LA 71a SETTIMANA MUSICALE SENESE: QUANDO LA TRADIZIONE POPOLARE E LA MUSICA COLTA S’INCONTRANO Aldo Bennici Direttore artistico dell’Accademia Musicale Chigiana Da tempo accarezzavo l’idea di poter organizzare proposte musicali che stabilissero confronti e dialoghi fra la musica etnica e quella colta, solleticato in ciò dalla mia personale esperienza di musicista vissuta accanto a Luciano Berio. L’occasione è arrivata, del tutto inaspettata, quando, dopo aver deciso di concludere la mia carriera pluriennale di Direttore artistico dell’Accademia Chigiana, mi è stato chiesto di mettere a frutto ancora una volta la mia lunga esperienza di organizzatore musicale per fronteggiare un momento particolarmente difficile nella vita stessa della Chigiana, e disegnare (in poco tempo e con risorse economiche assai contenute rispetto ad una volta) la programmazione della Settimana Musicale Senese e dell’Estate Musicale Chigiana. L’intenzione di avvicinare quei due ambiti musicali, abbattendo così ogni sorta di confine, è diventata predominante, e poteva essere estesa, come un filo rosso, all’intero calendario degli appuntamenti della Settimana Musicale. Nasce così Specchi, il titolo che raccoglie le manifestazioni della Settimana Senese 2014: occasioni dove la tradizione musicale tramandata per via orale e di ogni provenienza geografica si confronta con i grandi classici, dando vita a un gioco continuo di corrispondenze e di cambi di prospettiva, proprio come i continui riflessi che movimentano la superficie di uno specchio. In questo trova anche nuova affermazione il mio personale amore per l’etnomusicologia, disciplina che, del resto, proprio all’Accademia Chigiana ebbe, anni fa, una sua particolare autorevolezza didattica grazie alle cattedre tenute da due illustri studiosi come Diego Carpitella e Roberto Leydi. Il gioco dei raffronti e delle differenti angolazioni è affermato fin dalla serata inaugurale, che avvicina le musiche di scena per l’Arlésienne di Bizet a quelle (appositamente commissionate dalla Chigiana, e in prima esecuzione assoluta) per Blanquette di Azio Corghi: queste ultime basate su un racconto di Alphonse Daudet presente in quelle stesse Lettres de mon moulin seguite da Bizet nel suo capolavoro. Uno stesso testo visto nello specchio musicale della contemporaneità, secondo un’operazione che conferma, ancora una volta, l’attenzione delle programmazioni chigiane alla musica del nostro tempo. Il concerto intitolato Santi e santini vuol far riflettere su come l’esigenza di spiritualità, da sempre insita nell’uomo, possa esprimersi con pari intensità sia nella quotidianità semplice del canto popolare sia nell’universalità ‘alta’ del capolavoro conclamato. Ascolteremo così le espressioni di fede intonate nei canti sacri della tradizione sarda, accanto a quelle, raccolte e non di rado imbevute di gusto operistico, dello Stabat Mater di Boccherini. È ancora la tradizione popolare, stavolta quella di alcune canzoni sefardite, ad essere vista con gli occhi della contemporaneità in Juego de Siempre di Betty Olivero, compositrice israeliana fortemente legata all’Italia, avendo vissuto a Firenze ai tempi dei suoi studi con Berio. Questa pagina è messa a fianco di un’antologia di antiche canzoni spagnole raccolte e armonizzate da Federico García Lorca: omaggio, questo, alla figura del conte Guido Chigi Saracini, che acquistò una delle prime edizioni della raccolta. Il volume è oggi conservato nella Biblioteca dell’Accademia. Visioni andaluse: ecco dunque il titolo del concerto. Ravvicinamenti testimonianza di innovazioni sono poi quelli che caratterizzano l’appuntamento con i Solisti di Pavia ed Enrico Dindo, protagonisti di un viaggio fra Weimar e Mar del Plata: da una parte Carl Philipp Emanuel Bach, secondogenito di Johann Sebastian, nella cui musica avanza un’espressività moderna e che punta al pieno coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore. Dall’altra, Astor Piazzolla, che riesce sempre a dare il colore del tango anche nelle ‘altre’ musiche, e che alla tradizione del tango dà una nuova dignità artistica, fatta di significati malinconici e sensuali. La proposta di Naturale di Berio assieme ad alcuni canti della tradizione siciliana è la testimonianza, affettuosa e sentita, dei miei legami personali con la terra che mi ha visto nascere e con la figura di un grande amico musicista. Quei canti di mare, quelle abbagnate (le prolungate esclamazioni dei venditori ambulanti), furono da me personalmente raccolti. Berio ne rimase letteralmente affascinato. Nacquero Voci, e poi Naturale, dove la viola commenta quel tessuto di canti popolari registrati, da me tenuto a battesimo ed eseguito infinite volte. Un tocco di autenticità, nella seconda parte della serata, sarà assicurato dalla presenza dell’attore-cantante Maurizio Sazio, che ci offrirà le atmosfere di quei canti con la schiettezza e l’intensità di un antico cantastorie. I ritmi sfrenati della tarantella, filtrati dalle riappropriazioni colte di Stravinskij, Beethoven, Szymanowski e Sarasate, si sposano infine alla gestualità altrettanto scatenata della pizzica (che ne è la variante più tipicamene salentina), per scandire l’appuntamento conclusivo della Settimana Musicale Senese. Edoardo Zosi, violinista già allievo dell’Accademia Chigiana, e l’Orchestra Popolare Italiana con Ambrogio Sparagna si avvicenderanno per una conclusione dalle atmosfere trascinanti e festose, dove la tradizione popolare non s’intimidisce accanto alle note della musica colta. Linguaggi diversi che trovano così una loro dimensione comune. Anche perché ho sempre amato la musica. Tutta. Venerdì 11 luglio Chiesa di Sant’Agostino ore 21.15 SANTI E SANTINI Venerdì 11 luglio Chiesa di Sant’Agostino ore 21.15 SANTI E SANTINI Cantendi a Deus musiche originali e arrangiamenti di Elena Ledda, Mauro Palmas, Marcello Peghin e Silvano Lobina Testi originali di Maria Gabriela Ledda con Elena Ledda voce Simonetta Soro voce Mauro Palmas mandole Marcello Peghin chitarre Silvano Lobina basso Michele Palmas suono (i singoli brani saranno presentati durante il concerto e preceduti dalla lettura dei testi) *** Luigi Boccherini Lucca 1743 - Madrid 1805 Stabat Mater G. 532 prima versione (1781) per soprano, due violini, viola e due violoncelli Stabat Mater (Grave assai) Cujus animam (Allegro, Adagio) Quae moerebat (Allegretto con moto) Quis est homo (Adagio assai/Recitativo) Pro peccatis (Allegretto) Eja Mater (Larghetto non tanto) Tui nati (Allegro vivo) Virgo virginum (Andantino) Fac ut portem (Larghetto) Fac me plagis (Allegro comodo) Quando corpus (Andante lento) Laura Polverelli mezzosoprano Quartetto Bernini Marco Serino violino Yoko Ichihara violino Gianluca Saggini viola Valeriano Taddeo violoncello Francesco Pepicelli violoncello CANTENDI A DEUS Elenaledda Vox Associazione Culturale Elena Ledda, cantante e ricercatrice, apprezzata in tutto il mondo come portavoce della ricca e originale tradizione musicale e linguistica della sua terra d’origine, la Sardegna, presenta la proposta musicale Cantendi a Deus, dedicata interamente al canto sacro. Il concerto scaturisce da una lunga ricerca che ha evidenziato come in Sardegna i canti sacri conservino intatta la loro capacità comunicativa unitamente alla loro funzione sociale. Soprattutto in precisi periodi dell’anno (Natale, Pasqua, Mese Mariano, Festa del Patrono) essi vengono ancora eseguiti e proposti dalla comunità con la stessa forza espressiva che possedevano anticamente. Si è attinto alla pura tradizione, composto brani originali e, con lo stesso rispetto, rivisto e recuperato, senza snaturarne l’essenza, qualche canto la cui esecuzione si era persa nel tempo. Tra questi: S’incominzu, ispirato al quattrocentesco Canto della Sibilla e Ave Maria, entrambi di derivazione catalana; Orus a su sperevundu (Dies Irae) e Mamma nosta (Ave Maris Stella), di provenienza gregoriana. I momenti della passione e resurrezione di Cristo vengono descritti con canti di rara bellezza espressiva attraverso il dolore della madre Maria. Della tradizione natalizia fanno parte i Gocius de su nascimentu, Celesti Tesoru e A su nàschere de Gesus. Attingendo alla vastissima varietà dei Rosari, ancora presenti in tutte le comunità dell’isola, ci si è ispirati a quelli di Orgosolo, Masullas e Esterzili. Vengono proposti anche brani tratti dall’opera del XVII sec. Comedia de la passion de Nuestro Señor Jesu Christo di Antonio Maria da Esterzili, e Sa pregadoria, composizione ispirata al modulo della poesia estemporanea campidanese, su testo del poeta Chicheddu Deplano noto ‘Olata’ (Quartucciu 1763). Il progetto musicale è completato da una parte letteraria, che attinge sia alle fonti delle sacre rappresentazioni di origini sardo-spagnole, sia a creazioni originali affidate a poeti contemporanei. DEUS TI SALVET MARIA Paolo Scarnecchia In Viaggio in Sardegna, Michela Murgia parla dell’isola come di una «terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi». Il sardo con le sue varianti è una lingua e non un dialetto, ma nella eloquenza dei suoi silenzi risuonano memorie ancestrali. L’idioma romanzo sardo deriva autonomamente dal latino e ne conserva una forte e chiara impronta. Nella sua inconfondibile aura aulica, che lo distingue dalle altre lingue romanze, è sedimentata la storia dell’isola. Non è un caso se l’uso letterario del sardo nasce dalla poesia religiosa del XV e XVI secolo e nei due secoli successivi agisce nelle sacre rappresentazioni. In senso lato il canto sardo, o meglio il canto in sardo della tradizione orale, sembra muovere da un intimo e profondo sentimento religioso. L’atto stesso del cantare, nella composta dignità dell’atteggiamento ieratico, sembra provenire da una remota forma di ritualità. Il silenzio è parte integrante del canto, che contribuisce a caricarlo di pathos, e quando la parola del verso cantato non riesce più a trattenerne le emozioni, esso si trasforma in melismatiche geometrie tese ad esprimere l’ineffabile. Nel paesaggio sonoro dell’isola il canto appare dunque plasmato sia dalla natura linguistica del sardo che da quella antropogeografica, e nella originalità delle sue manifestazioni musicali, siano esse monodiche, polifoniche o puramente strumentali, gli studiosi hanno ravvisato i caratteri di un sistema dal forte valore iconico. Storicamente la sfera più intima del canto, rigorosamente monodico e diffuso in tutta l’isola, è quella femminile, che si esprimeva nella dimensione domestica, con i suoi profondi legami al ciclo della vita, dalla anninia (ninna-nanna) allo attitu (lamento funebre), e in quella sociale delle attività del lavoro della tradizione agricola e pastorale. Nella intimità del rapporto madre figlio/a la trasmissione della lingua materna non è affidata solo alla cullante dolcezza delle ninne-nanne, ma anche alla seria giocosità di filastrocche nella cui apparente semplicità sono contenuti i fondamenti melodico-ritmici del canto sardo. Nelle numerose versioni del duru duru, dal melodiare fortemente accentato, la formalizzazione verbale presenta i tratti distintivi del sistema metrico della poesia sarda, e tra le sue varianti ritmico-melodiche sembrano prevalere quei moduli che caratterizzano il canto di accompagnamento del ballo sardo, che nella sua circolarità rappresenta un simbolo di coesione sociale delle comunità dei diversi paesi della Sardegna. In ambito non professionale e al di fuori delle mura domestiche, il canto femminile è praticato anche nei luoghi di culto, chiese e santuari, e nelle processioni, attraverso l’intonazione di preghiere, rosari e novene in italiano e in sardo. Ma la devozione popolare è espressa ancor più intensamente dai canti di lode in onore dei santi e della Madonna, gosos, che risalgono all’epoca della dominazione spagnola, e che vengono intonati in occasione delle feste patronali e delle festività solenni. La loro relativa semplicità consente una partecipazione della assemblea dei fedeli o dei partecipanti al corteo processionale, attraverso una esecuzione responsoriale o antifonale. Anche se il repertorio dei gosos, basato su quartine o sestine di ottonari, nella sua veste monodica è fortemente inclusivo, esso è presente anche nella sua forma polivocale, sia a cuncordu che a tenore, quest’ultima contraddistinta dalla presenza dei caratteristici timbri vocali gutturali che caratterizzano l’area barbaricina. Se il canto femminile è la matrice dalla quale sembrano essersi sviluppate le diverse forme del canto sardo, nella sfera pubblica dal punto di vista storico esso appare dominato dalla presenza maschile. In ambito monodico risalta il virtuosismo vocale del canto a chiterra, praticato in origine nella convivialità di bettole e cantine e successivamente nella dimensione competitiva di gare sul palco delle feste di piazza e diffuso nell’area settentrionale dell’isola. La sua progressiva trasformazione in arte vocale e in sfida canora fra tre cantadores ha contribuito alla cristallizzazione e articolazione della performance nella forma di una suite costituita da una serie di modelli melodico-armonici sui quali si intonano i versi della poesia in sardo. I principali sono Canto in re, Nuoresa, Mutos, Corsicana, e Mi e la, Si bemolle, Fa diesis, Disisperada. Questi ultimi sono definiti ‘classici’ per la loro complessità, e compaiono nella seconda parte della suite, la più impegnativa destinata ai veri intenditori, nella quale i canti semisillabici cedono il passo a complessi profili melodici via via sempre più tortuosi e melismatici. Nonostante le differenti modalità espressive, la parte preponderante della musica di tradizione orale della Sardegna è costituita da forme di poesia cantata, governate da un profondo senso del ritmo e da una accentuata tendenza all’iterazione microvariata. Nella sua cristallizzazione formale si coglie quella tendenza al ‘pindarismo’ efficacemente delineata da Leonardo Sole, per la carica di tensione espressiva presente fin dalla struttura fonetica del verso, e che raggiunge il suo culmine in quella sorta di geometria caleidoscopica che governa l’impianto dei muttos, nei quali l’avvicendamento dei versi cantati rasenta la pura astrazione lirica. Ma fra tutte le espressioni musicali della tradizione orale sarda spiccano quelle polivocali legate alle cerimonie paraliturgiche della Settimana Santa, coltivate dalle diverse confraternite che le tramandano di generazione in generazione. La sacralità del canto già evidente nella intonazione dei testi dell’Ordinarium Missae, in occasione delle festività solenni, assume un valore paradigmatico soprattutto nelle cerimonie del Venerdì Santo, quando i confratelli allestiscono le azioni drammatiche dello incravamentu (crocefissione) e dello iscravamentu (deposizione) celebrando la Passione di Cristo. Le voci del canto a cuncordu di tradizione orale, a quattro o cinque parti, accompagnano le processioni e intonano lo Stabat Mater e il Miserere nelle strade di Castelsardo, Santu Lussurgiu, Cuglieri, Orosei ed altri paesi della Sardegna. Le lunghe note tenute e le lunghe pause di silenzio tra un verso e l’altro della sequenza e del salmo sono la forma più evidente e commovente del sentimento religioso che ispira il cantare in limba. L’OCCASIONE PER UN CAPOLAVORO: LO STABAT MATER DI BOCCHERINI Cesare Orselli Non fu certamente necessario il riconoscimento ufficiale di Benedetto XIII nel 1727, e il suo allineamento con le quattro Sequenze già ammesse dalla Chiesa con il Concilio di Trento, perché allo Stabat Mater arridesse il favore di moltissimi - e illustri - compositori. Nato con molta probabilità nei primi anni del Trecento su testo forse di Jacopone da Todi, come planctus che dipinge il dolore della Madonna presso la croce, e collocato abitualmente all’interno della Via Crucis o della Messa dei Sette Dolori (15 settembre), lo Stabat Mater ha conosciuto numerosissime traduzioni musicali: polifoniche, come quelle di Palestrina, Josquin Desprès, Orlando di Lasso (in epoca rinascimentale) e con accompagnamento strumentale in età barocca e romantica: Caldara, Pergolesi, A. Scarlatti, Vivaldi, Schubert, Rossini, Liszt, Verdi sono i maggiori autori che affiorano alla memoria. Ed è facile comprendere le ragioni di una sempre rinnovata simpatia di compositori della più varia cultura e formazione (fino a Dvořák, Poulenc, Penderecki): il testo dello Stabat Mater si presenta così ricco di ‘occasioni’ espressive, con i tratti di una grande scena drammatica, che il ricorso ad essa (come alla sequenza del Dies irae, inserita nella Messa di Requiem) costituiva per il musicista un’attrazione fortissima, dandogli la possibilità di uscire fuori dai moduli dello stile ‘osservato’ e attingere alle forme (aria, duetto, quartetto) mutuate dal trionfante stile operistico. E si resta perplessi nel leggere il severo atto di accusa del giovane Wagner che rimproverava Rossini di aver ‘profanato’, nel suo Stabat Mater, il genere sacro, appunto per la copiosa immissione di stilemi operistici: si ascoltino le versioni di autori meno sospetti di ‘melodrammismo’ di Rossini, e si noterà come la sovrapponibilità del loro stile sacro con quello dell’opera seria è pressoché totale (quelle di Caldara o di Pergolesi possono bastare per tutte). Anche Haydn (ma non Mozart) trasse ispirazione da questo commosso testo religioso: negli anni di permanenza ad Eisenstadt, nel 1767, nel periodo del cosiddetto suo “Sturm und Drang”, egli compose uno Stabat Mater, un impegnativo lavoro per quartetto vocale, coro e orchestra, che - grazie alle edizioni a stampa - fece il giro dell’Europa, giungendo a Parigi nel 1781: lo stesso anno in cui il lucchese Luigi Boccherini (1743-1805), violoncellista e musico di corte a Madrid, già autore di una messa, di mottetti e oratori, firmò la sua versione, per ordine di Don Luís, l’Infante ritratto da Goya; probabilmente conoscendo, appunto, l’opera di Haydn - con cui Boccherini ebbe rapporti di una certa cordialità � - e lo Stabat, ancor più famoso, di Pergolesi. Ma la campitura del lavoro, composto per le funzioni religiose de Las Arenas, appare più lineare e meno corposa di quelli: il ‘racconto’ medievale abbandona infatti il quartetto vocale e il coro previsti da Haydn e le due voci femminili impiegate da Pergolesi, ed è affidato a una sola voce (soprano),1 come già aveva fatto Vivaldi nel suo Stabat, rimasto per secoli inedito (e quasi certamente ignoto al lucchese); alla sensibilità cameristica di Boccherini, autore di numerosi e bellissimi quartetti e quintetti, si può cogliere un chiaro rimando nell’essenziale organico strumentale, un quintetto d’archi in cui il secondo violoncello è però sostituito da un contrabbasso. Questa composizione sacra, tuttavia, è rimasta pressoché sconosciuta per due secoli, pubblicata in Italia nel 1986; e la riproposta in concerto ha il sapore di preziosità e quasi di inedito, poiché dello Stabat del 1781 si conosceva un solo manoscritto,2 «une copie qui prouve incontestablement qu’elle reproduit la première inspiration de l’auteur».3 Nel catalogo delle opere dell’autore - cui peraltro si deve una produzione sacra piuttosto esigua - figura invece, come op. 61, una seconda versione, risalente al 1800, composta per Lucien Bonaparte, e molto più nota e diffusa:4 «L’autore scrisse quest’opera in Arenas nel 1781, - si legge in una nota autografa - ma per evitare la monotonia di una sola voce per la quale fu scritta e la troppa fatica a quest’unica parte cantante la ha ordinata per 3 voci [soprano, contralto, tenore], senza cambiar l’opera in niente». La partitura ‘originale’ distribuisce le venti strofe del testo latino, scritto in terzine di ottonari rimati, in 11 sezioni, che si succedono in quest’ordine: 1 - Stabat Mater dolorosa; Grave assai; 2 - Cujus animam gementem; Allegro, Adagio; 3 - Quae moerebat; Allegretto con moto; 4 - Quis est homo; Adagio assai /Recitativo; 5 - Pro peccatis suae gentis; Allegretto; 6 - Eja Mater, fons amoris; Larghetto non tanto; 7 - Tui nati vulnerati; Allegro vivo; 8 - Virgo virginum praeclara; Andantino; 9 - Fac ut portem Christi mortem; Larghetto; 10 - Fac me plagis vulnerari; Allegro comodo; 11 - Quando corpus morietur; Andante lento. 1 Boccherini era maritato a un soprano, Clementina Pelicho. 2 Conservato presso la Library of Congress di Washington. 3 Così scrive nel 1851 Louis Picquot, cui appartenne il manoscritto, nella sua Notice sur la vie et les ouvrages de L. Boccherini. 4 Se ne conservano copie a Parigi, Lucca, Firenze, e un’edizione a stampa a Berlino. Quando Boccherini compose lo Stabat Mater, parentesi spirituale nel procedere della sua creatività, stava vivendo un periodo di particolare serenità a Las Arenas, avendo alle spalle la produzione di due preziose raccolte cameristiche: i Quintetti op. 29 e i Quartetti op. 32; e la straordinaria varietà e articolazione della scrittura cameristica, l’alternanza pressoché regolare di Allegro, Grave, Larghetto, confermano, fin dalla sommessa introduzione alla prima delle undici ‘stazioni’, la presenza di un raffinato maestro che affida al quintetto non già un ruolo di accompagnamento, ma una funzione narrativa e dialogante, e tendenzialmente evocativa degli affetti suggeriti dalle strofe poetiche. Che vengono lette con la frequente adozione di tonalità minori e di armonie ricercate che suggeriscono un deciso ripiegamento intimistico e doloroso, sigla predominante dello Stabat boccheriniano come di quello di Pergolesi. Tuttavia alcuni movimenti mossi (ad es. l’Allegro «Cujus animam», l’Allegretto con moto «Quae moerebat» e l’Allegretto «Pro peccatis», entrambi molto virtuosistici,) non sfuggono a una certa brillantezza di sapore operistico, quasi che l’autore non riuscisse a tradurre appieno la tensione evocata dai versi (in cui, pure, si parla di «gladius», di «poenas», di «flagellis») ed occhieggiasse alla caratteristica chiarezza e serenità di tanta sua musica strumentale; anche se piuttosto originale ed imprevedibile è la conclusione del «Cujus animam», un Adagio che riprende in stile declamato la strofa «O quam tristis», con una toccante puntatura sul la bemolle («tristis»). È come se l’intenzione di variare il registro espressivo della partitura con movimenti brillanti e con la tavolozza timbrica dello strumentale venga poi da Boccherini riequilibrata con sezioni di maggiore interiorità e raccoglimento: ad esempio, anche l’Allegro vivo «Tui nati vulnerati», che si apre con un bel disegno strumentale agitato, si arricchisce di una sezione centrale, l’Adagio «Fac me vere tecum flere», in cui l’ispirazione religiosa è letteralmente tangibile, prima della ripresa, in cui - come in quasi tutto lo Stabat -Boccherini elude la struttura col «da capo» e inserisce varianti, fioriture, passaggi modulanti, creando la suggestione di un pensiero poetico continuamente variato. Sono dunque i movimenti Grave, Larghetto, Andantino eccetera le occasioni nelle quali la pietas del maestro lucchese, nonostante il persistere di una certa quadratura simmetrica del canto, si effonde appieno, rivelando una capacità d’introspezione e di scavo che sembra rimandare a una matura e severa tradizione barocca: dopo il breve, scarno e incisivo recitativo Adagio assai sulla domanda «Quis est homo qui non fleret», si ascolti il n. 6, «Eja mater» affrontato con un tono cullante, quasi di pastorale, in cui le dolci fioriture non hanno niente di virtuosistico, e sono piegate alla delicatezza di una sommessa preghiera; un registro espressivo che ritorna nel n. 9 «Fac ut portem», che traduce in una sorta di elegante danza stilizzata, una siciliana, «la melanconia infinita di questo inno sulla morte di Cristo» (Della Croce). E si consideri anche l’ampio respiro dell’implorazione «Virgo virginum» (n.8), un canto luminoso preparato da un’avvolgente introduzione strumentale, forse il vertice espressivo della partitura. Siamo così giunti ai numeri conclusivi della partitura, quelli in cui l’iniziale alternanza dei registri espressivi viene abbandonata, in favore di una omogeneità dolente che sfocia - si sarebbe tentati di dire - in una declamazione sottovoce del «Quando corpus morietur», appoggiata a leggerissimi interventi degli archi: il senso della morte evocato dai versi (che in altri musicisti ha suggerito angoscia e pena) è tradotto in una sorta di speranza illuminata, in una conclusione sfumata sull’Amen, ripetuto quattro volte: «Un non so che di celestiale - scriveva un erudito lucchese dell’800, Antonio Mazzarosa - traspira nelle ultime parole, “Paradisi gloria’’, dove l’animo contristato è scosso ad un tratto e sollevato con un quasi soprumano concetto alle dolcezze dell’empireo». Espressione trascinante che forse la cultura del nostro secolo non si consentirebbe più. TESTI TRADUZIONE Stabat Mater Stabat Mater dolorosa iuxta Crucem lacrimosa dum pendebat Filius; cujus animam gementem contristatam et dolentem pertransivit gladius. Stabat Mater Addolorata in pianto la Madre stava presso la croce da cui pendeva il Figlio. Immersa in angoscia mortale geme nell’intimo del cuore come trafitto da spada. O quam tristis et afflicta fuit illa benedicta Mater Unigeniti! Quae moerebat et dolebat, et tremebat, cum videbat Nati poenas inclyti. Quanto è afflitta e triste la benedetta tra le donne, Madre dell’Unigenito. La pia Madre piange e trema contemplando le pene del divino suo Figlio. Quis est homo qui non fleret, Christi Matrem si videret in tanto supplicio? quis non posset contristari piam matrem contemplari dolentem cum Filio? Quale uomo non avrebbe pianto, se avesse visto la Madre di Cristo in tanto supplizio? Chi non si sarebbe rattristato, contemplando la Madre di Cristo in lamenti con il proprio Figlio? Pro peccatis suae gentis vidit Iesum in tormentis et flagellis subditum. Vidit suum dulcem Natum morientem, desolatum, dum emisit spiritum. Ella vide Gesù nei tormenti, sottoposto ai flagelli, per i peccati del suo popolo. Vide il suo dolce Figlio emettere l’ultimo respiro, morendo abbandonato da tutti. Eja, Mater, fons amoris, me sentire vim doloris fac ut tecum lugeam. Fac, ut ardeat cor meum in amando Christum Deum ut sibi complaceam. Suvvia Madre, fonte d’amore, fammi provare la forza del tuo dolore, perché possa piangere con te. Fa’ che il mio cuore si infiammi nell’amore per Cristo Dio, affinché possa a Lui piacere Sancta Mater, istud agas, Crucifixi fige plagas cordi meo valide. Tui nati vulnerati, Santa Madre, imprimi le piaghe del Crocefisso nel mio cuore con forza. Di tuo figlio, trafitto, tam dignati pro me pati, poenas mecum divide. degnatosi di tanto patire per me, dividi con me le pene. Fac me vere tecum flere, Crucifixo condolere, donec ego vixero. Juxta Crucem tecum stare, et me tibi sociare in planctu desidero. Fammi piangere con te, condividere i dolori del Crocefisso, finché vivrò. Stare teco ai piedi della croce, e unirmi a te, nel pianto, questo desidero. Virgo virginum praeclara, mihi iam non sis amara, fac me tecum plangere. Fac ut portem Christi mortem, passionis fac consortem, et plagas recolere. Vergine la più chiara tra tutte non essere sdegnata con me: lascia che pianga insieme a te. Fa’ che anch’io sopporti la morte di Cristo, compagno nel soffrire, e ricordi le piaghe. Fac me plagis vulnerari, Cruce hac inebriari, ob amorem Filii. Inflammatus et accensus per te, Virgo, sim defensus in die judicii. Fammi ferire dalle piaghe, inebriato da questa croce, per amore di tuo Figlio. Infiammato ed acceso, per tua intercessione, Vergine, sia io difeso nel giorno del giudizio. Fac me cruce custodiri, morte Christi praemuniri. confoveri gratia. Quando corpus morietur, fac ut animae donetur Paradisi gloria. Amen. Fa’ che sia protetto dalla croce, fortificato dalla morte di Cristo, riscaldate dalla grazia. Quando il corpo morirà, fa’ che all’anima sia donata la gloria del paradiso. Amen. Elena Ledda Voce tra le più importanti della scena tradizionale sarda e mediterranea, Elena Ledda vanta una carriera ricca di produzioni originali e prestigiose collaborazioni con i più grandi musicisti del panorama musicale nazionale ed internazionale: virtuosi di musica rinascimentale, alfieri della new age e cantadores, dalla world music al jazz. Animatrice della nuova cultura sarda, donna dal buonumore contagioso e di grande temperamento, soprano drammatico dotata di una voce straordinaria, Elena Ledda ha portato in giro, in oltre trent’anni di musica dall’Europa all’America, dall’Africa all’Australia, il suo repertorio che vivifica la memoria del canto tradizionale con una speziata musica popolare, aperto verso i lidi del Mediterraneo. Dopo una impegnativa attività live in Francia e in diversi paesi d’Europa, Africa, e alcune tappe in Giappone e USA, pubblica per l’etichetta francese Silex Incanti, un album denso di suggestioni della tradizione sarda. Con l’album Rosa Resolza (S’ardmusic 2007), un inedito ed emozionante viaggio tra le affascinanti sonorità del Mare Nostrum, inciso insieme all’indimenticato Andrea Parodi, ha vinto il Premio Tenco per la sezione popolare e il Premio Loano. L’album Cantendi a Deus – Elena Ledda, prodotto da S’Ardmusic e Jazz, ha vinto il secondo posto al Premio Tenco 2010 (sezione popolare) e al Premio Loano 2010 e il primo posto al Premio P.I.M.P.I. (Premio Italiano Musica Popolare indipendente) per la miglior produzione tradizionale. Nel 2011 vince il premio EJE 2011 alla carriera insieme alla pianista Rita Marcotulli. Mauro Palmas Compositore, strumentista, ricercatore, Mauro Palmas nasce a Cagliari e inizia la carriera giovanissimo leader del gruppo di ricerca e recupero storico-critico della musica popolare “Nuova Generazione”. Nel 1977 fonda il gruppo Suonofficina che rivolge la sua attenzione alla musica sarda e mediterranea. Il suo interesse si rivolge allo studio dei ritmi del ballo creando una tecnica che gli permette di applicare il linguaggio delle antiche ‘nodas’ delle launeddas sulla mandola. Nel 1979 l’incontro fondamentale con la cantante Elena Ledda con la quale condividerà scelte e progetti che sfoceranno in una intensa e fruttuosa attività concertistica e discografica. Collaboratore di Maria Carta Noa, Mauro Pagani, Paolo Fresu, Andrea Parodi, ma anche di Don Cherry, Lester Bowie, Gavino Murgia, Antonello Salis, Gabriele Mirabassi, Rita Marcotulli, Enrico Rava. Silvano Lobina Silvano Lobina, bassista, cagliaritano, inizia la sua attività in alcune delle band più rappresentative del panorama Rock Blues sardo, con le quali si esibisce nei prestigiosi Festival Internazionali “Jazz in Sardegna” e “Rocce Rosse Blues”, tenendo i concerti di apertura agli show di B.B. King, Tania Maria, Jerry Lee Lewis. Nel 1992 entra a far parte del gruppo “Elena Ledda e Sonos” con il quale partecipa ad altrettanto prestigiosi festival. Nel 1993 si trasferisce a Los Angeles dove frequenta il B.I.T. al Musicians Institute. Tornato definitivamente in Italia, si esibisce nei palcoscenici di tutto il mondo, dalle più piccole realtà alle grandi città italiane ed europee. Marcello Peghin Chitarrista e compositore, è conosciuto e apprezzato nell’ambito della musica colta e della musica improvvisata. Suona la chitarra classica a 10 corde, a 12 corde, chitarra baritono, viola caipira, chitarra elettrica, chitarra folk e i live electronics. Diplomato in chitarra classica, predilige lo studio del repertorio di Johann Sebastian Bach. Ha collaborato, tra gli altri, con Dino Saluzzi, Enrico Rava, Tony Scott, Lester Bowie, Sainko Namtchilak. Condivide la sua intensa attività concertistica con Enzo Favata, Elena Ledda, Mauro Palmas, Gavino Murgia, Riccardo Lay. Simonetta Soro Simonetta Soro, cantante e attrice, ha dedicato le sue energie alla riproposizione della musica antica e al recupero della tradizione popolare; grande attenzione ha riservato alla relazione tra linguaggio poetico e musica. Debutta cantando in prima assoluta mondiale al Teatro Greco di Siracusa le musiche di scena delle Trachinie di Sofocle, composte e dirette da Salvatore Sciarrino. Dal 1999 partecipa a tutte le produzioni teatrali e discografiche dell’Associazione Elenaledda Vox. Svolge attività didattica, privatamente e in corsi pubblici, in qualità di docente di canto tecnica vocale e respirazione. Tiene lezioni-concerto nelle scuole dedicate al patrimonio della musica tradizionale e della musica rinascimentale. Dal 2005 è docente di canto barocco presso il Conservatorio di Cagliari. Laura Polverelli Laura Polverelli è ospite abituale delle più importanti istituzioni musicali italiane ed estere quali il Teatro alla Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, l’Accademia Chigiana di Siena, il Teatro La Fenice, il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro Comunale di Bologna, il Teatro Regio di Torino, il Teatro San Carlo, la Bayerische Staatsoper, il Festival di Glyndebourne, l’Opéra de Lyon, l’Opéra de Montecarlo, il Rossini Opera Festival, il Teatro Réal di Madrid, il Théâtre des Champs Elysées, il Théâtre Royal de la Monnaie, collaborando con alcuni fra i più importati direttori d’orchestra come Claudio Abbado, Riccardo Muti, Zubin Mehta, Jeffrey Tate, Rinaldo Alessandrini, Gary Bertini, Fabio Biondi, Riccardo Chailly, Ottavio Dantone, Sir Colin Davis, Gianluigi Gelmetti, Jésus Lopez-Cobos, René Jacobs, Jean-Claude Malgoire, Andrea Marcon, Carlo Rizzi, Christophe Rousset, Alain Lombard, Gianandrea Noseda. Il suo repertorio comprende specialmente ruoli rossiniani (Cenerentola, Rosina, Isolier, Isabella, Elena) e ruoli mozartiani (Sesto, Idamante, Dorabella, Cherubino, Zerlina), oltre ad essere molto apprezzata nel repertorio barocco (Poppea, Messaggera, Sesto nel Giulio Cesare di Händel). Molto intensa anche la sua attività concertistica che la vede impegnata su un vasto repertorio che spazia da Pergolesi a Caldara, da Bach a Berlioz. La sua discografia comprende registrazioni con le case discografiche FNAC, Auvidis, Teldec, Decca, Virgin, Mondo Musica, Opus 111 e Dynamic. Con l’Accademia Chigiana di Siena ha tra l’altro partecipato alle esecuzioni del Requiem di Mozart, della Nona Sinfonia di Beethoven, alla Cenerentola di Rossini e alle Congiurate di Schubert. Nell’estate 2013 ha riscosso grande successo nella prima esecuzione italiana de La colombe di Gounod alla Settimana Musicale Senese. Quartetto Bernini Il Quartetto Bernini nasce a Roma nel 1998 sulla scia dell’entusiastica spinta di Salvatore Accardo che definisce i suoi componenti (già vincitori del Concorso Internazionale per Quartetto d’Archi di Cremona, del Viotti di Vercelli e del Premio Internazionale Valentino Bucchi di Roma) «...eredi della grande tradizione cameristica italiana». Dopo aver lavorato alla Royal Academy of London con il Quartetto Amadeus e all’Accademia Pro Quartet di Parigi con i Quartetti Alban Berg, La Salle e Tokyo, il Quartetto viene nominato quartetto in residenza presso l’Accademia Filarmonica Romana. Nel 1999 ha l’opportunità di condividere il monumentale progetto dell’integrale beethoveniano, per l’Accademia Filarmonica Romana, con alcuni tra i più importanti quartetti del panorama internazionale: Quartetto Vermeer, Quartetto Emerson, Quartetto Auer. Da allora il Quartetto è invitato nei più importanti festival e nelle più rinomate stagioni concertistiche. Importanti compositori gli hanno dedicato propri lavori; da ricordare le collaborazioni con Matteo D’Amico, Alessandro Sbordoni, Gideon Lewinshon, Steve Reich, Ada Gentile e Pascal Dusapin. Numerose inoltre le collaborazioni con concertisti di fama internazionale. I primi due CD usciti per Universal hanno ricevuto entusiastiche recensioni. Ha effettuato tour in Europa, Giappone, Cina, Nord e Sud America. I membri del Quartetto suonano violini Nicolò Amati, Cremona 1661 e Riccardo Guaraldi, Venezia 2013; viola Giovanni & Francesco Grancino, Milano 1691; violoncello C. A. Testore, Milano 1758. Francesco Pepicelli Ha studiato violoncello con Filippini al Conservatorio di Milano e si è perfezionato con Aldulescu, Baldovino, Brunello, Geringas, Janigro, Palm e Tortelier e per la musica da camera con Canino, Jones e De Rosa. Ha conseguito numerosi premi in concorsi nazionali ed internazionali come solista e con il Duo Pepicelli (Concorso Internazionale V. Gui di Firenze e Concorso Internazionale di Caltanissetta), con il quale svolge intensa attività concertistica in Italia e all’estero. Numerose sono le sue registrazioni discografiche per le case Dynamic, Nuova Era, Camerata Tokyo e Bongiovanni; da segnalare, con il Duo Pepicelli, due CD con l’opera completa di Casella (prima registrazione mondiale) e Martucci. È stata pubblicata dalla Naxos l’opera completa di Busoni e Respighi per violoncello e pianoforte.