tratta di te. Forse è perché non hai mai chiesto
niente in cambio delle tue attenzioni. Tu non ti rendi conto del
tuo valore, Lanore.»
«Il mio valore? Lo conosco fin troppo bene: sono una
sempliciotta ignorante che proviene da una famiglia di poveri.»
Mi prese sottobraccio. «Non sei affatto una sempliciotta. E
hai un fascino irresistibile per certi uomini, uomini che
preferiscono la freschezza e la discrezione alla volgare messa in
mostra delle proprie grazie. Troppo seno che spunta da un
corpetto, un petto troppo prominente, troppo voluttuoso, mi
capisci?» Non lo seguivo; in base alla mia esperienza, gli uomini
rimanevano ipnotizzati proprio da quegli attributi, e il fatto che
io non li possedessi in eguali proporzioni mi era sempre
sembrato una mancanza da parte mia.
«La tua descrizione di grazie femminili ’volgari’ mi fa
pensare a Uzra, e non c’è volta in cui lei non faccia sbavare tutti
gli uomini che la vedono. Eppure io e lei siamo agli antipodi»
dissi per punzecchiarlo.
«Non c’è un’unica misura della bellezza, Lanore. A tutti
piacciono le rose rosse, ma è una bellezza comune. Tu sei come
una rosa dorata, rara ma non per questo meno bella» mi rispose,
intendendo farmi un complimento, ma io non riuscii a trattenere
una risata. Ero magra come un ragazzino e col petto quasi
altrettanto piatto. I miei capelli biondi erano ricci e ribelli come
un cardo. Non potevo fare a meno di pensare che mi stesse
lusingando per qualche suo oscuro scopo, eppure le sue parole
dolci ebbero comunque un effetto.
«Devi soltanto fidarti di me. Lascia che io ti guidi... Ti
insegnerò come ridurre ai tuoi piedi qualsiasi uomo. Come ho
fatto con Tilde, Alej e Dona» proseguì, accarezzandomi la
mano. Forse era proprio quello il loro scopo; forse era quella la
loro attività principale. In effetti, sembravano abilissimi nel
portare le persone – specialmente gli uomini perché erano quelli
con più potere – a fare ciò che volevano. Riuscivano a
controllarli. Ed era un’abilità preziosa, senza dubbio.
«Non è sufficiente conquistare il nemico; per controllarlo,
devi riuscire a sedurlo.»
«Considerami la tua allieva, allora» dissi, lasciando che
Adair mi conducesse dentro la sua camera da letto.
«Non te ne pentirai» mi assicurò.
27
Fu così che iniziò il mio apprendistato nelle arti della
seduzione. Cominciò con le notti trascorse a letto con Adair.
Dopo quella sera, in cui Adair mi aprì gli occhi su questo nuovo
modo di vedere le cose, capii che era deciso a dimostrarmi che
ero degna delle attenzioni di un uomo: lui. Continuammo ad
andare alle feste, continuò a sedurre i bostoniani, ma quando
tornavamo a casa c’ero sempre io al suo braccio. Mi portava a
letto con sé ogni sera. Mi viziava e mi dava tutto ciò che
chiedevo. Mi fece preparare della biancheria intima
meravigliosa e dei magnifici corpetti (anche se ne avevo scarso
bisogno, tanto era modesto il mio seno), nonché dei corpetti di
seta colorata, orlata di nastri. Giarrettiere decorate di roselline di
seta. Adair si incantava a vederle quando mi sfilava i vestiti. Mi
dedicai interamente a diventare la sua rosa dorata.
Mentirei se dicessi che non pensai mai a Jonathan in quel
periodo. In fondo, era il mio primo amore. In ogni modo, mi
sforzai di reprimere il sentimento che ancora provavo per lui,
ricordandomi tutti i momenti peggiori fra di noi, le volte che mi
aveva ferito senza nemmeno farci caso. Le voci che dicevano
che aveva fatto un’altra conquista. Il momento in cui ero rimasta
in piedi accanto a lui sulla collina a guardare il funerale di
Sophia, sapendo che stava pensando a lei. Quando aveva baciato
Evangeline davanti a tutta la congregazione pochi attimi dopo
che gli avevo dato la notizia della mia gravidanza. Cercai di
vedere il mio amore per Jonathan come una malattia, una febbre
che mi consumava il cuore e la mente, e quei ricordi strazianti
erano la cura.
E le attenzioni del mio nuovo amante sarebbero state il mio
ricostituente. Paragonando le mie esperienze con i due uomini,
mi sembrava che far l’amore con Jonathan mi avesse riempito di
felicità al punto di credere di essere in punto di morte. In quei
momenti, ero a malapena consapevole del mio corpo, mi
sembrava di levitare fino al soffitto tra le sue braccia. Era
sublime. Invece con Adair era tutto concentrato nelle sensazioni
corporee, era una fame di carne, muscoli, pelle, era la sensazione
di potere che mi dava quando mi saziava. In quel periodo, la
scoperta di quella fame che Adair mi suscitava non mi spaventò.
Me ne deliziavo, all’opposto, e Adair, invece di reputarmi
viziosa e ninfomane, sembrava compiaciuto di riuscire a
provocarmi quelle sensazioni.
Fu lui stesso a confermarmelo, una sera nel suo letto, mentre
accendeva il narghilé dopo che avevamo fatto l’amore con
particolare frenesia. «Ritengo che tu abbia una predisposizione
naturale per il piacere» osservò con un sorriso lascivo. «Mi
spingo a dire che tu adori stare fra le lenzuola. Fai tutto quello
che ti chiedo, no? E non c’è niente di quello che ti ho fatto che ti
ha spaventata, vero?» Quando confermai con un leggero cenno
della testa, proseguì: «Allora è giunto il momento di espandere
le tue esperienze, perché le arti del piacere funzionano così: più
sono esperti gli amanti che si hanno, più esperti si diventa. Mi
capisci?» Accolsi quell’affermazione corrucciando la fronte,
con la sensazione che mancasse qualcosa. Si era già stancato di
me? Il legame che si era creato fra di noi era soltanto
un’illusione, dunque? «Non preoccuparti» mi disse, passandomi
il fumo da bocca a bocca in un bacio. «Adesso ti ho fatto
ingelosire, vero? Devi combattere sentimenti come la gelosia,
Lanore. Non sono degni di te, ormai. Adesso hai una nuova vita
davanti a te, una vita piena di nuove esperienze, se non ti fai
prendere dalla paura.»
In quel momento non volle spiegarmi altro, ma non dovetti
aspettare molto. La notte seguente, Dona ci seguì a letto. E Tilde
la notte dopo. Quando obiettai, spiegando che ero troppo
imbarazzata per lasciarmi andare davanti agli altri, mi
bendarono. La mattina seguente, quando lanciai uno sguardo
pieno di vergogna a Tilde incrociandola sulle scale, ancora
intorpidita dal piacere che era stata capace di darmi a letto, lei
ringhiò: «È stata soltanto una performance, stupida puttanella» e
si allontanò, dissipando ogni dubbio che si fosse trattato di
qualcosa di più. Credo di essere stata ingenua, ma i piaceri della
carne erano nuovi per me e le sensazioni che mi davano mi
sopraffacevano. Nel tempo sarei diventata insensibile anche a
quello che facevano alla mia anima. In breve tempo.
Fu non molto dopo che accadde qualcosa di particolarmente
significativo, anche se al momento non ne colsi l’importanza.
Iniziò tutto con una lezione sull’astronomia e le arti della
navigazione cui prendemmo parte all’Università di Harvard. La
scienza era un po’ una mania in quel periodo e a volte le
università tenevano lezioni pubbliche. Erano posti in cui farsi
vedere, così come le feste, un modo di dimostrare che anche se
eravamo persone mondane, non per questo eravamo prive di
cervello. Perciò Adair ci impose di andare. La lezione di quel
giorno era di ben poco interesse per me. Mi sedetti accanto a
Adair e gli chiesi in prestito il suo binocolo da opera per scrutare
il pubblico. C’erano molti volti che avevo già visto in
precedenza, ma non ricordavo i nomi, e proprio quando iniziavo
a pensare che era tutto uno spreco di tempo, notai Tilde che
parlava con un uomo dall’altra parte dell’auditorium.
Intravedevo soltanto parte del profilo dell’uomo, ne vedevo più
che altro la schiena, ma era evidente che aveva un corpo
magnifico.
Passai gli occhialini da opera a Adair. «A quanto pare Tilde
ha trovato un nuovo uomo» sussurrai indicandogliela.
«Mmm credo proprio che tu abbia ragione» disse,
osservandola. «È una cacciatrice nata, Tilde.»
Di solito dopo le lezioni ci si incontrava con altri dell’alta
società in una taverna. Ma quel pomeriggio Adair non aveva
voglia di sopportare chiacchiere davanti a un caffè e una birra.
Lo capivo da come sbirciava continuamente la porta. Poco
tempo dopo Tilde entrò, a braccetto con un ragazzo che
avevamo visto all’università. Era piuttosto appariscente, con un
volto bellissimo (un pelo effeminato), un nasino piccolo e
appuntito, una fossetta sul mento e meravigliosi riccioli biondi.
Sembrava ancora più imberbe in compagnia di una donna
sofisticata come Tilde, e anche se certamente lei non poteva
essere scambiata per sua madre, la loro differenza d’età era ben
visibile.
Si unirono al nostro tavolo e Adair passò tutto il tempo a
riempirlo di domande. Era studente ad Harvard? (Sì.) La sua
famiglia era di Boston? (No, veniva da Philadelphia e non aveva
alcun parente nella zona.) Quanti anni aveva? (Venti.) A
quest’ultima risposta, Adair aggrottò la fronte, come se non gli
fosse piaciuta. Una reazione strana. Poi Adair invitò il ragazzo a
cena da noi quella sera.
Sarò diretta: il cuoco preparò dell’agnello quella sera, ma era
evidente che la portata principale era proprio il giovane dai
capelli biondo chiaro. Adair continuò a fargli ogni tipo di
domanda personale (aveva amici all’università? Una
fidanzata?), e quando il ragazzo iniziò a mostrarsi perplesso,
Alejandro intervenne nella discussione distraendoci con
aneddoti e barzellette. Circolò più vino del consueto, e in
particolare il bicchiere del ragazzo pareva sempre pieno, poi
dopo cena agli uomini furono dati dei bicchierini di cognac e ci
recammo tutti nella sala da gioco. Dopo una serata trascorsa a
giocare a faraone Adair dichiarò che non sarebbe stato cortese
rimandare il ragazzo nella sua stanza al college in quelle
condizioni – poteva subire sanzioni per la sua ubriachezza se
fosse stato sorpreso dagli istitutori – e insistette perché
rimanesse con noi quella notte. A quel punto il giovane studente
era tanto ubriaco da non riuscire a stare in piedi senza che
qualcuno lo sorreggesse, perciò non era proprio nella posizione
di rifiutare l’offerta.
Adair ordinò a un servitore di aiutarlo a salire le scale. Noi ci
radunammo davanti alla camera da letto di Adair come sciacalli
ansiosi di dividersi la preda. Alla fine, Adair decise che
saremmo stati io e lui a godere della compagnia del ragazzo e
congedò gli altri. Ubriaco com’era, il giovane iniziò a spogliarsi
senza obiezioni quando Adair glielo ordinò e mi seguì
docilmente a letto. A quel punto accadde qualcosa di curioso.
Mentre il ragazzo si spogliava, Adair lo studiò attentamente, non
con piacere (come mi aspettavo) ma con occhio clinico. Fu solo
in quel momento che scoprimmo che il ragazzo aveva un difetto
a un piede; non era particolarmente deforme e indossava una
scarpa speciale che gli consentiva di camminare in modo quasi
normale. Ma era comunque una deformità e Adair, notandola,
sembrò visibilmente deluso.
Adair si accomodò su una sedia e rimase a osservare mentre il
ragazzo mi possedeva. Da sopra la sua spalla notai la delusione
sul volto di Adair. Era come se combattesse il ribrezzo verso il
nostro ospite. Alla fine, Adair si tolse i vestiti e ci raggiunse,
sorprendendo il ragazzo con le sue attenzioni, che furono
comunque accettate (non oppose alcuna resistenza, anche se si
lasciò scappare qualche lamento quando Adair fu
particolarmente rude con lui). Poi dormimmo insieme, noi tre,
con l’ospite relegato ai piedi del letto, stordito dagli effetti
dell’alcol e insonnolito come sempre accade agli uomini dopo le
effusioni amorose.
La mattina seguente, dopo aver spedito via il giovane a bordo
di una carrozza, Adair e Tilde ebbero una conversazione
infuocata dietro una porta chiusa. Io e Alejandro rimanemmo a
far colazione ascoltandoli – o piuttosto, cercando di non sentire
le loro urla – mentre bevevamo il tè.
«Che cosa sta succedendo?» domandai, indicando col mento
la porta da cui proveniva la litigata attutita.
«Adair ci ha dato ordini chiari e precisi. Dobbiamo andare in
cerca di uomini attraenti, solo i più attraenti. Cosa vuoi che ti
dica, Adair predilige i volti perfetti. In effetti gli interessa
soltanto la perfezione, non l’avevi notato? E da quanto ho
capito, il ragazzo che Tilde gli ha portato non era propriamente
perfetto...»
«Aveva un piede deforme.» Non capivo come quel dettaglio
potesse fare la differenza; aveva un volto squisito.
Alejandro scrollò le spalle. «Ah, ecco qual era il problema.»
Si affaccendò a imburrare il pane e non disse altro, lasciandomi
a mescolare il tè e a chiedermi perché Adair avesse
quell’ossessione strana. Il fatto era che aveva preso quel ragazzo
con particolare brutalità, come se avesse voluto punirlo per
averlo deluso in qualche modo. Ripensarci mi faceva sentire a
disagio.
Allungai il braccio sul tavolo e afferrai la mano di Alejandro.
«Ti ricordi la conversazione che abbiamo avuto qualche tempo
fa, sul mio amico? Il mio bellissimo amico? Alejandro,
promettimi che non racconterai mai di lui a Adair.»
«Come puoi pensare che ti farei questo?» mi rispose, offeso.
Adesso so che era tutta una recita. Ed era davvero un bravo
attore, Alejandro. Dovevamo tutti esserlo quando avevamo a
che fare con Adair, ma quello in particolare era il ruolo di
Alejandro nel nostro strano ménage familiare. Era lui a cullare
chi soffriva, a rassicurare chi aveva delle incertezze, a placare la
vittima così che non scorgesse il colpo che le stava per essere
inferto. Credevo che lui fosse buono, mentre Tilde e Dona mi
sembravano cattivi, perfidi, falsi. Ma adesso capisco che ognuno
di loro aveva un ruolo preciso da recitare.
In quel momento, però, credetti alle parole di Alejandro.
28
Iniziai a diventare più curiosa nei riguardi dei miei
coinquilini. Avevo appena cominciato a vederli come un branco
che si muoveva insieme, ognuno con compiti specifici,
recitando la propria parte con la facilità di chi aveva svolto quel
lavoro ormai innumerevoli volte. Individuare la preda, distrarla,
schiacciare la sfortunata vittima sotto i piedi, che si trattasse di
un ragazzo con un piede deforme o un avversario sul tavolo da
gioco. I tre erano come segugi al guinzaglio; Adair non doveva
far altro che liberarli e si scagliavano sull’obiettivo, con
sicurezza quasi soprannaturale. Io ero il quarto segugio, il
cucciolo del branco, e ancora non avevo capito quale fosse il
mio ruolo. E siccome erano un trio perfettamente accordato, si
mostravano riluttanti a lasciare che un quarto strumento si
inserisse mettendo a repentaglio la loro armonia, sicuri che sarei
stata loro d’impaccio o comunque avrei rovinato la fredda grazia
e l’efficienza con cui agivano. E a me andava benissimo così:
non avevo alcun desiderio di unirmi al branco.
Mi aspettavo il loro risentimento e la loro gelosia, viste tutte
le attenzioni che Adair aveva per me, ma mi sorpresero.
Sembrava non gli importasse. Eppure, dovevo aver spodestato
uno di loro dal ruolo di prediletto e confidente di Adair. Ma
nessuno sembrava arrabbiato per questo. Non c’era nemmeno
una scintilla di gelosia fra di noi. A dire il vero, a parte
Alejandro, non avevamo molte occasioni di contatto. Adesso
tutti e tre mi sorridevano apertamente, ma senza malizia.
Evitavano sia me sia Adair per quanto potevano, a parte quando
andavamo e tornavamo dalle feste, e in quei brevi tratti insieme
sembrava esserci un’allegria forzata sospesa fra di noi, come un
odore di chiuso. Quando io e Tilde incrociavamo gli sguardi, per
esempio, a volte notavo la piega torva della sua bocca e una
leggera ruga sulla sua fronte, ma non sembrava gelosia. Quei tre
vagavano per la casa come fantasmi, tormentati e impotenti.
Una notte decisi di chiedere a Adair perché fosse così. In
fondo, era più probabile che fosse lui a dirmi la verità che non
quei tre. Attesi che Adair recuperasse una bottiglia di brandy e
dei bicchieri da portare in camera da letto, mentre i servitori mi
aiutarono a togliermi la gonna e il corpetto e mi sciolsero i
capelli. Quando Adair versò il brandy nei bicchieri gli dissi:
«C’è una cosa a cui penso molto e vorrei affrontare l’argomento
con te...»
Bevve un sorso abbondante prima di porgermi il bicchiere.
«Lo sospettavo. Negli ultimi tempi mi sei parsa distratta.»
«Riguarda... riguarda gli altri» iniziai, incerta su come
proseguire.
«Non chiedermi di mandarli via. Non lo farò. So che vorresti
passare tutto il tempo da sola con me, ma non posso lasciarli
girovagare da soli. E poi, è importante che rimaniamo insieme.
Non possiamo sapere quando potrebbe capitarci di avere
bisogno dell’aiuto di qualcuno, qualcuno che capisca, che sappia
come stanno le cose. Un giorno te ne renderai conto» si affrettò a
dirmi.
«Ma io non desidero affatto che tu li mandi via. È solo che mi
chiedo chi di loro abbia il cuore spezzato ora che tu passi tutto il
tempo con me. Chi di loro soffre maggiormente la perdita delle
tue attenzioni? Li osservo e mi dispiace per... Perché ridi di me?
Non prendermi in giro, sto parlando sul serio.»
Credevo che la mia ingenua sensibilità l’avesse intenerito e
che mi avrebbe rassicurata dicendomi che nessuno provava
risentimento nei miei confronti, che gli altri avevano avuto
ciascuno il proprio turno per entrare nelle sue grazie ma
sapevano che quel privilegio non sarebbe durato per sempre, che
ciascuno aveva il suo posto nella nostra famiglia.
Ma non fu quella la reazione che ottenni da Adair. La sua
risata non era per sdrammatizzare. Era pura derisione. «La
perdita delle mie attenzioni? Credi veramente che se ne stiano di
sopra a piangere ogni sera prima di dormire ora che non sono più
la luce dei miei occhi? Lascia che ti dica qualcosa a proposito
delle persone con cui dividiamo questa casa. Hai tutti i diritti di
saperlo, visto che sarai legata a loro per l’eternità. È meglio che
tu stia sempre in guardia con loro, mia cara. Non avranno mai a
cuore i tuoi interessi, mai. Non hai capito niente di loro, vero?»
«Alej mi ha raccontato qualcosa» mormorai, abbassando lo
sguardo.
«Sono pronto a giurare che non ti ha raccontato niente di
importante e di certo niente che possa indurti a diffidare di lui.
Che cosa ti ha detto di sé?»
Iniziai a pentirmi di aver affrontato l’argomento. «Solo che
proviene da una famiglia altolocata della Spagna...»
«Una famiglia importante, sì. I Calderón. Una grande
dinastia, perfino, ma oggi non troveresti nessuna traccia di loro a
Toledo. E sai perché? Hai mai sentito parlare dell’Inquisizione?
Alejandro e la sua famiglia furono catturati dall’Inquisizione,
dal più grande inquisitore in persona, Tomás de Torquemada. La
madre di Alejandro, suo padre, sua nonna, la sua sorellina: li
misero tutti in prigione. Avevano una sola scelta: o
confessavano i loro peccati e si convertivano al cattolicesimo
oppure sarebbero rimasti in prigione fino alla morte.»
«E perché non si è convertito?» urlai. «Per salvarsi la vita, mi
sembra un prezzo accettabile.»
«Ma lui lo fece.» Adair si versò altro brandy e poi si mise
davanti al focolare, il volto illuminato dalla fiamma
scoppiettante. «Lui fece esattamente quello che gli avevano
chiesto. Sarebbe stato uno stupido a rifiutare, date le circostanze.
L’Inquisizione era molto orgogliosa della propria abilità nel
fiaccare le persone: ne facevano una scienza. Lo tennero in una
cella così piccola che dovette rannicchiarsi in posizione fetale
per starci, costretto ad ascoltare le urla e le preghiere degli altri
prigionieri per tutta la notte. Chi al posto suo non sarebbe
impazzito? Chi non avrebbe fatto qualsiasi cosa gli chiedessero
per salvarsi la pelle?»
Per un momento, l’unico rumore nella stanza fu lo scoppiettio
del fuoco e, dentro di me, sperai che Adair non proseguisse quel
racconto. Volevo continuare a pensare all’Alejandro che
conoscevo, dolce e ragionevole, non volevo sapere di quali atti
di puro egoismo fosse capace.
Adair ingollò l’ultimo sorso di brandy e fissò lo sguardo sul
fuoco. «Lui consegnò sua sorella all’Inquisizione. Loro
volevano una vittima esemplare, la dimostrazione vivente che il
maligno era in mezzo a loro. Una ragione per liberare il paese
dagli ebrei. Così, lui disse che sua sorella era una strega, una
creatura del diavolo. In cambio della vita di sua sorella, che
aveva soltanto quattordici anni, gli inquisitori lo lasciarono
libero. E fu in quel momento che lo trovai, farfugliante come un
folle per quello che aveva fatto.»
«È orribile.» Rabbrividendo, mi avvolsi la coperta di
zibellino attorno alle spalle.
«Dona, invece, consegnò il suo maestro alle autorità quando
lo arrestarono per sodomia. L’uomo che lo aveva tolto dalla
strada, lo aveva sfamato, gli aveva dato una casa, dei vestiti.
L’uomo che l’aveva ritratto sui muri di Firenze. Un uomo che lo
adorava, lo amava con tutto il cuore. E Dona lo consegnò senza
un attimo di esitazione, lo tradì. Sarei uno stupido se mi
aspettassi qualcosa di diverso da lui.
«E poi c’è Tilde. Lei è la più pericolosa di tutti loro. Viene da
un luogo nel profondo Nord dell’Europa, dove d’inverno ci sono
giorni in cui il sole appare soltanto per poche ore. Incontrai Tilde
una di quelle gelide e lunghe notti, per strada. Era stata immersa
nell’acqua e poi lasciata fuori al freddo dalla sua stessa gente.
Vedi, si era innamorata dell’uomo più ricco del villaggio vicino.
C’era soltanto un ostacolo sulla sua strada: lei era già sposata. E
come decise di risolvere il problema? Uccise suo marito e i suoi
due figli. Li avvelenò, convinta che nessuno l’avrebbe mai
scoperta. Ma i suoi compaesani ci riuscirono e la condannarono
a morte. Volevano che morisse per assideramento e quando la
trovai era già mezzo congelata. I suoi capelli erano di ghiaccio,
le sue ciglia e la sua pelle erano coperte di cristalli di ghiaccio.
Stava morendo, eppure riuscì a guardarmi con un’espressione di
odio puro.»
«Basta, ti prego» piagnucolai, rintanandomi sotto la pesante
coperta di pelliccia. «Non voglio sentire altro.»
«La vera misura di un uomo si capisce soltanto quando sta
affrontando la morte.» C’era un sogghigno malevolo nella sua
voce.
«Non è giusto. Ognuno ha il diritto di fare tutto quello che
può per sopravvivere.»
«Tutto?» inarcò un sopracciglio e sogghignò. «Comunque
sia, credo sia giusto che tu abbia il diritto di sapere che sprechi il
tuo tempo se provi compassione per loro. Sotto quell’apparenza
incantevole e raffinata, sono dei mostri. C’è una ragione se li ho
scelti. Occupano un posto preciso nei miei piani... Ma nessuno
di loro è capace di amare qualcuno, a parte se stesso. Non ci
penserebbero due volte a tradirti se potessero guadagnarci
qualcosa. Arriverebbero anche a tradire me se pensassero di
potersela cavare.» Si infilò a letto accanto a me e mi fece
accoccolare su di lui, e mi sembrò di avvertire uno strano
bisogno nelle sue carezze. «È proprio questo che trovo
affascinante in te, Lanore. Hai un grande bisogno di amore e una
grande capacità di dare amore. Hai la disperata necessità di dare
il tuo cuore a qualcuno, e quando lo fai, lo fai con tutta te stessa,
con incrollabile lealtà. Credo che faresti di tutto per l’uomo che
ami. E sarà un uomo molto fortunato quello che un giorno
conquisterà il tuo cuore. Mi piace pensare che potrei essere io
quell’uomo fortunato.»
Mi accarezzò i capelli per un po’ prima di addormentarsi,
lasciandomi sveglia a chiedermi quanto sapesse di Jonathan, con
quanta accuratezza avesse letto i miei pensieri. Tutti quei
discorsi mi avevano dato i brividi; non riuscivo a capire lo scopo
per cui aveva scelto di dare la vita eterna a qualcuno così
immeritevole, di circondarsi di codardi e assassini, specialmente
se quello di cui aveva bisogno era lealtà. I suoi piani, perché non
dubitavo che avesse piani ben precisi, mi sfuggivano.
E la cosa peggiore, la cosa che non riuscivo ad affrontare, era
che non capivo perché mi avesse scelta, perché avesse deciso di
aggiungere proprio me a quella perversa famiglia. Forse aveva
visto in me qualcosa che gli aveva fatto capire che ero come gli
altri; forse era riuscito a scrutare nella mia anima e aveva
concluso che ero tanto egoista da spingere un’altra donna al
suicidio pur di rubarle l’uomo che amava.
Quanto al suo invito ad amare lui, non avrei mai creduto che
un uomo come Adair avesse bisogno di essere amato... o che io
fossi il tipo di donna capace di innamorarsi di un mostro.
Giacqui tremante fra le braccia di Adair mentre lui dormiva
profondamente.
E Uzra? Non ci voleva un’intuizione soprannaturale per
capire che lei non rispettava i canoni degli appartenenti alla
famiglia di Adair. Lei era come una presenza sospesa sopra tutti
gli altri. Non che gli altri si dimenticassero di lei, semplicemente
nessuno ne parlava. Nessuno si aspettava che si unisse a noi
quando ci radunavamo per chiacchierare e per bere fino a tardi la
sera o, quando tornavamo da una festa, lei non si sedeva mai
attorno al tavolo nella sala da pranzo per mangiare qualcosa. Ma
di tanto in tanto sentivamo l’eco dei suoi passi sul soffitto o nei
muri, come il rumore di un topo che si arrampica sulle pareti.
Di tanto in tanto, Adair la convocava nella sua camera da
letto e lei si univa a noi, le labbra strette e lo sguardo basso,
arrendendosi senza vera partecipazione. Dopo però, quando ero
da sola, veniva a cercarmi e lasciava che le pettinassi i capelli o
le leggessi qualcosa, e io lo interpretavo come il suo modo di
farmi sapere che non mi riteneva responsabile di quanto
accadeva a letto con Adair o, quanto meno, perdonava la mia
sottomissione a lui. Una volta, rimasi seduta immobile così che
potesse truccarmi il volto come era usanza nel suo paese
d’origine, con spessi cerchi di kohl attorno agli occhi da cui
partiva una linea che mi percorreva le tempie. Poi mi avvolse in
uno dei suoi abiti ampi e voluminosi tanto che alla fine solo i
miei occhi furono visibili. E devo dire che il tutto mi conferiva
un’aura molto esotica.
A volte mi guardava in modo strano, come se cercasse di
parlare direttamente alla mia anima, per trasmettere un muto
messaggio. Un avvertimento. Non credevo di aver bisogno di
avvertimenti da parte sua; sapevo che Adair era un uomo
pericoloso e che rischiavo di compromettere la mia salute
mentale, oltre che corrompere la mia anima, standogli troppo
vicino. Pensavo di sapere dove fosse il confine e che sarei stata
in grado di fermarmi prima. Quanto ero stupida.
A volte, Uzra veniva in camera mia e mi abbracciava come se
volesse confortarmi. Capitò anche che mi trascinasse fuori dal
letto, insistendo perché la seguissi in uno dei posti in cui si
nascondeva. Adesso mi rendo conto che lo faceva per farmi
capire dove avrei potuto rifugiarmi quando fosse arrivato il
giorno in cui avrei avuto bisogno di nascondermi da Adair.
Tilde, d’altro canto, non mi diede alcun segno di
avvertimento quando un pomeriggio mi prese per mano con un
sospiro irritato e, ignorando le mie domande, mi condusse con
decisione in una camera dove non andavamo quasi mai. Lì, su
un tavolino vicino al camino, c’erano una bottiglietta di
inchiostro, una serie di aghi disposti a ventaglio e un vecchio
fazzoletto macchiato. Tilde si mise su una sedia, sistemandosi i
riccioli ribelli dietro le orecchie, senza degnarmi di uno sguardo.
«Togliti il corpetto e sfilati le maniche» mi disse seccamente.
«Perché? Che intenzioni hai?» le chiesi.
«Non te lo sto domandando, stupida puttanella» rispose,
togliendo il tappo dalla bottiglietta di inchiostro e ripulendosi le
macchie dalle dita. «È un ordine di Adair. Porgimi il braccio
nudo.»
Digrignando i denti, feci come mi diceva, sapendo che Tilde
si divertiva a comandarmi, e poi mi accomodai sullo sgabello
davanti a lei. Mi afferrò il polso destro e trasse a sé il mio
braccio, torcendolo così che il tricipite le fosse accessibile, poi
bloccò il mio braccio sotto il suo, un po’ come un fabbro che
serra tra le ginocchia lo zoccolo di un cavallo per ferrarlo. La
osservai con sospetto mentre sceglieva un ago, lo immergeva
nell’inchiostro e poi lo infilava nella pelle bianca e delicata del
mio braccio.
Sussultai anche se non avvertii niente più della pressione del
contatto. «Che cosa stai facendo?»
«Te l’ho detto, è per ordine di Adair» grugnì. «Ti sto
marchiando. Si chiamano tatuaggi. Immagino che tu non ne
abbia mai visto uno.»
Guardai le macchie sulla mia pelle, tre, poi quattro. Tilde
lavorava velocemente. Sembravano nei di bellezza, che si
formavano a mano a mano che l’inchiostro si spandeva sotto
pelle. Dopo circa un’ora, Tilde aveva completato il contorno di
un elmo grande quanto una moneta e aveva iniziato a
tratteggiare uno strano animale, serpentiforme e irreale.
Impiegai un minuto ancora a capire che stava disegnando un
dragone. Fu in quel momento che Adair entrò nella stanza.
Inclinò il capo per osservare il lavoro di Tilde. Strofinò un
pollice sulla mia pelle, sporca di inchiostro nero e sangue rosso,
per vedere meglio.
«Sai che cos’è?» mi disse con orgoglio. Scossi il capo. «È
l’emblema della mia famiglia. O meglio, lo stemma della mia
dinastia adottiva» si corresse. «È l’emblema presente sul sigillo
di cui ti ho parlato.»
«Perché me lo stai tatuando addosso? Che cosa significa?»
gli chiesi.
Prese il fazzoletto e pulì il tatuaggio, per ammirarlo meglio.
«Che cosa credi che significhi? Ti sto marchiando. Sei una mia
proprietà, ora.»
«È davvero necessario?» gli chiesi cercando di divincolare il
braccio, il che non servì ad altro che a procurarmi uno
schiaffetto da parte di Tilde. «Immagino che tu lo faccia a tutte
le tue creature. Il tuo dov’è, Tilde? Me lo fai vedere? Così saprò
come verrà quando l’avrai...»
«Io non ce l’ho» disse lei secca, senza nemmeno rialzare lo
sguardo dal suo lavoro.
«Tu no?» Guardai Adair negli occhi. «Perché io sì, allora?»
«È qualcosa di speciale che ho deciso di dare a te. Significa
che sei mia per sempre.»
Non mi piacque il suo sguardo di possesso. «Ci sono altri
modi di trasmettere questo impegno a una ragazza, sai? Un
anello, una collana, un simbolo della tua devozione, credo che
sia questo il metodo tradizionale» dissi provocandolo.
Il mio broncio parve divertirlo. «Quelli sono soltanto orpelli,
volgari e passeggeri. Un anello te lo puoi togliere. Ma non potrai
fare lo stesso con questo.»
Fissai l’opera di Tilde. «Cosa vuoi dire? Intendi che la mia
pelle sarà segnata per sempre?»
Adair mi rispose con il sorriso crudele che avevo imparato a
riconoscere. Lo usava sempre quando stava per fare qualcosa di
spiacevole. Strappò il mio braccio dalla presa di Tilde e lo
bloccò sotto il suo, inspirò a fondo, afferrò un ago e, dopo aver
preso la mira, lo conficcò esattamente nel centro del disegno.
Una fitta improvvisa e lancinante mi percorse il braccio e
all’improvviso avvertii tutto il dolore delle punture che mi aveva
fatto Tilde. «Per mia mano, per mia volontà» proclamò ad alta
voce, in tono solenne, e a quel punto la ferita mi bruciò come se
vi fosse stato cosparso del sale. Mi diede un’altra storta al
braccio, brusca, per osservare ancora il tatuaggio, e io avvampai
di dolore. Poi mi lasciò andare.
«Lanore, mi sorprendi» disse Adair, in modo ostentato e
altisonante. «Credevo che ti avrebbe fatto piacere sapere che ti
ho in tale considerazione da volerti con me per l’eternità.»
Il fatto era che aveva ragione; la parte più corrotta di me era
lusingata dal fatto che un uomo mi desiderasse al punto da
marchiare la mia pelle col suo nome. Ma non ero così ingenua da
non esserne anche allarmata. Mi aveva trattato come un capo di
bestiame.
Trascorsero così diverse settimane. Per la maggior parte del
tempo ero contenta di come mi trattava Adair: era abbastanza
attento, generoso, gentile. Facevamo l’amore spesso e con
frenesia. Ma c’erano volte in cui si comportava con crudeltà
senza alcuna ragione, se non il proprio divertimento. Quelle
volte, Alejandro, Dona, Tilde e io stessa diventavamo giullari di
corte che cercavano di compiacere un sovrano dispotico e
vendicativo, sforzandosi di sollevargli l’umore o, quanto meno,
di evitare di essere il bersaglio della sua crudeltà. In quelle
occasioni mi sembrava di essere intrappolata in un manicomio e
non desideravo altro che scappare; solo che ero convinta di non
poterlo fare. Gli altri erano rimasti con Adair, anche dopo aver
subito quel trattamento per lunghissimo tempo. Mi avevano
riferito che Uzra aveva cercato infinite volte di scappar via da
lui. Di certo, se ci fosse stato un modo di fuggire, a quel punto lo
avrebbero trovato.
Inoltre, nonostante la mia preoccupazione per i modi di
Adair, iniziò a tornarmi in mente Jonathan, sempre di più ogni
giorno che passava. All’inizio fu soltanto il mio senso di colpa,
perché ora c’era un altro uomo nella mia vita, come se avessi
avuto scelta! Eppure, nonostante mi sforzassi di far prevalere la
logica, nonostante cercassi di concentrarmi sul modo orrendo ed
egoista in cui mi aveva trattato, Jonathan mi mancava e mi
sembrava di tradirlo. Non contava il fatto che fosse stato
promesso a un’altra donna e che avesse rinunciato a me: andare
a letto con un uomo amandone un altro mi sembrava comunque
sbagliato.
E amavo ancora Jonathan. Se guardavo nel profondo del mio
cuore, la verità era innegabile. Per quanto fossi lusingata dalle
attenzioni di Adair, compiaciuta del fatto che un uomo che
aveva girato il mondo trovasse me, proprio me, irresistibile,
sapevo che se Jonathan fosse venuto a Boston il giorno dopo,
avrei abbandonato Adair senza nemmeno salutarlo. Stavo
semplicemente sopravvivendo. L’unica speranza che mandava
avanti i miei giorni era quella di rivedere Jonathan, prima o poi.
29
Il tempo trascorse senza che riuscissi a misurarlo. Da quanto
tempo ero con Adair? Sei mesi, sei anni? Avevo perso il conto e
mi ero convinta che non avesse alcuna importanza; ormai non
avrei mai più avuto bisogno di tener conto del tempo. Il tempo,
in tutta la sua infinità, era aperto per me, ora, come l’oceano la
prima volta in cui l’avevo visto. Troppo vasto per contemplarlo.
Un tardo pomeriggio d’estate, un pomeriggio di cielo blu e
oro, qualcuno bussò al portone. Poiché passavo di là e non c’era
nessun servitore nelle vicinanze (avrei potuto scommettere che
erano tutti a smaltire una sbronza di bordeaux trafugato in
dispensa), aprii io, pensando che fosse un venditore ambulante o
qualcuno venuto a far visita a Adair. Invece, in piedi sulla
gradinata d’ingresso, con una sacca sulle spalle, trovai il
predicatore di Saco dallo sguardo selvaggio.
La sua bocca si aprì per lo stupore di vedermi e il suo volto
ferino si illuminò di piacere. «Io vi conosco, signorina, vero?
Riconosco il vostro bel volto, un viso così è impossibile da
dimenticare» disse, avanzando nell’atrio senza attendere il
permesso. Mi sfiorò col mantello impolverato e si tolse il
cappello a tricorno.
«Anch’io vi conosco» risposi, orripilata, ritraendomi,
incapace di comprendere che cosa mai al mondo l’avesse
condotto proprio lì.
«Bene, allora non tenetemi in sospeso. Come vi chiamate e
come ci siamo conosciuti?» mi chiese, ancora sorridendo ma in
un modo che nascondeva l’opera delle sue meningi, mentre si
sforzava di ricordare dove ci eravamo incontrati e in quali
circostanze.
Invece di rispondergli, gli chiesi: «Perché siete qui?
Conoscete Adair?»
La mia diffidenza parve divertirlo. «Ma certo che lo conosco,
perché altrimenti sarei qui? Lo conosco allo stesso modo in cui
lo conosci tu, scommetto» disse, abbandonando ogni finzione di
cortesia. Allora era vero, adesso io e lui eravamo simili.
Entrambi creature di Adair.
E poi rammentò e il suo volto assunse un’espressione di gioia
lasciva. «Oh, adesso sì che ricordo. Quel piccolo villaggio del
Maine non lontano dall’insediamento acadiano. È lì che ti ho
incontrata. Senza quella specie di sacco marrone che usate voi
per vestirvi... Sei praticamente irriconoscibile con addosso tutta
quella seta blu e quei pizzi francesi. È una trasformazione
eccezionale, te lo posso giurare. Ti sei lasciata alle spalle i
puritani senza alcun rimpianto, vedo. Non è così? Sono sempre i
più tranquilli ad avere gli istinti più selvaggi» concluse,
stringendo gli occhi a fessura e guardandomi maliziosamente,
probabilmente calcolando le probabilità che finissimo a letto
insieme e trovandole soddisfacenti. Non doveva far altro che
chiederlo a Adair, era improbabile che non acconsentisse.
In quel momento fummo interrotti dalla voce di Adair che
rimbombò dal pianerottolo sopra di noi. «Guarda un po’ chi si fa
vivo alla mia porta! Jude, sei qui per riposarti un po’ dai tuoi
pellegrinaggi? Entra, entra, è passato troppo tempo dall’ultima
volta che ci siamo visti» disse, scendendo a balzi le scale. Dopo
aver abbracciato Jude con affetto, si accorse che quest’ultimo mi
stava fissando con un chiaro desiderio e gli chiese: «Che
succede? Vi conoscete già voi due?»
«A dire il vero, sì, è così» rispose Jude, girandomi attorno,
facendo aperta mostra della sua ammirazione. «Qualche tempo
fa ti ho scritto per parlarti proprio di questa ragazza. Non ricordi
una lettera in cui ti descrivevo una bellezza vergine e molto
promettente con una vena animalesca?»
Mi raddrizzai sulla schiena e sporsi il mento in fuori con aria
di sfida. «E con questo cosa vorresti dire?»
Ma Adair ridacchiò e mi accarezzò la guancia per placare la
mia indignazione. «Su, mia cara. Mi pare che le sue intenzioni
siano abbastanza evidenti, e tu non saresti al mio fianco se lui si
fosse sbagliato.»
Quell’ospite indesiderato mi scrutò da capo a piedi, come una
massaia che saggia la consistenza e la maturazione di un frutto.
«Be’, immagino che la sua bellezza non sia più vergine, vero?
Quindi, hai preso questa ragazzina sfrontata come tua compagna
spirituale, vedo. È così?» chiese Jude a Adair in tono scherzoso,
poi si rivolse a me. «Dev’essere stato il tuo destino a volerlo,
mia cara, non credi? Il fatto che sei qui lo dimostra. E tu sei
fortunato, Adair, perché non sei stato costretto a spingerti fin
lassù per averla. Credimi, è un viaggio che non augurerei a
nessuno. E lei mi ha anche provocato qualche guaio quando ero
lassù. Si è rifiutata di presentarmi al ragazzo di cui ti avevo
scritto.»
Si riferiva a Jonathan. Tenni la bocca chiusa.
«Vorrei che ti tenessi per te tutte quelle fandonie sui
’matrimoni spirituali’, almeno in mia presenza. Non ne voglio
saper niente di tutte quelle ciarlatanerie religiose» disse Adair,
mettendo un braccio sulle spalle di Jude e conducendolo nel
salotto. Il visitatore si diresse subito al mobile dei liquori. «Ma
di chi stavi parlando? Chi sarebbe l’uomo di cui mi avevi
scritto?»
Il predicatore si versò un bicchiere di vino, fino all’orlo, e lo
svuotò prima di rispondere, come se il viaggio lo avesse lasciato
particolarmente assetato. «Ma non hai letto le mie lettere?
Perché mi hai chiesto di spedirti dei rapporti scritti se poi non ti
prendi nemmeno la briga di leggerli? Era tutto scritto nella
lettera che ti ho spedito. Ti parlavo del villaggio dimenticato da
Dio che ho scovato su nella parte più settentrionale del Maine.
Questa ragazza, la tua ultima conquista» disse indicandomi con
un cenno del capo mentre bevevo un altro bicchiere di vino, «mi
ha impedito di conoscere un giovanotto molto promettente. Lo
proteggeva con molta gelosia, a quanto ho potuto vedere. E
doveva trattarsi proprio dell’uomo giusto, se quello che mi
hanno raccontato di lui è vero.»
Mi si accapponò la pelle; c’era sotto qualcosa di tremendo, lo
sentivo. Rimasi in piedi paralizzata dall’ansia.
Adair si versò del vino, senza offrirmelo. «È tutto vero,
Lanore?» Non sapevo come rispondere e, in ogni caso,
improvvisamente la mia prontezza di spirito mi aveva
abbandonato. «Dal tuo silenzio capisco che è tutto vero. Quando
avevi intenzione di parlarmi di lui?» mi chiese.
«La tua spia non ha capito niente. Quell’uomo non è degno
delle tue attenzioni» dissi, pronunciando parole che non credevo
avrei mai detto a proposito di Jonathan. «È solo un mio amico,
uno del mio villaggio.»
«Oh, tutt’altro che indegno di attenzione. Stiamo parlando di
Jonathan, lo stesso di cui hai spifferato tutto ad Alej? Su, non
sorprenderti, è ovvio che Alejandro mi ha raccontato tutto.
Dovevi aspettartelo. Sa bene che non deve tenermi nascosto
niente. Dunque, parliamoci chiaro: questo Jonathan, questo
esemplare di rara bellezza, è l’uomo che ami? Sono deluso,
Lanore, deluso di vedere che ti lasci incantare da un bel visino
e...»
«E tu chi sei per dirlo?» sbottai infuriata. «Chi è quello che si
circonda di bellezze come se collezionasse dipinti? Se l’amore
per la bellezza è pura vacuità, allora tu sei ben più colpevole di
me e...»
«Oh, dai, non offenderti così facilmente. Ti sto soltanto
provocando. Il fatto che questo Jonathan sia l’uomo che credi di
amare è ragione sufficiente per me per volerlo incontrare, non
capisci?»
Jude inarcò le sopracciglia. «Se non fossi certo del contrario,
Adair, sarei pronto a giurare che sei geloso.»
In un disperato tentativo di far cambiare idea a Adair, lo
implorai: «Risparmia Jonathan, ti prego. Ha una famiglia che
dipende da lui. Non voglio trascinarlo in tutto questo. Quanto
all’amore che provo per lui... Hai ragione, ma lui non fa più
parte della mia vita. Lo amavo, un tempo, sì, ma ora non più».
Adair inclinò il capo, scrutandomi. «Avanti mia cara, stai
mentendo e si vede. Avresti rinunciato a lui da tempo se fosse
così. Ma lo ami ancora. Lo sento, lo sento qui dentro» disse
toccandomi il seno, sopra il cuore. I suoi occhi scintillanti,
venati di tristezza, mi scavarono l’anima. «Portalo da me.
Voglio incontrare l’uomo di straordinaria bellezza che è riuscito
a conquistare la nostra Lanore.»
«Se le tue intenzioni sono di portartelo a letto, non ci
riuscirai. Non è... Non è come Alejandro o Dona.»
Jude esplose in una fragorosa risata, poi si coprì velocemente
la bocca e per un istante parve che Adair, ribollente di furia,
fosse sul punto di schiaffeggiarmi. «Credi mi interessi soltanto
per portarmelo a letto? Credi che sia l’unica cosa che potrei fare
a un uomo come quel tuo Jonathan? No, Lanore, io voglio
conoscerlo. Voglio vedere perché è così meritevole del tuo
amore. Forse siamo simili, io e lui. Mi piacerebbe avere un
nuovo compagno, un amico. Sono stufo di essere circondato di
leccapiedi servili. Siete tutti dei servi o poco più: ingannevoli,
astuti, traditori. Sono stufo di tutti quanti voi.» Adair si
allontanò e sbatté il bicchiere vuoto sulla credenza. «E poi, che
cos’hai da lamentarti della tua vita qui? Trascorri i giorni nel
piacere e nel lusso. Ti ho dato tutto quello che potevi desiderare,
ti ho trattato come una principessa. Ti ho aperto gli occhi sul
mondo, no? Ho liberato la tua mente dalle costrizioni imposte da
quei preti ignoranti e ti ho svelato segreti che gli uomini più
saggi passano vite intere a cercare. E tutto questo te l’ho dato
senza chiedere nulla in cambio, mia cara, non è così?
Sinceramente, la tua ingratitudine mi offende.»
Mi morsi la lingua, sapendo che non sarebbe servito a niente
rinfacciargli tutto quello che avevo sofferto per colpa sua. Non
potei far altro che chinare il capo e mormorare: «Ti chiedo
perdono, Adair».
Lui serrò ripetutamente la mascella e strinse il pugno sul
tavolo fino a sbiancare le nocche, usando il silenzio per farmi
capire che stava cercando di superare la rabbia. «Se questo
Jonathan fosse davvero tuo amico, sarebbe naturale voler
condividere la tua fortuna con lui.»
Se quello era il modo in cui Adair vedeva la mia vita con lui,
era un povero illuso. La verità era molto più complicata; per
quanto gli fossi grata, avevo anche paura di lui e mi sentivo
imprigionata in casa sua. Ero stata trasformata in una prostituta e
non volevo che Jonathan mi vedesse così, tanto meno intendevo
trascinarlo con me nella stessa situazione.
Uscendo dalla stanza, Adair mi minacciò senza nemmeno
voltarsi: «Non pensare nemmeno per un istante di potermi
ingannare, Lanore. Ti opponi, ma nel tuo cuore è esattamente
questo che vuoi».
Non potevo permettere che Jonathan toccasse il mio stesso
destino, né ora né mai. «Jude non esagera; Jonathan vive molto
lontano da qui» proseguii, ignorando la sua provocazione.
«Dovresti viaggiare per tre settimane su una barca e poi su un
carro e ancora non vedresti nient’altro che foreste, campi e
contadini.»
Adair si voltò e mi osservò attentamente. «Molto bene. Non
farò questo viaggio, se è così noioso come dici. Lo farai tu per
me. Andrai là, prenderai quell’uomo e lo porterai da me. Come
prova della tua lealtà.»
Mi sentii morire.
Durante la sua permanenza nella casa, Jude venne con noi
alle feste, ma al termine di una notte di vizi, mentre salivamo le
scale per andare nelle nostre camere, Adair impedì a Jude di
seguirci fin dentro la camera, bloccando la porta con la spalla
con un sorriso gelido e un ostentato augurio di buona notte.
Jude non rimase molto. Trascorse un intero pomeriggio
insieme a Adair, nello studio, a porte chiuse. Quando uscì, lo
vidi riempirsi la sacca di monete: era chiaro che Adair lo stava
ricompensando per qualcosa.
Il giorno in cui doveva partire, Jude venne a cercarmi. Ero
seduta a cucire nella sala della colazione, approfittando della
mattinata chiara e tersa. Si inchinò davanti a me come se io fossi
la padrona di casa, tenendo il cappello fra le mani.
«Ti metti a cucire? Mi sorprende che tu abbia ancora voglia
di prendere in mano ago e filo, Lanore. Di certo avete della
servitù che può occuparsi di queste cose» disse. «Anche se credo
sia una buona idea fare allenamento. Sai, la vita con Adair non
sarà sempre così, grandi case, servitori a non finire, ricchezze da
spendere. Ci saranno tempi peggiori, tempi in cui dovrai
prenderti cura di te stessa, se la mia esperienza non mente»
proseguì, con un mesto sorriso.
«Ti ringrazio per il tuo prezioso consiglio» gli risposi in tono
gelido, mostrandogli apertamente di non sopportare la sua
presenza. «Ma come vedi sono occupata. C’è una ragione per
cui sei venuto qui a parlarmi?»
«Non approfitterò oltre della tua benevolenza, signorina
Lanore» disse in tono quasi mite. «Partirò oggi stesso.»
«La mia benevolenza? I miei sentimenti non hanno niente a
che fare col fatto che sei il benvenuto in questa casa. È soltanto
la volontà di Adair che conta.»
Il predicatore ridacchiò, sbattendo il cappello sulla gamba.
«Lanore, di certo sai benissimo che Adair tiene in
considerazione i tuoi desideri in molte cose. È parecchio preso
da te. Credo che tu sia davvero speciale per lui. Non credo di
sbagliare se dico che non l’ho mai visto comportarsi così
prima... Non l’ho mai visto così infervorato per una donna,
potrei giurarlo.» Devo ammettere di esser stata lusingata dalle
sue parole, anche se continuai a tenere il capo chino sul mio
ricamo per non mostrare la mia soddisfazione.
Jude a quel punto fissò il suo folle sguardo su di me. «Ma
sono venuto anche per darti un avvertimento. Stai giocando un
gioco pericoloso. C’è una ragione se tutti noi altri manteniamo
le distanze da Adair. È una lezione che abbiamo imparato nel
peggiore dei modi. Tu gli hai mostrato l’amore e questo gli ha
messo in testa di meritarlo. Non hai mai pensato che l’unica cosa
che tiene a freno il diavolo è che sa che tutti lo odiano? Anche
Satana in persona ha bisogno di amore di tanto in tanto, ma
amare il diavolo non fa altro che rafforzare le fiamme
dell’inferno. Il tuo amore lo renderà ancora più spregiudicato e
un giorno te ne pentirai.»
Il suo ammonimento mi scosse e mi sorprese; non me lo
aspettavo da lui. Ma non dissi niente, attesi che continuasse.
«Ho una domanda da farti e spero che tu mi risponda
sinceramente. Che cosa ci vede una ragazza come te in Adair?
Ho guardato nel tuo cuore e ho visto che è selvaggio,
avventuriero. Lui ti ha introdotto nel mondo dei piaceri della
carne e tu l’hai abbracciato come soltanto una ragazza allevata
secondo i principi puritani farebbe; e con sommo piacere di
Adair, aggiungo. Forse non sei passionale ma soltanto stupida,
Lanore, ci hai mai pensato? Concedi pure il tuo splendido corpo
a Adair, se è quello che desideri, ma perché dare anche il tuo
cuore a un uomo che ne farebbe scempio? Non merita la tua
lealtà, né il tuo amore. Ti stai comportando in modo
irresponsabile verso i tuoi stessi sentimenti, Lanore. Credo che
tu sia un po’ troppo ingenua per stare con uno come lui.
Perdonami se ti parlo così, ma è per il tuo stesso bene.»
Ero sbalordita dalle sue parole. Chi si credeva di essere per
darmi della stupida? Ero intrappolata come tutti gli altri,
costretta a compiacere un tiranno per sopravvivere. No, in quel
momento credevo di star facendo tutto quello che mi era
possibile in una situazione orrenda come quella. Naturalmente,
adesso vedo le cose in modo molto diverso. So di essere stata
avventata, di aver mentito a me stessa. Avrei dovuto esser grata
che Jude avesse corso il rischio enorme di mettermi in guardia
su Adair nella sua casa, ma ero troppo sospettosa per fidarmi di
lui e invece cercai di ingannarlo, di convincerlo che sapevo
quello che stavo facendo.
«Credo di doverti ringraziare per i tuoi consigli, ma
perdonami se dico che sono io a decidere che cosa è meglio per
me, non tu.»
«Oh, ma non è più soltanto per te stessa, vero?» mi chiese.
«Stai per coinvolgere anche il tuo Jonathan in tutto questo,
l’uomo verso il quale dici di provare tanto amore. La prontezza
con cui hai acconsentito alla richiesta di Adair mi fa pensare che
forse, dopotutto, ha ragione lui. Tu vuoi fare quello che Adair ti
ha ordinato, vero? Tu vuoi che l’uomo che dici di amare cada
nella trappola di Adair, perché questo vorrebbe dire che sarebbe
intrappolato insieme a te.»
«Sai cosa penso?» dissi, quasi urlando, sbarazzandomi del
tessuto che stavo cucendo e alzandomi. «Penso che tu non sia
affatto intenzionato a darmi dei consigli. Penso che tu sia geloso.
Volevi essere tu stesso a condurre Jonathan da Adair ma non ci
sei riuscito. Io invece riuscirò dove tu hai fallito...» Nonostante
la mia impetuosità, non sapevo che cosa stessi dicendo.
Sicuramente avrei avuto più influenza io di Jude su Jonathan,
ma a quale scopo? Jude lo sapeva, ma io no.
Lui scosse il capo e indietreggiò di un passo. «Io mi accerto
che tutti quelli che porto da Adair ne siano meritevoli, a loro
modo. E vanno da lui spontaneamente. Cosa ancor più
importante, non gli consegnerei mai una persona che amo. Mai.»
Avrei dovuto chiedergli che cosa intendesse; ma come molti
giovani, ritenni fosse meglio ingannarlo piuttosto che rivelargli
che non sapevo quello che stavo facendo. E non mi fidavo di
Jude; mi stava mostrando un volto completamente differente e
non sapevo come prendere la cosa. Stava cercando di farmi
cadere in trappola? Voleva che mi mostrassi sleale nei confronti
di Adair, un padrone che aveva servito per molto più tempo di
me? Forse era quello il suo ruolo nel branco di Adair, quello
dell’informatore, dell’infiltrato. Della spia.
Mi costrinsi ad assumere un’espressione ferma e decisa, ma
tremavo, sconvolta. Jude mi aveva spinto ai limiti. «Ho sentito
abbastanza. Adesso vattene prima che vada da Adair a riferirgli i
tuoi inganni.»
Lui si ritirò, sorpreso, ma solo per un momento, poi chinò le
spalle. Si inchinò nuovamente, in un gesto esagerato di rispetto,
poi si avviò fuori dalla stanza. «Credo di essermi completamente
sbagliato su di te, Lanore. Sei tutt’altro che irresponsabile verso
i tuoi sentimenti. Sai esattamente quello che stai facendo, vero?
Spero che tu possa ottenere il perdono di Dio per quello che
farai.»
Cercai di rallentare il respiro e il battito del mio cuore, di
convincermi che nessuna delle sue parole corrispondeva a
verità. «Vai via» ripetei, avvicinandomi a lui come se potessi
scacciarlo io stessa da quella casa. «Spero di non vederti mai
più!»
«Non credo che sia questo il nostro destino. Temo di no. Il
mondo è un posto piccolo per chi ha a disposizione l’eternità. Te
ne accorgerai. Indipendentemente dai nostri desideri, i nostri
cammini si incroceranno ancora» disse, uscendo dalla stanza.
30
I preparativi del viaggio iniziarono immediatamente. Fu
prenotato un passaggio a bordo di un cargo che sarebbe partito
da Camden quattro giorni dopo. Dona, ben felice di vedermi
partire, mi aiutò a scegliere un paio di robusti bauli da viaggio
tra le decine e decine che erano giunti insieme a loro
dall’Europa. In uno mettemmo i miei vestiti migliori e nell’altro
i regali per la mia famiglia: un rotolo di seta proveniente dalla
Cina; un set di colletti e polsini di pizzo belga, pronti per essere
cuciti su un vestito; una collana d’oro con opali rosa incastonati.
Adair insistette perché portassi dei doni che lusingassero
Jonathan, per mostrargli quali piaceri offrisse il mondo al di là
delle Great North Woods. Gli spiegai che il mio amico aveva
soltanto una debolezza, le donne, perciò Dona frugò in un baule
e trovò un mazzo di carte con illustrazioni molto esplicite al
posto dei consueti fanti, regine e re. La regina di cuori era ritratta
in una posa molto audace e scandalosa. Poi aggiunse un libro di
versetti pornografici (anche se Jonathan non aveva mai mostrato
interesse per la letteratura, se c’era un libro che poteva farlo
appassionare era proprio quello); una piccola scultura di giada,
che mi dissero di aver acquistato nell’Estremo Oriente, e che
ritraeva tre persone nell’atto di fare sesso. E infine, un rotolo di
velluto che invece di contenere braccialetti o anelli racchiudeva
un set di falli, uno di legno, uno d’avorio e uno d’ebano.
Davanti a quell’ultimo dono corrugai la fronte. «Non sono
affatto sicura che questi siano di suo gusto» dissi, prendendo
quello d’ebano, il più grosso dei tre, per studiarne i dettagli
finemente incisi.
«Non è perché lo usi lui» disse Dona, togliendomelo dalle
mani e arrotolandolo insieme agli altri nel panno di velluto. «Hai
già chiarito abbastanza le sue inclinazioni. Ma questi potrebbero
essere utilizzati per, diciamo così, intrattenere le sue amanti,
qualcosa di nuovo per stimolare le loro voglie e indurle a
maggior licenziosità. Vuoi che ti mostri come usarli?» mi
chiese, poi mi guardò di sbieco, sdegnato dalla mia mancanza di
raffinatezza in materia di sesso. Forse non ero all’altezza del
mio compito, secondo lui.
Mentre Dona frugava nei bauli, cercando lo specifico gingillo
che aveva in mente, anch’io mi divertii a frugare dentro i bauli,
aprendo misteriosi involti di tessuto e meravigliandomi di fronte
ai tesori che contenevano (un carillon tempestato di pietre
preziose a forma di uovo, un uccellino meccanico che sbatteva
le ali e cantava una melodia tintinnante). Finché, dentro un baule
impolverato infilato sotto una mensola nell’angolo della stanza,
trovai un oggetto che mi fece venire la pelle d’oca. Un pesante
sigillo dorato (ma fatto sicuramente d’ottone; un sigillo così
grande e pesante, se fosse stato fatto tutto d’oro, sarebbe valso
una fortuna), avvolto nel velluto e chiuso dentro un borsello di
pelle di daino. Era il sigillo del medico, morto da centinaia
d’anni, di cui Adair mi aveva parlato? L’aveva conservato come
ricordo?
«Ecco qui.» La voce di Dona mi riscosse e io chiusi in fretta il
baule e lo spinsi al suo posto. Dona aveva avvolto i regali per
Jonathan in un fazzoletto di seta rossa e l’aveva chiuso con un
nastro dorato. I regali per la mia famiglia invece li aveva infilati
in un sacchettino di stoffa blu chiuso da un nastro rosso. «Cerca
di non confonderli.»
Forse furono tutti i preparativi a indurmi in uno stato di
tranquilla compiacenza. Adair era stato così gentile con i regali e
mi aveva organizzato un viaggio nel lusso e nella comodità.
Iniziai a chiedermi se non ci fosse una possibilità in tutto questo,
una chance di sfuggire alla sua presa ferrea. Forse avrei dovuto
trattenermi dal considerare quelle opportunità di
ammutinamento in presenza di Adair, a letto accanto a lui, ma a
centinaia di miglia da lui sarei stata al sicuro. Di certo la distanza
avrebbe indebolito il nostro legame.
Quel pensiero mi confortò, forse mi conferì perfino un
eccesso di sicurezza. Cominciai a vedere in quel viaggio la mia
opportunità di fuga; forse sarei perfino riuscita a convincere
Jonathan a lasciare la sua famiglia e scappare con me.
Tutto questo, fino al pomeriggio seguente.
Io e Tilde stavamo tornando dalla modista dove lei aveva
comprato un cappello nuovo quando vedemmo la ragazza. Era
in un vicolo e osservava il traffico per le strade. Da quanto
riuscimmo a vedere di lei, era magra e grigia, un piccolo topino
vestito di stracci. Tilde si avviò verso di lei e la ragazza
spaventata fuggì nel vicolo.
Mentre mi chiedevo perché mai Tilde si fosse lanciata dietro
la ragazza e se inseguirla o meno, le vidi sbucare insieme dal
vicolo. Alla luce velata dalle nuvole di quel pomeriggio,
constatai in che pessime condizioni si trovasse la giovane.
Sembrava uno straccio appallottolato e gettato via. La
consapevolezza di essere un rifiuto che non interessava a
nessuno permeava il suo sguardo.
«Lei è Patience» disse Tilde, tenendo stretta la piccola mano
della ragazza nella sua. «Ha bisogno di un posto in cui stare, così
ho pensato che potremmo portarla a casa con noi. Darle
qualcosa da mangiare e un tetto sotto cui dormire per qualche
notte. Credi che a Adair darà fastidio? No, vero?» Il suo sorriso
era ferino e trionfante, e mi ricordò immediatamente di quando
lei e gli altri mi avevano trovato per strada, qualche mese prima.
Ed era proprio quello l’effetto che voleva ottenere. Vedendo la
mia espressione allarmata, mi diede uno sguardo di
avvertimento e capii che avrei dovuto starmene zitta.
Tilde chiamò una carrozza e fece salire la ragazza prima di
noi. La piccola si sedette sul bordo della panca, lo sguardo perso
fuori dal finestrino, gli occhi spalancati a guardare Boston
scorrere via. Anch’io ero stata così? Anch’io ero stata tanto
indifesa, nient’altro che una preda per un predatore, che
praticamente implorava di essere divorata?
«Da dove vieni, Patience?» le domandai.
Lei mi guardò con cautela. «Sono scappata.»
«Da casa?»
Scosse il capo ma non diede altre spiegazioni.
«Quanti anni hai?»
«Quattordici.» Sembrava non averne più di dodici e ne
pareva consapevole. Distolse gli occhi dal mio sguardo curioso.
Tilde la portò al piano di sopra non appena arrivammo alla
casa. «Manderò un servitore con dell’acqua calda, così ti potrai
dare una ripulita» disse, e la ragazza imbarazzata si portò una
mano sulla guancia lercia. «Ti farò avere anche del cibo. Adesso
vado a cercarti qualcosa di più caldo da metterti addosso.
Lanore, perché non vieni con me ad aiutarmi?»
Andò dritta nella mia camera e iniziò a frugare tra i miei
vestiti senza nemmeno chiedermi il permesso. «Abbiamo dato a
te tutti i vestiti più piccoli, se non sbaglio... Sono sicura che hai
qualcosa che possa andar bene a quella ragazzina...»
«Non capisco...» Mi piazzai di fronte a Tilde e chiusi l’anta
dell’armadio. «Perché l’hai portata qui? Che intenzioni hai con
lei?»
Tilde sogghignò. «Non far finta di essere ingenua, Lanore. Tu
più di ogni altro dovresti sapere...»
«È ancora una bambina! Non puoi consegnarla a Adair come
se fosse un giocattolo.» Nonostante avessi visto di persona
Adair commettere atti di qualsiasi genere, non l’avevo mai visto
molestare una bambina. Non credevo che avrei potuto
sopportarlo.
Tilde aprì un baule. «Forse è un po’ troppo giovane, ma non è
certo un’innocente. Mi ha detto di essere scappata da una casa di
correzione dove era stata mandata per partorire. Quattordici anni
e incinta. Avanti, lo sai anche tu che le stiamo facendo un
favore» disse, scegliendo un completo intimo aderente, con un
corpetto che aveva dei laccetti di cotone nei punti strategici.
Mi accasciai sul letto.
«Dalle questo e dille di lavarsi bene.» Tilde mi gettò il
vestito. «Io intanto vedo di procurarle qualcosa da mangiare.»
Quando tornai nella sua stanza, trovai Patience davanti alla
finestra a guardare giù in strada. Si scostò un ciuffo sporco dagli
occhi e guardò con bramosia il vestito che tenevo in mano.
Glielo porsi. «Avanti, indossalo.» Le voltai le spalle mentre
si spogliava. «Tilde mi ha detto che vieni da una casa di
correzione...»
«Sì, signora.»
«... dove hai partorito. Dimmi, che ne è stato del tuo
bambino?» Il cuore mi balzò in gola; di certo non era scappata
lasciandolo lì.
«Me l’hanno tolto» mi spiegò difendendosi. «Non l’ho mai
visto, nemmeno quando è nato.»
«Mi dispiace.»
«Ormai non c’è più niente da fare. Vorrei soltanto...» Si
bloccò, forse pensando che non era opportuno confessare tutto a
delle donne così misteriose e sospette, che l’avevano tolta dalla
strada senza alcun motivo. «L’altra signora mi ha detto che
potrei ottenere un lavoro qui, forse come sguattera in cucina?»
«Ti piacerebbe farlo?»
«Ma dice che prima devo conoscere il padrone di casa e
vedere se mi approva.» Mi scrutò in volto per constatare se
anch’io le davo la stessa versione, per sincerarsi che non le
stessimo giocando un brutto tiro. Tilde si era sbagliata; quella
ragazzina era ancora un’innocente. Che io lo volessi o meno,
non riuscii a impedirmi di ripensare alle parole di Jude: era
troppo innocente per frequentare uno come Adair. Non potevo
permettere che le accadesse quello che era successo a me.
La presi per mano. «Vieni con me. Non dire una parola, non
fare rumore.»
Corremmo giù dalle scale di servizio, che Tilde non usava
mai, e attraverso la cucina giungemmo all’ingresso posteriore.
C’era una manciata di monete sul tagliere, in attesa sicuramente
di un fornitore. Le presi e le misi in mano a Patience.
«Vai. Prendi questi soldi e tieniti il vestito, ma vai via
subito.»
Mi guardò come se fossi impazzita. «Ma dove posso andare?
Mi puniranno di certo se torno alla casa di correzione e non
posso tornare dalla mia famiglia...»
«Allora accetta la punizione, oppure chiedi perdono alla tua
famiglia. Per quanta malvagità e perversione tu abbia già visto,
ce n’è molta di cui non sospetti nemmeno l’esistenza, Patience.
Vai! È per il tuo bene» le dissi, spingendola fuori dalla porta, poi
la richiusi con forza. La sguattera entrò proprio in quel momento
e mi guardò allibita, e io risalii le scale e mi rifugiai nella mia
camera.
Presi a camminare nervosamente avanti e indietro. Se avevo
cacciato quella ragazza per il suo bene, che cosa ci facevo
ancora lì io? Sapevo benissimo che quello che stavo facendo con
Adair era sbagliato, sapevo che quella casa era un posto
maledetto, eppure... era stata la paura a tenermi lì. E fu
nuovamente la paura ad assalirmi. Entro pochi minuti, Tilde
avrebbe scoperto che la sua preda era stata liberata, e a quel
punto lei e Adair si sarebbero avventati su di me come due leoni.
Presi a ficcare dei vestiti in una sacca; ogni fibra del mio essere
mi diceva che dovevo scappare. Altrimenti avrei affrontato una
furia terribile.
Mi ritrovai per strada e poi su una carrozza senza quasi
pensarci, contando il denaro nella mia borsetta. Non era molto
ma sarebbe bastato a farmi allontanare da Boston. La carrozza
mi lasciò davanti a una stazione di diligenze e acquistai un
biglietto per la prima in partenza, diretta a New York. «La
diligenza partirà fra un’ora» mi disse l’impiegato alla cassa.
«C’è un pub dall’altra parte della strada dove vanno di solito i
viaggiatori ad attendere l’ora della partenza» mi indicò.
Mi accomodai a un tavolo, con una tazza di tè davanti a me, la
sacca ai miei piedi. Era il primo momento in cui potevo respirare
e riflettere da quando ero scappata in fretta e furia. Anche se il
terrore mi attanagliava il cuore, mi sentivo stranamente
ottimista. Stavo abbandonando la casa di Adair. Quante volte ci
avevo pensato senza averne il coraggio? Adesso lo avevo fatto
d’impulso e non c’erano segni che fossi stata scoperta. Di certo
non sarebbe riuscito a trovarmi in quell’ora, e a quel punto sarei
stata in viaggio e sarebbe stato impossibile rintracciarmi. Chiusi
le mani a coppa attorno alla tazzina di ceramica per riscaldarmi e
mi concessi un piccolo sospiro di sollievo. Forse la casa di Adair
era stata un’illusione, un brutto sogno che era sembrato reale
soltanto finché ci ero dentro. Forse non aveva alcun potere su di
me là fuori. Forse, trovare il coraggio di scappare era l’unica
prova da affrontare. La domanda adesso, ovviamente, era dove
andare e che cosa farne della mia vita.
Poi, di colpo, mi accorsi della presenza di alcune persone
accanto a me. Adair, Alejandro e Tilde. Adair si chinò su di me e
mi sussurrò all’orecchio: «Vieni con me subito, Lanore, e non
pensarci nemmeno a fare una scenata. Ci sono dei gioielli nella
tua borsa, scommetto, e se chiedi aiuto dirò alla polizia che me li
hai rubati. Gli altri testimonieranno in mio favore».
La sua mano stava per spezzarmi il gomito. Mi sollevò dalla
sedia. Sentivo la sua furia irradiare come il calore di un focolare
acceso. Non riuscii a guardare nessuno di loro, sulla carrozza
che mi riportava alla casa. Rimasi rattrappita, con la bocca secca
per il terrore. Non appena entrati, Adair allungò un braccio e mi
diede uno schiaffo, scagliandomi a terra. Alejandro e Tilde mi
girarono attorno e scomparvero, come uccelli che si levano in
volo da un campo con una tempesta in arrivo.
Dalla furia nello sguardo di Adair, pareva che volesse farmi a
pezzi. «Che cosa credevi di fare? Dove credevi di andare?»
Non riuscii a parlare, ma fu subito evidente che lui non
voleva risposte. Voleva soltanto colpirmi, e colpirmi ancora,
perso in un attacco di rabbia, finché non giacqui ai suoi piedi
ridotta a un mucchietto di ossa rotte. Lo guardai con gli occhi
gonfi e iniettati di sangue. L’attacco di rabbia non gli era
passato. Si medicò le nocche camminando furiosamente davanti
a me.
«È così che ricambi la mia generosità, la mia fiducia?» ruggì.
«Ti ho accolto nella mia casa, nella mia famiglia, ti ho dato dei
vestiti, mi sono preso cura di te... In un certo senso, per me siete
come bambini. Perciò puoi ben capire la mia delusione. Ti avevo
avvertita: tu sei mia, che tu lo voglia o meno. Non mi lascerai
mai, mai, a meno che non sia io a volerlo.»
A quel punto mi sollevò e mi portò sul retro della casa, dove
c’erano la cucina e le camere della servitù, anche se sembravano
scomparsi tutti come topi in fuga. Mi trasportò giù per una
rampa di scale nella cantina, oltrepassando casse di vino, sacchi
di farina e mobili inutilizzati coperti da drappi. Poi entrammo in
uno stretto corridoio dai muri umidi e coperti di muffa, in fondo
al quale c’era una porta di legno tutta segnata. Dentro quella
stanza c’era pochissima luce. Dona, in piedi accanto alla porta
con indosso una vestaglia stretta in vita, si piegò come se stesse
per vomitare. Stava per succedere qualcosa di davvero terribile
se Dona – che di solito gioiva delle disgrazie altrui – era così
terrorizzato. In mano teneva una specie di bardatura per cavalli,
sembrava una ragnatela di cuoio ed era diversa da qualsiasi altra
avessi mai visto.
Adair mi abbandonò per terra. «Preparala» disse a Dona, che
iniziò a togliermi i vestiti inzuppati di sangue e sudore. Dietro di
lui, Adair si spogliò. Quando fui completamente nuda, Dona mi
sistemò addosso la bardatura. Era un incubo: costrinse il mio
corpo in una posizione innaturale, aperta a ogni oltraggio
possibile. I lacci mi fissavano le braccia dietro la schiena e mi
tiravano la testa fin quasi al punto di staccarmela dal collo. Dona
si lasciò sfuggire un mugolio mentre stringeva i legacci, ma non
per questo li allentò. Adair torreggiava su di me, con fare
minaccioso. Le sue intenzioni erano decisamente chiare.
«È giunto il momento di insegnarti un po’ di obbedienza.
Avevo sperato, per il tuo stesso bene, che non sarebbe stato
necessario. Mi eri parsa destinata a qualcosa di diverso...» Si
fermò, riprendendosi. «Ma tutti devono essere puniti almeno
una volta, così che sappiano che cosa succederà se ci riprovano.
Ti avevo avvertita, ti avevo detto di non lasciarmi mai, eppure ci
hai provato lo stesso. Ma è stata la prima e ultima volta.» Adair
infilò le dita tra i miei capelli e avvicinò il volto a pochi
millimetri dal mio. «E ricordatene quando sarai di nuovo al tuo
villaggio, con la tua famiglia e con il tuo Jonathan. Ricorda: non
c’è posto al mondo in cui tu possa nasconderti da me. Ti troverò
sempre. Non puoi scappare.»
«La ragazza...» cercai di dire aprendo le labbra incrostate di
sangue.
«Questo non c’entra niente con quella ragazza, Lanore.
Dovresti imparare ad accettare quello che succede in casa mia. E
non soltanto lo accetterai, ne farai anche parte. Ma questo non
c’entra. Hai voltato le spalle a me, hai rifiutato me. Non lo
permetterò. Specialmente tu, non mi sarei mai aspettato che
proprio tu...» Si interruppe, pensando che fosse meglio non
esporsi, ma sapevo che cosa intendeva dire. Non voleva pentirsi
di avermi dato un pezzo del suo cuore.
Non ti racconterò quello che mi hanno fatto in quella stanza.
Concedimi almeno questo brandello di riservatezza. Non voglio
entrare nei dettagli della mia umiliazione. Sia sufficiente dire
che fu la tortura peggiore che io abbia mai sofferto. Non fu
soltanto Adair ad accanirsi su di me: arruolò anche Dona,
sebbene l’italiano fosse riluttante. Era il fuoco dell’inferno
contro cui mi aveva messo in guardia Jude, era la dimostrazione
che risvegliare l’amore nel diavolo in persona era un rischio
tremendo. Un amore come quello, ammesso che si possa
chiamarlo così, non è mai dolce. E prima o poi lo si sperimenta
per quello che veramente è: vetriolo, veleno, acido versato in
gola.
Ero a stento cosciente quando posero fine alle torture. Aprii
gli occhi di una fessura e vidi Adair raccogliere i vestiti da terra.
Era madido di sudore e i capelli gli stavano appiccicati al collo
in riccioli umidi. Anche Dona si era rimesso i vestiti e stava
strisciando sul pavimento, pallido e tremante, come se fosse sul
punto di vomitare persino l’anima.
Adair si passò le mani tra i capelli bagnati, poi si voltò verso
Dona. «Portala su e ordina a qualcuno di pulirla» disse. Poi uscì.
Dona mi sciolse dai legacci. Ogni movimento mi faceva
soffrire. I legacci erano penetrati nella pelle, lasciandomi
addosso decine di tagli e le ferite si riaprirono quando Dona li
strappò dal sangue incrostato. Mollò a terra quell’orribile
attrezzatura, che si accasciò come una sorta di vuota forma
umana, e mi prese in braccio. Era il gesto più gentile che Dona
mi avesse rivolto fino a quel momento, e da quel momento in
poi.
Mi portò nella stanza in cui c’era la vasca da bagno di rame.
C’era Alejandro ad aspettarmi, con diversi secchielli d’acqua
calda. Alejandro mi lavò con cura, ripulendomi dal sangue e
dagli altri fluidi, ma nonostante la sua delicatezza, ogni volta che
mi sfiorava provavo dolore. Non riuscivo a smettere di piangere.
«Questo è l’inferno, Alejandro. Non posso più andare avanti
così.»
Mi prese una mano e la tamponò con un asciugamano
bagnato. «Non hai scelta. Se ti può essere d’aiuto, sappi che ci
siamo passati tutti. Tutti, nessuno escluso. Non ti devi
vergognare per quello che ti è successo, non con noi almeno.»
Mentre mi lavava, le mie ferite guarivano, i tagli più piccoli
scomparivano sotto i miei occhi, i lividi si schiarivano. Mi
asciugò e mi avvolse in un camicione pulito, poi mi portò a letto
e si sdraiò accanto a me. Mi abbracciò, impedendomi di ritrarmi
da lui.
«Adesso cosa succederà?» gli domandai, le mani intrecciate
alle sue.
«Niente. Tornerà tutto come prima. Devi cercare di
dimenticare quello che ti è stato fatto oggi, ma non dimenticare
mai la lezione. Non dimenticarla mai.»
La notte precedente alla mia partenza da Boston fu terribile.
Volevo essere lasciata da sola con le mie angosce, ma Adair
insistette per portarmi in camera sua. Ormai ero terrorizzata da
lui, inutile a dirsi, ma Adair non sembrò cogliere questo
mutamento. Forse ci era abituato perché tutti i suoi leccapiedi
facevano così e si aspettava che, nel tempo, mi sarei ripresa. O
forse non gli importava nulla di aver distrutto ogni brandello di
fiducia che potevo aver nutrito in lui. Mi ricordai l’avvertimento
di Alejandro e mi sforzai di agire come se non fosse successo
niente, di dare le consuete attenzioni a Adair.
Aveva bevuto molto, forse per dimenticare quello che mi
aveva fatto, suscitando il mio terrore, e fumò il narghilé finché la
camera non fu invasa da nuvolette di fumo narcotico. Quella
notte a letto fui una compagna distratta e assente: non riuscivo a
pensare ad altro che a ciò che avrei dovuto fare a Jonathan.
Stavo per condannarlo a trascorrere l’eternità in compagnia di
un folle. Jonathan non aveva fatto niente per meritarsi un simile
destino. E nemmeno io.
Inoltre, non avevo ancora deciso cosa dire alla mia famiglia
quando sarei tornata a St. Andrew. In fin dei conti, ero
scomparsa dalle loro vite quando ero fuggita dal porto, un anno
prima. Sicuramente avevano chiesto di me al convento e alla
capitaneria di porto, ottenendo come unica risposta che ero
giunta a Boston, sì, ma per scomparire subito dopo. Forse
speravano che fossi ancora viva e che fossi scappata per la
vergogna e per tenere il mio bambino. O forse erano rimasti in
contatto con la polizia di Boston, insistendo perché non
cessassero le ricerche fino a che non fossero stati sicuri che ero
stata uccisa. Mi domandai se mi avessero fatto il funerale a St.
Andrew... no, mio padre non avrebbe consentito che si
lasciassero trasportare dall’emozione. Probabilmente, mia
madre e le mie sorelle portavano il lutto come un macigno sul
cuore, cucito sotto la pelle.
E Jonathan? Cosa credeva che mi fosse accaduto? Forse mi
riteneva morta, ammesso che mi pensasse. Improvvisamente mi
ritrovai gli occhi pieni di lacrime: certo che pensava a me di
tanto in tanto, io ero la donna che più amava al mondo! Ma
dovevo affrontare il fatto che per tutti, a St. Andrew, ero morta.
Alla fine, quelli che sopravvivono riescono ad accettare la morte
dei loro cari. Soffrono per qualche tempo, settimane, mesi, ma
alla fine i ricordi entrano a far parte del passato, come un
giocattolo che da piccoli si adora e che si ritrova per caso in
soffitta: prima lo si accarezza, poi lo si rimette a posto.
Mi svegliai alle prime luci dell’alba, sudata e scarmigliata da
una notte di sonno inquieto. La nave sarebbe partita con la marea
del mattino e dovevo arrivare al porto prima che il sole si fosse
sollevato del tutto all’orizzonte. Chinandomi per recuperare i
miei indumenti ai piedi del letto, vidi Adair, con la testa
appoggiata al cuscino. Immagino sia vero che anche i diavoli
sembrano angeli quando dormono, quando sono immobili e in
pace con se stessi. I suoi occhi erano chiusi e le sue lunghe ciglia
sfioravano le guance. I capelli gli cadevano sulle spalle in
riccioli folti e lucenti; e la rada peluria sulle guance lo faceva
apparire un adolescente. Non un adulto capace di crudeltà
disumane.
Tutto il fumo narcotico che avevo respirato quella notte mi
aveva provocato un forte mal di testa. Se io mi sentivo così male,
Adair doveva essere praticamente incosciente. Gli sollevai la
mano e la lasciai andare: cadde a peso morto. Non fece
nemmeno un borbottio, nemmeno una mossa sotto le coperte.
In quel momento mi venne un’idea perversa. Mi ricordai
della fiala d’argento che conteneva l’elisir dell’immortalità, le
gocce di liquido satanico, magico, che mi avevano trasmutata
per sempre in quello che ero ora. Prendilo, disse una voce dentro
di me. Quella fiala contiene l’origine del potere di Adair. È la
tua occasione di vendicarti di lui. Ruba il suo potere e portatelo
dietro con te a St. Andrew.
Con quella pozione, avrei avuto la possibilità di legare
Jonathan a me, così come io ero legata a Adair. Quel pensiero mi
attraversò la mente, provocandomi però una stretta allo stomaco.
Non avrei mai potuto usarlo davvero... Non potevo trasformare
un innocente in quello... in quello che ero ora, qualsiasi cosa
fossi.
Prendilo per vendicarti di Adair. È la radice di tutta la sua
magia. Pensa a come sarà in preda al panico quando scoprirà
che è scomparso!
E io la volevo, la vendetta. Volevo vendetta per quello che mi
aveva fatto nello scantinato. Lo odiavo per avermi costretta a
compiere quella missione, per avermi forzata a condannare
l’uomo che amavo a un’eternità insieme a un mostro come lui.
Ma più di ogni altra cosa, volevo ripagarlo con la stessa moneta.
Mi piace pensare che fu un potere più forte della mia ragione
a indurmi a scivolare con cautela fuori dal letto, poggiando
silenziosamente i piedi nudi sul pavimento. Mentre indossavo
una delle vesti di Adair, esaminai la stanza. Dove avrei nascosto
la fiala al posto suo? L’avevo vista soltanto quel giorno, né
prima né in seguito.
Andai nel guardaroba. Era forse sul carrellino in mezzo agli
aghi per cucire? O nel portagioie insieme agli anelli e alle spille?
Forse nel tallone di una babbuccia utilizzata di rado? Mi
inginocchiai a frugare in mezzo alle sue scarpe, poi mi resi conto
che Adair non avrebbe mai custodito un oggetto così prezioso
dove il suo cameriere personale avrebbe potuto trovarlo e
rubarlo. O se lo teneva sempre addosso – ma l’avevo visto nudo
in diverse occasioni e non c’era traccia della fiala – oppure
l’avrebbe nascosto in un posto in cui nessuno avrebbe mai
pensato di cercarlo. Dove nessuno avrebbe osato cercarlo.
Con una candela accesa in mano, uscii dalla stanza e scesi
dalle scale della servitù fino allo scantinato, percorsi i corridoi
sotterranei umidi e ammuffiti, strusciando una mano sulle pareti
di pietra. Rallentai avvicinandomi alla stanza in cui nessuno
entrava, quella che tutti temevano. Spinsi la porta tutta rovinata
e mossi qualche passo sul pavimento lercio dove io stessa, poco
tempo prima, ero rimasta accasciata a sanguinare.
Trattenendo il fiato, mi avvicinai in punta di piedi all’unico
baule che c’era, in un angolo. Lo aprii. All’interno trovai
quell’attrezzatura odiosa, quella bardatura da incubo, ancora
piegata secondo la forma del mio corpo, con i legacci di cuoio
ancora umidi del mio sudore e del mio sangue. Quando la vidi
fui sul punto di lasciare la presa sul coperchio, ma mi fermai
quando scorsi un minuscolo fagottino nell’angolo del baule.
Infilai dentro una mano e lo afferrai. Era un fazzoletto da uomo,
piegato a formare un cuscinetto.
Sollevai un angolo e vidi... la fiala. Alla luce della candela,
l’argento brillò come una decorazione su un albero di Natale,
con gli stessi riflessi vagamente offuscati. La luce sembrava
pulsare minacciosa, quasi a segnalare il pericolo. Ma ormai ero
giunta fin lì e non avevo intenzione di tornare indietro. La fiala
era mia. La chiusi nel pugno, me la portai al cuore e la rubai da
quella prigione.
31
Provincia di Québec, oggi
Oltre la finestra della camera del motel, il cielo è diventato di
un nero bluastro, il colore dell’inchiostro di una biro. Hanno
lasciato aperta la tenda mentre si gettavano a letto insieme, e ora
che la frenesia di scoprire il corpo dell’altro è passata, Lanny e
Luke giacciono fianco a fianco, a guardare fuori dalla finestra le
stelle del Nord. Lui le sfiora il braccio nudo con la punta delle
dita, stupendosi della luminosità della sua pelle, della sua
perfezione. Color crema, costellata di lentiggini d’oro chiaro. Il
corpo di Lanny è un susseguirsi di curve morbide, tenui.
Vorrebbe accarezzarla tutta, e poi ricominciare, come se
facendo così potesse assorbirne una parte e tenersela tutta per sé.
Si chiede se sia stato l’incantesimo a renderla più bella, a
esaltare il suo aspetto naturale.
Non riesce a credere di aver avuto la fortuna di poter fare
l’amore con lei. Si sente vagamente come un vecchio pervertito
mentre le esplora il corpo, come se non avesse tenuto una donna
così stretta a sé da ben prima del suo matrimonio. Di certo non
da quando aveva vent’anni, almeno, ma anche all’epoca non
ricorda che il sesso fosse mai stato così incredibile, forse perché
lui e la sua partner erano troppo imbarazzati. Sa bene che cosa
direbbero la sua ex moglie o i suoi amici se lo vedessero con
Lanny; lo riterrebbero nel bel mezzo di una crisi di mezz’età di
proporzioni gigantesche, ridotto ad aiutare una ragazza appena
maggiorenne a scappare dalla polizia in cambio di sesso.
Lei lo guarda con un sorriso che le illumina il bellissimo
volto, e lui non può fare a meno di chiedersi che cosa abbia di
così attraente per lei. Ha sempre pensato a se stesso come un
uomo qualunque: statura nella norma, abbastanza magro ma non
certo in una forma tale da meritare ammirazione; capelli
arruffati e mossi di un colore indefinito, tra il castano e il biondo.
I suoi pazienti gli hanno più volte lasciato intendere di ritenerlo
un po’ hippie, come quegli autostoppisti che calano in massa su
St. Andrew d’estate, ma Luke è convinto che lo vedano così
perché tende a essere parecchio disordinato quando non ha
attorno nessuno che si prenda cura di lui. Che cosa ci vede una
donna come lei in uno come me? pensa.
Prima di poterglielo chiedere, comunque, qualcosa li distrae,
qualcosa oltre il vetro. Vedono delle ombre e capiscono che c’è
del movimento sul vialetto d’accesso. Luke ha giusto il tempo di
alzarsi a sedere che qualcuno inizia a bussare violentemente alla
porta. Si sente una voce maschile: «Aprite! Aprite, polizia!»
Luke trattiene il fiato, incapace di pensare, di reagire, di fare
qualcosa, ma Lanny balza fuori dal letto, con un lenzuolo
avvolto attorno al corpo, e atterra sul pavimento senza fare alcun
rumore, come una gatta. Si porta un dito alle labbra a indicargli
di tacere e scivola oltre l’angolo, entrando nel cucinotto e poi nel
bagno. Lui aspetta che si nasconda, poi scende dal letto, si mette
una coperta in vita e apre la porta.
Le sagome di due agenti di polizia riempiono il vano della
porta ma Luke non riesce a vederli bene perché gli stanno
puntando una torcia in volto. «C’è stata una chiamata, dicono
che c’è un uomo che fa sesso con una minorenne... le dispiace
accendere la luce, signore?» gli chiede uno degli agenti, in tono
esasperato, come se non vedesse l’ora di sbattere Luke al muro e
mettergli lo sfollagente alla gola. Entrambi fissano il petto nudo
di Luke e la coperta allacciata in vita. Luke trova l’interruttore
più vicino e accende la luce, illuminando la stanza.
«Dov’è la ragazza che ha preso questa stanza?»
«Quale ragazza?» riesce a dire Luke, con la gola secca e
rovente come se fosse piena di sabbia del deserto. «Ci
dev’essere un errore, questa è la mia stanza.»
«Quindi è stato lei a registrarsi per questa stanza?»
Luke annuisce.
«Non credo proprio. Il tipo alla reception ci ha detto che è
l’unica stanza occupata in questa parte del motel. A nome di una
ragazza. Lei ha detto alla reception che la stanza era per lei e per
suo padre.» I poliziotti si fanno avanti di un passo. «Una vicina
ha detto di aver sentito della gente fare sesso qui dentro, e
siccome il receptionist ha detto che qui c’erano un padre e sua
figlia...»
Il panico assale Luke, si sforza di trovare una via d’uscita
dalla sua bugia. «Ah, sì, esatto. La ragazza, sì, siamo insieme,
ecco perché ho detto che era la mia stanza, intendevo questo, ma
non è mia figlia. Non vedo proprio come possa aver detto una
cosa del genere.»
«Certo, come no.» Sembrano tutt’altro che convinti. «Le
dispiace farci entrare a dare un’occhiata? Vorremmo anche
parlare con la ragazza. È qui?»
Luke si blocca e ascolta. Non sente niente, il che lo fa pensare
che lei sia riuscita a uscire senza farsi vedere. Negli sguardi dei
poliziotti, Luke vede indignazione a malapena sotto controllo.
Probabilmente non chiederebbero di meglio che buttarlo a terra
e prenderlo a calci, fargliela pagare per tutte le ragazzine abusate
che hanno visto nel corso degli anni. Luke sta giusto per
balbettare una scusa quando nota che i poliziotti stanno fissando
qualcosa dietro di lui. Si volta, facendo arrotolare la coperta
malconcia color pesca attorno alle gambe.
Lanny è lì, in piedi, con il lenzuolo avvolto attorno al corpo
nudo. Ha in mano un bicchiere di plastica rosso tutto segnato, da
cui sta bevendo dell’acqua. «Oh! Mi era sembrato di sentire
qualcuno bussare. Buonasera, agenti. C’è qualcosa che non va?»
I due poliziotti la squadrano dalla testa ai piedi nudi prima di
rispondere.
«È stata lei a prenotare questa stanza, signorina?»
Lei annuisce.
«E quest’uomo è suo padre?»
Lei arrossisce. «Oddio, no. No... non so perché ho detto così a
quel tizio alla reception. Probabilmente temevo che non ci
avrebbe dato la stanza, visto che non siamo sposati. Sembrava,
non so, il tipo che sputa sentenze, ecco. Ho solo pensato che non
fossero affari suoi.»
«Ah. Ah. Be’, dovremmo vedere la sua carta d’identità.» Si
stanno sforzando di rimanere impassibili, di dissipare la loro
sacrosanta furia ora che non c’è nessun pervertito da portare di
fronte alla giustizia.
«Non avete alcun diritto di controllarci. È tutto consensuale»
dice Luke mettendo un braccio attorno a Lanny e attirandola al
suo fianco. Adesso vuole che se ne vadano. Subito. Vuole
lasciarsi alle spalle quest’esperienza imbarazzante e fastidiosa.
«Dobbiamo soltanto accertarci che lei non sia un... Lo sa»
dice il più giovane dei due agenti, abbassando il capo e facendo
un gesto spazientito con la torcia. Non c’è alternativa, Luke deve
dare agli agenti la patente e far vedere anche il passaporto di
Lanny, sperando che non sia stato diramato un bollettino da St.
Andrew o quanto meno che non sia arrivato fino in Canada.
Ma Luke si accorge subito che non avrebbe dovuto
preoccuparsi: i due agenti sono talmente agitati e delusi che si
limitano a dare uno sguardo frettoloso ai loro documenti,
probabilmente senza nemmeno leggere i loro nomi, poi
indietreggiano ed escono mormorando scuse appena udibili per
il disturbo. Non appena se ne sono andati, Luke chiude la tenda
che dà sul vialetto.
«Oh, mio Dio» dice Lanny prima di lasciarsi cadere sul letto.
«Dovremmo andarcene. Dovrei portarti in una città.»
«No, non posso chiederti di correre altri rischi per me...»
«Non posso certo lasciarti qui, no?» Si veste mentre Lanny è
in bagno. Sente l’acqua che scorre. Si passa una mano sul mento
e sente la barba ispida, rendendosi conto che sono passate
ventiquattro ore da quando si è rasato l’ultima volta, poi decide
di controllare se il parcheggio è libero. Infila un dito a uncino
dietro una tenda e sbircia fuori: l’auto della polizia è
parcheggiata accanto al SUV.
Lascia ricadere la tenda. «Maledizione. Sono ancora là
fuori.»
Lanny alza lo sguardo dalla valigia. «Come?»
«I due poliziotti, sono ancora là fuori. Staranno controllando
la targa.»
«Dici?»
«Forse stanno vedendo se abbiamo dei precedenti.» Si
strofina il labbro inferiore, pensoso. Probabilmente non possono
avere risposte immediate sulle targhe o le patenti emesse negli
Stati Uniti. Probabilmente devono attendere il responso dal
computer, previa autorizzazione dei loro colleghi americani
però. Forse lui e Lanny hanno un po’ di tempo prima che...
Luke prende Lanny per un braccio. «Dobbiamo andare. Ora.»
«Ma non cercheranno di fermarci?»
«Lascia qui la tua valigia, dai. Vestiti e basta.»
Escono dal motel mano nella mano. Si incamminano verso il
loro veicolo quando un finestrino dell’auto della polizia si
abbassa. «Ehi» dice il poliziotto seduto dal lato del passeggero,
«non potete ancora andarvene.»
Luke lascia la mano di Lanny così che lei possa rimanere
indietro mentre si avvicina alla macchina di pattuglia. «Perché
non possiamo andarcene? Non abbiamo fatto niente di male. Vi
abbiamo già mostrato i nostri documenti. Non avete alcuna
ragione di continuare a tormentarci. Tutto questo comincia a
sembrare un caso di molestia.»
I due agenti sono turbati, incerti, non gradiscono il suono
della parola «molestia».
«Ascoltate» prosegue Luke, aprendo le mani per mostrare
che sono vuote. «Stiamo soltanto andando a cena. Vi sembra che
vogliamo scappare? Abbiamo lasciato i bagagli nella stanza,
abbiamo già pagato la notte. Se dopo i controlli di routine vi
venisse in mente qualche altra domanda, potreste sempre tornare
più tardi. Ma se non avete intenzione di arrestarmi, non credo
proprio che possiate trattenermi.» Luke parla in tono calmo e
ragionevole, le braccia aperte, come se cercasse di dissuadere
dei ladri dal rapinarlo. Intanto, Lanny sale sul SUV, lanciando
agli agenti uno sguardo vagamente ostile. Lui la segue, accende
il motore ed esce lentamente dal parcheggio, controllando nello
specchietto retrovisore che la pattuglia non gli stia alle costole.
Solo quando hanno percorso un bel tratto di strada Lanny
estrae il computer portatile da sotto il maglione e se lo poggia in
grembo. «Non potevo lasciarlo lì. C’è roba che scotta qui dentro,
cose tra me e Jonathan che potrebbero essere usate per
incriminarmi» gli spiega, come se si sentisse colpevole per aver
corso il rischio di portarselo via. Un secondo dopo, estrae il
sacchettino di marijuana dalla tasca, come se stesse sollevando
un coniglio dal cappello di un prestigiatore.
Luke sente il cuore in gola. «Anche la marijuana?»
«Quando avranno capito che non torneremo indietro
perquisiranno la stanza... Questa roba avrebbe dato loro una
ragione per arrestarci...» Rimette il sacchetto nella tasca del suo
giaccone, sospirando esausta. «Credi che siamo al sicuro ora?»
Luke controlla nuovamente lo specchietto. «Non so... Adesso
hanno il numero di targa. Se si ricordano i nostri nomi, il mio
nome...»
Dovranno abbandonare il SUV da qualche parte. Luke si
sente tremendamente in colpa per aver preso in prestito la
macchina di Peter. No, non deve pensarci. «Non voglio pensarci
adesso. Raccontami un altro po’ della tua storia.»
Parte III
32
L’autostrada che conduce alla città di Québec ha due corsie
per direzione ed è buia come una pista d’atterraggio
abbandonata. Gli alberi spogli e il paesaggio anonimo che la
attorniano ricordano a Luke Marquette, la cittadina solitaria a
nord del Michigan in cui la sua ex moglie risiede. Luke ci è
andato, una volta sola, per vedere le sue figlie, poco dopo che
Tricia si era trasferita lì con il suo fidanzatino. Le due bambine
di Tricia e Luke adesso vivono nella casa del ragazzo di lei, in un
bosco di ciliegi, e due giorni alla settimana ospitano anche il
figlio e la figlia di lui.
Durante quella visita, vedendo Tricia col suo fidanzatino,
Luke non l’ha trovata più felice di quando stava con lui; ma,
forse, era soltanto imbarazzata che il suo ex marito la vedesse in
quella casa quasi in rovina con una Camaro vecchia di dodici
anni parcheggiata nel vialetto. Non che la casa di Luke a St.
Andrew fosse messa meglio.
Le bambine, Wynona e Jolene, erano infelici, ma c’era da
aspettarselo; si erano appena trasferite e non conoscevano
nessuno. A Luke si spezzava il cuore a stare lì, a mangiare nella
pizzeria in cui le aveva portate per il pranzo. Se n’erano state
zitte zitte tutto il tempo, troppo piccole per capire con chi
prendersela, a chi dare la colpa. Avevano tenuto il muso
nonostante tutti i suoi tentativi di alleggerire l’atmosfera, e lui
non sopportava l’idea di doverle riportare alla madre e di
salutarle, vedendole così ferite e chiuse. Ma sapeva anche di non
poterci fare niente: non poteva sperare di risolvere tutti i loro
problemi in un fine settimana.
Ma al momento di ripartire, mentre diceva loro addio sui
gradini di cemento davanti alla porta d’ingresso della casa di
Tricia, le cose tra lui e le ragazze erano migliorate. La loro paura
si era acquietata, era come se avessero ritrovato un po’ di terreno
sotto i loro piccoli piedi. Piansero entrambe quando Luke le
abbracciò per salutarle e agitarono le mani mentre lui risaliva a
bordo dell’auto a noleggio e ripartiva. Eppure, quei piccoli passi
avanti non bastarono a farlo sentire meglio.
«Ho due figlie» dice Luke all’improvviso, sopraffatto dal
bisogno di condividere qualcosa della sua vita con lei.
Lanny lo osserva dal sedile del passeggero. «Erano loro nella
foto a casa tua? Quanti anni hanno?»
«Una cinque e l’altra sei.» Avverte una punta d’orgoglio, è
tutto ciò che gli rimane del senso di paternità. «Vivono con la
madre. E con l’uomo che lei vuole sposare.» Qualcun altro si sta
prendendo cura delle sue figlie, ora.
Lanny si volta per guardarlo in faccia. «Per quanto tempo
siete stati sposati?»
«Sei anni. Adesso siamo divorziati» aggiunge, poi si rende
conto che probabilmente è inutile. «È stato un errore sposarci,
ora lo capisco. Avevo appena terminato la mia specializzazione
a Detroit. I miei genitori avevano iniziato ad avere problemi di
salute e sapevo che sarei dovuto rientrare a St. Andrew...
Probabilmente non mi andava di tornare da solo. E non riuscivo
a immaginare che avrei potuto trovare qualcuno lì. Conoscevo
tutti, ero cresciuto lì. Credo di... Credo di aver visto in Tricia la
mia ultima possibilità.»
Lanny stringe le spalle e una ruga di imbarazzo le si forma
sulla fronte. Troppa onestà la imbarazza, pensa Luke, che sia lei
o qualcun altro a essere onesto. «E tu? Tu ti sei mai sposata?» le
chiede e per tutta risposta lei si mette a ridere.
«Non mi sono nascosta per tutto questo tempo, se è quello
che pensi. No, alla fine me ne sono fatta una ragione. Capii che
Jonathan non si sarebbe mai legato a me in quel modo. Non era
nelle sue corde.»
Luke ripensa all’uomo all’obitorio. Qualsiasi donna sarebbe
caduta ai piedi di un uomo come quello. Infinite seduzioni,
infinite proposte, infinito desiderio, infinite tentazioni. Come ci
si poteva aspettare che un uomo così si dedicasse anima e corpo
a una sola donna? Era naturale che Lanny desiderasse che
Jonathan amasse soltanto lei e le fosse fedele, ma come
condannarlo per averla tradita?
«Quindi hai trovato un altro uomo e ti sei innamorata?» Luke
cerca di tenere la speranza fuori dalle sue parole. Lei ride
nuovamente.
«Per essere uno che si è sposato per disperazione e che ora è
divorziato, mi sembri un romanticone senza speranza. Mi sono
sposata, te l’ho detto, ma chi ha parlato di innamoramento?» Lei
gli volta di nuovo le spalle. «No, non è del tutto vero. Ho amato
tutti loro, tutti gli uomini che ho sposato, ma non come amavo
Jonathan.»
«Tutti loro? Quante volte ti sei sposata?» Luke sente di
nuovo la strana, fastidiosa sensazione che ha provato la prima
volta nel capanno dei Dunratty, quando ha visto il letto sfatto.
«Quattro volte. Una ragazza si sente sola ogni cinquant’anni,
più o meno» risponde Lanny, sogghignando con autoironia. «A
loro modo, erano tutti brave persone. Si sono presi cura di me.
Mi hanno accettata per quello che sono, per quello che potevo
condividere con loro.»
Questi scorci del suo passato gli fanno desiderare di saperne
di più. «E quanto hai condiviso con loro del tuo passato? Hai
raccontato loro di Jonathan?» domanda Luke.
Lanny scuote il capo e i suoi capelli danzano attorno alla sua
testa. Ancora non si volta per guardarlo. «Non ho mai detto a
nessuno la verità su di me prima d’ora, Luke. Mai. Tu sei
l’unico.»
Lo sta dicendo soltanto a mio beneficio? si chiede Luke. Lei
ha imparato a dire ciò che le persone vogliono sentirsi dire. È
un’abilità fondamentale da acquisire se si vuole sopravvivere
per centinaia di anni senza essere scoperti. La sottile arte di far
entrare delle persone nella tua vita, legarle a te, fare in modo di
conquistarle, perfino farle innamorare.
Luke vuole sentire la sua storia, sapere tutto di lei. Ma dirà la
verità? O lo sta soltanto manipolando finché non sarà al sicuro
dalla polizia? Mentre Lanny torna a chiudersi in un silenzio
pensieroso, Luke continua a guidare, chiedendosi cosa
succederà quando arriveranno a Québec, se lei sparirà
all’improvviso lasciandogli soltanto un frammento della sua
storia.
33
Boston, 1819
Avevo svolto i preparativi per il mio viaggio di ritorno a St.
Andrew con lo stesso entusiasmo che avrei impiegato per un
funerale. Usando i soldi che Adair mi aveva dato quando ero
partita, avevo prenotato un passaggio su un cargo che partiva da
Boston per andare a Camden, e da Camden in poi avrei viaggiato
a bordo di una carrozza noleggiata esclusivamente per me, con
un cocchiere. L’unico mezzo di trasporto da e per St. Andrew
era sempre stato il carro del droghiere, che due volte l’anno
trasportava merce al negozio dei Watford. Avevo in programma
di arrivare in pompa magna, facendo la mia comparsa in scena a
bordo di una carrozza lussuosa con cuscini sulle dure panche di
legno e tendine ai finestrini. Volevo che capissero tutti e subito
che non ero la stessa donna che era fuggita da lì tempo prima.
Era appena iniziato l’autunno e, mentre Boston era soltanto
fredda e umida, i passi di montagna che conducevano alla parte
settentrionale della contea di Aroostook probabilmente erano
già innevati. Mi sorprese la nostalgia della neve di St. Andrew:
un mantello bianco e intatto che copriva avvallamenti e colline,
le punte coniche dei pini che spuntavano da cumuli di neve.
Dappertutto, dolci dune bianche. Da bambina, passavo ore a
guardare fuori dalla finestra ghiacciata del cottage dei miei
genitori. Osservavo il vento spruzzare la neve con folate quasi
orizzontali, neve fine come polvere, ed ero contenta di
potermene stare dentro al calduccio, col fuoco acceso e cinque
altri corpi attorno a me che mi riscaldavano.
Perciò quella mattina andai al porto di Boston e aspettai di
salire sulla nave che mi avrebbe riportata a Camden e, intanto,
pensai a com’erano diverse le circostanze rispetto a quando ero
arrivata. Con me c’erano due bauli pieni di vestiti meravigliosi e
di regali, una borsa con più denaro di quanto l’intero villaggio
vedeva in cinque anni, e avrei viaggiato nel lusso. Quando avevo
lasciato St. Andrew ero una ragazza in disgrazia senza alcuna
prospettiva. Ora tornavo come una raffinata lady che aveva
avuto la fortuna di diventare ricca incappando in una sorte
favorevole.
Ovviamente, dovevo tutto a Adair. Ma questo non mi
impediva di essere triste per quello che stavo per fare.
Finché fummo in mare, mi nascosi nella mia cabina, ancora
sopraffatta dal senso di colpa. In un tentativo di attenuare le mie
emozioni, mi attaccai a una bottiglia di brandy e, sorso dopo
sorso, cercai di convincermi che non stavo per tradire il mio
primo amore. Stavo per fare un’offerta a Jonathan per conto di
Adair, stavo per offrirgli un sogno: la vita eterna. Era un dono
che qualsiasi uomo avrebbe accettato. Anzi, chiunque sarebbe
stato disposto a pagare qualsiasi cosa per poterlo avere. Jonathan
era stato scelto per entrare a far parte di un mondo invisibile.
Avrebbe scoperto che la vita non era soltanto quella che
conosceva. Non avrebbe certo potuto lamentarsi di quello che
gli avrei proposto.
Eppure io sapevo che quella nuova esistenza aveva un
prezzo. Solo che ancora non sapevo quale sarebbe stato il prezzo
per lui. Non mi credevo superiore ai mortali, non mi ritenevo
una divinità. Anzi, sentivo di aver abbandonato la sfera umana e
di essere entrata in un regno fatto di orrendi segreti e di rimorsi,
un regno sotterraneo e oscuro, un luogo di punizione. Ma
confidavo che ci fosse sempre una possibilità di ravvedimento,
un modo di rimediare ai propri peccati.
Nel tempo che impiegai ad arrivare a Camden, noleggiare la
carrozza e iniziare il lungo viaggio solitario verso nord, l’idea di
ribellarmi a Adair ricominciò a tormentarmi. Dopo tutto, quella
terra era talmente diversa da Boston, Adair sembrava così
lontano da me... Ma ricordavo fin troppo bene la punizione che
lui mi aveva inflitto per aver tentato di scappare, e il pensiero di
disobbedirgli ancora mi riempiva di terrore. Giunsi a un patto
con me stessa: se, arrivata a St. Andrew, avessi constatato che
Jonathan era felice della sua vita, tra la sua ingombrante
famiglia e la sua sposa bambina, lo avrei risparmiato. Avrei
pagato io le conseguenze: sarei fuggita e avrei cercato di rifarmi
una vita, perché di certo non potevo tornare a Boston senza
Jonathan. Paradossalmente, era stato Adair stesso a fornirmi i
mezzi per fuggire: soldi, vestiti. Avevo quanto mi bastava, per
cominciare.
Quelle fantasie durarono ben poco. Non potevo certo
scordare l’avvertimento di Adair, eseguire i suoi ordini oppure
soffrire indicibilmente per mano sua. Adair non avrebbe mai
permesso che lo abbandonassi.
Con quello stato d’animo angosciato, mi preparai a giungere
a St. Andrew in quel pomeriggio d’ottobre, ad affrontare la
sorpresa della mia famiglia e di quelli che mi conoscevano nel
rivedermi viva, e cogliere la loro delusione appena avessero
scoperto come mi ero ridotta.
Giunsi una domenica, col cielo coperto. Ero stata fortunata, la
stagione non era ancora rigida e fredda e i tratti innevati lungo la
strada erano stati comunque percorribili. Gli alberi spogli
spiccavano su un cielo grigio come la flanella e le ultime foglie
aggrappate ai rami avevano un colore spento, erano tutte
raggrinzite e accartocciate, come pipistrelli appesi a testa in giù.
La messa era appena terminata e la gente stava uscendo dalle
ampie porte della congregazione per radunarsi sullo spiazzo. I
parrocchiani erano rimasti in gruppetti a chiacchierare,
nonostante il vento freddo, riluttanti come sempre ad
abbandonare la compagnia degli altri per tornare
nell’isolamento delle loro case. Non c’era traccia di mio padre;
forse, ora che non c’era più nessuno che lo accompagnasse a
messa, aveva preso ad andare alla chiesa cattolica. Ma i miei
occhi individuarono immediatamente Jonathan e il mio cuore si
sollevò nel vederlo. Era sul limitare dello spiazzo dove erano
legati i cavalli e le carrozze e stava salendo a bordo del calesse
della sua famiglia, con le sue sorelle e suo fratello in fila dietro
di lui. Dov’erano sua madre e il capitano? La loro assenza mi
preoccupò. Al suo braccio c’era una ragazza minuta, pallida di
fatica. Jonathan la aiutò a salire sulla parte anteriore del calesse.
C’era un fagottino fra le sue braccia. Un bambino. La sposa
bambina aveva dato a Jonathan qualcosa che io non potevo più
dargli. Alla vista del bambino, fui sul punto di perdere il
coraggio e di ordinare al cocchiere di fare dietrofront.
Ma non lo feci.
La mia carrozza irruppe sulla scena e immediatamente attirò
la curiosità di tutti i presenti. A un mio segnale, il cocchiere
fermò i cavalli e io, col cuore in gola, saltai giù dalla carrozza
ritrovandomi in mezzo alla gente che si era subito radunata
attorno al veicolo.
Mi accolsero con più calore di quanto mi fossi aspettata. Mi
riconobbero, nonostante i vestiti nuovi e i capelli acconciati e la
carrozza a nolo. Ero circondata da persone che avevo sempre
ritenuto non si curassero di me: i Watford, il fabbro Tinky
Talbot con i figli, tutti macchiati di fuliggine, Jeremiah Jacobs
con la sua nuova moglie, della quale mi ricordavo il volto ma
non il nome. Il pastore Gilbert si precipitò dai gradini della
congregazione, con la tonaca mossa dal vento, mentre i miei
vecchi vicini mormoravano attorno a me.
«Lanore McIlvrae, che io sia dannato, è proprio lei!»
«Ma guardatela, tutta imbellettata!» Mani si protesero dalla
folla per stringere le mie, anche se con la coda dell’occhio
vedevo le espressioni di disprezzo e le teste che si scuotevano.
Poi la folla si divise in due per far passare il pastore Gilbert, che
arrivò col volto arrossato per la corsa.
«Signore nostro, sei davvero tu, Lanore?» mi chiese, ma lo
udii a malapena tanto ero sconvolta dal suo aspetto. Com’era
invecchiato! Era dimagrito e la sua pancia era quasi scomparsa,
il suo vecchio volto era pieno di rughe come una mela
dimenticata in una cantina fredda. Gli occhi erano appannati e
arrossati. Mi strinse la mano con un misto di affetto e
trepidazione. «La tua famiglia sarà così contenta di vederti!
Credevamo tutti che fossi...» Si fermò, arrossendo, come se
fosse stato sul punto di lasciarsi sfuggire una parola sbagliata.
«Che ti fossi perduta. E invece sei tornata da noi, e ovviamente
stai benissimo!»
Quando nominò la mia famiglia, le espressioni dei presenti
cambiarono, anche se nessuno disse una parola. Santo Dio, che
cosa era successo alla mia famiglia? E perché tutti sembravano
così invecchiati? La signora Watford aveva i capelli diversi da
come me li ricordavo, erano grigi. I fratelli Ostergaard erano
cresciuti e riempivano abbondantemente i loro vestiti, i polsi che
spuntavano dalle maniche troppo corte.
La folla si divise ancora, stava arrivando qualcuno.
Era Jonathan.
Oh, com’era cambiato. Aveva perso ogni traccia del ragazzo
di un tempo; la scintilla da scavezzacollo che aveva sempre
avuto nello sguardo era scomparsa, così come la sua baldanza da
bellimbusto. Era ancora bellissimo, ma aveva un’aria più sobria
ora. Mi guardò da capo a piedi, constatando com’ero cambiata
anch’io e questo sembrò rattristarlo. Avrei voluto ridere e
abbracciarlo per ravvivargli l’umore, ma non lo feci.
Mi prese le mani fra le sue. «Lanny. Credevo che non ti avrei
mai più rivista!» Perché continuavano tutti a dirmi la stessa
cosa? «Ma, a quanto pare, Boston ti ha fatto bene!»
«Sì» risposi, senza aggiungere niente. Volevo solleticare la
sua curiosità.
A quel punto, la ragazza col bambino si fece largo tra la folla
e raggiunse Jonathan, piazzandoglisi accanto. Lui la prese e la
spinse a farsi avanti.
«Lanny, ti ricordi di Evangeline McDougal, vero? Ci siamo
sposati poco dopo che te ne sei andata. Be’, è passato abbastanza
tempo da quando sei partita perché avessimo il nostro primo
figlio, a quanto vedi!» Fece una risata nervosa. «Una bambina,
avresti mai detto che il mio primo figlio sarebbe stato una
femmina? Non sono stato fortunato, forse, ma la prossima volta
andrà meglio, vero?» disse a Evangeline, che arrossì.
Era logico. Avrei dovuto aspettarmi che Jonathan si fosse
sposato ed era del tutto probabile che avesse anche un figlio,
ormai. Ma vederlo con sua moglie e sua figlia fu più difficile di
quanto avessi immaginato. Mi sentii mancare il fiato, mi sentii
intorpidita, incapace di congratularmi con loro. Come potevano
tante cose essere cambiate così velocemente? In fondo, ero stata
via soltanto qualche mese.
«So che sembra tutto affrettato, la paternità e tutto il resto»
disse Jonathan, togliendosi il cappello e abbassando lo sguardo,
«ma il vecchio Charles voleva a tutti i costi vedermi sistemato
prima di morire.»
Sentii un groppo alla gola. «Tuo padre è morto?»
«Sì, certo. Oh, scusa, tu magari non lo sai. È successo poco
prima del mio matrimonio. Sono passati due anni, ormai.»
Aveva gli occhi asciutti ed era molto calmo. «Si è ammalato
poco dopo che tu te ne sei andata.»
Erano passati più di due anni da quando ero partita? Ma come
poteva essere? Era irreale, erano cose che succedevano soltanto
nelle favole. Ero forse stata preda di un incantesimo? Avevo
forse dormito per tutto quel tempo mentre il mondo andava
avanti senza di me? Non riuscivo a parlare.
Jonathan mi strinse la mano, scuotendomi dalla mia trance.
«Non dovremmo trattenerti, devi andare dalla tua famiglia. Però
devi venire a casa mia a cena, presto. Voglio sapere quali
avventure ti hanno impedito di tornare da noi. Fino a ora,
intendo.»
Mi riscossi dal mio stupore. «Sì, certo.» La mia mente era
altrove: se tutti quei cambiamenti si erano abbattuti sulla
famiglia di Jonathan, che cos’era successo alla mia? Quali
disgrazie l’avevano colpita? A giudicare da quello che aveva
detto Jonathan, era passato tutto quel tempo da quando avevo
lasciato il villaggio, ma questo non aveva senso. Il tempo si
muoveva più velocemente qui? O era più lento a Boston, nel
vortice delle feste notturne e nel languore della camera da letto
di Adair?
Chiesi al cocchiere di fermarsi in cima alla strada che portava
a casa dei miei genitori. Il cottage era cambiato, impossibile
negarlo. Già era modesto in partenza, ora era quasi in rovina.
Mio padre l’aveva costruito con le sue mani, come gli altri primi
coloni (l’unica eccezione era il capitano, che si era portato dietro
dei muratori da Camden per farsi costruire la sua villa). Mio
padre aveva costruito una casa a una sola stanza, fatta di legno,
con l’intenzione di allargarla in seguito. E l’aveva fatto: un
recesso dietro la stanza principale era la camera da letto di
Nevin; per noi ragazze era stato approntato un soppalco, dove
per molti anni avevamo dormito l’una accanto all’altra, come
bambole su una mensola.
La casa sembrava accasciata, come un buon cavallo che
invecchia. La malta fra le travi si era scrostata, lasciando delle
fessure. Al tetto mancavano diverse tegole. I detriti si erano
accumulati sullo stretto portico e i mattoni del forno erano
sconnessi. Vidi chiazze rosse tra gli alberi dietro la casa, il che
voleva dire che c’era ancora bestiame al pascolo. La mia
famiglia era riuscita a tenere almeno una parte del bestiame, ma
a giudicare dalle condizioni della casa, era successo qualcosa di
grave che aveva portato a una drastica riduzione dei loro
guadagni. Erano evidentemente sulla soglia della povertà.
Osservai la casa. La mia famiglia era tornata dalla chiesa – il
carro era vuoto accanto al granaio e vedevo il vecchio baio
castrato che pascolava nel recinto – ma non c’erano segni di
attività, soltanto un sottile pennacchio di fumo che usciva dal
camino. Un misero fuocherello in un giorno così freddo. Lanciai
uno sguardo alla pila di legname. Sembrava abbandonata. I
ciocchi di legno erano di sole tre file e l’inverno stava per
arrivare.
Dopo un po’, chiesi al cocchiere di arrivare fin sulla soglia.
Attesi invano di vedere qualche segno di vita, allora mi armai di
tutto il mio coraggio, scesi dalla carrozza e mi avvicinai alla
porta.
Bussai e fu Maeve ad aprire. Spalancò la nocca per la
sorpresa e mi squadrò da capo a piedi, poi lanciò un urlo e mi
gettò le braccia al collo. Danzammo abbracciate sulla soglia e
poi, sempre danzando, entrammo in casa. Le sue grida di gioia
mi assordarono.
«Signore nostro, sei viva! Cara Lanore, credevamo che non ti
avremmo più rivista!» Maeve si asciugò le lacrime di gioia dalle
guance con un lembo del grembiule. «Quando non abbiamo più
avuto notizie di te... Le suore hanno scritto alla mamma e al papà
per dire che probabilmente eri... ti eri persa.» Maeve sbatté più
volte le palpebre.
«Persa?»
«Morta. Uccisa.» Maeve mi guardò e aveva gli occhi asciutti.
«Ci hanno detto che succedeva di continuo a Boston. Dei
forestieri arrivano in città e i briganti li rapiscono, li derubano e
li uccidono.» Il suo sguardo era rapito. «Ma se non ti eri... persa,
se eri viva, che cosa è successo? Dove sei stata? Sono passati
quasi tre anni!»
Quasi tre anni. Ancora una volta, tutto quel tempo svanito nel
nulla mi sconvolse. Al di fuori del tempo che avevo trascorso
insieme a Adair, il resto del mondo era stato come un treno che
rispetta i suoi orari, di certo non aveva rallentato per attendermi.
Fui salvata dal dover dare una spiegazione così su due piedi
quando mia madre salì dalla cantina, il grembiule teso per tenere
qualche patata. Lasciò cadere tutto quando mi vide,
impallidendo come un lenzuolo.
«Non può essere!»
Il mio cuore si fermò. «È così, madre. Sono tua figlia.»
«Sei tornata dal regno dei morti!»
«Non sono un fantasma» dissi, serrando le mascelle,
cercando di trattenere le lacrime mentre la abbracciavo,
avvertendo tutta la diffidenza nella tensione dei suoi muscoli
vecchi e sottili sciogliersi lentamente. Mi abbracciò con tutta la
forza che le rimaneva, che era molta meno di quanto ricordavo.
Mentre parlavamo, anche lei pianse e si asciugò le lacrime
dagli occhi. Alzò lo sguardo su mia sorella e le disse: «Vai a
chiamare Nevin».
Ebbi una stretta allo stomaco. «Devi proprio? Così presto?»
Mia madre annuì. «Sì, dobbiamo. Adesso è lui l’uomo di
casa. Mi dispiace dovertelo dire, ma tuo padre è morto, Lanore.»
È impossibile prevedere le proprie reazioni di fronte a notizie
come quella. Per quanto fossi stata furiosa con mio padre e per
quanto avessi iniziato a sospettare che fosse successo qualcosa
di terribile, l’annuncio di mia madre mi tolse il fiato. Caddi su
una sedia. Mia madre e mia sorella si strinsero la mano.
«È successo un anno fa» disse mia madre con compostezza.
«È stato uno dei tori. Un calcio alla testa. È stato tutto così
improvviso che non ha sofferto.»
Loro, invece, avevano sofferto ogni giorno da quando era
accaduto. Era evidente dai loro volti segnati, dai vestiti
malandati, dalle condizioni della casa. Mia madre colse il mio
sguardo sperduto con discrezione.
«È stato un duro colpo per Nevin. Si è fatto carico di mandare
avanti la fattoria e tu sai bene che è un lavoro durissimo per un
uomo solo.» La bocca un tempo gentile di mia madre si era
indurita in un’espressione grave. Era una reazione a quelle
circostanze difficili.
«Ma perché non avete preso qualcuno che vi aiutasse,
qualche ragazzo delle altre fattorie? Oppure potevate affittare il
terreno. Sono certa che c’è qualcuno al villaggio che vuole
espandere la sua proprietà» dissi.
«Tuo fratello non ne vuole sentir nemmeno parlare, perciò
vedi di non toccare l’argomento con lui. Sai quant’è orgoglioso»
rispose, voltandosi così che non potessi vedere l’amarezza sul
suo volto. L’orgoglio di Nevin era stato la loro disgrazia.
Dovevo cambiare argomento. «Dov’è Glynnis?»
Maeve arrossì. «Adesso lavora dai Watford. Oggi sta
riempiendo gli scaffali.»
«Di domenica?» Inarcai un sopracciglio.
«Lavora per ripagare i nostri debiti, a dire la verità» spiegò
mia madre, e la sua confessione terminò in un sospiro di
irritazione mentre puliva le patate.
Il denaro che mi aveva dato Adair mi pesava nella borsa. Non
c’erano dubbi: avrei dato a loro quei soldi e mi sarei preoccupata
solo dopo delle conseguenze.
La porta si aprì e Nevin entrò nella penombra della casa, una
massiccia sagoma in ombra contro il cielo annuvolato. Ci volle
qualche secondo prima che i miei occhi si abituassero e riuscissi
a vederlo bene. Era dimagrito ed era diventato asciutto e
muscoloso. Si era tagliato i capelli così corti che sembrava si
fosse rasato, e il suo volto era sporco e pieno di cicatrici, così
come le sue mani. Aveva lo stesso sguardo di disprezzo per me
che aveva il giorno in cui ero partita, un disprezzo alimentato dal
suo vittimismo e dalle disgrazie che si erano abbattute su di loro
in mia assenza.
Quando mi vide, emise una specie di grugnito e passò oltre.
Raggiunse il catino con l’acqua per lavarsi e vi immerse le mani.
Mi alzai in piedi. «Ciao, Nevin.»
Lui grugnì ancora e si asciugò le mani con uno straccio prima
di togliersi il cappotto malandato. Puzzava di bestiame, sterco e
sudore.
«Vorrei parlare con Lanore da solo» disse. Mia madre e mia
sorella si scambiarono uno sguardo, poi iniziarono a muoversi
verso la porta.
«No, aspettate» le richiamai. «Usciamo io e Nevin. Voi
rimanete qui, che c’è caldo.»
Mia madre scosse il capo. «No, ci sono cose che dobbiamo
fare prima di cena. Voi parlate pure.» Spinse mia sorella davanti
a lei.
La verità era che avevo paura a rimanere da sola con Nevin. Il
suo disprezzo nei miei confronti era come una parete di roccia
liscia e impervia. Non mi diede neanche un appiglio. Avrei fatto
meglio ad andarmene, sembrava dirmi il suo sguardo di sfida,
piuttosto che cercare la sua compassione o la sua comprensione.
«Quindi sei tornata» disse, inarcando un sopracciglio. «Ma
non rimarrai.»
«No.» Non aveva senso mentirgli. «La mia casa è a Boston,
ora.»
Mi guardò con fare altezzoso. «Posso ben immaginare come
ti mantieni, visto come sei vestita. Credi davvero che io o tua
madre vogliamo sapere il modo vergognoso in cui ti sei ridotta?
Perché sei tornata?» Era la domanda che più temevo.
«Volevo rivedervi tutti» dissi, in tono implorante. «Volevo
farvi sapere che non ero morta.»
«Potevi darci questa notizia anche con una lettera. È passato
tanto tempo e tu non ci hai mai fatto sapere niente.»
«Non posso che scusarmi per questo.»
«Sei stata in prigione? È per questo che non ci hai scritto?»
mi chiese, con voce piena di sarcasmo.
«Non ho scritto perché non ero sicura che avreste ricevuto
volentieri mie notizie.» E cosa avrei mai potuto scrivere,
comunque? Ero convinta che sarebbe stato meglio non far
sapere più niente di me, meglio per loro, anche Alejandro mi
aveva consigliato in tal senso. È una convinzione, o un’illusione,
tipica dei giovani quella di credere di poter cancellare il proprio
passato, senza che quel passato prima o poi venga a cercarli.
Lui capì che era soltanto una scusa e sbuffò. «Non hai mai
pensato all’effetto che il tuo silenzio poteva avere su nostra
madre e nostro padre? Hai quasi ucciso la mamma. Ed è per
questo che nostro padre è morto.»
«Ma la mamma ha detto che è stato un toro...»
«È così che è morto, certo. Con il cranio aperto in due da un
toro, il sangue che colava nel fango e niente che potessimo fare
per fermarlo. Ma hai mai visto nostro padre abbassare la guardia
col bestiame? No. È successo perché era morto dentro. Dopo
aver ricevuto la lettera dalle suore, non è più stato lo stesso. Si
dava la colpa per averti mandata via. E pensare che sarebbe
ancora con noi se tu gli avessi fatto sapere che eri viva!» Picchiò
un pugno sul tavolo.
«Ti ho già detto che mi dispiace. C’erano circostanze ben
precise che mi hanno impedito di...»
«Non voglio ascoltare le tue scuse. Hai detto che non sei stata
in prigione. Torni con l’aspetto della puttana più ricca di Boston.
Certo, riesco bene a immaginare quanto siano stati difficili per te
gli ultimi tre anni. Basta, non voglio sentire altro.» Si allontanò
da me, carezzandosi le nocche insanguinate. «Ho dimenticato di
chiederti: dov’è il bambino? L’hai lasciato a casa col tuo
protettore?»
Le mie guance arrossirono come braci. «Sarai felice di sapere
che il bambino è morto prima di nascere. Un aborto.»
«Ah. La volontà di Dio, si dice così, no? La giusta punizione
per la tua perversione, per esserti concessa a quel demonio di St.
Andrew nella sua bella casa.» Nevin mi guardò in cagnesco,
felice della notizia, felice di poter sputare sentenze. «Non ho mai
capito come mai una ragazza intelligente come te fosse tanto
accecata da quel bastardo di St. Andrew. Perché non mi hai mai
dato ascolto? Io sono un uomo, proprio come lui, so come
ragiona un uomo...» Lasciò cadere il discorso, esasperato. Avrei
voluto togliergli quel sorrisetto soddisfatto dalla bocca, ma non
potevo. Forse aveva ragione lui. Forse riusciva davvero a vedere
dentro Jonathan e a capirlo meglio di me, e in tutti quegli anni
aveva cercato di impedirmi di cadere in tentazione. Il mio
fallimento era anche il suo.
Si pulì nuovamente le nocche. «Allora, quanto pensi di
rimanere?»
«Non lo so. Qualche settimana.»
«Nostra madre sa che non sei tornata per sempre? Che ci
abbandonerai un’altra volta?» mi chiese Nevin aspro, ma con
una nota di compiacimento nella voce, perché sapeva che avrei
spezzato il cuore a mia madre un’altra volta.
Scossi il capo.
«Non puoi rimanere tanto» mi ammonì, «altrimenti la neve ti
bloccherà qui fino a primavera.»
Quanto tempo mi ci sarebbe voluto per convincere Jonathan a
venire a Boston con me? Avrei potuto sopportare un intero
inverno imprigionata a St. Andrew? Mi dava la claustrofobia
soltanto il pensiero dei lunghi giorni bui dell’inverno, costretta
dalla neve a stare rinchiusa in casa con mio fratello.
Nevin infilò il pugno insanguinato nel catino, lavando la
ferita che si era procurato da solo. «Puoi stare qui con noi finché
sarai qui in visita. Se fosse per me ti sbatterei fuori, ma non
voglio dare ai nostri vicini niente su cui spettegolare. Però devi
comportarti bene per tutto il tempo, altrimenti ti caccio.»
«È chiaro.» Mi passai nervosamente una mano sulla gonna di
seta.
«E non portare qui quel bastardo di St. Andrew. Ti ordinerei
di non vederlo finché starai sotto il mio tetto, ma so che lo
vedresti comunque e mi mentiresti.»
Aveva ragione, naturalmente. Per il momento, però, finsi di
essere contrita. «Tutto quello che vuoi, fratello mio. Grazie.»
34
Quella prima notte a casa fu difficile. Da un lato, non avrei
potuto chiedere una cena più festosa. Quando Glynnis tornò a
casa dal lavoro presso i Watford, ci fu un altro ricongiungimento
che rallegrò tutti i nostri cuori (a parte quello di Nevin, che non
mi avrebbe mai perdonato). Mentre i biscotti cuocevano, tirai
fuori i regali per loro dal baule, porgendoli come se fossi Babbo
Natale. Maeve e Glynnis danzarono tutt’attorno al tavolo con la
seta cinese avvolta al petto, immaginandosi i vestiti eleganti che
ne avrebbero ricavato, mentre mia madre quasi pianse di gioia
quando vide lo scialle. La loro contentezza rese ancora più
arrabbiato Nevin; grazie al cielo non avevo portato niente per lui
(sapendo che probabilmente lo avrebbe gettato nel fuoco),
altrimenti mi avrebbe preso per le orecchie e mi avrebbe
scaraventata fuori di casa su due piedi.
Rimanemmo seduti attorno al tavolo dopo aver mangiato e le
candele si consumarono, mentre mia madre e le mie sorelle mi
raccontavano tutto quello che era successo al villaggio durante
la mia assenza: raccolti andati male, malattie, un paio di nuovi
arrivi. E, naturalmente, nascite, morti e matrimoni. Si
soffermarono a lungo sul matrimonio di Jonathan, immaginando
che io volessi sapere ogni dettaglio: il cibo delizioso che
avevano servito agli ospiti (non potevano sapere che avevo
mangiato e bevuto cose più esotiche di quanto potessero mai
immaginare); i soci d’affari dei St. Andrew che avevano
affrontato il duro viaggio tra fiumi e foreste pur di partecipare
all’evento.
«È così triste che il capitano non sia riuscito a vivere
abbastanza per vederlo» disse mia madre.
E la bambina! Da come ne parlavano mia madre e le mie
sorelle, sembrava che fosse stata partorita collettivamente da
tutto il villaggio. Tutti – a parte Nevin – parevano avere un
interesse speciale per quella neonata.
«Come l’ha chiamata Jonathan?» domandai, spalmando
l’ultima crosta di pane con un rimasuglio di lardo.
«Ruth, come sua madre» rispose Glynnis inarcando le
sopracciglia.
«È un bel nome cristiano» precisò mia madre. «Sono sicura
che volessero un nome tratto dalla Bibbia.»
Alzai l’indice in segno di disaccordo. «Non Jonathan, e
nemmeno Evangeline, non credo proprio. È stata tutta opera
della madre di Jonathan, potrei giurarlo.»
«Forse l’idea di avere un figlio il prima possibile... Forse
anche quella è stata un’idea della signora St. Andrew.» Maeve
trattenne il fiato per un momento, guardando sua sorella in cerca
di appoggio, poi proseguì: «È stato un parto molto difficile,
Lanore. Evangeline stava quasi per morire. È così minuta...»
«E così giovane...»
Tutti annuirono. «Così giovane, sì» sospirò Maeve. «Ho
sentito dire che la levatrice le aveva detto di aspettare un po’
prima di avere dei bambini.»
«È vero» aggiunse Glynnis.
«Adesso basta!» Nevin conficcò il coltello nel tavolo,
facendoci sussultare. «Possibile che un uomo non possa
mangiare in pace senza dover ascoltare pettegolezzi sul
bellimbusto del villaggio?»
«Nevin...» cercò di intervenire mia madre, ma lui la
interruppe.
«Non voglio più sentire nemmeno una parola sull’argomento,
chiaro? È tutta colpa sua, è lui che ha voluto sposarla così
giovane. È uno scandalo, ma da uno come lui non ci si poteva
aspettare altro» ringhiò Nevin. Per un brevissimo momento, fui
tentata di pensare che avesse rimproverato mia madre e le mie
sorelle per risparmiarmi ulteriori discorsi sulla bambina,
temendo che potessero ferirmi. Si allontanò bruscamente da
tavola e si andò a sedere sulla seggiola accanto al fuoco, quella
dove si metteva sempre nostro padre dopo cena. Fu strano
vederlo lì, con la pipa di mio padre in bocca.
A giudicare dalla posizione della luna in cielo, era quasi
mezzanotte quando scesi dal soppalco. Non riuscivo a dormire.
Le braci nel camino mandavano riflessi tremuli sulle pareti. Ero
irrequieta, non riuscivo a rimanere chiusa nel cottage. Avevo
bisogno di compagnia. Di solito, a quell’ora, mi preparavo a
trascorrere la notte nel letto di Adair, e scoprii, seduta sul
divanetto, di avere bisogno – anzi, di essere affamata – di
conforto fisico. Mi vestii e scivolai fuori più silenziosamente
che potevo. Il mio cocchiere dormiva nel granaio, al calduccio
sotto una montagna di coperte e riscaldato da una decina di
mucche accalcate attorno a lui sotto lo stesso tetto. Non mi
andava di sellare il baio castrato della mia famiglia, risvegliando
il povero vecchio animale dal suo meritato riposo, così mi
incamminai a piedi verso l’unica meta che mi venne in mente: il
villaggio. Per chiunque altro, anche un viaggio così breve
sarebbe stato un suicidio. La temperatura era largamente sotto lo
zero e il vento soffiava gelido, ma il clima non aveva più alcun
effetto su di me e potevo camminare velocemente senza
nemmeno affaticarmi. In pochissimo tempo raggiunsi le prime
abitazioni.
Ma dove andare? St. Andrew non era certo una grande città.
Poche luci erano accese dietro le finestre dei cottage. Il villaggio
dormiva, ma la locanda di Daniel Daughtery era ancora aperta e
l’unica finestra di cui disponeva era illuminata. Indugiai davanti
alla porta, chiedendomi se fosse opportuno farmi vedere a
quell’ora. Poche donne frequentavano quel posto, e nessuna
sarebbe mai entrata da sola. Avrei dato adito a voci che presto
sarebbero giunte all’orecchio di Nevin, alimentando la sua
convinzione che io fossi una poco di buono. Tuttavia la presenza
di quei corpi caldi al suo interno, il mormorio delle voci, le risate
occasionali erano un forte richiamo per me. Mi tolsi il fango
dalle scarpe ed entrai.
C’erano soltanto pochi clienti, e per fortuna, visto lo spazio
ristretto. Un paio di taglialegna alle dipendenze di Jonathan e
Tobey Ostergaard, il povero e rozzo padre di Sophia. Sembrava
un cadavere a sua volta, la sua pelle era grigia e il suo sguardo
vacuo era perso sulla parete posteriore.
Si voltarono tutti verso di me quando entrai, e Daughtery mi
rivolse uno sguardo particolarmente lascivo.
«Una birra» ordinai, tanto per prendere qualcosa: c’era
soltanto quella sul menu.
La locanda un tempo era parte della casa di Daughtery,
ricavata (nonostante le proteste di sua moglie) per farci stare un
bancone, un piccolo tavolo e qualche sgabello costruito
mettendo insieme del legname di scarto, tutti quanti, nessuno
escluso, con una gamba più corta delle altre due. Per la maggior
parte, i clienti non si fermavano lì a bere: prendevano una botte
di birra da portarsi a casa mentre mangiavano, perché fare la
birra era molto difficile e secondo tutti quanti quella di
Daughtery era la migliore del villaggio.
«Avevo sentito dire che eri tornata» disse Daughtery
prendendo i miei soldi. «A quanto pare, Boston ti ha trattata
bene.» Esaminò i miei vestiti da capo a piedi, senza imbarazzo.
«Come ha fatto una contadinotta come te a comprarsi vestiti del
genere?»
Come mio fratello, e probabilmente come tutti gli altri,
Daughtery era convinto di sapere che cosa avessi fatto per
diventare ricca. Ma nessuno aveva il coraggio di dirmelo
apertamente in faccia e le insinuazioni di Daughtery mi fecero
infuriare. Ma cosa potevo farci, date le circostanze? Gli rivolsi
un sorriso enigmatico avvicinando il boccale alle labbra. «Ho
fatto quello che infinite altre donne hanno fatto per migliorare la
loro situazione: mi sono accompagnata a gente ricca, signor
Daughtery.»
Uno dei taglialegna se ne andò poco dopo il mio arrivo, ma
l’altro mi chiese di andare al tavolo con lui. Aveva sentito
Daughtery nominare Boston e non vedeva l’ora di parlare con
qualcuno che c’era stato di recente. Era giovane, sui vent’anni,
di indole buona e di aspetto pulito, diversamente dalla maggior
parte dei manovali di St. Andrew. Mi disse di provenire da una
famiglia umile che viveva poco fuori Boston. La paga era buona
ma la solitudine e l’isolamento lo stavano uccidendo lentamente.
Gli mancavano la varietà della città, mi raccontò, e i suoi
intrattenimenti. Gli vennero le lacrime agli occhi quando gli
descrissi i giardini pubblici nei sabati di sole e la superficie nera
e lucente del fiume Charles nelle notti di luna piena.
«Speravo di riuscire a tornare prima della brutta stagione»
disse, lo sguardo basso sul boccale. «Ma ho sentito che i St.
Andrew hanno bisogno di qualcuno che rimanga qui a lavorare
durante l’inverno e che la paga è molto buona. Quelli che hanno
già fatto un inverno qua, però, mi dicono che è ancora più
solitario.»
«Credo sia una questione di prospettiva» dissi.
Daughtery sbatté un boccale sul bancone di acero, facendoci
sussultare entrambi. «Su, finite. È ora di andare ciascuno nel
proprio letto.»
Ci ritrovammo fuori dalla porta chiusa della locanda,
rannicchiati l’uno contro l’altra per ripararci dal vento. Lo
sconosciuto avvicinò la bocca al mio orecchio, tanto che il
calore del suo fiato mi fece drizzare i capelli sulla nuca, come
fiori che si orientano verso il sole. Mi confidò che era da tanto
tempo che non stava con una donna. Mi disse anche di avere
pochi soldi, ma mi chiese se sarei stata comunque disponibile.
«Spero di non aver sbagliato a immaginare la tua professione»
aggiunse con un sorriso teso. «Ma quando ti ho visto entrare da
Daughtery tutta sola...» Non potevo dargli torto.
Ci intrufolammo nel granaio dei Daughtery: gli animali erano
talmente abituati ai clienti del bar che non fecero una mossa. Il
giovane taglialegna si aprì i vestiti, si sbottonò le brache e mi
mise il suo pene in mano. Si sciolse, letteralmente, al mio tocco
e ben presto si perse in una fitta nuvola di piacere. Dovevano
essere stati il ritorno a St. Andrew e l’incontro con Jonathan a
rendere il mio corpo pieno di desiderio. Erano le mani di un
taglialegna ad accarezzarmi, ma era a Jonathan che pensavo. Fu
un rischio, concedermi di pensare così a Jonathan, ma quella
notte, la combinazione di carne e ricordi mi diede un assaggio di
ciò che avrebbe potuto essere e mi fece desiderare di avere di
più, ancora di più. Perciò attirai il ragazzo a me e posai un piede
su una balla di fieno, per offrirgli un migliore accesso alla mia
sottogonna.
Il giovane taglialegna mi prese, con i suoi muscoli sodi e il
tocco gentile, e io cercai di immaginare che si trattasse di
Jonathan. Ma non riuscii a mantenere a lungo quell’illusione.
Forse Adair aveva ragione, avrei potuto guadagnarci anch’io se
avessi reso Jonathan uguale a noi. Una fame insaziabile mi
assalì e capii che avrei dovuto provarci, o sarei rimasta
insoddisfatta per il resto della mia vita. Cioè, nel mio caso, per
l’eternità.
Il taglialegna tremò e sospirò quando venne, poi prese un
fazzoletto dalla tasca e me lo porse. «Perdonami la volgarità» mi
sussurrò accalorato all’orecchio, «ma è stata la miglior scopata
della mia vita. Devi essere la prostituta più brava di tutta
Boston!»
«Cortigiana» lo corressi gentilmente.
«E non posso certo fingere di poterti ricompensare come è tua
abitudine...» disse, frugando in un borsellino per prendere i
soldi, ma io gli poggiai una mano sul braccio e lo fermai.
«Non importa. Tieniti i tuoi soldi. Mi basta che tu prometta di
non parlarne a nessuno» dissi.
«Oh, no, certo che no. Anche se me ne ricorderò per il resto
della mia vita!»
«Anch’io» dissi, anche se il suo volto da ragazzino sarebbe
stato soltanto uno dei molti. O forse l’ultimo, perché sarebbe
stato rimpiazzato da quello di Jonathan, soltanto Jonathan, se
avessi avuto fortuna. Osservai il giovane taglialegna barcollare
all’aperto e incamminarsi verso la strada che conduceva alla
tenuta dei St. Andrew. Poi mi avvolsi stretta nel cappotto e mi
mossi nella direzione opposta. Il suo liquido caldo mi scivolò
lungo le cosce e io avvertii una sensazione familiare e piacevole
al petto, la soddisfazione che provavo ogni volta che riuscivo a
dominare un uomo, a renderlo inerme tramite il piacere del
sesso. Non vedevo l’ora di provare quella sensazione con
Jonathan, di sorprenderlo con le abilità che avevo acquisito.
La strada mi condusse alla bottega del fabbro e, per forza
d’abitudine, guardai lungo il sentiero che conduceva al cottage
di Magda. C’era una fievole luce dietro lo scialle che
solitamente appendeva alla finestra, così capii che era sveglia.
Com’era strana la vita: un tempo le avevo invidiato il suo
cottage, ma forse glielo invidiavo ancora, perché avvertii un
piccolo mancamento al cuore quando lo vidi, ricordandomi i
modesti lussi che mi avevano tanto colpito quando ero piccola.
La casa di Adair era lussuosa, certo, ma una volta entrati si
rinunciava per sempre alla propria libertà. Magda era padrona in
casa propria e nessuno poteva toglierle quella libertà.
Mentre ero all’inizio del sentiero, la porta d’ingresso si aprì e
ne uscì un taglialegna (grazie al cielo, perché mi avrebbe
mortificato vedere uno dei miei vicini fare i suoi comodi con
Magda). La vecchia ragazza in questione lo seguì fuori e per un
momento furono entrambi illuminati dalla luce che proveniva
dalla porta aperta. Ridevano e Magda si avvolse un mantello
sulle spalle mentre accompagnava il suo cliente giù dai gradini e
lo salutava con un cenno della mano. Io mi spostai nell’ombra
per risparmiare al taglialegna l’imbarazzo di essere visto, ma
Magda fece in tempo a notarmi.
«Chi c’è là?» disse ad alta voce. «Non vogliamo guai qui!»
Uscii dall’ombra. «Nessun guaio, signorina Magda.»
«Lanore? Sei davvero tu?» Allungò il collo. Io sfilai accanto
al taglialegna che lentamente si allontanava, salii le scale e
abbracciai Magda. Le sue braccia sembravano più fragili che
mai.
«Santo cielo, ragazza, mi avevano detto che ti avevamo persa
per sempre» disse conducendomi all’interno. Faceva caldo, per
via del fuoco acceso nel piccolo camino e dei due corpi che
avevano appena finito di muoversi là dentro (l’odore muschiato
si avvertiva ancora nell’aria; quei taglialegna non prestavano
molta attenzione all’igiene personale), perciò mi tolsi il
mantello. Magda mi prese per le spalle e mi fece voltare e
rivoltare, ammirando il mio bel vestito.
«Be’, signorina McIlvrae, a quanto pare te la sei cavata più
che bene.»
«Non posso certo dire di esserne orgogliosa» dissi.
Magda mi rimproverò con lo sguardo. «Devo pensare dunque
che hai fatto fortuna nel solito modo delle ragazze come noi?»
Quando non risposi, si levò di scatto il mantello. «Be’, conosci
la mia opinione sull’argomento. Non è certo un crimine
intraprendere l’unica strada possibile e avere successo. Se Dio
non avesse voluto che ci guadagnassimo da vivere facendo le
puttane, ci avrebbe dato altri mezzi per mantenerci. Ma non l’ha
fatto.»
«Non sono esattamente una prostituta» precisai, senza sapere
perché ne avvertissi il bisogno. «C’è un uomo che mi mantiene
e...»
«Siete sposati?»
Scossi il capo.
«Allora sei la sua amante.» Il suo non era un giudizio, ma una
constatazione, come se mi stesse informando sulla posizione che
occupavo. Versò del gin in due bicchierini, appannati dall’età e
dall’uso, e io le raccontai della mia vita a Boston e di Adair. Fu
un sollievo poter finalmente parlare a qualcuno di lui, in una
versione edulcorata, naturalmente, omettendo le parti di lui che
avrei voluto cambiare: i suoi attacchi di rabbia e di violenza, i
suoi repentini cambiamenti di umore, gli uomini che di tanto in
tanto si portava a letto. Le dissi che era ricco, bello e innamorato
di me. «Buon per te, Lanore. Ma assicurati di mettere da parte un
po’ del suo denaro.»
Alla luce della candela, vidi più chiaramente il volto di
Magda. Gli anni in cui ero stata via avevano lasciato il segno su
di lei. La sua pelle così delicata aveva iniziato a formare delle
pieghe attorno alla bocca e sulla gola, e i suoi capelli neri ora
avevano striature di bianco ben evidenti. I suoi corpetti un
tempo sontuosi ora erano sfilacciati e grigi. Anche se era l’unica
prostituta del villaggio, non sarebbe stata in grado di continuare
quel lavoro per molto tempo ancora. I taglialegna più giovani
avrebbero presto smesso di frequentarla e i più maturi, che
sarebbero ancora andati da lei per ottenere i suoi servigi,
probabilmente avrebbero iniziato a trattarla in modo sempre più
rude. Presto sarebbe diventata una vecchia senza amici in un
villaggio in cui la vita era dura e aspra.
Avevo appuntato al mio corpetto una minuscola spilla con
una perla, un regalo di Adair. La mia famiglia non sapeva niente
di gioielli, così l’avevo indossata ostentatamente in loro
presenza, ma Magda sapeva di certo che valeva una piccola
fortuna. All’inizio avevo pensato di darla alla mia famiglia,
avevano più diritto loro di averla che non quella donna, benché
fosse la mia unica amica. Ma poi avevo deciso di lasciar loro dei
soldi, e non erano pochi. Perciò, sganciai la spilla dal mio vestito
e gliela porsi.
Magda inclinò la testa. «Oh, no, Lanore, non devi farlo. Non
ho bisogno dei tuoi soldi.»
«Vorrei che l’avessi tu e...»
Lei allontanò la mia mano tesa. «So che cosa stai pensando.
Ma ho intenzione di ritirarmi presto. Ho messo da parte un bel
po’ di denaro durante la mia permanenza qui. Il vecchio Charles
St. Andrew avrebbe dovuto mandare direttamente a me le paghe
dei suoi uomini, visto tutto il tempo che hanno passato in questo
cottage, risparmiando loro la fatica di portarsi i soldi in tasca per
un giorno o due al massimo» disse, ridendo. «No, preferisco che
la tenga tu. Puoi non credermi, adesso, perché sei ancora
giovane e bella e hai un uomo che apprezza la tua compagnia,
ma un giorno tutto ciò finirà e potresti aver bisogno del denaro
che quella spilla vale.»
Naturalmente non potevo dirle che quel giorno non sarebbe
mai arrivato per me. Feci un sorrisetto forzato e mi riappuntai la
spilla sul vestito.
«Ho intenzione di trasferirmi a sud questa primavera. Da
qualche parte vicino alla costa» proseguì. Si guardò intorno,
come se stesse decidendo in quel momento che cosa portarsi
dietro e che cosa, invece, lasciare lì. «Forse troverò un vedovo
gentile e solitario e mi sistemerò.»
«Sono sicura che la sorte ti arriderà, Magda, qualsiasi cosa tu
decida di fare, perché hai un cuore generoso» dissi e mi alzai in
piedi. «Adesso è meglio che ti lasci riposare, e poi devo tornare
dalla mia famiglia. È stato bello rivederti, Magda.»
Ci abbracciammo ancora e lei strofinò con calore la mano
sulla mia schiena. «Prenditi cura di te, Lanore. E stai attenta.
Soprattutto, non innamorarti di quell’uomo. Noi donne
prendiamo sempre le decisioni sbagliate quando siamo
innamorate.» Mi scortò alla porta e mi fece uscire, salutandomi
con la mano. C’era del vero, nel suo consiglio, una verità che mi
strinse il cuore, e mi avviai verso il bosco molto meno sicura di
prima.
Il cammino verso casa mi rese ancora più agitata di quanto lo
fossi prima di uscire e, pensandoci, capii che era perché avevo
mentito a Magda su Adair. Non era soltanto il fatto che le avevo
nascosto il suo segreto, anzi, il nostro segreto. Su quello non
avevo scelta. E se c’era qualcuno a St. Andrew che avrebbe
perdonato le perversioni di Adair, era proprio Magda. Eppure
avevo scelto di mentirle su di lui e sulla mia relazione con lui.
Più di ogni altra cosa, una donna vuole essere orgogliosa
dell’uomo della sua vita, e ovviamente io non lo ero. Come
potevo essere orgogliosa di ciò che Adair aveva suscitato in me
– ciò che aveva capito immediatamente non appena aveva
posato il suo sguardo su di me – e cioè che anche in me
albergavano i suoi stessi oscuri desideri? Per quanto fossi
terrorizzata da lui, non potevo negare di esserne attratta. Avevo
accolto ogni sfida sessuale che mi aveva lanciato. Aveva
risvegliato qualcosa in me che non potevo più negare, ma di cui
non ero certo fiera. Forse non era di Adair che mi vergognavo.
Forse mi vergognavo di me stessa.
Quei pensieri funesti mi occuparono la mente per tutto il
cammino, mentre mi stringevo addosso il mantello per ripararmi
dal vento e correvo sul sentiero che conduceva alla casa della
mia famiglia. Non riuscivo a smettere di ripensare alle cose
terribili che avevo fatto, e al piacere che avevo provato nel farle.
Non c’è da meravigliarsi che mi fossi ridotta a domandarmi se
ormai non fossi oltre ogni possibilità di redenzione.
35
Quando mi svegliai il giorno dopo, sentii mia madre e Maeve
parlottare in cucina a bassa voce per non svegliarmi. Ai loro
occhi, probabilmente, apparivo come una perdigiorno
fannullona, nascosta sotto strati di coperte, una che spreca il
momento più produttivo della giornata dormendo fino all’ora di
pranzo, anche se a dire il vero non mi alzavo così presto da un
sacco di tempo.
«Guarda un po’ chi si è appena svegliata» disse mia madre
dal camino quando mi sentì sbadigliare da lassù.
«Immagino che Nevin si sia lamentato» risposi scendendo
dalla scala.
«Siamo a malapena riuscite a impedirgli di prenderti per i
piedi e trascinarti giù» disse Maeve, porgendomi i vestiti, che
avevano steso vicino al fuoco per riscaldarli.
«Sì, be’, non riuscivo a dormire stanotte, così ho fatto due
passi fino al villaggio» confessai.
«Lanore!» esclamò mia madre, quasi lasciando cadere il
coltello. «Ma sei diventata pazza? Potevi morire congelata! Se
non peggio» disse, scambiando uno sguardo d’intesa con mia
sorella: entrambe sapevano che non avevo più molte virtù da
proteggere. Il suo tono di voce si tranquillizzò.
«Avevo dimenticato quanto fa freddo la notte così a nord»
mentii.
«E dove sei andata?»
«Di certo non in chiesa, scommetto» disse Maeve ridendo.
«No, non in chiesa. Sono andata da Daughtery.»
«Lanore...»
«Volevo solo un po’ di compagnia, tutto qui. Non sono più
abituata a tutto questo silenzio, ad andare a letto così presto. La
mia vita è molto diversa a Boston. Abbiate pazienza con me.»
Strinsi la cintura della gonna attorno alla vita e poi mi avvicinai
a mia madre e la baciai sulla fronte.
«Ma adesso non sei a Boston, figlia mia» mi rimproverò lei.
«Non preoccupartene troppo» disse Maeve. «Non è che
Nevin non si faccia vedere da Daughtery di tanto in tanto. Se gli
uomini possono farlo, non vedo perché tu non possa, almeno una
volta.» E qui lanciò uno sguardo a nostra madre, per vedere se
avrebbe reagito: «Noi ci abitueremo».
Quindi Nevin frequentava la locanda dei Daughtery. Avrei
dovuto stare più attenta. Se avesse scoperto dei miei flirt
notturni, le cose si sarebbero messe male per me.
In quel momento qualcuno ci interruppe bussando alla porta.
Uno dei servitori dei St. Andrew ci consegnò una busta color
avorio con sopra il mio nome. Dentro c’era un biglietto scritto
con la calligrafia meticolosa della madre di Jonathan: era un
invito a cena per me e la mia famiglia quella sera. Il servitore
rimase sull’uscio ad attendere la nostra risposta.
«Che cosa devo rispondere?» chiesi, anche se era abbastanza
facile intuire la loro risposta. Maeve e mia madre si misero a
saltare e ballare come se fossero Cenerentola invitata al gran
ballo del principe.
«E Nevin? Lui rifiuterà di venire» osservai.
«Di certo, e per principio» disse Maeve.
«Vorrei che tuo fratello fosse più portato per gli affari»
borbottò mia madre. «Potrebbe approfittare dell’occasione per
convincere Jonathan ad acquistare più merce da noi. Metà del
villaggio sopravvive grazie a quella famiglia. Chi altri comprerà
la nostra carne? Loro hanno tutti quei taglialegna da sfamare...»
Probabilmente pensava male dei St. Andrew perché sfamavano
la loro forza lavoro con cacciagione della tenuta.
Tornai alla porta e mi rivolsi al servitore. «Vi prego, dite alla
signora St. Andrew che siamo lieti di accettare l’invito e che
saremo in quattro.»
La cena di quella sera fu surreale per me. Ero circondata dalla
mia famiglia e dalla sua. Non era mai accaduto in tutto il tempo
in cui io e Jonathan eravamo amici da piccoli, e sarei stata ben
felice se a cena fossimo stati soltanto noi due a un tavolino
davanti al fuoco nel suo studio. Ma non sarebbe stato
appropriato, visto che Jonathan aveva una moglie e una figlia
ora.
Le sue sorelle erano già diventate delle zitelle precoci e
sembravano dei gufi. Guardavano le mie sorelle, ben più vivaci
di loro, come se fossero delle scimmiette lasciate libere in casa
loro. Il povero Benjamin, un po’ ritardato, era seduto accanto a
sua madre, lo sguardo fisso nel piatto, le labbra strette,
sforzandosi di stare immobile. Di tanto in tanto, sua madre gli
prendeva la mano e gliela accarezzava, il che sembrava avere un
effetto tranquillizzante sul poveretto.
Alla sinistra di Jonathan c’era Evangeline. Pareva una
bambina alla quale era stato accordato il permesso di sedersi al
tavolo dei grandi. Le sue piccole dita rosa sfioravano ogni
posata come se non fosse abituata al servizio completo con cui
era apparecchiata la tavola. E a tratti il suo sguardo si alzava e si
fissava sul volto del marito, come un cagnolino che controlla se
il suo padrone è ancora presente.
Vedere Jonathan circondato da quelle persone, dalla famiglia
che sarebbe sempre dipesa da lui, mi fece sentire dispiaciuta e
stanca.
Dopo la cena – un carré di capriolo e una decina di quaglie
arrosto, così che alla fine rimasero piatti pieni di scheletri:
costole di cervo e piccole ossa d’uccello letteralmente spolpate –
Jonathan guardò i presenti, quasi tutte donne, e mi invitò a
seguirlo nel vecchio studio del padre, che ora era il suo. Quando
sua madre aprì la bocca per protestare, disse: «Non c’è neanche
un uomo qui che possa fumare la pipa con me, e se permettete
vorrei parlare con Lanore da solo. E poi sono sicuro che
altrimenti si annoierebbe a morte». Ruth inarcò le sopracciglia,
mentre le sue sorelle sembrarono offendersi. Forse lui voleva
soltanto che non si sentissero a disagio in mia compagnia; sono
certa che anche loro fossero convinte che mi prostituissi, e
probabilmente Jonathan aveva dovuto superare le loro proteste
per riuscire a invitare me e la mia famiglia.
Una volta chiusa la porta, versò del whisky per entrambi e
riempì due pipe di tabacco, poi ci accomodammo su due sedie
vicino al fuoco. All’inizio, volle sapere come era accaduto che
fossi scomparsa a Boston. Gli raccontai una versione più
dettagliata della storia che avevo raccontato alla mia famiglia:
ero alle dipendenze di un ricco europeo, mi pagava per fargli da
mediatrice con gli americani. Jonathan mi ascoltò con aria
scettica, mi parve, indeciso se mettere in dubbio il mio racconto
oppure semplicemente goderselo.
«Dovresti prendere in considerazione l’idea di venire a
Boston a vivere. La vita lì è più semplice» gli dissi, avvicinando
un fiammifero alla pipa. «Sei un uomo ricco. Se vivessi in una
grande città, potresti godere di tutti i piaceri della vita.»
Scosse il capo. «Non possiamo abbandonare St. Andrew. C’è
il legname da raccogliere, è la nostra sostanza vitale. Chi
manderebbe avanti la falegnameria?»
«Il signor Sweet, come già accade adesso. O un altro
sovrintendente. È così che i ricchi con molti investimenti
gestiscono le loro proprietà. Non c’è motivo per cui tu e la tua
famiglia dobbiate sopportare la rigidità degli inverni in questo
posto.»
Jonathan fissò il camino, fumando la pipa. «Forse pensi che
mia madre abbia il desiderio di ricongiungersi alla sua famiglia,
ma non riusciremmo mai a portarla via da St. Andrew. Non lo
ammetterà mai, ma si è abituata ad avere una certa posizione
sociale, qui. A Boston non sarebbe altro che una delle tante
vedove ricche. Potrebbe perfino risentirne, a livello sociale, per
aver trascorso così tanto tempo ’tra i selvaggi’. E poi, Lanny,
non hai pensato a che cosa succederebbe al villaggio se ce ne
andassimo?»
«La tua impresa andrebbe comunque avanti. Dovresti sempre
pagare gli abitanti di St. Andrew per fare tutto quello per cui già
li paghi. L’unica differenza sarebbe che tu e la tua famiglia
avreste finalmente lo stile di vita che vi meritate. Ci sarebbero
dei dottori per Benjamin. E tu potresti vedere altre persone del
tuo livello, la domenica, o andare alle feste e a giocare a carte
ogni sera, come appartenente all’élite della città.»
Jonathan mi rivolse uno sguardo incredulo, tanto pieno di
dubbi da farmi pensare che quello che aveva detto di sua madre
fosse soltanto una scusa. Forse era lui ad aver paura di lasciare
St. Andrew, di abbandonare l’unico luogo che conosceva, e
diventare un pesce piccolo in uno stagno molto affollato.
Mi sporsi verso di lui. «Non credi di meritartelo, Jonathan?
Hai lavorato con tuo padre per costruire la fortuna della tua
famiglia. Non hai idea di che cosa ti aspetti fuori da questi
boschi, queste foreste impenetrabili come le mura di una
prigione.»
Lui sembrò offeso. «Non è che io non abbia mai lasciato St.
Andrew. Sono stato a Fredericton.»
I St. Andrew avevano dei soci d’affari a Fredericton, come
parte del commercio di legname. I tronchi venivano imbarcati
sul fiume Allagash e portati al fiume St. John, poi lavorati a
Fredericton, tagliati in assi o trasformati in carbonella. Charles
aveva portato il figlio con sé a fare quel viaggio quando
Jonathan era ancora adolescente, ma lui non me ne aveva mai
parlato molto. Ora che ci pensavo, Jonathan non sembrava avere
alcuna curiosità per il mondo al di fuori della nostra piccola
cittadina.
«Fredericton non è certo Boston» lo rimbeccai. «E poi, se
verrai a Boston potrai conoscere il mio datore di lavoro. È un
nobile europeo, praticamente un principe. Ma soprattutto, è un
vero esperto dei piaceri della vita. Un uomo capace di arrivare
dritto al cuore.» Cercai di sorridere maliziosamente. «Ti posso
garantire che lui cambierebbe per sempre la tua vita.»
Lui mi squadrò. «Un ’esperto dei piaceri della vita’, hai
detto? E tu come fai a saperlo, Lanny? Pensavo che fossi la sua
intermediaria o qualcosa del genere.»
«Si può fare da intermediari in parecchi campi.»
«Mi hai incuriosito, lo devo ammettere» disse, eppure il suo
tono di voce era pieno di indulgenza. Una parte di me era
dispiaciuta nel vedere Jonathan così schiacciato dalle
responsabilità da non avere alcuna curiosità verso le tentazioni
che gli offrivo. Ma ero sicura che il vecchio Jonathan fosse
ancora lì dentro, da qualche parte. Non dovevo fare altro che
risvegliarlo.
Io e Jonathan trascorremmo molte altre sere insieme, dopo
quella. Presto mi resi conto che non si era fatto nuovi amici. Non
ne capivo bene il motivo. Sicuramente non scarseggiavano gli
uomini che avrebbero desiderato guadagnare la posizione
sociale e i benefici finanziari che l’amicizia con Jonathan
avrebbe garantito. Ma Jonathan era tutt’altro che stupido. Quelli
erano gli stessi uomini che, da ragazzini, avevano invidiato il
suo bell’aspetto, la sua posizione, la sua ricchezza. Che
covavano un forte risentimento nel vedere i loro padri legati
mani e piedi al capitano per sopravvivere.
«Mi mancherai quando te ne andrai» mi disse Jonathan in una
di quelle sere trascorse chiusi dentro lo studio a fumare tabacco
di prima qualità. «Non credi che potresti rimanere? Non devi per
forza tornare a Boston, non se il problema sono i soldi. Potrei
darti io un lavoro, così potresti anche aiutare la tua famiglia ora
che tuo padre non c’è più.»
Mi chiesi se Jonathan avesse pianificato quella proposta o se
gli fosse venuta spontanea in quel momento. Anche se fosse
riuscito a inventarsi un lavoro da farmi fare, sua madre si
sarebbe fermamente opposta all’idea di avere alle proprie
dipendenze una donna caduta in disgrazia come me. Aveva
ragione su una cosa: era l’occasione di farmi perdonare dalla
mia famiglia, e mi si strinse il cuore all’idea. Ma ero più
terrorizzata all’idea di disobbedire agli ordini di Adair.
«Non posso lasciare la vita della città, non ora che l’ho
sperimentata. Anche tu la penseresti così al mio posto.»
«Ma ti ho già spiegato che...»
«Non devi certo decidere su due piedi. Dopotutto, trasferire
tutta la tua famiglia a Boston non è cosa da poco. Torna con me e
visitala almeno una volta, prima di decidere. Puoi dire alla tua
famiglia che si tratta di un viaggio di lavoro. Così vedrai se la
città incontra i tuoi gusti.» Avevo pulito il cannello della pipa
con un pezzo di fil di ferro – un’abilità appresa grazie al narghilé
di Adair – e picchiettai il fornello contro un vassoietto per
liberarlo dalla cenere. «Potrebbe anche avvantaggiarti negli
affari, tra l’altro. Adair ti porterà con sé, ti presenterà ad altri
uomini, i proprietari delle fabbriche di legname lavorato e cose
del genere. Ti presenterà all’alta società. Non c’è cultura, qui a
St. Andrew! Non hai idea di cosa ti stai perdendo: il teatro, i
concerti. Ma soprattutto» dissi, avvicinando le labbra alle sue
orecchie per garantire il massimo della segretezza, «ciò che sono
sicura che troveresti irresistibile è il fatto che tu e Adair siete
molto simili quando si tratta del piacere di un uomo.»
«Dici?» La sua espressione mi implorava di proseguire.
«Le donne si gettano ai suoi piedi. Tutti i tipi di donna.
Donne ricche, donne povere e, quando si stanca di loro, ci sono
sempre quelle del mestiere.»
«Cioè...»
«Le prostitute. Boston è piena di prostitute di tutti i tipi. Ci
sono bordelli di lusso e donne di strada. Ci sono attrici e cantanti
che si accompagnano volentieri a un uomo in cambio di una
bella stanza d’albergo e qualche soldo da spendere.»
«Stai dicendo che dovrei pagare un’attrice o una cantante per
trovare una donna che voglia stare con me?» mi chiese, poi
abbassò lo sguardo. «Vuoi dire che tutti gli uomini a Boston
pagano le donne per stare con loro?»
«Solo se uno vuole avere l’esclusiva, per così dire» risposi,
riguadagnando a poco a poco terreno. «Quelle donne spesso
sono più esperte delle arti amorose di chiunque altro» aggiunsi,
sperando di incuriosirlo ancor di più. Era giunto il momento di
dargli uno dei regali di Adair. «Ecco, questo è da parte del mio
datore di lavoro» dissi porgendogli un pacchettino avvolto in un
drappo di seta rossa. Era il mazzo di carte pornografiche. «Da un
gentiluomo a un altro.»
«Affascinante» disse, esaminando attentamente una carta
dopo l’altra. «Ho visto un mazzo simile a questo quando sono
andato a Fredericton, ma non era così... creativo.» Quando
sollevò il drappo di seta per riavvolgerci il mazzo di carte, cadde
fuori un secondo regalo. Uno che mi ero dimenticata di avere.
Jonathan inspirò di scatto. «Santo Dio, Lanny, chi è questa?»
Teneva in mano un piccolo ritratto di Uzra e lo fissava con
sguardo incantato. «È un fantasma? È la creazione di un
pittore?»
Non mi piacque affatto il suo tono di voce – nessun
gentiluomo avrebbe parlato in quel modo davanti a una donna
cui diceva di tenere molto – ma cosa potevo farci? Quel ritratto
doveva servire a indurlo in tentazione, e chiaramente aveva
funzionato.
«Oh, no, esiste davvero in carne e ossa, te lo posso giurare. È
una concubina del mio padrone, un’odalisca che ha preso con sé
quando ha percorso la via della seta in Oriente.»
«Il tuo padrone ha un ménage familiare piuttosto curioso, a
quanto pare. Una concubina a Boston? Non credevo che fosse
permesso.» Jonathan guardò dal ritratto a me e di nuovo il
ritratto, con le sopracciglia aggrottate. «Ma non capisco...
Perché mai il tuo padrone ha mandato dei regali proprio a me?
Perché gli interesso? Che cosa diavolo gli hai detto di me?»
«Sta cercando un compagno d’avventure, diciamo così, e ha
la sensazione che tu sia uno spirito affine.» Reagì con sospetto,
forse perché temeva che tutto quell’interesse da parte di un
uomo che non conosceva fosse non tanto per lui quanto per le
sue ricchezze. «A dirti il vero, credo che la gente di Boston
l’abbia deluso. Sono tutti così seriosi. Non è ancora riuscito a
trovare un bostoniano che abbia le sue stesse inclinazioni, che
sia disposto a indulgere in qualsiasi fantasia lo intrighi...»
Ma Jonathan non sembrò prestare attenzione a quello che gli
avevo detto. Mi fissò così da vicino che temetti di averlo
inavvertitamente offeso. «Che cos’hai?» gli chiesi.
«È solo che sei così... Così cambiata» sussurrò infine.
«Non posso certo negarlo. Sono cambiata completamente.
Ma la domanda è: sei deluso dal mio cambiamento?»
Sbatté le palpebre e un’ombra di dolore gli velò il volto. «Mi
dispiace dirtelo, ma... Sì, un po’ sì. Non so come dirtelo senza
urtare i tuoi sentimenti, ma non sei più la stessa ragazza di
quando sei partita. Sei così mondana... Sei l’amante di
quell’uomo, vero?» mi chiese esitante.
«Non esattamente.» Mi sovvenne un’espressione che avevo
udito anni prima. «Per lui sono una moglie spirituale.»
«Moglie spirituale?»
«Lo siamo tutte. L’odalisca del ritratto, Tilde, io stessa...»
Pensai che fosse meglio lasciar fuori Alejandro e Dona, non
sapendo come avrebbe reagito Jonathan a quella situazione.
«Ha tre mogli sotto lo stesso tetto?»
«Per non parlare delle altre donne con cui si intrattiene...»
«E a te non dà alcun fastidio?»
«Ha il diritto di dare le sue attenzioni a chi desidera, così
come lo abbiamo noi. Quello che c’è fra di noi è diverso da
qualsiasi altra cosa tu abbia mai sentito, ma... Sì, devo
ammettere che a me va benissimo così.»
«Santo cielo, Lanny, non riesco a credere che tu sia la stessa
ragazza che ho baciato nel vestibolo della chiesa tanti anni fa.»
Mi guardò, timido, quasi non sapesse bene come comportarsi.
«Visto che parli di libertà di concedere le proprie attenzioni a chi
si desidera, suppongo che non sia sconveniente chiederti... Un
altro bacio? Soltanto per sincerarmi che tu sia davvero la Lanny
che conoscevo una volta, tornata da me?»
Era la breccia che avevo atteso. Si alzò dalla sedia e si chinò
su di me, mi prese il volto fra le mani, ma il suo bacio si fece
attendere.
Quell’esitazione quasi mi spezzò il cuore. «Devi sapere che
ho temuto che non ti avrei mai più rivisto, Jonathan, tanto meno
sentire di nuovo le tue labbra sulle mie. Ho creduto di morire per
quanto sentivo la tua mancanza.» Mentre i miei occhi
percorrevano il suo volto, capii che era stata la speranza di
rivedere Jonathan l’unica cosa che mi aveva impedito di
impazzire. Ora eravamo insieme e non avrei permesso a niente e
nessuno di frapporsi. Mi alzai a mia volta e mi appoggiai a lui,
con tutto il corpo. Dopo un secondo di esitazione, finalmente mi
abbracciò. Ero contenta di avvertire di nuovo il suo desiderio,
ma era così cambiato dall’ultima volta che eravamo stati
insieme, era cambiato persino il profumo dei suoi capelli e della
sua pelle. L’esitazione delle sue mani quando mi cinse in vita. Il
suo sapore quando ci baciammo. Era tutto cambiato. Era più
lento, più dolce, più triste. Il suo modo di fare l’amore, per
quanto sempre tenero e dolce, non era più famelico come un
tempo. Forse era per via del fatto che eravamo nella casa della
sua famiglia, perché sua moglie e sua madre erano separate da
noi soltanto da una porta chiusa a chiave. O forse era soltanto il
senso di colpa perché stava tradendo Evangeline.
Dopo che Jonathan fu venuto, rimanemmo sul divanetto
insieme, il suo capo tra i miei seni avvolti nella seta impreziosita
da nastri e pizzi. Era ancora fra le mie gambe, accasciato su un
cuscino di gonne e sottogonne rialzate fino alla mia vita. Gli
carezzai i capelli mentre il mio cuore si riempiva di beatitudine.
E sì, sentivo anche una segreta sensazione di possesso perché
ero riuscita a farlo cedere al desiderio. Quanto alla moglie fedele
in attesa oltre quella porta... Be’, non era stata forse lei a rubarmi
l’uomo che amavo? E il vincolo del matrimonio significava ben
poco se lui ancora desiderava me, se il suo cuore ancora mi
apparteneva. E il mio corpo vibrava ancora, a riprova del suo
desiderio. Nonostante quello che era accaduto a entrambi negli
anni che ci avevano visti lontani, ero convinta più che mai che il
legame fra di noi fosse indissolubile.
36
Québec, oggi
Luke si ferma davanti a un autogrill vicino all’uscita
dell’autostrada. Ha bisogno di una sosta, di interrompere la
monotonia del nastro grigio della strada. Parcheggia e poi chiede
a Lanny di prestargli il computer portatile: vuole vedere le
ultime notizie, controllare la sua casella e-mail. Oltre alla solita
sfilata di messaggi dell’amministrazione ospedaliera («Si
ricorda a tutti i dipendenti di non parcheggiare nell’ala est del
parcheggio, perché l’area è destinata allo scarico della neve
spalata»), nessuno gli ha scritto. Nessuno sembra aver notato la
sua assenza. Luke fa scorrere il mouse senza meta sul desktop,
distratto; non c’è niente da ricontrollare. Sta per spegnere il
computer quando sente un segnale: qualcuno gli ha appena
mandato un’e-mail.
Si aspetta che sia spam, o un altro invito tanto gentile quanto
impersonale da parte della sua banca perché apra un nuovo
conto corrente o qualcosa di altrettanto inutile, invece proviene
da Peter. Luke si sente a disagio; sa di aver approfittato
dell’indole generosa del suo collega. Peter è più un conoscente
che un vero e proprio amico, ma siccome ci sono pochi
anestesisti da quelle parti e Luke è un medico del pronto
soccorso, hanno avuto modo di conoscersi meglio rispetto ad
altri colleghi. Per via della recente serie di disgrazie, Luke è
stato un po’ meno amichevole del solito, ma Peter è uno dei
pochi dottori che ancora gli parla.
«Dove sei?» recita l’e-mail. «Non credevo che avresti tenuto
la mia macchina così a lungo. Ho cercato di chiamarti ma non
rispondi al cellulare. Va tutto bene? Hai avuto un incidente? Ti
sei fatto male? Sono preoccupato per te. CHIAMAMI.» In coda
all’e-mail Peter ha aggiunto i suoi numeri di telefono e quello
del cellulare della moglie.
Luke chiude l’email di Peter, serrando le mascelle. Ha paura
che io stia impazzendo, pensa. È consapevole di avere un
comportamento strano, per usare un eufemismo, e che i suoi
concittadini lo considerano una specie di soggetto a rischio e che
evitano accuratamente di menzionare Tricia, il suo divorzio o la
morte dei suoi genitori. Nessuno crede di poter gestire tutta la
sua infelicità. È solo in quel momento che Luke si rende conto
che andar via dalla sua città con quella donna lo ha distratto dalle
sue miserie. È da mesi che non gli capitava di non pensare a
quanto sta male. È la prima volta che è riuscito a parlare delle
sue figlie senza mettersi a piangere.
Luke inspira a fondo e lascia uscire il fiato lentamente. Non
saltare alle conclusioni, si ripete. Peter è stato gentile e paziente,
in quella e-mail. Non ha minacciato di rivolgersi alla polizia. È
la persona più decente che Luke abbia frequentato negli ultimi
tempi, ma probabilmente si deve al fatto che Peter è appena
arrivato a St. Andrew. Il giovane dottore non è stato ancora
infettato dall’innata stranezza di quella cittadina, dalla sua
freddezza scostante, dal suo vizio tutto puritano di giudicare
sempre.
Per un momento, Luke ha la tentazione di telefonare a Peter.
È l’ultimo legame che gli rimane col mondo normale, quel
mondo che esisteva prima che aiutasse Lanny a scappare dalla
polizia, prima che ascoltasse tutta quella storia incredibile,
prima che lui andasse a letto con una paziente. Peter sarebbe
capace, forse, di convincerlo a tirarsi indietro. Luke fa un altro
profondo respiro; la domanda è: vuole lasciarsi convincere?
Riapre l’e-mail di Peter e clicca su Rispondi: «Mi dispiace
per la tua macchina» digita. «Presto la lascerò da qualche parte e
la polizia la troverà e te la restituirà.» Rilegge quello che ha
scritto e capisce che il vero significato è che non tornerà mai
indietro. Prova un enorme sollievo. Prima di cliccare su Invia
aggiunge: «Tieniti il mio pickup, è tuo ora».
Luke fa un salto in bagno e poi risale sul SUV: Lanny è già
sul sedile del passeggero, lo sguardo fisso avanti con un sorriso
serio. «Che succede?» le chiede girando la chiave nel blocchetto
d’accensione.
«Niente...» Lei abbassa lo sguardo. «Quando sono andata a
pagare alla cassa, mentre tu eri in bagno, ho visto che sotto il
bancone avevano delle bottiglie di liquore. Così ne ho chiesta
una di Glenfiddich. Ma la ragazza non ha voluto vendermelo. Ha
detto che dovevo aspettare che mio padre uscisse dal bagno e
che la comprasse lui.»
Luke apre la portiera e fa per scendere. «Vado subito io, se
vuoi...»
«No, lascia stare. Non è per il whisky; è solo che... Mi
succede di continuo. Non ne posso più, ecco tutto. Mi
scambiano sempre per un’adolescente, mi trattano come una
ragazzina. Avrò l’aspetto di una ragazzina ma non penso come
una ragazzina e a volte non riesco a sopportare che mi trattino
così. So benissimo che quest’aspetto mi è utile, ma, santo Dio...»
Si prende il capo fra le mani, scuotendolo, poi rialza le spalle.
«Facciamole vedere un bello spettacolo. Facciamola andare
fuori di testa, dai.»
Prima che Luke riesca a dire qualcosa, Lanny lo afferra per il
colletto della giacca e lo attira a sé. Preme la bocca sulla sua e gli
dà un lungo bacio, strusciandosi su di lui. Il bacio continua e
continua, finché a lui non vengono le vertigini. Oltre la spalla di
Lanny, vede una donna impietrita dietro la cassa, la bocca
atteggiata a una O di stupore e gli occhi strabuzzati.
Lanny lo lascia andare, ridendo. Picchia una mano sul
cruscotto. «Forza, papà, troviamoci un motel così ti scopo fino a
farti impazzire.»
Luke non si unisce alla risata. Senza pensarci, si ripulisce la
bocca. «Non farlo più. Non mi piace essere scambiato per tuo
padre. Mi fa sentire...» Mi fa sentire orribile, e non lo sono,
pensa, ma non lo dice ad alta voce.
Lei si tranquillizza all’istante, rossa di vergogna, e guarda
smarrita le proprie mani. «Hai ragione. Scusa, non volevo
imbarazzarti» dice. «Non succederà più.»
37
St. Andrew, 1819
Quel meraviglioso momento insieme sul divanetto non
sarebbe stato l’ultimo. Facemmo in modo di incontrarci più
spesso possibile, anche se le circostanze erano quanto meno
sconvenienti: un capanno ai margini del pascolo, colmo di erba
medica secca (e poi dovevamo stare attenti a pulirci
accuratamente togliendo ogni traccia di semi e steli), o la stalla
dei cavalli accanto alla casa dei St. Andrew; lì ci chiudevamo
nella stanza dove conservavano i finimenti e le attrezzature e ci
strofinavamo l’uno contro l’altra silenziosamente fra redini e
briglie appese.
Durante quegli incontri con Jonathan, mentre il suo respiro
entrava in me e gocce del suo sudore mi cadevano sul volto, mi
sorpresi più volte a pensare a Adair. Mi sorpresi a provare un
senso di colpa, come se lo stessi tradendo, perché in fondo, a
nostro modo, eravamo amanti. C’era anche una corrente
sotterranea di terrore puro per la punizione che Adair mi avrebbe
inferto non tanto per essere andata a letto con un altro uomo, ma
per essere innamorata di un altro uomo. Ma perché avrei dovuto
sentirmi in colpa, perché avrei dovuto avere paura, visto che
stavo facendo quello che mi aveva ordinato?
Forse perché dentro di me sapevo di amare Jonathan, soltanto
Jonathan. Lui avrebbe vinto, sempre e comunque e su chiunque.
«Lanny» sussurrò Jonathan durante uno dei nostri
appuntamenti, baciandomi la mano mentre giaceva sdraiato sul
fieno a recuperare fiato. «Tu meriti di meglio.»
«Ti incontrerei in una foresta, in una caverna, in un campo»
gli risposi, «se fosse l’unico modo di vederti. Non mi importa
dove siamo. L’unica cosa che mi importa è che siamo insieme.»
Belle parole, quelle degli innamorati. Ma mentre eravamo lì,
sdraiati sul fieno, e gli accarezzavo la guancia, la mia mente non
poté fare a meno di vagare. E vagò per luoghi pericolosi,
insinuandosi in faccende che era meglio non rivangare, come le
circostanze che mi avevano costretta a lasciare St. Andrew anni
prima, delle quali Jonathan non aveva mai parlato. Da quando
ero tornata in città non mi aveva chiesto nemmeno una volta del
nostro bambino. Lui voleva chiedermelo; lo percepivo ogni
volta che c’era una pausa di silenzio fra di noi, lo sorprendevo a
guardarmi di sottecchi con mesta serietà. Quando sei partita da
St. Andrew... ma le parole gli morivano in gola. Probabilmente
pensava che avessi abortito, come gli avevo preannunciato quel
giorno in chiesa. Ma io volevo che sapesse la verità.
«Jonathan» dissi dolcemente, arrotolandomi i suoi ricci neri
tra le dita e poi lasciandoli andare, «non ti sei mai chiesto perché
mio padre mi abbia mandato via dal villaggio?»
Lo sentii irrigidirsi e trattenere il fiato. Dopo un po’, rispose:
«Quando ho scoperto che te n’eri andata, era ormai troppo
tardi... Ho sbagliato a non cercarti prima, avrei dovuto
controllare che non fossi nei guai o che non ti fosse successo
qualcosa di brutto...» Iniziò a giocherellare con il pizzo del mio
corpetto.
«Che scusa ha usato la mia famiglia per spiegarti come mai
mi avevano mandata via?»
«Hanno detto di averti mandata a prenderti cura di un parente
ammalato. Erano molto chiusi dopo la tua partenza, se ne
stavano sulle loro. Una volta ho incontrato una delle tue sorelle
al villaggio e le ho chiesto se avessero ricevuto tue notizie, se mi
poteva dare un indirizzo a cui scriverti, ma lei è scappata via
senza rispondermi.» Alzò il capo dal mio petto. «Non era così?
Non stavi accudendo qualcuno?»
Volevo ridere della sua ingenuità. «L’unica persona che
aveva bisogno di cure ero io stessa. Mi hanno mandata via
perché partorissi il bambino altrove. Non volevano che nessuno
lo sapesse.»
«Lanny!» Mi posò una mano sul volto, ma io la scacciai. «E
hai...»
«Non c’è nessun bambino. Ho avuto un aborto.» Non c’era
alcuna emozione nelle mie parole, ora; non mi tremò la voce,
non mi salì un nodo alla gola.
«Mi dispiace così tanto di tutto quello che ti è successo, di
quello che hai dovuto affrontare da sola...» Si mise a sedere,
incapace di distogliere lo sguardo da me, ora. «C’entra qualcosa
col fatto che sei finita a stare con quell’uomo? Quell’Adair?»
Sono sicura che il mio volto a quel punto si scurì. «Non
voglio parlarne.»
«Quali prove hai dovuto affrontare, povera, coraggiosa
Lanny? Avresti dovuto scrivermi, informarmi della tua
situazione. Avrei fatto qualsiasi cosa per te, tutto quello che era
in mio potere...» Cercò di abbracciarmi – e il mio corpo
l’avrebbe desiderato con ogni fibra – poi sembrò ripensarci e si
tirò indietro. «Ma sto impazzendo? Che cosa... che cosa stiamo
facendo? Non ti ho già fatto abbastanza male? Che diritto ho di
ricominciare con te, come se si trattasse semplicemente di un
gioco?» Jonathan si prese la testa fra le mani. «Devi perdonare il
mio egoismo, la mia stupidità...»
«Non mi hai costretta» dissi, cercando di tranquillizzarlo.
«Anch’io lo volevo.» Se solo avessi potuto ritrattare le mie
parole... Era stato un errore parlare del bambino, ormai era
morto e sepolto. Mi maledissi per aver ceduto alla mia indole
meschina. Volevo che Jonathan sapesse quanto avevo sofferto e
che riconoscesse la sua parte di colpa nel triste destino che mi
aveva afflitto, ma tutto mi si era rivoltato contro.
«Non possiamo andare avanti così. Questo è proprio l’ultimo
dei problemi di cui ho bisogno ora.» Jonathan si allontanò da me
e si alzò in piedi. Quando vide la mia espressione scossa e ferita
continuò: «Perdona la franchezza, cara Lanny. Ma sai benissimo
che ho una famiglia, una moglie, una figlia appena nata,
obblighi e responsabilità che non posso tralasciare. Non posso
mettere a repentaglio la loro serenità per rubare pochi momenti
di piacere con te... e non c’è futuro per noi, non ci può essere.
Sarebbe doloroso e ingiusto per te continuare così».
Non mi ama abbastanza da scegliere me. La verità mi si
conficcò improvvisamente nel cuore, come una lama lunga e
affilata. Cercai di respirare. Sentii la rabbia incendiarmi.
Possibile che se ne rendesse conto soltanto ora, dopo aver
iniziato ancora una volta una relazione con me? Oppure a
ferirmi di più era il fatto che per una seconda volta stava
scegliendo Evangeline? Devo ammettere che il primo pensiero
che mi venne in mente, mentre ero lì seduta in preda a
un’emozione violenta, fu la vendetta. Ora mi è facile vedere con
quanta facilità le donne rifiutate stringano un patto col diavolo;
in quei momenti il bisogno di vendicarsi è troppo inferiore alla
possibilità di farlo. Se Satana in persona mi fosse apparso
davanti in quell’istante, promettendo di darmi i mezzi perché
Jonathan soffrisse le pene eterne dell’inferno, io gli avrei dato la
mia anima in cambio senza nemmeno pensarci su. Avrei stretto
un patto col demonio per vendicarmi del mio amante infedele.
Ma forse non c’era alcun bisogno di evocare il diavolo, di
scrivere quel patto efferato e firmarlo col mio sangue. Forse lo
avevo già fatto.
A quel punto non avevo idea di come realizzare il piano di
Adair, e l’idea di fallire mi riempì di terrore. Avevo creduto di
riuscire a sedurre Jonathan, di convincerlo a seguirmi a Boston
con le armi dell’amore e del sesso, ma avevo fallito. I rimorsi e il
senso di colpa fecero allontanare da me il mio amante, anche se
promise che sarebbe stato per sempre mio amico e, se ne avessi
avuto bisogno, il mio benefattore. Rimasi in attesa, sperando che
cambiasse idea e tornasse da me, ma a mano a mano che i giorni
passavano fu sempre più chiaro che non sarebbe successo. Una
visita, lo implorai. Vieni a Boston almeno a fare una visita. Ma
Jonathan resistette. Un giorno addusse la scusa di non potersi
fidare della madre, che avrebbe mandato a rotoli gli affari di
famiglia in sua assenza; un altro giorno disse invece che aveva
un problema di lavoro che richiedeva la sua presenza.
Alla fine, comunque, era sempre sua figlia che gli impediva
di partire. «Evangeline non mi perdonerebbe mai se la lasciassi
da sola con la mia famiglia per un periodo così lungo, e non può
certo affrontare tutto il viaggio con me, avendo la bambina» mi
disse, come se fosse veramente legato mani e piedi a sua moglie
e alla neonata: come a dirmi che non avrebbe mai messo i suoi
desideri avanti a quelli della sua famiglia, perché era un marito e
un padre coscienzioso. Scuse plausibili per un altro uomo, non
per il Jonathan che conoscevo.
Le nevicate in arrivo avvicinavano sempre più il giorno della
mia partenza. Sentivo che se fossi rimasta a St. Andrew tutto
l’inverno sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Adair, infuriato
perché avevo osato sfidarlo, avrebbe potuto radunare il suo
branco infernale e abbattersi sul villaggio come una furia.
Chissà che cosa avrebbero potuto fare quelle creature infernali
dal cuore nero ai poveri innocenti di St. Andrew, segregati dalla
neve e isolati dal resto del mondo. Pensai a quanto Alejandro e
Dona mi avevano raccontato del passato barbaro di Adair, di
come aveva guidato razzie di villaggi e sterminato tutti quelli
che si opponevano. Pensai alle povere ragazze innocenti che
aveva violentato, al modo in cui mi aveva drogato per poi
abusare di me. Finché era nell’alta società di Boston, era
costretto a tenere sotto controllo la sua natura brutale; non c’era
modo di prevedere però come si sarebbe comportato in un
villaggio isolato. E io sarei stata l’unica responsabile, colpevole
di aver attirato quella piaga sui miei concittadini.
Una sera, ero da Daughtery a riflettere sulla mia situazione,
sperando di incontrare il giovane taglialegna che avevo visto
quando ero arrivata, quando entrò Jonathan. Avevo già visto
quell’espressione sul suo volto in precedenza: non era a caccia
di compagnia perché si sentiva solo. Era appagato. Si era appena
portato a letto qualcuno.
Si sorprese nel trovarmi lì, ma ora che mi aveva vista non
poteva certo andarsene senza parlarmi. Si accomodò su uno
sgabello di fronte a me, la schiena verso il camino acceso.
«Lanny, che cosa ci fai qui? Non è certo il posto giusto per una
ragazza da sola.»
«Oh, ma non sono certo una ragazza innocente, vero?» dissi,
piccata, pentendomi immediatamente della mia acrimonia. «E
dove altro posso andare? Non è che posso bere in compagnia di
mia madre e di mio fratello: non riuscirei a sopportare i loro
sguardi di disapprovazione. Tu almeno puoi sempre tornare
nella tua grande casa e chiuderti nello studio per stare un po’ da
solo. E avresti qualcosa di meglio da bere di quello che servono
qui, comunque. A proposito, non dovresti essere a casa, a
quest’ora? Con tua moglie? Hai combinato qualcosa, stasera. Te
ne sento l’odore addosso.»
«Considerata la tua posizione, non mi aspettavo che fossi così
pronta a giudicarmi» disse. «Va bene, visto che me lo chiedi ti
dirò la verità. Sono stato con un’altra donna. Una che vedevo
prima che tu tornassi così inaspettatamente. Anch’io ho
un’amante. È Anna Kolsted.»
«Anna Kolsted è una donna sposata.»
Lui fece spallucce.
Tremavo di rabbia. «Perciò con lei non hai interrotto la
relazione, nonostante tutte le belle parole che hai detto a me
l’altro giorno, vero?»
«Io... io non potevo lasciarla così bruscamente senza dirle
quello che era successo.»
«E le hai spiegato bene di aver avuto un improvviso rigurgito
di coscienza? Le hai detto che hai deciso di non vederla più?» gli
chiesi, come se ne avessi il diritto.
Lui rimase in silenzio.
«Ma non impari mai, Jonathan? Non può finire bene» dissi
gelida.
Jonathan strinse le labbra e serrò la mascella, distogliendo lo
sguardo, mentre il suo risentimento saliva sempre di più. «Non
sai dirmi altro, a quanto pare, vero?» Il nome di Sophia rimase
sospeso fra di noi, senza essere pronunciato.
«Finirà allo stesso modo. Si innamorerà di te e ti vorrà tutto
per sé.» Mi ritornò la stessa paura, lo stesso rimorso che avevo
provato quando avevamo trovato Sophia morta nel fiume. Non
credevo che, dopo tutto quello che avevo passato, il suo
fantasma avesse ancora il potere di tormentarmi. Forse era
perché a volte mi chiedevo se non avrei fatto meglio a seguire il
suo esempio. «È inevitabile, Jonathan. Tutti quelli che ti
conoscono prima o poi vogliono possederti.»
«Parli per esperienza, vero?»
La sua risposta tagliente mi azzittì per un secondo.
Ovviamente ce l’aveva con me per qualcosa, anche se non
sapevo cosa. Con tono sarcastico dissi: «Quelli che ti hanno per
sé tendono a sfidare la sorte. Forse dovresti chiedere un parere a
tua moglie. Non hai mai pensato a quanto ne soffrirebbe la
povera Evangeline se scoprisse la tua relazione con la signora
Kolsted?»
Jonathan fu sopraffatto dalla furia in un attimo, come una
tempesta. Controllò dietro di sé per verificare che Daughtery
fosse impegnato e che nessuno stesse ascoltando, poi mi afferrò
per il braccio e mi tirò a sé. «Cristo santo, Lanny, abbi pietà di
me. Sono sposato con una bambina. Aveva soltanto quattordici
anni quando ci siamo sposati. Quando l’ho portata a letto la
prima volta, dopo ha pianto. Ha pianto. Ha paura di mia madre e
le mie sorelle la intimidiscono. Io non ho bisogno di una
bambina, Lanny. Io ho bisogno di una vera donna.»
Strappai il braccio dalla sua presa. «Credi che non lo
sappia?»
«Quanto vorrei non aver mai ceduto alle pressioni di mio
padre. Non dovevo sposarla. Ma lui voleva un erede, era l’unica
cosa che gli interessava. Ha visto una ragazzina con tanti anni
fertili davanti a sé e ha concluso l’affare con il vecchio
McDougal, come se lei fosse una giumenta.» Si passò una mano
fra i capelli. «Non hai idea della vita che sono costretto a fare
ora, Lanny. Non c’è nessuno che possa mandare avanti gli affari
al posto mio. Benjamin ha l’intelligenza di un bambino di
quattro anni. Le mie sorelle sono delle sempliciotte. E quando
mio padre è morto, be’... Tutte le sue responsabilità mi sono
piombate addosso. L’intero villaggio dipende dalle sorti della
mia famiglia. Hai idea di quanti siano i coloni che acquistano i
terreni con i soldi prestati da mio padre? Basta un inverno
particolarmente rigido, o basta che non siano bravi a coltivare la
terra, e rimangono indietro coi pagamenti. Potrei appropriarmi
dei loro terreni, ma che cosa me ne farei di un’altra fattoria in
fallimento? Perciò perdonami, per favore, se ho un’amante e mi
concedo qualche distrazione da tutte le mie responsabilità.»
Abbassai lo sguardo sull’avanzo di birra nel bicchiere.
Lui proseguì in tono sempre più infervorato. «Non puoi
immaginare quanto mi abbiano tentato le tue offerte. Darei
qualsiasi cosa per liberarmi dai miei obblighi! Ma non posso, e
credo che tu possa ben capirne il motivo. Non sarebbe soltanto la
mia famiglia a pagarne il prezzo, sarebbe tutto il villaggio. Vite
rovinate. Forse mi hai preso in un momento di debolezza quando
sei tornata, Lanny, ma gli ultimi anni mi hanno insegnato una
lezione, una dura lezione. Non posso essere così egoista.»
Aveva dimenticato di avermi detto, una volta, che voleva
lasciarsi tutto alle spalle, la sua famiglia, la sua ricchezza, per
stare con me? Che un tempo sperava che al mondo ci fossimo
soltanto noi due? Una donna più equilibrata sarebbe stata
contenta di vedere che Jonathan era cresciuto e aveva imparato
ad accettare le proprie responsabilità, sarebbe stata orgogliosa di
vederlo reggere obblighi che avrebbero spezzato un uomo più
debole. Ma io non posso dire di essermi sentita né felice né
orgogliosa.
Lo capivo, però. Amavo quel villaggio, a mio modo, e non
desideravo affatto vederlo in rovina. Anche se la mia famiglia
era in difficoltà, anche se i miei concittadini mi avevano trattata
con disprezzo e non facevano altro che spettegolare su di me alle
mie spalle, non potevo sottrarre loro il pilastro della comunità,
era evidente. Rimasi davanti a Jonathan, rattristata e commossa
dal tormento che mi aveva appena confessato. Eppure dentro di
me il panico mi percorreva dalla testa ai piedi. La mia missione
era fallita, avrei deluso Adair. Che cosa potevo fare?
Finimmo la birra, tristi e sconsolati. Sembrava chiaro che
avrei dovuto rinunciare a Jonathan. Dovevo concentrarmi sulla
mia situazione: che cosa avrei fatto ora? Dove potevo rifugiarmi
in modo che Adair non fosse in grado di rintracciarmi? Non
avevo alcuna intenzione di subire le stesse orrende torture che
mi erano già state inflitte una volta.
Pagammo il conto e uscimmo sul sentiero, in silenzio, gravati
dal peso delle nostre rispettive preoccupazioni. La notte era
fredda, il cielo terso e illuminato dalla luna e dalle stelle, con
nuvole leggere che ombreggiavano la luce argentea.
Jonathan mi prese per il braccio. «Perdona il mio sfogo e
dimentica i miei problemi. Hai tutti i diritti di detestarmi per
quello che ti ho appena detto. L’ultima cosa che voglio è che tu ti
faccia carico delle mie preoccupazioni. Il mio cavallo è nel
granaio dei Daughtery, lascia che ti accompagni a casa.» Ma
prima che riuscissi a dirgli che non era necessario e che
preferivo essere lasciata da sola con i miei pensieri, fummo
interrotti dal rumore di passi sul sentiero.
Era tardi e si gelava, era improbabile che ci fosse ancora
qualcuno in giro. «Chi è là?» urlai verso una figura nell’ombra.
Edward Kolsted comparve alla luce della luna con un fucile in
mano.
«Andatevene per la vostra strada, signorina McIlvrae. Non ho
niente contro di voi.» Kolsted era un uomo duro, apparteneva a
una delle famiglie più povere del villaggio e non era certo in
grado di competere con Jonathan per il cuore di nessuno. Magro,
il volto sottile sfigurato dal vaiolo, come tanti altri giovani.
Nonostante fosse ancora un ragazzo, i capelli castani gli si
stavano assottigliando e i denti gli stavano già cadendo. Puntò il
fucile al petto di Jonathan.
«Non essere stupido, Edward. Ci sono dei testimoni: Lanny e
gli uomini dentro da Daughtery... A meno che tu non voglia
uccidere tutti quanti» gli disse Jonathan.
«Non mi importa. Hai rovinato la mia Anna, mi hai reso lo
zimbello del villaggio. Sarei orgoglioso di guadagnarmi la fama
di quello che finalmente te l’ha fatta pagare.» Alzò ancora il
fucile. Io ero paralizzata dal terrore. «Ma guardati, razza di
bellimbusto» lo schernì Edward mirando con il fucile. A suo
credito, Jonathan non si mosse di un millimetro. «Credi che qui
piangeranno la tua morte? Per niente. Ti detestiamo tutti, tutti gli
uomini del villaggio ti odiano. Credi che non sappiamo quello
che vai in giro a fare, che fai perdere la testa alle nostre mogli
con la tua stregoneria? Hai voluto divertirti con la mia Anna e
nel farlo mi hai tolto la cosa più preziosa che avevo. Sei il
demonio in persona, tu, e questo posto sarebbe migliore senza di
te!» Edward aveva alzato la voce, ma nonostante le sue parole
ero sicura che non avrebbe portato a compimento la sua
minaccia. Voleva soltanto spaventare Jonathan, umiliarlo e
costringerlo a chiedergli perdono, e questo gli avrebbe restituito
un po’ di dignità. Ma non era abbastanza coraggioso da uccidere
davvero il suo rivale.
«È questo che vuoi da me, che sia il demonio? Certo, ti
farebbe comodo, ti toglierebbe ogni colpa.» Jonathan abbassò le
braccia. «Ma la verità è che tua moglie è una donna infelice e
questo ha ben poco a che fare con me e molto a che fare con te.»
«Bugiardo!» urlò Kolsted.
Jonathan fece un passo verso il suo assalitore e io sentii una
stretta allo stomaco, non capivo se Jonathan volesse trovare la
morte o se volesse costringere Kolsted ad affrontare la verità.
Forse sentiva di doverlo alla sua amante. Forse la nostra
discussione da Daughtery lo aveva indotto a prendere una
decisione. Ma il suo atteggiamento risoluto poteva essere
travisato e Kolsted avrebbe potuto dedurne che Jonathan si
comportava così perché amava Anna. «Se tua moglie fosse stata
felice, non avrebbe cercato la mia compagnia. Lei...»
Il vecchio fucile di Kolsted sparò, intravidi una fiammata
azzurrognola uscire dalla canna. Fu tutto troppo veloce: uno
scoppio come quello di un tuono, un lampo di luce, e
all’improvviso Jonathan barcollò indietro, poi si accasciò al
suolo. Il volto di Kolsted si contorse, illuminato da una lama di
luce lunare per un istante. «Gli ho sparato» mormorò, come per
rassicurarsi. «Ho sparato a Jonathan St. Andrew.»
Caddi sulle ginocchia nel fango semicongelato, portandomi
Jonathan in grembo. I suoi vestiti erano già inzuppati di sangue e
anche il suo cappotto. Era una ferita profonda e grave. Avvolsi
le braccia attorno al petto di Jonathan e guardai furiosa Kolsted.
«Se avessi un fucile ti sparerei su due piedi. Sparisci subito.»
«È morto?» Kolsted allungò il collo ma non riuscì a trovare il
coraggio di avvicinarsi all’uomo cui aveva appena sparato.
«Saranno tutti qui in un attimo e se ti trovano col fucile in
mano ti sbatteranno subito in galera» sibilai minacciandolo.
Volevo che se ne andasse: qualcuno dentro la locanda poteva
sentirci e in ogni caso lo sparo avrebbe presto attirato gente.
Dovevo nascondere Jonathan prima che ci scoprissero.
Non dovetti ripeterlo due volte a Kolsted. Che fosse per paura
o per improvviso rimorso, o forse perché non voleva essere
imprigionato, l’attentatore di Jonathan indietreggiò come un
cavallo imbizzarrito e corse via. Con le braccia strette al suo
petto, trascinai Jonathan dentro il granaio dei Daughtery. Gli
aprii il cappotto, poi la giacca, finché non scoprii la ferita al
petto. Gli usciva sangue a fiotti da un foro proprio sopra il cuore.
«Lanny» disse, cercando la mia mano.
«Sono qui. Stai fermo.»
Lui sospirò ancora e poi tossì. Non c’era nessuno che potesse
aiutarci: gli aveva sparato a bruciapelo, colpendolo in un punto
vitale. Riconobbi l’espressione sul suo volto: era la maschera di
sofferenza di chi sta per morire. Perse conoscenza,
abbandonandosi tra le mie braccia.
Udii delle voci oltre le assi bucherellate dai tarli: alcuni
uomini erano usciti dalla locanda dei Daughtery e ora erano sul
sentiero. Il mio cuore accelerò i battiti, pervaso dal panico. Non
trovando nessuno, si allontanarono.
Abbassai lo sguardo sul meraviglioso volto di Jonathan. Il
suo corpo, ancora caldo, mi pesava sul grembo. Devi farlo
vivere. Devi tenerlo con te, a tutti i costi. Lo strinsi ancora più
forte. C’era soltanto un modo per salvarlo.
Feci scivolare il suo corpo a terra, gli aprii del tutto il
cappotto e la giacca. Grazie a Dio era svenuto. Se non fossi stata
così spaventata, non sarei mai riuscita a fare quell’incantesimo
maledetto. Ma avrebbe funzionato? Forse mi ricordavo male o
forse c’erano parole speciali che dovevo recitare per far
funzionare una magia così potente. Comunque, non avevo
tempo per i ripensamenti.
Frugai nel corpetto, cercando la fiala d’argento. Quando a
tentoni la scovai, strappai la stoffa e la estrassi dal suo
nascondiglio. Con mani tremanti, tolsi il tappo e aprii le labbra
di Jonathan. C’era soltanto una goccia avanzata, più piccola di
una gocciolina di sudore. Pregai che bastasse.
«Non lasciarmi, Jonathan. Non posso vivere senza di te»
sussurrai nel suo orecchio; era l’unica cosa che mi era venuta in
mente. Ma poi mi ricordai delle parole di Alejandro, di quello
che mi aveva detto il giorno in cui ero stata trasformata. Pregai
che non fosse troppo tardi. «Per mia mano, per mia volontà»
dissi, sentendomi un po’ stupida perché sapevo di non avere
potere su niente, né in terra né in cielo né all’inferno.
Mi inginocchiai nel fieno, con Jonathan in grembo, e gli tolsi
i capelli dalla fronte. Rimasi in attesa di un segno, di qualcosa.
Di quello che era successo a me ricordavo soltanto la sensazione
di cadere sempre più giù e la febbre che mi incendiava il corpo, e
poi di essermi svegliata, molto tempo dopo, nell’oscurità.
Strinsi ancora una volta Jonathan a me. Aveva smesso di
respirare e stava diventando sempre più freddo. Gli richiusi il
cappotto addosso, chiedendomi se sarei riuscita a portarlo fino
alla fattoria della mia famiglia senza farmi notare. Sembrava
improbabile, ma non c’era altro luogo in cui potessi portarlo, e
prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercare nel granaio dei
Daughtery.
Sellai il cavallo di Jonathan, sorpresa di non essere più
intimorita da quel fiero stallone. Con una forza che non sapevo
di possedere, nata dalla situazione di estrema necessità, gettai
Jonathan sul garrese del cavallo, montai sulla sella e uscii dal
granaio, attraversando in fretta e furia il villaggio. Più di un
abitante in seguito avrebbe dichiarato di aver visto Jonathan St.
Andrew uscire dal villaggio a cavallo quella notte, alimentando
le più disparate teorie sulle ragioni della sua scomparsa.
Quando arrivammo alla fattoria della mia famiglia, sollevai il
corpo di Jonathan, lo portai nel granaio e svegliai il mio
cocchiere. Dovevamo andar via da St. Andrew quella notte
stessa, non potevo correre il rischio di aspettare fino alla
mattina, quando la famiglia di Jonathan sarebbe venuta a
cercarlo. Dissi al cocchiere di sellare immediatamente i cavalli,
saremmo partiti subito. Quando protestò che era troppo buio per
viaggiare, gli dissi che la luna era piena e poi aggiunsi: «Sono io
a pagarvi, quindi ascoltatemi bene. Avete quindici minuti per
preparare i cavalli, non uno di più». Per quanto riguardava il
baule con i miei vestiti e le altre cose, avrei abbandonato tutto.
Non volevo svegliare i miei familiari. Il mio unico pensiero in
quel momento era di portar via Jonathan dal villaggio.
Mentre la carrozza sferragliava sulle strade innevate, lanciai
uno sguardo oltre la tendina del finestrino per vedere se
qualcuno in casa ci avesse sentito, ma non notai nessun
movimento. Immaginai il momento in cui si sarebbero svegliati
e si sarebbero accorti che ero scomparsa, chiedendosi – col
cuore spezzato – perché avessi deciso di partire in quel modo,
così misterioso come i miei anni di silenzio. Stavo commettendo
una grande ingiustizia ai danni dei cuori generosi di mia madre e
delle mie sorelle, e mi addolorava moltissimo, ma la verità era
che era più facile deludere loro che perdere Jonathan per
sempre. O disobbedire a Adair.
Jonathan giaceva sulla panca di fronte a me, avvolto nel
cappotto e in una coperta di pelliccia, col mio cappotto
arrotolato a fargli da cuscino (io non ne avevo bisogno, il freddo
non mi faceva alcun effetto). La testa era inclinata in modo
strano. Non si muoveva, il petto non gli si alzava e abbassava per
il respiro, non c’era alcun segno. Niente. La sua pelle era bianca
come il ghiaccio alla luce della luna. Fissai lo sguardo sul suo
volto, attendendo un segno di vita, ma era così immobile che
iniziai a chiedermi se non avessi fallito.
38
Nelle ore che precedettero l’alba riuscimmo a percorrere
parecchie miglia, allontanandoci dal villaggio, con la carrozza
che sferragliava lungo il sentiero impervio e solitario che
attraversava la foresta. Per tutto il tempo rimasi in silenzio a
vegliare Jonathan. Sembrava un carro funebre, con me nella
parte della vedova che accompagnava il cadavere del marito
nell’ultimo viaggio, verso il luogo dell’eterno riposo.
Il sole si era levato da un po’ quando Jonathan si mosse.
Ormai ero quasi giunta alla conclusione che non sarebbe tornato
indietro; ero rimasta per ore seduta immobile, tremante, sul
punto di vomitare, piena di odio verso me stessa. Il primo segno
di vita fu una contrazione sulla guancia destra. Poi sbatté le
ciglia. Siccome era ancora bianco come un cadavere, per un
attimo pensai che fosse un’illusione ottica, poi udii un basso
lamento, vidi le sue labbra aprirsi e poi entrambi gli occhi
spalancarsi.
«Dove siamo?» mi domandò in un sussurro appena
percepibile.
«In una carrozza. Resta sdraiato. Tra poco ti sentirai meglio.»
«Una carrozza? E dove stiamo andando?»
«A Boston.» Non sapevo che cos’altro dirgli.
«A Boston? Ma che cosa è successo? Io...» Probabilmente gli
si era affacciata alla mente l’ultima cosa che ricordava, noi due
nella locanda di Daughtery. «Ho forse perso una scommessa?
Ero forse ubriaco e ho accettato di andare con te...»
«Non c’è stato alcun accordo» dissi, inginocchiandomi
accanto a lui per avvolgergli meglio il cappotto addosso. «Ci
stiamo andando perché dobbiamo. Non puoi più rimanere a St.
Andrew.»
«Di che cosa stai parlando, Lanny?» Jonathan ora era
arrabbiato con me e cercò di spingermi via, anche se era così
debole che non riuscì nemmeno a spostarmi. Sentii qualcosa di
duro sotto il ginocchio, come un sassolino appuntito; abbassai la
mano e trovai un proiettile.
Il proiettile sparato dal fucile di Kolsted.
Lo sollevai davanti agli occhi di Jonathan. «Lo riconosci
questo?»
Cercò di mettere a fuoco il piccolo oggetto scuro che avevo in
mano. Lo osservai e vidi che i ricordi gli tornavano alla mente: il
litigio sul sentiero, lo sparo accecante che aveva posto fine alla
sua vita mortale.
«Mi ha sparato» disse, col petto che mostrava i segni
dell’affanno. Si portò una mano sopra il cuore, sotto il cappotto
e la camicia strappata e intrisa di sangue secco. Si tastò la pelle
sotto i vestiti, ma non c’era più alcun segno.
«Non sono ferito» disse Jonathan, sollevato. «Kolsted deve
avermi mancato.»
«Come potrebbe essere? L’hai visto il sangue? E i vestiti
strappati? Kolsted non ti ha mancato, Jonathan. Ti ha preso al
cuore e ti ha ucciso.»
Lui serrò gli occhi. «Quello che dici non ha senso. Non
capisco.»
«Non è una cosa che possa essere capita» gli risposi,
prendendogli la mano. «È un prodigio.»
Cercai di spiegargli tutto, anche se, Dio mi è testimone,
sapevo pochissimo io per prima. Gli raccontai la mia storia e
quella di Adair. Gli mostrai la piccola fiala d’argento, ora vuota,
e gli feci annusare gli ultimi vapori che ne uscivano. Mi ascoltò,
guardandomi tutto il tempo come se fossi pazza.
«Ordina al cocchiere di fermare la carrozza» mi disse infine.
«Voglio tornare subito a St. Andrew, dovessi anche farmela
tutta a piedi.»
«Non posso lasciarti uscire.»
«Ferma questa carrozza!» urlò, alzandosi in piedi e iniziando
a picchiare i pugni sul tetto. Cercai di spingerlo a sedere, ma
ormai il cocchiere aveva sentito e aveva arrestato i cavalli.
Jonathan aprì la portiera e si scaraventò fuori, nella neve
intonsa e alta fino alle ginocchia. Il cocchiere si voltò,
guardandoci con sospetto dall’alto del suo scranno, i baffi
incrostati di brina del suo stesso respiro. I cavalli ansavano,
esausti dopo tutta quella strada percorsa nella neve.
«Torniamo subito. Fate sciogliere della neve per abbeverare i
cavalli, nel frattempo» dissi al cocchiere, nell’intento di
distrarlo. Corsi dietro Jonathan, con le gonne che mi
ostacolavano nella neve, lo raggiunsi e lo afferrai per un braccio.
«Devi ascoltarmi. Non puoi tornare a St. Andrew. Sei
cambiato, ora.»
Mi respinse con forza. «Non so che cosa ti sia successo
mentre eri via, ma... Non posso far altro che pensare che tu sia
impazzita...»
Mi aggrappai alla sua manica, come se ciò potesse impedirgli
di scappare. «Posso provarti tutto. Se ti darò una prova, prometti
che verrai via con me?»
Si fermò e mi guardò come se si aspettasse qualche strano
trucco da parte mia. «Non ti prometto un bel niente.»
Alzai la mano, lasciando la presa sulla sua manica,
indicandogli di aspettare. Con l’altra mano, presi un piccolo ma
affilato pugnale dalla tasca del mio soprabito. Mi aprii il
corpetto, esponendo il bustino all’aria gelida, e poi, afferrando
l’impugnatura del pugnale con entrambe le mani, me lo
conficcai nel petto fino all’elsa, senza nemmeno lasciarmi
sfuggire un sospiro.
Jonathan sembrò accasciarsi di schianto e sporse le mani
verso di me. «Santo Dio! Tu sei davvero pazza! In nome del
cielo, che cos’hai fatto...»
Il mio sangue iniziò a spillare attorno all’elsa, finché una rosa
rossa non si disegnò sulla seta, dallo sterno alla pancia. Estrassi
la lama, poi gli afferrai la mano e premetti le sue dita sulla ferita.
Cercò di tirar via la mano, ma io la bloccai lì dov’era.
«Toccala. Voglio che tu senta quello che sta accadendo. Poi
dimmi ancora che non mi credi.»
Sapevo che cosa sarebbe successo. Era un trucchetto che
Dona faceva spesso per intrattenerci quando ci riunivamo in
cucina per rilassarci dopo una serata in città. Si sedeva davanti al
camino acceso, poggiava il cappotto sulla spalliera della sedia,
si tirava su le maniche e poi si incideva gli avambracci con il
coltello, in profondità. Io, Alejandro e Tilde guardavamo i due
lembi rossi della ferita strisciare l’uno verso l’altro, come due
amanti in preda a una forza di attrazione superiore, per poi
ritrovarsi in un abbraccio che li rendeva indistinti. Una cosa
impossibile, che però accadeva davanti ai nostri occhi infinite
volte. Dona rideva amaramente mentre guardava la sua carne
guarire come per miracolo, ma quando avevo provato io a fare la
stessa cosa avevo scoperto che si avvertiva una sensazione del
tutto particolare. Quello che volevamo provare era il dolore, ma
non riuscivamo a sentirlo, non esattamente. Eravamo giunti al
punto di desiderare qualcosa di simile al suicidio, e
inseguendolo potevamo concederci il momentaneo piacere di
fare del male a noi stessi, ma anche quello ci era negato. Quanto
odiavamo noi stessi, ognuno a suo modo!
Il volto di Jonathan impallidì quando sentì la carne viva
muoversi, tremare e infine richiudersi.
«Che cosa...» mormorò, orripilato. «Qui c’è lo zampino del
diavolo, non c’è altra spiegazione.»
«Non saprei dirtelo. Non ho spiegazioni. Ma quello che è
fatto è fatto e non c’è modo di tornare indietro. Non sarai mai più
lo stesso di prima e il tuo posto non è più a St. Andrew. Adesso
vieni con me» dissi. Sotto shock, pallido e inerme, non oppose
resistenza quando lo presi per il braccio e lo trascinai verso la
carrozza.
Jonathan rimase catatonico per tutto il viaggio. Il suo silenzio
e il suo sguardo vuoto mi riempirono di angoscia: volevo sapere
se avrei riavuto o meno il mio amico. Il mio amante. Di noi due,
era stato sempre Jonathan quello sicuro di sé e mi sentivo a
disagio a ruoli invertiti. Ma sarebbe stato stupido aspettarmi
qualcosa di diverso; in fondo, io stessa avevo sfiorato il baratro
della depressione per tanto tempo, a casa di Adair, ritirandomi in
me stessa e rifiutando di credere a quello che mi era successo.
Durante la traversata in nave per Boston, Jonathan rimase
tutto il tempo chiuso nella piccola cabina. Non salì sul ponte
nemmeno una volta. Questo non fece altro che aumentare la
curiosità dell’equipaggio e degli altri passeggeri, perciò anche se
il mare era calmo come l’acqua di un pozzo, io dissi a tutti che
non stava bene, che aveva il mal di mare e che non se la sentiva
di alzarsi. Gli portai della zuppa e della birra, anche se ormai il
suo corpo non aveva più bisogno di cibo e la fame era
scomparsa. Jonathan avrebbe presto imparato che quando
mangiavamo lo facevamo per abitudine, per puro conforto, per
far finta di essere gli stessi di sempre.
Quando la nave attraccò nel porto di Boston, Jonathan era
ridotto a una creatura dallo strano aspetto emaciato, per via di
tutte le ore trascorse nella penombra della cabina. Pallido e
nervoso, con gli occhi cerchiati per la mancanza di sonno,
emerse dalla sua cabina indossando i cenci che avevamo
comprato a Camden in un negozietto che vendeva roba di
seconda mano. Rimase in piedi sul ponte, circondato dagli
sguardi attoniti degli altri passeggeri che, senza dubbio, per tutto
il viaggio si erano chiesti se il passeggero invisibile non fosse in
realtà morto nella sua cabina. Osservò l’attività sul molo mentre
la nave veniva ancorata, fissando con gli occhi spalancati la
quantità di gente a terra. Sembrava un po’ spaventato. La sua
incredibile bellezza era stata attenuata dalle prove cui era stato
sottoposto e per un momento desiderai che Adair non lo vedesse
per la prima volta ridotto in quello stato. Volevo che Adair
vedesse che Jonathan era esattamente come lo avevo descritto:
che stupida vanità!
Sbarcammo e non facemmo in tempo a percorrere qualche
metro che scorsi Dona che ci aspettava insieme a un paio di
servitori. Indossava un vistoso abito da funerale, con piume di
struzzo nere appuntate sul cappello, era avvolto in un ampio
mantello nero e si appoggiava su un bastone, torreggiando sulla
gente comune come se fosse la morte in persona. Un sorriso
maligno si fece strada sul suo volto quando ci vide.
«Come facevi a sapere che sarei tornata oggi? Su questa
nave?» pretesi di sapere. «Non ho mandato una lettera per
avvisarvi dei miei programmi.»
«Oh, Lanore, la tua ingenuità è ridicola. Adair sa sempre
queste cose. Ha percepito la tua presenza all’orizzonte e mi ha
mandato ad accoglierti» mi disse, scansandomi. Dedicò tutte le
sue attenzioni a Jonathan, senza mascherare il fatto che lo stava
esaminando da capo a piedi e viceversa. «Cosa aspetti?
Presentami al tuo amico.»
«Jonathan, lui è Donatello» dissi secca. Jonathan non si
mosse, non sembrò nemmeno accorgersi della presenza
dell’altro. Non riuscii a capire se fosse perché non gli era
piaciuto il modo in cui Dona l’aveva esaminato o perché fosse
ancora sconvolto.
«Non sa parlare? Che razza di educazione ha ricevuto?» disse
Dona. Quando Jonathan non raccolse la provocazione, Dona
liquidò l’affronto rivolgendosi di nuovo a me. «Dove sono i tuoi
bagagli? I servitori...»
«Saremmo vestiti così se avessimo avuto altro da indossare,
secondo te? Ho dovuto lasciare tutto indietro. Avevo a malapena
i soldi per pagarmi il viaggio di ritorno.» Nella mia mente,
visualizzai il baule che avevo abbandonato a casa di mia madre,
anonimo e relegato in un angolo. Quando l’avrebbero aperto –
quando, cioè, la curiosità avrebbe preso il sopravvento sulla
riservatezza, pur sapendo che non sarei mai tornata da loro –
avrebbero trovato il borsellino di camoscio pieno di monete
d’oro e d’argento. Ero felice di aver lasciato lì il borsellino coi
soldi; sentivo di dovere alla mia famiglia almeno quello. Era
denaro di Adair, denaro sporco di sangue, il denaro che avrebbe
ripagato la mia famiglia per avermi persa per sempre, proprio
come lui stesso aveva acquietato il suo senso di colpa lasciando
dei soldi per la sua famiglia secoli prima.
«Come sei coerente. La prima volta sei venuta da noi senza
niente. Ora porti il tuo amico con te, ed entrambi non avete
niente di niente.» Dona alzò le mani esasperato, come a dire che
ero incorreggibile, ma sapevo che era tutta una recita per non
farsi vedere stizzito; anche ridotto com’era in quel momento,
Jonathan era evidentemente un uomo eccezionale. Sarebbe
diventato la luce degli occhi di Adair, l’amico e il compagno col
quale Dona non avrebbe potuto competere. Dona sarebbe caduto
in disgrazia e non c’era niente che potesse fare per impedirlo. E
tutto questo fu chiaro a Dona fin dal primo momento in cui posò
lo sguardo su Jonathan.
Se solo Dona avesse saputo la verità, non avrebbe sprecato la
sua invidia. Il nostro ignobile arrivo, quel giorno, fu l’inizio
della fine per tutti noi.
Jonathan riprese un po’ di vita sulla carrozza, durante il
tragitto verso la casa di Adair. In fondo, quello era il suo primo
viaggio in una città così grande, varia e piena di meraviglie
come Boston e, attraverso i suoi occhi, io rivissi il mio arrivo di
anni prima: la massa imponente di gente per le strade polverose;
la quantità strabiliante di negozi e locande; le case imponenti
fatte di mattoni, alte parecchi piani; il numero enorme di
carrozze per strada, tirate da cavalli splendidi; le donne vestite
all’ultima moda, che concedevano ampie vedute sul loro seno e
sul collo bianco e affusolato. Dopo un po’, Jonathan dovette
distogliere lo sguardo dal finestrino e chiudere gli occhi.
E poi, naturalmente, c’era la casa di Adair, imponente quanto
un castello. Ma a quel punto Jonathan era diventato insensibile
alla magnificenza. Mi permise di condurlo su per la scalinata e
dentro la casa, attraverso il foyer con il lampadario che
ondeggiava appeso al soffitto e gli uscieri in livrea che si
inchinarono tanto da poter ispezionare da vicino le scarpe
incrostate di fango di Jonathan. Attraversammo il salone da
pranzo con il tavolo apparecchiato per diciotto persone e
giungemmo alla doppia scalinata che portava alle camere da
letto al piano superiore.
«Dov’è Adair?» chiesi a uno dei maggiordomi, ansiosa di
chiudere la faccenda il prima possibile.
«Proprio qui.» La sua voce si levò dietro di me e mi voltai,
vedendolo entrare. Si era vestito con cura, con una studiata
semplicità, i capelli legati sulla nuca da un nastro, alla moda
europea. Come Dona, anche lui esaminò il mio Jonathan come
se dovesse attribuirgli il giusto prezzo al mercato, strofinando le
dita della mano destra. Per parte sua, Jonathan cercò di rimanere
indifferente; lanciò un’occhiata a Adair e distolse subito lo
sguardo. Ma io avvertii distintamente un cambiamento
nell’atmosfera e colsi uno sguardo di riconoscimento passare tra
di loro. Forse era ciò che intendevano i mistici quando parlavano
di un legame tra anime destinate ad attraversare il tempo insieme
in una forma o nell’altra. O forse era una danza di guerra tra
capibranco selvaggi, mentre si chiedevano chi sarebbe stato il
vincitore e quanto sarebbe stato sanguinario il combattimento.
Oppure, era semplicemente il fatto che finalmente Jonathan
aveva di fronte l’uomo che mi aveva conquistata.
«Perciò sarebbe questo l’amico di cui ci hai parlato» disse
Adair, fingendo che fosse tutto semplice, tanto semplice quanto
ospitare un amico.
«Maestà, ho l’onore di presentarvi Jonathan St. Andrew»
dissi, cercando di imitare al meglio il tono di un usciere, ma
nessuno dei due sembrò divertirsi.
«E voi siete...» Jonathan cercò il termine migliore per
descrivere Adair in base ai miei racconti, e in effetti con che
appellativo era possibile definirlo? Mostro? Orco? Demone?
«Lanny mi ha... mi ha raccontato di voi.»
Adair inarcò un sopracciglio. «Davvero? Mi auguro che
Lanny non abbia esagerato troppo di fantasia, infarcendo il
racconto di idee strane che soltanto lei pare possedere. Un
giorno dovrete raccontarmi che cosa vi ha detto.» Schioccò le
dita all’indirizzo di Dona. «Mostra al nostro ospite la sua stanza.
Dev’essere esausto.»
«Posso accompagnarlo io» provai a dire, ma Adair mi
interruppe.
«No, Lanore, resta con me. Vorrei parlarti un momento da
solo.» Fu in quel momento che capii di essere nei guai: vibrava
di rabbia trattenuta, che nascondeva soltanto a beneficio del
nuovo ospite. Guardammo Dona condurre un Jonathan
catatonico su per le scale, finché non scomparvero dalla vista.
Poi Adair si voltò di scatto verso di me e mi schiaffeggiò con
forza in volto.
Scaraventata per terra, mi portai una mano alla guancia e lo
fissai in cagnesco. «Perché l’hai fatto?»
«L’hai trasformato, vero? Mi hai rubato l’elisir e l’hai
trasformato tu. Credevi davvero che non avrei scoperto quello
che hai fatto?» Adair torreggiò su di me, sbuffando come un
cane inferocito, con le spalle tremanti.
«Non ho avuto scelta! Gli hanno sparato... sarebbe morto...»
«Credi che sia stupido? Mi hai rubato l’elisir perché era
questo che avevi in mente fin dall’inizio, trasformarlo! Legarlo
per sempre a te!» Adair si chinò, mi prese per il braccio, mi
costrinse ad alzarmi e mi sbatté contro il muro. Fui assalita dal
panico e dai ricordi: lo scantinato, quella diabolica attrezzatura
di cuoio e legacci, e io totalmente indifesa di fronte alla sua
violenza. Poi mi colpì ancora, un manrovescio che mi
scaraventò a terra un’altra volta. Mi portai ancora la mano alla
guancia e sentii del sangue. Mi aveva squarciato la pelle e anche
se la ferita aveva già iniziato a rimarginarsi, il dolore mi si
irradiò in tutto il cranio.
«Se avessi avuto intenzione di portartelo via, sarei tornata
con lui?» Ancora sul pavimento, strisciai indietro come un
gambero per allontanarmi dalla sua portata, inciampando
sull’orlo della gonna. «No, sarei scappata portandolo con me. È
esattamente come ti ho detto... Ho preso la fiala, sì, ma per
precauzione. Avevo un presentimento, sentivo che sarebbe
successo qualcosa di terribile. Ma sono tornata da te, Adair. Io ti
sono fedele» dissi, anche se nel mo cuore avrei voluto ucciderlo,
vendicarmi della sua violenza, furiosa per l’impossibilità di
difendermi.
Adair mi fulminò con lo sguardo, cercando di capire se
credere alle mie parole. Ma non mi colpì più. Si voltò e se ne
andò, e pronunciò il suo avvertimento in modo che
riecheggiasse in tutta la casa. «Vedremo se la fedeltà che giuri di
avere per me sarà tale. Non credere che finisca qui, Lanore.
Distruggerò ciò che c’è tra te e quell’uomo, lo farò in pezzi così
piccoli che il legame tra di voi sarà meno di niente. Puoi rubare
le mie cose, puoi fare piani alle mie spalle, ma non otterrai mai
nulla. Sei mia, Lanore, e se credi che io non possa disfare quello
che tu hai fatto sei in errore. Anche Jonathan sarà mio.»
Rimasi accasciata sul pavimento, con la mano sulla guancia,
cercando di soffocare il panico che mi avevano suscitato le sue
parole. Non potevo permettergli di togliermi Jonathan. Non
potevo lasciare che distruggesse il mio legame con l’unica
persona al mondo cui tenessi veramente. Se avessi perduto
Jonathan, la vita non avrebbe avuto senso... e, purtroppo, non mi
sarebbe rimasto altro che la vita.
39
Québec, oggi
È quasi mezzanotte quando arrivano a Québec. Lanny
conduce Luke in quello che pare essere il miglior albergo della
città vecchia, un edificio alto simile a una fortezza, con un
parapetto dal quale sporgono bandiere che garriscono al vento
gelido della notte. Ben contento di essere alla guida di un SUV
nuovo di zecca invece che del suo vecchio pickup, Luke porge al
parcheggiatore le chiavi e poi lui e Lanny entrano nella lobby,
senza bagagli.
La camera d’albergo è senza dubbio il posto più lussuoso in
cui sia mai entrato; al confronto, l’albergo in cui è stato durante
il viaggio di nozze impallidisce. Il letto è enorme, con materassi
di piuma, una decina di cuscini e lenzuola Frette, e mentre si
lascia cadere tra le sue braccia vellutate, punta un telecomando
verso il televisore a schermo piatto. Il telegiornale locale
dovrebbe andare in onda entro pochi minuti ed è ansioso di
scoprire se parleranno della scomparsa di una sospetta omicida
da un ospedale del Maine. Luke spera che St. Andrew sia troppo
lontana e insignificante perché la storia arrivi fino in Québec.
Gli cadono gli occhi sul computer portatile di Lanny, ai piedi
del letto. Potrebbe controllare se c’è qualcosa su internet, ma di
colpo è assalito da una paura del tutto irrazionale: se cerca
notizie su di loro in rete, in qualche modo lascerà una traccia, e
le autorità saranno in grado di risalire a loro tramite la
connessione internet e l’uso di parole chiave sospette. Il battito
accelera, anche se sa che non è possibile. La sua paranoia sta
raggiungendo il culmine anche se sa benissimo che non ce n’è
alcuna ragione.
Lanny esce dal bagno avvolta da una nuvola di vapore.
L’accappatoio dell’albergo le sta larghissimo, pende sul suo
corpo minuto, e ha un asciugamano avvolto a turbante in testa,
con alcuni ricci umidi che le cadono sugli occhi. Estrae un
pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca. Prima di
accenderne una, offre il pacchetto a Luke, ma lui fa un cenno di
rifiuto.
«La doccia è paradisiaca» dice, sbuffando un rivolo di fumo
verso l’impianto antincendio sapientemente occultato nel
soffitto. «Dovresti approfittarne anche tu.»
«Tra un minuto» risponde lui.
«Che cosa c’è in televisione? Stai controllando se parlano di
noi?»
Lui annuisce, agitando il piede verso lo schermo. Compare il
logo del notiziario e poi un uomo di mezz’età dall’aspetto serio
inizia ad annunciare i titoli di testa mentre il suo co-conduttore
annuisce. Lanny rimane seduta con le spalle rivolte allo
schermo, asciugandosi i capelli. Al settimo minuto del
notiziario, lo schermo si riempie con una foto di Luke. È lo
scatto del tesserino dell’ospedale, quello che appare ogni volta
che il suo nome viene menzionato nella newsletter ospedaliera.
«... è scomparso ieri sera dopo aver curato una donna
sospettata di omicidio all’ospedale della contea di Aroostook, e
le autorità temono che possa essergli accaduto qualcosa di
grave. La polizia chiede a chiunque sappia dove si trovi
attualmente il dottore di chiamare il numero in
sovrimpressione...»
Il servizio dura meno di un minuto, ma lo sconvolge vedere il
proprio volto in televisione, al punto che non riesce a prestare
ascolto alle parole del giornalista. Lanny gli prende il
telecomando dalle mani e spegne il televisore.
«A quanto pare ti stanno cercando» dice, e la sua voce lo
risveglia dalla momentanea paralisi.
«Ma non dovrebbero attendere quarantott’ore prima di
considerarlo ufficialmente un caso di persona scomparsa?»
chiede lui, leggermente indignato, come se avesse subito
un’ingiustizia.
«Non hanno aspettato perché ti considerano in pericolo.»
E lo sono? si chiede. Non è che lo sceriffo Joe Duchesne sa
qualcosa che io non so? «Hanno fatto il mio nome in diretta.
L’hotel...»
«Non c’è motivo di preoccuparsi. La stanza l’abbiamo presa
a mio nome, ricordi? La polizia di St. Andrew non sa come mi
chiamo. Nessuno può fare due più due, in questo caso.» La
ragazza si volta ed esala un altro sbuffo di fumo. «Andrà tutto
bene. Fidati di me. Sono un’esperta della fuga.»
Luke sente il cervello premere contro le pareti interne del
cranio, come se volesse schizzare fuori. L’enormità di ciò che ha
fatto lo assale: Duchesne vorrà parlare con lui. Peter, senza
dubbio, avrà detto alla polizia del SUV e dell’e-mail, perciò lui e
Lanny non possono certo continuare a usare quel veicolo. Per
poter tornare a casa, dovrà mentire in modo estremamente
convincente allo sceriffo e ripetere la stessa menzogna a tutti
quanti, a St. Andrew, forse per il resto della sua vita. Chiude gli
occhi, respira e cerca di riflettere con calma. È stato il suo istinto
a spingerlo ad aiutare Lanny. Perciò, se solo riuscisse ad
arginare il panico che gli ottunde i pensieri, il suo istinto gli
potrebbe rivelare ciò che veramente vuole, perché è fuggito in
quel modo dalla sua vita, perché si è lanciato in fuga con quella
sconosciuta, facendo terra bruciata dietro di sé. «Significa che
non potrò mai tornare indietro?» chiede.
«Se è quello che vuoi, perché no?» risponde lei, con cautela.
«Ti faranno un sacco di domande, ma niente che tu non possa
gestire. Ma tu vuoi davvero tornare a St. Andrew? Vuoi tornare
alla fattoria dei tuoi genitori, a quella casa piena dei loro ricordi
ma senza le tue figlie? Vuoi tornare all’ospedale a prenderti cura
dei tuoi ingrati concittadini?»
Luke si sente ancora più a disagio. «Non voglio parlarne.»
«Luke, ascoltami. So cosa stai pensando.» Scivola sul letto e
si siede accanto a lui, vicina, così che lui non possa voltarsi. Lui
sente un leggero profumo di sapone che, spinto dal calore della
pelle, si leva da sotto l’accappatoio. «Vuoi tornare lì solo perché
lì c’è tutto quello che conosci. Tutto quello che ti rimane.
L’uomo che ho visto entrare nel pronto soccorso mi è sembrato
esausto, sfinito. Hai dovuto affrontare la perdita dei tuoi
genitori, di tua moglie, delle tue figlie... Ormai non c’è più
niente per te, là. È una prigione. Se ora torni a St. Andrew, ci
rimarrai per il resto della tua vita. Invecchierai circondato da
persone che non si interessano minimamente a te. So che cosa
stai provando. Sei da solo e hai paura di rimanere da solo per il
resto della tua vita, a vagare in una grande casa senza nessuno
con cui parlare. Nessuno che sia al tuo fianco nelle piccole cose
della vita quotidiana – nessuno con cui cenare, nessuno che ti
ascolti raccontare com’è andata la giornata. Hai paura della
vecchiaia – chi ci sarà con te? Chi si prenderà cura di te come tu
ti sei preso cura dei tuoi genitori, chi ti terrà per mano quando
sarai in punto di morte?»
Luke sa che quelle parole sono tanto brutali quanto vere, e
non riesce a sopportarlo. Lei gli avvolge un braccio attorno alle
spalle e quando lui non la respinge lei lo attira a sé e preme il
volto sul suo braccio.
«Hai tutti i motivi di aver paura di morire. La morte si è presa
tutti quelli che conoscevo. Li ho tenuti fra le mie braccia, nel
momento della fine, li ho confortati, ho pianto quando se ne
sono andati. La solitudine è una cosa terribile.» Sono parole
assurde, dette da una ragazza così giovane, ma la sua tristezza è
profonda e palpabile. «Posso stare per sempre con te, Luke. Non
me ne andrò. Starò con te per il resto della tua vita, se vorrai.»
Luke non si allontana da lei, ma pensa alle sue parole. Non gli
sta proponendo amore, giusto? No, Luke lo sa bene, non è uno
stupido. Ma non è nemmeno amicizia, non esattamente. Non si
illude che lui e Lanny si siano trovati, che siano anime gemelle:
si conoscono da meno di trentasei ore. Perciò, crede di capire
bene che cosa esattamente gli stia offrendo quella ragazza. Lei
ha bisogno di un compagno. Luke ha seguito un istinto che non
credeva albergasse dentro di lui e l’ha aiutata. Perciò, lei crede
che possa funzionare. In cambio, lui può lasciarsi alle spalle le
complicazioni della sua vecchia vita senza dover far niente,
senza nemmeno dover chiudere il contratto dell’elettricità. E
non sarà mai più solo.
Rimane fra le braccia di Lanny, lascia che lei gli accarezzi la
schiena, godendo della sensazione della sua mano sulla pelle.
Lentamente gli si schiariscono le idee e Luke si sente in pace per
la prima volta da quando lo sceriffo l’ha portata nel pronto
soccorso.
Sa che, se ci pensa troppo, la sua mente tornerà ad
annebbiarsi. Gli sembra di essere un personaggio di una fiaba,
ma se si sofferma troppo a riflettere su quanto sta accadendo, se
rifiuta il richiamo della storia di Lanny, la confusione tornerà.
Avverte la tentazione di non mettere in dubbio il mondo
invisibile di Lanny. Se accetta che quello che lei gli ha
raccontato è vero, dovrà ammettere che ciò che ha sempre
pensato della morte è falso. Ma Luke è un medico, ha visto più
volte la morte, ha visto più volte la vita abbandonare un
paziente. Ha imparato ad accettare la morte come uno dei pochi
assoluti esistenti, e ora lei gli sta dicendo che non è così. Ci sono
alcuni destini che sono stati iscritti nel codice della vita in
inchiostro invisibile. Se la morte non è un assoluto, allora quali
altri fatti, quali altre convinzioni che ha appreso nella vita sono
bugie?
Ammesso che la storia di quella ragazza sia vera. Anche se
finora l’ha seguita in una sorta di stupore annebbiato, Luke non
riesce ancora a scrollarsi di dosso il dubbio di essere vittima di
un inganno. È evidente che lei è molto brava a manipolare le
persone, come molti psicopatici.
Ma ora non riesce a pensare a tutto questo. Lei ha ragione su
una cosa, almeno: è stanco, sfinito, e ha paura di giungere alla
conclusione errata, di prendere la decisione sbagliata.
Si lascia andare sul cuscino, dal leggero profumo di lavanda,
e si accuccia contro il corpo caldo di Lanny. «Non ti
preoccupare. Non andrò da nessuna parte, ora. Anche perché
non mi hai raccontato il resto della tua storia. Voglio sapere
cos’è successo dopo.»
40
Boston, 1819
Quella sera, la prima sera di Jonathan a Boston, uscimmo.
L’evento era una cosa piuttosto tranquilla – un concerto tenuto
da un pianista e un cantante sconosciuto – ma io non credevo
comunque che fosse una buona idea portarlo fuori, era ancora in
stato confusionale, la sua mente era in subbuglio. La parola
d’ordine di Adair era sempre stata la segretezza. Aveva
raccontato a tutti noi le occasioni in cui era stato sospettato di
stregoneria ed era riuscito a malapena a scappare da folle
inferocite, fuggendo a cavallo nelle notti di luna, lasciandosi alle
spalle fortune che aveva impiegato decenni ad accumulare. E
Dio solo sapeva che cosa poteva lasciarsi sfuggire Jonathan
visto lo stato in cui era ridotto. Ma Adair non si lasciò
dissuadere, ci mandò a cercare nei bauli un completo da sera che
andasse bene a Jonathan. Alla fine, però, impose a Dona di
cedere a Jonathan il suo meraviglioso completo francese
(Jonathan era alto come Dona, aveva solo le spalle più larghe) e
ordinò a una servetta di fare le necessarie modifiche, mentre noi
ci truccavamo, ci profumavamo e ci vestivamo.
Avremmo introdotto Jonathan nel bel mondo cittadino; ma
non poteva certo dichiarare il suo vero nome. «Devi ricordarti di
presentarti con un altro nome» gli spiegò Adair, mentre i
servitori ci aiutavano a indossare i mantelli e i cappelli alla luce
del candelabro nell’ingresso. «Non possiamo permettere che
giunga voce al tuo villaggetto sperduto che Jonathan St. Andrew
è stato visto a Boston.»
La ragione era ovvia: la famiglia di Jonathan l’avrebbe
cercato in lungo e in largo. Ruth St. Andrew non si sarebbe mai
arresa al mistero della scomparsa di suo figlio. Avrebbe
organizzato ricerche in tutto il circondario, e poi nei boschi e
nelle foreste. Quando la neve si fosse sciolta a primavera senza il
rinvenimento del corpo, avrebbe dedotto che Jonathan se n’era
andato di sua volontà e avrebbe allargato ulteriormente le maglie
della ricerca, nel disperato tentativo di trovarlo. Non potevamo
permetterci di lasciare tracce che avrebbero potuto condurre
qualcuno fino a noi.
«Perché ci tieni tanto a portarlo fuori già stasera? Perché non
lasci che si riprenda con calma?» domandai stizzita a Adair
mentre salivamo sulla carrozza. Mi guardò come se fossi
un’idiota, una bambina fastidiosa e stupida.
«Perché non voglio che si chiuda nella sua stanza, al buio, a
ripensare a ciò che si è lasciato alle spalle. Voglio che veda ciò
che il mondo ha da offrirgli.» Sorrise a Jonathan, anche se
Jonathan aveva lo sguardo scuro e perso fuori dal finestrino
della carrozza, indifferente perfino alla mano di Tilde che gli
carezzava provocatoriamente il ginocchio. C’era qualcosa nella
risposta di Adair che non mi convinceva, e avevo imparato a
fidarmi del mio istinto quando mi diceva che Adair stava
mentendo. Adair voleva che Jonathan fosse visto in pubblico,
ma il motivo mi sfuggiva.
La carrozza ci condusse a un edificio alto e imponente non
molto lontano dal parco di Boston. Era la casa di un consigliere
municipale e avvocato, la cui moglie era impazzita per Adair. O
meglio, era impazzita per ciò che Adair incarnava: l’aristocrazia
europea e l’eleganza più raffinata. Se solo avesse saputo che, in
verità, stava intrattenendo il figlio di uno zingaro, un contadino
con le mani lorde di fango e di sangue...
Il marito si recava sempre nella fattoria di famiglia, ai confini
della città, quando sua moglie dava una delle sue feste ed era
meglio così, perché avrebbe avuto un colpo apoplettico se
avesse visto che cosa accadeva in quelle occasioni e come sua
moglie spendeva i suoi soldi.
Oltre ad aggrapparsi al braccio di Adair per la maggior parte
della serata, la moglie del consigliere cercava sempre di farlo
interessare alle sue figlie. Nonostante l’America avesse da poco
conquistato la propria indipendenza e avesse scelto la
democrazia invece della monarchia, c’erano ancora molte
persone innamorate dell’idea di una dinastia reale, e la moglie
del consigliere probabilmente sognava di far sposare una delle
sue figlie a un nobile. Mi aspettavo che, al nostro arrivo, si
sarebbe abbattuta su Adair come una tempesta di gonne di
taffettà e di inchini, conducendo nella sua scia le figlie e
spingendole sempre più vicine al conte, così che lui potesse
agevolmente sbirciare nel loro décolleté.
Ma quando Jonathan fece il suo ingresso nel salone da ballo,
tutti si azzittirono per un momento e poi cominciarono a
serpeggiare dei mormorii. Non è esagerato dire che tutti,
nessuno escluso, gli puntarono gli occhi addosso. Tilde lo prese
sottobraccio e lo condusse dove si trovava Adair in
conversazione con l’ospite.
«Permettetemi di presentarvi» disse Adair e poi fornì alla
moglie del consigliere un nome con cui ricordare Jonathan,
Jacob Moore, un nome molto comune. Lei alzò lo sguardo e
rimase senza fiato.
«È un mio cugino ed è americano, pensate un po’.» Adair
posò un braccio sulle spalle di Jonathan. «La famiglia di sua
madre è inglese, così come quella della mia, e siamo lontani
parenti...» Adair smise di parlare quando si accorse che nessuno
– per la prima volta da quando era arrivato in America – lo stava
ad ascoltare.
«Siete appena arrivato a Boston?» chiese la donna a
Jonathan, senza staccare gli occhi dal suo volto. «Perché di certo
mi ricorderei di voi se vi avessi visto prima.»
Io ero accanto al tavolino del punch con Alejandro, a
guardare Jonathan che abbozzava una spiegazione, con Adair
che cercava di soccorrerlo. «Credo proprio che non rimarremo
qui molto, stasera» osservai.
«Non sarà così facile come crede Adair.» Alejandro sollevò il
calice nella loro direzione. «È impossibile nascondere un volto
come quello. Si spargerà la voce, e potrebbe arrivare perfino al
tuo villaggetto dimenticato da Dio.»
C’erano preoccupazioni più urgenti, comunque, pensai
osservando Jonathan e Adair insieme. Le donne si raccoglievano
in branco non attorno all’aristocratico europeo ma davanti allo
sconosciuto alto e bello. Lo fissavano da dietro i ventagli aperti.
Si mettevano in fila, rosse in volto, in attesa di essere presentate.
Avevo già visto quelle espressioni in passato, e in quel momento
capii che la cosa non sarebbe mai cambiata. Ovunque Jonathan
fosse andato, le donne avrebbero cercato di possederlo. Anche
se lui non faceva niente per incoraggiarle, avrebbero sempre
tentato di conquistarlo. La competizione era stata già difficile in
un posto piccolo come St. Andrew, ma a Boston... Capii che da
quel momento in poi Jonathan non sarebbe mai più stato mio,
mio e basta, avrei sempre dovuto condividerlo con qualcuno.
Quella sera, Adair sembrò soddisfatto di cedere la scena a
Jonathan; e, in effetti, sembrava prestare particolare attenzione
alle reazioni delle altre persone. Ma non potevo fare a meno di
chiedermi quanto sarebbe durato. Adair non mi sembrava il tipo
capace di vivere all’ombra di un’altra persona; fino a quel
momento lui era sempre stato il polo d’attrazione, e così voleva
che andassero le cose, inevitabilmente. Anche Jonathan non
avrebbe avuto altra scelta.
«Sento che presto ci saranno guai grossi» mormorai ad
Alejandro.
«Quando c’è di mezzo Adair, ci sono sempre guai. Si tratta
soltanto di vedere quanto grossi.»
Rimanemmo più a lungo di quanto pensavo. La notte stava
per arrendersi allo sbocciare purpureo dell’alba quando
rientrammo verso casa, stanchi e silenziosi. Notai che Jonathan
aveva iniziato a uscire dal suo guscio. Forse perché aveva
bevuto troppo, aveva le guance arrossate e sembrava
decisamente meno nervoso.
Salimmo le scale in silenzio e il rintocco dei nostri tacchi sul
pavimento di marmo riecheggiò per tutta la casa, vuota. Tilde
prese Jonathan per mano, cercando di portarselo in camera, ma
lui si sottrasse alla presa, scuotendo il capo. Uno a uno, i
cortigiani scomparvero dietro le porte dorate delle loro camere
finché non rimanemmo che io, Adair e Jonathan. Stavo per
riaccompagnare Jonathan nella sua camera, per dirgli qualche
parola di rassicurazione e, con un po’ di fortuna, essere invitata a
riscaldarlo sotto le coperte, quando fui fermata da un braccio
attorno alla vita. Adair mi fece voltare e mi strinse a sé. Davanti
a Jonathan, mi infilò una mano sotto il corpetto e mi palpò il
sedere. Con un calcio, aprì la porta della sua camera.
«Vuoi unirti a noi stanotte?» disse a Jonathan strizzando
l’occhio. «Sarà una notte indimenticabile, per celebrare il tuo
arrivo. Lanore è perfettamente in grado di dare piacere a
entrambi, l’ha già fatto parecchie volte. Dovresti vedere tu
stesso: è particolarmente portata per compiacere due uomini
contemporaneamente.»
Jonathan impallidì e indietreggiò.
«No? Allora sarà per un’altra volta. Forse quando sarai più
riposato. Buona notte» disse Adair e mi trascinò dietro di sé. Era
impossibile fraintendere il suo messaggio: io non ero altro che
una puttana qualunque. Era così che Adair voleva uccidere
qualsiasi amore Jonathan provasse per me, e in quell’istante
capii che ero stata stupida a dubitare che Adair potesse portare a
compimento la sua minaccia. Riuscii a malapena a guardare il
volto di Jonathan – sconvolto, ferito – prima che la porta si
richiudesse.
La mattina seguente, raccolsi i miei vestiti e, in sottoveste e a
piedi nudi, andai davanti alla camera da letto di Jonathan, in
attesa di udire qualcosa che mi facesse capire che era sveglio.
Impazzivo nell’attesa di sentire i rumori del risveglio – il fruscio
delle lenzuola, l’acqua nella bacinella – perché mi avrebbero
lasciato intendere che tutto era normale. Non sapevo se ce
l’avrei fatta ad affrontarlo. Volevo vederlo per avere le stesse
rassicurazioni che i bambini cercano sul volto dei genitori dopo
essere stati puniti, ma mi mancava il coraggio di bussare. In ogni
caso dentro era tutto silenzioso e immobile, e vista la lunga e
tormentata giornata che Jonathan aveva trascorso, dovevo
aspettarmelo che dormisse per un giorno filato.
Così tornai nella mia camera, mi lavai e indossai vestiti puliti,
poi mi avviai al piano di sotto sperando che, nonostante fosse
così presto, i servitori avessero già preparato il caffè. Con mia
sorpresa, c’era Jonathan seduto nella sala da pranzo piccola, con
una tazza di latte caldo fumante e del pane davanti a sé, sul
tavolo. Sollevò lo sguardo su di me.
«Ti sei svegliato» dissi, stupidamente constatando l’ovvio.
Lui si alzò e spostò indietro la sedia di fronte alla sua. «È tutta
la vita che seguo gli orari dei contadini. Sono sicuro che ti
ricordi ancora com’era a St. Andrew. Se dormivi oltre le sei di
mattina, entro mezzogiorno tutto il villaggio avrebbe sparlato di
te. L’unico caso in cui era ammesso era se ti trovavi sul letto di
morte» disse ironicamente. Un giovane servitore assonnato
portò una tazza e un piattino, rovesciando goffamente un po’ di
caffè oltre il bordo della tazza, poi la posò accanto al mio
braccio sinistro, annuì e se ne andò.
Anche se la sera prima non avevo fatto altro che pensare a
come spiegare la mia situazione a Jonathan, in quel momento mi
trovai senza parole. Non avevo idea di come cominciare, quindi
mi ritrovai a giocherellare nervosamente con la delicata
maniglia della tazza. «Quello che hai visto la notte scorsa...»
Jonathan alzò una mano, con il volto contratto, come se non
avesse alcuna voglia di affrontare quel discorso pur sapendo di
doverlo fare. «Non so perché ho reagito in quel modo ieri sera...
Mi avevi spiegato con sufficiente chiarezza la tua situazione
quando ancora eravamo a St. Andrew. Se ti sono sembrato
sconvolto è perché, come dire, non mi aspettavo che Adair mi
facesse quella proposta.» Jonathan si schiarì la voce. «Sei
sempre stata la mia più cara amica, Lanny...»
«Questo non è cambiato, Jonathan.»
«... ma non ti direi la verità se negassi che le sue parole mi
hanno sconvolto. Non sembra il tipo d’uomo che una donna
dovrebbe permettersi di amare.» Sembrava particolarmente
afflitto da quello che mi stava dicendo. Abbassò lo sguardo sul
tavolo. «Tu lo ami?»
Come poteva pensare che io amassi qualcun altro che non
fosse lui? Ma non sembrava geloso, soltanto preoccupato.
«L’amore non c’entra niente» risposi tetra. «Devi capirlo.»
La sua espressione cambiò di colpo, come se gli fosse venuto
in mente qualcosa. «Non dirmi che ti... che ti costringe a fare
quelle cose?»
Arrossii. «Non esattamente.»
«Quindi tu vuoi stare con lui?»
«Non più, ora che ci sei tu qui» risposi, e lui sembrò
imbarazzato, ma non seppi dire perché. In quel momento, non
volevo altro che avvisare Jonathan delle intenzioni di Adair nei
suoi riguardi. «Ascolta, c’è una cosa che ti devo dire su Adair,
anche se ormai probabilmente l’hai intuita avendo conosciuto
Dona e Alejandro. Loro sono...» Esitai, incerta su quanto altro
potesse sopportare Jonathan dopo tutto quello che aveva passato
nelle ultime ventiquattr’ore.
«Sono sodomiti» disse lui con semplicità, portandosi la tazza
di caffè alle labbra. «Uno non passa un’intera vita in mezzo ai
taglialegna, che non hanno altra compagnia se non quella
maschile, senza intuire qualcosa al riguardo.»
«Loro vanno a letto con Adair. Vedi, Adair ha un’indole
piuttosto peculiare» dissi. «È un fanatico del sesso, in qualsiasi
forma. Ma non c’è traccia di amore o di tenerezza in quello che
fa.» Mi fermai prima di dire che Adair usava il sesso come
forma di punizione, per esercitare il suo potere su di noi, per
costringerci a obbedirgli. Non dissi niente perché avevo paura,
proprio come Alejandro non mi aveva detto nulla per paura che
la verità mi sconvolgesse.
Jonathan mi guardò negli occhi, con la bocca serrata. «In che
cosa mi hai trascinato, Lanny?»
Gli presi la mano. «Mi dispiace, Jonathan, davvero. Devi
credermi. Ma... Anche se non vuoi sentirmelo dire, per me è di
immenso conforto averti qui. Sono stata così sola. Avevo
bisogno di te.»
Lui ricambiò la stretta alla mano, anche se con una certa
riluttanza.
«E poi» continuai, «cos’altro potevo fare? Kolsted ti aveva
sparato. Stavi sanguinando, stavi morendo fra le mie braccia. Se
non avessi agito subito, saresti...»
«Morto, lo so. È solo che... Spero di non trovarmi mai a
sperare di esserlo.»
Quella mattina, Adair convocò il sarto. Jonathan aveva
bisogno di un guardaroba nuovo, decretò. Non poteva
permettere che il suo nuovo ospite fosse visto in pubblico con
vestiti inadeguati e di misura sbagliata. Visto che tutti gli altri
membri della nostra conventicola erano fanatici di vestiti e
avevano arricchito il sarto, il signor Drake accorse ancor prima
che la tavola della colazione fosse sparecchiata, accompagnato
da uno stuolo di assistenti che trasportavano enormi rotoli di
stoffa. Lane e velluti, sete e broccati provenienti dalle case di
moda europee. Cofanetti colmi di costosissimi bottoni di
madreperla e di osso, fibbie in peltro per le scarpe. Sentivo che
Jonathan non approvava e non voleva indebitarsi con Adair per
avere un guardaroba di lusso, ma non disse niente. Io rimasi
seduta su uno sgabello ai margini dell’attività frenetica in corso,
guardando con desiderio quelle stoffe meravigliose, sperando di
ottenere a mia volta un paio di vestiti.
«Sai, anche a me servirebbero un po’ di cose nuove» dissi a
Adair, avvicinando uno scampolo di satin rosa alla guancia per
vedere se si abbinava bene al mio incarnato. «Ho dovuto lasciare
tutto il mio guardaroba a St. Andrew quando siamo scappati e ho
dovuto anche vendere l’ultimo gioiello che avevo per pagare la
nave fino a Boston.»
«Non ricordarmelo» mi rispose seccamente.
Il signor Drake fece salire Jonathan su uno sgabello davanti
allo specchio più grande della casa e iniziò a prendere le misure
con un nastro, impressionato dalle proporzioni del corpo di
Jonathan. «Santo cielo, quanto siete alto» commentò, muovendo
le mani sulla schiena di Jonathan, poi sui fianchi e infine –
provocandomi un mancamento – lungo l’interno delle cosce per
prendere le misure del cavallo. «Il signore calza a sinistra»
mormorò Drake, con tono incantato, rivolto a un assistente che
annotava le misure.
L’ordinativo per il sarto era lungo e articolato: tre redingote e
una decina di paia di pantaloni, incluso un paio fatto di squisita
pelle di daino per andare a cavallo; una decina di camicie,
inclusa una ornata di pizzo per le serate di gala; quattro gilet;
almeno una decina di cravatte. Un paio di stivali nuovi. Calze e
reggicalze di lana e di seta, tre paia ciascuno. E questo per le
necessità più immediate. Altri ordini sarebbero arrivati quando
fosse giunto un nuovo carico di stoffe da Londra e Parigi. Il
signor Drake stava ancora annotando gli ordini quando Adair
posò un grosso rubino sul tavolo, davanti al sarto. Non fu
scambiata una parola ma, dal sorriso che spuntò sul volto di
Drake, era chiaro che la ricompensa gli andava più che bene.
Quello che non sapeva era che il gioiello era soltanto una
bagatella, presa da una scatola che ne conteneva moltissime
altre, una scatola fra tante. Adair aveva tesori che risalivano al
sacco di Vienna. Una gemma di quelle dimensioni era come un
fiorellino di campo per Adair.
«Voglio anche un cappotto per il mio amico, e che sia ben
foderato di raso pesante» aggiunse Adair, facendo girare il
rubino sul tavolo come una trottola.
Il rubino aveva attirato lo sguardo di tutti i presenti e, per una
frazione di secondo, fui soltanto io a vedere lo sguardo di
approvazione che Adair rivolse a Jonathan, dal collo alla
schiena, ai glutei sodi. Era uno sguardo così apertamente
voglioso, così carico di desiderio che il mio cuore si raggelò di
terrore al pensiero di quello che attendeva il mio Jonathan.
Mentre il sarto rimetteva via la sua attrezzatura, giunse uno
sconosciuto a far visita a Adair. Un gentiluomo dall’aria tetra,
con due libri contabili e il necessario per scrivere – inchiostro,
pennini – sotto il braccio. I due andarono immediatamente nello
studio senza dire niente a nessuno.
«Sai chi sia quell’uomo?» chiesi ad Alejandro guardando la
porta dello studio chiudersi.
«Un notaio. Adair ha assunto un notaio mentre tu eri via. Lo
capisco: adesso che siamo in questa nazione, ci sono da risolvere
faccende legali che riguardano le sue proprietà in Europa. Di
tanto in tanto succede. È un fatto senza importanza» rispose,
come se fosse la cosa più noiosa del mondo. Perciò in quel
momento non ci badai.
«È una stupidaggine» disse Jonathan quando Adair gli
comunicò che stava arrivando un pittore per fare i bozzetti di un
suo ritratto a olio.
«Sarebbe un delitto non affidare all’eternità di una tela dei
lineamenti come i tuoi» controbatté Adair. «Ci sono uomini
molto più comuni che si sono fatti immortalare per i posteri, che
hanno imbrattato i muri delle loro case con i loro brutti ceffi. E
questa casa non fa eccezione» disse Adair, indicando le pareti
coperte di ritratti, affittati insieme alla casa per avere un
pedigree bell’e pronto. «E poi, la signora Warner mi ha parlato
di questo pittore di talento e voglio vedere se si merita le lodi che
gli stanno piovendo addosso da tutte le parti. E dovrebbe essere
grato agli dei di poter avere un modello come te, te lo assicuro. Il
tuo volto potrebbe segnare una svolta nella sua carriera.»
«Non mi interessa proprio niente della sua carriera» ribatté
Jonathan, ma sapeva che era una battaglia persa. Accettò di
posare per il pittore, ma non fu per niente collaborativo: si
accasciò su una sedia, la guancia appoggiata a una mano,
un’espressione scocciata, come uno scolaretto costretto a
rimanere in classe per punizione. Io stetti su una sedia accanto
alla finestra per tutta la seduta, fissando Jonathan, rapita,
vedendo la sua bellezza con occhi nuovi, quelli dell’artista che
lo ritraeva in rapidi bozzetti a carboncino. Il pittore sembrava
più che soddisfatto di aver avuto la fortuna di poter lavorare su
un soggetto così rimarchevole e guadagnarci pure.
Dona, che un tempo era stato la musa di un pittore famoso,
rimase accanto a me tutto il pomeriggio, con la scusa di
osservare la tecnica del pittore. Ma notai che guardava più
Jonathan che i bozzetti.
«Diventerà il prediletto, vero?» disse Dona a un certo punto.
«Basta questa faccenda del ritratto per capirlo. Adair fa ritrarre
soltanto i suoi favoriti. L’odalisca, per esempio.»
«Ma cosa comporta essere il suo favorito?»
Mi guardò in tralice. «Su, non fare l’ingenua con me. Anche
tu per qualche tempo sei stata la favorita di Adair. E in un certo
senso lo sei ancora. Perciò sai benissimo che ha un certo peso.
Lui vuole le tue attenzioni a ogni momento. È molto esigente e si
annoia in fretta, specialmente quando si tratta di sesso» disse
Dona, inarcando le spalle come a dire che era ben contento di
non essere più sotto pressione, di non dover essere lui a
inventarsi sempre nuovi modi per portare Adair all’orgasmo. Lo
osservai attentamente, studiando i suoi lineamenti mentre
parlava. Anche lui era un bell’uomo, sebbene la sua bellezza
fosse stata rovinata per sempre dall’infelicità che aveva dentro.
Una malignità segreta gli velava lo sguardo e gli piegava la
bocca in un ghigno.
«Quindi Adair ha fatto fare ritratti soltanto di loro due?»
chiesi, riprendendo la conversazione. «Soltanto di Uzra e ora di
Jonathan?»
«Oh, ce ne sono stati altri. Soltanto quelli di bellezza
immensa. Ha lasciato i loro ritratti in un magazzino nel vecchio
continente, volti d’angelo rinchiusi in una cripta. Sono quelli
caduti in disgrazia. Forse un giorno li vedrai.» Inclinò la testa,
osservando Jonathan con occhio critico. «I ritratti, intendo.»
«I ritratti...» ripetei. «Ma i caduti? A loro che cosa è
successo?»
«Be’, alcuni se ne sono andati. Con la benedizione di Adair,
naturalmente. Nessuno se ne può andare, altrimenti. Si sono
dispersi come foglie al vento... Raramente ci capita di rivederli.»
Fece una pausa. «Tu hai conosciuto Jude, però, ora che ci penso.
La sua partenza non è stata certo una perdita. Che idea diabolica,
quella di farsi credere un prete. Un peccatore nell’abito di un
santo.» Dona rise, come se fosse la cosa più divertente che
poteva immaginare: uno dei dannati mascherato da predicatore.
«Hai detto che soltanto alcuni se ne sono andati. E gli altri?
Qualcuno se n’è andato senza il permesso di Adair?»
Dona mi rivolse un sorriso tirato e malevolo. «Non far finta
di essere stupida. Se fosse possibile lasciare Adair senza il suo
permesso, secondo te Uzra sarebbe ancora qui? Frequenti Adair
da abbastanza tempo per sapere che non è né incauto né
sentimentale. O te ne vai con la sua benedizione oppure, be’...
Non lascerebbe mai in giro qualcuno che volesse vendicarsi di
lui rivelando la sua esistenza alle persone sbagliate, non credi?»
E queste furono le ultime parole che Dona era disposto a dire sul
nostro misterioso padrone. Abbassò lo sguardo su di me e,
pensando che fosse meglio non rivelare altro, uscì dalla stanza,
lasciandomi a riflettere su tutto quello che mi aveva detto.
Fu in quel momento che Jonathan si alzò di scatto dalla sedia,
irritato. «Ne ho abbastanza di questa stupidaggine. Non ne posso
più» disse, seguendo Dona fuori dalla stanza. Il pittore, deluso,
vide la sua fortuna uscire dalla porta con lui. Alla fine, non ci fu
alcun ritratto di Jonathan. Adair fu costretto ad accontentarsi di
uno schizzo a carboncino che fece incorniciare sotto vetro e
appendere nello studio. Quello che Adair non sapeva era che
Jonathan sarebbe stato l’ultimo dei suoi favoriti a essere
immortalato in un ritratto. Perché tutti i suoi piani, tutte le sue
intenzioni, erano sul punto di essere sovvertiti per sempre.
41
Dopo il successo della prima notte, Adair cominciò a portare
Jonathan con sé ovunque. Oltre alle solite serate di gala, iniziò a
trovare occasioni per loro due soltanto, lasciando noi altri
abbandonati a noi stessi. Adair e Jonathan andavano alle corse di
cavalli in campagna, a cene e dibattiti nei club per gentiluomini,
a lezioni alla Harvard. Venni a sapere che Adair portava
Jonathan nei bordelli più esclusivi della città, dove pagava sei o
sette ragazze che si prendessero cura di entrambi. L’orgia
sembrava una sorta di rituale inteso a rafforzare il legame fra
loro due, come un patto di sangue. Adair faceva conoscere a
Jonathan tutte le cose che apprezzava della vita: impilava
romanzi sul comodino di Jonathan (gli stessi che aveva fatto
leggere a me quando mi aveva preso sotto la sua ala), faceva
preparare dei manicaretti apposta per lui. Si parlò perfino di
tornare nel vecchio continente, così che Jonathan potesse
visitarne le grandi città. Era come se Adair avesse deciso di
creare una storia che i due potessero condividere. Avrebbe fatto
vivere a Jonathan la sua stessa vita. Era uno spettacolo
agghiacciante, ma riusciva a distrarre Jonathan. Non mi aveva
più parlato dei suoi timori per la sua famiglia e per le sorti del
villaggio da quando eravamo partiti, anche se ero sicura che ci
pensasse di tanto in tanto. Forse non ne parlava per riguardo nei
miei confronti, dato che non c’era niente che potessimo fare per
cambiare la situazione.
Fu dopo qualche tempo che le cose andavano avanti così, con
i due uomini che passavano quasi tutto il tempo in compagnia
esclusiva, che Adair mi prese da parte. Gli altri oziavano nel
solarium, insegnando a Jonathan a giocare a faraone, mentre io e
Adair li guardavamo dal divano, come due genitori che
osservano i loro figli giocare in armonia.
«Adesso che ho potuto frequentare il tuo Jonathan, mi sono
fatto un’opinione su di lui... Vuoi sapere che cosa ne penso?» mi
disse Adair a voce bassa per non farsi sentire. Mentre parlava, il
suo sguardo non abbandonò mai Jonathan. «Non è l’uomo che
credi che sia.»
«E tu che cosa ne sai di cosa penso di lui?» Cercai di
sembrare sicura di me ma non riuscii a trattenere un tremito
nella voce.
«So che sei convinta che un giorno capirà e si darà anima e
corpo soltanto a te» disse con sarcasmo, come a dire che gli
importava ben poco quello che pensavo.
Dimenticare tutte le altre... Già una volta Jonathan aveva
fatto questo voto a una donna, e non era servito a molto.
Probabilmente era rimasto fedele a Evangeline per un mese al
massimo dopo averla sposata. Atteggiai la bocca a un sorriso
disinvolto. Non volevo dare a Adair la soddisfazione di fargli
capire che mi aveva ferita.
Adair si sistemò meglio sul divano, accavallando le gambe.
«Non dovresti prendertela così a cuore per la sua natura
incostante. Non è capace di un simile amore, per nessuna donna
al mondo. Non è capace di nessuna emozione che prevalga sulla
sua percezione di sé, su ciò che vuole e che desidera. Per
esempio, mi ha detto di essere dispiaciuto di provocarti tanta
infelicità...»
Mi conficcai le unghie nel dorso della mano, ma non ne seguì
alcun dolore che potesse distrarmi.
«... ma non sa cosa farci. Per qualsiasi uomo la soluzione
sarebbe ovvia: o darti quello che vuoi oppure rompere ogni
rapporto con te. Ma lui ha ancora bisogno della tua compagnia,
perciò non riesce a staccarsi da te.» Sospirò con fare teatrale.
«Ma non disperare. Non hai perso tutte le speranze. Forse
arriverà il giorno in cui sarà capace di amare una sola persona e
c’è una possibilità, per quanto tenue, che quella persona sia tu.»
E poi rise.
Quanto avrei voluto schiaffeggiarlo. Gettarmi su di lui,
stringergli le mani attorno al collo e soffocarlo.
«Sei furiosa con me, lo sento.» Perfino la mia rabbia
impotente sembrava divertirlo. «Sei arrabbiata perché sai che ti
ho detto la verità.»
«Sono furiosa con te» risposi, «perché mi stai mentendo. Stai
cercando di fare a pezzi i miei sentimenti per Jonathan.»
«Sono riuscito a sconvolgerti, però, no? Certo, ammetto che
di solito riesci a capire quando sto mentendo – e sei l’unica ad
avere questa capacità, a quanto pare, mia cara – ma stavolta non
ti ho detto alcuna menzogna. Quanto vorrei aver mentito.
Almeno non saresti così ferita, giusto?»
Era troppo. Non potevo sopportare che mi mostrasse pietà nel
momento stesso in cui cercava di mettermi contro Jonathan.
Guardai Jonathan giocare a faraone, assorto nella partita. Avevo
iniziato a pensare alla presenza di Jonathan come a un grande
conforto, come un mormorio quieto che risuonava dentro la mia
anima. Di recente, però, avevo notato una corrente sotterranea di
malinconia provenire da Jonathan. Credevo fosse tristezza, per
aver dovuto abbandonare Evangeline e sua figlia. Ma se ciò che
aveva detto Adair era vero, forse la malinconia era dovuta al
fatto che sapeva di rendermi infelice. Per la prima volta, mi
chiesi se a ostacolare il nostro amore, a essere tarato, fosse lui e
non io. Mi sembrava disumano essere incapace di darsi
pienamente a una sola persona.
Un trillo di risata femminile interruppe i miei pensieri. Tilde
gettò le carte sul tavolo, vittoriosa. Jonathan le lanciò uno
sguardo e da quello sguardo capii che era stato a letto con lei.
Era andato a letto con Tilde anche se non la trovava
particolarmente attraente, anche se sapeva di dover stare attento
a lei, anche se sapeva che se l’avessi scoperto mi avrebbe
spezzato il cuore. La disperazione mi assalì, come un pezzo di
carta avvicinato alla fiamma. C’erano cose che non potevo
cambiare.
«Che spreco.» Adair si avvicinò istantaneamente al mio
orecchio, come il serpente nel giardino dell’Eden. «Tu, Lanore,
sei capace di provare un amore perfetto, un amore come io non
ne ho mai visti. Eppure, scegli di sprecarlo per qualcuno di così
immeritevole come Jonathan...»
Il suo sussurro era come un profumo in una notte cristallina.
«Che cosa intendi dire? Che tu saresti un uomo ben più
meritevole del mio amore?» gli chiesi, cercando la risposta nei
suoi occhi ferini.
«Quanto vorrei che tu potessi amarmi, Lanore. Ma se soltanto
tu mi conoscessi veramente, capiresti quanto anch’io non sia
degno del tuo amore. Ma un giorno, forse, mi vedrai come ora
vedi Jonathan, con lo stesso favore. Sembra impossibile, vista la
tua devozione assoluta per lui, ma chi può mai dirlo? Ho visto
l’impossibile accadere, di quando in quando nella mia lunga
vita» rispose astutamente, ma quando provai a chiedergli di
spiegarsi meglio, si limitò ad arricciare il naso e a ridere. Poi si
alzò dal divano e chiese di partecipare alla prossima partita di
faraone.
Abbandonata a me stessa, me ne andai nello studio per
cercare un libro con cui distrarmi. Mentre passavo accanto alla
scrivania di Adair, la luce della mia candela illuminò un fascio
di fogli lasciati sul tampone di carta assorbente e, come se fosse
stato il destino a volerlo, l’occhio mi cadde sul nome di
Jonathan, scritto con la calligrafia di Adair.
Ma perché mai Adair aveva scritto qualcosa su Jonathan? Era
una lettera a un amico? No, dubitavo che avesse un amico al
mondo. Presi i fogli e li avvicinai alla luce della candela.
Istruzioni per Pinnerly (avevo appreso che era il nome del
notaio).
Apertura di un conto a nome di Jacob Moore (era il nome
falso di Jonathan) presso la Bank of England per la somma di
ottomila sterline (era una fortuna) da trasferirsi dal conto di
(seguiva un nome che non riconobbi).
Le istruzioni proseguivano, dando ordine di aprire diversi
altri conti sotto il nome falso di Jonathan ad Amsterdam, Parigi e
San Pietroburgo. Le rilessi due volte, ma non riuscii comunque a
capirne il senso, perciò le riappoggiai sul tavolo, esattamente
come le avevo trovate.
A quanto sembrava, Adair era così preso da Jonathan che si
stava organizzando per garantirgli una vita agiata. Era come se
lo stesse adottando. Ammetto di aver provato una punta di
gelosia e di essermi chiesta se avesse stabilito un fondo anche
per me, da qualche parte. Ma che senso avrebbe avuto, visto che
Adair non me ne aveva mai parlato? Ogni volta dovevo
lusingarlo e implorarlo di darmi dei soldi da spendere, e lo stesso
facevano gli altri. Mi parve un ulteriore segno del fatto che
Adair nutriva un interesse del tutto speciale per Jonathan.
Jonathan sembrava accettare la sua nuova vita. Quanto meno,
non si oppose a condividere i vizi e le libertà di Adair, e non
parlò più di St. Andrew. C’era solo un vizio che Adair non aveva
compartito col suo nuovo favorito, uno che Jonathan avrebbe
sicuramente accolto se gli fosse stato offerto. Quel vizio era
Uzra.
Jonathan viveva da noi da tre settimane quando gli fu
presentata. Adair chiese a Jonathan di attenderlo nel salotto –
con me ingelosita al suo fianco – e poi fece entrare Uzra con un
gesto tronfio. L’odalisca era agghindata nel consueto fascio di
seta avvolgente. Quando le lasciò la mano, la stoffa cadde al
suolo, rivelando Uzra in tutta la sua bellezza. Adair la fece
perfino danzare davanti a Jonathan e lei ondeggiò i fianchi e
intrecciò le braccia mentre Adair cantava un motivetto
improvvisato. In seguito, fece portare il narghilé e ci sdraiammo
sui cuscini del pavimento, facendo a turno a succhiare il
bocchino di avorio intagliato.
«È adorabile, vero? Così adorabile che non riesco a
separarmene. Non che lei non mi abbia causato problemi: è un
demonio. Si butta dalle finestre o giù dai tetti. Non le importa di
farmi impazzire ogni volta. È ancora piena di odio verso di me.»
Le accarezzò il naso con la punta dell’indice, nonostante lei
avesse l’aria di volergli staccare a morsi quel dito appena ne
avesse avuto l’opportunità. «Credo sia stato proprio questo a
tener desto il mio interesse in tutti questi anni. Lasciate che vi
racconti come Uzra si è unita a me.» Sentendo menzionare il
proprio nome, Uzra diventò improvvisamente tesa come una
corda di violino.
«Ho incontrato Uzra durante un viaggio nei paesi arabi»
prese a raccontare Adair, incurante del disagio evidente di Uzra.
«Ero in compagnia di un nobile che stava negoziando la
liberazione del fratello, il quale aveva stupidamente cercato di
rubare il tesoro di uno dei capi. A quel tempo mi ero ormai
costruito una buona reputazione di guerriero mercenario. Avevo
cinquant’anni di esperienza con la spada, e non erano certo
pochi. Fatto sta che quel nobile mi aveva assoldato per aiutarlo,
e la paga era sontuosa. Fu così che capitai in quei luoghi e
conobbi, per puro caso, Uzra.
«Accadde nel mercato di una grande città; lei seguiva passo
passo suo padre, vestita come comandavano le tradizioni. Non
riuscivo a vederle altro che gli occhi, ma fu abbastanza: capii di
dover vedere di più. Perciò li seguii al loro accampamento ai
margini della città. Parlando con alcuni uomini che si
occupavano dei cammelli, appresi che il padre era il capo di una
tribù di nomadi e che la famiglia era giunta in città per darla in
sposa a un sultano, un principe fannullone, perché in cambio
fosse risparmiata la vita del padre.»
La povera Uzra a quel punto era completamente immobile.
Aveva perfino smesso di fumare il narghilé. Adair si avvolse un
ricciolo dei suoi capelli attorno a un dito e tirò leggermente,
come per rimproverarla per la sua indifferenza, poi lo lasciò
cadere.
«Individuai la sua tenda e vidi che c’erano una decina di
schiave che si prendevano cura di lei. Le avevano formato un
cerchio attorno e, credendo che fosse protetta dagli sguardi
indiscreti, la aiutarono a togliersi le vesti, sfilandole il tessuto
dalla pelle color cannella, poi le sciolsero i capelli. Le loro mani
le percorrevano tutto il corpo come farfalle... quando irruppi
nella tenda scoppiò il caos» disse Adair con una fiera risata. «Le
donne urlarono e scapparono, inciampando e cadendo una
sull’altra nel tentativo di proteggersi da me. Come potevano
pensare che io mi sarei accontentato di una di loro quando
davanti a me c’era quell’incantevole jinn tutta nuda? E Uzra
aveva capito che ero lì per lei, a giudicare dal suo sguardo. Ebbe
appena il tempo di coprirsi con una veste prima che mi
avventassi su di lei e la portassi via.
«La condussi nel deserto, dove ero certo che nessuno ci
avrebbe trovato. Quella notte la presi più volte, senza curarmi
delle sue urla» disse, come se non ci fosse niente di cui
vergognarsi, come se lei gli spettasse di diritto con la stessa
naturalezza con cui l’acqua serviva a dissetarlo. «Solo al sorgere
del sole la mia passione iniziò a scemare e mi ritenni sazio della
sua bellezza. Tra un momento di piacere e l’altro, le domandai
perché la volessero dare al sultano. Era per via di una
superstizione della sua tribù, mi disse, secondo la quale una jinn
dagli occhi verdi avrebbe portato pestilenze e sofferenze alla sua
gente. Erano dei vigliacchi idioti e si erano rivolti al sultano. Il
quale ordinò al padre di consegnargliela o di perire egli stesso.
Capite? Per impedire che la maledizione si avverasse, doveva
morire.
«Avevo capito di non essere il primo uomo con cui era
giaciuta, così le chiesi chi le avesse preso la verginità. Un
fratello? Un parente maschio, senza dubbio: chi altri sarebbe
stato in grado di avvicinarsi a lei? Scoprii che era stato proprio
suo padre. Riuscite a crederci?» domandò, incredulo, come se
fosse la cosa più assurda che aveva sentito. «Era il capo, un
patriarca abituato ad avere tutto ciò che desiderava. Ma quando
Uzra aveva ormai cinque anni, aveva capito, dal colore della
pelle, che lei non era sua figlia naturale. La madre gli era stata
infedele e, a giudicare dal colore verde degli occhi, era andata a
letto con uno straniero. Lui non disse niente, si limitò ad andare
un giorno nel deserto con la madre di Uzra e tornare da solo.
Quando Uzra ebbe dodici anni, prese il posto della madre nel
letto del padre. Lui le aveva detto che era la figlia di una puttana
e non era sangue del suo sangue, perciò non era proibito. Ma lei
non doveva dirlo a nessuno. I servitori credevano che fossero
ammirevoli la tenerezza e l’affetto di una figlia che non poteva
stare senza il suo papà, nemmeno la notte.
«Le dissi che niente di tutto questo importava. Non avevo
intenzione di consegnarla nelle mani di quel sultano rozzo e
ignorante. Né l’avrei rimandata dal padre così che lui potesse
ricominciare ad abusare di lei fino al momento di consegnarla,
da codardo qual era.» Mentre Adair proseguiva nel racconto, ero
riuscita a trovare la mano di Uzra e gliel’avevo stretta, di tanto in
tanto, per farle capire che soffrivo con lei, ma nei suoi occhi
verdi e vitrei vidi che la sua mente si era allontanata da quella
crudeltà. Anche Jonathan sembrava imbarazzato per lei. Ma
Adair proseguì, incurante del fatto che soltanto lui trovava
divertente quel racconto. «Decisi di salvarle la vita. Proprio
come avevo fatto con gli altri. Le dissi che la sua lunga tortura
era giunta al termine. Avrebbe iniziato una nuova vita con me e
sarebbe rimasta con me per sempre.»
Quando l’oppio iniziò a fare effetto su Adair e lui si
addormentò, io e Jonathan sgusciammo via silenziosamente. Mi
prese per mano e mi condusse fuori da quella stanza. «Santo
Dio, Lanny, che cosa dovrei pensare di questa storia? Ti prego,
dimmi che voleva soltanto intrattenerci, che stava esagerando...»
«È strano... Ha detto che le ha salvato la vita, ’proprio come
con gli altri’. Ma lei non è come gli altri, a giudicare dalla storia
che ci ha appena raccontato.»
«In che senso?»
«Mi ha raccontato un po’ di come gli altri sono finiti con lui.
Alejandro, Tilde e Dona. Avevano fatto cose orribili prima che
Adair li incontrasse.» Entrammo nella camera di Jonathan, che
era accanto a quella di Adair ma più piccola, pur avendo un
guardaroba molto ampio e una vista sul giardino. E una porta
comunicante con quella di Adair. «Credo che sia per questo che
li ha scelti, perché erano capaci di commettere le atrocità che lui
richiede. Credo che sia questo che cerca nei suoi compagni: una
tara, una sorta di difetto.»
Ci togliemmo parte dei vestiti per stare più comodi e poi
andammo a letto, sdraiandoci fianco a fianco. Jonathan mi cinse
un braccio attorno alla vita con fare protettivo. L’oppio stava
avendo il suo effetto anche su di noi e io ero sul punto di
addormentarmi. «Ma non ha senso... Perché allora ha scelto te?»
mi chiese Jonathan con voce assonnata. «Tu non hai mai fatto
del male a nessuno in tutta la tua vita.»
Se c’era un momento in cui parlargli di Sophia e di come
l’avevo spinta al suicidio, era quello. Arrivai perfino al punto di
inspirare per prepararmi a parlare, ma... Ancora una volta, non ci
riuscii. Jonathan mi credeva innocente, al punto di dubitare dei
motivi della mia presenza in quel luogo. Mi credeva incapace di
fare il male, e non potevo rovinare tutto.
E, cosa ancor più significativa, non si era chiesto perché lui
fosse stato scelto, che cosa ci vedesse Adair in lui. Jonathan
conosceva se stesso abbastanza bene da credere che in lui
albergasse il male, che ci fosse qualcosa dentro di lui che andava
punito. E forse lo sapevo anch’io. Eravamo entrambi tarati, a
nostro modo, ed eravamo stati scelti per ricevere una punizione
che meritavamo.
«C’è una cosa che devo dirti» mormorò Jonathan, assonnato,
con gli occhi già chiusi. «Presto andrò in viaggio con Adair. Mi
ha detto di volermi portare a... Non mi ricordo dove,
esattamente, forse a Philadelphia. Anche se, dopo il suo
racconto di stasera, devo confessare di non essere entusiasta di
partire da solo con lui...»
Mentre mi stringevo addosso il suo braccio, notai sotto la
stoffa leggera della sua camicia un segno sulla sua pelle. C’era
qualcosa di orrendamente familiare in quelle macchie nere
velate dalla sua manica, perciò la arrotolai scoprendo così le
sottili linee nere incise all’interno del suo tricipite.
«Questo dove te lo sei fatto?» gli chiesi, rialzandomi a sedere
di scatto, preoccupata. «È stata Tilde, vero? L’ha fatto lei con i
suoi aghi?»
Jonathan riuscì a malapena ad aprire gli occhi. «Sì, sì... l’altra
sera, quando siamo usciti a bere...»
Osservai il tatuaggio da vicino; non era lo stemma araldico;
erano due sfere, con code lunghe e tese, sovrapposte come due
dita intrecciate. Era diverso da quello che avevo io, ma avevo
già visto quello stesso tatuaggio.
Sulla schiena di Adair.
«È lo stesso di Adair» riuscii a dire.
«Sì, lo so... ha insistito perché me lo facessi. A indicare che
siamo fratelli, o qualcosa di altrettanto stupido. Ho accettato
soltanto per farlo stare zitto.»
Sfiorando il tatuaggio con il pollice, avvertii una lama di gelo
attraversarmi. Il fatto che Adair avesse messo il suo stesso
marchio su Jonathan doveva avere un significato, ma non
riuscivo a capire quale potesse essere. Volevo implorarlo di non
partire con Adair, di disobbedirgli... Ma conoscevo le inevitabili
conseguenze di una follia simile. Perciò non dissi niente, rimasi
sveglia a lungo ad ascoltare il ritmo stabile e sereno del respiro
di Jonathan, senza riuscire a scrollarmi di dosso quel
presentimento.
Il presentimento che il nostro tempo insieme fosse prossimo
alla fine.
42
Québec, oggi
Luke si sveglia circondato dal debole suono delle miserie
umane. È disorientato, come sempre quando si sveglia dopo un
breve riposo. Il suo primo pensiero è che ha dormito troppo e
che farà tardi all’ospedale. È solo quando sta per tirare un pugno
alla sveglia – benché non stia suonando – e scagliarla giù dal
comodino che si ricorda di trovarsi in un hotel. E che c’è una
sola persona con lui. E quella persona sta piangendo.
La porta del bagno è chiusa. Luke bussa gentilmente e,
quando non giunge alcuna risposta, apre la porta. Lanny è seduta
nella vasca, completamente vestita. Quando alza lo sguardo su
di lui, Luke vede che il trucco le è colato sul volto in striature
nere e appuntite come spade, come un clown in un film
dell’orrore.
«Ehi, che cos’hai?» le chiede, prendendole la mano. «Che
cosa ci fai qui dentro?»
Lei si lascia sollevare fuori dalla vasca. «Non volevo
svegliarti.»
«Ma è per questo che sono qui.» La riporta a letto e lei si
accoccola fra le sue braccia, come una bambina piccola. «Mi
dispiace... È che inizio soltanto ora a... a rendermi conto che...»
dice lei, le parole rauche interrotte dai singhiozzi.
Luke finisce la frase per lei: «Che lui non c’è più». Lei
riprende a piangere. Fino a quel momento Lanny si è
concentrata sulla fuga, sull’evitare di essere scoperti. Ora che la
fase della fuga è terminata, l’adrenalina sta scemando e il
ricordo di ciò che l’ha condotta fino a lì ritorna con prepotenza.
Ora è costretta ad affrontare la realtà: la persona più importante
della sua vita non c’è più. È l’uomo che ama e non lo vedrà mai
più.
Luke ripensa alle tante volte che, in ospedale, ha incrociato
qualcuno che piangeva, qualcuno che aveva appena ricevuto la
notizia della morte di una persona cara. Una donna con il volto
fra le mani, un uomo, accanto a lei, immobile, paralizzato dal
dolore. Luke non saprebbe contare le volte che gli è capitato di
uscire dalla sala operatoria, sfilandosi i guanti e la mascherina,
scuotendo il capo. Di avvicinarsi ai parenti in attesa, il volto
colmo di speranza di ricevere buone notizie. Ha imparato a
erigere un muro, per difendersi dal dolore dei parenti. Non ci si
può lasciar trascinare dalla loro sofferenza. Si può annuire,
riconoscere il loro dolore, ma soltanto per un momento. Chi
cerca di farsi carico del loro peso non dura più di un anno in
ospedale.
Ma quella ragazza singhiozzante fra le sue braccia... Il suo è
un dolore senza fine. La sofferenza di cui è intriso il suo pianto
potrebbe spezzare il mondo in due. Cadrà nell’abisso della
disperazione e continuerà a cadere a lungo, senza niente cui
aggrapparsi.
Lui immagina che esista una formula per calcolare quanto
tempo impieghi la sofferenza a passare, e ritiene che dipenda
tutto dal tempo trascorso insieme alla persona amata. Ha visto
vedove, dopo cinquant’anni di matrimonio, avviarsi con un
sorriso alla morte perché convinte che si sarebbero così riunite al
loro amato. Ma non c’è sollievo per Lanny. Quanto tempo
impiegherà Lanny a sopportare giorno dopo giorno l’assenza di
Jonathan? Quanto tempo per accettare di essere stata proprio lei
a ucciderlo? Ci sono persone al mondo che sono impazzite per
molto meno, che sono state annichilite dalla depressione. Non
c’è alcuna garanzia che lei riesca a sopravvivere a qualcosa
come quello che è successo.
Ma lui la aiuterà. Deve farlo. Ritiene di essere l’unico a
poterlo fare. Con la sua esperienza («Signora Parker? Abbiamo
fatto tutto quello che potevamo per suo figlio, ma purtroppo...»)
è convinto che la sofferenza di Lanny gli scivolerà addosso
come gocce d’acqua su un impermeabile.
Lei a poco a poco sta smettendo di piangere. Si strofina gli
occhi col dorso delle mani.
«Va meglio?» le chiede Luke, sollevandole il mento con un
dito. «Vuoi che usciamo a prendere un po’ d’aria?» Lei
annuisce.
Un quarto d’ora dopo sono fuori, a camminare mano nella
mano. Lanny si aggrappa al braccio di Luke proprio come fanno
gli innamorati, ma sul suo volto, ora ripulito dalle sbavature di
trucco, c’è un sorriso triste e disperato.
«Beviamo qualcosa?» le chiede. Entrano in un bar molto
elegante e lui ordina scotch liscio per entrambi. «Guarda che
non puoi sperare di vincere una gara di bevute con me» lo
ammonisce lei con una risata mesta. Brindano come se avessero
qualcosa da festeggiare. E proprio come lei aveva detto, a Luke
basta un bicchiere per iniziare ad avvertire il calore torpido
dell’ubriachezza, mentre lei ne ha già bevuti tre e l’unico segno
è il sorriso un po’ più rilassato.
«C’è una cosa che vorrei chiederti. Su di... su di lui» dice
Luke, come se evitando di pronunciare il nome di Jonathan
potesse risparmiarle un po’ di sofferenza. «Dopo tutto quello
che ti ha fatto passare, come hai potuto continuare ad amarlo
così? Non mi pare che ti meritasse...»
Lei solleva il bicchiere vuoto prendendolo per l’orlo, come se
fosse un pezzo degli scacchi. «Potrei trovare un sacco di
spiegazioni: per esempio, potrei dirti che all’epoca le cose
funzionavano così, che ogni moglie sapeva che il marito prima o
poi l’avrebbe tradita. O che Jonathan era semplicemente fatto
così, e non avevo altra scelta che accettarlo. Ma non è la vera
ragione.» Fece una pausa. «Non so come spiegartelo. Ho sempre
desiderato che lui mi amasse come io amavo lui. Oh, mi amava,
questo lo so. Ma non nel modo in cui volevo io.
«E non è poi così diverso da tante altre persone che ho
conosciuto nel tempo. Uomini, o donne, che non amano
abbastanza il proprio compagno da smettere di bere, o di perdere
soldi al gioco, o di tradirlo con altre persone. È sempre così: c’è
uno che dà e uno che prende, in una coppia. Quello che dà
vorrebbe che l’altro cambiasse.»
«Ma chi è nato per prendere non cambia mai» dice Luke, pur
chiedendosi se sia sempre vero che le cose stanno così.
«A volte, quello che dà dovrebbe imparare a lasciar perdere.
Ma non sempre ci si riesce. Non ci si riesce proprio. Io non sono
riuscita a lasciar perdere Jonathan. Trovavo sempre un modo di
perdonargli tutto.»
Luke vede che le stanno tornando le lacrime agli occhi e
prova a cambiare argomento. «E Adair? Da quello che mi hai
raccontato, lui si era innamorato di te...»
«Il suo amore era come l’amore che il fuoco nutre per il
legno.» Fa una risata amara. «Per un po’ mi ha tratta in inganno,
devo ammetterlo. Un istante era gentile con me e l’istante dopo
mi umiliava. Era tutto un gioco, una prova. Credo che... penso
che volesse soltanto scoprire se poteva costringermi ad amarlo.
Perché credo che nessuno l’abbia mai amato.» Lei si ferma, le
mani strette in grembo, e gli occhi tornano a riempirsi di
lacrime. «Guarda cos’hai fatto... Adesso mi viene di nuovo da
piangere. Non voglio piangere in pubblico. Non voglio
imbarazzarti. Torniamo in camera, a fumare un po’ di
marijuana.» Il volto di Luke si illumina al ricordo della qualità
straordinaria di quell’erba che lei ha con sé. «Sono pronto a
fumarmi tutto il sacchettino con te, se è quello che ci vuole per
tirarti su il morale» le dice.
«Oh, mio eroe» risponde Lanny, prendendolo sottobraccio.
Barcollano per strada fino all’hotel, col vento gelido che li
sferza in volto. Luke vorrebbe poter somministrare a Lanny una
dose di morfina per farla sentire meglio. Se potesse farlo,
sarebbe disposto anche a farle un’iniezione di tranquillante al
giorno pur di farle trovare un po’ di pace. Scuote la testa per
schiarirsi le idee. Sente che farebbe qualsiasi cosa per renderla
di nuovo felice, ma non vuole diventare schiavo della sua
infelicità.
A letto, lei posa le labbra salate sulle sue. «Mi sono fatta
migliaia di volte quella domanda, sai? Perché? Perché Jonathan
non mi amava?» dice in un sussurro esausto ed ebbro. «Che
cos’ho di sbagliato? Dimmelo tu... È così impossibile amarmi?»
Luke è colto di sorpresa. «Non saprei dirti perché Jonathan
non ricambiava il tuo amore. Ma, per quello che vale, posso dirti
che secondo me ha fatto un grosso sbaglio.» Jonathan era un
idiota. Soltanto uno stupido avrebbe sprecato una tale
devozione.
Lei lo guarda scettica, ma sorride comunque. E poi si
addormenta di colpo. Lui la stringe a sé, avvolgendo le braccia
attorno al suo corpo morbido e invitante, accarezzandole le
braccia e le gambe, così eleganti e affusolate. Non ricorda di
essersi mai sentito così, tranne forse quel giorno in pizzeria con
le sue figlie, quando avrebbe tanto voluto poterle mettere sulla
macchina a noleggio e riportarsele in Maine. Sa di aver fatto la
scelta giusta, sa che è stato corretto non cedere alla tristezza in
quel momento – le ragazze stanno meglio con la madre – ma il
ricordo di quando ha preso la macchina e se n’è andato,
lasciandole, lo tormenterà per sempre. Solo uno stupido può
sprecare un amore come quello.
E poi, Lanny. Farebbe qualsiasi cosa per proteggere quella
fragile donna, per guarirla. Vorrebbe poterle succhiare via il
veleno, come una sanguisuga. Vorrebbe prenderlo lui, se
potesse, quel veleno.
Ma sa che non può far altro che stare con lei.
43
Boston, 1819
Una sera, mi svegliò una lama di luce polverosa che mi colpì
le palpebre. Uzra comparve accanto al mio letto, con una piccola
lampada a olio che ondeggiava appesa alla sua mano. Doveva
essere notte fonda, perché la casa di Adair era silenziosa come
una cripta. Il suo sguardo mi implorava di alzarmi, perciò lo feci.
Lei scivolò fuori dalla stanza nel suo solito modo silenzioso,
costringendomi a seguirla a tentoni. Indossavo delle pantofole e
camminavo su folti tappeti, pertanto il rumore dei miei passi era
poco più che un sospiro. Ma in quella casa silenziosa, anche i
sospiri riecheggiavano lungo i corridoi. Uzra schermò la
lampada mentre oltrepassavamo le altre camere, per fare meno
luce possibile, e riuscimmo a raggiungere le scale che
conducevano in soffitta senza farci scoprire.
La soffitta era divisa in due parti. Una era riservata agli
alloggi dei servitori e un’altra, più piccola, veniva utilizzata
come magazzino. Era lì che Uzra si nascondeva. Mi condusse
attraverso un labirinto di bauli che solitamente le facevano da
barriera, proteggendola dal mondo esterno, e poi lungo un
corridoio stretto e soffocante che terminava in una minuscola
porta. Fummo costrette a chinarci e contorcerci per riuscire a
passare da quella porta, per poi sbucare in quello che sembrava il
ventre di una balena: travetti in legno al posto delle costole, un
camino di mattoni al posto di una trachea. La luce della luna
filtrava da finestre prive di tende che davano sul sentiero che
portava alla rimessa delle carrozze. Lei aveva scelto di abitare in
un posto così cupo pur di stare alla larga da Adair. Era un posto
orrendo in cui vivere, caldo d’estate e gelido d’inverno, solitario
come un deserto lunare.
Vidi quello che immaginai fosse il suo nido, circondato da
tendine di organza iridescente, ricavate dai sarong che
indossava, appese ai travetti come biancheria stesa ad asciugare.
Il letto stesso era costituito da due coperte prese dal salotto e
intrecciate a formare un cerchio, non molto diverso dalle tane
degli animali selvatici, approssimativo e raffazzonato. Un
mucchio di ninnoli era impilato accanto al letto, con diversi
gioielli: diamanti grossi come chicchi d’uva, una retina di fili
d’oro da indossare con il chador. Ma c’era anche del bric-à-brac,
cose che un bambino avrebbe potuto collezionare: una spada
corta, lucente ed elegante, un ricordo della sua terra, con una
lama che sembrava un serpente in movimento. Uno specchio in
bronzo.
Mi fece cenno di seguirla e io smisi di fissare il suo misero
tugurio, la prova della sua resistenza a Adair.
Mi condusse a un muro cieco. Io non ci vedevo niente, ma lei
si inginocchiò e rimosse un paio di assi, rivelando uno spazio in
cui poter strisciare. Prendendo la lampada a olio, si gettò senza
paura in quello spazio oscuro come un ratto abituato a insinuarsi
nelle pareti. Io trassi un profondo respiro e la seguii.
Dopo aver strisciato sulle mani e sulle ginocchia per circa sei,
sette metri, sbucammo in una stanza priva di finestre. Uzra alzò
la lampada così che io potessi vedere dove ci trovavamo: era uno
spazio angusto e arredato, con un piccolo camino e una porta;
faceva parte degli alloggi della servitù. Mi avvicinai e cercai di
aprirla, ma qualcosa da fuori la bloccava. La stanza era dominata
da un ampio tavolo coperto di bottiglie e barattoli e una varietà
di chincaglieria. C’era una madia, anch’essa piena di contenitori
di tutte le forme e grandezze, per lo più tappati da stoffa incerata
o da tappi di sughero. Sotto il tavolo c’erano ceste piene delle
cose più diverse, da pigne a rami secchi fino a misteriosi organi
di animali essiccati. Libri antichi e fragili giacevano infilati fra i
barattoli. Ai bordi del tavolo c’erano delle candele su piattini
d’argento.
Inalai profondamente: la stanza era piena di una miriade di
odori e profumi, di spezie e di foresta e di polvere e altri odori
che non riuscii a identificare. Rimasi al centro e mi guardai
intorno, lentamente. Credo di aver capito immediatamente che
cosa fosse quella stanza e a cosa servisse, ma non volevo
ammetterlo.
Presi uno dei libri dallo scaffale. La copertina era di stoffa blu
con incise delle scritte a mano e vari simboli intrecciati fra loro.
Voltando con cautela le pagine, vidi che nessuna era stampata:
erano tutte scritte a mano, con estrema cura, con annotazioni di
formule e strane illustrazioni – per esempio, la parte di una
pianta da conservare o un’elaborata scena di dissezione del
corpo umano – ma era scritto tutto in una lingua che non
conoscevo. I disegni erano più esplicativi e riconobbi alcuni dei
simboli che avevo visto da giovane e altri che avevo già notato
nei volumi della libreria di Adair: pentagrammi, l’occhio della
provvidenza, cose simili. Quel libro era un’opera rimarchevole,
parlava di anni trascorsi nascondendosi, di segreti e di intrighi,
era un libro di quelli che gli uomini comuni passano vite intere a
cercare. Ma i suoi contenuti mi erano incomprensibili.
C’era un altro libro ancora più vecchio, con una copertina di
legno, rilegato con un nastro di pelle. All’interno, le pagine
erano libere, non cucite insieme, e dalla varietà di carte
impiegate sembrava che il libro fosse una sorta di collezione di
appunti piuttosto che un volume unico. La calligrafia sembrava
quella di Adair, ma ancora una volta era in una lingua che non
conoscevo.
Uzra si spostò, inquieta, facendo risuonare le campanelline
appese ai suoi fianchi. Non le piaceva stare lì dentro e potevo
capirla benissimo. Adair l’aveva chiusa dall’esterno per una
precisa ragione: non voleva che qualcuno ci capitasse, anche
solo per caso. Ma quando sporsi la mano per rimettere a posto il
secondo volume, Uzra si avvicinò e mi afferrò il polso. Alzò la
lanterna e la avvicinò al mio braccio e quando vide il tatuaggio –
di cui mi ero quasi dimenticata, ormai – si lasciò sfuggire un
lamento, come quello di un gatto morente.
Alzò il suo braccio e me lo mise davanti agli occhi, col palmo
della mano rivolto in su. Aveva lo stesso tatuaggio, nello stesso
posto, anche se il suo era un po’ più grande ed eseguito con
meno accuratezza, come se la mano del tatuatore non fosse stata
precisa come quella di Tilde. Il suo sguardo mi accusava, come
se me lo fossi fatta io stessa, ma non c’era modo di fraintendere
il suo messaggio. Adair aveva scelto di marchiarci allo stesso
modo. Le sue intenzioni nei miei confronti, perciò, non
potevano essere tanto diverse da quelle che aveva avuto per
Uzra.
Alla luce della lanterna, guardai quella stanza ancora una
volta. Mi tornò alla mente una descrizione che avevo udito dalle
labbra di Adair stesso, quella della stanza nel torrione del
medico che era stata la prigione della sua gioventù. C’era
soltanto un motivo per cui poteva aver bisogno di una stanza
come quella, nascosta nell’angolo più sperduto della casa.
D’improvviso capii che cos’era quel posto e perché esisteva, e
fui attraversata da un violento brivido di terrore. La storia
strappalacrime che Adair mi aveva raccontato, quella della sua
cattura e della sottomissione al medico maligno mi tornò tutta in
mente. Solo... Solo che a quel punto mi chiesi con quale dei due
uomini avessi trascorso tutti quei mesi, chi fosse veramente
l’uomo con cui ero andata a letto, quello che ora sembrava così
interessato all’altro uomo della mia vita, che io amavo con tutta
me stessa. Adair voleva che i suoi seguaci lo credessero un
ragazzino zingaro che era riuscito a vendicarsi del suo
oppressore, appropriandosi meritatamente delle ricchezze del
suo crudele e disumano tiranno. Ma, in effetti, dietro quel volto
angelico si nascondeva il mostro del racconto, l’uomo che aveva
accumulato poteri oscuri e rovinato vite.
Era capace di passare da un corpo all’altro. Non c’era altra
spiegazione.
Si era lasciato dietro il suo guscio decrepito, sacrificandolo
alla furia di quel villaggio. Ma dentro quel corpo c’era il povero
ragazzino zingaro. Come dovevano essere stati terrorizzanti i
suoi ultimi minuti di vita, costretto a pagare il male fatto dal
medico.
Era una menzogna perfetta per servire ai suoi mostruosi scopi
e sembrava aver funzionato per centinaia d’anni. Ma ora che
sapevo la verità, che cosa avrei potuto fare?
Avevo dei sospetti sull’inganno di Adair, dunque, ma avevo
bisogno di prove: per convincermi io stessa dell’orribile verità,
se non altro. Con Uzra che mi tirava per la manica, presi una
pagina dal volume e una manciata di erbe da uno dei barattoli
impolverati sul tavolo. Rischiavo tremende punizioni se il mio
furto fosse stato scoperto – avevo sentito la storia dalle labbra di
Adair stesso, no?, quella che finiva con un attizzatoio avvolto in
una coperta e un pestaggio interminabile – ma dovevo sapere.
Iniziai facendo visita a un professore della Harvard che avevo
conosciuto durante una delle feste di Adair. E non a un tè del
pomeriggio o in un salotto con intellettuali: no, era stata una
festa di tutt’altro tipo. Scovai il suo studio a Wheydon Hall, ma
era con uno studente. Quando mi vide aspettare in corridoio,
mandò via lo studente e mi venne a prendere, con un sorriso
affascinante sul suo volto da vecchio diavolo. Forse pensava che
fossi andata lì per ricattarlo, dato che l’ultima volta che l’avevo
visto stava montando un ragazzino più giovane dei suoi studenti
cantando a squarciagola. O forse sperava che fossi lì per
invitarlo a un’altra festa.
«Mia cara, cosa vi conduce da queste parti oggi?» disse,
dandomi qualche colpetto sulla mano mentre mi conduceva nel
suo ufficio. «Sono così rare le visite che ricevo da parte di
giovani donne così belle. E come sta il nostro comune amico, il
conte? Confido che stia bene, vero?»
«Come sempre» dissi, e mai risposta fu più vera.
«E a cosa devo dunque la vostra gradita visita? Devo
immaginare che presto ci sarà un’altra soirée...?» Il suo sguardo
si illuminò di fiero desiderio, alimentato da tutti i pomeriggi
trascorsi davanti a una marea di ragazzi tanto giovani quanto
intoccabili.
«A dire il vero, sono qui per chiedervi un favore» dissi,
estraendo dalla borsetta la pagina che avevo rubato. Perfino la
carta era diversa da qualsiasi altra avessi mai visto: spessa e
ruvida, ingiallita come quella dei macellai, e ora che non aveva
più il peso della copertina di legno a schiacciarla si arrotolava da
sola.
«Mmm» mormorò il professore, sorpreso. Prese il foglio
dalle mie mani e l’avvicinò agli occhi, alzando gli occhiali sulla
fronte per ispezionarlo. «E dove l’avete trovato, mia cara?»
«L’ho trovato da un libraio» mentii. «Un libraio che sostiene
di avere trovato una collezione di libri antichi, tutti riguardanti
un argomento che so essere particolarmente caro a Adair.
Pensavo di acquistarli per fargli un regalo, ma sono scritti in una
lingua che non conosco. Ho bisogno dunque di verificare che il
libro corrisponda a quanto sostiene il libraio. Non si è mai
abbastanza prudenti, in questi casi.»
«Certo, avete perfettamente ragione» borbottò continuando a
esaminare la pagina. «Dunque, la carta non è certo di
manifattura locale. Non è candeggiata. Probabilmente è stata
fatta da qualcuno per farne uso proprio. Ma è per la lingua che
siete venuta da me, vero?» Sorrise lievemente da sotto gli
occhiali. Era un professore di lingue antiche, questo me l’ero
ricordato dal nostro breve incontro a quella festa, anche se non
sapevo di quali lingue.
«È una lingua di matrice prussiana, direi. O qualcosa di
simile. È molto strana, probabilmente una forma arcaica. Non
l’ho mai vista prima d’ora.» Prelevò da una mensola un libro
molto spesso e pesante e iniziò a sfogliarne le pagine sottili.
«Sapreste dirmi di che cosa si parla? Che cosa c’è scritto, più
o meno?»
«Voi di che cosa vi aspettate che parli?» mi chiese, animato
dalla curiosità, mentre ancora sfogliava le pagine.
Mi schiarii la voce. «Di magia. O qualcosa di simile.»
Si bloccò e mi fissò.
«Alchimia?» dissi, stavolta con qualche esitazione.
«Qualcosa che abbia a che fare con la trasformazione di una
cosa in un’altra?»
«Oh, mia cara, si tratta quasi sicuramente di qualcosa di
magico, forse un sortilegio o un incantesimo di qualche tipo. Ma
non saprei dirvi di che cosa si tratti esattamente. Magari se me lo
lasciate per qualche giorno...» Fece un timido sorriso.
Conoscevo abbastanza bene il mondo accademico per sospettare
che cosa avrebbe fatto se avessi lasciato quel foglio in mano sua:
avrebbe cercato di costruirci una carriera, usandolo come base di
uno studio, di un saggio, e io non l’avrei più riavuto. Oppure,
peggio ancora, se Adair avesse scoperto che era scomparso ed
era finito in mano a quel lascivo professore nostro amico,
allora... dire che per me si sarebbe messa male sarebbe stato un
eufemismo. Inarcò un sopracciglio, in attesa, ma io mi allungai
sopra la scrivania e gli strappai il foglio dalle mani.
«No, mi dispiace, non posso. Ma vi ringrazio per la vostra
gentile offerta. Ciò che mi avete detto è sufficiente» dissi,
alzandomi dalla sedia e aprendo la porta. «E, vi prego, non
fatene parola con Adair se lo vedete. Quando si tratta di regali, è
difficile trovare qualcosa che lo accontenti. Voglio che quei libri
siano una sorpresa.» Il vecchio professore sembrò sorpreso lui
stesso di vedermi scappare così dal suo ufficio.
Subito dopo andai in cerca di una levatrice. Stavano iniziando
a scarseggiare in città come Boston; i medici avevano preso il
loro posto nel far nascere i bambini, almeno per chi poteva
permetterselo. In più, non cercavo una levatrice qualunque. Ne
volevo una di quelle che si trovano in campagna, una che
sapesse tutto su come curare con le piante e le erbe. Una di
quelle che, cent’anni prima, in quelle stesse terre venivano
definite streghe dai loro stessi vicini e morivano arse vive o
impiccate.
Alcune prostitute di strada mi dissero dove trovarne una,
poiché era l’unica che le prostitute si potessero permettere di
pagare per curare la gonorrea o trovare un rimedio in caso di
gravidanze indesiderate. Sentii un brivido lungo la schiena
quando oltrepassai la soglia della piccola stanza di quella donna:
odorava di polvere e di polline e di vecchie cose marcescenti,
proprio come la stanza segreta nella soffitta di Adair.
«Ho bisogno di sapere di che cosa si tratti. L’avete mai visto
prima?» le chiesi, estraendo un fazzoletto dalla mia borsa e
aprendolo davanti a lei. La manciata di erbe che avevo rubato si
era un po’ rimescolata durante il viaggio e ora c’erano piccoli
steli e briciole di foglie marroni. Lei prese una fogliolina rimasta
quasi intatta e la guardò da vicino, poi la sbriciolò con le dita e la
annusò.
«È neem, mia cara. Si usa per curare un certo numero di
malattie. Non è molto comune da queste parti, e ancora più rara
allo stato naturale come questo. Per lo più si trova in tinture e
cose simili, diluita il più possibile per farla durare. Come l’avete
trovata?» mi chiese con noncuranza, come se fosse vagamente
interessata ad acquistarne un po’ lei stessa. Forse pensava che
fosse quello il motivo per cui l’avevo cercata. Si strofinò le mani
sopra il fuoco, facendo cadere le briciole nella fiamma.
«Temo di non potervelo rivelare» dissi, mettendole una
moneta in mano. Lei fece spallucce e accettò il pagamento,
infilandosi la moneta in tasca. «Ho una seconda richiesta. Avrei
bisogno dei vostri servigi per una faccenda... Ho bisogno che mi
prepariate qualcosa che induca un sonno molto profondo. Non
necessariamente un sonno tranquillo. Deve essere capace di far
addormentare una persona il più velocemente possibile.»
La levatrice mi rivolse un lungo sguardo silenzioso,
chiedendosi se non avessi in realtà intenzione di avvelenare
qualcuno, perché come altro si poteva interpretare la mia
richiesta? Alla fine disse: «Non voglio essere rintracciata se le
autorità per qualche ragione fossero coinvolte, è chiaro?»
«Avete la mia parola.» Le misi in mano altre cinque monete,
una piccola fortuna. Lei guardò il denaro e poi me, infine chiuse
il pugno attorno all’oro.
Sulla carrozza, mentre tornavo alla casa, riaprii il fazzoletto
per esaminare la sostanza che la levatrice mi aveva dato. Era un
grumo duro e bianco, e anche se all’epoca non lo sapevo, si
trattava di fosforo bianco, probabilmente acquistato da un
fabbricante di fiammiferi che a sua volta l’aveva rubato sul
posto di lavoro. La levatrice l’aveva manipolato con estrema
attenzione, come se non si fidasse a lavorarlo; mi aveva detto di
sbriciolarlo in un mortaio e mescolarlo con del vino o del
liquore, aggiungendo del laudano per favorirne l’ingestione. «È
molto importante diluirlo perché abbia effetto. Potreste usare il
solo laudano, ma ci vorrebbe parecchio tempo per ottenere un
effetto. Il fosforo è più rapido, ma... se qualcuno dovesse
ingerire questa quantità di fosforo, gli effetti sarebbero molto
gravi» disse, con uno sguardo impossibile da fraintendere.
Avevo già un piano, un piano molto pericoloso, ma mentre
uscivo da quella piccola stanza non potevo che pensare al vero
Adair. Ero piena di pietà per il povero ragazzino zingaro, morto
senza nemmeno essere sepolto perché non c’era un corpo da
interrare. Le sue belle spoglie mortali ora erano abitate
dall’uomo che ne aveva preso possesso attraverso un
incantesimo.
E per quanto riguardava l’ultima parte del suo racconto, era
impossibile capire quanto corrispondesse al vero e quanto no.
Forse aveva davvero fatto visita alla famiglia di Adair, lasciando
un tributo per espiare la colpa di aver preso il loro figlio, per aver
potuto assumere un corpo così perfetto. O forse quella parte del
racconto era soltanto una bugia, raccontata per rendere quella
storia più credibile, più commovente, per influenzare i
sentimenti di chi la ascoltava, per allontanare i sospetti. E la
perdita del suo regno? Un rischio calcolato... Ma forse ne valeva
la pena, alla fine, pur di guadagnare un nuovo corpo ospite che
trasportasse la sua vecchia anima malvagia. Ma se non avessi
fermato quell’uomo orribile, avrebbe preso la cosa che mi era
più cara al mondo.
Avrebbe preso Jonathan.
Bello, forte, virile: il corpo del giovane zingaro dovette
sembrare un dono degli dei al vecchio medico. Ma lì, nel nuovo
mondo, quel corpo mostrava i suoi limiti. O piuttosto, i limiti
erano nel volto: era troppo esotico, con l’incarnato olivastro
incorniciato da capelli ricci e selvaggi. Lo vedevo nelle
espressioni degli esponenti della buona società quando
conoscevano Adair, dal modo in cui aggrottavano la fronte, con
uno sguardo di istintiva diffidenza. Lì, in mezzo ai discendenti
degli inglesi, degli olandesi e dei tedeschi, che non avevano mai
visto un turco o un arabo, che avevano visto capelli simili
soltanto sui crani degli schiavi, il corpo dello zingaro era un
impedimento. Adesso capivo lo sguardo di approvazione di
Adair per quel povero studente che Tilde gli aveva scovato,
prima che scoprisse che aveva una deformità a un piede. Ora
capivo la sua famelica approvazione nei confronti di Jonathan,
della sua bellezza priva di difetti. Aveva scatenato i suoi segugi
infernali, li aveva mandati a cercare un perfetto corpo ospite.
Aveva perfino utilizzato Jude perché setacciasse la campagna
alla ricerca del corpo ideale. Ma lì a Boston il tempo stava
scadendo per Adair e aveva bisogno di un nuovo corpo, uno che
fosse gradito a chi deteneva il potere in quel nuovo ambiente.
Voleva Jonathan. Voleva indossare il suo corpo come una
maschera. La gente era attratta da Jonathan come le mosche dal
miele, nessuno poteva resistergli. Gli uomini volevano essere
suoi amici, stargli vicino come pianeti attorno al sole. Le donne
si davano a lui anima e corpo: e nessuno lo sapeva meglio di me.
Lo avrebbero sempre cercato, si sarebbero sempre aperti con lui,
senza accorgersi che l’anima che lo possedeva era il male
incarnato, pronto a sfruttarli fino in fondo.
E siccome nessuno conosceva il segreto di Adair, nessuno
poteva fermarlo.
Nessuno a parte me.
44
Quando arrivai alla casa, la trovai in subbuglio. I servitori
correvano già dalle scale come acqua dalle cascate, andandosi a
nascondere nello scantinato, nelle dispense, ovunque pur di
allontanarsi dal frastuono che proveniva dai piani superiori.
Pugni che percuotevano porte, ganci che sbattevano. Le voci
attutite di Tilde, Dona e Alejandro mi giunsero da sopra.
«Adair, cosa succede?»
«Facci entrare!»
Corsi su per le scale e trovai i tre radunati ai piedi della rampa
che portava in soffitta, impotenti, restii a interrompere quello
che stava accadendo dietro le porte chiuse, qualsiasi cosa fosse.
Dall’interno provenivano rumori terrificanti: Uzra urlava, Adair
ruggiva in risposta. Sentimmo il rumore sordo della carne contro
la carne.
«Che cosa sta succedendo?» chiesi, accorrendo da Alejandro.
«So soltanto che Adair ha cercato Uzra dappertutto.»
Ripensai alla storia di Adair, alla furia del medico quando gli
erano state rubate delle cose dal tavolo. «Dobbiamo salire! La
sta massacrando!» Afferrai la maniglia, ma non cedette. Aveva
chiuso a chiave. «Prendete un’ascia, un martello, qualsiasi cosa!
Dobbiamo spaccare la serratura!» urlai, ma loro si limitarono a
guardarmi come se fossi uscita di senno. «Non sapete di cosa sia
capace...»
Poi i rumori cessarono di colpo.
Pochi minuti dopo, la serratura scattò e Adair emerse, pallido
come un cencio. Aveva la lama serpentina di Uzra in mano e i
polsini erano macchiati di rosso vivo. Lasciò cadere la spada a
terra e si fece largo tra di noi, ritirandosi nella sua camera. Fu
solo a quel punto che trovammo il corpo.
«Tu hai a che fare con tutto questo in qualche modo, vero?»
mi disse Tilde. «Ti si legge in volto il senso di colpa.» Non
risposi. Abbassai lo sguardo sul corpo di Uzra e mi si rivoltò lo
stomaco. L’aveva colpita al petto, le aveva tagliato la gola, e
doveva essere stata l’ultima cosa che le aveva fatto perché era
caduta a terra con la testa rovesciata indietro, con qualche ciuffo
ancora arricciato dove probabilmente lui l’aveva afferrata. Le
parole «per mia mano, per mia volontà» mi riecheggiarono in
mente, le stesse parole che aveva pronunciato per darle la vita
eterna ora erano servite a togliergliela. Ripensarci mi fece
rabbrividire, così come vedere il suo tatuaggio sul braccio
abbandonato al suo fianco. Alla fine, quel marchio sul suo corpo
non aveva alcun significato. Lui poteva ritirare la sua
benevolenza quando e come voleva.
La lite poteva essere stata scatenata da qualsiasi cosa, non
l’avrei mai saputo con certezza, ma la tempistica rendeva
improbabile che si trattasse di qualcosa di diverso dalla stanza
segreta. In qualche modo, Adair doveva aver scoperto che gli
erano stati sottratti degli oggetti e aveva dato la colpa a lei. E lei
non aveva negato. O aveva voluto proteggermi, oppure – molto
più probabilmente – aveva accolto con gioia la furia di Adair,
sperando di trovare così la tanto agognata morte.
Avevo preso quelle cose senza sapere quale sarebbe stato il
prezzo da pagare. Non credevo che la cosa si sarebbe ritorta
contro Uzra. Né pensavo che lui sarebbe mai giunto al punto di
uccidere uno di noi, tanto meno Uzra. Era molto più in sintonia
col suo carattere somministrare una feroce punizione fisica e
tenere in pugno la sua vittima, tremante di terrore. Instillarle la
paura che Adair lo facesse di nuovo. Non avrei mai pensato che
l’avrebbe uccisa, perché credevo che, a suo modo, lui l’amasse.
Mi accasciai per terra accanto a lei, le presi la mano, ma era
già diventata fredda. Forse le nostre anime abbandonavano i
nostri corpi più in fretta del normale, tanto ambivano la
liberazione. La cosa terribile era che avevo pianificato la mia
fuga, mia e di Jonathan, ma non mi era nemmeno venuto in
mente di portare Uzra con noi. Anche se sapevo quanto
disperatamente volesse liberarsi, non mi era balenato nemmeno
per un secondo di aiutare quella povera ragazza, che aveva
sopportato il peso della folle ossessione di Adair per anni e anni,
che era stata così gentile con me e mi aveva aiutato a orientarmi
in quella tana di lupi. L’avevo data per scontata e in quel
momento, riconoscendo freddamente il mio egoismo, mi chiesi
se in fondo io non fossi davvero più simile a Adair di quanto
volessi ammettere.
Jonathan aveva sentito le urla e ci aveva raggiunto in cima
alle scale. Vedendo il corpo di Uzra sul pavimento, decise di
andare ad affrontare direttamente Adair e fargliela pagare. A
stento io e Dona riuscimmo a trattenerlo. «A che scopo?» urlai a
Jonathan. «Tu e Adair potreste duellare fino alla fine dei tempi
senza riuscire a risolvere la cosa! Per quanto vogliate uccidere
l’altro, nessuno di vuoi due può!» Quanto avrei voluto dirgli la
verità, dirgli che Adair non era chi pensavamo che fosse, che era
molto più potente e pericoloso e spietato di quanto chiunque di
noi immaginasse. Ma sapevo di non poter correre il rischio.
Avevo paura che Adair intuisse i miei piani.
E poi non potevo rivelare a Jonathan i miei sospetti. Ora
sapevo tutto. Quegli sguardi di ammirazione che Adair
rivolgeva al mio Jonathan non riguardavano questioni di letto. Il
desiderio che nutriva per Jonathan aveva radici molto più
profonde. Adair voleva toccare quel corpo, accarezzarlo,
esplorarlo in ogni dettaglio non perché voleva fare sesso con
Jonathan ma perché voleva possederlo. Possedere quel
magnifico corpo, vivere con quel bellissimo volto. Voleva
reincarnarsi in un corpo irresistibile.
Adair ci diede istruzioni precise: dovevamo pulire il camino
in cucina e preparare un catafalco. La sguattera e la cuoca
scapparono quando calammo come un’orda sulla cucina. Io,
Dona e Alejandro togliemmo le pentole dal focolare dell’ampio
camino. Strofinammo le pareti annerite e spazzammo via la
cenere. Il catafalco era fatto con due cavalletti di legno
appoggiati su larghe assi. Costruimmo una pira nello spazio tra i
cavalletti con parrucche e pigne spalmate di sego per facilitare
l’accensione, poi paglia e sterpi secchi per alimentare la fiamma.
Il corpo, avvolto in un sudario bianco, fu adagiato sulle assi.
Fu avvicinata una torcia agli sterpi, che presero subito fuoco.
I ceppi impiegarono un po’ ad accendersi e ci volle circa un’ora
prima che le fiamme si levassero potenti. Il calore in cucina era
insopportabile. Infine, anche il corpo prese fuoco, il sudario
bruciò rapidamente con le fiamme che lo lambivano, quasi
danzando, mentre fiocchi di cenere nera si levavano con la
corrente di calore e scomparivano su per il camino. L’odore,
penetrante e spaventoso, rese inquieti tutti gli abitanti della casa.
Soltanto Adair riusciva a sopportarlo: si era seduto su una
poltrona proprio davanti al camino e osservò il fuoco divorare
Uzra poco a poco: prima i suoi capelli, poi i suoi vestiti, poi la
pelle delicata delle sue braccia e infine la carne. Giunse il
momento in cui il cadavere, imbevuto di unguenti, iniziò ad
arrostire e a friggere, e l’odore di carne bruciata pervase la casa.
«Questo odore riempirà tutta la strada. Non capisce che i
vicini lo sentiranno?» disse Tilde acida, con gli occhi umidi.
Ci radunammo nel corridoio davanti alla cucina, a osservare
Adair, ma dopo un po’ Tilde e Dona si arresero e tornarono nelle
loro camere, borbottando sommessamente. Io e Alejandro
rimanemmo davanti alla cucina, seduti a terra, a guardare Adair.
Quando il cielo cominciò a schiarirsi, il fuoco si era quasi
estinto. La casa era satura di fumo grigio, che rimaneva sospeso
nell’aria. Solo quando il fuoco fu completamente spento Adair si
alzò. Passandoci accanto, toccò la spalla di Alejandro. «Fai
raccogliere le ceneri e falle disperdere nell’acqua» gli ordinò
con voce cupa.
Alejandro insistette per farlo lui stesso, inginocchiandosi
accanto al focolare ancora caldo con uno scopino e una paletta.
«C’è troppa cenere» mormorò, come se io non fossi lì con lui.
«Forse perché c’era tutto quel legno. Le ceneri di Uzra non
possono essere più di una manciata.» In quel momento, lo
scopino incontrò qualcosa di solido e lui infilò la mano nel
mucchietto di resti. Trovò un piccolo pezzettino d’osso
consumato. «Forse dovrei tenerlo. Per Adair. Un giorno
potrebbe essere lieto di averlo. Cose come queste costituiscono
amuleti potentissimi» si interrogò, rigirandoselo tra le dita come
un esemplare rarissimo. Ma poi lo lasciò cadere nella paletta. «O
forse no.»
Dopo quanto era successo, Adair scelse di stare in disparte.
Durante il giorno restava nella sua camera e l’unico visitatore
che riceveva era il notaio, il signor Pinnerly, che il giorno
seguente accorreva con una strabiliante quantità di documenti
che spuntavano dalla cartella ricolma. Emergeva dalla camera
un’ora dopo, col volto arrossato come se avesse fatto una corsa
campestre. Un giorno lo intercettai vicino alla porta d’ingresso,
dichiarandomi preoccupata per il suo rossore affaticato e
offrendogli qualcosa di freddo da bere.
«Siete molto gentile» disse ingollando un bicchiere di
limonata, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Temo però
di non poter rimanere molto. Il vostro padrone nutre aspettative
molto alte nei miei confronti, forse più di quanto un semplice
uomo di legge come me possa portare a compimento. Non è che
posso piegare il tempo al mio volere» borbottò esasperato, poi
notò i documenti che minacciavano di fuoriuscire dalla sua
cartella e si affannò a rimetterli a posto.
«Oh, davvero? Be’, è molto esigente, in effetti, ma ritengo
che voi siate sufficientemente abile da accontentarlo e compiere
qualsiasi incarico Adair vi affidi» dissi, adulandolo senza
ritegno. «Ditemi, che miracoli si aspetta da voi?»
«Una serie di trasferimenti di denaro piuttosto complicati,
che coinvolgono banche europee, alcune in città di cui nemmeno
ho sentito parlare» spiegò, poi parve rendersi conto che non era
opportuno ammettere manchevolezze di fronte a un membro
della casata di Adair. «Ma non è niente, non fateci caso, ve ne
prego. Sono soltanto un po’ affaticato, mia cara. Non è il caso
che una signorina della sua bellezza si preoccupi di materie così
mondane.» Mi diede qualche colpetto alla mano con fare così
paternalistico che avrei voluto schiaffeggiargliela. Ma non avrei
ottenuto quello che volevo.
«Tutto qui? Si tratta soltanto di far girare dei soldi? Pensavo
che un uomo intelligente come lei sarebbe stato capace di fare
una cosa del genere con un gesto del mignolo.» Punteggiai le
mie parole con un piccolo movimento osceno del mio mignolo e
un movimento della bocca, un gesto che avevo visto fare a
parecchi ragazzini in vendita per attirare clienti maschi.
Funzionava. La discrezione parve fuggirgli dalle orecchie come
segatura da un pupazzo rotto e mi fissò con la bocca spalancata.
Se già non sospettava che in quella casa vivessero soltanto
prostitute e leccaculo, ora lo sapeva con certezza.
«Mia cara, per caso avete appena...»
«Che cos’altro vi ha chiesto Adair? Niente che possa tenervi
occupato fino a notte fonda, immagino. Niente che vi possa
impedire di, diciamo, intrattenere un’ospite...»
«Biglietti per la diligenza per Philadelphia, domani» rispose
in fretta. «Gli ho detto che era praticamente impossibile. Così
adesso gli devo noleggiare una carrozza privata...»
«Per domani!» esclamai. «Dunque parte così in fretta!»
«E non ha intenzione di portarvi con lui, mia cara. No. Siete
mai stata a Philadelphia? È una città straordinaria, molto più
viva di Boston, e non è certo il posto in cui, per fare un esempio,
la signora Pinnerly verrebbe mai. Forse potrei mostrarvela io
stesso...»
«Aspettate! Come fate a sapere che io non ci andrò? Ve l’ha
detto lui?»
Il notaio mi sorrise apertamente. «Suvvia, non agitatevi. Non
è che abbia intenzione di fuggire con un’altra donna. Andrà con
un uomo, il fortunato beneficiario di tutti i maledetti
trasferimenti di denaro. Se il vostro padrone volesse un mio
consiglio, gli direi che tanto varrebbe adottarlo, quell’uomo,
perché alla lunga sarebbe più semplice...»
«Jonathan?» gli chiesi. Avrei voluto prenderlo per le spalle e
scuoterlo per fermare tutto quel chiacchiericcio e strappargli il
nome di bocca come una lumaca dal guscio. «Jacob, volevo dire,
Jacob Moore?»
«Sì, il nome è quello. Lo conoscete? Diventerà presto un
uomo molto ricco, ve lo posso garantire. Se mi consentite di
parlare apertamente, forse dovreste prendere in considerazione
l’idea di ingraziarvi questo signor Moore, subito, prima che si
sparga la voce...» Avendo esplicitato i suoi pregiudizi circa le
mie intenzioni, Pinnerly si era messo in un angolo da solo. Mi
divertii a vedere come avrebbe cercato di tirarsene fuori. Si
schiarì la voce, imbarazzato. «Non che io abbia immaginato
anche per un solo momento che voi... e il beneficiario del
conte... dovete scusarmi. Credo di aver oltrepassato i confini
della mia professione e...»
Giunsi le mani in un gesto pudico. «Credo anch’io.»
Mi restituì il bicchiere e prese la cartella. «Vi prego,
credetemi se dico che ho parlato a sproposito senza volerlo.
Confido che non andiate a riferire al conte le mie... cioè, la
mia...»
«La vostra indiscrezione? No, signor Pinnerly. Sono una
donna discreta.»
Esitò. «E suppongo che la proposta di una visita notturna...»
Scossi il capo. «È fuori questione.»
Mi rivolse uno sguardo straziato, a metà tra il rimpianto e il
desiderio, e poi scappò dalla casa del suo cliente più strano, ben
felice, credo, di lasciarsela alle spalle.
A quanto pareva, ingenti somme di denaro venivano
trasferite su conti intestati a Jonathan e quel fatidico viaggio a
Philadelphia sarebbe avvenuto l’indomani. Adair era pronto a
fare la sua mossa, il che voleva dire che il tempo stava per
scadere per me. E per Jonathan. Dovevo agire immediatamente,
oppure avrei trascorso tutta l’eternità tormentata dal rimorso.
Andai da Edgar, il maggiordomo, quello incaricato di
sovrintendere alla servitù e di mandare avanti l’amministrazione
della casa. Edgar era di indole sospettosa e incline al furto, come
tutti quelli che entravano a far parte di quella casa, dal padrone
fino all’ultimo dei servi. Il che voleva dire che sapeva fare bene
il suo lavoro, ma faceva il minimo necessario. È una
caratteristica deplorevole se ci si aspetta da un maggiordomo
che una casa venga governata al meglio, ma perfetta per uno che
lavorava in un luogo in cui le convenzioni e gli scrupoli erano
stati abbandonati da tempo.
«Edgar» dissi, intrecciando le mani davanti a me con
sussiego, proprio come una brava padrona di casa. «C’è bisogno
di fare una riparazione nella cantina e Adair desidera che sia
eseguita durante la sua assenza. Per favore, fate chiamare il
muratore e ditegli di portare una carriola di pietre e una di
mattoni nello scantinato entro oggi pomeriggio. Ditegli che tutto
dev’essere pronto per iniziare i lavori non appena il conte sarà
partito. Lo pagheremo il doppio purché esegua gli ordini.»
Quando Edgar mi rivolse uno sguardo insospettito – la cantina
cadeva a pezzi da tempo, perché tutta quella fretta proprio ora? –
aggiunsi: «E, mi raccomando, non disturbate Adair con questa
faccenda. È occupato a prepararsi per il viaggio. Ha affidato a
me la questione perché io la risolva in sua assenza, e mi aspetto
che sia così». Potevo permettermi tranquillamente di bistrattare i
servitori; Edgar sapeva bene che era meglio non contrariarmi.
Mi voltai e mi allontanai con passo altezzoso.
Dovevo avviare la fase seguente del mio piano.
45
La mattina seguente, la casa ferveva di preparativi per la
partenza di Adair. Lui trascorse diverse ore a scegliere quali
abiti portare con sé; poi spedì dei servi a mettere il tutto nei bauli
e a caricarli sulla diligenza. Jonathan si era rinchiuso in camera
sua, dove avrebbe dovuto preparare i bagagli: ma avevo la
sensazione che non riuscisse a convincersi a partire e che fosse
in arrivo una lite.
Mi nascosi nella dispensa con un mortaio preso dalla cucina e
sbriciolai il grumo di fosforo con estrema cura, fino a ridurlo in
polvere finissima. In quei momenti, mi sentii più nervosa che
mai e ad aggravare il mio stato c’era la preoccupazione che
Adair fiutasse l’inghippo intuendo che stavo tramando contro di
lui. A dire il vero, non conoscevo la portata dei suoi poteri,
ammesso che si potessero definire così. Ma ero arrivata a quel
punto, ormai, e non avevo più altra scelta: dovevo andare fino in
fondo, pur di salvare la mia vita e quella di Jonathan.
La casa era immersa nella quiete e nel silenzio. Forse era
soltanto la mia immaginazione, ma quel silenzio mi sembrava
carico di emozioni e tensioni inespresse: abbandono,
risentimento, rabbia verso Adair per quello che aveva fatto a
Uzra, incertezza su quale sarebbe stato il destino di tutti noi.
Con un vassoio tra le mani, sul quale avevo posato il vino
drogato, superai tutte le porte delle camere da letto fino a
giungere davanti a quella di Adair. Da un’ora, da quando cioè i
servitori avevano caricato i bauli, non proveniva alcun rumore
da lì dentro. Bussai una volta e, senza attendere una risposta,
aprii la porta e scivolai all’interno.
Adair era seduto in una poltrona che aveva spostato accanto
al fuoco. Era una cosa insolita, poiché usualmente si sdraiava su
un cumulo di cuscini. Forse era seduto più formalmente perché
agghindato come un gentiluomo di quel tempo e non a petto
nudo come era suo uso. Sedeva tutto irrigidito, con calzoni alla
zuava e stivali, un gilet e una camicia dal colletto alto, con una
cravatta di seta. Il suo cappotto era piegato sulla sponda di una
poltrona lì accanto. Indossava un completo di lana grigio scuro,
con poche decorazioni o ricami, molto più sobrio rispetto a
come si vestiva di solito. Non aveva la parrucca, si era pettinato
i capelli all’indietro e li aveva legati stretti. Aveva
un’espressione triste, come se non facesse quel viaggio per sua
volontà ma perché vi era costretto. Alzò una mano e fu solo in
quel momento che notai il narghilé accanto a lui. La stanza si
stava riempiendo del profumo dell’oppio, e doveva essere una
varietà piuttosto forte. Succhiò dal bocchino, incavando le
guance, con gli occhi mezzo chiusi.
Appoggiai il vassoio su un tavolino accanto alla porta e mi
accovacciai per terra vicino a lui. Infilai delicatamente le dita nei
riccioli che gli erano caduti sulla fronte e li scostai. «Pensavo
che avremmo potuto stare un po’ insieme prima della tua
partenza. Ho anche portato da bere.»
Aprì lentamente gli occhi. «Sono contento che tu sia venuta.
È da un po’ che volevo spiegarti il senso di questo viaggio.
Probabilmente ti stai chiedendo perché mi porto Jonathan e non
te.» Repressi l’istinto di rivelargli che sapevo tutto e attesi che
proseguisse. «So che non riesci a sopportare di stare lontana da
Jonathan, ma te lo porterò via soltanto per pochi giorni» disse
con aria di scherno. «Jonathan tornerà, mentre io proseguirò il
viaggio da solo. Starò via per un po’. Sento il bisogno di stare da
solo. È una necessità che mi pervade, di tanto in tanto... Stare da
solo con i miei pensieri, con i miei ricordi.»
«Ma come puoi lasciarmi così? Non ti mancherò?» gli chiesi,
cercando di avere un tono civettuolo.
Lui annuì. «Certo che mi mancherai, ma non posso farci
niente. È per questo che Jonathan mi accompagnerà per un
tratto, così che io possa spiegargli un po’ di cose. Si prenderà
cura della casa e di voi mentre io sarò via. Mi ha raccontato di
come ha mandato avanti la famiglia e impedito ai debiti dei tuoi
concittadini di portare alla rovina un intero villaggio, per cui
governare i conti di questa casa non sarà che un gioco per lui. Ho
trasferito tutti i miei soldi a suo nome. Sarà lui a comandare,
perciò tu e gli altri non avrete altra scelta, dovrete seguire i suoi
ordini.»
Sembrava quasi convincente e mi chiesi, per un esile istante,
se non avessi male interpretato la situazione. Ma conoscevo
Adair fin troppo bene per credere davvero che tutto fosse così
semplice e pulito come diceva lui. «Lascia che ti versi da bere»
dissi, alzandomi.
Avevo scelto un brandy particolarmente forte,
sufficientemente aromatico da mascherare il gusto del fosforo.
Giù nella dispensa, avevo usato un cono di carta per far scivolare
la polverina nella bottiglia, avevo aggiunto una discreta quantità
di laudano, messo un tappo di sughero e mescolato lentamente e
con cura. Mentre lo maneggiavo, il fosforo aveva rilasciato
qualche scintilla nell’aria, perciò sperai che non ripetesse lo
scherzo, rivelando la propria presenza con un bagliore sul fondo
del bicchiere di Adair.
Versando la mistura nel bicchiere per lui, notai sulla credenza
alcuni oggetti sparsi, probabilmente in vista del viaggio. C’era
un rotolo di documenti legato da un nastro, i fogli erano vecchi e
ruvidi ed ero certa provenissero dalla risma raccolta nel libro
con la copertina di legno, quello della stanza segreta. Accanto a
esso c’erano una tabacchiera e un piccolo flacone, simile a quelli
utilizzati per i profumi, contenente un’oncia di liquido marrone
salmastro.
«Ecco» dissi, porgendo un calice pieno a Adair. Me n’ero
versato uno anch’io, pur non avendo certo l’intenzione di berlo
tutto. Soltanto un sorso, per convincere Adair che non ci fosse
niente di anormale. Lui sembrava già pesantemente sotto
l’effetto dell’oppio, anche se sapevo che l’oppio da solo non
sarebbe bastato a farlo addormentare.
Tornai ad accoccolarmi ai suoi piedi e lo guardai con quello
che speravo fosse inteso come uno sguardo di preoccupata
adorazione. «È da giorni e giorni ormai che sei inquieto. È per
quello che è successo con Uzra, vero? No, non protestare: hai
tutti i diritti di essere sconvolto da quello che è accaduto dopo
averla tenuta con te per centinaia d’anni. So che lei significava
qualcosa per te.» Lui sospirò e mi permise di passargli
nuovamente il bocchino del narghilé. Era evidente il suo
bisogno di obnubilare i pensieri. Sembrava quasi malato: si
muoveva lentamente, era gonfio. Forse stava soffrendo per aver
ucciso l’odalisca, o forse aveva paura di abbandonare quel corpo
per prendere quello di Jonathan: in fondo, era passato molto
tempo dall’ultima volta che l’aveva fatto. Poteva essere un
processo doloroso. Forse aveva paura delle conseguenze di un
ulteriore sortilegio, che sarebbe andato ad aggiungersi alla lista
dei peccati che aveva già commesso, una lista per la quale un
giorno gli sarebbe stato presentato il conto.
Dopo aver fumato ancora un po’, mi guardò con gli occhi
socchiusi. «Hai paura di me?»
«Perché hai ucciso Uzra? Avevi le tue ragioni. Non spetta a
me metterle in dubbio. Le cose stanno così, il padrone sei tu.»
Lui chiuse gli occhi e tornò a reclinare il capo sull’alto
schienale della poltrona. «Sei sempre stata quella più
ragionevole con me, Lanore. Con gli altri è impossibile vivere.
Nei loro occhi c’è sempre uno sguardo di accusa. Sono freddi, si
nascondono da me. Dovrei sterminarli e ricominciare da capo.»
Dal tono della sua voce, capii che non era una vuota minaccia;
un tempo, aveva fatto la stessa cosa a un vecchio gruppo di suoi
cortigiani. In un attacco di furia, aveva commesso una strage.
Nonostante avessimo la capacità di vivere in eterno, a ben
vedere la nostra esistenza era sempre appesa a un filo.
Dovetti imporre alle mie mani di non tremare mentre gli
accarezzavo la fronte. «Che cosa aveva fatto per meritare quella
punizione? Ti va di dirmelo?»
Lui scostò la mia mano e riprese a succhiare dal bocchino.
Presi la bottiglia e gli versai un altro bicchiere. Gli consentii di
accarezzarmi goffamente il volto con le sue mani assassine e
continuai a blandirgli la coscienza con false rassicurazioni sul
fatto che aveva avuto tutti i diritti di uccidere l’odalisca.
A un certo punto, tolse la mia mano dalla sua fronte e iniziò
ad accarezzarmi il polso, percorrendo le vene con la punta delle
dita. «Ti piacerebbe prendere il posto di Uzra?» mi chiese, con
una punta di agitazione.
La sola idea mi terrorizzava, ma cercai di non mostrarglielo.
«Io? Ma io non ti merito... Non sono bella come Uzra. Non
potrei mai darti quello che ti dava lei.»
«Puoi darmi qualcosa che lei non è mai stata capace di darmi.
Lei non si è mai arresa a me, mai. Mi ha odiato e disprezzato
ogni singolo giorno che siamo stati insieme. Con te invece sento
che... Ci sono stati dei momenti felici tra di noi, vero? Mi piace
pensare che in alcuni momenti tu mi abbia perfino amato.» Posò
le labbra sul mio polso, sentendo le pulsazioni. «Potrei renderti
più facile amarmi, se tu lo volessi. Saresti mia, mia soltanto.
Non ti dividerei più con nessuno. Che cosa ne pensi?»
Continuò ad accarezzarmi e baciarmi il polso, mentre io mi
sforzavo di trovare una risposta che non suonasse
immediatamente falsa. Alla fine, fu lui a rispondere per me. «È
per via di Jonathan, vero? Lo sento nel tuo cuore. Vuoi essere
libera per Jonathan, per il giorno in cui lui verrà da te. Io voglio
te, ma tu vuoi Jonathan. Be’... forse c’è un modo perché tutto
questo si possa risolvere, Lanore. Forse c’è un modo per far sì
che entrambi abbiamo ciò che più desideriamo al mondo.»
Sembrava una confessione, una conferma di tutto quello che
avevo sospettato, e mi fece gelare il sangue nelle vene.
L’abilità quasi soprannaturale di Adair nell’individuare
anime corrotte sarebbe stata la ragione della sua fine. Perché mi
aveva scelta bene. Mi aveva individuata nella massa, sapendo
che ero il tipo di persona che, senza alcuna esitazione, sarebbe
stata capace di versare bicchiere drogato dopo bicchiere drogato
a un uomo che aveva appena dichiarato di amarla. Chissà, forse
se si fosse trattato soltanto di me, se soltanto il mio, di futuro,
fosse stato in pericolo, avrei scelto e agito diversamente. Ma
Adair aveva coinvolto Jonathan nel suo piano. Forse era
convinto di rendermi felice, forse pensava che fossi così
superficiale da stare con lui e amarlo purché lui avesse il corpo
di Jonathan da farmi ammirare e godere. Ma dentro quel corpo ci
sarebbe stata l’anima perversa e omicida di Adair, dietro il volto
del mio amato ci sarebbe stata la sua anima maledetta e l’avrei
sentita in ogni parola, in ogni carezza. Che cos’altro potevo
fare?
Lasciò andare il mio braccio e cadere il bocchino del
narghilé. I suoi movimenti erano intorpiditi, rallentati come un
giocattolo a molla che ha esaurito la carica. Non potevo
aspettare ulteriormente. Visto quello che stavo per fargli,
dovevo sapere. Dovevo essere assolutamente certa. Avvicinai le
labbra al suo orecchio e sussurrai: «Tu sei il medico, vero? Sei tu
l’uomo di cui mi hai raccontato, vero?»
Parve aver bisogno di un momento per capire il senso delle
mie parole, ma poi non reagì con rabbia. Al contrario, un lento
sorriso gli si dipinse in volto. «Sei così intelligente, mia Lanore.
Sei sempre stata la più intelligente, l’avevo capito dal primo
momento. Eri l’unica che capiva quando stavo mentendo... Hai
trovato l’elisir. Hai trovato il sigillo... Oh, sì, me ne sono
accorto. Ho sentito il tuo profumo sul velluto... In tutto il tempo
che ho vissuto, tu sei la prima ad aver svelato il mio enigma, ad
aver interpretato correttamente gli indizi. Mi hai scoperto, e
sapevo che l’avresti fatto.»
Stava perdendo lucidità e a un certo punto non sembrò più
accorgersi della mia presenza. Mi sporsi su di lui, afferrandolo
per l’orlo del gilet, e dovetti scuoterlo per avere la sua
attenzione. «Adair, dimmi: quali sono i tuoi piani con Jonathan?
Vuoi prendere possesso del suo corpo, vero? È questo che hai
fatto al ragazzino zingaro, il ragazzo che ti ha servito, e ora vuoi
Jonathan. È così, vero?»
Aprì gli occhi di scatto e il suo sguardo gelido si posò su di
me, facendomi quasi perdere il controllo. «Se fosse possibile...
Se una cosa simile dovesse succedere veramente... mi odieresti,
Lanore, vero? Eppure non sarei diverso dall’uomo che conosci,
l’uomo che hai amato. Perché tu mi hai amato, Lanore, lo so.»
«È vero» gli dissi, per rassicurarlo.
«Avresti me e avresti anche Jonathan. Ma senza la sua eterna
indecisione. Senza la sua indifferenza crudele verso i tuoi
sentimenti, senza la sua crudeltà, il suo egoismo, i suoi
rimpianti. Io ti amerei, Lanore, e tu saresti sicura dei miei
sentimenti. È una cosa che non puoi avere da Jonathan. È
qualcosa che non otterrai mai da lui.» Le sue parole mi scossero
perché sapevo che erano vere. E furono anche parole profetiche;
fu come una sorta di maledizione che Adair mi lanciò,
condannandomi all’infelicità eterna.
«So che è così. Eppure...» mormorai, continuando ad
accarezzargli il volto, cercando di capire quanto fosse sul punto
di cedere. Mi pareva impossibile che un corpo potesse ingerire
così tanta droga e rimanere conscio.
«Eppure, è Jonathan che scelgo.»
A quelle parole, lo sguardo di Adair si illuminò di una piccola
scintilla di comprensione, comprensione di ciò che avevo
appena detto. Comprensione del fatto che qualcosa di terribile
gli stava accadendo, perché ora non riusciva più a muoversi. Il
suo corpo si stava arrendendo alla droga, anche se lui la
combatteva. Si contorse sulla poltrona come la vittima di un
infarto, con convulsioni e tremori, la bava che gli colava dagli
angoli della bocca formando piccole bolle. Mi rialzai in piedi di
scatto, evitando le sue mani che afferrarono l’aria invece di me.
Si bloccò a mezz’aria. Si afflosciò. Inerte. E di colpo si
immobilizzò, rigido come un cadavere e grigio come acqua
sporca, e rotolò giù dalla poltrona cadendo sul pavimento.
Era tempo di compiere l’ultima mossa. Tutto era già stato
predisposto poco tempo prima, ma non potevo fare quell’ultima
parte da sola. Avevo bisogno di Jonathan. Corsi fuori dalla
stanza e lungo il corridoio fino alla camera da letto di Jonathan,
entrando senza bussare. Lui stava camminando nervosamente
per la stanza, ma sembrava pronto per uscire, con il cappotto
piegato sul braccio e il cappello in mano.
«Jonathan» esalai, richiudendo la porta dietro di me e
impedendogli così di uscire.
«Dove sei stata?» mi chiese, con un tono arrabbiato. «Ti ho
cercata ovunque senza trovarti... Ho aspettato, sperando che tu
venissi da me, e poi non ce l’ho più fatta. Adesso vado da Adair
a dirgli che non voglio partire con lui, non ne ho alcuna
intenzione. Gli dirò che non voglio più saperne niente, di lui, e
che voglio andarmene.»
«Aspetta! Jonathan, ho bisogno di te. Devi aiutarmi.» Per
quanto fosse in preda alla rabbia, Jonathan si accorse che ero
sconvolta e mise da parte le sue recriminazioni per ascoltarmi.
Gli raccontai tutto, sicura di apparirgli una pazza, ma non avevo
avuto il tempo di prepararmi il discorso, di trovare un modo per
spiegargli tutto senza sembrare folle o paranoica. E dentro di me
mi sentii morire, perché sapevo che mi avrebbe vista per quella
che ero: un essere malvagio, capace di condannare qualcuno a
sofferenze terribili: la stessa che aveva indotto Sophia a
suicidarsi, crudele, dura come l’acciaio, anche dopo tutto quello
che io stessa avevo sofferto. Ero sicura che Jonathan mi avrebbe
denunciata. Ero certa che sarebbe scappato da me, che l’avrei
perso per sempre.
Quando gli spiegai tutto quanto, di come Adair avesse
progettato di uccidere la sua anima e prenderne il posto dentro il
suo corpo, trattenni il fiato, aspettando che Jonathan mi
scacciasse o mi schiaffeggiasse addirittura, definendomi una
povera squinternata. Aspettai di sentire il fruscio del mantello, la
porta richiudersi di schianto.
Ma non fece niente di tutto questo.
Mi prese la mano e in quel momento avvertii un legame fra di
noi, un legame che non sentivo da tempo. «Mi hai salvato,
Lanny. Un’altra volta» mormorò, con voce rotta dalla
commozione.
Quando vide Adair accasciato sul pavimento, immobile come
un cadavere, Jonathan ebbe un moto di ribrezzo. Ma subito
dopo, si diede da fare per aiutarmi. Legammo Adair più stretto
che potemmo: le braccia dietro la schiena, le caviglie, una benda
appallottolata in bocca. Quando Jonathan iniziò a legare i polsi
di Adair alle caviglie, piegando il nostro prigioniero all’indietro
in una posizione di totale vulnerabilità, mi ricordai del terribile
strumento di tortura in cui ero stata legata. Provai la stessa
orrenda sensazione di vulnerabilità e seppi di non poter fare la
stessa cosa a Adair, anche se era stato proprio lui a torturarmi in
quel modo. Per quanto tempo sarebbe rimasto legato in quella
posizione prima che qualcuno lo trovasse e lo liberasse?
Sembrava una punizione troppo crudele, perfino per lui.
Avvolgemmo Adair nella sua coperta di zibellino preferita,
una piccola concessione. Io uscii per prima, così che Jonathan,
se avesse incontrato uno degli altri, avrebbe potuto dire che quel
fagotto fra le sue braccia ero io. Ci accordammo di incontrarci
nel seminterrato per portare a compimento il mio piano.
Io corsi avanti, scendendo le scale della servitù per arrivare
nel seminterrato. Aspettai Jonathan ai piedi delle scale,
appoggiata alla fredda parete di pietra, divorata dalla
preoccupazione per lui. Avevo lasciato che fosse lui da solo a
correre il rischio di portar via Adair da quella stanza. Anche se
gli altri si erano tutti isolati, sconvolti dalla fine di Uzra e
confusi dalla partenza di Adair, non c’era alcuna garanzia che
Jonathan non incrociasse uno di loro lungo il percorso. Avrebbe
potuto essere visto da uno della servitù, e sarebbe bastato quello
per mandare a rotoli il nostro piano. Attesi in preda all’ansia
finché Jonathan non spuntò sulle scale, con il corpo di Adair
accasciato fra le sue braccia. «Ti ha visto qualcuno?» gli chiesi.
Lui scosse il capo.
Lo precedetti attraverso il contorto labirinto di corridoi, fino a
giungere al piano più basso del seminterrato, la cavernosa
cantina in cui venivano conservate le casse di vino. In quel
punto, sembrava di essere nelle segrete di un castello. Era
completamente separato dal resto dell’edificio ed era circondato
da uno spesso strato di terreno e di pietre, allo scopo di
mantenere costante la temperatura per il vino. In fondo, avevo
scovato una piccola nicchia priva di finestre, incavata nelle
massicce fondamenta della casa. Sembrava un ampliamento
della cantina, iniziato e mai portato a termine: c’erano mattoni e
assi di legno sparsi sul terreno. Il giorno prima, come avevo
ordinato, erano stati consegnati i mattoni e le pietre, impilati sul
pavimento accanto a un secchio di malta, coperto da un panno
inumidito che ora era quasi asciutto. Jonathan osservò quei
materiali e poi mi guardò negli occhi, intuendo immediatamente
a che cosa servissero. Lasciò cadere il corpo inerte di Adair sul
terreno freddo e umido. Senza dire una parola, si tolse la giacca e
si rimboccò le maniche della camicia.
Rimasi a fare compagnia a Jonathan mentre chiudeva
l’apertura della piccola nicchia; posò una prima fila di mattoni,
poi iniziò a sistemare strati di pietre simili a quelle del muro
circostante. Jonathan lavorava in silenzio, posando le pietre una
a una con attenzione, sistemandole con un colpo di manico della
cazzuola, come aveva imparato a fare da giovane. Io rimasi tutto
il tempo a fissare la forma inerte di Adair, sul pavimento, che a
poco a poco scompariva nell’ombra.
Quando giunse l’ora in cui era prevista la partenza di Adair,
salii e mandai via la diligenza, spiegando al cocchiere che i
signori avevano cambiato idea, ma volevano comunque che i
loro bagagli fossero portati a destinazione, come previsto. Poi
accennai casualmente a Edgar che il padrone era già partito, un
po’ prima rispetto a quanto previsto per evitare di avere troppa
attenzione attorno a sé. Aveva voluto partire in sordina. Il fatto
che le camere di Adair e Jonathan fossero vuote confermò la mia
versione e Edgar si limitò a fare spallucce e riprese i suoi
compiti. Se gli altri gli avessero chiesto qualcosa, avrebbe dato
la mia versione dei fatti.
Tornai giù. Jonathan continuò a lavorare meticolosamente,
fermandosi ogni volta che sentivamo un rumore o un
movimento che sembrava nella nostra direzione. Per lo più, là
sotto c’era un silenzio tombale e avvertivamo a stento dei rumori
provenire dai piani superiori. Del resto, tra la cantina e il primo
piano c’era un piano di magazzini pieni. Eppure non riuscivo a
tranquillizzarmi, sentivo che gli altri sarebbero venuti a
cercarmi. E volevo lasciarmi alle spalle il prima possibile
quell’atto tremendo. L’uomo in quella cella è un mostro,
continuai a ripetermi per acquietare il mio senso di colpa
crescente. Non è l’uomo che credevo.
«Fai più in fretta, ti prego» mormorai, appollaiata su una
vecchia cassa.
«Non posso, Lanny» mi rispose Jonathan senza voltarsi,
senza interrompere il ritmo di lavoro. «La tua droga...»
«Non è mia. Lo stiamo facendo assieme!» urlai, saltando giù
dalla cassa, agitata.
«La droga prima o poi esaurirà il suo effetto. I nodi si
allenteranno e il bavaglio si scioglierà. Ma questo muro deve
reggere. Non posso sbagliare. Dev’essere il più resistente
possibile.»
«Va bene, ho capito» dissi, tormentandomi le mani mentre
andavo avanti e indietro in preda a un’agitazione crescente.
Sapevo benissimo che la pozione non poteva ucciderlo, anche se
era velenosa, ma speravo che lo facesse dormire per sempre o
che gli avesse causato dei danni cerebrali permanenti, così che
non si sarebbe mai reso conto di quello che gli era successo.
Perché non era certo un essere magico in sé, non era un demone
né un angelo. Non poteva far sì che i nodi si sciogliessero da
soli, né attraversare i muri come un fantasma. Il che significava
che a un certo punto si sarebbe svegliato, al buio, e non sarebbe
riuscito a togliersi il bavaglio, né a chiedere aiuto, e chissà per
quanto tempo sarebbe rimasto lì, murato vivo.
Mi fermai davanti alla cella per vedere se percepivo la
presenza di Adair, quella sensazione elettrica alla base della
nuca che testimoniava il nostro legame eterno. Non sentii nulla.
Forse per via del fatto che Adair era pesantemente sedato. Forse
l’avrei avvertito di nuovo quando si fosse svegliato, e sarebbe
stata una tortura sentire giorno dopo giorno l’eco della sua
agonia nella mia testa senza poterci fare nulla. Infinite notti ho
ripensato a quello che ho fatto a Adair, e ci sono state volte in cui
sono giunta a pensare che se fosse possibile tornare indietro, non
lo rifarei più.
Ma in quel momento, non potevo permettermi simili pensieri.
Era troppo tardi per avere rimorsi.
Troppo tardi per la pietà.
Quella sera, Jonathan sgattaiolò fuori mentre gli altri erano
via, a una delle solite feste.
Ebbi un assaggio dei litigi che mi aspettavano quando
Jonathan, una volta uscito, si voltò verso di me e mi chiese:
«Adesso possiamo tornare a St. Andrew, giusto?»
Io trattenni il fiato. «St. Andrew è l’ultimo posto al mondo in
cui possiamo andare. Lì ci scoprirebbero subito per quel che
siamo. Non invecchieremo mai, Jonathan. Non ci ammaleremo
mai. Tutte le persone da cui vuoi tornare un giorno capiranno e ti
guarderanno con orrore. Avranno paura di te. È questo quello
che vuoi? Come faremo a spiegare le cose? Non possiamo. E il
pastore Gilbert ci accuserà di stregoneria, questo è poco ma
sicuro.»
La sua espressione si rabbuiò mentre mi ascoltava, ma non
disse niente.
«Dobbiamo sparire» proseguii. «Dobbiamo andare dove
nessuno ci conosce e dobbiamo sempre essere pronti a partire da
un momento all’altro. Devi fidarti di me, Jonathan. Devi
affidarti a me. Ora possiamo solo contare l’uno sull’altra.» Non
protestò. Mi diede un leggero bacio sulla guancia e si recò nella
locanda dove avevamo pianificato di incontrarci l’indomani.
La mattina seguente, dissi agli altri che partivo per
raggiungere Jonathan e Adair a Philadelphia. Quando Tilde
inarcò un sopracciglio con aria di sospetto, le rivoltai contro le
stesse parole di Adair, dicendole che non sopportava più i loro
sguardi di accusa per quello che aveva fatto a Uzra e che forse
loro non erano in grado di perdonarlo, ma io sì. Poi andai da
Pinnerly e chiesi la lista dei conti intestati a Jonathan. All’inizio
il notaio fu piuttosto reticente a consegnarmi i documenti privati
di Adair, ma io lo condussi sul retro e mi bastarono pochi minuti
sulle ginocchia per convincerlo a cambiare idea. E che cos’erano
pochi minuti da puttana in cambio della sicurezza finanziaria di
Jonathan per il futuro? Jonathan mi avrebbe perdonata, ne ero
sicura e, comunque, non l’avrebbe mai scoperto.
Gli altri non dissero niente contro di me, non apertamente
almeno, ma erano evidentemente sospettosi e ostili. Si
radunavano negli angoli più in ombra della casa e parlottavano a
voce bassa. Alla fine, però, si dispersero e ognuno tornò nella
sua camera a farsi gli affari suoi, lasciandomi via libera. Entrai
nello studio. Io e Jonathan avevamo bisogno di soldi per fuggire,
almeno fino a che non fossimo riusciti a mettere le mani sui
conti che Adair stesso aveva aperto, per il suo futuro,
ovviamente.
Con mia sorpresa, trovai Alejandro seduto al tavolo, pareva
affranto, con la testa fra le mani. Mi guardò con indifferenza
mentre prelevavo dei soldi dal cofanetto di Adair e li mettevo
dentro un borsellino. Non c’era niente di strano nel fatto che
portassi a Adair altri soldi per il suo viaggio. Ma Alejandro mi
osservò con curiosità quando tirai giù dalla parete il ritratto a
carboncino di Jonathan. Era l’unica cosa che non potevo
lasciarmi dietro. Lo tolsi dalla cornice, lo inserii fra un telo di
stoffa e un panno di camoscio, lo arrotolai in uno stretto cilindro
e lo legai con un nastro di seta rossa.
«Perché ti porti via quel ritratto?» mi chiese.
«C’è un pittore a Philadelphia e Adair vuole presentarlo a
Jonathan. Jonathan non accetterà mai di farsi fare un altro
ritratto, e Adair lo sa, così vuole chiedere a questo pittore di
dipingerlo a partire da questo schizzo a carboncino. A me
sembra uno sforzo eccessivo, lo so, ma sai bene com’è fatto
Adair, una volta che decide una cosa...» dissi con forzata
allegria.
«Non ha mai fatto niente del genere» rispose Alejandro,
rinunciando alle domande con la disperazione di uno che inizia
ad accettare l’inevitabile. «È tutto molto... inatteso. E strano.
Non so che cosa fare, ora.»
«Ogni cosa finisce, prima o poi» osservai, dopodiché con
noncuranza uscii dallo studio.
Attesi in carrozza mentre i servitori portavano giù i miei bauli
e li caricavano. Poi partimmo con uno scossone e mi inserii nel
traffico di Boston, scomparendo tra la folla.
Parte IV
46
Québec City, oggi
Luke e Lanny sono seduti al tavolo della camera d’albergo,
davanti a un elegante servizio da tè con tazze di porcellana e un
piattino colmo di brioche, intonse. Quattro pacchetti di sigarette,
ordinati assieme alla colazione, giacciono in una coppa
d’argento.
Luke beve un altro sorso di caffè con la panna. La notte
precedente è stata piuttosto movimentata, hanno bevuto molto,
fumato marijuana, e mentre la fatica è ben visibile sul suo volto,
quello di Lanny non lascia trasparire niente: ha sempre una pelle
delicata e liscia e l’aria splendente. Ma la sua tristezza è visibile.
«Immagino che tu abbia cercato di saperne di più
sull’incantesimo» dice Luke dopo qualche attimo di silenzio. La
sua domanda suscita un barlume di divertimento sul volto di
Lanny.
«Naturalmente ci ho provato. Non è facile scovare un
alchimista, uno vero. In ogni città in cui sono stata, sono andata
a scovare i maestri delle arti oscure, lo sai, quelli con
un’inclinazione per la perversione. E ce ne sono in ogni città,
alcuni che operano alla luce del sole, altri costretti a
nascondersi.» Scuote il capo. «A Zurigo scovai un negozietto in
un vicolo a poca distanza dalla via principale. Vendeva
manufatti rari, teschi antichi con incisioni fatte nelle ossa,
pergamene rilegate in pelle umana e riempite di parole in
linguaggi che oggi nessuno più conosce. Pensai che se c’era
qualcuno che conosceva le vere arti della negromanzia, dovesse
essere il proprietario di quel negozio, che aveva dedicato la sua
vita alla ricerca della magia più arcana. Ma la conosceva solo
per sentito dire. Non ne venne fuori nulla.
«Fu soltanto in questo secolo, circa cinquant’anni fa, che
finalmente mi giunse una voce che aveva una parvenza di verità.
Accadde a Roma, durante un ricevimento. Conobbi un
professore, uno storico. La sua specializzazione era il
Rinascimento, ma la sua passione privata era l’alchimia.
Quando gli domandai se avesse mai sentito parlare di una
pozione in grado di conferire l’immortalità, mi spiegò che un
vero alchimista non avrebbe avuto bisogno di una pozione
dell’immortalità, perché il vero scopo dell’alchimia era di
trasformare l’uomo, portarlo a un livello superiore. Un po’ come
la leggenda dei tentativi di trasformare il piombo in oro; mi disse
che era una pura allegoria, si trattava invece di trasformare
l’uomo in un essere superiore.» Lei china il capo e sposta in là la
tazza di qualche centimetro, con il piattino che si sposta a sua
volta sulla tovaglia di damasco. «Come puoi immaginare, la sua
risposta mi deluse. Ma poi proseguì, dicendomi di aver sentito
parlare di una pozione rara con un effetto simile a quello che io
gli avevo descritto. Si diceva che fosse in grado di trasformare
un oggetto nel... be’, il termine migliore è familiare
dell’alchimista, credo, dare vita a un oggetto inanimato, come
un golem, perché facesse da servitore all’alchimista. Quella
pozione era anche in grado di rianimare i morti, farli tornare alla
vita.
«Secondo il professore, lo spirito che andava a impossessarsi
dell’oggetto o del cadavere proveniva dal mondo demoniaco»
dice, con voce rotta dal disprezzo. «Un demone evocato per
obbedire agli ordini. Non riuscii ad ascoltare oltre. E da quel
momento ho smesso di cercare spiegazioni.»
Rimangono seduti in silenzio, a osservare il traffico dieci
piani sotto di loro, con le auto che si muovono ordinatamente
oltre la griglia della finestra. Il sole dell’alba sta iniziando a farsi
strada fra le nuvole, e i suoi riflessi illuminano il servizio
d’argento sul tavolo. Tutto sembra bianco e argenteo e vitreo,
pulito e lindo, e tutto ciò di cui hanno parlato – oscurità, morte –
sembra distante milioni di miglia.
Luke prende una sigaretta, ci giocherella con le dita e poi la
mette da parte, senza accenderla. «Perciò avete lasciato Adair
murato vivo nella sua casa. E non sei mai tornata a controllare
che non fosse uscito?»
«Mi preoccupavo che fosse riuscito a liberarsi, naturalmente»
dice, annuendo quasi impercettibilmente. «La sensazione, il
nostro legame, era scomparso, però. Non avevo niente su cui
basarmi. Tornai un paio di volte – ero terrorizzata all’idea di
cosa avrei trovato, come puoi immaginare – giusto per
controllare che la casa ci fosse ancora. Era... Era... Per
tantissimo tempo fu utilizzata come abitazione. Mi aggirai
attorno all’isolato, cercando di percepire la presenza di Adair.
Niente. Poi una volta tornai e scoprii che era diventata
un’impresa di pompe funebri. Da non crederci. Il quartiere si era
impoverito... mi immaginai le stanze in cui preparavano i
cadaveri, nel seminterrato, a pochi passi da dove Adair era
murato vivo. L’incertezza era troppa, così...» Lanny spegne la
sigaretta, la posa e ne accende immediatamente un’altra. «Perciò
chiesi al mio avvocato di contattare le pompe funebri e di fare
un’offerta per rilevarle. Come ti dicevo, era tempo di crisi.
L’offerta era più di quanto i proprietari avessero mai pensato...
La accettarono.
«Non appena se ne furono andati, ci entrai di persona. Era
difficile immaginare che fosse la casa che conoscevo, era così
cambiata. La parte dello scantinato sotto la scala d’ingresso era
stata rinnovata. Un pavimento di cemento, una caldaia, un
sistema di riscaldamento dell’acqua. Ma la parte sul retro era
rimasta intatta, lasciata lì a marcire. Non c’era elettricità. Era
tutto buio e umido.
«Andai nel punto in cui... In cui avevamo messo Adair. Era
impossibile distinguere il vecchio muro dalla parte che Jonathan
aveva costruito. Era tutto invecchiato. Eppure, non avvertii
alcuna sensazione provenire da dietro quella parete. Nessuna
presenza. Non sapevo che cosa pensare. Fui quasi tentata, quasi,
di far abbattere il muro. È come quella perversa voce nella tua
testa che ti spinge a saltar giù dal balcone quando ti avvicini
troppo alla ringhiera.» Sorride mestamente. «Ovviamente non lo
feci. Anzi, a dire il vero, feci rinforzare il muro con del cemento
armato. Dovettero procedere con cura, non volevo che il muro
fosse danneggiato durante i lavori. Ora è sigillato a dovere. E io
dormo molto meglio.» Ma non è vero che dorme meglio: Luke
se n’è accorto nel poco tempo che sono stati insieme.
Deve condurla via dal posto in cui l’ha spinta a recarsi coi
ricordi, dalla cella buia e umida in cui ha rinchiuso l’uomo che
ha condannato. Luke allunga una mano e prende la sua. «Ma la
tua storia... Non è ancora finita, vero? Tu e Jonathan avete
lasciato la casa di Adair insieme. E poi che cosa è successo?»
Lanny sembra ignorare la domanda per qualche momento,
assorta a osservare il mozzicone di sigaretta fra le sue dita.
«Siamo rimasti insieme per qualche anno. All’inizio,
rimanemmo insieme perché era la cosa migliore da fare.
Potevamo prenderci cura l’uno dell’altra, guardarci le spalle a
vicenda. Erano tempi difficili e avventurosi. Viaggiammo
costantemente perché eravamo costretti a farlo e perché non
sapevamo come sopravvivere altrimenti. Imparammo a crearci
nuove identità, a vivere nell’ombra, anche se era difficile per
Jonathan riuscire a non attirare l’attenzione. La gente era sempre
ammaliata dalla sua bellezza. Ma a poco a poco divenne sempre
più evidente che se rimanevamo insieme era perché io lo volevo.
Era un matrimonio surrogato, privo di intimità. Eravamo come
una vecchia coppia unita da un patto di non amore, e io avevo
costretto Jonathan a recitare il ruolo del marito donnaiolo.»
«Non era costretto a tradirti» obietta Luke.
«Era la sua natura. E le donne che si interessavano a lui... non
si arrendevano mai.» Sbuffa delicatamente e scrolla la cenere
nel piattino che stanno usando come posacenere. «Eravamo
entrambi infelici. Arrivammo al punto di non sopportarci più; ci
eravamo fatti troppo male a vicenda e detti cose orribili. A volte
lo odiavo così tanto da non voler altro che sparisse dalla mia
vita. Sapevo che doveva essere lui ad andarsene perché io non
avrei mai avuto la forza di lasciarlo.
«Poi un giorno mi svegliai e trovai un biglietto sul cuscino
accanto.» Sorride ironicamente, come se fosse abituata a
osservare le proprie sofferenze da spettatrice indurita. «Mi
scrisse: ’Perdonami. È meglio così. Promettimi che non verrai
mai a cercarmi. Se cambierò idea, sarò io a trovarti. Ti prego,
rispetta i miei desideri. Il tuo affezionato J’.»
Lei fa una pausa, schiaccia la sigaretta nel piattino. La sua
espressione è rigida ma vagamente divertita. Guarda fuori dalle
alte finestre. «Alla fine trovò il coraggio di andarsene. Fu come
se mi avesse letto nella mente. Naturalmente, il suo abbandono
fu un’agonia per me. Volevo morire, sicura che non l’avrei mai
più rivisto. Ma si va avanti, no? E comunque, non avevo altra
scelta, anche se è consolatorio in qualche modo pensare che
l’avessi.»
Luke ricorda come ci si sente a essere sfiniti dalla tensione,
ricorda i giorni in cui lui e Tricia non riuscivano a sopportare
nemmeno di stare nella stessa stanza. Lui rimaneva seduto al
buio e cercava di immaginare come si sarebbe sentito se si
fossero separati, come si sarebbe sentito in pace. Non c’era
alcun dubbio che sarebbe stata lei ad andarsene – non poteva
certo aspettarsi che fosse lui a lasciare le sue figlie o la casa in
cui era cresciuto – ma quando la sua famiglia se ne andò
lasciandolo da solo alla fattoria, non fu affatto come essere da
solo. Fu come se qualcosa gli fosse stato strappato via con
violenza, come se una parte del suo corpo fosse stata amputata.
Le concede un momento per riprendersi dal dolore dei
ricordi. «Ma non è finita così, vero? È ovvio che vi siete
incontrati di nuovo.»
La sua espressione è imperscrutabile, luminosa e allo stesso
tempo oscura. «Sì, è così.»
47
Parigi, un mese prima
Era una giornata grigia. Sbirciai oltre le tende e scorsi una
striscia di cielo dal terzo piano della mia casa, una vecchia
villetta a schiera nel quinto arrondissement. Era l’inizio
dell’inverno a Parigi, il che voleva dire che da allora in poi quasi
tutti i giorni sarebbero stati grigi.
Accesi il mio computer, poi rimasi accanto alla scrivania a
mescolare la panna nel caffè mentre il computer si avviava.
Trovo che ci sia qualcosa di rassicurante in quella sequenza di
suoni e sibili, qualcosa di confortante a livello subliminale,
come il cinguettio degli uccelli o un qualsiasi segno di vita
esterna alla mia. Adoro la normalità e cerco il massimo della
routine che riesco a infilare in una vita altrimenti priva di scopo
e di forma.
Sorseggiai il caffè. Anche se non ne ho veramente bisogno
per svegliarmi, come altre persone, ormai lo bevo per abitudine.
Avevo dormito pochissimo, sonnecchiando più che altro. Ero
sveglia dalle primissime ore dell’alba, a fare ricerche per il libro
che per contratto dovevo scrivere, ma mi annoiava da morire.
Poi, stanca, ricominciai a catalogare la mia collezione di
ceramiche mentre guardavo qualche replica alla televisione
americana. Ero arrivata al punto di pensare che avrei spedito la
mia collezione a un’università o a un museo, un posto in cui altri
potessero vederla, insomma. Mi ero stufata di essere
costantemente circondata da tutta quella roba, che mi tirava a sé
come mani dalla tomba. Sentivo il bisogno di liberarmi di un po’
di cose.
Il caffè, caldo e aromatico, mi ravvivò quasi
miracolosamente quella mattina, facendomi sentire presente a
me stessa, al contrario di come mi sentivo di solito, cioè distratta
e irrequieta. Era una sensazione così poco familiare che – visto
che non avevo alcun calendario in casa – per un secondo non
riuscii a ricordare che anno fosse.
Le mie e-mail finirono di caricarsi e percorsi velocemente
con lo sguardo la lista dei mittenti. Più che altro roba d’affari: il
mio avvocato, il mio editore della piccola, scalcagnata casa
editrice che aveva pubblicato la mia precedente monografia
sulla ceramica cinese antica, un invito a una festa. Mi ero fatta
una vita da presunta esperta di ceramiche cinesi. La mia falsa
identità di intenditrice era basata su un’inestimabile collezione
di ceramiche che il mio datore di lavoro cinese mi aveva
consegnato mentre salivo a bordo di una nave inglese durante i
saccheggi dei nazionalisti. Un’altra vita fa, un’altra storia che
nessuno conosceva. Quella era la persona che avevo scelto di
essere in quel periodo, e se non stavo troppo a pensarci poteva
anche funzionare.
C’era un indirizzo e-mail che non conoscevo. Dallo Zaire –
oh, oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo.
Aggrottai la fronte; conoscevo qualcuno nello Zaire? Forse era
una richiesta di beneficenza, o un truffatore che fingeva di
essere un principe africano in momentanee difficoltà
economiche che chiedeva un aiuto. Stavo per eliminarla senza
nemmeno aprirla ma all’ultimo momento cambiai idea.
«Cara Lanny» c’era scritto, «un saluto dall’unica persona che
pensavi non si sarebbe mai più fatta viva. Prima di tutto, lascia
che ti ringrazi per aver onorato la mia ultima richiesta di non
cercarmi, non l’hai mai fatto da quando ci siamo lasciati...»
Maledette parole innocenti, scritte in pixel fluttuanti sullo
schermo. Stampa, ordinai con un clic del mouse. Stampa,
maledetta, devo tenere in mano queste parole.
«Spero che mi perdonerai per questa irruzione nella tua vita.
Per quanto sia comoda, non ho mai superato la convinzione che
la corrispondenza via e-mail sia in qualche modo meno educata
e corretta di una lettera. Per la stessa ragione, non riesco a usare
il telefono. Ma il tempo mi sta addosso, perciò non ho avuto altra
scelta che scriverti un’e-mail. Sarò a Parigi fra pochi giorni e mi
piacerebbe molto vederti finché sarò lì. Spero che i tuoi impegni
te lo consentano. Ti prego, rispondimi e fammi sapere se mi
incontrerai... Con affetto, Jonathan.»
Mi scaraventai sulla sedia, con le dita sospese sulla tastiera.
Che cosa rispondere? Avevo così tante cose imbottigliate dentro
di me dopo decenni di silenzio. Voglia di parlare e nessuno con
cui poterlo fare. Parole gettate ai muri, al cielo, ai piccioni, ai
gargoyle appesi alla cattedrale di Notre-Dame. Grazie a Dio.
Credevo che non ti avrei più sentito. Mi dispiace. Mi dispiace.
Vuol dire che mi hai perdonato? Ti ho aspettato così a lungo.
Non puoi immaginare cosa abbia provato quando ho visto il tuo
nome sullo schermo. Mi hai perdonato?
Esitai, strinsi entrambe le mani a pugno, le scossi, le riaprii, le
scossi ancora. Le tenni sospese sopra la tastiera. Alla fine digitai
semplicemente: «Sì».
L’attesa di quel giorno fu un tormento unico. Cercai di tenere
strettamente a bada le mie aspettative, ma era impossibile non
abbandonarsi ai sogni dopo che Jonathan mi aveva contattato
così all’improvviso. Sapevo bene che non avevo ragioni di
nutrire speranze, ma c’era ancora una parte di me che cullava
sogni romantici e selvaggi che riguardavano Jonathan. Era
impossibile non sognare a occhi aperti, soltanto per provarne la
gioia. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui avevo
avuto qualcosa da aspettare.
Nella sua seconda e-mail Jonathan mi raccontò della sua vita.
Aveva preso una laurea in medicina, in Germania negli anni
Trenta, e l’aveva usata per recarsi in posti lontani e remoti dove
praticare la medicina. Viaggiando con documenti sospetti, era
più facile aggirare le autorità nelle zone più isolate, dove c’era
bisogno di un dottore e gli ufficiali governativi erano più inclini
a chiudere un occhio. Aveva lavorato coi lebbrosi nell’Asia
Pacifica, con le vittime del vaiolo nel subcontinente indiano.
Una febbre emorragica l’aveva condotto nell’Africa centrale ed
era rimasto a guidare l’ospedale di campo in una zona di
rifugiati vicino al confine con il Ruanda. Non è certo chirurgia a
cuore aperto, mi scrisse: si tratta di ferite da sparo, dissenteria e
vaccinazioni contro il morbillo. Qualsiasi cosa servisse, lui la
faceva.
Come potevo rispondere, se non confermandogli il luogo e
l’ora in cui incontrarci? Mi emozionava e mi inquietava pensare
che Jonathan era un dottore, un angelo per i sofferenti. Ma
Jonathan si aspettava che gli dicessi come avevo vissuto da
quando ci eravamo lasciati e, seduta davanti a quel computer,
non sapevo cosa scrivere. Cosa potevo dirgli che non fosse
imbarazzante? La mia vita era stata difficile dopo la nostra
separazione. Per gran parte del tempo avevo vagato. La maggior
parte delle cose che avevo fatto erano state meschine, stupide,
cose che però al tempo credevo necessarie per la mia
sopravvivenza. Ora, finalmente, ero in pace, conducevo una vita
quasi monacale e non soltanto per scelta. Ma avevo imparato ad
accettarla.
Jonathan avrebbe notato la mia omissione, ma mi rassicurai
dicendomi che mi conosceva bene e non avrebbe certo nutrito
illusioni che fossi cambiata durante la nostra separazione,
quanto meno non così drasticamente com’era cambiato lui.
Perciò, la mia prima e-mail a Jonathan fu piena di frivolezze e
smancerie: non vedevo l’ora di vederlo, di raccontarci un po’ di
persona le nostre vite, cose così.
A mano a mano che il giorno predestinato si avvicinava,
cedetti a stupide aspettative, ingenue speranze. Nel caso in cui
Jonathan avesse voluto vedere dove abitavo, chiesi alla
governante di venire un po’ prima, acquistai un enorme bouquet
di fiori, di quelli che non avrebbero stonato a un ricevimento di
nozze reali. Riempii il frigorifero di champagne e presi in
cantina un vecchio e pregiato cabernet.
La notte precedente l’incontro, non riuscii a chiudere occhio.
Rimasi alzata a guardarmi allo specchio. Gli sarei sembrata
diversa? Esaminai il mio riflesso con la cura di un entomologo.
Era pura nevrosi convincermi che ci fossero stati dei
cambiamenti, illudermi di essere come le altre donne, quelle che
si vedono nelle pubblicità televisive, che si preoccupano delle
rughe ai lati della bocca e delle zampe di gallina attorno agli
occhi. Sapevo benissimo che non c’erano stati cambiamenti.
Avevo ancora l’aspetto di una studentessa universitaria con
l’aria perennemente imbronciata. Lo stesso volto morbido e
liscio che Jonathan aveva visto il giorno che mi aveva
abbandonata. Carina, ma non bellissima: la rovina e allo stesso
tempo la fortuna della mia vita, bella abbastanza da essere
apprezzata ma non abbastanza da essere adorata. Avevo ancora
l’ardore di una ragazza che non ne aveva mai abbastanza, del
sesso, anche se al contrario avevo avuto abbastanza sesso da
riempire più di una vita. Non volevo apparirgli affamata quando
mi avrebbe vista, ma non c’era modo di evitarlo, come capii
quando mi guardai allo specchio. Avrei sempre avuto una fame
inestinguibile per lui.
Sempre guardandomi allo specchio, mi chiesi se sarebbe
stato strano, inquietante, rivedersi il giorno seguente
esattamente identici, in mezzo a persone che per noi erano come
neonati. Guardarci in volto sarebbe stato come fermare il tempo.
Quanto tempo era passato da quando Jonathan mi aveva
abbandonato? Centosessant’anni? Non riuscivo più nemmeno a
ricordare l’anno esatto. Mi sorprese accorgermi di non provare
più lo stesso straziante dolore che mi aveva assalito all’epoca.
C’erano voluti decenni perché quella sofferenza divenisse una
sorta di pulsazione sorda, di gran lunga superata dalla mia voglia
di rivederlo.
Riappoggiai lo specchio sul tavolino. Era ora di bere
qualcosa. Aprii una bottiglia di champagne, freddo al punto
giusto. Che senso aveva conservarlo per il giorno dopo, in nome
di qualcosa che certamente non sarebbe mai accaduto? Il fatto
che Jonathan mi avesse ricontattata dopo un’eternità di
separazione era già un motivo più che sufficiente per
festeggiare. Decisi di soffocare la mia speranza prima di
ritrovarmi a cambiare le lenzuola o ad aggiungere degli
asciugamani in bagno. Veniva a farmi visita, niente di più.
Vediamoci nella lobby a mezzogiorno, mi aveva detto nella
sua ultima e-mail. Io non stavo più nella pelle per l’attesa e presi
in considerazione l’idea di accamparmi là fuori all’alba, se non
di precipitarmi direttamente nella sua stanza. Ma sarebbe stato
un gesto troppo patetico perfino per me. Meglio fingere di avere
ancora un po’ di orgoglio e di sapermi controllare. Perciò, rimasi
nel mio studio a osservare le lancette dell’orologio strisciare
fino a indicare le undici, poi uscii, chiamai un taxi e mi feci
portare all’Hôtel Prix St. Germain, con un’aria di distacco che
dava una discreta idea di noncuranza. Dal finestrino posteriore
del taxi, vidi il caratteristico vicoletto in cui abitavo scivolare
via come il fondale di cartone dipinto di un carosello quando
comincia la musica.
Conoscevo l’Hôtel Prix St. Germain, ma non ci ero mai
entrata. Era un vecchio albergo tranquillo, situato in una via
poco frequentata sulla Rive Gauche, decisamente adeguato a un
medico impegnato in Africa che si voleva trattenere a Parigi solo
pochi giorni. L’aria nella lobby era stantia, e se avesse avuto un
colore sarebbe stato il marrone. Dietro il bancone principale
c’era un addetto dall’aria molto professionale e cupa che non mi
perse di vista un attimo. Mi accomodai su una delle poltrone di
pelle disposte a gruppetti nella lobby. Erano tutte così le lobby
degli alberghi, come una stanza che trattiene il fiato? La
poltrona che avevo scelto era di fronte al passaggio che portava
dall’ingresso alla reception. Un vecchio orologio a muro appeso
sopra la porta d’ingresso diceva: 11.48.
Da giovane, Jonathan aveva stabilito la regola di farsi sempre
aspettare. Ora che era un medico, immaginai che avesse
imparato a essere più puntuale.
Un vecchio quotidiano era appoggiato su un tavolino. Non
essendo mai stata interessata agli accadimenti mondiali,
raramente mi prendevo la briga di comprare un quotidiano in
quei tempi. Gli eventi mi confondevano, mi sembravano sempre
gli stessi. Quando guardavo i notiziari la sera sprofondavo in un
disorientante senso di déjà vu. Un massacro in Africa? Era in
Ruanda? No, un momento, quello era successo nel 1994. O
nell’ex Zaire? O in Liberia? L’assassinio di un capo di Stato? Il
tracollo dei mercati azionari? Un’epidemia di poliomielite,
vaiolo, tifo... o era AIDS? Avevo attraversato immune tutti
quegli eventi, osservando da spettatrice le piaghe che avevano
afflitto l’umanità. Era terribile vedere tutta quella sofferenza, ma
non ho mai avuto la capacità di cambiare le cose. Ero come un
fantasma sullo sfondo della storia.
Ma riuscivo a capire perché Jonathan fosse stato attratto
dall’idea di diventare un medico e di imparare a fare qualcosa
per porre rimedio, per quanto gli era possibile, ai mali del
mondo. Rimboccarsi le maniche e darsi da fare, pur sapendo che
era impossibile sconfiggere le malattie, anche in un solo
villaggio... Eppure, l’importante era provarci, sempre, senza mai
smettere. Senza rendermene conto, avevo tenuto lo sguardo
fisso su quel giornale per tutto il tempo, assorta nei miei
pensieri.
Alzai lo sguardo di colpo, aspettandomi l’arrivo di Jonathan.
La porta d’ingresso si aprì e io mi sporsi ansiosamente in
avanti intravedendo quella che mi sembrava una fisionomia
familiare, ma poi mi rilassai di nuovo. L’uomo indossava dei
pantaloni kaki tutti spiegazzati e una giacca di tweed molto
consunta. Una sorta di foulard a stampa etnica attorno al collo,
occhiali da sole a coprirgli lo sguardo. E una barba lunga di
almeno tre, quattro giorni, riccia e irregolare.
L’uomo mi si avvicinò, con le mani in tasca. Sorrideva.
Solo in quel momento capii.
«È questo il tuo benvenuto per me? Non ti ricordi più del mio
aspetto? Forse dovevo mandarti una fotografia» disse Jonathan.
Uscimmo, dietro suggerimento di Jonathan. Disse che gli
pareva che avessi bisogno di aria. Jonathan mi prese per il
braccio e me lo tenne stretto, accompagnandomi fuori, sul
marciapiede. Trovammo un angolino tranquillo in un parco fatto
più che altro di cemento e panchine, con un albero solitario che
spuntava da un basamento di pietra. Ma dava comunque
l’illusione di trovarsi in mezzo alla natura.
«È bello rivederti.»
Non riuscii a rispondere, e comunque non era necessaria una
mia risposta. Mi sembrava assurdo che fosse mancato dalla mia
vita per così tanto tempo e ora, rivedendolo, credevo che
nessuna ragione al mondo fosse sufficiente a tenerci distanti.
Volevo toccarlo, baciarlo, sentire tutto il suo corpo sotto le mie
mani per assicurarmi che fosse davvero lì, davanti a me in carne
e ossa. Ma per quanto fossimo intimi, c’era più di un secolo a
separarci. E c’era qualcosa nel suo modo di fare che mi fece
capire che avrei dovuto procedere con cautela.
Una volta che ripresi un po’ di colore in volto, trovammo un
caffè e finimmo per rimanerci delle ore di fila. Tra tazze di caffè
e calici di Lillet e sigarette (per me; Jonathan il dottore
disapprovava), restammo in un angolo a raccontarci le nostre
vite. I suoi racconti di quanto accadeva nel bush erano
affascinanti e mi stupiva scoprire che lui potesse essere così
felice in una terra tanto arida e deserta quanto il Maine era gelido
e rigoglioso. O che riuscisse a stare dentro una tenda, come un
eremita in meditazione, a riempire siringhe con pazienza
infinita, incurante delle zanzare che lo tormentavano. La
malaria, l’Uganda, che cosa gli importava di tutto quello? Si era
offerto volontario per recarsi in una vallata afflitta da
un’epidemia di febbre dengue. Aveva portato con sé
antidiarroici e altre medicine, trasportandoli sulla schiena
quando la Land Rover si era arenata in mezzo a un fiume. Per
quanto ammirassi quello che faceva, tutti quei racconti sui
pericoli che aveva corso volontariamente mi mettevano a
disagio.
«Come hai fatto a trovarmi dopo tutto questo tempo? Potevo
essere ovunque nel mondo» gli chiesi alla fine. Da quando si era
fatto vivo, morivo dalla voglia di chiederglielo. Lui fece un
sorriso enigmatico e bevve un altro sorso del suo aperitivo.
«È una storia strana. La risposta breve è: tecnologia. E
fortuna. Ho pensato a lungo di cercarti, ma non sapevo come
fare. La risposta mi è giunta quando ho visto un libro per
bambini in casa di un collega...»
«La pagoda di giada» tirai a indovinare.
«La pagoda di giada» confermò sorridendo. «Leggendo
quella favola al figlio del mio collega, ti ho riconosciuta nei
disegni. Ho fatto qualche ricerca e ho scovato il nome della
modella del pittore, Beryl Fowles, un’espatriata inglese che
viveva a Shanghai...»
«Ho sempre amato quel nome, me lo sono inventato io.»
«... e così ho ingaggiato qualcuno che mi trovasse tutte le
informazioni possibili su questa Beryl. Ma a quel punto, Beryl
Fowles era scomparsa da decenni.»
«Eppure mi hai scovata.»
«Ho assunto un investigatore perché riuscisse a trovare chi
aveva ereditato i soldi di Beryl, e così via, seguendo anello dopo
anello la catena ereditaria, ma alla fine non venni a capo di
nulla.»
«Ma non ti sei arreso?»
Jonathan sorrise ancora. «È a questo punto che entra in gioco
la tecnologia. Conosci quel software di riconoscimento
fotografico che oggi trovi su internet, quello che ti permette di
rintracciare foto tue o dei tuoi amici nei siti? Be’, l’ho provato
con una delle illustrazioni di quel libro e ha funzionato. Non è
stato facile, ho dovuto insistere un po’, ma alla fine ho ottenuto
un risultato, una piccola fotografia dell’autrice di una
monografia sulle ceramiche cinesi antiche, pensa un po’... Non
avrei mai immaginato che saresti diventata un’esperta di
ceramiche cinesi. Comunque, è stato il tuo editore a dirmi dove
potevo contattarti.»
Si trattava delle ceramiche cinesi, affidatemi dal mio datore
di lavoro a Shanghai, dove mi ero recata in cerca di un impiego
dopo aver fatto da modella per quel libro per bambini. Perciò,
era stata la mia ultima grande avventura in Cina a condurre
Jonathan di nuovo da me.
Fu nel tardo pomeriggio che finimmo a casa mia, dove
bevemmo lo champagne e tre quarti del cabernet, accompagnato
da pane tostato con foie gras. Su sua insistenza, mostrai la casa a
Jonathan, con crescente imbarazzo a ogni stanza. Mi scoprii
sorpresa io stessa dalla quantità di cose che avevo accumulato
nel corso degli anni, ammassate a fare da barriera all’incedere
impietoso ed eterno degli anni. Jonathan mi disse parole carine,
lodò la mia previdenza nel conservare cose rare e preziose per le
generazioni future, ma sapevo bene che stava soltanto cercando
di mitigare il mio senso di colpa. Un medico missionario non
viaggiava certo con un carico di chincaglierie come quello. Non
c’erano magazzini o souvenir da nessuna parte ad attendere il
ritorno di Jonathan. Mi capitò sott’occhio una scatola che non
notavo da più di vent’anni ormai, piena di gioielli preziosi
donatimi dai miei ammiratori: un anello con un rubino grande
quanto un chicco d’uva, un fermacravatta impreziosito da uno
stemma araldico con incastonato un diamante blu. La vista di
tutto quel lusso mi diede la nausea e riposi la scatola nella
libreria dimenticata dov’era rimasta a marcire per tanto tempo.
Trovammo cose ben peggiori: c’era un vero e proprio bottino
di guerra, cose che avevo portato via da luoghi lontani durante i
miei anni errabondi e frenetici. Di certo Jonathan li riconobbe
per quello che erano: statuette di Buddha squisitamente lavorate,
tappeti fatti a mano con fili di venti colori diversi, armature
cerimoniali. Tesori che avevo ottenuto in cambio di fucili o
preso io stessa a mano armata o – in alcuni casi – sottratto a
cadaveri. Me ne sarei liberata, giurai a me stessa in quel
momento, richiudendo le porte di quelle stanze. Ogni oggetto e
ogni statua sarebbero stati spediti a qualche museo o restituiti
alle nazioni cui appartenevano. Come avevo potuto vivere così a
lungo con quelle cose in casa mia, senza nemmeno pensarci?
L’ultima stanza che visitammo fu la mia camera da letto
all’ultimo piano. Aveva l’aria mesta di una stanza che da tempo
non era più impiegata per il suo vero scopo. C’erano una testiera
svedese e un letto di legno accanto a una serie di finestre alte e
strette; sia le finestre sia il letto erano velati da teli di cotone
bianco, mentre sul materasso era posato un copriletto di seta blu.
Uno scrittoio francese del diciottesimo secolo serviva da
tavolino per il computer, con le sue gambe storte; di fronte, una
sedia Biedermeier. Il tavolo era coperto di fogli e soprammobili,
mentre una vestaglia di seta grigia era poggiata sullo schienale
della sedia. L’insieme dava l’impressione di una stanza in cui
solo di recente erano stati tolti i teli per proteggere dalla polvere,
come se tutto fosse rimasto sospeso nel tempo, in attesa.
Jonathan si fermò davanti al dipinto appeso di fronte al letto.
Il nome dell’artista si era perduto da tempo, ma ricordavo
benissimo il giorno in cui era stato fatto lo schizzo. Jonathan non
aveva voluto posare, ma Adair aveva insistito, così era ritratto
come se si fosse accasciato controvoglia sulla sedia, scuro in
volto e arrabbiato, ma di una bellezza mozzafiato. Era convinto
che così avrebbe rovinato il ritratto ma in realtà l’aveva reso
unico. Rimanemmo entrambi di fronte al quadro, eseguito quasi
duecento anni prima.
«Dopo tutti i tesori che hai ammassato in questa casa... Non
riesco a credere che tu abbia tenuto anche questa stupidaggine»
mormorò Jonathan. Quando vide lo sguardo ferito sul mio volto,
si raddolcì e mi prese la mano. «Ma capisco perché l’hai fatto... e
ne sono felice.» Gli lanciammo un ultimo sguardo prima di
uscire da quella stanza.
Venne la notte e trovò Jonathan sdraiato su un divano in
salotto mentre io ero sul pavimento, appoggiata con la schiera al
bracciolo di una poltrona. Per ore ci eravamo raccontati le nostre
storie. Io mi ero arresa e gli avevo raccontato cose del mio
passato di cui mi vergognavo, come le folli avventure che avevo
inseguito insieme al pazzo che aveva preso il posto di Jonathan.
Si chiamava Savva ed era uno di noi, uno dei primi compagni di
Adair, l’unico degli altri che io abbia mai incontrato. Savva
aveva avuto la sfortuna, molto tempo prima, di incontrare Adair
dalle parti di San Pietroburgo, mentre era perso in una tempesta
di neve. Savva non volle mai entrare nei dettagli in merito alla
fine del suo legame con Adair, ma io riuscii a intuire qualcosa:
Savva era di temperamento irrequieto e non sapeva tenere a
freno la lingua.
Dato che Savva non riusciva a stare a lungo in nessun posto,
avevamo girovagato per i continenti, come esuli in fuga. Per
essere un uomo nato tra la neve e i ghiacci, Savva era
inspiegabilmente attratto dal calore e dal sole, per cui
trascorremmo la maggior parte del nostro tempo nel Nordafrica
e nell’Asia centrale. Viaggiammo con i nomadi attraverso il
deserto, trasportando armi oltre il passo Khyber. Insegnammo ai
beduini a sparare coi fucili e poi rimanemmo perfino a vivere
con i mongoli per qualche tempo (erano rimasti particolarmente
colpiti dalle abilità equestri di Savva). Rimanemmo insieme fino
alla fine del diciannovesimo secolo, quando ci trovammo
intrappolati dentro un hotel del Cairo a causa di una tempesta di
sabbia. Non fu un diverbio a separarci. Non si trattò di uno
spiacevole incidente che condusse a una lite alimentata da
rancori seppelliti per anni. Semplicemente, ci rendemmo conto
che non avevamo più niente da dirci. Probabilmente avremmo
dovuto separarci decenni prima, ma era così facile e confortante
stare con qualcuno che non aveva bisogno di spiegazioni. Ci
sentivamo ancora ogni vent’anni o giù di lì, con una cartolina,
una telefonata ubriaca, durante le vacanze magari, proprio come
una vecchia coppia di divorziati.
«E tu.» Colsi l’occasione per cambiare argomento, esausta
dopo aver rievocato tutti quei ricordi. «Tu di certo non sei
rimasto da solo per tutto questo tempo. Ti sei mai risposato?»
Lui fece una smorfia, ma non disse niente.
«Non dirmi che sei stato solo soletto tutti questi anni?
Sarebbe troppo triste.»
«No, non direi solo. È difficile essere da soli quando uno fa il
medico in quei villaggi, dove tutti hanno un bisogno disperato
delle tue attenzioni e sono così contenti che tu sia lì... Mi
invitavano sempre a mangiare con loro, a partecipare alle loro
cerimonie. A diventare parte della loro vita.» I suoi occhi si
chiudevano sempre più spesso e il suo volto si rilassava sempre
di più. Presi una copertina e gliela posai addosso,
rimboccandogliela sulle spalle. Riaprì gli occhi per un istante.
«Tornerò nel Maine. Voglio vederlo un’altra volta. È per
questo che ti ho cercata, Lanny. Voglio che tu venga con me. Ci
verrai?»
Dovetti ricacciare indietro le lacrime. «Certo che verrò con
te.»
48
Prendemmo uno di quegli aerei giganteschi per i voli
intercontinentali per tornare in America. L’aereo non fece
nemmeno in tempo a decollare da Orly che Jonathan si
addormentò. Da New York prendemmo una coincidenza e con
un volo interno giungemmo a Bangor, poi noleggiammo un’auto
sportiva per salire verso nord. Era da due secoli che non vedevo
quelle terre e, per quanto possa sembrare impossibile, c’erano
lunghi tratti che mi sembrarono immutati. Per il resto, c’erano
strade asfaltate, fattorie vittoriane, immensi campi di grano
coltivati con straordinaria precisione geometrica, con le tubature
di irrigazione che incombevano all’orizzonte, come giganteschi
bruchi. Osservando quello spettacolo da dietro il parabrezza di
quell’auto lussuosa, era facile illudermi di non essere mai stata
lì. Poi la strada piegava attraverso le coltivazioni inoltrandosi
nelle Great North Woods. Ci introducemmo nella penombra
fredda della foresta, su una strada fiancheggiata da file e file di
tronchi massicci, con il cielo nascosto da una coperta di foglie.
La macchina procedeva a scossoni sulla strada irregolare,
inerpicandosi e aggirando massi che sembravano spuntati a
forza dal terreno, coperti di muschio. Quella parte sì che me la
ricordavo. Mi bastò vedere quegli alberi per tornare indietro di
duecento anni, sommersa dai ricordi della mia prima vita, la mia
vera vita, quella che mi era stata tolta. Doveva essere lo stesso
per Jonathan.
Sentivamo entrambi che ci stavamo avvicinando a casa. Il
viaggio era così veloce, fatto in automobile. L’ultima volta che
l’avevamo fatto avevamo trascorso settimane intere su una
carrozza, con Jonathan catatonico dopo quello che gli avevo
fatto, a malapena capace di parlarmi.
Ci avvicinammo al nostro villaggio di un tempo senza dirci
una parola. Com’era cambiato tutto quanto. Non eravamo
nemmeno sicuri che quella strada, la via principale che
attraversava la città, fosse la stessa via polverosa che duecento
anni prima conduceva le carrozze e i calessi a St. Andrew.
Dov’era la chiesa? Dov’era il cimitero? E non avremmo dovuto
poter vedere la sala congregazionale da lì? Guidai la macchina il
più lentamente possibile, così che potessimo sovrapporre con la
mente il villaggio che ricordavamo alla città che avevamo
davanti.
Per lo meno St. Andrew non era ancora diventata come tutte
le altre città dell’America, dove ogni negozio, ristorante e
albergo è parte di una catena multinazionale, uguale in tutto il
mondo. Per lo meno St. Andrew aveva conservato un po’ di
originalità, anche se aveva perduto lo scopo originario della sua
fondazione. Non era più una cittadina così industriosa. Le
fattorie che un tempo erano sparse qua e là erano scomparse e
non avevamo visto alcun segno del commercio di legname per
miglia e miglia. Al suo posto, sembrava aver preso piede
l’industria turistica. Negozi di attrezzatura da escursione si
allineavano lungo entrambi i lati della strada: uomini bianchi,
lindi e puliti ma vestiti da campagnoli che radunavano altri
uomini e donne e li guidavano in tour nelle foreste o in canoa sul
fiume Allagash. Oppure li portavano nel bel mezzo del fiume
armati soltanto di salvagenti, lasciandoli a pescare per tutto il
giorno fino a tirar su un bel pesce che avrebbero ammirato per
poi rigettarlo in acqua. C’erano negozi di artigianato e locande
là dove un tempo c’erano fattorie e granai, dove c’erano la forgia
di Tinky Talbot e la drogheria dei Watford. Rimanemmo
sconvolti quando alla fine capimmo che la sala della
congregazione era stata demolita e il centro città ora era
occupato da un ferramenta, una gelateria e un ufficio postale.
Per lo meno il cimitero l’avevano risparmiato.
La nuova generazione di abitanti di sicuro riteneva quel posto
molto piacevole, e se non avessi saputo com’era stato due secoli
prima, non avrei avuto nulla da obiettare. Ma ora la città
sopravviveva accontentando i capricci dei turisti e mi sembrava
degradata. Era come tornare e scoprire che la casa della tua
infanzia era stata trasformata in un bordello, o peggio, un
supermercato. St. Andrew aveva venduto l’anima in cambio di
una vita più semplice, ma chi ero io per giudicare?
Prendemmo una stanza in un capanno da caccia fuori città;
quello dei Dunratty era un vecchio motel, scalcagnato e
palesemente segnato dall’incuria, che accoglieva i cacciatori e i
pescatori che venivano lì a fare la stagione. Era un posto da
uomini, perciò c’era da attendersi una certa austerità. C’erano
circa dieci camere una in fila all’altra, dietro alla reception.
Chiedemmo un capanno, possibilmente quello più vicino alla
foresta. Il custode non disse niente, si accertò con discrezione
che non avessimo fucili o canne da pesca e, non vedendone,
tornò indietro, rassegnato, alle sue faccende. Ci chiese se
eravamo sposati, come se si preoccupasse veramente che uno
dei suoi scalcagnati capanni potesse essere usato come nido
d’amore. Ci disse che c’eravamo soltanto noi, tutte le altre
stanze erano vuote. Sarebbe stato tutto molto tranquillo. Lui era
disponibile se avevamo bisogno di qualcosa, bastava chiamarlo
a casa – e indicò vagamente in una direzione imprecisata – ma
per il resto eravamo da soli.
Era un posto triste, quattro pareti coperte di miseri pannelli e
il soffitto con una semplice copertura di compensato. La camera
era quasi interamente occupata da due letti – poco più larghi di
un singolo, ma più piccoli di un matrimoniale, con testiere in
ferro battuto risalenti alla Grande Depressione – divisi da una
minuscola credenza al posto di un comodino, con sopra una
lampada in ceramica. Due sedie di metallo senza cuscini erano
posate di fronte a un televisore che aveva almeno trent’anni. Da
un lato c’era un piccolo tavolo contornato da tre sedie da cucina
in legno, senza braccioli. Oltre una porta trovai un cucinotto
piuttosto funzionale, e dietro un’altra porta c’era un bagno che
odorava leggermente di muffa. Quando Jonathan buttò le valigie
sul letto scoppiai a ridere. «Non vorrai veramente fermarti qui?»
gli chiesi incredula. «Ci dev’essere un posto più carino. Forse in
città...»
Jonathan non disse niente. Si mise in piedi davanti a una
porta scorrevole che dava su un patio di legno grezzo. Oltre,
c’era soltanto la foresta: tronchi imponenti, larghi, che
torreggiavano su di noi, scricchiolando nel vento. Aprimmo la
porta e ci incamminammo nella foresta, e l’aria tersa ci
accarezzò. Tornammo subito sul patio e rimanemmo a osservare
la foresta infinita per un tempo altrettanto infinito. Quella era
casa nostra. Ci aveva trovato. «Rimaniamo qui» disse infine
Jonathan.
Uscimmo verso le cinque di quel pomeriggio, ansiosi di
vedere qualcos’altro prima del tramonto. Tuttavia, era difficile
orientarsi: strade che dovevano condurre in una direzione ci
portavano inaspettatamente in quella opposta, come se la città
fosse stata fatta e rifatta innumerevoli volte nel corso del tempo.
La nuova pianta urbana era stata progettata dalle industrie del
legname e attraversava miglia e miglia di foresta senza alcuna
ragione apparente, portando direttamente a un’autostrada, che a
sua volta portava all’incrocio fra l’Allagash e il St. John. Dopo
un paio di false partenze, incrociammo una strada che ci
ricordava il sentiero che portava alla casa di Jonathan, e fu con
un muto cenno di assenso che concordammo di percorrerla fino
in fondo.
Dopo un tunnel di rami intrecciati uscimmo in uno spiazzo
che un tempo era stato il campo di fieno davanti alla magione dei
St. Andrew. La strada era stata spostata, non passava più dal
canale accanto alla ghiacciaia e poi su fino alla grande casa. Ma
riconobbi la forma del terreno. Ora, una strada sterrata per il
trasporto del legname passava direttamente sul lato destro della
casa, che dava sullo strapiombo. Aumentammo la velocità,
ansiosi di rivederla. Ma a mano a mano che ci avvicinavamo,
iniziai a rallentare. La casa c’era ancora, ma solo qualcuno che
ci aveva vissuto sarebbe stato in grado di riconoscerla.
Quella magione un tempo sontuosa era stata abbandonata a
marcire. Era come un cadavere lasciato alla furia degli elementi,
uno scheletro che ancora conservava quei tratti che appena
bastavano a riconoscere la fisionomia di un tempo. Era cadente,
scrostata, priva di tegole in diversi punti e di assi sul fronte e
sulle pareti. Anche i pini che un tempo servivano per rompere il
vento sulla parte anteriore dell’edificio stavano morendo,
sembravano vedovi dimenticati, come gli alberi che si trovano
nei cimiteri.
«È abbandonata» disse Jonathan.
«Chi l’avrebbe mai potuto...» iniziai, ma non sapevo bene
che cosa dirgli. «Su, dai, Jonathan. Per lo meno l’hanno lasciata
dov’era. Hai visto il punto in cui c’era la casa della mia
famiglia? Ora c’è un incrocio. Il mondo va avanti, no?»
Nonostante i miei tentativi di alleggerire l’atmosfera,
Jonathan cadde in un profondo silenzio. Girammo l’auto e
tornammo in città.
Quella sera cenammo in un piccolo ristorante in centro.
L’unico motivo per cui si poteva definire un ristorante era che lì
si poteva comprare da mangiare, ma non era certo il tipo di
locale che ero solita frequentare. Assomigliava più a una
trattoria, con una decina di tavoli di formica circondati ognuno
da quattro sedie di metallo tubolare. Le tovaglie erano di carta,
così come i tovaglioli. I menu erano coperti di plastica ingiallita
e avrei potuto scommettere che erano gli stessi da almeno
vent’anni. C’erano cinque clienti, inclusi me e Jonathan. Gli altri
tre erano uomini in jeans, camicia di flanella e cappellino da
baseball o roba simile, tutti seduti a tavoli separati. La cameriera
probabilmente era anche la cuoca. Ci guardò severa porgendoci i
menu, come in dubbio se servirci o no. La radio trasmetteva un
leggero sottofondo di musica country.
Ordinammo cibo che nessuno di noi due mangiava da tempo
immemorabile, ammesso che mai l’avessimo mangiato. Filetti
di pesce gatto alla griglia, pollo e gnocchi, cibo che ci parve
perfino esotico tanto era strano. Prendemmo due bottiglie di
birra e parlammo poco, sempre con l’impressione che gli altri
origliassero. La cameriera – con i capelli tirati su tipo filo
spinato e il volto rincagnato – guardò il cibo sbocconcellato che
avevamo lasciato nei piatti prima di chiederci se desiderassimo
altro. «La torta è buona» disse secca, come se stesse parlando
del clima.
«Ti ha deluso tanto rivedere la tua casa?» gli chiesi dopo che
la cameriera ci piazzò davanti altre due birre. Jonathan scosse il
capo.
«Dovevo aspettarmelo. Tuttavia, non ero preparato.»
«È tutto così diverso, ma in un certo senso, è tutto uguale. Mi
sento fuori luogo, qui. Se non ci fossi tu qui con me, me ne sarei
già andata.»
Uscimmo dal ristorante e passeggiammo in strada. Era tutto
chiuso, a parte un piccolo bar che, a giudicare dalla minuscola
insegna al neon a forma di mezzaluna, si chiamava Blue Moon.
Sembrava un posto romantico, ma osservando dalla vetrina vidi
che era pieno di uomini: camionisti e taglialegna che
guardavano una partita alla televisione. Dopo esserci lasciati alle
spalle la zona commerciale, giungemmo al cimitero. La luna era
abbastanza chiara per farci strada fra le tombe.
Era diventato selvatico e pieno di erbacce. Cespugli di more,
ortiche e macchie di muffa avevano coperto il muro di cinta e
inghiottito alcune delle pietre tombali. Anni di gelo e disgelo
avevano frantumato alcune lapidi, mentre altre erano state erose
dal tempo o rotte da qualche vandalo. Mi inoltrai velocemente,
poiché non volevo rivedere i miei vecchi compaesani in quel
modo, ma Jonathan se la prese calma, passando di tomba in
tomba cercando di leggere i nomi iscritti e le date, scostando le
erbacce che li coprivano. Sembrava così triste e avvilito che
dovetti reprimere l’istinto di afferrarlo per un gomito e
trascinarlo via di lì a forza.
«Guarda, questa è quella di Isaiah Gilbert» mi chiamò. «È
morto nel... 1842.»
«Un bel po’ di tempo. Ha avuto una vita lunga, allora»
commentai dal punto in cui mi trovavo, mentre cercavo di
calmare i ricordi e un vago senso di vertigine fumandomi una
sigaretta.
Jonathan si era avvicinato a un’altra tomba. Si accucciò sui
talloni, guardandosi attorno. «Mi chiedo se tutti quelli che
conoscevamo siano qui, da qualche parte.»
«Qualcuno sarà anche andato via da qui. Hai visto qualche
tomba della mia famiglia?»
«Ma non dovrebbero essere nel cimitero cattolico dall’altra
parte della città?» mi chiese, incamminandosi lungo un
corridoio e scrutando tomba dopo tomba. «Dopo se vuoi
possiamo andarci.»
«No, grazie. Non ho più nessuna curiosità in tal senso.»
Capii che Jonathan aveva trovato qualcosa di significativo
quando lo vidi inginocchiarsi accanto a una lapide doppia. Era di
pietra grezza, segnata dal tempo, e da dove mi trovavo non
potevo leggere l’iscrizione. «Di chi è?» gli chiesi
avvicinandomi.
«Di mio fratello.» Le sue dita sfiorarono le iscrizioni.
«Benjamin.»
«Ed Evangeline» aggiunsi, sfiorando l’altra lapide.
Evangeline St. Andrew. Moglie adorata. Madre di Ruth.
«Così si sono sposati, alla fine.»
«Per mantenere l’onore della famiglia?» gli chiesi,
strofinando le lettere con le dita. «A quanto pare, lei non è
vissuta a lungo.»
«E Benjamin è stato seppellito accanto a lei. Quindi non si è
mai risposato.»
Nell’ora seguente rintracciammo quasi tutta la famiglia di
Jonathan. Prima sua madre e poi, alla fine, anche sua figlia,
Ruth. L’ultima St. Andrew della città. Le sorelle di Jonathan non
c’erano, però, il che lo indusse a sperare che si fossero sposate e
fossero andate via di lì, che avessero avuto famiglie felici e
ricche da qualche altra parte e che ora giacessero nel terreno
accanto ai loro mariti in un posto più allegro di quello. Forse
erano riuscite a scappare dalla malinconica St. Andrew.
Ricondussi Jonathan nel capanno. Mi ero portata dietro due
bottiglie di squisito cabernet dalla Francia, nascoste nella
valigia. Ne stappammo una e la lasciammo respirare sul tavolo,
intanto che ci sdraiavamo insieme sul letto. Tenni Jonathan
stretto a me finché il suo corpo smise di essere gelido e poi lo
spogliai. Ci infilammo sotto le vecchie lenzuola di cotone,
sorseggiando il cabernet e chiacchierando della nostra infanzia,
dei nostri fratelli e sorelle e amici e nemici. Di tutte le persone
che giacevano a decomporsi mentre noi, inspiegabilmente,
eravamo ancora vivi. Ancora non riuscivo a sopportare l’idea di
confessargli la verità su Sophia. Invece, parlammo di tutte le
persone cui avevamo voluto bene finché Jonathan, cullato dal
vino e dalle parole, non si addormentò.
Fu solo in quel momento che piansi, per la prima ma non
ultima volta.
49
Non c’erano più posti dove andare per rivivere il passato:
nessun cimitero da visitare, nessun sentiero un tempo familiare
ma ora evanescente e inutilizzato da ripercorrere. Camminando
lungo l’Allagash, avvistando di tanto in tanto dei cervi e dei
daini, ammirando la luce del sole che splendeva sul Maine in
quella stagione. Ammirammo quello che c’era, invece di
abbandonarci ai ricordi di quello che c’era stato, in quel punto o
in un altro. Trascorremmo il resto del tempo godendo della
compagnia reciproca.
Il tempo passato insieme però stava diventando come una
droga di cui mi stavo intossicando, non riuscivo ad averne
abbastanza e iniziai a pensare che forse ci potevamo perdere qui,
dove tutto era iniziato. Forse Jonathan sarebbe stato felice di
rimanere in un posto che conosceva. Non eravamo costretti a
vivere per forza a St. Andrew; dato che la città era così cambiata,
sarebbe stato spiazzante abitarci. Ma potevamo comprare del
terreno nella foresta e costruirci un capanno, dove avremmo
vissuto lontani da tutto e tutti. Senza giornali, senza orologi,
senza il ticchettio insistente del tempo che ci picchietta sulle
spalle, risuonandoci nelle orecchie. Senza dover scappare dopo
sessant’anni in un posto per riemergere con un altro nome in un
altro posto, oppure fingere di essere una nuova persona, proprio
come un pulcino appena uscito dall’uovo, ma con dentro il peso
della persona che sapevo di essere e della quale non avrei mai
potuto liberarmi.
Una notte eravamo sul patio dietro quel malconcio capanno,
stretti nei cappotti, su due sedie pieghevoli, a bere vino e a
guardare la luna piena. Jonathan diresse la conversazione sul
nostro passato e la cosa mi inquietò. Si chiedeva se Evangeline
avesse avuto una vita dura e infelice dopo la sua scomparsa e se
fosse stato lui la causa della morte precoce della madre. Gli
ripetei infinite volte che mi dispiaceva, ma Jonathan non voleva
sentire le mie scuse, scuoteva la testa e diceva che, no, era stata
colpa sua, si era comportato in modo orribile con me, aveva
approfittato dell’amore che provavo per lui, che era così
evidente. Scossi il capo a mia volta, posandogli una mano sul
braccio. «Ma io ti volevo così tanto, non capisci? Non è stata
tutta colpa tua.»
«Torniamo ancora in quel posto, Lanny» disse Jonathan.
«Quel posto fra gli alberi dove ci incontravamo di solito, sotto la
volta di alberelli di betulla. Ci ho pensato spesso, sai? È il posto
più bello del mondo, per me. Credi che sia ancora così? Non lo
sopporterei se li avessero tagliati.» Un po’ malfermi e riscaldati
dal vino che avevamo bevuto, salimmo sul SUV, anche se
dovetti tornare nel capanno per prendere una coperta e una
torcia. Tenni la bottiglia di vino aperta stretta al petto mentre
Jonathan guidava tra gli alberi. A un certo punto fummo costretti
a parcheggiare e a proseguire per circa un chilometro a piedi.
Trovammo la radura, ma era cambiata. Le betulle erano
cresciute, ma soltanto fino a un certo punto, poi si erano fermate.
I loro rami più in alto ora si intrecciavano, a formare una tenda
che ombreggiava i rametti che avevano cercato di seguire il loro
esempio. Mi ricordavo quella radura, dove ci incontravamo da
bambini per ridere e raccontarci storie che allietassero le nostre
vite solitarie, ma il tempo passato aveva portato via con sé la
bellezza unica di quei momenti. La radura non era più un luogo
segreto e magico: era soltanto un altro pezzo di foresta, niente di
più e niente di meno.
Stesi la coperta sul terreno e ci sdraiammo sulla schiena,
cercando di sbirciare tra le foglie e i rami per vedere il cielo
notturno, ma c’erano soltanto pochi spiragli da cui spuntavano le
stelle. Provammo a fingere che fosse proprio quello il posto in
cui venivamo da piccoli, ma sapevamo entrambi che forse era
cinque metri più in là, o cento metri più in giù. In poche parole,
era un posto come un altro in quella foresta in cui sdraiarsi a
guardare le stelle.
Ripensare alle nostre infanzie mi portò alla mente il peso che
mi ero tenuta dentro per tutto quel tempo. Era giunto il momento
di dire a Jonathan la verità su Sophia. Un segreto più è vecchio e
più è potente, tuttavia ero terrorizzata dalla reazione che
Jonathan avrebbe potuto avere. Ci eravamo ritrovati, eppure
quel segreto svelato avrebbe potuto separarci di nuovo, quella
notte stessa, e forse, stavolta, sarebbe stato per sempre. Quelle
paure mi indussero quasi a cambiare nuovamente idea, ma non
potevo continuare a portare quella spada di Damocle. Dovevo
confessare la verità.
«Jonathan. C’è una cosa che ti devo dire da tempo. Si tratta di
Sophia.»
«Mmm?» Si irrigidì un poco.
«È stata colpa mia se si è uccisa. Solo colpa mia. Quando mi
hai chiesto se ero andata da lei a parlarle, ti ho mentito. Sono
andata da lei e l’ho minacciata. Le ho detto che sarebbe stata la
sua rovina se avesse tenuto il bambino. Le ho detto che tu non
l’avresti mai sposata, che non volevi più avere niente a che fare
con lei.» Avevo sempre creduto che sarei scoppiata a piangere,
confessandogli la mia colpa, ma non lo feci. I miei denti
iniziarono a battere.
Lui si voltò verso di me, ma al buio non riuscivo a distinguere
la sua espressione. «E hai aspettato tutto questo tempo per
dirmelo?»
«Ti prego, perdonami. Ti prego, ti prego...»
«Va tutto bene. Davvero. Va tutto bene. Ci ho pensato a
lungo nel corso degli anni. È strano come il tempo ti porti a
vedere le cose diversamente. All’epoca, non avrei mai creduto
che i miei genitori avrebbero acconsentito a farmi sposare
Sophia. Ma come avrebbero potuto fermarmi? Se li avessi
minacciati di lasciare la famiglia per stare con Sophia e il
bambino, non avrebbero certo potuto ripudiarmi. Si sarebbero
arresi: c’ero soltanto io che potevo mandare avanti gli affari di
famiglia e prendermi cura di Benjamin e delle mie sorelle, dopo
la morte dei miei. Solo che in quel momento non riuscivo a
vedere che le cose stavano così. Non sapevo cosa fare, e sono
venuto da te. Ed è stato ingiusto, ora lo capisco. Perciò... È anche
colpa mia se Sophia si è uccisa.»
«Ma tu l’avresti sposata?»
«Non so. Forse sì, per il bene del bambino.»
«La amavi?»
«È successo tanto tempo fa. Non ricordo cosa provavo
esattamente.» Forse diceva la verità, ma non capì che quella
risposta mi fece letteralmente impazzire. Ero certa che vedesse
le donne della sua vita in una sorta di classifica e volevo sapere
che posizione occupavo, chi c’era davanti a me e chi dietro.
Volevo che la nostra relazione, così complicata, diventasse più
semplice: di certo gli anni che passano aiutano a chiarire le cose,
no? E a quel punto Jonathan doveva aver capito una volta per
tutte quello che provava per me.
Rimasi seduta, senza nemmeno sfiorarlo, il che mi rese
nervosa. Avevo bisogno di una carezza rassicurante, per avere la
certezza che non mi odiasse. Anche se non mi incolpava per la
morte di Sophia, forse le cose terribili che avevo fatto lo
disgustavano.
«Hai freddo?» gli dissi.
«Un po’. E tu?»
«No. Ma posso stare vicina a te lo stesso?» Mi tolsi il
giubbotto e lo stesi su di noi. I nostri respiri si univano sopra di
noi formando nuvolette bianche, come uno spettro nella notte
scura.
«Hai le mani gelide.» Gli presi una mano e soffiai fiato caldo
sulle sue dita prima di baciarle una a una.
Gli misi una mano sulla guancia. «Anche il tuo volto è
gelido.» Non si oppose. Strofinai il mio viso sulla sua barba
rada, sul suo bellissimo naso sottile, sulle sue palpebre delicate.
Non mi fermò. Gli aprii i vestiti fino a scoprirgli il petto e il
ventre. Poi mi spogliai e mi misi sopra di lui, con la fodera di
flanella del mio giubbotto che mi carezzava le natiche.
Facemmo l’amore su quella coperta sotto le stelle. I
movimenti del sesso erano gli stessi, ma c’era qualcosa di
diverso. Fu tutto più lento e tenero, quasi cerimoniale, ma come
potevo lamentarmi? L’impeto della nostra passione giovanile
era scomparso, rimpiazzato da qualcosa di simile all’amore. Che
però mi lasciò triste, comunque. Era come se ci stessimo
dicendo addio.
Quando finì, con me a cavalcioni su di lui, Jonathan sospirò
nel mio orecchio e si tirò su i pantaloni fino in vita. Io presi una
sigaretta. Esalai un tenue filo di fumo nell’aria fredda, mentre i
polmoni mi si riempivano di calore, calmandomi il respiro.
Continuai a fumare, mentre Jonathan mi accarezzava i capelli.
Mi ero chiesta che cosa sarebbe accaduto alla fine del nostro
viaggio. Jonathan non mi aveva detto niente e io non ero sicura
di quando dovesse terminare. I biglietti aerei erano open e
Jonathan non mi aveva detto entro quando sarebbe dovuto
tornare al campo profughi. Ma una cosa era certa, quel viaggio
non poteva durare ancora molto: non era stato altro che una serie
di delusioni, inframmezzate da sogni a occhi aperti stile «e
vissero felici e contenti». Non aveva fatto altro che ricordarci
tutto quello che avevamo perduto. Solo gli alberi e quel
magnifico cielo ci avevano accolto con familiarità.
E non riuscivo a scacciare il sottile dubbio di essere proprio
io la causa della malinconia di Jonathan. Forse ero io ad averlo
deluso. O forse era lui che non era riuscito a perdonarmi. Non
avevamo ancora parlato del motivo per cui mi aveva
abbandonato, anni prima, e immaginavo di saperne la ragione:
dopo anni di frustrazioni e di recriminazioni, era stufo di
continuare a deludermi.
Ma stavolta non si trattava di rimanere insieme per sempre;
stavolta c’era in sospeso qualcosa di diverso, fra di noi.
Qualcosa di irrisolto, ma non riuscivo a intuire cosa. Jonathan
voleva stare con me, questo era evidente, altrimenti non mi
avrebbe chiesto di fare quel viaggio con lui. Se fosse stato
ancora arrabbiato non mi avrebbe mai contattato, non mi
avrebbe mai scritto quell’e-mail, non avremmo bevuto
champagne, non avrebbe baciato il mio volto, non mi avrebbe
consentito di cullarlo a letto. Al suo fianco perdevo ogni
sicurezza, come era sempre stato; il mio amore era come un
macigno appeso al collo.
«Che cosa facciamo domani?» gli domandai, con aria
casuale, spegnendo la sigaretta per terra. Jonathan inarcò il
mento verso le stelle e chiuse gli occhi.
«Be’, allora» proseguii quando vidi che non aveva intenzione
di rispondermi, «quanto vorresti trattenerti ancora? Non voglio
metterti fretta, sia chiaro. Rimaniamo quanto vuoi.»
Lui fece un lento sorriso, ma ancora non rispose. Mi misi sul
fianco, accanto a lui, appoggiando la testa a una mano.
«Hai pensato a cosa faremo dopo? A... A noi?»
Finalmente aprì gli occhi, sbattendo le palpebre. «Lanny, c’è
una ragione se ti ho chiesto di venire qui con me. Non hai ancora
capito quale?»
Scossi il capo.
Lui afferrò la bottiglia di vino, si rialzò appoggiandosi a un
gomito e bevve, poi me la passò. Ne era rimasto pochissimo.
«Sai perché ho voluto che tornassimo proprio qui?» Scossi
ancora il capo, muta. «L’ho fatto per te.»
«Per me?»
«Speravo ti rendesse felice tornare qui con me, che in un
certo senso avrebbe compensato almeno in parte il modo in cui ti
ho abbandonato. Questo viaggio non è stato per me: per me è
stato un inferno, tornare. E me lo aspettavo. Ho sempre sperato
di poter rimediare a quello che avevo fatto alla mia famiglia, a
mia madre, a mia moglie, a mia figlia. Morte pensando che le
avessi abbandonate. Darei qualsiasi cosa per tornare indietro.»
Come poteva cambiare così rapidamente? Come poteva
essere così cattivo con me? Sentii come se una gelida barriera
invisibile fosse calata fra di noi. «Non è stata colpa tua» dissi,
come se non sapessimo entrambi di chi era la colpa. Non me la
sentivo di bere altro vino, perciò gli passai la bottiglia. «Ma a
che cosa serve riparlarne adesso, Jonathan? Non c’è niente che
io o te possiamo fare per tornare indietro. Il passato è passato.»
«Il passato è passato, già...» ripeté prima di scolare a fondo la
bottiglia. Il suo sguardo si perse nell’oscurità e capii che faceva
apposta a non guardarmi. «Sono così stanco di tutto questo,
Lanny. Non riesco più a continuare in questo modo, non
sopporto più l’infinita successione dei giorni, uno dopo l’altro in
un nastro senza fine... Ho cercato in ogni modo possibile di
trovare un senso, qualcosa che mi facesse tirare avanti.»
«Ti prego, Jonathan. Non dire così, ora sei ubriaco e
stanco...»
La bottiglia di vino affondò nel terreno molle quando
Jonathan vi si appoggiò sopra. «So benissimo quello che dico. È
per questo che ti ho chiesto di venire qui con me. Sei l’unica che
può aiutarmi.»
Sapevo dove stavamo andando a parare. La vita è un cerchio
e anche le parti peggiori ritornano, prima o poi, a tormentarti.
Avevamo avuto quella discussione ogni notte per mesi di fila – o
forse anni? – prima del suo abbandono. Mi aveva tormentata,
implorata, minacciata. Era quella la vera ragione per cui era
partito, non perché non sopportasse più di deludermi, ma perché
mi rifiutavo di dargli l’unica cosa che voleva con tutto se stesso.
Quel suo unico desiderio rimaneva sospeso fra di noi. Era
l’unico modo in cui poteva fuggire da tutto quello che voleva
dimenticare per sempre: le responsabilità tradite, un figlio mai
nato e una figlia abbandonata, il tradimento della persona che
più lo amava. C’era un solo modo per far scomparire tutto quel
gravame dalla sua coscienza.
«Non puoi chiedermi di farlo. Abbiamo entrambi convenuto
che si tratta di una cosa troppo orribile da chiedermi. Non puoi
lasciarmi da sola con...»
«Ma non credi che io meriti di essere liberato, Lanny? Mi
devi aiutare.»
«No. Non posso.»
«Vuoi che ti dica che me lo devi?» Quelle parole mi ferirono
perché non me le aveva mai dette prima, mai, nemmeno una
volta. In qualche modo era riuscito a non gettarmele addosso,
pur essendo parole che mi meritavo pienamente. Me lo devi
perché sei stata tu a farmi questo. È la tua maledizione quella
che pende sul mio capo.
«Come puoi dire così?» urlai angosciata, pronta a
ritorcergliele contro, pronta a ferirlo e a farlo sentire orribile così
come lui aveva fatto sentire orribile me. «Come puoi dire così
proprio tu, che mi hai abbandonata e mi hai lasciata a
tormentarmi tutti questi anni?»
«Ma tu non eri sola. In qualche modo, io sono sempre stato
con te. Dovunque ti trovassi, dentro di te sapevi che io ero da
qualche parte, nel mondo, ma c’ero.» Jonathan si rialzò da terra
con qualche sforzo. Sembrava esausto, il capo gli ciondolava a
ogni respiro. «Le cose sono cambiate per me. C’è una cosa che ti
devo dire, Lanny. Non avrei voluto. Non vorrei mai farti
soffrire, ma ho bisogno che tu capisca perché sono tornato a
chiedertelo. Perché adesso per me è così importante.» Fece un
profondo respiro. «Mi sono innamorato.»
Si fermò, aspettandosi che reagissi male alla notizia della
cosa più bella che gli era accaduta in tutta la sua vita. Aprii la
bocca per congratularmi ma, naturalmente, non uscì niente.
«Una donna ceca, un’infermiera. Ci siamo conosciuti in un
campo profughi. Lei lavorava per un’altra organizzazione non
profit. Un giorno l’hanno convocata a Nairobi all’ufficio
centrale per una riunione. Mentre ero nel bush, ho sentito la
notizia alla radio. C’era stato un incidente automobilistico in
città. Era morta. Impiegai un giorno a trovare un elicottero che
mi conducesse a recuperare il suo corpo. Eravamo insieme da
pochi anni. Non riuscivo a credere all’ingiustizia che avevo
subito. Mi ci era voluta una vita, più vite anzi, per trovare la
persona fatta per me ed ero riuscito ad averla soltanto per così
poco tempo.» Parlò sommessamente, senza troppo dolore, forse
per riguardo nei miei confronti. Ma comunque, mentre lo
ascoltavo mi si contorsero le budella, sempre di più.
«Adesso capisci? Capisci perché non posso continuare così?»
Scossi il capo, determinata a essere decisa, dura, nonostante
la sua sofferenza.
«Non voglio ferirti» disse. «E so che comprendi benissimo la
mia sofferenza. Vuoi che ti racconti di quant’era meravigliosa?
Di come non potevo fare altro che amarla con tutto me stesso?
Di come sia impossibile continuare a vivere senza di lei?»
«Succede ogni giorno» riuscii a dire. «Il tempo passa, uno
dimentica. È facile.»
«Non ci provare. Non con me, non funziona. Io lo so come
stanno le cose veramente. E anche tu.» Forse in quel momento
mi stava davvero odiando un po’. «Non posso più andare avanti
così. Non riesco a sopportare di averla persa, non riesco ad
accettare che non ci sia niente, niente che io possa fare per
smettere di soffrire così atrocemente. Impazzirò, impazzirò
intrappolato per sempre dentro questo corpo. Non puoi
condannarmi a questo destino. Ho resistito finché ho potuto
perché lo so, lo so, che è una cosa tremenda da chiederti. Non
avrei voluto parlarti di lei in modo così... brusco. Ma mi hai
forzato la mano, e ora che te l’ho detto... Non posso tornare
indietro. Ecco, adesso sai cosa voglio da te. Devi aiutarmi.»
Prese la bottiglia di vino e la schiantò contro una roccia. I
frammenti di vetro caddero a terra in una litania di note alte e
aspre, che si librarono attorno a noi. Afferrò la bottiglia rotta per
il collo; nel suo pugno stretto sembrava un bouquet di fiori di
vetro verde. Era l’unica arma a disposizione. Era uno strumento
rude e violento, e voleva che lo usassi su di lui. Voleva che lo
facessi sanguinare a morte.
Non puoi lasciarmi sola, sola senza di te.
Avrei voluto dirgli così, ma non potevo. Mi aveva opposto
l’unica argomentazione che avesse il potere di convincermi:
aveva perso il suo amore e non poteva andare avanti a vivere.
Era giunto il momento di lasciarlo andare, alla fine.
Non riuscivo a parlare. Capii che stavo piangendo solo
perché le lacrime che mi scendevano sulle guance si
ghiacciavano al vento freddo, incendiandomi la pelle. Lui alzò
una mano e con un dito raccolse le mie lacrime. «Perdonami,
Lanny. Perdonami se siamo arrivati a questo punto. Mi addolora
non essere mai riuscito a darti quello che volevi. Ci ho provato.
Non hai idea di quanto avrei voluto farti felice, ma non ci
riuscivo. E tu meriti di essere amata dell’amore che hai sempre
sperato di avere. Spero e prego che prima o poi tu riesca a
trovare quell’amore.»
Lentamente, presi la bottiglia rotta dalle sue mani. Jonathan
si tolse la camicia e si offrì a me, e io guardai prima la mia mano,
poi il suo petto pallido, dai riflessi blu sotto la luce della luna.
Il nostro doveva essere l’amore di una vita.
Ci inginocchiammo uno davanti all’altra, tremando non per il
freddo ma perché eravamo giunti all’inevitabile. Non riuscii
nemmeno a guardarlo: mi spinsi addosso a lui, sapendo che il
bordo tagliente della bottiglia avrebbe fatto il resto. Gli spigoli
verdi taglienti si insinuarono nella sua carne, disegnando un
morso perfettamente circolare, morbido e cedevole. La bottiglia
affondò con facilità e mi ritrovai le mani coperte dal sangue di
Jonathan. Si lasciò sfuggire un flebile sospiro e nulla più.
E poi colpii forte con la mano e comparvero tre linee rosse sul
biancore della sua pelle. Le ferite, profonde, si aprirono ancora
di più e ancor più sangue fluì. Jonathan si accasciò, cadendo sul
petto e poi rotolando sulla schiena, le mani posate mollemente
sulle ferite, con il sangue che gli zampillava fra le dita. La cosa
che mi colpì di più fu che la sua carne aveva ceduto così
facilmente. Continuai ad aspettarmi che i margini della ferita si
avvicinassero, ma non accadde. Così tanto sangue. Svegliati, mi
sentii dire, ma come a miglia e miglia di distanza. Devi
svegliarti.
E poi mi svegliai nel folto della foresta, mentre l’uomo che
amavo si contorceva al mio fianco, in preda alle convulsioni,
rotolando nel fango, tossendo, soffocando. Ma sempre
sorridendo. Il suo petto si alzava e si abbassava con quello che
sembrava uno sforzo disumano, e mi resi conto che avevo già
visto quella scena, nel granaio dei Daughtery, dopo che gli
avevano sparato. In un lampo fui su di lui. Gli premetti la
camicia sulle ferite, cercando stupidamente di arrestare l’ultima
fuoriuscita di sangue. Jonathan scosse il capo e cercò di levarmi
la camicia dalle mani. Alla fine, non mi rimase altro da fare che
stringerlo a me.
Fu in quel momento che compresi quello che avevo perso.
Jonathan era stato sempre dentro di me, anche per tutti gli anni
in cui eravamo stati lontani, era sempre in un angolino della mia
mente, e quella sensazione mi dava sicurezza e conforto. Ora
non mi rimaneva che un enorme vuoto che risucchiava tutto.
Avevo perso l’unica cosa importante della mia vita. Non avevo
più niente, ero sola, a sopportare il peso del mondo, di quella
vita, senza nessuno che mi aiutasse. Avevo commesso un errore.
Rivolevo Jonathan. Era meglio essere egoisti. Era meglio che mi
odiasse fino alla fine dei tempi piuttosto che sentirmi per sempre
così vuota. Sentirmi così e non poter far niente per riaggiustare
le cose o per smettere di soffrire.
Mi aggrappai al suo corpo per un tempo lunghissimo, finché
il sangue raggrumato non congelò e mi ritrovai coperta dalla
testa ai piedi di sangue umido e viscido. Non ricordo il momento
in cui ho lasciato andare il corpo di Jonathan. Non ricordo di
essermi alzata e di essermi messa a correre nella foresta, urlando
a Dio di avere pietà di me e di lasciarmi morire. Che finisse
anche per me, quel tormento. Non potevo continuare a vivere
senza di lui. Non ricordo come sono finita sull’autostrada,
zoppicante sull’asfalto. Non ricordo il momento in cui lo
sceriffo e l’agente di polizia mi hanno trovata.
Fu soltanto quando mi ritrovai dentro la macchina della
polizia, sul sedile posteriore, con le mani ammanettate dietro la
schiena, che mi tornò tutto in mente, fu in quel momento che
capii di non desiderare altro che tornare nella foresta.
Tornare da lui e morire con lui, così che potessimo vivere per
sempre insieme.
50
Parigi, oggi
Il corridoio d’ingresso è stretto e pieno di casse di legno
giovane e scheggiato. Un martello, dei chiodi e un paio di guanti
da lavoro sono poggiati su un tavolino a piedistallo accanto a
una pigna di posta non aperta. Luke trasporta giù dalle scale un
busto di marmo e ha il volto rosso per lo sforzo. Il busto è il
secondo di una coppia che finirà al Bargello, a Firenze – uno dei
tanti musei italiani, preferito agli Uffizi perché ha una maggiore
collezione di scultura rinascimentale. Il primo busto è già chiuso
nella sua cassa. Sulla parete, a osservare tutta quell’attività, c’è
l’unico oggetto d’arte che non lascerà quella casa, il ritratto a
carboncino di Jonathan che Lanny ha rubato dalla casa di Adair.
Il ritratto è stato spostato dal suo posto originale – davanti al
letto di Lanny – e messo nell’ingresso, anche se Luke non aveva
particolari obiezioni a lasciarlo dov’era. Non è capace di essere
geloso dell’uomo in quel ritratto, non più di quanto sia capace di
odiare l’alba dorata o la cattedrale di Notre-Dame.
Lanny esce dallo studio con una busta chiusa in mano. Dentro
quella busta c’è una lettera di scuse per aver sottratto quelle
opere d’arte ai legittimi proprietari, chiunque siano dopo tutto
quel tempo. La lettera – una copia della quale ha accompagnato
ogni pezzo spedito fino a quel momento – ha un tono dispiaciuto
ma vago, ed è priva di riferimenti a come e quando il mittente si
sia appropriato di quell’opera. Lanny ci ha lavorato per giorni,
leggendo a voce alta le varie versioni a Luke finché non hanno
concordato su quella finale. Lavorano indossando guanti di
lattice, per non lasciare impronte. Lanny ha organizzato il
trasferimento delle opere e la loro spedizione anonima tramite il
suo avvocato parigino, che è stato scelto per la sua particolare
dedizione verso i clienti e per l’approccio flessibile al codice.
Perciò non crede che le spedizioni possano essere ricondotte a
lei, per quanto accurate siano le indagini dei musei e degli altri
destinatari.
Quanto a Luke, un po’ gli dispiace veder scomparire tutte
quelle meraviglie così poco tempo dopo il suo arrivo. Vorrebbe
avere più tempo per apprezzare quella che dev’essere la più
completa collezione privata di opere d’arte e manufatti antichi al
mondo. Lanny non aveva esagerato quando gli aveva detto che
la sua casa era più stupefacente di qualsiasi museo. I piani
superiori erano pieni di tesori, ammassati senza nemmeno un
ordine. Ogni volta che sposta un oggetto per spedirlo, ne scopre
altri dieci o più. E non si tratta soltanto di quadri o di sculture. Ci
sono montagne di libri, fra i quali senz’altro sono presenti
diverse prime edizioni. Tappeti orientali fatti di seta così fine da
poter passare attraverso un braccialetto da donna. Kimono
giapponesi e caffetani turchi di seta ricamata. E ogni genere di
spade e di armi da fuoco. Vasi greci, samovar russi, coppe di
giada, d’oro, scolpite nella pietra. Parecchi bauli pieni di
sacchettini di seta e di velluto, ognuno contenente un gioiello
con pietra preziosa. Poi ci sono cose che lo spiazzano
completamente: per esempio, dentro la custodia di un ventaglio
ha trovato un biglietto scritto a mano per Lanny e firmato da lord
Byron. Luke stenta a leggere tutte le parole, ma riesce a
individuare il nome di Jonathan tra gli scarabocchi. Lanny
sostiene di non ricordare di che cosa parlasse quella lettera, ma
com’è possibile scordare un biglietto scritto da uno dei poeti più
famosi del mondo? Quella è la casa di un collezionista pazzo,
che cerca di compensare un vuoto confuso e inarticolato della
sua vita diventando schiavo dell’impulso incontrollabile di
ammassare oggetti di pura bellezza. Eppure, lei ha
generosamente tenuto da parte alcuni pezzi perché vadano a
costituire un fondo fiduciario per le figlie di Luke, sufficiente a
pagare la retta di una buona università quando saranno cresciute.
Luke scopre che, a parte la collezione di antiche ceramiche
cinesi, nessuno ha mai tentato di fare un elenco, perciò convince
Lanny a catalogare ogni pezzo a mano a mano che vengono
spediti: una breve descrizione, un’ipotesi di dove l’ha
acquistato, il nome della persona o dell’istituzione che lo
riceverà. È convinto che un giorno le sarà di conforto,
quell’elenco. Le darà la possibilità di ricordare le sue vecchie
avventure senza il peso di essere circondata da tutti quegli
oggetti.
È un bene per lei liberarsi di quelle cose, ritiene. La aiuta a
non pensare a Jonathan, non sempre almeno. Luke ha sorpreso
Lanny più volte a piangere in bagno oppure in cucina, mentre
aspettava che l’acqua del tè bollisse. Eppure, recentemente le
crisi di pianto hanno iniziato a diradarsi e il progetto di cui si
stanno occupando, la spedizione di tutti gli oggetti della sua
casa, l’ha resa visibilmente più serena. Lei dice di sentirsi più in
pace con se stessa, che è un modo di compensare tutto il male
che ha fatto. Una volta è giunta perfino a dire che, pentendosi e
cercando di porre rimedio, sperava di poter essere perdonata.
Sperava che l’incantesimo si rompesse. Così avrebbe potuto
invecchiare con Luke e abbandonare questa vita mortale più o
meno contemporaneamente a lui. Così non avrebbe più sofferto
quella profonda, insopportabile solitudine. Quei discorsi –
quell’affidare le proprie speranze a una sorta di intervento
magico – mettono a disagio Luke. Date le circostanze, però, ha
imparato a non dubitare (non del tutto, almeno) che possano
accadere eventi quanto meno improbabili.
Lanny infila la lettera sotto il coperchio e Luke lo inchioda. Il
corriere arriverà alle due precise per il ritiro di quel giorno e
Luke è riuscito a metter via soltanto i due busti. Deve darsi da
fare.
Quando posa il martello per asciugarsi la fronte dal sudore,
nota la pila di posta inevasa. In cima c’è una spessa busta che
proviene dall’America e, per riflesso, sbircia l’indirizzo del
mittente. È quello di un avvocato di Boston, colui che si occupa
della casa di Adair, o meglio, della cripta di Adair. Luke sfoglia
velocemente le altre buste: ci sono sette lettere che provengono
dallo stesso avvocato, la più vecchia di un anno prima. Apre la
bocca per dire qualcosa in proposito a Lanny ma proprio in quel
momento lei gli passa accanto veloce, con la borsetta a tracolla,
cercando distrattamente le chiavi di casa. «Ho un appuntamento
dal parrucchiere, ma dovrei riuscire a tornare prima che venga il
corriere. Vuoi che prenda qualcosa da mangiare già che sono
fuori? Che cosa vorresti?»
«Fammi una sorpresa» le risponde.
Luke è contento di vederla immersa in una routine – è un
segnale del fatto che non è paralizzata dalla depressione – e, in
particolare, gli dà gioia vedere quanto velocemente lui sia
entrato a far parte di quella routine. Adora il fatto che stanno
così bene insieme. Lei ha smesso di fumare perché lui gliel’ha
chiesto, perché non riesce a sopportarlo anche se sa che non può
farle alcun male. Lei condivide tutto con lui: la sua panetteria
preferita, la sua passeggiata pomeridiana preferita, gli anziani
con cui ama chiacchierare nel parco. È felice di fare
commissioni per lei, di prendersi cura di lei, e lei in cambio è
grata per ogni suo gesto gentile. Questo significa che lui la ama?
È scettico, profondamente scettico sul fatto che ci si possa
innamorare così velocemente, soprattutto visto chi è lei e quello
che gli ha raccontato, ma allo stesso tempo c’è una strana
sensazione, una specie di vibrazione emotiva che si è
impossessata di lui, una sensazione che non provava dal giorno
in cui sono nate le sue figlie.
Dopo che Lanny è uscita, lui torna di sopra a cercare il
prossimo oggetto da rimpatriare. Più tardi ha un appuntamento,
deve ricordarsi di lasciare Lanny a seguire il corriere, perché lui
deve incontrarsi col direttore dei volontari al Mercy
International, un’organizzazione che invia medici nelle zone di
guerra e nei campi di rifugiati, così come nelle cliniche per i
senzatetto. Era l’ultima organizzazione per cui aveva lavorato
Jonathan, e qualcuno aveva contattato Lanny poco dopo che lei
e Luke erano rientrati dal Québec. Cercavano Jonathan e lei, per
un momento, era rimasta senza parole, poi si era ripresa e aveva
detto di conoscere un altro dottore che voleva rendersi
disponibile, purché potesse praticare a Parigi. Luke è contento
del colloquio, è felice che Lanny abbia capito che lui non può
essere sereno se non svolge il suo mestiere di medico, e spera
che il suo francese arrugginito sia abbastanza comprensibile per
curare gli immigrati da Haiti e dal Marocco.
Luke sceglie il prossimo oggetto da spedire, un largo arazzo
che finirà in un museo tessile a Bruxelles. L’arazzo è stato
arrotolato come un tappeto ed è infilato accanto a una grossa
libreria da studio legale piena di ogni sorta di bric-à-brac. Metà
delle vetrine della libreria sono aperte e quando Luke cerca di
sollevare l’arazzo qualcosa cade da uno dei ripiani.
Lui si china e lo raccoglie. È una piccola palla di camoscio, e
dal modo in cui il tessuto è chiuso – è il solito modo raffazzonato
in cui Lanny conserva le cose – capisce che c’è dentro qualcosa.
Lo apre con cautela – forse c’è dentro qualcosa di fragile – e
trova un piccolo oggetto di metallo. Una fiala, per la precisione,
più o meno grande quanto il mignolo di un bambino. Anche se è
ossidata e scurita dal tempo, si capisce benissimo che è lavorata
e incisa con cura, come un gioiello. Con mani tremanti, prende il
tappo e lo toglie. È secco.
Annusa la fiala vuota. E la sua mente si mette in moto: forse è
secca ma ci sono modi di analizzare i residui. Potrebbe mandarli
a un laboratorio e scoprire così gli ingredienti dell’elisir, le
proporzioni. Potrebbero cercare di riprodurlo e probabilmente,
dopo qualche tentativo a vuoto, riuscirebbero. Ricreare la
pozione significherebbe per lui poter rimanere con Lanny per
sempre. Lei non sarebbe più sola. E, ovviamente, altre persone
sarebbero interessate all’immortalità. Potrebbero venderla a
prezzi astronomici, facendola gocciolare sulle lingue dei clienti
come se si trattasse di fare la comunione. Oppure potrebbero
essere dei veri benefattori: in fondo, che cosa farsene di troppo
denaro? Potrebbero darla a grandi scienziati per farla studiare.
Chi può immaginare che impatto avrebbe quell’elisir sulla
scienza e sulla medicina? Un elisir che rigenera i tessuti
potrebbe rivoluzionare le cure delle ferite e delle malattie.
Potrebbe cambiare tutto. Così come rivelare al mondo la
condizione di Lanny.
Eppure... Luke ha il sospetto che l’analisi del residuo non
rivelerebbe un bel niente. Ci sono cose al mondo che resistono a
qualsiasi indagine, che non possono essere esaminate alla luce
del sole. Una piccola frazione di una piccola percentuale di un
fattore che non può essere spiegato né riprodotto. Quando era
uno studente di medicina, ne aveva sentito parlare, di fenomeni
simili, raccontati da un vecchio e saggio professore al termine di
una lezione. L’aveva sussurrato agli studenti mentre uscivano
dalla sala operatoria dopo una dissezione. Ci sono alcuni medici
e alcuni ricercatori che rifiuterebbero questa verità e
sosterrebbero che la vita è meccanica, che il corpo non è altro
che un sistema di sistemi, come una casa. Che si vive finché si
mangia quello o si beve quell’altro, finché si seguono quelle
regole, come se ci fosse una ricetta della vita. Basta riparare il
sistema idrico o aggiustare la struttura quando si danneggia,
perché il corpo è soltanto un vascello che trasporta la coscienza.
Ma Luke sa che le cose non sono così semplici. Anche se un
chirurgo dissezionasse Lanny – e sarebbe un incubo, con il
corpo che cerca di ripararsi da solo mentre mani e bisturi lo
scavano – non riuscirebbe a individuare la parte di lei che è
cambiata e che l’ha resa immortale. Né servirebbero analisi del
sangue o biopsie o qualsiasi tipo di radiografia. Quindi, si
potrebbe anche analizzare la pozione, darne dei campioni a
migliaia di chimici per farla riprodurre, ma Luke è convinto che
nessuno sarebbe capace di ottenere lo stesso risultato. C’è una
forza superiore dentro Lanny, riesce a sentirla, anche se non ha
idea se si tratti di una forza spirituale, di magia, di chimica o di
un tipo di energia sconosciuto. Sa soltanto che il miracolo
dell’esistenza di Lanny, come la fede e la preghiera, funziona
meglio in solitudine, protetto dallo scetticismo e dalla forza
bruta della ragione. E sa che, in effetti, se le sue condizioni
fossero rese pubbliche, lei si disintegrerebbe o evaporerebbe
come brina al sole. Probabilmente è per questo stesso motivo
che nessuno degli altri – gli altri di cui Lanny gli ha raccontato,
Alejandro, Dona e la diabolica Tilde – si sono mai esposti al
pubblico.
Strofina la fiala tra le dita come una sigaretta e poi,
d’impulso, la getta a terra e la schiaccia col tacco, con tutto il suo
peso. Si appiattisce facilmente, come se fosse fatta di carta.
Luke va alla finestra, la apre e scaglia fuori il pezzettino di
metallo, più lontano che può, oltre i tetti dei vicini, e distoglie
appositamente lo sguardo per non vederne la traiettoria.
Immediatamente, si sente sollevato. Forse avrebbe dovuto
parlarne a Lanny prima di distruggere la fiala.
invece no. Sa benissimo che cosa avrebbe detto lei.
E poi, ormai è fatta.
Ringraziamenti
Immortal è evidentemente un’opera di finzione, ma è anche il
frutto di alcune ricerche, specialmente per quanto riguarda la
storia dello Stato del Maine. Ho consultato due volumi in
particolare: Maine in the Early Republic, a cura di Charles E.
Clark, James S. Leamon e Karen Bowden (University Press of
New England, 1988), e Liberty Men and Great Proprietors: The
Revolutionary Settlement on the Maine Frontier 1760-1820, di
Alan Taylor (University of North Carolina Press, 1990).
Eventuali errori e imprecisioni si devono soltanto a me.
Spesso si dice che quello dello scrittore è un mestiere
solitario, e in parte è vero, ma sarebbe impossibile riuscire a
pubblicare un libro senza l’aiuto e la benevolenza di molte
persone nel lungo percorso che conduce alla pubblicazione
stessa. Vorrei ringraziare tutti coloro i quali hanno letto le prime
versioni del romanzo, tra cui Dolores, Lisa, Randy, Linda, Jill,
Kelley e Kevin; i miei professori alla Johns Hopkins, Tim
Wendel, Richard Peabody, Elly Williams e Mark Furrington;
Elise Cheney e Jeff Kleinman per avermi incoraggiato da subito;
e i magnifici organizzatori della Squaw Valley Community of
Writers.
Un enorme ringraziamento è dovuto a Tricia Boczowski, la
mia editor presso la Gallery Books, per aver intravisto qualcosa
di promettente nel mio romanzo, per la sua guida editoriale e per
l’ottimismo e l’allegria con cui ha portato questo romanzo alla
pubblicazione. Ringrazio anche la Gallery Books per essersi
così adoperata per il mio libro.
Infiniti ringraziamenti anche a Nicky Kennedy, Sam
Edenborough e Katherine West, gli agenti per la vendita dei
diritti all’estero della Intercontinental Literary Agency, e agli
editori di Immortal negli altri paesi, per aver dimostrato grande
fiducia in un romanzo d’esordio: Giuseppe Strazzeri e Fabrizio
Cocco presso la Longanesi; Cristina Arminana presso la
Mondadori Spagna; Katarzyna Rudzka presso la Proszynski
Media in Polonia e la ESKMO Publishing in Russia.
I miei più sentiti ringraziamenti vanno a Peter Steinberg, il
mio agente, non soltanto per aver creduto nel mio lavoro ma per
averlo curato con dedizione, trasformando una storia forse anche
un po’ traballante nel romanzo che avete appena finito di
leggere.
Grazie alla mia famiglia per aver sopportato il mio pessimo
temperamento da scrittrice sin da quando ero una bambina
seriosa.
E, naturalmente, tutto il mio amore va a Bruce, che con
infinita pazienza ha sopportato che dedicassi ore e ore a questo
libro e mi ha permesso di realizzare tutti i miei sogni.
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