l’arte della cura nella medicina di comunità a trieste:
storie e racconti di malattia
[7.]
“fare comunita”:
tra l’istituzione e la vita
Microarea di Gretta - Distretto 1
“Laboratorio di comunicazione”:
materiali e testi raccolti da Giovanna Gallio
Progetto “Fare salute” - EnAIP di Trieste
“fare comunita”:
tra l’istituzione e la vita
Michela Degrassi 1
La microarea di Gretta
[1. Mappatura del territorio]
Michela Degrassi
Il quartiere di Gretta è tutto in salita, costruito a gradoni su una collina che domina il mare. Il paesaggio è magnifico, e anche il luogo lo
è, ma l’habitat è molto deteriorato: gli insediamenti popolari risalgono
tutti agli anni ’50 e l’Ater non ne ha avuto molta cura. Non a caso il
progetto su cui ho investito maggiormente nel 2010, “spazio Gretta”,
è stato realizzato da Kallipolis, un’associazione no profit di architetti e
ingegneri donne con un’esperienza consolidata nel campo dell’habitat.
L’associazione ha svolto fra l’altro interventi in Bosnia, nella fase di
ricostruzione del dopoguerra, utilizzando metodi di progettazione partecipata; ed erano questi metodi che volevamo sperimentare a Gretta,
consultando e coinvolgendo i residenti. Il programma è stato reso possibile da un finanziamento regionale, un contributo modesto in realtà, di
seimilacinquecento euro, ottenuto dall’associazione nel 2008.
Alcuni mesi prima, dopo essere stata nominata referente della microarea, avevo avviato una specie d’indagine, una mappatura del rione,
e i dati raccolti mostravano che Gretta era sprovvista di luoghi di incontro; in particolare mancava un centro, una piazza. Scendendo dalla
collina, giù in basso si arriva a largo Osoppo: lì c’è una farmacia, un bar
e il capolinea dell’autobus. Ma nemmeno in questo slargo, che è di transito, c’è un luogo dove potersi soffermare. Per svolgere l’indagine era
stato costituito un gruppo di lavoro al quale partecipavano operatori del
Distretto 1, del SerT e del Centro di salute mentale, insieme ad esponenti del Comune e dell’Ater. Per una settimana eravamo rimasti seduti
in un gazebo in via Santi, e all’arrivo dell’autobus l’operatore di turno
cercava ogni volta di parlare con gli abitanti del rione per intervistarli.
1
Michela Degrassi è fisioterapista, dal 2008 referente della microarea di Gretta, Distretto 1, Ass n.1 “Triestina”. L’incontro si è svolto il 6 ottobre 2010.
5
Giovanna
Che cosa avete scoperto?
Michela
I residenti al numero 11 di via Santi dicevano di essere molto disturbati la notte, da quando i giovani avevano preso l’abitudine di incontrarsi proprio lì. A Gretta vive la popolazione più anziana della città;
non ricordo le percentuali, ma in quelle strade sono concentrati in dose
massiccia gli ultraottantenni. I giovani sono un’assoluta minoranza, una
specie in via di estinzione, e tendono a riunirsi fra di loro in quel punto
di via Santi; di notte bevono birra, e alcuni più ubriachi o più sbandati
restano lì a fare le ore piccole. Il fastidio era avvertito solo in certi caseggiati, perché già nella strada accanto, in via dei Carmelitani, la gente
non si lamentava più di niente. Altri problemi rilevati erano la debole
illuminazione nelle strade, o la mancanza del passamano che rende difficile salire e scendere a piedi da quella collina così ripida.
Nel complesso gli intervistati non sembravano scontenti del loro rione, e questo è anche comprensibile. A Gretta c’è molto verde, i caseggiati hanno una loro bellezza e armonia estetica se confrontati a quelli
di Melara o Valmaura. Gli edifici sono di quattro piani, con un’aiuola
davanti; tutta la zona è serena, ariosa, per niente squallida. Anche vista
dall’alto Gretta è molto bella, ha la forma di un diamante: un piccolo
diamante di vita povera se non misera, inserito in un contesto ricchissimo. Subito a sinistra c’è via Tolmezzo, una zona abitata da vip: tutte le
case appartengono a persone benestanti. Così pure la zona del faro, via
dei Berlam con le ville vista mare, e la Strada del Friuli che si snoda e
sale verso l’altipiano, con tutte le case affacciate al golfo.
Giovanna
Tu dici “vita povera, se non misera”…
Michela
A Gretta la povertà si respira a pieni polmoni. Non solo c’è il disagio
economico evidente degli abitanti delle case popolari, ma sono frequenti i problemi di alcolismo, tossicodipendenza, malattia mentale. Per non
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parlare dell’isolamento di molti anziani, che non riescono a spostarsi in
maniera autonoma anche per sbrigare le più banali faccende. Le abitazioni sono sprovviste di ascensori, e ci sono gradini dappertutto: non fai
un passo a Gretta senza inciampare in qualche gradino. E poi la distanza
dai negozi, l’assenza di servizi di pubblica utilità.
Anche la posta funziona a singhiozzo, ogni volta che devi sbrigare
una pratica qualsiasi sei obbligato a scendere in città, e se hai una piccola pensione non puoi permetterti di prendere un taxi.
[2. Progettazione partecipata]
Giovanna
Vorrei cercare di capire più da vicino quali erano gli obiettivi di
“spazio Gretta”, e in che senso avete realizzato metodi di “progettazione partecipata”: puoi fare degli esempi?
Michela
Agli inizi, quando ci si è chiesti come utilizzare quel piccolo finanziamento, io avevo proposto di fare un giardino; avevo anche individuato il terreno, ma quando si è cominciato a discutere la mia idea non
è stata condivisa dagli altri. Allora si è deciso di allargare la consultazione agli abitanti del rione; sono state indette delle riunioni aperte a
tutti, e uno dei primi problemi emersi era la cattiva abitudine di alcuni
residenti di gettare dalle finestre il cibo ai gatti.
Come in altre parti della città, anche a Gretta ci sono persone ufficialmente autorizzate ad aver cura dei gatti randagi; questo ha finito in
certi casi col creare delle distorsioni nell’uso degli spazi comuni. Così,
fino a un anno fa settanta metri quadri di un’aiuola condominiale erano
stati destinati a una gattara; ben quattro caseggiati avevano in permanenza davanti a sé una distesa di piattini per i gatti, con i gabbiani che
arrivavano dal mare per contendere loro il cibo.
Nelle prime riunioni si discuteva di questo, venivano a galla tutti
quei problemi che alimentano la conflittualità fra i condomini: chi porta
fuori il cane e non raccoglie gli escrementi, chi scuote la scopa dalla
finestra e tu sei sotto, che stai mangiando sul pergolo.
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Ma poi, nel corso della discussione, venivano fuori anche idee interessanti, costruttive. Qualcuno ad esempio proponeva di creare a Gretta
un mercatino comunale, qualcun altro chiamava in causa l’Ater con
progetti di miglioramento degli spazi comuni.
Nel lavoro di microarea, accanto al distretto sanitario, entrano in scena attori importantissimi come il Comune e l’Ater, competenti a risolvere tutta quella sfera di problemi che riguardano l’habitat sociale. Ed
è stata questa forza a esprimersi nelle riunioni: la possibilità non solo di
parlare, ma di agire, di fare. Così, in breve tempo, Grazia di Lorenzo2 è
riuscita a organizzare un mercatino delle pulci, che si è svolto nel mese
di agosto in due diverse giornate. L’iniziativa è stata importante, non solo
perché ha ottenuto un grande favore di pubblico, ma perché ha sollevato
un dibattito su come mai i venditori ambulanti non vengono a Gretta, e
per quali ragioni il Comune non istituisce nel rione un mercatino settimanale, in modo da dare la possibilità agli anziani di fare i loro acquisti.
Giovanna
A Trieste non ho mai visto mercatini rionali, ce ne sono?
Michela
Ce n’è uno a Roiano, che si tiene ogni settimana nella piazza della
chiesa. A Gretta ci avevano provato a farlo anni fa, senza successo:
non c’è abbastanza clientela, girano pochi soldi e il luogo è così isolato
che passa poca gente. A Roiano il mercatino funziona perché passa il
mondo, e anche se ci sono quattro supermercati, tutti lavorano perché
c’è un giro di gente che alimenta le attività; invece a Gretta non passa
mai nessuno, solo le auto che scendono dalla Bonomea. Nessuno è attirato lì, perché non avrebbe niente da fare. Perciò eravamo soddisfatti
perché al nostro mercatino delle pulci, l’estate scorsa, ha partecipato
molta gente venuta da fuori, dalla città. Gli ambulanti avevano messo
su le loro bancarelle nei cortili dei vari civici. La cosa si è ripetuta il
giorno della festa, alla fine del progetto, ma diluviava e abbiamo dovuto
spostare tutti i banchetti nella sala della parrocchia.
2
Grazia di Lorenzo è socia della cooperativa “La Quercia”.
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[3. Criteri nel lavoro di microarea]
Giovanna
A Gretta la parrocchia almeno c’è...
Michela
C’è la chiesa dei frati carmelitani, ma le occasioni di vita sociale per
chi abita lì sono veramente scarse. La sola iniziativa, creata nel 2004 nel
corso del progetto Habitat, è il “gruppo anziani”, animato da operatori
del Comune, ma col passare degli anni anche questo spazio si è chiuso
sempre di più. Le signore che lo frequentano hanno finito col considerarlo uno spazio privato, e tendono a ostacolare nuovi inserimenti. Gli
“esterni” rappresentano una specie di minaccia per la sopravvivenza del
gruppo, e se questo è accaduto è anche per responsabilità nostra.
Giovanna
Cosa intendi dire?
Michela
Io credo che il limite principale del progetto Habitat sia stato quello
di concepire dei gruppi chiusi, con funzioni prevalentemente assistenziali; questo ha inibito le possibilità di attivare la popolazione attorno a
iniziative concrete, nella soluzione di problemi reali, percepiti da tutti.
Giovanna
Soffermiamoci su questo punto: la specificità del lavoro di microarea. In cosa consiste secondo te?
Michela
Consiste nel fatto che tutti gli attori che concorrono al progetto – il
Distretto, il Comune, l’Ater, i Dipartimenti di salute mentale o delle
dipendenze, ma anche le associazioni e le cooperative – devono riuscire ad attivare la popolazione, introducendo pratiche innovative che
poi dovrebbero essere gestite in maniera diretta dai residenti del rione.
Se le iniziative si cristallizzano, e sei tu a dover continuare all’infinito
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a organizzare le attività, la pratica diventa un’estensione impropria di
interventi assistenziali che si istituzionalizzano. Il lavoro di microarea
non deve contribuire ad allargare la sfera di influenza e controllo sulla
popolazione da parte degli enti pubblici: al contrario, deve aiutare la
popolazione a dipendere di meno dagli enti pubblici nella gestione di
una serie di problemi riferiti alla salute e a all’habitat.
Giovanna
Per fare questo è necessaria una forte cultura progettuale…
Michela
Sì, bisogna essere proattivi. Devi arrivare prima sul problema, senza
aspettare che si aggravi, scongiurando il presentarsi di problemi che
fatalmente dovrai affrontare se non intervieni: un mucchio di soldi da
spendere in più, un mucchio di mali da curare, di cose rotte da riparare.
Nel lavoro di microarea devi riuscire a scatenare degli eventi, essere
motore di iniziative dalle quali poi ti ritiri, per lasciare agli abitanti del
luogo l’esercizio di una competenza, un potere di intervento, altrimenti
i costi assistenziali, anziché ridursi, crescono. Sarebbe folle, in una fase
in cui le risorse tendono a calare, espandere i costi, le spese.
Giovanna
Anche a me è capitato di osservare, non a Gretta ma in altri rioni, la
facilità con cui le persone anziane coinvolte nelle iniziative finiscono
coll’affezionarsi a pratiche abitudinarie: si forma una sorta di gelosia
degli spazi, e il fucile viene puntato contro chiunque osi turbare la vita
del gruppo. I vecchi hanno le loro ragioni nel volersi proteggere con
abitudini stabili, in luoghi familiari. È un’esigenza che non puoi negare
a priori: si vive bene nel rifare ogni giorno le stesse cose, come i bambini che nel rifare lo stesso gioco provano piacere. Forse si tratta piuttosto
di moltiplicare le iniziative e gli spazi, perché tutti ci stiano dentro in
questa possibile socialità. E lì torniamo al problema che dici tu: come
far sì che un’iniziativa avviata dalla microarea possa diventare qualcosa di permanente e di acquisito dagli abitanti, qualcosa di governato e
gestito da loro.
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Michela
È anche una questione di fortuna, secondo me, trovare persone che
ti vengono dietro nei progetti. Per esempio, noi adesso abbiamo due
abitanti di Gretta, persone molto dotate di capacità, che a poco a poco
stanno diventando dei promotori, e nel diventare promotori ritrovano
un ruolo sociale che avevano perso.
Giovanna
Credo anch’io che il problema sia quello di formare delle leadership
all’interno dei rioni.
Michela
Assolutamente sì, ma molto dipende dalla capacità della referente di
lavorare con gli altri. In questo io sento di poter attingere alla mia formazione come scout, più che al mio ruolo sanitario, anche se in genere
i fisioterapisti sono creativi, molto indipendenti nel loro lavoro. Vedrai
sempre infermieri che agiscono in coppia, mentre il fisioterapista agisce
da solo, e anzi considera la presenza di un altro operatore come un’invasione. Per quanto mi riguarda sono estroversa, indipendente per carattere, e so di esercitare un’influenza sugli altri. È una specie di dono,
o almeno lo considero tale; sono sempre stata molto proiettata sul fuori,
ho mille interessi e questo mi ripaga moltissimo. Non tutti ovviamente
apprezzano il mio modo di essere, ma nel lavoro di microarea entro
facilmente in contatto con persone diversissime. Soprattutto entro nelle
case delle persone senza invaderle, rendendomi piccola per così dire,
trasmettendo chiaramente il messaggio: “In questo spazio non comando
io, comandi tu; io sono soltanto un mezzo per aiutarti ad aver accesso
ad altri spazi e luoghi”.
È una modalità amicale, del tutto spontanea, e questo ha fatto sì
che a Gretta si siano formati tanti piccoli gruppi attorno al mio lavoro:
persone che mi seguono perché hanno cominciato ad avere fiducia che
le cose possano un po’ cambiare nella vita del rione. Se il mio modo di
essere fosse sentito come falso o ipocrita non godrebbe di alcun credito, invece parlando con tutti, e adattandomi alle più svariate situazioni,
riesco a stabilire un contatto diretto, molto pragmatico.
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Ad esempio, nel progetto Kallipolis non mi sono certo sottratta al
lavoro manuale; fare il buco nelle aiuole, quel lavoro di pala e piccone
che coinvolgeva un po’ tutti, l’ho fatto anch’io. Non mi sono atteggiata
come se avessi la corona in testa, ero là a farmi le vesciche come gli
altri. Questo mi ripaga, perché la cultura del fare, una cultura al tempo
stesso pratica e organizzativa, è coerente con la cultura sanitaria che mi
è stata trasmessa in questa azienda, dove mi sono formata.
[4. Tra l’istituzione e la vita]
Giovanna
Un’azienda che esprime una cultura sanitaria sempre più condizionata – anche qui – da regole, procedure, criteri di standardizzazione
degli interventi. Cosa pensi di questi aspetti del lavoro sanitario?
Michela
Attualmente frequento un corso di specializzazione universitaria, e
mi è capitato poco tempo fa di fare un esame sui “sistemi adattativi
complessi”. La microarea può essere considerata un sistema adattativo
complesso, in un distretto in cui il servizio infermieristico è certificato
Iso 9002: il che significa che un infermiere è certificato in qualsiasi cosa
faccia. La certificazione ha come conseguenza il fatto di protocollare
tutti gli interventi, e questo riduce di per sé la creatività, la fantasia,
l’innovazione.
Certificarsi per una qualità che si deve possedere a priori finisce col
penalizzare, più che premiare, l’attività infermieristica. Se tutto quello che fai è protocollare, e cioè implicito, previsto, misurato da una
procedura, la certificazione diventa un elemento che plasma e struttura
ogni intervento. Ne discutevo l’altra settimana con il responsabile del
mio distretto, il dottor Paolo Da Col. Gli dicevo: “Non sarò io a farmi
permeare dai protocolli distrettuali, vorrei che fosse il distretto a essere
permeato dalla creatività del lavoro di microarea: un lavoro che si svolge a metà strada, tra i protocolli e l’anarchia della vita”.
Di questo sono convinta: la complessità del lavoro sanitario sta lì
in mezzo, tra l’istituzione e la vita. È la creatività la chiave di lettura
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dell’opera di Basaglia, nel superamento di un’istituzione chiusa, violenta e segregante, che avviene grazie al fatto di accettare l’anarchia
della vita. Ed è la creatività di Franco Rotelli e di Carmen Roll ad aver
permesso l’apertura delle microaree, nella sfida di incontrare la vita
vera dei territori che compongono la città. Se leggi le cose in questi
termini non puoi andare a cercare le microaree da un’altra parte, non ci
sono. Non potevano nascere che a Trieste, perché qui c’è un intero sistema, un metodo di lavoro che nel corso di alcuni decenni ha consentito
di far nascere una realtà come questa. Se organizzi i servizi distrettuali
con la rigidità dei protocolli, o se appalti i servizi privatizzandoli, non
controlli più niente di quello che fai, non puoi più permetterti nessun
slancio creativo.
In ciò che hanno fatto Basaglia e Rotelli sono stati geniali e folli al
tempo stesso, mentre non c’è genio né follia nel protocollo: è impossibile trovarne la più piccola traccia, perché col protocollo non puoi
inventare né rischiare niente.
Per questo la microarea può dare fastidio a chi lavora strutturato,
secondo protocollo; il più delle volte nemmeno capisce di cosa stai parlando quando parli del tuo lavoro. A volte racconto a colleghi dell’ospedale quel che faccio in microarea, e mi guardano con occhi spalancati:
“Ma che dici?”. La struttura protocollare ospedaliera è molto più rigida
e inglobante di quella del distretto: per chi lavora nel territorio, già il
fatto di entrare nelle case fa saltare un bel po’ di protocolli.
[5. Il progetto Kallipolis]
Giovanna
Vorrei ora riprendere la descrizione del progetto realizzato con Kallipolis: quali sono state le fasi, i metodi?
Michela
Come dicevo prima, abbiamo utilizzato un metodo di progettazione partecipata per migliorare le forme dell’abitare, e anche se erano le
esperte di Kallipolis a guidarci e a condurre le diverse fasi di lavoro, il
nostro contributo organizzativo è stato fondamentale.
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Tanto per fare un esempio, il progetto - iniziato a maggio 2010, e
concluso a fine settembre - non sarebbe stato possibile senza l’aiuto
di Valentina Rossi, portiera sociale di Gretta: donna preziosissima che
conosce molto bene tutti i residenti, e con la quale collaboro ogni giorno. Grazie a lei siamo riusciti a informare e coinvolgere uno a uno gli
abitanti del rione, per fare in modo che partecipassero alle riunioni.3
Giovanna
L’affluenza è stata abbastanza elevata?
Michela
Direi proprio di sì, anche se i partecipanti erano un po’ avanti con
l’età, mediamente sopra i sessant’anni. Alle riunioni erano stati invitati
anche i cittadini che avevamo consultato nel lavoro di mappatura di
cui parlavo agli inizi: intervistandoli avevamo annotato i loro nomi e
numeri di telefono, chiedendo a ciascuno la disponibilità a far parte di
una specie di comitato di quartiere che volevamo istituire. Inoltre alle
riunioni partecipavano esponenti della Circoscrizione di Gretta, che ha
sede a Villa Prinz.
Giovanna
Quali erano le tecniche di conduzione degli incontri?
Michela
Chi coordinava le riunioni accoglieva i problemi e li teneva aperti,
animando la discussione e mantenendola entro binari molto precisi, anche perché facilmente questi incontri si arenano nell’enunciazione di lamentele e di rivendicazioni, nello scontro degli uni contro gli altri. In questo modo di procedere assumeva importanza il ruolo di intermediazione,
svolto in maniera egregia da Michela Crevatin e da Ileana Toscano.4
3
Valentina Rossi è socia della cooperativa “La Quercia”. Il portiere sociale ha il compito di accogliere le domande di manutenzione, controlla le aree esterne agli edifici e
fa da tramite con l’Ater, intervenendo e mediando ogni volta che ci sono contese tra i
condomini. I portierati sociali sono nati in diversi rioni della città con il progetto Habitat, e nella loro conduzione sono coinvolte diverse cooperative sociali.
4
Michela Crevatin e Ileana Toscano sono architetti dell’associazione Kallipolis.
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La litigiosità e la personalizzazione dei discorsi è un problema che
si presenta non solo fra condomini; riguarda tutti i contesti d’intervento
e di azione, e costituisce un ostacolo a trovare accordi su qualsiasi cosa.
Ognuno pensa al suo orticello e ci si arena lì; noi invece abbiamo potuto fare con Kallipolis un percorso animato da discussioni intelligenti,
documentato in tutti i suoi passaggi, fino a che sono stati raggiunti dei
risultati tangibili.
Non posso descrivere tutto quello che è accaduto. Dirò solo che abbiamo collaborato con un falegname, un giardiniere esperto e un venditore di fiori; col loro aiuto sono stati realizzati degli arredi urbani
che creano nuove centralità nello spazio di Gretta, articolando i suoi
percorsi interni. Sono stati gli architetti a disegnare dei pannelli stampati, distribuiti nei diversi luoghi, con scritte divertenti e ironiche che
ancora attirano l’attenzione dei passanti. Ad esempio, su un pannello
c’è un gatto stilizzato che guarda verso l’alto di una casa, con sopra
la scritta: “Non sono io goloso….. del cibo lanciato dalla finestra”. In
diversi punti del rione ci si imbatte in questi pannelli, con frasi a fumetto che illustrano i problemi percepiti dagli abitanti, per riorientare i
comportamenti e la manutenzione corretta del luogo, specie la gestione
della pulizia e dei rifiuti. Inoltre sono state create delle fioriere a forma
di panca: quadratoni di legno dove ci si può sedere, con in mezzo piante
bellissime, e dietro una griglia dove si arrampicano i gelsomini. Anche
in questo caso il nostro intento era innalzare la qualità dell’habitat, sviluppando l’attenzione degli abitanti e la loro responsabilità nella cura
dello spazio pubblico come bene comune.
Giovanna
L’Ater ha sostenuto il progetto?
Michela
Sì, ha contribuito con un investimento economico importante, mirato a facilitare l’accesso al luogo. Ad esempio ha collocato un passamano in una discesa molto ripida, e ha curato la potatura di alberi che
limitavano l’illuminazione di una strada, essendo stato impossibile ottenere nuove lampade dal Comune. Ma la cosa più bella, realizzata nel
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corso del progetto, è stata la ristrutturazione di una grande aiuola situata
tra gli edifici di via dei Carmelitani, in uno spazio verde, pianeggiante,
dove si sono ottenuti risultati straordinari con misure molto semplici.
L’aiuola è stata delimitata da mattoncini di tufo, tappezzata quasi
interamente ad erba, con al centro un rampicante; solo una cornice di
terreno è stata lasciata libera per farci una piantumazione collettiva.
Un giorno abbiamo preso dei cartoncini con tante piccole piante,
affidando una pianta a ciascun abitante: ci abbiamo scritto sopra anche
il nome, così nel corso di una festa collettiva ciascuno ha potuto metter
giù nel terreno la propria pianta, diventandone il responsabile. Ora c’è il
problema che la cura delle piante è eccessiva: alcune vengono bagnate
da troppe persone, e si dovrà fare un calendario per registrare quando
si innaffia. Qualcuno ha anche cominciato a rubare i fiori; essendo una
aiuola che si nota molto, forse dà fastidio a chi rifiuta il cambiamento.
Sono gesti incivili, ma se rubano i fiori vuol dire che abbiamo fatto
qualcosa di significativo per trasformare il luogo.
[6. Il ruolo dei volontari]
Giovanna
In tutto questo la malattia cosa c’entra? Quando e dove ti confronti
con i problemi sanitari della popolazione?
Michela
La salute e la malattia ci stanno dentro perfettamente in un progetto come questo: attivare le persone, coinvolgerle, farle uscire di casa
per incontrarsi fra di loro attorno a un’iniziativa, questa è salute. Era
salute per tutti constatare quante persone erano lì insieme, in maniera
armoniosa e solidale. Mentre nel progetto di socializzazione degli anziani sono sempre le stesse dieci signore a partecipare, qui i protagonisti
erano altri, gente che non aveva mai preso parte a niente, a nessuna
iniziativa nel quartiere. Penso in particolare agli abitanti di via dei Carmelitani: una popolazione più mista, con qualche ragazzo e gruppetti
di bambini. Ma ad abbassare la media dell’età dei partecipanti erano
soprattutto i volontari del Servizio civile solidale.
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Giovanna
Che cos’è il “Servizio civile solidale”?
Michela
È un progetto avviato l’anno scorso, derivato da un altro che lo aveva preceduto, denominato “Un sorriso”, in cui si prevedeva di collegare a ogni microarea una scuola. Ad esempio, l’istituto Deledda, che io
ho frequentato, era unito l’anno scorso alla microarea dell’Itis, mentre
Gretta è collegata al liceo “Dante” di piazza Oberdan. Dapprima siamo
andati noi nelle scuole a far conoscere il nostro lavoro, e in seguito sono
venuti in microarea gli studenti della terza liceo classico.
Questa forma di volontariato è finanziata dalla Regione: poco se si
vuole, ma almeno un compenso c’è. Attualmente collaborano a Gretta
tre studenti del Dante, che intervengono nelle case di riposo dove si trovano i vecchi della nostra microarea, e nell’assistenza domiciliare; altri
quattro volontari provengono invece dal Servizio civile nazionale. Tutti
questi ragazzi rappresentano una forza, ma vanno formati e sostenuti,
perché possono anche diventare una fonte di stress per la referente di
microarea. Tempo fa una volontaria disattendeva tutti gli appuntamenti,
e creava non poche difficoltà perché era solita mentire. Il rapporto si è
chiarito quando lei stessa ha ammesso che stava attraversando una fase
difficile; da allora abbiamo cominciato a parlare, e si è creato un legame
di fiducia che dura a tuttora.
Ai giovani e giovanissimi il lavoro di microarea fa molto bene. Entrano in contatto con ambienti e situazioni imprevedibili, trovandosi da un
giorno all’altro valorizzati in un ruolo di aiuto con persone che magari
soffrono di problemi di alcolismo o di tossicodipendenza, o con anziani
malati e poveri. Capiscono cosa vuol dire la solitudine, l’isolamento sociale. Il dolore fisico è il leitmotiv nella vita dei vecchi, li accompagna
per tutta la giornata, ma ci sono dei picchi, quando il dolore diventa
insostenibile. Ed è fantastico vedere che basta la presenza di Elisabetta
o di Gianluca nella casa, e le persone stanno subito meglio, dimenticano
in certo modo la sofferenza. Ogni giorno che passa, sempre più diventa
centrale per i vecchi il senso di questa presenza: quando io o il volontario
ritardiamo la visita anche di cinque minuti, veniamo subito rimproverati.
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Giovanna
Gli studenti portano nelle case la dimensione del mondo esterno, che
ai vecchi è preclusa.
Michela
I ragazzi parlano tutto il tempo di morosi, di discoteche, di vita
nella scuola, e ascoltando questi racconti il dolore dei vecchi subito
si attenua. Si crea un legame basato sull’interessamento reciproco, si
sviluppano relazioni affettive in cui l’anziano in qualche modo adotta
il ragazzo o la ragazza. Anch’io sono dotata di questi poteri risananti:
vengo chiamata nelle case delle persone ogni volta che il volontario non
ce la fa a lenire il dolore.
Giovanna
Tu porti il limite al dolore perché incarni una competenza...
Michela
Sì, è vero, ma volte bisogna attivare i servizi sanitari. Il volontario
va, tiene fin che può, ma arriva il giorno in cui bisogna fare un consulto
ortopedico, e lì entra in scena il distretto.
[7. La microarea e il distretto]
Giovanna
Il collegamento operativo fra distretto e microarea funziona, secondo te? E l’esperienza delle microarea è servita anche un po’ a trasformare la pratica dei servizi distrettuali? Oltre ad essere una lente
di ingrandimento sulla realtà di un luogo, un rione, un insediamento
abitativo, il lavoro di microarea aveva agli inizi il senso di influenzare
l’organizzazione complessiva della medicina territoriale: sia nel fornire
nuove indicazioni e impulsi correttivi, sia nel deistituzionalizzare modalità di intervento ritenute troppo chiuse negli ambulatori, o ingessate
nelle competenze, nelle discipline.
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Michela
Io credo che nel mio distretto non abbiamo ancora raggiunto dei
risultati soddisfacenti in questa direzione. La settimana scorsa il dottor
Da Col, di ritorno da un convegno a Padova in cui aveva presentato con
successo il progetto Win-Microaree, è intervenuto nella riunione degli
operatori parlando con un entusiasmo rinnovato. È convinto che bisogna tornare a investire energie e risorse in questo tipo di lavoro, tanto
che abbiamo definito insieme un progetto di ricerca che sarà oggetto
della mia tesi di specializzazione.
Il progetto si propone di colmare una lacuna nella valutazione del lavoro di microarea, quantificando i tipi di interventi e analizzando quello
che facciamo attraverso dati statistici. Da un lato è giusto che vi sia
nella microarea la libertà di sperimentare, senza tener conto di definizioni preesistenti dei problemi che si affrontano; dall’altro, io stessa mi
chiedo a volte cosa sia giusto fare o non fare, e quali siano le ricadute
del mio lavoro sul sistema complessivo di salute.
L’idea alla base della ricerca sarebbe quella di incentrare la valutazione sugli anziani ultra ottantenni, per tradurre in una scheda il profilo
di fragilità alta e bassa di questo tipo di popolazione. Per “fragilità” si
intende prima di tutto il rischio di istituzionalizzazione, da cui derivano
i costi più elevati nella gestione delle malattie della vecchiaia, sia in
farmaci che in servizi specialistici e in ricoveri.
Giovanna
Al di là del progetto di ricerca, come valuti attualmente i tuoi rapporti di collaborazione con i colleghi del Distretto 1?
Michela
Ho iniziato a lavorare lì nel 2000, quindi conosco tutti; in particolare ho stabilito un rapporto di collaborazione con alcune Oss e con
infermieri del servizio delle cure domiciliari; è soprattutto a loro che mi
rivolgo quando ho urgente bisogno di affrontare un problema. Inoltre
ho un rapporto molto soddisfacente con l’Unità Anziani: sia con la dottoressa Maria Bartolini, che ne è la responsabile, che con gli infermieri
Piero Cossetti e Nelita Guidera.
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Si tratta di rapporti di fiducia personale, consolidati in anni di lavoro
comune: mi basta alzare la cornetta e dire “C’è un problema” e loro
vengono, mi aiutano, rispondono subito alle mie richieste. Sono rapporti schietti e diretti, che si sono mantenuti nel tempo grazie al fatto
che non chiamo mai i miei colleghi per ragioni banali. Questo però non
significa che l’intero distretto sia coinvolto nel lavoro della microarea,
o che tutti i servizi collaborino.
Se la referente di microarea rivolge ai suoi colleghi richieste d’intervento immotivate, alla prima chiamata un operatore va e perde tempo,
alla seconda va ancora, ma alla terza non risponde più nemmeno al
telefono. Quando io chiamo un infermiere o un servizio specialistico è
perché ci sono ragioni molto serie, perciò il mio rapporto con i colleghi
è bellissimo.
Giovanna
Si discute nel distretto del lavoro che svolgi a Gretta?
Michela
Sì, ne ho parlato più volte, anche con un certo successo. Quando parlo sono capace di trascinare gli altri nell’ascolto, per cui le coordinatrici
delle diverse Unità operative mi vengono dietro, danno fiducia al lavoro
che svolgo e ai progetti che porto avanti, ma esistono dei limiti nella
condivisione delle cose che accadono, che non si lasciano facilmente
descrivere.
Se prendi un giorno qualsiasi della settimana e descrivi quel che accade nella microarea, non riesci a capire che cos’è; se invece ti spiego
il progetto “spazio Gretta” forse cominci a vedere qualcosa, capisci un
po’ di più. La domanda più importante è quella tu che mi hai fatto prima: migliorare l’habitat ha ricadute positive sulla salute degli abitanti?
A questa domanda io rispondo di sì. Ad esempio, se una donna che abita
in un caseggiato non esce di casa per tre o quattro giorni, e nessuno sa
niente di lei, un’altra donna, sua conoscente, chiama al telefono: “Elisa
non si è vista, le sarà successo qualcosa?”. Allora tu vai a suonare alla
porta della signora, e se per caso sta male puoi intervenire con una certa
tempestività.
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[8. Il progetto “Santi al lavoro”]
Giovanna
Insomma, le voci corrono se le persone si conoscono fra di loro…
Michela
Ci si vede, e in un modo o nell’altro si resta continuamente collegati.
A proposito di legami, una delle cose più belle in microarea è vedere il
rapporto che si crea tra le generazioni, tra giovani e vecchi. Ci sono a
Gretta alcuni ragazzi che hanno avuto in passato problemi di tossicodipendenza; in questi mesi due di loro hanno conosciuto una signora che
possiede l’auto, ma ci vede poco e non guida più. Così hanno trovato
un accordo: i ragazzi accompagnano la donna in distretto a fare le medicazioni, e in cambio lei presta loro l’auto. È una cosa fantastica vedere
questi ragazzi, tatuati dalla testa ai piedi, dei quali diresti che fanno
paura a una persona anziana, che invece si incontrano con la signora,
hanno cominciato a parlare e a trovare accordi fra di loro.
Anche questo avvicinamento tra giovani e vecchi è accaduto grazie
al progetto Kallipolis: se io e te piantiamo un fiore nella stessa aiuola, e
l’intermediazione arriva da Michela, persona nella quale tu hai fiducia,
l’anziano forse comincia a credere che quel ragazzo tatuato possa essere una brava persona.
Di recente, in collaborazione con Kallipolis, abbiamo presentato alla
Regione un progetto che coinvolge ragazzi disoccupati, con problemi
di alcolismo e tossicodipendenza, abitanti in via Santi. Per questo, con
scherzosa ironia lo abbiamo denominato “Santi al lavoro”.
L’idea alla base del progetto è quella di incentivare un’attività che
alcuni ragazzi di Gretta hanno avviato da soli, con poveri mezzi: fare
traslochi. Possiedono un furgone, e ogni tanto aiutano una vecchina
a traslocare. In questo periodo si prevede di dover fare molti traslochi a Gretta: un intero pezzo del rione verrà trasferito negli stabili di
via Gradisca e di via Gemona, dopo che saranno stati ricostruiti. Tante
persone che abitano lì dagli anni ’50 hanno chiesto di rimanere nella
zona, anche perché temono di dover cambiare il loro sistema di vita;
così si tratterebbe di aiutare questa gente a portare i mobili nelle nuove
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abitazioni, o svolgere piccoli lavori di manutenzione, come ad esempio
fare un allacciamento elettrico. Perciò ci siamo detti: perché non fare
in modo che siano i ragazzi del quartiere a svolgere questi lavori, costituendo una piccola cooperativa di trasporti?
Anche in questo caso vorremmo mettere in atto un metodo di progettazione partecipata, con la possibilità che siano diversi gli attori che
collaborano ad attività che riguardano la vita del quartiere.
Giovanna
Il progetto ha qualche probabilità di essere finanziato?
Michela
In questa fase la Regione attribuisce assoluta priorità a programmi
di inserimento lavorativo per persone con disabilità motorie; quindi non
nutriamo grandi speranze. In quanto fisioterapista ho lavorato per anni
con utenti tetraplegici, e non posso che condividere l’urgenza e l’importanza di questi obiettivi. Tuttavia, è vero che nell’affrontare i bisogni
dei tossicodipendenti le misure di aiuto sono scarse, i soldi a disposizione pochissimi. Per cui spero che il nostro progetto non venga ignorato.
[9. Il lavoro con i gruppi e il case management]
Giovanna
Nel lavoro di microarea collabori spesso anche con i due dipartimenti dell’azienda sanitaria: quello di salute mentale e quello delle dipendenze.
Michela
Sì: ad esempio, per scrivere il progetto di cui ho parlato poco fa
abbiamo chiesto l’aiuto del Sert e dell’Alcologia; gli operatori hanno
documentato la condizione di svantaggio dei ragazzi, e tutto è avvenuto
con l’avvallo della direzione aziendale. Tuttavia devo dire che è difficile per me lavorare con i dipartimenti, con quello di prevenzione in
particolare. Va meglio con il Csm di Barcola, grazie ai buoni legami che
ho stabilito con due psichiatre e con alcuni infermieri; più volte sono
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stata invitata a partecipare alle riunioni settimanali del servizio, e da un
po’ di tempo abbiamo iniziato a lavorare insieme molto più del passato.
Il Csm ha molti pazienti a Gretta, ma non si è mai creato un legame
di collaborazione costante. La mia impressione è che il servizio lavori
molto sull’emergenza, nella presa in carico di casi complessi, e a quanto
sento dire in questa fase c’è carenza di personale. Per quanto riguarda il
Dipartimento delle dipendenze le cose non vanno tanto meglio: l’emergenza in cui lavorano gli operatori del SerT sembra ancora maggiore, e
anche lì non c’è abbastanza personale.
Come ho detto prima, le attività della microarea sono rese possibili
dalla presenza di volontari, soci di cooperativa, membri di associazioni,
abitanti e figure significative del rione. Ma è evidente che tutti questi
soggetti non hanno un potere di decisione o di programmazione degli
interventi; possono molto aiutarti anche nella cura di determinate persone, ma la loro forza è quel che è. Quindi, dovrei sviluppare un forte
collegamento operativo con i professionisti dei servizi, ma qui entrano
in gioco una serie di limiti anche miei. Ad esempio, nella collaborazione con servizi come il Csm, il SerT o l’Alcologia, mi viene chiesto di
parlare molto, dedicando tempo agli incontri, alle transazioni personali,
mentre per carattere sono molto centrata sulla pratica: mi interessa la
realizzazione di obiettivi concreti, per quanto piccoli possano essere.
Giovanna
Non ami passare il tempo a discutere, ti piace intervenire…
Michela
Il fatto è che ho dovuto partecipare in questi anni a molte riunioni
e incontri per discutere dei criteri di intervento, ma il più delle volte in
tutte queste discussioni non si arriva a niente. E se dovessi passare il
tempo a discutere con tutti – dato che collaboro col Distretto, coi Dipartimenti, con la Uot del Comune, con l’Ater, e così via – non riuscirei a
fare praticamente nient’altro.
C’è anche da dire che in queste riunioni i rapporti di forza sono
svantaggiosi per me: mi trovo sempre in minoranza rispetto alle proposte che vengono avanzate, e questo è frustrante.
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Giovanna
Nel lavoro di microarea sei tenuta ad avere uno sguardo d’insieme,
in modo da cogliere in maniera unitaria diversi fenomeni; al tempo stesso devi perseguire piccoli obiettivi uno per volta…
Michela
In microarea lavoro su due piani: uno è il canale del gruppo, l’altro
è l’intervento sui singoli casi. Nel lavoro di gruppo il mio compito è
creare spazi per i cittadini senza definire con troppa precisione il target;
o se definisco il target (ad es., i giovani tossicodipendenti) devo cercare
di non imporre la mia visione delle cose o la mia volontà, limitandomi a far parlare tutti i soggetti che partecipano. Invece nell’intervento
individuale i miei compiti sono simili a quelli del case manager: devo
cioè coordinare molti interventi, attribuendo alla persona che sta male
la più assoluta centralità. In quei casi è il malato il punto focale del mio
lavoro.
Se consideriamo il lavoro di microarea sotto questo profilo, i dettami
dell’Oms li seguiamo tutti. Che cosa dice l’Oms? Dice che il lavoro
sanitario non serve a nulla se non si riescono a cogliere i “determinanti
non sanitari” di salute. Perciò, creare una fioriera per dare nuova centralità a un habitat frammentato o degradato, è importante per la salute,
così com’è importante preoccuparsi che ragazzi con problemi di tossicodipendenza siano inseriti al lavoro. Entrambe queste iniziative servono a creare legami tra gli abitanti di un luogo, in modo che si occupino
un po’ di più gli uni degli altri.
In definitiva il nostro lavoro consiste nel creare ancora una volta
delle collettività, per far sì che uno possa battere alla porta del dirimpettaio e chiedere aiuto se ne ha bisogno. In un certo senso è un po’
come tornare a un modello di convivenza fianco a fianco, porta a porta,
che un tempo c’era nei borghi, ma che ora è scomparso. E d’altra parte,
invece, nell’affrontare un problema sanitario che è solo sanitario, o un
problema sociale che è solo sociale, io devo poter intervenire in modo
efficace, rapido, tempestivo.
So che un problema sanitario può avere implicazioni sociali, o che
un problema sociale può avere implicazioni sanitarie, ma il fatto è che
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devo cogliere questi problemi di volta in volta, quando emergono e si
presentano. Non puoi pianificare questo tipo di lavoro, mentre nella
cura del diabete non puoi sbagliare: prima si fa questo, poi questo e infine questo. Analogamente, in caso di scompenso cardiaco si segue una
procedura rigorosa. In questi casi particolari devi essere molto rapido e
preciso nell’agire.
25
Michela Degrassi 5
Corinna e i foglietti volanti
[1. Assediata in casa: foglietti volanti]
Giovanna Gallio
Qual è la storia che hai deciso di raccontare?
Michela Degrassi
Parlerò di un caso che per me è stato un banco di prova, uno dei
primi che ho affrontato dopo essere diventata referente di microarea.
Una storia che mi ha molto coinvolto, e che considero un insuccesso
malgrado gli sforzi, le cose anche belle che sono accadute, o che sono
riuscita a realizzare.
La prima segnalazione è arrivata alla fine di aprile del 2009 dal
portierato sociale di Gretta: una signora di nome Corinna, che aveva
sempre pagato regolarmente l’affitto, risultava morosa secondo l’Ater.
Negli stessi giorni una lettera della questura mi informa che ogni notte,
e più volte nella stessa notte, la donna telefona al 113 dicendo che ci
sono persone in casa che la picchiano e vogliono derubarla dei suoi
soldi; gli aggressori vengono identificati nella nipote e in due complici
che le danno man forte. La volante si reca sul posto una prima volta e
non trova niente, ci va una seconda e poi non va più.
I poliziotti dicono che secondo loro il problema non è di ordine pubblico; segnalano il caso al Centro di salute mentale di Barcola, ed è con
due infermieri di quel servizio che vado a fare la prima visita a domicilio. Entrare nella casa non è stato facile, abbiamo dovuto fare diversi
tentativi forzando un po’ la mano. Al suono del campanello la signora
apriva sì la porta, ma lasciava inserita la catenella, e parlavamo con lei
restando sul pianerottolo. Finché un giorno sentiamo che la catenella
Michela Degrassi è fisioterapista, dal 2008 referente della microarea di Gretta, Distretto 1, Ass di Trieste. La conversazione/intervista si è svolta il 12 ottobre 2010.
5
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viene tolta, e quando la porta è socchiusa un infermiere mette il piede
dentro e dice: “Aiutatemi, non possiamo continuare in questo modo, la
situazione è grave”.
Giovanna
Una volta entrati cos’avete scoperto?
Michela
Anche se eravamo in pieno giorno la donna era ancora svestita, come
se si fosse appena svegliata, con indosso una vestaglia un po’ sporca e
i capelli in disordine. Aveva una ricrescita lunghissima di capelli bianchi, segno del fatto che da settimane trascurava il suo aspetto e forse
non usciva di casa. Agli inizi facciamo le solite domande, “come sta,
ha bisogno di aiuto” e cose del genere. Dopo un po’ gli infermieri del
Csm se ne vanno, resto lì da sola a parlare, e in un clima disteso rivolgo
alla signora domande più precise: come vive, ha abbastanza soldi per
mantenersi, esce o non esce di casa, cosa fa durante il giorno, incontra
qualcuno, ha parenti o amici. Lei risponde a tono, e dal suo racconto
viene fuori l’idea di una vita normale: quella di una donna di una certa
età che vive sola, e ogni mattina se c’è bisogno va a fare la spesa, o va
alla posta a ritirare la pensione.
Le risposte sono un po’ vaghe ma convincenti, tanto più che nel rione Corinna era conosciuta come una signora molto dignitosa, attenta al
suo aspetto e perfettamente in grado di aver cura di sé. Ma quando con
un pretesto apro il frigorifero, vedo che c’è dentro un limone ammuffito
e nient’altro. Allora comincio a dubitare delle cose che dice, e per la
prima volta mi sento presa dentro in un gioco comunicativo in cui non
sono chiari i confini tra il vero e il falso, e tutta la realtà vacilla.
Giovanna
Non hai ancora detto che età aveva la signora, era molto anziana?
Michela
Avrà avuto settantaquattro o settantacinque anni; per la media della
popolazione di Gretta era quasi una giovanotta.
27
Dopo quel primo incontro abbiamo cominciato a raccogliere informazioni, scoprendo che i servizi psichiatrici, anni prima, erano entrati
in contatto con la sorella di Corinna. Presentava dei gravi disturbi cognitivi, ed era stato difficile formulare la diagnosi; in seguito la donna
era morta di tumore cerebrale. A fare queste scoperte è una psichiatra
del Csm di Barcola, la dottoressa Santoro: è lei a chiamare la figlia della
sorella morta, e quando la mette al corrente del fatto che la zia sta male,
si sente rispondere che da anni non si incontrano, e che non ha più alcun
rapporto con lei.
Giovanna
Dunque, era questa la nipote oggetto di denunce…
Michela
Sì. Anche nei suoi discorsi con me, Corinna ripeteva che la nipote,
in combutta con altri, l’aveva picchiata sottraendole dei buoni postali
per un ammontare di ventimila euro. Ricordo che a un certo punto mi
ha coinvolto a fare con lei ricerche nella casa, e nella ricostruzione che
abbiamo fatto dei movimenti di denaro, il dubbio che fosse stata derubata aveva preso anche me.
Dopo aver cominciato a star male Corinna aveva continuato a compulsare quelle carte, le date e le cifre, creando un gran disordine. In tutti
i cassetti, negli armadi, nei luoghi più impensati della casa abbiamo
trovato centinaia di foglietti volanti su cui aveva scritto la stessa frase:
“Il tal giorno, alla tal ora, sono venuti nella mia casa i signori X e Y, con
mia nipote; mi hanno picchiata e mi hanno portato via ventimila euro”.
L’intenzione era quella di lasciare ovunque delle tracce, delle testimonianze scritte, in modo che la denuncia raggiungesse i suoi effetti anche
qualora fosse morta.
[2.Una donna piccolina, minuta ]
Giovanna
Nel tuo intervento iniziale tu cerchi soprattutto di calmare Corinna,
parlando con lei e ascoltando le sue rimostranze…
28
Michela
In realtà la prima cosa che faccio è darle da mangiare; mi preoccupo
soprattutto del suo stato fisico, e del fatto che riprenda a nutrirsi e a dormire regolarmente. Devi immaginare una donna piccola, minuta; ha una
grave artrosi a livello lombare e cervicale, perciò è tutta un po’ stortina.
Quando l’abbiamo incontrata era molto deperita perché non mangiava
niente, o mangiava solo zuccheri. Lei aveva la fissa con i dolci, perciò
immagino che per parecchio tempo si fosse nutrita con zollette di zucchero e nient’altro.
Inizialmente, quando uscivo dalla casa per andarle a fare la spesa,
avevo il timore di non riuscire più a rientrare; non ero certa che mi
riconoscesse, allora le dicevo: “Corinna, mi raccomando, apra la porta
quando suono il campanello”. Ben presto ha cominciato a darmi fiducia, anche perché trascorrevo molto tempo con lei; non solo facevo la
spesa, ma cucinavo io stessa.
Il primo giorno ero rimasta nella sua casa per sei ore di seguito, e
poiché il più delle volte mi sembrava lucida e coerente nei suoi ragionamenti, mi ero convinta di esercitare su di lei un’influenza positiva;
pensavo che prima o poi sarebbe uscita dallo stato di allarme, e avrebbe
un po’ alla volta rinunciato al suo delirio.
Giovanna
Quali sentimenti suscitava in te Corinna, cosa provavi per lei? È una
donna simpatica?
Michela
Molto simpatica. Fin dal primo momento sono entrata con lei in un
rapporto di grande empatia; in un certo senso mi identificavo con la
sua situazione, comprendevo la drammaticità dei suoi vissuti, tanto più
che non c’erano riscontri immediati per capire se le cose che mi diceva
fossero vere o false.
Agli inizi ero un po’ spaventata, non mi era mai capitato di entrare in
rapporto con una persona con disturbi psichiatrici. A Trieste situazioni
come quelle di Corinna sono frequenti, data la gran quantità di anziani
che vivono soli: in un modo o nell’altro si costruiscono delle realtà pa29
rallele, in cui magari vivono per anni senza che nessuno se ne accorga.
Per altri operatori è la norma imbattersi in casi come quello di Corinna,
ma non per me che sono fisioterapista. Nel mio lavoro entro in contatto
con il dolore di chi ha subito incidenti o soffre di menomazioni fisiche,
sono abituata a elaborare le disabilità anche gravi nelle persone giovani, riuscendo a tenere sotto controllo le mie emozioni. Ma nel rapporto
con Corinna la mia esperienza non serviva granché: non sapevo a quali
parole credere, a quali modi di essere dare la mia fiducia, perché ogni
volta venivo smentita dai fatti, dalle cose che accadevano. Ero obbligata a navigare a vista, e questo mi angosciava.
Giovanna
Che lavoro aveva fatto Corinna nella sua vita?
Michela
C’è voluto del tempo per capirlo, non è stato facile mettere insieme
i pezzi di una memoria frammentata. La famiglia aveva un banco di
frutta e verdura nel mercato coperto di via Carducci, e da quando era
ragazza Corinna aiutava i genitori nel loro lavoro. Anche per questo
non si era sposata: oltre a tenere il banco, aveva assistito il padre e
la madre quando si erano ammalati, fino alla morte. In qualche modo
aveva rinunciato alla sua indipendenza, al contrario della sorella che se
n’era andata di casa molto presto, costruendo una propria famiglia. Pare
che fra le due sorelle il legame non si fosse mai interrotto, anche se si
incontravano di rado.
[3. Presa in carico: il ricovero in Diagnosi e cura]
Giovanna
Immagino che dopo quel primo incontro abbiate sottoposto la signora a una serie di esami clinici, per escludere malattie gravi come l’Alzheimer, o comunque per accertare che le sue idee ossessive o deliranti
non fossero la conseguenza di una malattia organica.
30
Michela
No, sul momento non abbiamo fatto esami clinici. La psichiatra del
Csm veniva a visitare Corinna a domicilio, per impostare la terapia farmacologica; si è iniziata la somministrazione di un farmaco antipsicotico, un neurolettico di seconda generazione, e la terapia da allora è
rimasta più o meno la stessa.
Dopo alcuni giorni, quando ho visto che il delirio della donna non
rientrava malgrado la cura che mi prendevo di lei, ho deciso di coinvolgere altri operatori. Una volontaria del servizio civile ha cominciato
quasi subito ad affiancarmi nel prolungare le ore trascorse con Corinna;
bisognava riempire tutto quel tempo vuoto che passava da sola. Così di
giorno la donna stava meglio, ma la notte per lei era terribile, entrava in
uno stato di agitazione e continuava a chiamare la questura.
Giovanna
Sai quale diagnosi è stata formulata?
Michela
No, non ricordo esattamente, ma di certo non era Alzheimer. Non
essendo una questione di mia competenza, non ho cercato più di tanto
di capire di quale malattia mentale soffrisse Corinna. Ricordo però che,
in quella prima settimana, ho attivato anche l’Unità Anziani del mio
distretto, sia la dottoressa Bartolini che l’assistente sociale; inoltre era
venuta a visitare la donna, per dare il proprio parere, anche la psicologa
del “Centro diagnosi demenze”, la dottoressa Besanzini. Tutte queste
consultazioni approdavano alla medesima conclusione: data la potenza
del delirio, specie di notte, non saremmo stati in grado di assistere la
donna a domicilio.
Mentre le stavi accanto vedevi che si rasserenava, si sedeva a parlare
con te e stava tranquilla, ma di notte quand’era da sola diventava ipercinetica: si muoveva incessantemente avanti e indietro, apriva e chiudeva porte, andava senza tregua da una stanza all’altra. Probabilmente si
metteva a scrivere i suoi foglietti; ne abbiamo trovati talmente tanti da
far pensare che, quando era sola, trascorreva il suo tempo a compilarli.
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Anche la vicina di casa, una mia conoscente, diceva: “Di notte Corinna piange, si lamenta; è uno strazio sentirla”. Perciò, dopo dieci giorni in cui la situazione rimaneva inalterata, si è deciso di ricoverare la
donna nel servizio psichiatrico di Diagnosi e Cura. Lì è rimasta per
qualche giorno, seguita dalla dottoressa Santoro, e poi è stata trasferita
direttamente in una Rsa.
Giovanna
Perché Corinna è stata ricoverata in Diagnosi e cura? Se una persona
è già in carico a un Csm, quando ha una crisi grave viene di solito ospitata anche di notte nella sede del servizio. Forse in quei giorni i posti
letto del Csm erano tutti occupati...
Michela
Questo non lo so, e nemmeno ho chiesto alla psichiatra le ragioni del
ricovero. Io ho vissuto il Diagnosi e cura come se fosse un pronto soccorso, la risposta data a un’emergenza. Mentre era ricoverata sono andata
a trovarla una volta: si era calmata, e voleva a tutti i costi tornare a casa.
Anche dopo essere entrata nella Rsa ripeteva in continuazione: “Voglio
tornare a casa”, ma noi avevamo bisogno di un po’ tempo per impostare
una serie di misure prima che fosse dimessa. In quel periodo non sapevamo di quanti soldi disponesse la signora, ed eravamo assillati dalle utenze
non pagate, le bollette rimaste in sospeso e i protesti che arrivavano dal
tribunale. Erano questi i problemi che dovevamo affrontare, mentre ancora si stava valutando se fosse possibile assistere la donna a domicilio.
[4. Isolamento sociale]
Giovanna
Vorrei soffermarmi per cercare di comprendere un po’ di più la storia
di Corinna. Quello che chiamiamo “delirio” non nasce dal nulla, ci sono
sempre dei fatti o degli eventi che lo possono circoscrivere e motivare. In questo caso non si sapeva nemmeno da quanto tempo durava la
situazione che hai descritto: prima di voi era già intervenuto qualcuno
per aiutare la donna?
32
Michela
No, nessuno. Il medico di base non la conosceva neppure, non l’aveva mai vista, come se Corinna non avesse mai preso un farmaco in vita
sua. E parenti non ce n’erano, se si esclude la nipote. Al telefono con la
psichiatra del Csm, nell’unico colloquio si è svolto, la nipote era stata
perentoria: “Non ho più contatti con lei da tempo, è inutile chiamarmi”.
Giovanna
Insomma, l’isolamento, la solitudine più totale...
Michela
La cosa che ci ha stupiti è che Corinna non aveva neanche un’amica;
non frequentava nessuno nel rione, nemmeno la parrocchia. Si era dedicata anima e corpo prima al lavoro, e poi all’assistenza del padre e della madre. Del resto era molto difficile riuscire a ottenere informazioni
sul suo passato, la sua memoria era come azzerata. A volte raccontava
singoli episodi di quand’era ragazza, o parlava del moroso che aveva
avuto da giovane. La Corinna dei quaranta o cinquant’anni non aveva
lasciato tracce nella sua mente, mentre veniva sempre fuori la Corinna
dei vent’anni. Abbiamo anche raccolto insieme a lei tutte le fotografie di famiglia, nel tentativo di risvegliare la sua memoria, e dalle foto
veniva fuori sempre la stessa immagine: l’idea di una donna che si era
sacrificata al volere dei genitori, rinunciando a una vita autonoma.
Ricordo che una volta, nello sforzo che stavo facendo per strapparle
un commento positivo sul suo passato, Corinna ha detto: “Cosa vuoi
che ci sia di positivo? Ero innamorata di un uomo che non ho potuto sposare. Prima dovevo badare a mio padre che si era ammalato, e
quando lui è morto ho dovuto aiutare mia madre a tenere l’attività del
mercato; poi anche lei è morta e sono rimasta sola. Ho sacrificato tutta
l’esistenza agli altri, e della mia vita non ho fatto niente”.
Giovanna
È un’analisi molto lucida, consapevole ...
33
Michela
Sì, lei ti dice queste frasi illuminanti, ma poi tutto si ferma lì, il discorso non procede. Noi, ad esempio, continuiamo a non sapere niente
della madre o del padre: com’era il carattere di queste persone, come
avevano allevato o educato la figlia? Soprattutto non siamo mai riusciti
a ricostruire le date, le circostanze, i passaggi più significativi nell’esistenza di Corinna, e questo ci impediva di far leva sulla memoria per
trovare con lei una via d’uscita dal delirio.
Giovanna
Come se la sua vita mentale fosse stata appiattita dallo scorrere
uguale delle cose, dal fatto che nella sua esistenza non era accaduto mai
niente. Una vita anche per lei senza tracce, priva di contenuti singolari,
individuali…
Michela
C’è stato un episodio che mi ha molto scosso. Il giorno prima del
ricovero in Diagnosi e cura stavo parlando con Corinna, volevo rassicurarla del fatto che non l’avremmo abbandonata, e lei mi chiede “Ma
tu dove abiti?”. Io allora dico che abito a Opicina, e lei: “Ah sì, anche
mia nipote abita a Opicina, e tu le somigli molto”. Da quel momento
in poi ha cominciato a guardarmi in un altro modo, proiettando su di
me i vissuti negativi che aveva nel rapporto immaginario con la nipote.
In seguito sono diventata ancora un’altra, diceva che somigliavo a sua
sorella, e questo era per me straziante. Sentirmi emotivamente scoperta
era un’esperienza nuova, a cui non riuscivo a far fronte.
[5. La venditrice del mercato coperto]
Giovanna
Tutti questi particolari sono interessanti per comprendere quello che
sembra un delirio paranoico. La paranoia crea tutto un mondo sostitutivo, facendo leva su pochi elementi inventa un nuovo ordine delle cose
in maniera acuta, molto perspicace. Trova per così dire un link grazie al
quale vengono agglomerati e potenziati tutti i fili che tengono la perso34
na collegata al mondo esterno. Freud diceva che la paranoia è uno strumento formidabile per assegnare un ordine al mondo esterno, fornendo
razionalità e potenza a legami e vincoli che sarebbero altrimenti privi di
consistenza per la persona. Forse allora Corinna si è creata una cultura
dell’assedio, del troppo pieno dentro la casa, per giustificare il fatto che
fuori dalla casa non aveva niente da fare. Non c’era nessuno a tenerla
collegata al mondo esterno, e lei allora ha popolato la sua solitudine, ha
costruito un complicato sistema di allarme per richiamare gli altri a sé.
La vita quotidiana con i suoi rituali non era sufficiente a garantirle
un legame con il fuori, se persino i vicini di casa entravano in contatto
con lei solo attraverso le pareti, ascoltando i suoi movimenti notturni, la
sua insonnia e le sue lacrime.
Michela
Questo è vero, non c’era nessuno nella casa che entrasse in relazione
con lei, anche perché i vicini sono tutti nuovi, persone che abitano lì
da poco tempo. Del resto non credo che Corinna abbia mai avuto dei
punti di riferimento a Gretta: per il lavoro che svolgeva usciva di casa
all’alba, e viveva gran parte della giornata in un’altra parte della città. A
Gretta tornava solo per riposarsi e dormire.
Giovanna
In quanto venditrice, ha trascorso molta parte della sua vita in pubblico, addestrata a una comunicazione che ti priva della tua intimità.
Quando è l’intera famiglia a svolgere questo tipo di lavoro, tutta la sfera
dei rapporti più personali e privati può essere svuotata, se vengono a
mancare i contrappesi: le amicizie, le reti sociali al di fuori del lavoro.
Michela
Su questo però c’è da dire che il mercato coperto di via Carducci
aveva, almeno fino a qualche anno fa, delle particolari caratteristiche:
era un mondo molto vivace e popolare, bizzarro e anche un po’ grezzo.
Mi è capitato di parlare con una venditrice che ha conosciuto Corinna
quand’era giovane, e per essere una signora di ottant’anni usa un eloquio che mi ha lasciata veramente di stucco.
35
Giovanna
Un eloquio colorito, sboccato…
Michela
Sì, ma anche affascinante perché libero dalle convenzioni sociali.
Giovanna
Non ricordo di essere mai entrata nel mercato coperto di via Carducci, l’ho solo visto una volta dalla porta, anche se ha sempre scatenato la
mia immaginazione. Di certo, volendo scrivere un racconto su Corinna
o girare un film su questa storia, dovremmo andare proprio lì per trovare la materia prima della nostra immaginazione. È un mondo che per me
resta alienante, però affascina come dici tu, per l’andirivieni di gente la
più diversa, con culture e lingue diverse. Lì dentro passano serbi, croati,
kosovari…
Michela
Ci sono comunità di ogni tipo lì dentro.
Giovanna
I venditori formano a loro volta una comunità, si conoscono fra loro,
anche perché i banchetti vengono trasmessi di padre in figlio. Tutta la
vita si svolge al chiuso, in una specie di grande incubo claustrofobico.
Michela
Sì, ma c’è molta vivacità e confusione, anche perché tutto funziona a
urla, a gesti. Il corpo e i toni della voce sono parte del linguaggio molto
più delle parole; rimanendo lì per un po’ ti accorgi che c’è tutta una comunicazione non verbale che occupa uno spazio enorme nell’esistenza
delle persone. Le banconiere sono sistemate più in alto rispetto agli acquirenti, così c’è una comunicazione che si svolge al di sopra e un’altra
al di sotto; e mentre competono fra di loro davanti ai clienti, in realtà
sorridono, si scambiano segnali di complicità. Insomma, è un mondo tutto da scoprire. Ci sono andata di recente e ho visto molte famiglie musulmane con le donne coperte; vivono quello spazio come una specie di suk.
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[6. Vita sospesa]
Giovanna
Se la famiglia di Corinna aveva ottenuto un appartamento Ater, non
doveva essere molto ricca. A che piano abitava?
Michela
Al quinto, l’ultimo piano di un condominio senza ascensore, tanto
che lei è sempre stata più veloce di me a fare le scale. L’appartamento è
affacciato sulla strada dove si trova il portierato; guardando dalle finestre non vedi niente che si muova, senti l’isolamento.
Corinna usciva di casa all’alba, e me la vedo andare a prendere l’autobus a una fermata vicina; non in largo Osoppo, dove almeno c’è un
bar e le persone un po’ si conoscono, parlano fra loro.
Giovanna
Vuoi dire che rimaneva sola anche quando prendeva l’autobus?
Michela
Gretta è priva di servizi, e manca tutta quella rete comunicativa costituita dal fatto di avere un centro, una piazza. Per questo credo che il
mondo di Corinna fosse sospeso in un vuoto: viveva sospesa là, al mercato coperto, e a Gretta quando tornava a casa. Malgrado tutto ci sono
gli affezionati di Gretta, come le casalinghe che vanno al botteghino
e chiacchierano del più e del meno; il tessuto rionale che avevano da
giovani, continuano ad averlo anche a ottant’anni. Corinna invece no:
da un lato lavorava in città, dall’altro faceva le sue compere nel mercato
coperto, dove trovava tutto il necessario.
Giovanna
Quindi dobbiamo vederla lì, immersa in una socialità un po’ triviale.
Michela
Il fatto è che Corinna è una signora molto curata, riservata; non riesco a vederla immersa nella socialità stravagante del mercato.
37
L’altra venditrice che ho conosciuto ti accorgi del mestiere che ha
fatto: non parla, urla, e neanche i ragazzetti di quindici anni dicono
tante parolacce di fila. Corinna invece non è mai volgare, per questo
ho pensato che non ha potuto scegliere se fare o non fare quella vita.
L’ha fatta e basta, rimanendo intrappolata nel rapporto coi genitori, e
diventando un po’ vittima della responsabilità che sentiva verso di loro.
[7. Amministrazione di sostegno e ritorno a casa]
Giovanna
Tornando al racconto, siamo arrivati al maggio o giugno del 2009,
quando Corinna viene trasferita in una Rsa: cosa accade dopo?
Michela
Resta ricoverata per circa quattro mesi, un lungo periodo nel corso
del quale chiediamo al giudice tutelare che venga nominato un amministratore di sostegno. Da un lato la signora non era più in grado di gestire
il suo denaro, e bisognava ottenere quanto prima la delega per il ritiro
della pensione; dall’altro, come ho detto, c’erano bollette da pagare, e
un debito con l’Ater, mesi e mesi di affitto.
Corinna ha una pensione discreta, di settecento euro; aveva anche da
parte un po’ di risparmi, che non eravamo in grado di calcolare. Così,
prevedendo di doverla assistere a tempo pieno dopo la dimissione dalla
Rsa, c’era bisogno di qualcuno delegato ad amministrare i suoi soldi.
Giovanna
L’amministratore di sostegno è una figura a cui si ricorre spesso nel
lavoro di microarea…
Michela
È un ruolo importante, svolto spesso da avvocati in via gratuita. Anche l’amministratrice di sostegno di Corinna fa parte di uno studio di
avvocati, ed è lei in quel periodo a rimettere in ordine i conti. Ricostruisce l’ammontare dei buoni postali, chiede alle varie banche se ci sono
dei risparmi intestati alla donna, e paga tutti i debiti.
38
Fa anche una ricerca su quel famoso buono da ventimila euro, che
Corinna credeva le fosse stato sottratto; il buono salta fuori, ci sono i
soldi, e a quel punto decidiamo di far rientrare la donna nella sua casa.
Pur essendo stata informata del ritrovamento del denaro, Corinna
non abbandona le sue idee ossessive: non è in condizione di elaborare
il dato come una prova di realtà. Non riesce a memorizzare le cose che
accadono, e per quanto conosca di persona l’amministratrice di sostegno, ne dimentica il volto e il nome. Il fatto di non avere più sotto mano
il suo libretto postale la inquieta, è qualcosa che non accetta volentieri,
e chiede ripetutamente che le venga restituito.
Comunque sia, in ottobre riusciamo a riportare Corinna a casa, organizzando attorno a lei tutta una rete di protezione. Oltre alla presenza
costante della microarea, data dal mio supporto personale e da una volontaria del servizio civile, gli infermieri del Csm venivano a visitarla
per somministrare la terapia farmacologica. Noi dedicavamo a Corinna
quattro ore al giorno, distribuite fra il mattino e il primo pomeriggio; in
più l’avvocato aveva assunto una badante che andava ogni giorno per
altre tre ore.
In quel periodo sono anche riuscita ad attivare il servizio comunale
dei pasti a domicilio, al cui costo l’utente contribuisce sulla base del suo
Isee.6 Avendo un reddito abbastanza buono Corinna pagava, ma in cambio una cooperativa le portava a casa un pasto completo al giorno, che
sembrava bastarle: il primo piatto lo consumava a pranzo, il secondo
a cena. In quel periodo si nutriva poco, dovevamo stimolarla; se fosse
stato per lei si sarebbe dimenticata di mangiare.
Giovanna
L’Unità Anziani continuava a intervenire?
L’Isee è l’indicatore della situazione economica equivalente. L’ attestato I.S.E.E. consente ai cittadini di accedere a condizioni agevolate alle prestazioni sociali o ai servizi
di pubblica utilità. L’ I.S.E.E. è il rapporto tra l’indicatore della situazione economica
(I.S.E.) e il parametro desunto dalla Scala di Equivalenza. L’I.S.E.(Indicatore della
Situazione Economica) è il valore assoluto dato dalla somma dei redditi e dal 20% dei
patrimoni mobiliari e immobiliari dei componenti il nucleo familiare.
6
39
Michela
No, non c’è stato più alcun intervento del distretto, dopo la visita
della psicologa del “Centro diagnosi demenze” di cui ho detto prima.
Nei mesi che Corinna ha trascorso a casa è stato soprattutto il Comune
a fornire servizi, dopo che l’assistente sociale Barbara Kovac7 si è interessata al caso, mettendo a disposizione un’operatrice domiciliare che
veniva quasi ogni mattina per due ore.
Così, tra una figura e l’altra, riuscivamo a garantire una copertura
oraria estesa durante il giorno. La casa di Corinna ha cominciato ad
essere frequentata da numerosi operatori, anche se abbiamo cercato di
ridurre al minimo il turnover: non riuscendo a ricordare i volti e i nomi
delle persone, non bisognava inquietarla o sovra-stimolarla con troppi
cambiamenti. Ricordo anzi che a un certo punto, poiché anche gli infermieri del Csm cambiavano spesso per via dei turni, abbiamo deciso di
gestire noi la terapia, tanto più che Corinna assumeva solo la pillola del
neurolettico e nient’altro.
Per ovvie ragioni sono stata io, fin dal primo momento, la figura più
presente, perciò Corinna ancora adesso riconosce il mio volto, la mia
voce. Non mi chiama mai per nome, probabilmente non se lo ricorda,
ma mentre di solito con gli altri fa la faccia seria, quando mi incontra subito sorride, mi viene incontro e mi abbraccia. Da questo ho dedotto che
è in grado di fissare nella mente solo le persone con cui vive un certo
impatto emotivo. Ad esempio, si ricorda della psichiatra che è stata molto presente agli inizi dell’intervento, o di Franca, l’assistente domiciliare, mentre non riconosce le volontarie del servizio civile o la badante.
Sicuramente io ho messo molta emozione nel rapporto con Corinna;
con persone così fragili si creano legami forti e intensi, forse perché
senti di doverle sostenere e proteggere. In questi sentimenti a volte non
c’è niente di altruistico, proteggere l’altro fa bene a te. Ma devo dire che
con Corinna ho anche sofferto, sono stata male in certi momenti.
7
Giovanna
Il fatto di dover interpretare i suoi gesti, i suoi comportamenti, ti
avrà legato ancora di più. Comunque è vero che a volte scatta un meccanismo di identificazione più intenso e profondo, che ci spinge quasi
ad adottare la persona che ci sta di fronte, mentre di solito questo non
accade.
Michela
Io sicuramente ho adottato Corinna, e ho fatto sforzi enormi per
capirla. A volte ti parla con lucidità e coerenza, poi dimentica da un
istante all’altro quello che ha detto o pensato. Tanto che, a proposito del
giudizio diagnostico di cui mi chiedevi prima, ora sono certa di essermi
confrontata con un caso di demenza.
Giovanna
Demenza senile?
Michela
Questo non lo so.
[8. Peripezie: l’assegno di accompagnamento]
Giovanna
La rete di interventi che hai descritto, il tessuto protettivo che circondava Corinna durante il giorno, lasciava scoperte ancora una volta
quelle ore della notte in cui la donna stava più male…
Michela
Infatti, è un equilibrio un po’ precario quello che riusciamo ad ottenere, una situazione che regge fino a un certo punto. Avevamo bisogno
di più risorse per assistere la signora anche di sera e di notte, per questo
a un certo punto decido di avviare l’iter per ottenere il riconoscimento
dell’invalidità civile. A tuttora non riesco a dimenticare le peripezie, la
frustrazione e la rabbia che ho provato in quella circostanza.
Barbara Kovac lavora nella Unità Operativa Territoriale - Uot 1 di Trieste.
40
41
Giovanna
Cos’è accaduto?
Michela
Dopo aver preparato tutta la documentazione, accompagno Corinna alla visita e la commissione, pur riconoscendo l’invalidità civile al
100%, rifiuta di attribuirle l’assegno di accompagnamento. Io rimango
molto stupita da questa decisione: la signora se non è accompagnata
non fa niente, non è in grado di mangiare, di lavarsi, di vestirsi. Se fosse
per lei starebbe sempre in camicia da notte, a girare per casa come un
fantasma.
Alla commissione erano stati presentati i referti della psichiatra e
della psicologa, in cui si certificava il deterioramento delle facoltà cognitive di Corinna e la diagnosi di “demenza”: le idee ossessive, la memoria a breve termine, e tutto ciò che la rendeva vulnerabile e incapace
di badare a se stessa. Poi però Corinna viene sottoposta al Minimental,
un test d’intelligenza che comprende una serie di domande banali, del
tipo “chi è il presidente della repubblica”, “in che anno siamo” e cose
del genere. Alla fine il suo punteggio risulta discreto, più elevato della
media delle persone che soffrono di disturbi come i suoi, anche perché
ad alcuni quesiti, come ad esempio “quanto costa il latte”, Corinna aveva dato un po’ per caso la risposta giusta.
Giovanna
Un po’ per caso e forse anche per mestiere, essendo lei attenta ai
prezzi, allenata a rispondere su quanto costa una merce.
Michela
Può darsi. In ogni caso io mi sono persuasa, a torto o a ragione, che
i risultati di questo test abbiano pesato nel convincere la commissione
circa le capacità della donna di essere autosufficiente, e di non aver
bisogno dell’accompagnamento.
Giovanna
La decisione non dipende dal reddito della persona?
42
Michela
No, l’assegno di accompagnamento ha che fare esclusivamente con
lo stato di salute: è una misura temporanea che serve a integrare altri
tipi servizi o risorse assistenziali. I soldi che la persona riceve non figurano nemmeno nella dichiarazione dei redditi.
Giovanna
Quindi, le condizioni di salute di Corinna non sono state valutate
così gravi, o compromesse al punto da aver bisogno di sostegni integrativi…
Michela
Proprio così. Ed è allora che io non mi rassegno, cerco di ottenere
spiegazioni perché sono convinta che ci sia stato un equivoco. Provo in
tutti i modi a contattare il capo della commissione, fino a quando ottengo la promessa che il caso di Corinna verrà riesaminato.
Il tempo passa e non succede niente, allora decido di ricominciare da
capo l’iter della richiesta. Veniamo convocati a una seconda visita, ma
questa volta sono io a sbagliare: dimentico di annettere ai documenti la
valutazione psichiatrica. E poiché Corinna risponde a tono al medico
che la interroga, di nuovo le viene negato l’assegno di accompagnamento: quattrocento settanta euro mensili, senza i quali non potevamo
realizzare il progetto di assisterla a domicilio.
I soldi a nostra disposizione non bastavano più a coprire le spese: il
cibo, l’affitto, la gestione della casa. In quel periodo la necessità di assistere la donna anche di notte era diventata impellente: Corinna aveva
ripreso a lamentarsi e a piangere; non dormiva, vagava per la casa, e
avrebbe ricominciato a telefonare alla questura se non ci fosse stato un
disturbo alla linea che le impediva di farlo. Problema, questo, che non
abbiamo avuto il tempo di risolvere, perché quando la donna riprende
a stare così male, l’unica soluzione che si prospetta per noi è metterla
in casa di riposo.
Giovanna
In casa di riposo?
43
Michela
Sì, in casa di riposo. È stato il momento più duro, quello in cui io
sono stata più male. Ancora adesso mi viene da piangere a raccontarlo,
non mi do pace perché era mia la responsabilità della decisione; ero io
la case manager.
Michela
I ventimila euro erano stati tutti spesi; non so dire se avesse altri
risparmi, e la cosa francamente non mi riguarda. Non sono abituata a
contare i soldi nelle tasche dei nostri utenti, e molte cose si riescono a
fare anche con pochi soldi.
[9. Corinna si riprende la libertà]
Giovanna
Io credo invece che, in quanto case manager, avresti dovuto essere
informata: coi soldi si fanno miracoli, si allarga tutto lo spettro delle
possibilità...
Giovanna
In effetti non sarà stata una scelta fatta a cuor leggero. Immagino
che ne avrai discusso a lungo con i tuoi colleghi del distretto, e con gli
operatori che collaboravano alla gestione del caso.
Michela
Sì, ma è stato un esercizio inutile. Da un lato nessuno nutriva speranze che Corinna si sarebbe liberata dalle sue ossessioni, si prevedeva
anzi il deterioramento progressivo delle sue capacità cognitive; dall’altro la mancanza di soldi impediva di immaginare o di cercare risposte alternative. L’amministratrice di sostegno si asteneva dal prendere
qualsiasi decisione; le sue competenze erano utili nella gestione del denaro, ma per il resto la sentivo lontana e impreparata.
Nei mesi trascorsi a casa le fissazioni di Corinna non cambiavano,
mentre erano aumentate le nostre capacità di portarla rapidamente fuori
dal delirio, in maniera delicata, parlando d’altro o spostando la sua attenzione su cose che la interessavano di più; come si fa con i bambini
quando piangono, avevamo imparato a portarla dolcemente su altre strade che non fossero il libretto postale. Poi all’improvviso, verso marzo
o aprile, le sue condizioni si aggravano; lei si intristisce sempre di più,
piange in continuazione, e vedi che di nuovo c’è uno stato emotivo molto cupo, pesante. Di fronte a questa seconda crisi prendiamo atto della
nostra impotenza: non ce l’avremmo fatta ad assisterla a domicilio.
Giovanna
La mancanza di soldi ha molto pesato in questa decisione; se ne deve
dedurre che Corinna non aveva così tanti risparmi...
44
Michela
Forse sì, avrei dovuto, ma in quei mesi c’era già l’avvocato a preoccuparsi del denaro; non parlava d’altro, e anche quando si decide di
mettere Corinna in casa di riposo, ne cerca una che costi poco per il
timore che i soldi vengano a mancare. Il Comune è obbligato a pagarti
la retta in casa di riposo se non sei in grado di farlo tu, mentre paradossalmente non ha alcun obbligo quando vieni assistito a domicilio;
o meglio, i fondi vengono stanziati solo in presenza di gravi disabilità,
definite secondo parametri molto rigidi.
La decisione di internare Corinna in casa di riposo mi ripugnava
profondamente, perciò cerco in quei giorni di consultare quante più persone possibili. Chiedo all’assistente sociale del mio distretto, e ad altri
operatori: “Cosa ne pensate? Avete già esperienze, casi trattati in precedenza da cui possiamo trarre delle idee, strumenti o risorse per formulare un progetto alternativo?”. Tutti hanno iniziato a dirmi: “Michela
calmati, arriva sempre il momento in cui non si riesce più ad assistere
una persona a casa, c’è una soglia oltre la quale non si può andare, e con
Corinna la soglia è stata oltrepassata già da un po’. Anzi, sei stata molto
brava a gestire il caso a domicilio per così tanto tempo, attivando una
rete enorme di collaborazioni”.
Questo in parte era vero: se non fosse stato per me Corinna sarebbe
stata trasferita direttamente in casa di riposo, dopo la dimissione dalla
Rsa, e non avrebbe trascorso tutti quei mesi di vita serena nella sua
abitazione.
45
Giovanna
Tu parli di “vita serena”: dunque c’erano stati dei miglioramenti nelle condizioni di salute di Corinna nell’ultimo anno.
Michela
Sì, lei a un certo punto stava meglio, era persino ingrassata e aveva
ripreso a uscire di casa da sola. Non curava molto il suo aspetto, eravamo noi a sollecitarla; ad esempio le dicevamo quando aveva la ricrescita dei capelli, ma anche lei a volte si guardava allo specchio e diceva:
“Non ho i capelli in ordine”. Corinna è una fastidiosa, a volte non le
andava bene come le erano stati tagliati i capelli, o non sapeva dire
come li voleva; era abituata a farsi la tinta da sola, ma poi le abbiamo
mandato una parrucchiera a casa.
In quei mesi mi capitava di ricevere telefonate da Valentina, la portiera: “Ho visto Corinna uscire di casa da sola”. Io allora dicevo: “Lascia che vada, alla peggio il 118 la troverà da qualche parte e ci chiamerà”. Ma non è mai successo che si perdesse. Lei si vestiva, usciva di
casa senza dire niente e se ne andava a passeggiare in città. Prendeva
l’autobus e scendeva in centro, non so quali giri facesse, e dopo qualche
ora tornava a casa.
Giovanna
Questo dimostra che era ancora in grado di orientarsi nello spazio e
nel tempo…
Michela
Sì, aveva conservato delle capacità, anche se a volte camminando
nel rione chiedeva: “Dove siamo?”. Non sempre riconosceva i luoghi,
ma quando andava da sola, non so come, ce la faceva a tornare. Tornava
sempre. In quel periodo avevamo anche fatto in modo di inserire Corinna nel “gruppo anziani” del portierato, dove non era entusiasta di andare
perché non si sentiva ben accolta. Accompagnata da Franca, l’Adest del
Comune, partecipava ad alcune iniziative, come i pranzi o certe feste;
altre volte, sempre con Franca, usciva per andare a comprarsi delle piccole cose.
46
Giovanna
Era come se cominciasse un’altra vita…
Michela
Sì, non era la sua vita, ma la vita che potevamo offrirle noi – la socialità, gli incontri, le relazioni che eravamo in grado di creare intorno
a lei. Però è vero che aveva anche momenti soltanto suoi, una parte di
vita che si gestiva da sola, nella quale io non volevo entrare, così come
impedivo che fossero altri a controllarla. Quando ho deciso di lasciarla
libera di uscire di casa da sola, ho detto agli operatori: “Stiamo rischiando che Corinna finisca sotto una macchina, o che le succeda qualcosa,
ma è la sua libertà e dobbiamo accettare il rischio”.
[10. Vita in casa di riposo]
Giovanna
Le cose che racconti un po’ mi sorprendono, perché allora non riesco
a motivare la crisi che vi ha indotto a mettere Corinna in casa di riposo.
C’è stata forse una caduta di tensione da parte del gruppo, un venir
meno dell’impegno o delle motivazioni a portare avanti il progetto?
Michela
Non credo, anche se è vero che da un certo momento in poi sono stata meno presente nella casa, e Corinna non andava molto d’accordo con
la badante. Le persone fidate, disponibili per questi tipi di servizi, non
sono così tante, e devi prendere quel che c’è. Ma, come ho detto, avevamo soprattutto un problema di soldi, e la gestione era gravosa, difficile.
C’erano anche i volontari ad assisterla, ma sono ragazzini e non si
coinvolgono più di tanto: se a distanza di mesi io ancora mi commuovo
pensando a Corinna, immagino che un adolescente trovi il modo di tutelarsi di fronte a situazioni così difficili. Per carattere io entro con l’emotività nelle storie delle persone, e non mi sono certo risparmiata nel caso
di Corinna. Tuttavia è vero che il mio legame con lei a un certo punto
inizia a calare: sempre più delego ad altri una serie di compiti, e forse
viene un po’ meno il mio ruolo di mediazione e collegamento tra i di47
versi operatori che la seguivano. Forse, man mano che lei recuperava e
stava meglio, il tessuto si è smagliato, i nodi della rete si sono allentati,
ma al di là di questo è pur vero che la crisi di marzo è stata decisamente
più grave della precedente. Lo stato mentale di Corinna era peggiorato,
mentre si erano un po’ esaurite le motivazioni che avevano animato il
progetto fino a quel momento.
Giovanna
Dopo il suo ingresso nella casa di riposo, hai continuato a vederla,
la vai a trovare?
Michela
Sì, sono andata anche oggi. Secondo me sta bene, anche se non entra
in contatto con gli altri ospiti, non parla con nessuno. Condivide la stanza con tre donne, di cui una sempre a letto perché soffre di una malattia
gravissima. La stanza è grande, e Corinna ha un mezzo armadio dove
mette le sue cose.
Giovanna
Continua a essere gracilina?
Michela
In casa di riposo forchettano bene e lei ha messo su qualche chil;
la regolarità dei pranzi e delle cene la stava ingrassando anche troppo
agli inizi, poi ha trovato un certo equilibrio. Le sue condizioni di salute sono buone, non soffre di alcuna malattia, a parte una cataratta che
stiamo cercando di rimuovere. Come ho detto, è stata l’amministratrice
di sostegno a scegliere la casa di riposo: è situata in centro città, ospita
quindici persone in tutto, e poiché i parenti vanno in visita ogni giorno, la struttura è animata. Corinna però non è il tipo che si mette in
soggiorno, a chiacchierare con gli altri; tanto più che gli ospiti hanno
seri problemi di salute, molti soffrono di demenza senile ed è difficile
immaginare che possano parlare fra loro. In questa situazione abbiamo
avuto la fortuna di trovare un’infermiera professionale molto brava, la
signora Ada, una donna di cinquant’anni’anni dal carattere estroverso
48
un po’ simile al mio. Lei anzi è più brava di me nel coinvolgere le persone che segue, tanto che è riuscita quasi subito a entrare in rapporto con
Corinna, diventando il suo punto di riferimento affettivo.
Ogni mattina l’infermiera esce a fare la spesa e la porta con sé, a
camminare nelle strade e a mangiare la brioche. In certi giorni Ada va
più di fretta, deve sbrigare delle pratiche, e Corinna non può seguirla: il
suo mal di schiena le impedisce di camminare troppo a lungo. In ogni
caso, si affeziona a tal punto all’infermiera che quest’estate, quando
Ada va in ferie, lei si sente abbandonata e sta male. Allora mi chiamano:
“Guarda che qui c’è un macello, Corinna vuole il suo libretto postale e
le chiavi di casa. Vuole a tutti costi tornare a casa, e non sappiamo come
fare a calmarla”.
Giovanna
L’appartamento di Gretta è rimasto intestato a lei, o l’avete chiuso?
Michela
Lo abbiamo tenuto fino a un mese fa, poi l’avvocato ha detto che
non si poteva più continuare a pagare sia la casa di riposo che l’affitto
dell’appartamento; così lo abbiamo svuotato e restituito all’Ater.
I mobili di Corinna sono stati regalati a persone che ne avevano
bisogno: sono sparsi un po’ ovunque, a Gretta e in altre microaree. Chi
aveva bisogno di un ingresso si è preso l’ingresso; a Valmaura è andata
la lavatrice, mentre la camera da letto è stata regalata a una persona che
vive a Grego.
Giovanna
Dirlo così è terribile, come se Corinna fosse morta...
Michela
Sì, come se fosse morta. Abbiamo salvato le sue fotografie, raccogliendole in un album, e ho chiesto alla psicologa del distretto se faccio
bene o no a portargliele per il timore che vada in crisi. Invece i suoi abiti, tutto il guardaroba e le cose più personali sono state portate in casa di
riposo, compatibilmente con il poco spazio disponibile per conservarle.
49
Abbiamo dovuto piegare tutti gli abiti perché non ci stanno appesi.
Questa è forse la cosa peggiore della casa di riposo, non ti permette di
mantenere la tua individualità. Ogni tanto mettono a Corinna dei vestiti
non suoi, e lei si lamenta. Essendo ingrassata non le vanno più tutte le
sue cose, e l’avvocato non sgancia un gran che di soldi per acquistare
nuovi abiti.
Corinna continua a ricordarsi sempre solo di me, non si attacca facilmente agli altri. Quando le si avvicina il parente di un’altra ospite e la
saluta, lei contraccambia educatamente, ma tutto si ferma lì; non prende
mai l’iniziativa di parlare o di rivolgersi agli altri per prima.
Giovanna
Mi sembra un po’ duro il tuo rapporto con l’amministratrice di sostegno, l’“avvocato” come la chiami tu. Mi chiedo se il suo modo di
operare, le sue scelte e decisioni siano oggetto di valutazione periodica
da parte di qualcuno.
Giovanna
Il racconto della storia di Corinna finisce qui. In conclusione vorrei
chiederti quali sono le tue valutazioni sul modo in cui questo caso è
stato gestito, tenendo conto dei limiti e delle risorse a disposizione.
Michela
In teoria è il giudice tutelare a esercitare una forma di controllo, ma
in pratica lo fa solo se ci sono delle contestazioni, dato che segue centinaia di casi come quello di Corinna.
Giovanna
Per i consumi quotidiani della donna è prevista una piccola somma,
il cosiddetto argent de poche?
Michela
No, non credo che lei abbia in tasca un portafoglio con soldi suoi; ne
può avere solo se Ada va a prenderli dall’avvocato, che concede non più
di dieci euro per volta. Quando esce e va a prendere il caffè e la brioche,
i soldi li tira fuori l’infermiera di tasca sua. È un po’ grottesca la cosa,
sembra di essere alle scuole medie quando chiedevi alla mamma cinque
euro per la merenda.
Al di là delle mie visite, solo gli operatori del Csm intervengono
periodicamente per controllare la terapia. E poiché mi preoccupa l’eccessiva dipendenza di Corinna dall’infermiera, ho deciso di affiancarle
dei volontari che trascorrono qualche ora con lei al pomeriggio. Anche
ieri sono andata per presentarle Lorenzo e Tiziana, due nuovi volontari,
con la speranza che scatti fra loro la scintilla.
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[11. Osservazioni conclusive]
Michela
Per me è indubbiamente un fallimento, com’è dimostrato dal fatto
che ancora oggi devo raccontare a Corinna delle bugie sul fatto che
potrà tornare un giorno a vivere a casa sua. Lei chiede continuamente
di andare a casa, e Ada le dice che sì, presto accadrà. L’infermiera è
abituata a dire bugie senza tanti scrupoli, e quando lei le dice io intervengo nel discorso per appoggiarla, pur di mettere fine a tutti i lamenti
e pensieri tristi di Corinna.
È stato un fallimento non riuscire a evitare la casa di riposo; come
ho detto, l’errore che ha pesato di più è il non essere riusciti a ottenere
l’assegno di accompagnamento. Con quei soldi Corinna sarebbe rimasta probabilmente a vivere a casa sua.
Giovanna
Agli inizi dicevi che questo caso ha funzionato per te come un banco
di prova: sei stata molto coinvolta, hai fatto scoperte e raccolto conoscenze che prima non avevi, e forse nel momento culminante, quando è
insorta una nuova crisi, non sei stata abbastanza sostenuta.
Davanti a un crisi o riesci a riformulare su nuove basi il problema, e
trovi la forza di trasformare l’organizzazione, oppure torni indietro, dai
una risposta regressiva. Elabori la crisi non come possibilità di cambiamento, ma come perdita, fine di qualcosa …
51
Michela
Io credo, in effetti, di non aver trovato attorno a me le alleanze giuste
per ripensare tutta l’organizzazione, quando la seconda crisi è scoppiata.
Giovanna
Molte cose le ignoro, e altre andrebbero approfondite, ma un elemento di debolezza del progetto mi sembra che sia da collegare alla
diagnosi incerta, o piuttosto all’uso che viene fatto del giudizio diagnostico: più per classificare una condizione e uno stato, che per farsi
carico di una persona nella sua singolarità. La diagnosi di demenza di
per sé non lascia speranze di miglioramento o di ripresa, e in genere ha
come effetto un minor impegno nella cura, e soprattutto nella ricerca di
alternative all’istituzionalizzazione del malato.
Dico questo perché, ascoltando il tuo racconto, mi sono immaginata
che la commissione per l’invalidità abbia preso le proprie decisioni sulla base di dati contraddittori, e di una documentazione che forse era insufficiente a motivare il bisogno della donna di essere aiutata. Corinna
era classificata come “demente”, al tempo stesso mostrava di possedere
capacità e risorse cognitive. Il suo stato di salute fisica era buono, e poiché non presentava gravi disabilità, la commissione ha ritenuto che la
donna fosse capace di orientarsi e di reggere in maniera relativamente
autonoma un certo piano di realtà.
Michela
Questo però era un errore, un’illusione totale. Corinna aveva sì delle
capacità, ma non ce l’avrebbe fatta a vivere da sola nella casa senza
ricevere aiuti intensi e costanti; ed è comunque un paradosso che sia
stata discriminata, negli aiuti che avrebbe dovuto ricevere, proprio a
causa delle sue capacità residue. La decisione di non darle l’accompagnamento com’è stata presa? Le domande che le sono state rivolte
erano talmente superficiali da non rendere conto di niente. Chiedere ad
esempio “quanto costa il latte” cosa vuol dire in termini di valutazione
delle capacità? A una domanda così puoi rispondere bene anche se sei
demente, per un gioco del caso o perché Corinna la venditrice era abituata a contare i soldi, aveva stampati nella mente i prezzi delle merci.
52
D’altra parte, alla domanda “quanto costa il latte” puoi rispondere male
anche se stai benissimo. Io, ad esempio, non ricordo mai il prezzo di
una merce: se avessero chiesto a me quanto costa il latte, sarei stata valutata disabile o non autosufficiente? Il senso di fallimento mi viene da
dettagli come questi, mentre non penso di aver fallito riguardo all’impegno che io e altre persone abbiamo investito su questo caso; non riesco a immaginare che si potesse fare di più di quello che abbiamo fatto.
Il limite che ho sperimentato, e che continuo a sperimentare in tutti
i casi ad alta complessità, è la fatica che fai per attivare gli aiuti e le
competenze necessarie, in modo da ottenere attorno alla persona una
rete scorrevole e fluida. Nel mio lavoro devo chiedermi continuamente
se mi sono dimenticata di coinvolgere un pezzo dell’organizzazione, se
ho utilizzato tutti i link disponibili, o se ne ho trascurato qualcuno.
È molto tormentoso, passi il tempo a chiederti: questo l’ho fatto?
quello l’ho attivato? E ogni tanto qualche pezzo ti salta via, qualcosa
lo perdi per strada, viene meno una risorsa che non sei stato capace di
alimentare o di trattenere.
Giovanna
Il diavolo si nasconde nei dettagli, e tu qui stai parlando di procedure, di adempimenti cartacei, di iter amministrativi: gli ostacoli che
incontri ad ogni passo per via di una norma, un codicillo, un documento
che non hai presentato al momento giusto.
Michela
Oh certo! Ti ho detto del mio errore nella seconda richiesta per l’invalidità civile, il fatto di essermi dimenticata di presentare il referto
psichiatrico. Avrei dovuto chiedere alla dottoressa Santoro di rifarlo,
e non so cosa mi sia accaduto per trascurare una cosa così importante.
Giovanna
È stato un lapsus: poiché la commissione aveva già esaminato il
caso di Corinna, hai dato per scontato che lo conoscesse; o forse il coinvolgimento della psichiatra, nella gestione del caso, non era abbastanza
intenso da fartelo ricordare.
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Michela
In effetti credo di essermi sentita sola in certi momenti, e che abbiano pesato soprattutto i limiti del mio rapporto di collaborazione con
il Csm. Gli operatori della salute mentale svolgono un lavoro molto
complesso e accurato sui casi che seguono in maniera diretta, ma mi
sembrano un po’ riluttanti a lavorare in rete. Nel caso di Corinna c’è
stato un impegno iniziale significativo da parte della psichiatra, ma in
seguito gli infermieri sono intervenuti solo per somministrare la terapia,
e non c’è più stata una vera condivisione sull’andamento del progetto e
sulle decisioni da prendere.
Giovanna
Non so se qualcosa è mancato nel rapporto con il Csm, o se in generale siano insufficienti le forme attuali di coordinamento tra la microarea e i servizi nel loro complesso.
Michela
Non esistono le forme o i luoghi del coordinamento di cui tu parli;
la rete in cui mi devo muovere si alimenta di mille punti dislocati qua e
là: la commissione invalidi in via Farneto, l’amministratore di sostegno
che non c’entra niente con la sanità, la Uot del Comune in via Moreri, il
distretto alla Stock, il Csm a Barcola, l’Ater e così via. Sono tutti gruppi
e istituzioni molto diverse, con cui devo interloquire ogni giorno, e non
è facile. La sola centralità di cui mi avvalgo nel mio lavoro è data dal
gruppo tecnico territoriale, a cui partecipano – oltre alla microarea – il
portierato sociale di Gretta, l’Ater e il Comune di Trieste. Questa forma
di coordinamento ha una valenza progettuale generale, ma quando devi
gestire giorno per giorno casi come quello di Corinna bisogna tenere
collegati fra di loro i mille punti diversi del sistema. Così il case manager passa gran parte del suo tempo a tenere in piedi la rete, a comporre
un puzzle di risorse frammentate, non potendosi permettere di dimenticare nessuno dei tasselli.
Per fare un esempio di come funziona la rete potrei raccontarti quello che per me nell’ultimo anno è diventato un incubo: riuscire a far fare
a Corinna l’operazione della cataratta.
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Giovanna
Sentiamo…
Michela
Corinna non vede bene da un occhio, perciò nel febbraio dell’anno
scorso abbiamo deciso di sottoporla a una visita presso l’oculista del
distretto. Come poi ho scoperto dalle sue carte, già da tempo soffriva di
un problema alla vista, ma di recente il disturbo si era aggravato con la
formazione di una cataratta; così ho avviato tutto l’iter per rimuoverla,
fino a stabilire la data dell’operazione nel mese ottobre.
Il foglio con su scritto l’appuntamento era attaccato alla lavagna magnetica nella sede della microarea, e il giorno successivo alla scadenza
mi sono accorta di essermene dimenticata. Ho telefonato, ma non c’era
più niente da fare: salta la visita anestesiologica, salta l’operazione. Da
allora passano mesi un po’ turbolenti, non riesco più a occuparmene,
e solo nell’agosto di quest’anno, dopo che Corinna entra in casa di riposo, ricomincio l’iter della richiesta, e la data dell’operazione viene
fissata ai primi di ottobre. È difficile, in un caso come questo, rispettare
tutte le tappe di un iter sanitario con tempi dilazionati: ogni volta che
la persona deve sottoporsi a una visita bisogna organizzare i turni di
chi dovrà accompagnarla, e cioè i volontari. Nella fattispecie Corinna
doveva essere accompagnata per tre giorni consecutivi: il primo per la
visita ambulatoriale, il secondo per quella anestesiologica, il terzo per
l’operazione. Bisognava mobilitare tre volontari diversi, per tre mattine
di seguito, non riuscendo a prevedere per quante ore, perché tutto dipende dal numero di pazienti in lista prima di te.
All’avvicinarsi della scadenza di ottobre riesco, non senza fatica, a
organizzare i turni. Il primo giorno tutto fila liscio, mentre ad accompagnare Corinna il secondo giorno va una volontaria un po’ inesperta, che
non mi riferisce un dato essenziale: l’oculista non si fida del consenso
al trattamento dato dalla donna, e chiede che a firmare sia l’amministratore di sostegno, altrimenti l’operazione non si farà.
Giovanna
Corinna non è interdetta, la sua firma è valida…
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Michela
Sì, ma l’oculista non l’accetta, e dipende da lui la valutazione del
grado di consapevolezza del paziente nell’accettare il trattamento. Comunque sia, io non vengo informata del cambiamento di programma, e
il giorno dopo la terza volontaria accompagna Corinna in ospedale per
l’operazione. La ragazza non dubita di nulla, anche perché trova il letto
con scritto il nome “Corinna C.”. Un’infermiera le dice: “Lasci pure
qui la signora, aspetti lì fuori; la richiameremo non appena terminato
l’intervento”. Evidentemente la lista delle persone da operare era partita
prima che il medico sollevasse l’obiezione della firma, e Corinna era
stata inclusa per errore nel gruppo. Un’ora dopo, quando l’errore viene scoperto, telefona un infermiere arrabbiatissimo: chiede come mai
abbiamo portato la donna in ospedale se non poteva essere operata. Io
cado dalle nuvole, e tutto salta per la seconda volta.
Giovanna
In seguito sei riuscita a fissare nuovi appuntamenti?
Michela
Sì, e proprio oggi ho telefonato all’avvocato per chiederle se ha firmato il consenso all’operazione. Lei dice: “Stavo aspettando che mi
chiamasse l’oculista”, “Perché non lo chiami tu?”, “Ho perso il numero
di telefono”. Cerco nella mia agenda, trovo il numero dell’oculista e lo
trasmetto all’avvocato.
Ho voluto raccontare questo episodio perché mi sembra un buon
esempio di cosa significa far funzionare la rete. Ogni volta per realizzare cose semplici, che dovrebbero andare da sé, bisogna fare sforzi
enormi di coordinamento. Ad esempio, è più che legittimo chiedere a
un amministratore di sostegno di fare una firma nell’esercizio delle sue
funzioni, e ti aspetti che la faccia senza troppi problemi. Ma le cose non
vanno mai lisce, la realtà è sempre pronta a smentire l’evidenza.
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FARE SALUTE – Laboratorio di formazione,
ricerca e comunicazione sulla “medicina di comunità” a Trieste:
storie e racconti di malattia
Il progetto, realizzato nel biennio 2010-2011, si propone di raccontare,
con la voce dei protagonisti, la pratica medica dei Distretti e delle Microaree,
nella sfida che da anni, a Trieste, impegna gli operatori a sviluppare
una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali.
L’idea-base del progetto è quella di aprire un laboratorio per sperimentare
nuovi metodi di racconto della malattia, al fine di informare, descrivere,
rappresentare i contenuti e le metodologie dell’intervento territoriale.
Ricostruendo la storia di singoli casi, stabilendo confronti
tra il linguaggio delle procedure sanitarie e la complessità delle pratiche,
vengono evidenziati aspetti specifici che differenziano
la “medicina di comunità” da quella ospedaliera.
La raccolta di materiali orali, così come l’elaborazione dei testi,
serve a documentare il grado di coinvolgimento dei diversi attori:
da un lato la dimensione affettiva del lavoro di cura (l’intensità
e la frequenza dei contatti, le relazioni ravvicinate fra operatore e utente);
dall’altro i dubbi e le scoperte, le incertezze e i conflitti come punti di forza
di un intervento basato sul continuo confronto e sulla negoziazione;
dall’altro ancora gli aspetti co-evolutivi di un sistema d’intervento
protratto nel tempo, e l’importanza che assume la capacità
e il potere degli operatori di esplorare i differenti contesti,
tenendo conto di numerose variabili (determinanti di salute).
Soprattutto il racconto mostra gli interni delle case, le strade e i quartieri,
gli spaccati di vita delle persone che, ammalandosi di una malattia grave,
possono assumere un ruolo attivo o passivo, interpretando in modi diversi
il cambiamento loro richiesto (stili di vita e traiettorie della cura).
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