Il Sole 24 Ore – Domenica 04 gennaio 2015 Modello per le imprese Di Giorgio Barba Navaretti La politica industriale è forse l'ambito più controverso della politica economica. Non è chiaro quale ne sia l'obiettivo (quale e quanta industria), quali siano gli strumenti da utilizzare, né come utilizzarli. Forse proprio per lo stato confusionale della materia, il dibattito ha oscillato tra la posizione liberista del conducive environment (lo Stato deve limitarsi a garantire le condizioni di contesto in cui le imprese possano operare) e quella di un'economia quasi pianificata (lo Stato sceglie le industrie e le sostiene con vari strumenti). Il pendolo nel decennio scorso è stato fermo sulle posizioni liberiste e nel menù proposto dai principali organismi internazionali e anche adottato dalla maggioranza dei Paesi occidentali ci si è limitati a misure che in nessun modo implicassero scelte e preferenze. Per cui bene misure a favore di tutti (crediti di imposta alla ricerca e sviluppo) o misure che favorissero il funzionamento del mercato (liberalizzazione dei servizi); ma male, malissimo, misure volte a promuovere questa o quella attività (investire nelle nanotecnologie o nella siderurgia). Il clima, con la crisi economica e la perdita di posizioni dell'industria in gran parte delle economie occidentali, è cambiato. La Commissione Europea ha varato dal 2012 una serie di documenti sul rafforzamento dell'industria molto più interventista del passato. Gli Stati Uniti sono intervenuti a sostegno di industrie in difficoltà (vedi automobili) e per sostenere l'innovazione in aree specifiche e diversi Paesi europei, come la Francia e la Gran Bretagna, hanno esplicitamente adottato misure di sostegno alle industrie strategiche. Il dibattito è ancor più complesso e paradossale nel nostro Paese. L'industria ha un ruolo preminente nell'economia e permette di mantenere una bilancia commerciale fortemente in attivo, ma allo stesso tempo dalla fine del 2007 è stato perso, forse ormai in modo definitivo, un quarto dell'output industriale e continui focolai di crisi minacciano la definitiva scomparsa di attività strategiche (vedi la siderurgia). Se dunque sostenere e rilanciare l'industria è un proposito condiviso da tutti, l'incapacità dimostrata nel passato da parte di tutti i governi e istituzioni pubbliche di varare una strategia coerente di sostegno all'industria con l'apparato necessario di selezione e valutazione dei programmi rende assai scettici sulla capacità di rifondare una politica industriale contemporanea. Il Governo ha rilanciato una riflessione in questo campo con il varo dell'Industrial Compact (di cui chi scrive fa parte), l'adozione di misure di sostegno alla ricerca e agli investimenti e infine la gestione di crisi di aziende chiave, come le acciaierie di Terni o l'Electrolux. Ma fino a dove e in che modo debba spingersi l'azione di politica industriale è ancora questione più che aperta. Per orientarsi in questa complessa questione ci aiuta un agile libretto della bella collana de Il Mulino, Bianco e Nero, scritto a quattro mani da un economista (Gianfranco Viesti) e un giornalista economico (Dario Di Vico), che ci danno una prospettiva solo apparentemente contrapposta (presupposto della collana) e invece articolata e coerente sul possibile della politica industriale nel nostro Paese. Entrambi infatti partono dalla stessa diagnosi. La necessità di riqualificare il nostro sistema industriale, attraverso la crescita della dimensione delle imprese, la transizione verso modelli di governance più avanzati, il miglioramento della struttura patrimoniale e l'immissione di nuove competenze, al fine di aumentare la capacità di innovare e internazionalizzarsi. E favorire un modello fluido, una visione dell'industria dinamica in continuo progresso e cambiamento dove si deve lavorare per ridurre i freni alla mobilità delle risorse, alla possibilità che denaro uomini e macchine vadano verso progetti nuovi e virtuosi. Viesti flirta con l'idea del grand plan. Per raggiungere questi obiettivi sostiene, lo Stato può darsi una strategia chiara ed esplicita, non deve insomma avere paura di prendere posizione. Di Vico invece propone un modello di economia industriale on the road, ossia fondata sulle cose che già si sono fatte nel più o meno normale corso degli eventi fino ad ora e che coinvolga diversi soggetti privati e pubblici. Vedi le banche, che diventino partner strategici e non solo creditori delle imprese; o il Fondo Strategico Italiano, un esperimento molto importante di intervento pubblico in coerenza con il mercato; o i nuovi modelli di distribuzione alla Eataly, che sostengono e si portano dietro filiere complesse e articolate di piccoli produttori sparsi sul territorio. E infine i distretti, che hanno saputo in molti casi reinventarsi senza scomparire. Le due ricette non sono incompatibili, si integrano in una proposta di politica industriale di Stato e di Mercato. Ci danno un affresco di idee su quel che già si è fatto e si potrebbe ragionevolmente fare. Il Governo si sta in parte muovendo in questa direzione, ma ancora manca un disegno complessivo coerente ed esplicito. Non è facile in sistemi economici che si trasformano continuamente e sempre più fluidi capire dove andare. Ma disegnare una roadmap per il futuro sarà inevitabile. Dario Di Vico e Gianfranco Viesti, Cacciavite, Robot e Tablet. Come far ripartire le imprese, il Mulino, Bologna, pagg. 140, € 12,00