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ORLANDO SCULLI
CATARSI
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Prefazione
Per consentire ad eventuali lettori l’interpretazione corretta
del presente lavoro, si avverte che le vicende d’Italia, dalla Spedizione dei Mille all’attualità, sono presentate sotto l’aspetto di un saggio
romanzato che non toglie veridicità a ciò che viene raccontato, in
quanto buona parte dei fatti viene proposta in seguito ad una ricerca
attenta.
L‘espediente di ricorrere alla forma letteraria del romanzo
discende dal desiderio di rendere gli avvenimenti presentati meno
noiosi e più vivi.
Certamente viene rivista in chiave revisionista l’avventura
dei Mille che furono salvaguardati dallo sbarco in Sicilia in poi da
unità da guerra degli inglesi, presenti a Marsala e a Palermo. Costoro
li approvvigionarono di armi, li sorressero con numerosi mercenari e
consegnarono a Garibaldi una cassa di piastre d’oro elargita dal governo turco, determinando essi la distruzione del Regno delle Due
Sicilie, prospero e in fase di uno sviluppo crescente, con un prodotto
interno lordo quasi doppio di quello del Regno di Sardegna, indebitato a causa delle guerre contro l’ Austria.
Viene evidenziato il trafugamento di enormi tesori in oro e in
argento, rubati da Garibaldi al Banco del Regno delle Due Sicilie, sia
a Palermo che a Napoli e alla zecca dello stato borbonico, che, consegnati in buona parte ai piemontesi, furono utilizzati per alleggerire
il deficit dello Stato unitario ed investiti per creare infrastrutture
nell’area del futuro triangolo industriale.
Si ripropone il tema del fenomeno del brigantaggio postunitario inteso non come assieme di azioni criminali, ma come tentativo
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disperato della popolazione dell'ex Regno delle Due Sicilie di liberare la propria terra dagli occupanti e prevaricatori piemontesi.
In questa guerra che si concluse nel 1870 (ancora non indagata perché i dati di essa, dettagliati per territorio, sono sepolti negli
archivi militari) prese parte inizialmente tutta la parte continentale
dell’ex regno del sud, e nel 1866, dal l5 al 22 settembre, la Sicilia offrì il suo tributo di sangue con la rivolta di Palermo soffocata da
40.000 soldati all’ordine di Raffaele Cadorna.
Viene indagato il fenomeno mafioso, inteso come strumento
di oppressione dei ceti popolari e progressisti dall’esordio, con la
“picciotteria" di Pilo passando poi alla sua utilizzazione con Giolitti
e alla sua affermazione totalizzante a partire dal secondo dopoguerra.
Al periodo fascista, già adeguatamente indagato, si fa soltanto qualche accenno mentre viene sottoposta a revisione la figura di
De Gasperi sotto i cui governi furono gettate le basi per la rifondazione in grande stile del potere mafioso in Sicilia ed in Calabria, percepito come baluardo efficace contro il comunismo.
Non per nulla il suo delfino Giulio Andreotti, ricalcò le sue
orme almeno “fino agli anni 80”.
In conclusione dall‘inizio della sua costituzione ai giorni nostri, il filo nero dell’intrigo ha caratterizzato la storia d’Italia.
Orlando Sculli
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L’andragatìa si schiera politicamente
– Non posso venire, ma posso darti delle indicazioni per
trovare il posto. Del resto tu conosci la zona in quanto da quelle parti ci vai spesso per la ricerca sui vitigni antichi. Tutto il
territorio offre degli indizi importanti su insediamenti del passato. Sul Precariti, ad esempio, a ridosso degli argini non lontano dalla casa dei miei nonni di recente sono venuti fuori delle
tombe, forse romane, del II secolo a.C. Il manufatto di cui ti
accennavo è in contrada Castello e lo troverai in quanto è vicino ad un traliccio dell’alta tensione. Arrivato al traliccio, guarda verso il mare ed in modo perpendicolare percorri trenta passi. Mantenendo la stessa distanza da esso gira intorno. Prima di
completare il cerchio ti imbatterai nel manufatto. Esso è costituito da un basamento di massi squadrati, non legati tra loro da
malta e questo fa supporre che vi sorgeva qualcosa
d’imponente in periodo ellenico. Secondo il mio punto di vista
si sarà trattato di un tempio. Ciò che resta assume le sembianti
di un rettangolo, orientato verso est, che nel caso, significa verso il mare. È’ intatto il lato minore, rivolto ad oriente e misura
circa 10 metri. Il sito è stato saccheggiato e ciò è evidenziato
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da un casolare rurale, che sorge vicino, costituito da blocchi
analoghi.
La solita leggenda popolare indica che nei pressi dei
resti del “palazzo” è sepolto un tesoro e tocca ad una ragazza
trovarlo. Ella si deve recare completamente nuda, in una notte
di plenilunio sul posto e sdraiarsi supina ed immobile sulla
piattaforma di massi. Arriverà dagli abissi, un serpente immane, giallo, percorso da una striscia rossa sul dorso che comincerà prima a girarle intorno lentamente, poi a lambire con la
lingua, ogni parte del suo corpo. Se la ragazza avrà la forza di
non urlare e non sarà vinta dal terrore, la piattaforma si aprirà ed apparirà un vano sotterraneo illuminato da torce. Alla
vista si mostrerà un mucchio di oro scintillante e di pietre preziose irradianti riflessi di luce. Da quel momento in poi ella sarà padrona del tesoro, da cui potrà attingere a piccole quantità, per tutta la vita. Una scalinata sinuosa la condurrà
nell’ipogeo e la stessa la riporterà in superficie sulla piattaforma, che si chiuderà appena ella avrà poggiato i piedi. –
–Ti è piaciuta la leggenda? –
–Sì, ogni posto propone qualcosa di analogo, ma questa
ricorda chiaramente temi classici o comunque tematiche del
Mediterraneo antico, per via della presenza del serpente, simbolo della fertilità e quindi della donna. In questo caso però esso ha un atteggiamento maschile, in quanto circuisce la ragazza. Altre indicazioni potrei averle per raggiungere il posto? –
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– Devi raggiungere contrada Fiorenza e dal piazzale
dove sorge la casa del tuo amico, guardando a nord, scorgerai il
traliccio. Ti saluto “dono di Iside”, ma comprati un cellulare,
tanto prima o dopo devi cedere alle lusinghe del “nuovo che
avanza”. Del resto è utile a te e ai tuoi, che si preoccupano
quando non ti vedono arrivare prima del buio. –
Maria si allontanò velocemente ed Isidoro si avvicinò al
banco ed ordinò un cappuccino. Dopo pochi minuti si ritrovò a
costeggiare con la sua vecchia Panda, la riva sinistra
dell’Allaro in direzione delle montagne.
Come al solito, superato il ponte per Caulonia Superiore, ammirò le formazioni collinari tondeggianti, di conglomerato naturale, che gli ricordavano tanto le meteore della Tessaglia. Seguendo le indicazioni si fermò in uno spiazzo in contrada Fiorenza da cui scrutò verso nord ed il traliccio gli apparve
di fronte. Continuò ancora e lasciando la provinciale, prese a
destra una sterrata, raggiungendo contrada Palazzo. Le ultime
piogge avevano danneggiato la pista e fu obbligato a procedere
con cautela, raggiungendo un pianoro poco distante.
Si fermò e prese con sé un borsone contenente una digitale, un affilatissimo coltello da tasca, privato della punta, un
grosso cacciavite, una tenaglia, una corda; prese ancora un orologio da polso e un binocolo agli infrarossi. Ambedue portavano le sigle di appartenenza all’Armata Rossa; li aveva comprati
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agli inizi degli anni 90 presso una bancarella allestita, davanti
alla sua scuola, da polacchi frammisti a ucraini, per 600.000 lire. L’orologio lo portava sempre con sé come portafortuna,
mentre l’altro oggetto solo raramente e quando pensava di fare
delle escursioni in aree impervie.
I binocoli agli infrarossi erano diventati per lui
un’ossessione da quando ne aveva sentito parlare, pochi giorni
dopo la “guerra dei sei giorni”, quando Moshe Dayan li aveva
fatti usare, per far avanzare di notte le sue colonne corazzate
nel Sinai. Si era augurato sempre di averne uno, perché sarebbe
stato utilissimo in molti casi. Infatti quando lo ebbe fra le mani
lo usò per sperimentarne il funzionamento la notte stessa, guardando da lontano due persone che fumando parlavano fra di loro.
In seguito, dopo la crisi dei partiti a causa di Tangentopoli, avendo avuto sentore, scrutò da debita distanza, in una radura fra i boschi, una riunione notturna che credeva fosse di
‘ndranghita. Seduti attorno ad un piccolo falò, una cinquantina
di persone confabulavano. Egli si era recato sul posto dopo il
tramonto e si era appostato in un anfratto roccioso, posto in posizione dominante sopra la radura. Verso le 20 arrivarono cinque uomini; due con una mitraglietta a tracolla si allontanarono
subito, gli altri tre accesero il fuoco e attorno ad esso predisposero delle pietre, da usare come sedili. Guardandoli con il binocolo non li riconobbe, neppure uno dei due delle mitragliette,
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che posizionato su un’altura, ebbe modo di osservare lungamente; egli era una delle vedette della ‘ndranghita.
Esattamente alle 21,30 cominciò ad arrivare il resto della compagnia alla spicciolata. Man mano che giungevano si riconoscevano e si baciavano in maniera rituale e tutti quanti tributavano un ossequio maggiore nei riguardi di due personaggi
che superavano la settantina. Uno era piccolo e tarchiato,
ugualmente piccolo ma più magro l’altro; erano personaggi di
prestigio del “locale” ospitante. Ad un certo punto, seguiti da
un piccolo codazzo, arrivarono anche due signori, vestiti distintamente, che dopo aver subito malvolentieri i baci rituali, si sedettero al pari degli altri sulle pietre.
Finiti i convenevoli, calò completamente il silenzio e
quasi al centro, a ridosso del falò prese la parola uno dei due
signori distinti. Isidoro lo puntò con il suo binocolo agli infrarossi e avrebbe preferito imbracciare un fucile di precisione,
per piantargli in testa una pallottola, quando capì chi fosse.
In effetti rappresentava la continuità del partito cattolico
in Sud Italia, che specialmente nelle competizioni politiche
chiedeva la collaborazione della criminalità organizzata.
– Signori, esordì, il momento è tragico. Ancora, ed è la
seconda volta che accade in meno di cinquant’anni, l’Italia corre il rischio di cadere nelle mani dei comunisti. Il 18 aprile del
1948 tutte le forze democratiche, comprese le vostre, risposero
in modo corale alla tracotanza rossa, che venne annientata. Ora
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si ripropone lo stesso pericolo e siamo qui, in questo luogo di
pace, ad avvisarvi dei rischi che corriamo. Per voi il rischio è
maggiore, in quanto nel programma dei nostri comuni nemici,
c’è particolare attenzione ai vostri patrimoni, accresciuti con
tanta fatica e sacrifici, che in prospettiva saranno confiscati, ripeto con-fi-sca-ti, che significa requisiti, presi, rubati ed assegnati al patrimonio dello Stato. Corre per noi tutti, ossia si sacrifica in prima persona un personaggio che in prospettiva non
attenterà alle casse dello Stato, perché è ricco del suo. Contrariamente a dei politici spiantati, all’inizio della loro carriera,
che si sono ritrovati ricchi in seguito, egli rischia il suo patrimonio, accumulato in una vita di estenuante lavoro, per il bene
comune di tutti gli italiani. Sono qui con voi perché il futuro è
incerto e denso di pericoli. Ognuno di voi deve centuplicare le
proprie forze, coinvolgendo in questa crociata parenti ed amici,
vicini e lontani. L’ora è difficile e si aspetta da ciascuno di voi
la piena collaborazione. –
Gli astanti ascoltavano senza fiatare e rimasero ammutoliti anche dopo che l’oratore, deputato al parlamento dagli
inizi degli anni 60, cessò di parlare. La luna splendeva alta nel
cielo ed illuminava quasi a giorno la radura, mentre in lontananza, emettevano il loro verso alternativamente degli assioli.
A questo punto ruppe il silenzio il secondo oratore, al suo secondo mandato parlamentare, di tendenza socialista, che continuò sulla falsariga del primo.
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– Amici, vi parla uno che conosce il livore dei comunisti, per averli praticati a lungo. Vi posso garantire che sono assetati di potere e pieni di odio contro tutti quelli che non si
identificano con le loro idee. Essi considerano illegale e quindi
da tassare fortemente, qualsiasi guadagno che non derivi dalle
fabbriche del Nord, dalle loro cooperative, dai lavori statali e
da quelli artigianali. Essi sono talmente miopi che considerano
il vostro spirito imprenditoriale ed il vostro associazionismo,
come criminalità, come venale consorteria che succhia il sangue alla società. So per certo che la vostra intelligenza, vi guiderà ancora una volta a scegliere per il bene della nazione ed in
particolare della nostra terra e della nostra gente. Molti di voi
mi conoscono per le lotte che ho portato avanti a favore della
classe operaia in generale e per i lavoratori forestali in particolare. Vi posso solo assicurare che con il vostro contributo, ancora una volta la sinistra sarà battuta. –
Il discorso questa volta produsse dei brusii ed un fitto e
sommesso scambio di opinioni tra i convenuti e ad un certo
punto, prese la parola un uomo sulla quarantina, dai modi spicci e dalla corporatura robusta, con i capelli ben curati e ben vestito.
– I nostri rappresentanti al parlamento ci chiedono, come al solito, l’aiuto che serve loro, in un momento così difficile
per la classe politica tutta, a mantenere i loro privilegi, a prescindere dalle parole di circostanza che indicano un indistinto
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bene comune. Noi invece tutti chiediamo atti concreti e promesse chiare, che starà a noi in futuro far mantenere. Vi ricordo che le nostre ampie possibilità, anche sul piano economico,
derivano da enormi sacrifici di sangue che hanno toccato e
marginalmente ancora toccano le nostre famiglie. A prescindere dalle chiacchiere, cosa avremmo noi in cambio? Chi garantisce per noi? –
– Avrete tutto, perché è una garanzia, per voi e per noi,
l’uomo che scende in campo; è ambizioso, venale, che pensa
solo in termini di guadagno e di potere e che già è entrato in relazione da anni con i vostri amici siciliani, da cui all’inizio ha
avuto dei problemi e da cui invece ora ha lauti finanziamenti,
con guadagni reciproci. In aggiunta, ha numerose grane con la
giustizia e questo lo predispone naturalmente in atteggiamenti e
modi di pensare consimili ai vostri. –
La risposta fu del deputato cattolico, navigatore di lungo corso nel mare del malaffare e degli interessi particolari ed
il suo discorso convinse quasi tutti i presenti. Lo stesso personaggio di prima, ben vestito ed aitante prese l’iniziativa di sondare i rappresentanti delle “famiglie” presenti nell’adunanza,
che risposero positivamente, alla richiesta di appoggio politico
dei due deputati.
Stettero impassibili e muti i fratelli Belfiore che con il loro silenzio però, provocarono l’intervento del deputato cattolico.
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– Don Peppino, mi sbaglio o voi non avete espresso il
vostro assenso oppure la contrarietà a riguardo? Dato il vostro
prestigio e dal momento che noi tutti siamo ospiti del vostro
sacro “locale”, saremmo onorati nel sentirvi parlare. –
– Ed io vi accontento onorevole ricordandovi, che il vostro 18 aprile del 1948, fu preceduto da una nostra adunanza,
che coinvolse tutte le “famiglie” della Jonica, della Piana e di
Reggio città. In quell’occasione vostro padre intervenne ad invitarci a scendere in campo, in qualità di candidato al parlamento del partito cattolico che avrebbe stravinto le elezioni, a
favore del suo schieramento. Erano presenti anche rappresentanti della chiesa, che ovviamente erano contro lo schieramento
di sinistra e che da lì a poco tirarono dai luoghi di culto le statue dei santi, tra cui quella della Madonna di Polsi, che presero
parte attivamente e freneticamente alla campagna elettorale,
trasportate senza posa su carri trainati da buoi, o a spalla, da un
paese all’altro. Aggiungo che vostro padre precedentemente
aveva aderito al partito fascista su sollecitazione di vostro nonno che era stato deputato monarchico, che inoltre era stato molto attivo nel battersi contro la rivendicazione delle comunità
locali delle terre, prima demaniali, usurpate dai baroni appena
arrivarono i piemontesi portati da Garibaldi.Siamo inoltre non
lontani dai luoghi che vissero le prime tragedie, nella zona, derivanti dal male portato dai “patrioti e liberatori” del nord. Infatti mi raccontava mio nonno che egli era nato il giorno della
distruzione del convento del Santissimo Crocefisso di Bianco,
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per opera dei bersaglieri piemontesi, comandati dal maggiore
Rossi. Il generale spagnolo Josè Borjes con 22 ufficiali era stato ospitato nel luogo di culto, la notte del 14 settembre 1861
dall’abate; egli era sbarcato la sera del 13 su una spiaggia di
Brancaleone. Essi intendevano aiutare il popolo che si stava ribellando contro gli invasori. Il mattino del 15 l’ufficiale partì
alla volta di Cirella dove s’incontrò con Ferdinando Mittica di
Platì che comandava 120 uomini, con cui cominciò a collaborare. Nel frattempo il Convento del Crocefisso era stato stato incendiato, padre Samuele, al secolo Vincenzo Mercuri di Siderno era stato ucciso e più di 10 innocenti furono fucilati a S.
Agata. L’azione d’incendiare quel luogo di culto fu, oltre che
un sacrilegio, un affronto alla nostra storia,di cui sono diventato appassionato,da quando ho imparato a leggere. Infatti esso
fu edificato e dedicato al Santissimo Crocefisso, come pure le
chiese e i monasteri consacrati al Rosario e a Santa Maria della
Vittoria, in segno di ringraziamento per il trionfo ottenuto a
Lepanto contro i turchi, il 7 ottobre 1571, da parte dei cristiani.
Ebbene, nonostante nessun libro di storia evidenzi ciò, in quella memorabile battaglia, i combattenti calabresi si esposero più
di tutti con sprezzo del pericolo e sacrificandosi nella massima
parte. Infatti su cinquemila caduti cristiani, ben duemila furono
calabresi; il 40% del totale e su 28.000 combattenti complessivi. –
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– Dove volete arrivare, don Peppino con queste argomentazioni? Vi prego di concludere perché gli amici qui presenti non hanno tempo da perdere in chiacchiere. –
– Di chiacchiere voi siete impastato, mentre io non ne
ho mai fatto. –
– Siete irriverente ed ingrato nello stesso tempo. Comunque sia vi prego di concludere. – E cercherò di concludere, non prima di rappresentare
le mie idee. –
– E fatelo vi prego. –
– Dunque guardatemi in faccia e noterete che ho una cicatrice sotto l’occhio destro. Era il 21 settembre del 1922, avevo dieci anni, quindi mi ricordo chiaramente l’accaduto, quando mia madre volle risolutamente accompagnare mio padre che
assieme a centinaia di persone si recava a difendere la foresta
di Callistro nel comune di Casignana. Essa era costituita da 400
ettari di buona terra lambita dalla fiumara Bonamico, che era
stata di proprietà comunale, dove i cittadini avevano diritto di
pascolo e di seminare il grano. Dopo l’arrivo dei piemontesi, i
Carafa, fregiati dei titoli di principi di Roccella, marchesi di
Castelvetere, duchi di Bruzzano usurparono la foresta di Callistro ed altri beni demaniali o della chiesa, ubicati in vari comuni, da Brancaleone a Caulonia… Prima dell’avvento del fascismo socialisti veri, come il farmacista Sculli di Ferruzzano, il
dott. De Angelis di Brancaleone e l’Ing. Misefari di Palizzi,
crearono dei movimenti di lotta nella Locride meridionale che
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portarono all’occupazione delle terre abbandonate, ch’erano
appartenute alle comunità locali. Nacquero ovunque delle cooperative e mio padre aderì a quella denominata Garibaldi, che
quotizzò i 400 ettari della foresta Callistro ed assegnò dei lotti
a 170 famiglie senza terra, i cui componenti erano stati combattenti, in buona parte, nella prima guerra mondiale e a cui erano
state promesse le terre incolte dei feudi costituiti da terreni
usurpati. Mio padre era stato uno degli assegnatari e quando
un’ordinanza del prefetto di Reggio, intimò la restituzione delle
terre ormai bonificate, ai principi Carafa, i lavoratori si avviarono a presidiarle. Circa 300 persone, tra cui molte donne ne
tentarono la difesa, ma una squadriglia di carabinieri, costituita
da 20 elementi, sorretti da fascisti locali, li attaccò e sparò loro
addosso 101 colpi di pistola e moschetto. Furono uccisi Micchia Pasquale, Panetta Girolamo, Micò Rosario,mentre numerosi furono i feriti. Mio padre fu ferito di striscio ad una tempia e quando mia madre lo vide insanguinato mi lasciò urlando
per soccorrerlo ed io travolto dalla ressa, caddi per terra ed una
spina di perastro mi si conficcò in volto e d’allora porto il segno. –
Restarono tutti con il fiato sospeso ed i versi alternati
degli assioli ancor di più risultavano evidenziati.
– Spero che abbiate finito, don Peppino, così ognuno di
noi potrà tornare a casa. A me in particolare toccherà una lunga
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notte di viaggio, perché domattina alle otto a Roma, saremo in
riunione tutti i coordinatori del movimento. –
– Onorevole, lei è sempre libero d’andarsene, tanto nessuno lo tratterrà. –
– Ah no, debbo comunicare le risultanze di questa assemblea. –
E senza replicare riprese don Peppino.
- Da quel momento crebbi alimentato, oltre che da qualche tozzo di pane duro, dall’odio nei riguardi dei boriosi proprietari terrieri, talvolta piccoli, poco più che pezzenti, protetti
dal regime fascista,che s’impadronì del potere da lì a poco e
che ci diede come compagna fedele la fame più nera ed il
piombo dei carabinieri. I possessori di terre ,dopo la marcia su
Roma, divennero più rapaci di prima e ci costrinsero ad un lavoro senza fine,da luce a luce,in cambio di qualche spicciolo e
di un tozzo di pane duro. Le ragazze povere furono in balìa dei
datori di lavoro e le più belle furono le più sfortunate, in quanto
non sfuggirono alla violenza sessuale ed aumentò vertiginosamente il numero delle ragazze-madri e quello delle nascite
illegittime. Furono chiuse le porte dell’emigrazione verso
l’estero e difficilmente si poteva emigrare verso le parti più fortunate dell’Italia. Alcuni, per sfuggire alla fame, raggiunsero la
Corsica e si arruolarono nella Legione Straniera. Il tempo passò
e l’Italia fascista, con leggerezza si avviò alla catastrofe della
seconda guerra mondiale, che determinò la fine del regime ed
una nuova speranza di vita. Il dopoguerra fu durissimo e solo
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l’emigrazione verso l’America e l’Australia diede requie alla
fame, ma contemporaneamente le migliori risorse umane lasciarono la Calabria, senza far più ritorno. Dopo il 18 aprile le
forze più fameliche e corrotte s’impadronirono del partito cattolico e della ‘ndranghita, che fu stravolta. I vecchi costumi,
che talvolta erano stati un punto di riferimento per i deboli, furono abbandonati e l’andragatìa, che significa associazione di
uomini virtuosi ed onesti, venne snaturata e si pensò al guadagno facile ad ogni costo. Io personalmente, assieme a pochi altri in verità, votai sempre il partito comunista e mi vanto di
aver “spogliato” nel mio “locale”, decine e decine di “uomini”
che militavano nel partito del qui presente onorevole. Questo
fino a quando, per la prima ed unica volta, convinto da un prete, votai il partito cattolico. E la notte mi venne in sogno mio
padre, morto da qualche anno, che era stato anche il segretario
della sezione del partito comunista. Mi apparve qual era prima
che morisse, magro, ma alto, con la barba bianca e lunga, che
piangeva lacrime di sangue, che gli gocciolavano sulla camicia
bianca di tela grezza e sui pantaloni neri di orbace. Le braccia
invece ce le aveva penzoloni prive di mani e con i moncherini,
singhiozzando, mi abbracciò. Urlai di dolore nel vederlo e gli
chiesi cosa gli fosse capitato. –
– Figlio mio da quando hai poggiato le tue mani sulle
schede del partito cattolico, le mie, hanno cominciato a puzzare
di merda e nonostante le lavassi, esse continuavano a mandare
cattivo odore. Allora presi una scure, poggiai la sinistra su un
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ceppo e con la destra la tagliai. Il dolore fu indescrivibile, ma la
puzza cessò da quella parte, mentre per la mano destra invitai
tua madre a farlo, che piangendo esaudì la mia preghiera. E la
puzza passò. Finito il discorso cominciò a lanciare un urlo infinito di dolore ed io mi svegliai di soprassalto. D’allora in poi
pentito ed amareggiato, non votai più il partito che mio padre
aveva combattuto. –
L’adunanza ascoltava in religioso silenzio e l’oratore
continuava.
– Arrivarono gli anni 70 e “uomini” della “nostra società” cominciarono a funestare la Calabria e l’Italia intiera con i
sequestri di persona. Io assieme a mio fratello Antonio, unitamente al mio dolcissimo amico, Antonio Macrì di Siderno ci
battemmo contro questa infamia, argomentando che gli uomini
delle forze dell’ordine vengono definiti sbirri, perché privano i
cittadini della libertà. Pertanto concludevamo asserendo che
tutti coloro che avrebbero privato gli altri della libertà, senza
essere istituzionalmente preposti a farlo, sarebbero diventati,
cento e mille volte sbirri. Fummo messi in minoranza ed Antonio Macrì fece la fine, che tutti conosciamo, mentre io venni
infangato con la diceria di aver guidato i sequestri di persona,
su cui lucravano specialmente certe società finanziarie
dell’Alta Italia, che investivano i capitali in operazioni immobiliari, offendo tassi d’interesse di quattro, cinque punti più alti
rispetto all’inflazione corrente. Passò del tempo e finita la sta-
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gione dei sequestri, sorretta talvolta individualmente da uomini
dell’apparato dello Stato, vedi il caso di qualche alto ufficiale
dei carabinieri ed il sequestro Soffiantini, iniziò quello del traffico internazionale di droga, ancora più pericoloso e più negativo per la società, in quanto le sostanze stupefacenti uccidono
e costringono coloro che ne fanno uso alle umiliazioni più degradanti e alla schiavitù prima della morte. Io assieme ad altri
uomini di buona volontà avvisammo che sarebbe stata stravolta
anche la nostra terra, ma ancora una volta fummo messi in minoranza. Ricordammo all’epoca che un fiume di sangue era stato versato per il fenomeno dei sequestri e qualcosa di analogo
sarebbe capitato per la droga. In aggiunta a tutto ciò, da qualche tempo si sta materializzando un pericolo ancora più grave,
costituito dal traffico dei rifiuti tossici, se non addirittura radioattivi. Nell’area che va da Locri fino a Melito, dalla costa
alla montagna, in tutte le comunità diviene sempre più alta
l’incidenza di morte per cancro, che in alcune aree è la prima
causa di decesso. I nostri uomini stanno permettendo tutto ciò,
non pensando al futuro dei figli e delle generazioni che verranno. Ancora vi dico che il mio reddito deriva dal lavoro e che
considero un senso di distinzione, avere le mani callose, come
quando con mio padre andavo a zappare la terra degli altri. Ancora adesso non sono ricco, assieme ai miei figli e mi premuro
di evidenziare la mia onestà e la mia onorabilità, basate su
principi sani. In riferimento a questo personaggio che dice di
scendere in campo contro i comunisti, che non esistono più
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neanche in Cina, mi sono fatto fare uno studio dal figlio del
buon’anima del mio nipote Giuseppe. Egli ha studiato in un
college inglese e si è laureato in Economia alla Bocconi, sta
seguendo un corso di specializzazione, che chiamano master,
non so in quale università straniera. Dalle sue ricerche risulta
che le ricchezze di costui sono misteriose e che derivano principalmente da truffe, da enormi capitali messi a sua disposizione dagli amici siciliani, da noialtri calabresi, dai napoletani. È
capace di tutto, non ha moralità, non ha scrupoli e tra le collaboratrici si sceglie le puttane d’alto bordo e come aiutanti di
campo, i sacchi di merda più puzzolenti d’Italia. Avete scelto
all’unanimità di appoggiarlo e prego Dio che ce la mandi buona. Riguardo agli onorevoli presenti non mi meraviglio di quello cattolico, in quanto segue il suo corso naturale, di lecchino e
di servo dei corrotti, quanto a quello socialista, a cui ricordo
che io assieme a suo padre e a suo zio prima del 18 aprile del
48, nella riunione tenuta in montagna, c’eravamo battuti ferocemente contro l’appoggio al partito cattolico e fummo messi
in minoranza. Questa notte, dopo aver assolto la funzione di
coordinare l’adunanza, nel “locale” più sacro della Calabria,
saluto tutti i partecipanti e li invito a ritornare in pace ed in serenità alle proprie case. Buona notte. –
Don Peppino si allontanò velocemente assieme a suo
fratello Antonio e salutò solo con cenni quelli che avrebbero
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voluto baciarlo in modo rituale e si rifiutò di stringere la mano
ai due onorevoli.
Per precauzione Isidoro volle aspettare fino ai primi
barlumi dell’aurora, e dato che faceva molto freddo, stava accucciato nella buca con il capo coperto da un passamontagna di
lana.
Quando le stelle cominciarono a svanire quasi del tutto,
solo allora raggiunse la sua macchina seminascosta a circa due
chilometri dal luogo della riunione.
Nei primissimi giorni della primavera di quell’anno si
votò e i capi della ‘ndrànghita dopo alcuni giorni, in una elegante sala di un albergo della costa, brindarono con champagne
di qualità superiore.
Ricerca archeologica ed individuazione
di un capro espiatorio
Isidoro pensava a questo, ma smise di farlo quando
camminando tra le erbacce e i cespugli intravide una parte di
un basamento costituito di grandi massi squadrati. Cominciò
allora la perlustrazione metro per metro e si accorse che esso
poteva essere appartenuto ad un tempio greco.
Notò che i massi laterali erano tenuti ai bordi da grappe metalliche e progredendo con attenzione, seguì il circuito esterno ed
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alla fine concluse che il basamento poteva misurare all’incirca
dieci metri per venti. Il lato corto era orientato verso il mare,
che in quel caso rappresentava l’est. Verso sud-est in direzione
di Ursini notò una torre di avvistamento arretrata, costituita da
massi più piccoli asportati dal tempio e contemporaneamente, a
poca distanza da essa si avvide che la base dei muri perimetrali
di un manufatto rurale, di notevole grandezza, era costituita dai
nobili materiali di risulta rubati al tempio.
Cominciò a pensare per cercare di capire a quale divinità greca fosse stato dedicato il tempio che sorgeva in una collina dominante, non molto distante dalla montagna, in un territorio appartenuto all’antica Kaulon.
A questo punto si ricordò di aver letto da qualche parte,
che le colonie italiote nel quarto secolo a.C., in un tentativo disperato di sopravvivenza, si erano federate ed avevano costituito un fronte comune contro i tiranni di Siracusa, Dionisio il
Vecchio e Dionisio il Giovane. Il primo infatti aveva portato
avanti un progetto egemonico che prevedeva la sottomissione
sia delle colonie greche di Sicilia che di quelle dell’Italia, che
corrispondeva all’attuale Calabria. Tale suo sogno provocò la
rovina totale dei greci e le sue operazioni militari folli, portarono al massacro delle popolazioni delle più importanti colonie
greche d’Occidente. Il suo operato spianò la strada ai cartaginesi in Sicilia e ai bretti e poi ai romani nell’attuale Calabria.
In quel funesto periodo le colonie italiote, in pace obbligata tra loro, fondarono il tempio di Zeus Omarion, simbolo
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di armonia e fratellanza tra le colonie achee d’Italia e molti
propendono a pensare che sorgesse sullo Zomaro, che deriverebbe il nome dal tempio suddetto e che fosse situato nel territorio di Locri. Si potrebbe ipotizzare invece che le vestigia di
contrada Palazzo, si riferiscono al tempio di Zeus Omarion.
Osservando attentamente seguì il tracciato del lato nord,
che era posto a meno di quattro metri da uno strapiombo alto
circa 40 metri quasi in verticale, che metteva a nudo degli appicchi rocciosi d’arenaria. Esso nella parte superiore era dotato,
per lungo tratto da una serie di grossi lecci che erano nati su
fenditure della parete a poco più di tre metri dall’orlo ed erano
cresciuti in modo leggermente divaricato da esso, forniti di
numerosi grossi rami. Con precauzione si affacciò sul vuoto e
notò che alla base del precipizio cresceva una folta macchia
mediterranea e che vi correva un sentiero forse tracciato e percorso da capre. Mentre era intento a quest’osservazione si accorse che da qualche buca sulla parete cominciarono a sfrecciare dei grossi uccelli, forse gheppi; ne contò cinque e questo lo
incuriosì dal momento che essi sono diventati ormai abbastanza
rari.
Da ragazzino aveva avuto in dono, da un amico più
giovane di lui di un anno, un gheppio implume e l’aveva allevato nutrendolo di cicale, grilli e lucertole. Le cicale ingoiate
vive per qualche secondo emettevano il loro verso nello stomaco degli uccelli e ciò divertiva molto i monelli, che solevano
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privilegiare come alimento per i loro volatili grilli che cacciavano nelle stoppie, catturati o feriti con l’ausilio di grosse verghe e le lucertole prese con il cappio d’avena.
Volle capire da dove fossero usciti ed allora si mise a
camminare sull’orlo del precipizio alla ricerca di un passaggio
che gli permettesse di scendere sotto. Camminò per circa trecento metri, quando si accorse che esso si abbassava e
s’interrompeva in un pianoro che raggiunse; a poco più di due
metri da terra si notava una grossa buca sulla parete, a forma
rettangolare, che a giudicare dal buio che s’intravedeva, era
funzionale a qualche profonda grotta. Notava però che
l’accesso artificiale era sovrastato da una fenditura, che rimpiccioliva verso l’alto, fino a scomparire. Si allontanò e da un piccolo rilievo antistante puntò il binocolo e scrutò verso la grossa
buca. Essa non serviva, da quello che poteva dedurre, una grotta, ma era l’accesso ad un camminamento naturale che si addentrava da qualche parte.
Trovò il sentiero delle capre e cominciò a percorrerlo;
esso non si discostava mai dalla base dove era più facile camminarvi. Dopo pochi minuti si trovò sotto il dirupo, in direzione del basamento del tempio e notò in alto, posizionata al centro di due lecci un’apertura a forma ellittica. Puntò il binocolo e
calcolò che essa potesse essere lunga ottanta centimetri circa e
larga sessanta. La base di essa era un po’ sopra quella dei due
tronchi, che erano cresciuti, allo stesso livello, da due spaccature degli appicchi rocciosi. Ancora con il binocolo cercò di scru-
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tare dentro l’apertura, ma fu necessario allontanarsi dalla base
per migliorare l’osservazione. Per fortuna l’area era pianeggiante ed era ricca di lecci e grosse querce, delimitata verso
nord da un’altra parete rocciosa, sotto cui cresceva un cerro alto più di quindici metri, molto ramificato. Riuscì a salire fino a
metà dell’albero e da tale posizione puntò di nuovo il binocolo.
Attraverso l’apertura della parete poté constatare che sotto il
tempio esisteva una grotta, quasi sicuramente artificiale.
Continuò ad osservare la parete e a circa 6 – 7 metri
dalla prima, verso est, notò un’altra apertura dalla stessa foggia, ma più piccola.
Si sentiva felice per la fortuna che aveva avuto di imbattersi in un manufatto così straordinario, che evidenziava la
forte penetrazione culturale ellenica anche nell’entroterra.
Ritornò indietro ed arrivato di nuovo sul manufatto si sporse
sul ciglio del precipizio per cercare di capire il modo di entrare
dentro la grotta, che poteva riservare grandi sorprese. Studiò i
tronchi dei lecci posti un po’ sotto il livello dell’apertura, distanti tra di loro circa 2 metri. Essi, essendo leggermente divaricati rispetto alla parete, avrebbero potuto accogliere una trave
che sarebbe rimasta incastrata e che poteva diventare una base
di appoggio per chi avesse voluto calarsi dall’alto ed entrare
nella cavità sottostante. Era necessaria una scure, perché si sarebbe trovato sul posto il materiale necessario.
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Mancando l’attrezzo Isidoro pensò di rientrare a casa,
ma si ripropose di ritornare con tutto quello che poteva servire
per l’esplorazione.
La primavera avanzava con gli effetti straordinari dei
colori offerti da numerose varietà di fiori, con il verde ancora
intensissimo per via delle ricorrenti piogge. Le fiumare, di solito scarse d’acqua in quel periodo, manifestavano una ricchezza
inusuale.
Arrivò alla marina e al solito bar, seduta in compagnia
di un’amica, intravide Maria che consumava un caffè.
Accostò al marciapiede più vicino e si avvicinò alle ragazze che manifestarono l’intento di offrirgli qualcosa da bere.
Egli pretese invece di pagare la loro consumazione ed ordinò
un cappuccino nonostante fossero le quattordici passate.
– Com’è andata? - Iniziò Maria. –
– Insomma non male. Infatti ho individuato in contrada
Palazzo, il manufatto di cui mi parlavi. –
– Sono contenta per te. Senti, dato che tu vai alla ricerca
di fiabe popolari del territorio, mi son fatto raccontare
una da mio nonno e te l’ho pure trascritta. –
– Leggila per cortesia. –
E cominciò a leggere:
– Un tempo in un paesino alle falde di una montagna,
in una casettina, vivevano marito e moglie.
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Il marito faceva lo zappatore e quando capitava andava
a faticare lavorando, la terra altrui, mentre la moglie restava a
casa a lamentarsi della sua condizione, con chi passava, perché non c’erano altre case nelle vicinanze.
Un giorno il marito, tornando dal lavoro, trovò sulla
strada un seme di fave inusuale per la grandezza e se lo mise
in tasca.
Quando arrivò a casa, glielo fece vedere alla moglie,
che rimase meravigliata ed assieme decisero di piantarlo. Non
avevano però, nemmeno un pezzettino di terra, per cui fecero
una buca, di fronte alla porta della loro casa e lo piantarono.
Era il mese d’ottobre ed il tempo era ancora caldo, per
cui in una decina di giorni spuntò una pianta di fave, dal gambo più robusto del solito.
Marito e moglie erano felici ed andavano ad ammirarlo
almeno cinque, sei volte al giorno, prima che facesse buio.
Ogni giorno allungava a vista d’occhio e s’irrobustiva
e dal mattino alla sera, cresceva più d’un palmo ed il suo fusto,
dopo una decina di giorni era più grosso di un manico di zappa e più alto della loro casa e dopo un mese maestoso come
una quercia, dotato di rami, mentre il suo gambo era notevole
per lo spessore.
Ogni giorno diventava più alto e più grosso e marito,
moglie e tutti quelli che passavano, restavano a bocca aperta a
guardarlo.
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Dopo due mesi crebbe quasi fino al cielo e dopo cinque,
andò oltre, perché di esso non si vedeva la fine.
Il marito, come al solito, quando gli capitava, andava a
lavorare, ma tante volte restava a casa.
Un tempo non trovò lavoro per il giorno successivo, per
cui, la sera, decise, d’accordo con la moglie, che l’indomani,
all’ alba, si sarebbe inerpicato sulla pianta per cercare di verificare fin dove arrivasse. Era trascorsa ormai metà del mese di
aprile ed era arrivato il bel tempo, mentre i giorni, erano diventati più lunghi delle notti.
Prima che spuntasse il sole cominciò ad arrampicarsi,
passando da un ramo all’altro e la moglie ed un cane nero, da
sotto, l’accompagnavano con lo sguardo. Egli guardava loro
dall’alto e li vedeva diventare sempre più piccoli, assieme alla
loro casettina, fino a quando non li vide più e notava una striscia bianca ch’era la fiumara ed il verde delle montagne; alla
fine distinse una parte scura ed una più chiara, ch’era il mare.
Ogni tanto si riposava e staccava dei bocconi dal pane
che s’era portato in una bisaccia, nutrendosi anche di fichi
secchi di cui s’era riempito le tasche; per dissetarsi, leccava la
rugiada dalle foglie della pianta.
S’inerpicava e mai calavano le tenebre e finalmente
raggiunse la cima della pianta, ch’era allo stesso livello di una
strada tutta d’oro. Scese e cominciò a camminare e ad ammirare le case pur’esse d’oro, con le tegole fatte di pietre preziose luccicanti, mentre uccelli bianchi, verdi, gialli, rossi, turchi-
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ni, neri, volavano da un albero all’altro. Mentre camminava
vide affacciato ad una finestra, un uomo dal volto di tanta bellezza che i suoi occhi non ne reggevano lo splendore.
Guardandolo, gli chiese sorridendo:
“Buon uomo da dove vieni?”
“Vengo da un minuscolo villaggio; ma quanto è bello
questo posto! Sembra il paradiso! Lei chi è?”
“Sono Gesù e siamo nel paradiso”.
“Oh quanto sono felice! Vorrei restare per sempre qui,
ma non posso perché mia moglie è rimasta sola a casa!”
“È giusto che tu ritorni ma resta fin quando vuoi qui
dove il tempo è fermo e non fa buio mai”.
“Mi trattengo un po’ per godermi la pace”.
Gli uccelli emettevano i loro versi e una dolcissima e
tenuissima musica si diffondeva dappertutto, mentre ogni tanto, volando passava un angelo, lasciando una fragranza simile
a quella delle rose dai cento petali. Dopo un certo tempo decise di ripartire e salutò Gesù, che gli chiese di esprimere un desiderio ed egli timidamente rispose:
“Abbiamo una casa piccola e desidereremmo avere una
più grande”.
“Va tranquillo, perché esaudirò il tuo desiderio”.
A quel punto cominciò a ridiscendere, passando di ramo in ramo e la luce era costantemente uguale, ma tempo dopo
si accorse che il sole cominciava a calare, per cui si affrettò a
scendere. Al tramonto giunse a terra e non si orientava dove
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fosse, perché si trovò di fronte ad una casa bella come quella
di una fata.
Bussò alla porta e gli aprì la moglie che gli riferì che
un bel mattino, svegliandosi, capì di trovarsi in una bella casa,
fornita di ogni cosa che potesse essere utile. Al racconto di lei,
egli replicò con il suo spiegando il mistero.
“A questo punto”, aggiunse la donna, “avresti potuto
chiedere anche un grande appezzamento di terra attorno alla
casa, che tu avresti potuto coltivare e vendendo i prodotti e ricavando dei guadagni, avresti ottenuto di non andare più a fare il bracciante”.
Egli non replicò perché era molto contento del regalo che gli
aveva fatto Gesù e pensava piuttosto a godere delle opportunità che gli offriva la casa, confortevole e fornita di ogni comodità.
Passò del tempo ma la moglie insisteva quotidianamente per la richiesta di un pezzo di terra ed un giorno Titta, così
si chiamava, non ce la fece più e decise di risalire sulla pianta
delle fave e scalarla.
Lentamente s’inerpicò, ramo dopo ramo e finalmente
arrivò in cima alla pianta da cui scese nella solita strada
d’oro, che ripercorse, giungendo sotto la solita casa, dove ritrovò affacciato ad una finestra Gesù; il suo volto splendeva
per la bellezza ed il suo sorriso incantava.
“Benvenuto nel paradiso buon uomo!”
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“Gesù mio, non per i meriti che ho in piccola quantità,
ma per la tua bontà, ti prego, soddisfa l’aspirazione di mia
moglie, che desidera ardentemente un pezzo di terra, intorno
alla casa!”.
“Non ti preoccupare, gioisci qui in paradiso, per tutto
il tempo che vuoi prima di far ritorno a casa!”
Restò un po’ di tempo in quel luogo delizioso e poi cominciò a ridiscendere e a tempo debito, una sera, all’imbrunire
giunse alla base della pianta e si accorse che attorno alla casa
si estendeva un grande appezzamento di terra.
Da quel giorno Titta cominciò a coltivare la sua terra
che produceva in abbondanza, ricavando ingenti guadagni e
non ebbe più necessità di andare a fare il bracciante per conto
d’altri. Possedeva infatti frutteti d’ogni tipo, vigneti, uliveti,
seminativi, estesi boschi. Ormai aveva coperto il fondo di una
grande cassa di monete d’oro ed era talmente felice che per le
strade camminava sorridente.
Passò del tempo e un bel giorno la moglie propose:
“Marito caro, non ci manca niente, però mi è venuto il
forte desiderio di avere, da posizionare sopra il nostro podere,
un pezzo di cielo con delle stelle assieme ad un po’ d’armonia.
Vai a chiedere ciò al Signore”.
Restò trasecolato Titta per la proposta della moglie a
cui replicò:
“Mia cara moglie, non sfidare la fortuna e cerca di essere contenta per quello che abbiamo, che è tanto!”.
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La moglie non volle sentire ragione e tutti i giorni lo
tormentava con la stessa proposta.
Non ne poté più Titta e cominciò a risalire il fusto della
pianta della fava e dopo tanta fatica raggiunse la cima della
pianta, da cui discese nella strada d’oro.
Camminando sveltamente arrivò sotto la finestra di Gesù, che quando lo vide arrivare smise di sorridere.
“Titta cosa desideri ancora?”
“Mia moglie vi chiede un pezzo di cielo con delle stelle
e un po’ d’armonia, da posizionare sopra il nostro podere”.
Il Signore si rabbuiò, emise un lungo sospiro e i suoi
occhi cominciarono a lacrimare abbondantemente, mentre
contemporaneamente un vento fortissimo, simile ad un uragano cominciò a sibilare, sbattendo in tutte le direzioni la cima
della pianta della fava e sconsolato si lamentò:
“Noooo! Via! Vattene via, ingrato!”
Il suo urlo di dolore ferì l’azzurro del cielo e in un baleno si radunarono nubi nere, mentre fragorosi tuoni turbarono la pace celeste ed il paradiso divenne buio, illuminato talvolta dalla luce abbagliante dei fulmini.
Titta di corsa salì sulla cima, mentre cominciò a diluviare. Per sette giorni di fila ridiscese attraverso il fusto della
pianta, mentre dal cielo nero come la pece, l’acqua non smise
mai di scendere. Alla fine del settimo giorno, giunse e quando
fu a terra la pianta scomparve e parimenti il podere non c’era
più, assieme alla casa, mentre quella di un tempo era diventata
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di un terzo più piccola e sua moglie quando camminava
all’interno, sfiorava con la testa il soffitto. –
La fiaba piacque tantissimo agli ascoltatori, compresi
quattro, involontari, di un tavolo vicino, che cessarono di interloquire tra loro e restarono a bocca aperta in religioso silenzio.
Alla fine dell’esposizione, dopo una banale conversazione su argomenti vari, Isidoro salutò ed andò via. Strada facendo comprò tre travi di castagno di circa tre metri, che sistemò nell’abitacolo dell’auto. Essi però risultarono troppo lunghi
per cui lo sportello posteriore restò aperto e fu necessario legarlo alle travi stesse per evitare che si sollevasse. Comprò inoltre
cinquanta metri di corda di canapa ben spessa e con questa attrezzatura meditò di ritornare nel sito del tempio e calarsi lungo
la parete per cercare d’introdursi nella grotta.
Per alcuni giorni lavorò sulla corda che divise in due
parti uguali: su una, ogni metro circa, preparò dei nodi, l’altra
invece la divise a sua volta a metà, aggiungendo su le due parti
ogni 40 cm dei robusti stecchi di legno, lunghi circa mezzo metro, che intaccò alle estremità e legò ai due pezzi di corda con
robusto spago e alla fine ricavò una valida scala a pioli. Ebbe
addirittura l’accortezza, in direzione di ogni piolo di predisporre un nodo sulle due parti, per evitare che si deformasse la scala stessa. Le due estremità superiori furono lasciate libere dagli
stecchi per circa 2,5 mt, perché potessero essere legate a qualche cespuglio o piccolo albero, che crescesse sui bordi del dirupo. Si stava preparando a ritornare sul posto, quando ebbe la
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visita di un signore sconosciuto che volle parlare di archeologia.
Durante una partita di caccia nel comune di Gerace,
mentre inseguiva le tracce di un tasso, si era infilato in una buca ai piedi di un dirupo. Essa a malapena permetteva l’accesso
ad un uomo che, a gattoni, tentasse di seguire il cunicolo che si
sviluppava dalla buca per una decina di metri.
All’improvviso il camminamento s’interrompeva dentro
una grotta molto ampia e stranamente illuminata; infatti sul lato
rivolto ad Oriente due lunghissime fessure si aprivano, comunicanti all’esterno nella parte tormentata di una collina, che degradava in un burrone. Chiese che l’accompagnasse nel posto
descritto, perché ricco di vasellame strano.
Isidoro tentò di resistere alle sue proposte, ma poi cedette quando gli fece il nome di un amico comune. Organizzarono la visita e giorni dopo si ritrovarono nella grotta, che in
effetti si dimostrò ricca di vasi unghiati o dotati di motivi stentilleniani. Chiaramente il sito era stato abitato da uomini neolitici, il cui passaggio era documentato dalle pareti annerite dal
fumo, a ridosso delle fenditure.
Isidoro si mise a frugare per terra con una martellina ed
una piccola cazzuola e subito cominciò a trovare delle scaglie
di ossidiana e di selce. All’improvviso, mentre era intento in
tale occupazione sentì rimbombare nell’antro la propria voce e
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voltandosi si accorse che lo sconosciuto aveva acceso, ad alto
volume un vecchio registratore.
– Bastardo – urlava Isidoro dall’apparecchio – se avessi
una carabina, ora ti pianterei in un occhio una pallottola! Lurido bastardo, sporco maiale, quanto ti odio, quanto ti odio! Se
avessi saputo della possibilità di averti a così breve distanza,
avrei fatto di tutto per procurarmi un’arma per porre fine ai tuoi
infami giorni! –
Isidoro allibito guardò lo sconosciuto, che ghignava con
un sorriso sardonico.
– Che significa questa messinscena? Quando ho urlato
quelle imprecazioni e perché? –
– Si ricordi del viaggio elettorale del presidente portato
avanti per via mare. Allora gli uomini dei servizi fummo dislocati sulla costa, specie a ridosso dei porti preposti a possibili
“sbarchi propagandistici”. Allora notai che lei munito di un binocolo, si era acquattato dentro una casamatta della IIª guerra
mondiale, dislocata a ridosso del porto abilitato alla “sortita”
presunta dell’uomo che lei all’epoca odiava a morte. –
– Allora l’odiavo semplicemente, adesso invece sono
ossessionato dall’idea di doverlo uccidere e sogno in continuazione la sua morte. –
– Come mai? –
– Questo maiale ha sporcato definitivamente l’anima di
buona parte degli italiani, che sperano di rubare quanto lui, di
corrompere quanto lui, di diventare potenti quanto lui. Egli si
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prende gioco di essi, ossessionato dalla sua megalomania e ne è
diventato il balocco. Io sogno invece di rompere e fare a pezzi
il balocco degli italiani. Lo sto studiando da tempo, assieme ad
un uomo della sua scorta, mi pare un siciliano, alto, magro,
preoccupato, che guarda a destra e a manca, temendo l’arrivo
di una pallottola, che lo raggiunga al posto del bersaglio prefissato. Secondo me medita di farla finita con tale infame occupazione, ma ancora vuol resistere per un po’ di tempo, forse per
amore dei soldi. –
– Lo conosco, è Sergio il casertano, ed ultimamente
esprime agli intimi la sua cocente delusione per il politico di
cui organizza la protezione. Eccolo in foto con la figlia… –
E mentre tirava dal portafoglio un piccolo ritratto che
lo rappresentava, gli cadde per terra capovolto, per cui Isidoro
vi lesse un nome scritto a penna, Luca Cavallaro.
– Chi corrisponde a questo nome? –
– Non lo so… l’ho trovato qui scritto da lui e mi son
sempre dimenticato di chiedergli chi possa essere. Sergio è mio
parente acquisito in quanto aveva sposato una mia cugina, bellissima, dolcissima e molto buona. Ella è morta anni fa e lo lasciò nella disperazione. Era nata da questa unione una bambina, che ora ha quindici anni, che somiglia molto alla madre. Il
padre vive per lei e solo sporadicamente si permette qualche
fugace relazione, sempre poco impegnativa. Anche la ragazza
non riesce a vivere senza il padre, che incarna agli occhi suoi la
figura di ambedue i genitori. Ella aveva libero accesso ad una
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delle dimore dell’uomo per cui il padre organizza la scorta.
Mesi addietro all’improvviso ebbe il desiderio di vedere il padre, turbata da una visione angosciante. All’alba aveva sognato
un elicottero del presidente in volo su un prato in fiore, dove lei
coglieva narcisi e margheritine dei prati. Riconobbe il velivolo
e cominciò a sbracciarsi per salutare, chiamando il suo papà,
che immaginava fosse a bordo. All’improvviso un boato si udì
e l’elicottero fu avvolto da un globo di fuoco e poi in mille
frammenti cominciò a spargersi sul prato. Si mise ad urlare disperatamente ed accorse al suo capezzale la nonna, presso cui
viveva assieme al padre. Tra le lacrime le raccontò dell’incubo
ed espresse il desiderio di essere accompagnata a vederlo, ad
abbracciarlo, a baciarlo, a passargli le mani tra i capelli, come
faceva, quando egli esausto si addormentava sul divano del salotto al rientro dal lavoro. La nonna cercò di rassicurarla, dicendole che sarebbe stata sufficiente una telefonata. Lei però
non si convinceva e sempre piangendo chiedeva del padre, che
risultava irraggiungibile sul cellulare. Alla fine prenotarono un
taxi, che le accompagnò nei pressi della dimora del presidente.
Si avvicinarono alla villa e nei pressi di essa incontrarono un
agente preposto alla scorta, amico del padre che la conosceva
da bambina. La nonna restò in auto, mentre loro due entrarono
in villa e si diressero verso il porticato interno, abbellito da
piante di ogni tipo; al centro dello spazio più intimo si articolava una piscina dall’acqua tersa ed immobile. Attorno c’erano
dei tavolini con delle sedie eleganti e dallo stile sobrio, posti
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sotto il fresco di graziosi pergolati di piante rampicanti, che essendo in fiore, emanavano una tenuissima fragranza. Il posto
era deserto ed accompagnati da un altro uomo della sicurezza,
si sedettero in un angolino non lontano dalla piscina. La ragazza tentò ancora di contattare il padre, riuscendoci. Aspettarono
il suo arrivo e tutto ad un tratto apparve il presidente, nudo, disfatto nel volto, stanco, dall’espressione quasi disperata e con il
pene eretto. Velocemente si avvicinò ai bordi della piscina e si
tuffò in acqua. I due non furono visti e in punta di piedi si allontanarono, cercando di guadagnare l’uscita, dove il padre li
avrebbe aspettati, perché da qualche ora libero d’impegni. Per
tale motivo infatti, si era recato in un posto vicino, per comprare un libro per la sua bambina. La ragazza, sconvolta per la visione precedente, cominciò ad essere scossa da convulsioni,
seguiti dopo un po’ da conati di vomito. Era digiuna, per cui ad
un certo punto riuscì solo a rimettere qualche piccolo boccone
di un liquido giallastro, prodotto dalla bile. A pochi passi
dall’uscita incontrarono il padre, che constatò lo stato di frustrazione in cui era caduta la figlia, che piangeva. Raggiunsero
la nonna e poi l’auto del genitore, con cui si recarono a casa.
Durante il tragitto l’amico, raccontò al padre ciò che era accaduto ed egli a sua volta si mise a singhiozzare. La ragazza per
alcuni giorni fu febbricitante per un forte travaso di bile, per
cui fu sottoposta a delle cure disintossicanti. Dopo una decina
di giorni fu fuori dallo stato tossico, ma continuò a permanere
in una grave depressione che ben presto la portò all’anoressia.
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Della vicenda nessuno ebbe conoscenza e dello stato depressivo conseguente, neppure l’amico del padre, che cominciò a nutrire un sordo rancore per l’uomo, a favore del quale organizza
l’apparato di sicurezza. –
Isidoro ascoltò il racconto e alla fine chiese della ragazza, che ancora era ricoverata in una clinica specializzata, dove
aveva iniziato il percorso di liberazione dalla grave depressione.
Chiese ancora del perché il presidente fosse stato visto
in quello sconveniente stato ed ebbe una spiegazione.
– Circa dieci anni fa, iniziò l’uomo dei servizi, fu sottoposto ad un delicato intervento alla prostata, che come si sa può
portare all’impotenza per anni o a quella definitiva. Quando il
presidente fu informato di tali rischi, si adoperò fino allo spasimo per cercare di fugare questi pericoli. Infatti la gratificazione sessuale per lui è al primo posto, negli interessi seguita
dall’ossessione per il potere. Infatti, in un attimo di smarrimento e di sconforto aveva meditato addirittura il suicidio. Fortunatamente per lui, con un magistrale intervento in profondità sulla
parte, eseguito da eccellenti medici, la funzione sessuale fu ripristinata, per un breve lasso di tempo al giorno, con un sistema con cui si “ricarica” il suo apparato genitale tramite prodotti
medicinali speciali, integrando il tutto però con viagra e cocaina; i rapporti così innaturali non gli procurano piaceri, se non
psicologici, che gli derivano più dai toccamenti. Era stato in
astinenza per un certo periodo e quando ritornò ad una certa ef-
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ficienza, cominciò a buttarsi a capofitto in queste esercitazioni
amatorie. A questo punto però, nacque un problema, per cui
dopo ogni incontro sessuale, favorito dai suddetti espedienti artificiali, il presidente risulta perseguitato talvolta da una forma
di priapismo. In altri termini il suo pene può restare in erezione
anche per ore con conseguenza negative per la sua funzione politica. Infatti più di una volta ha dovuto disertare riunioni importantissime e due volte incontri internazionali. Quando capitano questi inconvenienti gli sopravvengono degli stati di sopore e di quasi incoscienza, dovuti ad abbassamenti di pressione.
In altri termini il presidente è malato e talvolta pensa di curarsi
con scorpacciate di sesso, aumentando così il suo stato di ansia.
L’uso della cocaina poi, gli accentua la megalomania. Infatti è
convinto di essere un grande statista ed è sicuro di passare alla
storia. Studia i grandi e cerca un punto di riferimento. Ramses
II lo stava quasi convincendo, ma quando seppe che ebbe come
moglie anche una figlia ciò lo disgustò. Scartò Giulio Cesare
per la sua omosessualità, come pure Alessandro Magno, impotente ed omosessuale. Fu molto attratto da Nerone, di cui apprezzò il buon gusto per le grandi opere architettoniche e per le
capacità amministrative e finanziarie. Analizzò le figure di Attila e di Gengis Khan, ma non fu convinto a causa della loro
crudeltà eccessiva. Annibale lo sedusse per un breve periodo,
come pure Napoleone Bonaparte. Studiò alcuni aspetti della
politica demagogica di Mussolini, di cui ha adottato alcuni
aspetti della legge Acerbo. Attualmente è impegnato a leggere
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resoconti su Annibale, Augusto, Pietro Il Grande, Salomone,
Orazio Nelson. –
– Bene, ho capito, ma che centro io con questa messinscena? –
– Quando registrai le sue imprecazioni contro il presidente, tenni tutto per me, informandomi sul suo conto. Seppi
ch’era una persona pulita, che si batteva per alcuni ideali,
ch’era talvolta impegnato nel sociale. Inoltre sento una profonda avversione per il personaggio, per l’anti-italianità che rappresenta in quanto sono stato educato a forti sentimenti di patriottismo, perché mio padre era stato volontario nella guerra
civile spagnola contro il governo legittimo di quel paese. Aveva preso parte alla battaglia di Guadalajara, combattuta nel
marzo del 1937 dove fu ferito ad una spalla. Nella 2ª guerra
mondiale fu ancora ferito e poi preso prigioniero dagli angloamericani a El-Alamein, dove furono annientate le forze
dell’Asse, guidate da Erwin Rommel. Rientrò in Italia nel
1946, dopo una lunga detenzione in un campo di concentramento inglese in Rhodesia e si sposò nel 1951 ed io nacqui nel
1954. Era un militante del M.S.I. ed adorò Giorgio Almirante,
che conosceva personalmente. Mi allevò secondo i suoi principi rigorosi di patriottismo ed io quasi da subito, non mandai giù
alcuni atteggiamenti del presidente. –
– Va bene, però ancora continuo a non capire. –
– Spiego allora. Poco tempo addietro ci ritrovammo in
una località montana cinque amici, servitori dello Stato, talvol-
43
ta d’alto livello e siamo arrivati alla decisione di adoperarci per
salvare l’Italia, trascinata ormai verso un declino inarrestabile,
dal modo anomalo di governare dell’attuale leader. Ciò è possibile con la sua eliminazione fisica. Tra i cinque c’era anche il
mio parente, che organizza l’apparato di sicurezza del personaggio in questione. –
– Ma io che c’entro. –
– Lei può essere utile grazie al suo odio, poi è serio, non
è giovane, pensa con
preoccupazione al futuro dell’Italia, dei giovani, dei figli.
Stiamo tentando di creare delle reti di possibili attentatori, facendo passare l’idea. Lei non è l’unica persona avvicinata. Al
nostro attivo ci sono ormai un centinaio di contatti. –
– Ma in concreto cosa state facendo? –
– Stiamo costituendo tanti piccoli arsenali di fucili di
precisione, che potremmo mettere a disposizione. Al momento
abbiamo una base in Sardegna dotata di tre fucili di precisione,
una in Lombardia, una nel Lazio, un’altra in Abruzzo, un’altra
in Calabria dotata di un solo fucile di precisione. Stiamo tentando di predisporre altre due dislocate in Puglia e Campania.
Le persone contattate non sono più giovani. Sono stati studiati i
loro comportamenti attuali e quelli del passato, per ravvisare o
meno atteggiamenti coerenti. Le persone scelte hanno avuto un
passato limpido di militanti del P.C.I., che dimostrarono da
giovani un chiaro rispetto, anche formale, delle regole democratiche, rifiutando e combattendo le pretese sovversive di
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gruppi extraparlamentari, tra cui le B.R., sicuramente infiltrate
all’epoca dai servizi, da cui erano indirizzate verso obiettivi
falsamente rivoluzionari. Uno solo, ripeto su cinque, proviene
dalla destra, ex-militante del M.S.I., legato ad un filo di parentela con donna Assunta e con me. Ognuno del nostro gruppo ha
il compito di operare all’insaputa degli altri ed ha offerto una
somma cospicua, relativamente alle proprie possibilità: 50.000
euro in contanti, che formano la dotazione di ogni base, per le
spese indispensabili di chi si servirà del fucile. Le armi dotate
di visori agli infrarossi, sono stati messi a disposizione da un
alto ufficiale dell’esercito, che fa parte del gruppo. Nel sacco
che le darò, se sarà d’accordo, troverà una busta, dentro cui su
un foglio, sono trascritte le coordinate del posto dove è stato
collocato un fucile di altissima precisione, dotato di mirino telescopico agli infrarossi e di silenziatore. Assieme alla busta ci
sarà un sacchetto di pelle contenente 200 proiettili, un G.P.S.
molto sofisticato, capace di margini d’errore limitatissimi e naturalmente una determinata somma di denaro. Ha capito un po’
il meccanismo? –
– Più o meno, ma avrei bisogno di qualche chiarimento.
Come riceverò le coordinate e quanto tempo prima? –
– Dimenticavo, assieme alle altre cose ci sarà un telefono cellulare, della cui scheda l’intestatario risulterà un uomo, di
cui sono stato in possesso di carta d’identità e numero di codice
fiscale. Molti documenti smarriti passano attraverso i nostri uffici. Sul telefonino di volta in volta riceverà il messaggio con le
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coordinate del luogo pubblico o privato che sarà visitato dal
personaggio in questione. Il messaggio le giungerà da un cellulare in mio possesso, la cui scheda è intestata ad un’altra persona. Naturalmente, quando sarò certo ed il luogo sarà ritenuto
valido, il messaggio le sarà inviato due giorni prima. A questo
punto lei dovrà cercare il luogo da cui sparare e prima andrà a
recuperare il necessario per farlo. Naturalmente ci sono dei posti improponibili, quale ad esempio Palazzo Marino, a Milano,
che per essere utilizzato per un agguato, bisognerebbe avere
delle amicizie sicure ed importanti al teatro Alla Scala da parte
dell’attentatore. Naturalmente le occasioni non mancheranno,
considerando che il giorno in cui io registrai le sue affermazioni, lei, avendo avuto un fucile di precisione, avrebbe fatto in
tempo ad uccidere il presidente, prima che io la fermassi. Naturalmente cerchi di frequentare un poligono di tiro, che le costerà un po’ di soldi, ma per queste necessità lei attingerà alla
somma che le consegnerò. –
– Con lo stato d’animo che mi ritrovo, non ho pace né
notte né giorno, accetto le sue proposte. Ho molti dubbi sulla
sua sincerità e potrei considerarla un provocatore, ma ho preso
già delle precauzioni. Infatti, mentre lei parlava ho predisposto
il mio cellulare alla registrazione della nostra conversazione.
Esso è abbastanza sofisticato e mi è stato passato da una delle
mie due figlie, che ha comprato un altro più adeguato alle sue
esigenze. Ecco, le faccio ascoltare la nostra conversazione.
Ascolti e tenga tra le sue mani il cellulare e così deciderà o
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meno la collaborazione mia al suo progetto. È chiaro che se lei
non fosse sicuro, ora cancellerebbe la registrazione, in caso
contrario invece … –
Il presunto agente dei servizi, prese in mano il telefonino ed ascoltò la conversazione, trasalendo, sbiancando o arrossendo di volta in volta.
Alla fine della conversazione riconsegnò l’apparecchio,
aggiungendo:
– Accetto la sfida, il suo odio mortale sarà una garanzia
per me. Ma come userebbe questa registrazione? – Io, per cautelarmi, farò svariate registrazioni, nascondendole in posti diversi di una mia casa di campagna. In caso
di necessità … –
– Ho capito, le consegnerebbe alle autorità giudiziarie o
almeno a qualche caserma di carabinieri. –
– Esatto. –
–Ripeto, accetto la sfida. Sia cauto e si prepari
all’evento, assolutamente indispensabile. Spero che a lei toccherà la buona sorte, di eliminare dalla scena sudicia della politica italiana il presidente. –
Uscirono dalla grotta e cominciarono a percorrere la
contrada Prestarona, sempre in discesa, fino a quando non raggiunsero una strada intercomunale dove si apprestarono a salire
in macchina.
Stavano per farlo quando una voce li raggiunse e da essa Isidoro riconobbe un suo conoscente, un tal Fiorenzo, che in
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modo festante gli comunicò che si era fatto raccontare, dalla
vecchia madre una fiaba del territorio; infatti aveva ricevuto tale incarico ed aveva adempiuto all’impegno.
Si sedettero su delle pietre, sotto un ulivo e il narratore
cominciò:
– Da anni Gesù con i suoi apostoli girava per il mondo
per diffondere il suo messaggio di pace e d’amore. Un giorno
mentre camminavano intravidero da lontano un paesello, situato alle pendici di una montagna. Tutti andavano con le bisacce vuote e avevano un forte languore allo stomaco perché
non mangiavano dal giorno precedente:
“Maestro, fermiamoci perché siamo sfiniti dalla stanchezza, dal momento che stiamo camminando da stamattina e
come voi potete constatare, sarà mezzogiorno!”
“Abbiate ancora un po’ di pazienza, perché ci riposeremo nelle vicinanze di quel paese che si chiama Natile”.
“Piuttosto provvedete a qualcosa da mettere sotto i
denti, poiché da ieri non assaggiamo neppure acqua e dato che
ormai siamo alla fine di novembre, nei campi non si trova ormai più niente da mangiare, perché se fossimo in estate potremmo saziarci di uva e di pere!” disse stizzito San Pietro a
Gesù che sospirando rispose:
“Ognuno di voi prenda una pietra perché fra mezz’ora
ci fermeremo!”
Tutti gli altri apostoli recuperarono una pietra grande
il doppio di un mattone pieno, che si misero su una spalla e
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continuarono il cammino. San Pietro invece, bofonchiando
qualcosa, raccattò una minuscola pietra, meno grande di un
fico e se la mise in tasca.
Arrivarono in un pianoro ben esposto al sole, dove
c’erano tante piccole rocce, adatte a riposare e Gesù invitò:
“Sedetevi!”. Poi aggiunse:
“Che ogni pietra divenga pane!”
E ognuno ebbe pane fresco e caldo, che pesava tre,
quattro chili, per cui cominciò a mangiare, dopo aver ringraziato Gesù.
Pietro tirò dalla tasca il suo pane ch’era più piccolo di
un fico e per la rabbia non voleva neppure mangiarlo, ma piuttosto tirarlo sulla testa di un cane scheletrico, che con la lingua di fuori ed emettendo bava, fissava proprio lui che non
aveva pane.
Poi decise di mangiarlo e mettendolo in bocca non lo
sentì a momenti e dopo averlo appena masticato lo inghiottì,
osservando gli altri che mangiavano e poi bevevano da una
sorgente che zampillava da una roccia.
Dopo che finirono di mangiare, ripresero il cammino e
andavano con lena poiché avevano ripreso le forze, dopo aver
mangiato metà pane e conservato il resto nella bisaccia. Pietro
invece camminava barcollando per l’estrema debolezza.
Ad un certo punto Gesù disse:
“Ognuno prenda una pietra!”
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E tutti si rifornirono di una uguale alla prima, tranne
San Pietro che si caricò di un masso che pesava mezzo quintale e che lo fece incurvare, per cui per ogni passo emetteva un
lamento. S’inerpicarono in un’erta sull’orlo di un dirupo e finalmente arrivarono in un pianoro, al cui centro c’era una
roccia incavata e a quel punto Gesù disse:
“Ognuno si sieda sulla pietra trasportata!”
E tutti lo fecero riposandosi.
San Pietro restò secco e scaraventò la pietra vicino alla
roccia incavata. Gli altri presero il pane che avevano messo da
parte prima e ripresero a mangiare. Egli sotto una quercia
raccolse una manciata di ghiande, che erano dolci, s’infilò nella cavità della roccia e cominciò a mangiarle come un ghiro,
lamentandosi sottovoce.
Da quel giorno, quella roccia, che è vicina a quella di
Pietra Cappa, fu chiamata la roccia di San Pietro. –
Il presunto agente fu molto attento al racconto, evidenziandone l’apprezzamento e ridendo di gusto. Alla fine Fiorenzo andò via e loro due presero la via del ritorno e durante il tragitto furono tutte e due muti ed impacciati. Solamente un po’
prima di essere lasciato ai bordi di un marciapiedi, non lontano
da casa sua, Isidoro chiese all’altro a bruciapelo:
– Perché non l’uccidete voi e commissionate agli altri la
sua eliminazione? –
– Perché abbiamo giurato sulla testa dei nostri figli, tenendo in mano una copia della Bibbia, che mai e poi mai
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avremmo mosso un dito contro di lui. Io e mio cugino siamo
molto superstiziosi, per cui impegnarci fisicamente e direttamente ci sembrerebbe un sacrilegio, con conseguenze sui nostri
affetti più cari. Ispirando invece il delitto, ci sentiremmo con la
coscienza a posto. –
– Allora solo in cinque siete a conoscenza del progetto?
– Per gli altri non so rispondere, ma per quanto mi riguarda ho messo al corrente del piano Donna Assunta, zia di
mia moglie, che con ansia aspetta la fine di questo ridicolo incubo –
– Ah, ho capito, ma non tutto mi sembra chiaro. –
– Comunque prima di scendere prenda il sacco con
l’occorrente contenuto, tra cui il G.P.S., i proiettili, il cellulare,
una determinata somma di denaro minore di quella disponibile
per ogni base, il manuale d’istruzione per il fucile. –
Non parlarono più e al momento di lasciarsi si salutarono con un cenno della mano.
Sul treno verso la Lombardia
Isidoro per alcuni giorni fu continuamente distratto ed
assorto in pensieri vari, incapace di agire ed operare per i suoi
piccoli progetti.
Ormai, da circa 5 mesi ometteva persino di leggere i
quotidiani e solo sporadicamente ascoltava qualche notiziario
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dalla tv. In passato era stato militante di base del P.C.I., rigoroso e talvolta dogmatico, aveva odiato la D.C. e i suoi uomini,
che secondo il suo punto di vista avevano svenduto il Sud alle
lobbies affaristico-mafiose. Il suo impegno contro la Democrazia Cristiana, era stato lo scopo principale della sua vita. Ora
invece era venuto a mancare pure quello, in quanto dei luridi e
corrotti omuncoli si erano arrogato il ruolo di oppositori ad un
regime basato sulla falsità, sul ridicolo, sull’apparenze, sul meretricio a tutti i livelli.
Ormai l’Italia era perduta definitivamente e tale convinzione s’era rafforzata in lui, dacché si era recato quattro volte
in Lombardia, in sei mesi. Si era reso conto che persino il cuore
economico della nazione era malato. Aveva notato infatti che la
gente era triste, specie i giovani senza futuro e senza prospettive. Si era fermato in un paesino dell’hinterland milanese ed
aveva constatato che tutte le finestre delle case sul piano terra
erano dotate di robuste inferriate e che cani da guardia occhieggiavano feroci latrando, attraverso recinzioni che cautelavano la vita di presunti ricchi. Aveva fatto un allucinante viaggio in treno, l’ultima volta, in compagnia di due laidi figuri,
che operavano per conto della ‘ndranghita, nella terra che era
stata la dolce patria di Alessandro Manzoni.
Era rimasto sconvolto per i loro atteggiamenti vomitevoli e per le vanterie proterve, su presunti collegamenti loro
con il potere politico dominante, specie della destra tradizionale, attraverso cui controllavano le assunzioni delle aziende
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tranviarie di tutta la Lombardia. Ricadeva sotto il loro controllo
Malpensa, grazie ad una schiera di fedelissimi affiliati, che
erano stati imposti addirittura al partito che presumeva
d’interpretare gli interessi del Nord. Naturalmente il movimento-terra di buona parte della regione era appannaggio dei calabresi che sarebbero sul punto di fare il salto di qualità, infiltrando le grandi imprese del settore edilizio.
Il costruttore per eccellenza di Milano, d’origine non
lombarda, soggiaceva ai loro diktat, con regalie, rappresentati
da appartamenti;addirittura avrebbero voce in capitolo nel
grande affare dei lavori dell’Expo 2015.
Isidoro aveva sperato di fare un viaggio in tranquillità,
prendendo una cuccetta in prima classe, scelta di solito da una
clientela selezionata. Le vanterie durarono per buona parte della notte e i due parlarono a ruota libera, quando si accorsero
che il loro unico compagno di viaggio, prima di dar loro la
buonanotte, si era messo agli orecchi dei tappi, che naturalmente si tolse per seguire la conversazione.
Si lamentarono anche delle promesse disattese del capo
del governo, in relazione al 41 bis ed aggiungevano inoltre che
addirittura i tanti villaggi turistici in costruzione per clienti inglesi ed irlandesi erano caduti sotto il mirino della magistratura. La stranezza, notavano, è che in Lombardia, in Veneto, in
Emilia Romagna, gli “amici” investono i loro capitali senza incontrare l’ostilità della magistratura, lucrando nell’edilizia, nei
centri commerciali e addirittura con investimenti in borsa. In
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Calabria, invece, tranne il capitolo dei centri commerciali, attualmente ogni investimento è automaticamente fermato.
Aggiungevano che in Portogallo, Spagna, in Costa Azzurra, forti sono gli interventi finanziari dei calabresi, mentre
addirittura in Russia, i capitali della ‘ndranghita sono presenti
in attività industriali. Investimenti in aziende agricole sono portati avanti in Romania e di recente persino in Ucraina ,mentre
addirittura a Manhattan sono presenti con imprese di costruzione. In Belgio i calabresi si distinguono nelle speculazioni immobiliari, mentre in Germania, ovviamente nel comparto della
ristorazione.
Quando arrivarono nei pressi di Caserta si preoccuparono di tenere gli occhi aperti, in quanto, in quella tratta, sono attive delle bande di rapinatori che sui treni, di notte, usano dei
vaporizzatori contenenti sostanze narcotizzanti.
Esaltarono l’audacia dei casalesi che stanno crescendo
nell’Emilia, badando però a non entrare in conflitto con i calabresi di Cutro che controllano l’edilizia in tutta la provincia di
Reggio Emilia.
Il loro discorso poi si spostò sui furti negli appartamenti
del milanese. Da circa un anno a Milano e dintorni sono attivi
degli abilissimi ladri che aprono con facilità persino le porte
blindate. Dapprima si pensava fossero i rom a rubare, ma dal
momento che vengono trafugati oggetti in argento, a questo
punto la ‘ndranghita fece le sue indagini e scartando le ipotesi
dei nomadi, che considerano l’argento procacciatore di disgra-
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zie, appurò che a violare gli appartamenti ritenuti ben difesi, è
un’organizzatissima banda di ungheresi.
Isidoro ad un certo punto adattò convenientemente i
tappi e dormì fino al ponte sul Po, quando il rumore assordante
lo svegliò ed allora velocemente scese dalla cuccetta, salutò,
andò in bagno, ritornò e dopo mezz’ora circa posizionò la valigia vicino alla porta e poi telefonò ad un amico, che già era alla
Centrale ad aspettarlo. I due compagni di viaggio lo guardarono con curiosità, ma non gli fecero domande. All’arrivo ad attenderli c’era un elegantissimo ragazzo sulla trentina, dotato di
un portatile, che li salutò con cordialità, ma omettendo di baciarli ritualmente.
All’inizio del binario 10 c’era anche il suo amico, Filippo, che l’aiutò a trasportare la valigia.
In poco tempo furono a Porta Garibaldi con la metropolitana e qui si salutarono. All’indomani avrebbero concordato
una gita in provincia di Torino, dove in una baita in montagna,
avrebbero trascorsa una giornata con pernottamento.
I servizi con una terapia di gruppo provocano una
rivisitazione critica degli ultimi 150 anni della storia
d’Italia
Isidoro raggiunse Monza e poi con un taxi un appartamento a Lissone, in vista dell’Ospedale Nuovo. Gli era stato
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dato in uso da un amico e compagno di studi, che da poco,
s’era trasferito in Calabria con la moglie. Non avevano figli e
per qualche anno in attesa di venderlo l’avrebbero conservato,
lasciando la scelta alla moglie, ugualmente calabrese, il ritorno
o meno in Lombardia.
Dopo due giorni Isidoro si ritrovò, con il suo amico con
cui era partito da Milano, alla stazione di Torino Porta Nuova,
dove furono accolti da un uomo sulla cinquantina, amico di Filippo che in automobile li condusse verso il Canavese, dove,
superato l’Orco, si diressero verso Santa Elisabetta.
Prima di mezzogiorno si ritrovarono in una baita, a ridosso di un castagneto, da poco resa abitabile con l’essenziale.
Fino a poco meno di 30 anni fa era appartenuta ad una famiglia
di margari che non avendo avuto figli, quando smisero la loro
attività, la cedettero.
Era stato reso agibile il piano terra, che un tempo accoglieva le mucche. Il primo piano, ancora era in via di restauro;
naturalmente s’era provveduto a riparare il tetto, coperto con le
caratteristiche tegole in pietra.
Isidoro volle allontanarsi ed ammirare il panorama, rimanendo estasiato. La vista spaziava verso la pianura, piena di
agglomerati urbani più o meno grandi, mentre si dilatava in
fondo, quello che immaginava fosse Torino. Camminando e
guardando verso quote più elevate, notava che i castagni lasciavano il posto alle betulle dal tronco d’argento.
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Frattanto, un giovane romano, Andrea, era indaffarato a
cucinare in un caminetto ricavato in un angolo della baita e ad
un certo punto pretese che qualcuno lavasse dei piatti riposti in
una vecchia cassapanca. Isidoro li prese, pochi per volta e cominciò a lavarli presso un rubinetto posto sotto un vetusto castagno, che cresceva sul pianoro antistante la casa. L’acqua,
tramite un tubo di polietilene, era stata portata da una freschissima sorgente che sgorgava da una parete, a 500 metri circa di
distanza. Per motivi ecologici il tubo era stato interrato e per il
momento l’impianto non avrebbe coinvolto la baita. In prospettiva ciò sarebbe avvenuto, anche se per almeno due, tre mesi
all’anno essa sarebbe stata bloccata dal freddo e ghiacciando
non avrebbe raggiunto la casa.
Attorno alle 13, si sentì un rumore d’auto, che arrivò e
da essa scesero due cari amici di Filippo ed Isidoro: Paolo e
Domenico.
Attorno alle 14 tutti mangiarono con avidità la puttanesca cucinata con bravura sorprendente dal romano e saporitissimi spiedini di carne, farciti di pangrattato amalgamato a pecorino e pezzettini di aglio. Dopo un’abbondante libagione a
base di un piacevole e popolare Barbera, ognuno si scelse
l’ombra di un castagno sotto cui dormire, poggiando per terra
delle stuoie. Paolo, Domenico ed Isidoro si sdraiarono sotto un
maestoso castagno, che con la sua ombra, leniva il caldo di luglio, notevole, nonostante l’altitudine. Dormirono profondamente per alcune ore, aiutati dal vino che li aveva un po’ stor-
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diti, fino a quando il rombo di una motocicletta non li svegliò.
Imprecò Domenico in direzione di due centauri che scesero davanti alla baita, chiamando Filippo, che dopo un po’ assonnato,
comparve con una stuoia in mano e salutò i due, con un abbraccio l’autista, l’altro con una stretta di mano.
Conversarono un po’ e quando tutti gli altri si avvicinarono avvennero le presentazioni.
Calarono velocemente le ombre della sera e la comitiva
si preparò con religiosità alla cena, fredda questa volta, a base
di salumi e formaggi, allietata da abbondante Barbera. Un
enorme tavolo di castagno, in stile contadino conteneva comodamente gli otto commensali, che si attardarono a mangiare fino alle 23, quando tutti si alzarono e si ritrovarono un po’ allegri sul pianoro davanti casa.
La serata era calma e attraverso un varco del bosco
s’intravedevano in lontananza, verso la pianura, le luci della
città. La temperatura era scesa di molto, per cui alcuni si diedero da fare ad accendere un falò, attorno cui tutti si accoccolarono.
Ad un certo punto prese la parola uno dei due centauri,
che dimostrava di avere quasi sessant’anni.
– Compagni o almeno ex, esordì considerando che, negli ultimi lustri, è andato di moda cambiare casacca, siamo qui,
su invito di un amico comune che ha voluto organizzare una
specie di dibattito sulla situazione di degrado morale, che sta
asfissiando l’Italia. Alla fine di Tangentopoli si era creduto che
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il fango che insozzava la vita pubblica italiana, sarebbe venuto
meno e che un migliorato grado di onestà sarebbe diventato un
elemento prevalente in Italia. Accadde un fatto imprevedibile
invece, dal momento che gli onesti, inorriditi per lo spettacolo
indecente della corruzione politica, si ritirarono in blocco, lasciando la scena ai peggiori, guidati dalla sozzura fatta persona.
E non mi dilungo a parlare su fatti noti, preferendo parlare delle aspettative mancate di un militante di sinistra, sempre alla
ricerca del puro, dell’onesto, del giusto, a cui io aspiravo. Ero
stato iscritto al P.C.I., ma poi passai a Lotta Continua, soggiogato dalla personalità di Adriano Sofri, che seguivo come
un’ombra; addirittura volli insegnare nella scuola dov’egli insegnava lettere: l’istituto tecnico di S. Miniato verso la fine degli anni 70. Ero praticamente stregato da lui e mi meravigliavo
come in un uomo di piccola statura albergasse una quantità illimitata di carisma. Incantava tutti, uomini e donne, giovani e
vecchi e usava il suo charme anche per scopi sentimentali, che
talvolta lo danneggiavano. A tal proposito si favoleggiava che
era stato espulso dalla Normale, perché aveva fatto innamorare
perdutamente la graziosa figlia di un prestigioso professore della stessa. In tutti i modi si arrivò al periodo della tanto esaltata
lotta armata ed io ne restai fuori per due motivi: fui disgustato
dal fatto che si sparasse sulle forze dell’ordine, costituiti da
proletari, denotati tali già da Pasolini, e poi perché sospettavo
che tutta la galassia del terrorismo fosse ispirata, sorretta e foraggiata dai sevizi segreti. Aderii dopo a Rifondazione Comu-
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nista e fui ben contento agli inizi del suo percorso politico,ma
per me cominciò la delusione quando il partito fu sotto la guida
della Bertuccia in cachemire, che in pubblico sbandierava progetti radicali, in privato invece accompagnandosi sovente al piduista uomo-immagine del regime attuale, ex collaboratore di
prim’ordine del politico di “statura europea”, andava sbavando
le mani ingioiellate delle dame della borghesia nera romana,
promettendo loro che avrebbe guidato gli asini delle armate rivoluzionarie, ad abbeverarsi nelle fontane di piazza S. Pietro.
Dopo la prima esperienza di governo dei nostri, smisi di recarmi alle urne, dedicandomi alla lettura e agli impegni nel sociale. –
Smise di parlare il primo centauro, mentre nella notte illune echeggiavano i versi striduli di alcune volpi.
A questo punto Filippo si assunse il compito di coordinare gli interventi ed invitò il secondo centauro, che aveva abbracciato, con affetto al suo arrivo. Ad Isidoro sembrò un volto
familiare, però non riuscì a collocarlo nel tempo e nello spazio.
Altissimo e robusto aveva una voce baritonale.
– Mi chiamo Teodoro, cominciò, e ho militato sin da
fanciullo nel P.C.I., educato in questa funzione da mio padre.
Egli era originario di Alba e da giovanissimo, era della classe
1905, prese parte alle lotte operaie, che raggiunsero le fasi
culminanti nel 1919-1920 aderendo a sua volta, con il genitore,
alle lotte. Qualche anno dopo lo perse, ucciso dagli squadristi
fascisti ed allora il suo odio verso di essi si accrebbe. Fece par-
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te della rete clandestina del partito comunista e nel 1933 si rifugiò in Francia. Partecipò alla difesa del legittimo governo
della repubblica spagnola e dopo la sconfitta di esso ritornò in
Francia, da cui rientrò in Italia dopo l’8 settembre e fu attivo
come partigiano nell’area di Boves. Come molti altri compagni
non fu d’accordo con la decisione di Togliatti nel 44 di amnistiare i fascisti, che poco tempo dopo confluirono, talvolta in
posizione dominante nella Democrazia Cristiana, che si proclamava erede del partito fondato dal siciliano Don Luigi Sturzo. Mio padre divenne operaio alla FIAT ed essendo attivista
del P.C.I. sindacalizzato, negli ultimi anni della sua attività lavorativa, fu destinato ad un reparto punitivo. Fui educato alla
legalità e al rispetto dei principi costituzionali, oggi negletti e
calpestati e grazie al mio “pedigree” di tutto rispetto, sin da ragazzo fui trattato con riguardo nella sezione torinese del partito
dove ho militato, la n° 26 di Borgo San Paolo, il quartiere
dell’aristocrazia operaia. Ritenuto affidabile al massimo e data
la mia complessione fisica, fui scelto a far parte del servizio
d’ordine durante le manifestazioni più impegnative organizzate
dal P.C.I. La soddisfazione più grande la ebbi quando feci parte
del ristretto gruppo preposto alla sicurezza di Enrico Berlinguer, nel periodo più tragico del terrorismo in Italia. Per alcuni
anni accompagnai Pecchioli nella sua crociata antimafia prevalentemente nell’Italia meridionale. –
Si ricordò a questo punto Isidoro di aver incontrato
Teodoro nella Locride, quando il senatore del P.C.I. tenne un
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convegno contro la ndranghita. Era l’autunno del 1976 e in
quell’occasione fece molto impressione l’intervento di un ragazzo di Cittanova, Francesco Vinci, quando affermò che gli
affiliati utilizzavano le ricetrasmittenti dello Stato in dotazione
ai capocantieri dell’azienda forestale, per avvisare i latitanti
dell’arrivo delle forze dell’ordine. La sera, durante una riunione di alcune cellule della zona, propose di organizzare in tutta
la provincia di Reggio dei commandos armati e di tentare la
decapitazione della ndranghita, con il massacro di quanti più
capi fosse possibile in determinate date da concordare. Affermò che era l’unica soluzione possibile, in quanto essa altro non
era che un’istituzione creata, cullata, sorretta, finanziata, dallo
Stato.
Dopo qualche mese cadde in un agguato di mafia.
– E questo, continuò Teodoro, mi gratificò molto e mi
aprì gli occhi, in quanto capii che al sud si vive sotto la terribile
tirannide della criminalità organizzata, che uccide il futuro di
quei territori. Dalla mia posizione pertanto potei osservare i
cambiamenti lenti dapprima, poi sempre più veloci della struttura e dell’essenza del P.C.I., che cominciò a divenire altro anche nel nome. Passò l’idea, che per rinnovare, bisognasse fare
terra bruciata ed eliminare tutto ciò che aveva caratterizzato il
partito. Le strutture organizzative di base poco alla volta furono
soppresse e nominalmente restarono solo poche sezioni che
cominciarono ad assolvere la funzione di veicolo giustificativo
di pacchetti di tessere che nascono dal nulla e vanno nella dire-
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zione di chi gestisce gli apparati. E tutto ciò in nome del pluralismo e della comunanza d’intenti con l’anima bella dell’ex
Democrazia Cristiana, che si sente l’erede del Partito Popolare
di Don Sturzo. In questo lavoro di alleggerimento del partito, si
sono distinti i due protagonisti della vacuità, che hanno sperperato un patrimonio incredibile di sacrifici, valori, lotte ed impegno nella società. Dal momento che io ho conosciuto da vicino ambedue, ometto di parlarne ancora, per rispetto al filo di
amicizia che ci ha legato. Le speranze pertanto sono ridotte al
lumicino, specie per i giovani, che si avviano ad affrontare il
loro futuro, privo di prospettive. –
Filippo invitò a questo punto ad esprimere il suo punto
di vista e a raccontarsi, Domenico, che cominciò.
– Nacqui nel dopoguerra in una famiglia abbastanza
numerosa, in un contesto sociale tipico della Sicilia interna,
dove pochi benestanti esibivano la propria ricchezza in modo
quasi arrogante e spocchioso. Per sopravvivere non bastava
esercitare un solo mestiere, ma almeno due. Non sfuggì a questa regola mio padre, che aveva appreso l’arte di fornaciaio da
calce e lo portava avanti con fine perizia, ma ciò non gli consentiva di tirare avanti la famiglia. L’attività edilizia era limitata, alle riparazioni e alla costruzione di modeste case o casolari.
Per forza di cose nel tempo libero faceva il contadino, per produrre grano, olio e vino, per il fabbisogno familiare. Mia madre
badava al maiale, ad una capra da latte, alle galline, ai conigli,
ai porcellini d’India, sempre per uso familiare. Prima della se-
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conda guerra mondiale clandestinamente mio padre passò la
frontiera e dalla Liguria andò a Montecarlo, dove lavorò come
imbianchino. Ritornò alla fine della guerra ed allora gli nacquero i due figli maschi. Ebbi la fortuna di vivere, nella sua ultima
fase, l’ormai morente civiltà contadina, che nella nostra area si
era mantenuta intatta ed uguale per millenni. I miei genitori,
con tanti sacrifici mi mantennero agli studi e conseguii il diploma di ragioniere, che non mi servì. Infatti emigrai subito
dopo e nel 1967 lavorai in una fabbrica ad Engelthal nella Baviera, dove incontrai degli attivisti del P.C.I. e mi impressionò
la loro disponibilità ed il loro impegno sociale. Ad esempio
nella sezione operativa della zona essi aiutavano gli operai al
disbrigo di tutte le pratiche possibili, cercavano per i nuovi arrivati alloggio, li soccorrevano con interventi alimentari nei
primi giorni di permanenza, li guidavano alla ricerca di lavoro,
qualora fossero arrivati senza già un’indicazione o un contratto.
La cosa che più mi stupì fu l’aiuto culturale che essi davano. In
sezione prestavano dei libri da leggere ed organizzavano dei
corsi informali per gli analfabeti, che ancora erano numerosi.
Durante le elezioni politiche del 1968, furono organizzati dei
treni straordinari per gli emigrati che venivano a votare in Italia
ed erano assistiti ed allietati durante il viaggio, con canti ed
improvvisati interventi di sensibilizzazione, carrozza per carrozza. Alla stazione di Bologna fummo rifocillati con panini ed
acqua. La tensione morale nel partito cominciò ad allentarsi
prima di Tangentopoli e verso la metà degli anni 90, la “diver-
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sità” del partito ch’era stato il P.C.I., era inesistente;
l’omologazione agli altri partiti era ormai in fase avanzatissima
e divenne totale, dopo che la Bertuccia in cachemire fece in
modo che gli avversari brindassero in parlamento a champagne. In modo rocambolesca e misteriosa, la guida del governo
passò nelle mani del Barbiere di Gallipoli, che fece il riconoscimento di fatto del potere dell’Uomo-Fogna, basato
sull’elusione continua della legge e di fatto legittimò la subalternità dello schieramento di cui fu a capo nei riguardi del partito bonapartista e padronale. Considerando il soggetto, la cui
caratteristica fondamentale è la furbizia, sarà corrispondente al
vero ciò che si vocifera in giro nell’ambiente della sinistra; la
sua apparente e sbandierata ingenuità, di quel periodo fu frutto
di un consistente conto, costituito in suo favore dall’UomoFogna, in un paradiso fiscale. Ormai in Italia abbiamo perso
pure la speranza, in quanto non esistono più personalità capaci
di fermare il degrado che la sta inabissando. Non esistono più
ideali se non quello dei guadagni facili, ottenuti con qualsiasi
mezzo e rappresentano l’unico obiettivo a cui tendono i più e
specialmente la feccia d’Italia, che si è trasformata in classe dirigente. –
Gli interventi deprimevano sempre più i presenti, sconsolati per quello che sentivano, ma ormai bisognava completare
il giro ancora lungo, per cui Filippo invitò Paolo ad intervenire.
– Nacqui in Basilicata, in una famiglia contadina e con
infiniti sacrifici i miei genitori mi mantennero agli studi. Da
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giovane fui militante del PSIUP, mentre mio padre, volontario
fascista nella guerra civile spagnola, votava M.S.I. Nonostante
le sue idee, rispettò sempre le mie con incredibile riguardo, anche quando passai al P.C.I. che egli non amava ed in seguito a
Rifondazione Comunista. Subito dopo la laurea emigrai qui in
Piemonte, ricoprendo il ruolo prima d’insegnante e poi quello
di dirigente scolastico. Con infinito amore cercai sempre di
comprendere le esigenze dei ragazzi, considerandoli come la
vera essenza della nazione, guardando dentro di essi per conoscere le loro aspirazioni e le loro aspettative. In quarant’anni di
lavoro gratificante, ho letto in essi le idealità a cui tendevano e
ricercavano. In loro ho ravvisato costantemente l’amore e la ricerca dell’onestà, della lealtà, della solidarietà, della giustizia,
della legalità, dell’amicizia pura e disinteressata. Man mano
che gli anni passavano, nei ragazzi sempre diversi, ho riscontrato le stesse aspirazioni, ma notavo di anno in anno, che le
speranze per verificarne l’attuabilità di esse, divenivano sempre
più deboli. Infatti in essi cresceva lo sconforto constatando come in Italia stessero prevalendo gli ideali basati sulla futilità,
sulla vacuità e sul successo, finalizzato al guadagno, derivante
anche e prevalentemente dalla corruzione, veicolata dai politici. Verso questa categoria di persone, ho notato che essi nutrono disprezzo e repulsione, in quanto in essa alberga incompetenza e disonestà. Con infinita tristezza andrò in pensione dal
1° settembre e definitivamente mi staccherò dal mondo dei
giovani, che ho amato e a cui ho dedicato buona parte della mia
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vita. In quarant’anni d’insegnamento, mi sono assentato solo
56 giorni, per gravissimi motivi di salute. –
Ricordando il suo addio alla scuola, numerose lacrime
solcarono il volto di Paolo e Filippo, per tirare su il morale a
tutti propose di bere un po’ di vino, che fu versato in bicchieri
di cristallo, che luccicarono al riverbero del fuoco, man mano
che Andrea li riempiva.
Subito dopo la libagione toccò ad Andrea dibattere sul tema e
così cominciò.
– Nacqui a Roma dove vivo con mia madre, nel marzo
81, sette mesi dopo la morte di mio padre, avvenuta nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. Allora ella era incinta di due
mesi e cominciò a nutrirmi oltre che con il suo sangue, anche
con il suo dolore, che non si spense mai più nonostante il tempo che è trascorso. Da lei ho appreso che egli era molto buono,
pio, fervente credente ed impegnato nel sociale. Puntualmente
ogni anno, durante il mese di ferie, faceva il bancario, accompagnava come barelliere i malati, nel treno bianco, a Lourdes
ed amava deporre nella vasca d’acqua miracolosa, quelli che
l’avessero richiesto. Per lui era una missione, che lo gratificava
particolarmente e lo ricaricava per tutto il resto dell’anno. Il
suo impegno non si esauriva in questo, ma dedicava ogni domenica, che significava per lui giorno del Signore, agli altri.
Prestissimo, andava a messa e poi, d’accordo con il parroco
della sua parrocchia, del Sacro Cuore di Cristo Re, che gli organizzava gli orari, andava a donare ai malati il suo conforto e
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la sua assistenza; infatti era bravissimo a fare le iniezioni endovene. In apparente contrasto con il suo modo di essere, però
non votava Democrazia Cristiana, ma il Partito Socialista. Egli
si definiva seguace di don Sturzo, che, ricordava, al ritorno dal
suo esilio, dopo la caduta del fascismo, non fu d’accordo con la
decisione di De Gasperi di rompere con i socialisti e i comunisti, che tanto sangue avevano versato a favore della democrazia
in Italia. Agli occhi di mio padre, che era figlio di un socialista
perseguitato durante il ventennio, il “Grande Trentino”, dando
un certo credito ad un numero consistente di uomini
dell’apparato del passato regime, aveva determinato in partenza
l’inquinamento della Democrazia Cristiana, colpevole di ipocrita fariseismo. Mia madre non ha voluto rifarsi una vita e si
dedicò totalmente a me, asfissiandomi talvolta con le sue premure ed il suo affetto, non trascurando l’impegno per avere
giustizia, nel Comitato dei parenti delle vittime. In tale versante
mi coinvolse emotivamente e da quando ebbi meno di 18 anni
la seguii in tale sua attività, dando così il mio tributo d’affetto
ad un padre, che non mi vide nascere. Proprio per il disimpegno totale della sinistra, quando guidò il governo, in direzione
della scoperta della verità sulla strage di Bologna, togliendo il
segreto di stato, io non mi recai mai alle urne, pur sentendo una
forte attrazione per i gruppi politici che si oppongono al partito
bonapartista. Sono laureato in ingegneria elettronica e lavoro in
un centro di ricerche, ch’era appartenuto alla Selenia, che non
esiste più, ma nonostante ciò, non mi sento molto gratificato
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per via delle grandi ingiustizie che ravviso nel mondo del lavoro, a cui appartengo. Infatti vi sono evidenti disparità espresse
nelle retribuzioni, con gli appartenenti al management che guadagnano in modo scandaloso e gli altri che sono retribuiti in
modo inadeguato, come soggetti assunti con contratti a termine
e sottoposti a procedure neofeudali. Esco con una ragazza a cui
sono molto legato, ma non oso formarmi una famiglia, terrorizzato dall’incognita di un futuro senza prospettive per la nostra
nazione. In riferimento alla classe politica, che ci guida, in
blocco la considero costituita da infami, ladri e parassiti, che
bisognerebbe eliminare fisicamente, in una sorta di operazione
catartica da studiare e da sperimentare; naturalmente considero
l’Uomo-Fogna, come qualcuno di voi l’ha definito, il principale responsabile, non l’unico, del degrado del nostro paese, abilissimo nel tentativo di trasformare gli italiani a sua immagine
e somiglianza. Ah dimenticavo; mi rilassa moltissimo cucinare.
Vi ringrazio per l’attenzione. –
Il discorso del ragazzo fece molta impressione e tutti
quanti lo guardarono con una certa curiosità.
Ogni tanto qualcuno si allontanava un po’ per esigenze
fisiologiche e si ebbe uno stacco quando lo fece Filippo. I suoi
passi si intuivano talvolta per i rami secchi che crepitavano sotto i piedi ed il suo procedere incerto ma rumoroso nel buio totale, fece cessare nei dintorni dei rumori di fondo, costituiti forse dallo sgranocchiare di ghiri o forse di scoiattoli, di bacche o
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degli ossi eduli di essi; nell’area erano presenti i sorbi degli uccellatori e non mancavano le piante di mirtilli.
Qualcuno era tentato dal sonno per cui si cominciò a
raccontare delle barzellette, che continuarono a tenere banco
per un pezzo ancora.
Filippo ad un certo punto però, interruppe il piacevole
intermezzo e si ritornò al “lavoro”, con l’intervento del suo
amico.
– Sono stato allievo del nostro moderatore ed intrapresi,
dopo la laurea in giurisprudenza, la carriera nell’apparato dello
Stato. Ho cinquantatré anni e lavoro in gangli vitali, di cui
ometto di parlare. Sono nato a Torino da una coppia di emigrati, al tempo del boom economico, da Napoli mia madre, mio
padre dalla Sicilia, di cui ho voluto approfondire le vicende
storiche dal 1943 ai giorni nostri. Vi posso solo dire che dal
mio osservatorio particolare, la situazione dell’Italia appare
gravissima ed è tale che essa rischia di sprofondare. La causa
della rovina deriva dalla corruzione, dall’eccessiva burocrazia e
dall’inefficienza della giustizia, che in continuazione viene intralciata nel suo percorso, da nuovi leggi e provvedimenti. Si
calcola che i nostri codici constino di circa 47.000 articoli, che
quasi sempre sono utilizzati in modo pretestuoso per bloccare i
processi. Alla base però della disfunzione della giustizia in Italia ci sono i tre gradi di giudizio, costituiti da Assise, Appello,
Cassazione e la corsa verso la prescrizione dei reati. Solo dopo
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la rituale verifica della Cassazione, un soggetto può essere dichiarato innocente o colpevole. Naturalmente questa ritualità
estenuante era stata decisa dai costituenti, a garanzia della giusta applicazione della legge, però quasi subito si rivelò un marchingegno farraginoso, utile solo ai facoltosi; pertanto in Italia
si ebbe una giustizia diseguale, garantista con i ricchi, che possono reggere a lunghi processi in attesa di prescrizione, implacabile per i poveri, che si arrendono dopo poco tempo. Non è
così altrove; infatti in Francia ci sono di fatto due tempi processuali in attesa del verdetto finale,perché solo eccezionalmente si va in Cassazione,che non entra nel merito dei processi,ma analizza solo la correttezza formale di essi . Dopo la prima fase corrispondente a quella della nostra Corte di Assise, se
un individuo è ritenuto innocente, generalmente non affronta la
seconda fase. Viceversa nel caso contrario scatta la presunzione di colpevolezza ed il reo, presunto colpevole, va da subito in
carcere e nello stesso tempo viene bloccato l’iter della prescrizione del reato. Allora i suoi legali hanno fretta a celebrare la
seconda fase del processo, corrispondente a quella della nostra
Corte di Appello oppure temendo una pena maggiorata e gli
addebiti finanziari,rinunciano ad essa e così rapidamente si
giunge alla conclusione, con la decisione finale di colpevolezza. L’altro elemento determinante la rovina dell’Italia è costituito dalla corruzione istituzionalizzata e programmata a tavolino in maniera scientifica. Tale tendenza era in atto già prima
del quarto Gabinetto De Gasperi, con cui si arrivò alla decisio-
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ne di estromettere dal governo i socialisti e i comunisti, dando
ascolto alla Confindustria, al Vaticano e agli U.S.A. Fu ministro degli interni Mario Scelba, che tenne questo incarico dal 2
febbraio 1947 fino al 1953, in vari governi. Egli epurò le forze
dell’ordine, estromettendo coloro che avevano combattuto da
partigiani contro i nazifascisti e portò avanti una repressione
antisindacale ed operaia; più di cento infatti furono gli operai e
i contadini uccisi, specie dalla polizia, durante manifestazioni
sindacali legalmente proclamate. Scelba istituzionalizzò la collaborazione tra Democrazia Cristiana e mafia, di cui si servì
con l’avallo naturalmente di De Gasperi, di cui era molto amico, nella lotta contro il movimento contadino siciliano, che era
cresciuto in modo impetuoso e che procedeva speditamente
all’occupazione delle terre abbandonate, galvanizzato dalla vittoria elettorale del Blocco del Popolo, alle elezioni per
l’assemblea regionale, del 20 aprile 1947. Già prima del voto
era stato ucciso, il 4 gennaio, il dirigente comunista Accursio
Miraglia e poi il 17, il militante Pietro Macchiarella, ma in
grande stile l’alleanza fu sperimentata il 1 maggio del 1947, alla fine del III governo De Gasperi, quando nella Piana degli
Albanesi, a Portella della Ginestra, la banda di Salvatore Giuliano sparò sul raduno gioioso costituito da circa 2000 partecipanti alla festa del 1 maggio, tra cui molte donne e bambini; 11
furono i morti e decine i feriti. Naturalmente De Gasperi diede
il via libera per continuare a Scelba, che ispirò la strategia antisindacale ed il 2 marzo del 1948 cadde sotto il piombo mafioso
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Epifanio Leonardo Li Puma, nelle Madonie, a Calogero Cangelosi toccò la stessa sorte il 1 aprile dello stesso anno, mentre il
10 maggio fu eliminato a Corleone l’ex partigiano e sindacalista, Placido Rizzotto. Il tandem De Gasperi-Scelba, al servizio
degli americani e del Vaticano, fece terra bruciata in Sicilia attorno alla CGIL, che fu decapitata con il massacro di decine e
decine di sindacalisti. Con tale operazione voluta dal “Grande
Trentino”, la Sicilia fu definitivamente consegnata alla mafia e
all’arretratezza. Tutto il meridione, trattato analogamente, seguì la stessa sorte. La svolta di De Gasperi, a sfavore delle
classi subalterne ed oneste del Sud determinò la definitiva occupazione del potere da parte dei profittatori e dei corrotti almeno nell’Italia meridionale e ciò determinò un modello ancora più divaricato della nazione, con un Nord sviluppato ed apparentemente onesto ed un Sud degradato e governato dalla
criminalità. Personalmente vissi sin da bambino questo dualismo, in quanto figlio di una napoletana emigrata a Torino
quando d’estate ritornavo con i miei nel quartiere di Montecalvario, a Napoli. Mio padre faceva il carabiniere e mia madre la
maestra elementare ed abitavamo in corso Francia, in un appartamento non distante da piazza Statuto. L’ambiente cittadino e i
miei genitori mi spronarono a diventare boy-scout, a frequentare dei corsi extrascolastici di musica, a partecipare ad iniziative
naturalistiche e a quelle dell’oratorio. Fui un figlio modello, affettuoso, diligente a scuola, legatissimo a mia sorella, di due
anni più grande, frequentai il liceo D’Azeglio e poi l’università
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laureandomi in giurisprudenza. Divenni dopo la laurea servitore dello Stato ed ora rivesto un incarico notevole in Lombardia
dove vivo, agiatamente. D’estate però,prima che cominciassi a
frequentare il ginnasio, per un mese cambiavo pelle ed arrivato
a Montecalvario, diventavo un perfetto monello. Con i ragazzini del quartiere mi divertivo un mondo a suonare i campanelli,
a prendere a sassate i gatti, a legare i barattoli alla coda dei cani
randagi, a rompere qualche vetro. Come tutti i quartieri di Napoli, Montecalvario offriva uno spaccato vario dal punto di vista sociale, con la prevalenza assoluta di ceti popolari. I modelli di vita non erano paragonabili a quelli torinesi e mi restarono
indelebili nella memoria alcuni episodi. Un giorno vidi un signore che lanciò una busta di spazzatura dal quarto piano, verso un cassonetto sommerso d’immondizia. In un’altra occasione assistetti ad un furto ai danni di un turista francese che transitava in auto con carrello a seguito, pieno di valigie. Si fermò
al semaforo ed in un baleno un nugolo di ragazzi svuotò il carrello. Un altro giorno ancora uscivo da un bar con un cono in
mano e vidi un turista americano, alto, robusto, anziano con
due grosse valigie, in attesa forse di un taxi, vicino ad un tavolino del bar. All’improvviso spuntò un monello, che salì su una
sedia e sputò in faccia al turista, che furibondo cercò di acchiapparlo abbandonando le valigie; arrivarono a quel punto
dei ragazzi che le portarono via. L’ultimo episodio a cui assistetti fu tragico in quanto fui testimone di un omicidio, commesso tra la folla. Avevo terminato le scuole medie e dopo
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quell’anno non volli ritornare più a Napoli. Fui simpatizzante
della Democrazia Cristiana ed ammirai tantissimo la figura di
Aldo Moro che mi affascinava per la sua pacatezza e per la sua
imperturbabilità. Avevo 22 anni ed ero già servitore dello stato
a Roma, quando fu sequestrato, vilipeso ed ucciso per volontà
degli uomini del suo partito ed in seguito al tradimento di un
uomo a lui vicinissimo. Costui, quando fu ucciso, per il rimorso, la sera si coricò con i capelli neri e al mattino si ritrovò canuto. L’eliminazione di un pilastro portante della democrazia
in Italia, andò di pari passo all’affermazione della parte più becera e corrotta del partito cattolico che in maniera appena velata appoggiava la criminalità organizzata. Il terrorismo rosso e
nero, teleguidati dai servizi, avevano lo scopo di indebolire il
sindacalismo e far perdere alla classe operaia le conquiste acquisite con lo statuto dei lavoratori, diventato operativo a partire dal maggio 1970, grazie all’impegno congiunto di due grandi socialisti, Gino Giugni d’origine calabrese e Giacomo Brodolini, che non ebbe la fortuna di vedere il frutto del suo lavoro
perché morì nel 1969. L’altro campione di democrazia, Enrico
Berlinguer, che con Aldo Moro, aveva tentato di far ripartire la
collaborazione, cessata per volontà di De Gasperi nel dopoguerra, tra le forze più sane della sinistra e quella del centro, si
trovò isolato. Aumentarono gli intrighi, gli attentati terroristici,
le stragi dei servizi e della P2, di cui non si avevano ancora notizie. Ad un certo punto però, venne fuori la verità sulla loggia
segreta Propaganda 2 appunto e dopo qualche resistenza, si ar-
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rivò alla pubblicazione dell’elenco, con il governo Forlani. Fece molta impressione leggere sull’elenco nomi di ministri, generali, industriali, ecc. In seguito si seppe che la P2 era implicata nel fenomeno dei sequestri di persona e dunque in molte
stragi. Venne dato l’incarico a Dalla Chiesa di lottare il terrorismo dilagante e lo fece con successo. Il generale fu mandato a
Palermo a lottare la mafia e quando capì che essa era manovrata ed ingrassata dalla politica fu ucciso, nel settembre del
1982. Arrivò l’opportunità del politico socialista a “statura europea” che si distinse per grinta, specie nell’eliminare dalla
scena politica italiana gli uomini che tenevano alta la moralità
del P.S.I.: Riccardo Lombardi e Sandro Pertini. L’uomo di
“statura europea” fu attivo nel far diventare enorme il debito
pubblico in Italia, considerò i beni culturali, “giacimenti culturali”, proponendone anche la vendita come fossero minerali, si
affannò a creare la ricchezza dell’Uomo-Fogna che sottovalutò
ed estenuò in lunghissime anticamere a Roma; lo serviva per
ultimo definendolo irato, straccione. Ebbe campo libero dopo
la morte nell’84 di Enrico Berlinguer, che ebbe come eredi,
prima uomini stanchi, senza idee, poi borghesi piccoli, piccoli,
che per amore delle novità, cominciarono risolutamente a dissipare il patrimonio del P.C.I. Nel deserto totale si mossero solo Craxi ed Andreotti, in una gara per insozzare e rovinare
l’Italia. Il “divo Giulio”, erede di De Gasperi, specie nel servirsi della mafia, privilegiò di essa quella elegante e borghese, dei
Bontade, dei Greco di Monteverde Giardini, che fu demolita
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dai ribelli di Corleone, protetti dai servizi. Riina fece terra bruciata, attaccò lo Stato, tentò la costituzione di una più grande
holding mafiosa, coordinando riunioni in Aspromonte. Il suo
canto del cigno,come garzone dei servizi e dei piani più alti
della politica, si ebbe con la strage di Capaci del 23 maggio
1992, dove furono sacrificati i due giudici Giovanni Falcone e
Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e quella di via D’Amelio del 19
luglio dello stesso anno, dove caddero il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi,
Vincenzo Limuli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Tali
episodi rappresentarono il punto più cruciale della collaborazione tra mafia e governo. Del resto sin dalla nascita dello stato
unitario, i politici si adoperarono nella costituzione di un potere illegale, subordinato al proprio, da utilizzare nei “lavori
sporchi”. A partire dalla cosiddetta “ spedizione dei Mille“,
furono buttate le basi per creazione della mafia, di cui non si
conosce il significato letterale, mentre bisognerebbe ricercarlo
negli incartamenti piemontesi dei primi governi postunitari. Un
giorno ascoltando un intervento in un convegno in cui si argomentava sulle mistificazioni storiche degli ultimi 150 anni, trovai il bandolo della matassa; veniva mostrato un dizionario
dell’ultimo scorcio del XIX secolo,dove per la prima volta era
comparso il neologismo mafia. In esso, per il termine mafia si
legge “ s.m. - voce piemontese diffusa in tutt’Italia, che equivale a camorra“. Il vocabolario era stato dato alle stampe nel
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1876, nello stabilimento tipografico Lao e l’autore era Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena ed aveva come titolo
“Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano-volume unico - terza edizione corretta ed accresciuta“. Nel 1975 è stata riproposta la ristampa anastatica dall’editore Pietro Vittoretti. Fatto sta che
già dai picciotti di Rosolino Pilo e dagli uomini assoldati da
Crispi, per supportare Garibaldi, furono selezionati i quadri
della nascente mafia, che fu potenziata dai politici espressi dal
nord. Infatti costoro, dopo aver depredato il sud, si predisposero a renderlo definitivamente colonia. Allora fu conseguente
trasformare i mafiosi, costruiti a tavolino, in regolatori sociali,
a favore dei potenti e dei prevaricatori. Essi ebbero la funzione
di dirimere i contenziosi e di punire i rei, identificati sempre tra
i deboli e gli oppressi,mentre i giudici,al servizio dei ceti egemoni, si giravano dall’altra parte. Delle novità a proposito si
ebbero sotto i numerosi governi dell’efficiente statista piemontese Giovanni Giolitti, la cui ascesa politica era stata fermata
dallo scandalo finanziario della Banca Romana, che esplose nel
1892, quando fu accertato che l’istituto finanziario, autorizzato
ad emettere carta moneta per 60 milioni di lire, ne aveva emesso 113, di cui molti con il numero di serie identico, quindi falsi,
per camuffare l’imbroglio; lo statista piemontese aveva cercato
di fermare l’inchiesta per coprire il re Umberto I, indebitato
con la banca stessa. Infatti, Giolitti usò la criminalità per il
controllo dei collegi elettorali al sud, tanto che Salvemini lo
definì “il ministro della malavita “. Fatto sta che il 12 marzo
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1909 era a capo del governo, quando fu ucciso a Palermo il tenente della polizia americana Joe Petrosino, italo-americano,
che era arrivato in Italia sotto falso nome, con il compito
d’indagare sui rapporti tra la mafia siciliana e la sua filiale statunitense “la Mano Nera”. Fu accusato dell’omicidio il capomafia don Vito Cascio Ferro, che fu processato, ma prosciolto
grazie all’alibi fornitogli dall’on. Domenico De Michele Ferrantelli, che testimoniò che il giorno dell’omicidio don Vito era
a casa sua. Ritorno al discorso di prima e concludo, con le stragi di Capaci e di via D’Amelio si pensava di aver toccato il
fondo, ma l’Italia invece si preparò ad un altro “salto di qualità” che venne dopo Tangentopoli e di cui non parlo per non
sporcarmi la bocca. Vi dico soltanto, che la sera vado a letto e
stento a prendere sonno, preoccupato per l’Italia e per il futuro
dei giovani. –
La stanchezza stava prevalendo sulla voglia di ascoltare, ma bisognava finire il giro ed allora Andrea andò a preparare il caffè in una Bialetti da dieci per otto persone. Frattanto
Isidoro aggiunse dei grossi ceppi di castagno sul fuoco, in
quanto la temperatura si era abbassata ulteriormente, mentre
nello scrigno celeste tempestato di luci lontane, qualche stella
cominciava a svanire, segno che l’aurora si avvicinava.
Sorbendo lentamente un forte caffè, Isidoro cominciò a
parlare.
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– Vissi il clima della Calabria del dopoguerra in una
comunità rurale, dove la civiltà contadina si stava preparando a
soccombere, grazie all’emigrazione transoceanica senza ritorno
e alla metà degli anni 50 il capitolo dell’esodo totale era già
concluso. Mi ricordo i momenti felici dell’infanzia, vissuti
all’aperto sui campi, in giochi infiniti. Nell’autunno del ‘54,
tutti i miei amici ed un fratello diciannovenne, mi furono rubati
dai transatlantici Roma e Sorrento. Le famiglie partivano in
massa e le case furono chiuse per sempre. Restavano i vecchi
genitori e le vetuste nonne, peso inutile da portare dietro, tenevano avvinti al petto, i teneri nipotini. I volti rigati di lacrime
dei piccini e delle nonne risultavano uniti, in un disperato tentativo di possesso reciproco. Intervenivano allora mani forti ed
impietose, che strappavano i piccoli. Le vecchie inutili, urlando, graffiandosi il volto, strappandosi i capelli, si rotolavano
nella polvere alla vista dei cari, perduti per sempre, saliti sul
cassone di un camion che inesorabilmente si allontanava. A
questo punto i vecchi compagni di vita, qualora fossero sopravvissuti, si avvicinavano alle proprie donne, con il petto
squassato dal pianto e le tiravano su e le riportavano alle case
vuote ed ormai inutili. Ricordo il nonno cieco di tre miei amici
partiti per l’Australia. Egli era il nostro vate, che ci allietava
con le fiabe e quando i suoi nipotini partirono, alla fine
dell’ottobre del 54, fu portato a Iesolo nella casa del figlio poliziotto. Ai primi di agosto del 55 si lasciò morire per il dolore,
rifiutando il cibo; aveva 66 anni. Vissi quasi in solitudine dopo
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la perdita dei miei amici, in una famiglia contadina ed aiutato
da mio fratello emigrato, arrivai a laurearmi. Fui insegnante di
Lettere nelle medie superiori, prevalentemente del Sud, che anno dopo anno sprofondava nel degrado, anche grazie alla criminalità organizzata, privilegiata dal partito di maggioranza relativa. A diciotto anni diventai attivista del P.C.I. e già ebbi il
piacere di votarlo nelle elezioni politiche del 68. A quell’epoca
era ormai chiaro che la ‘ndranghita aveva l’appoggio della politica e ciò emerse più chiaramente dopo il 26 ottobre 1969,
quando le forze dell’ordine, inviate dal questore di Reggio Calabria Emilio Santillo e guidate dal commissario Alberto Sabatino sorpresero a Montalto in località Serro Juncari, un summit
mafioso. Furono arrestati diverse decine d’individui, ma moltissimi sfuggirono all’arresto, coprendosi la fuga sparando;
erano presenti tutti i capi storici della Piana, della Jonica e di
Reggio città. Si parlava degli affari connessi alla costruzione
della Salerno–Reggio Calabria, del traffico delle sigarette, dei
rapporti con Junio Valerio Borgese, della necessità di tenere a
bada i giovani che anelavano al nuovo. Si disse che parteciparono al raduno, ma incappucciati, un ministro ed un vescovo.
Probabilmente ciò corrispondeva a verità in quanto nel maxi
processo intentato a 72 persone, per associazione a delinquere,
miracolosamente tutti furono assolti, in quanto dalla sentenza
risultò la verità degli avvocati difensori che affermavano che i
convenuti a Serro Juncari, s’erano riuniti per un’innocente
scampagnata. La gente per bene rimase allibita e scandalizzata,
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i disonesti esultarono. Frattanto le novità stavano arrivando con
la nascita delle regioni a statuto ordinario e con la decisione di
trasferire il capoluogo a Catanzaro, per cui nell’estate del 1970
scoppiò la rivolta a Reggio, guidata dai fascisti di Ciccio Franco e dalle nuove leve della ‘ndranghita ispirate dai fratelli De
Stefano, che si arricchirono velocemente con i traffici d’armi, i
sub-appalti e con la droga. Gli agitatori di Reggio, supportati
dai servizi pianificarono degli attentati. Il 22 luglio 1970 a
Gioia Tauro una bomba fece deragliare un treno e ci furono sei
morti e decine di feriti, il 4 febbraio 1971 venne lanciata
un’altra contro un corteo antifascista a Catanzaro, che provocò
un morto, nella notte del 21 ottobre 1972 sulla linea ferroviaria
ne furono piazzate altre, finalizzate ad impedire ai partecipanti
di una manifestazione democratica, di raggiungere Reggio. In
questo contesto infuocato, si aprì la pagina dei sequestri di persona che distrusse in pochi anni la borghesia imprenditoriale
calabrese che, spogliata ed umiliata, fu ridotta in povertà o trasferì i propri capitali al centro-nord Italia. Alla fine degli anni
80 fu presente sul territorio, quasi solamente la borghesia mafiosa, spocchiosa ed arrogante costituita da ex-caprai. Proprio a
Reggio intanto era partito lo spunto per la prima guerra di
‘ndranghita, che falcidiò i capi storici: Macrì, Zappia, Tripodo.
Con l’uccisione di Tripodo a Poggioreale nel 1976, si brindò
all’alleanza di Cutolo con i De Stefano, che uscirono vincitori
sulla cosca nemica, ma i morti furono circa 350. La seconda
guerra di ‘ndranghita negli anni 80, portò al contenimento dei
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De Stefano e i morti furono 650; tra le vittime più illustri si
contò anche il presidente delle ferrovie, Ludovico Ligato. A tale sfacelo della Calabria, corrispose la corruzione ed il malgoverno nel resto dell’Italia; il denaro pubblico fu rubato e dissipato e l’Italia accumulò un enorme debito pubblico. Fu il periodo del terrorismo infiltrato, della necessità dei piani alti del
potere politico di tacitare chi sapeva sui rapporti mafia-politica.
Le vittime più illustri furono: Moro, Dalla Chiesa, Falcone,
Borsellino, mentre la loro controparte fu costituita dal “divo
Giulio” e dallo “statista a statura europea”. Imperversarono in
questo periodo i servizi deviati e la P2, ispirati secondo alcuni
da palazzo Giustiniani e dalla massoneria di rito scozzese antico, che apparentemente fanno professione di antiautoritarismo.
La commistione fra mafia e massoneria produsse inoltre il fenomeno delle stragi di Stato, la nascita dei fenomeni finanziari
misteriosi che gravitarono attorno ai siciliani Cuccia e Sindona,
al calabrese d’origine, Roberto Calvi e alla I.O.R., la banca del
Vaticano. Sul piano pratico la connessione tra mafia, politica e
logge più o meno coperte della massoneria, produsse il fenomeno dell’abusivismo edilizio e dei grandi palazzinari. In tale
comparto si distinsero a Milano il siciliano Salvatore Ligresti e
a Roma i fratelli Caltagirone d’origine palermitana. Frattanto in
Calabria, le cosche della Locride meridionale, trasformarono le
loro montagne in prigioni per i sequestrati e ciò determinò
spesso faide interminabili, teleguidate dai servizi che talvolta
furono registi occulti dei rapimenti; emblematico fu il seque-
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stro Soffiantini. Essi del resto s’erano serviti dell’aristocrazia
della ‘ndranghita durante il sequestro Moro. Un suo fedelissimo politico calabrese, all’ultimo momento, avuto sentore del
sequestro-avvertimento, fece posizionare alle spalle del commando di via Fani un “tiratore scelto” delle cosche aspromontane, capace di centrare 5 volte su 10, cento lire a dieci metri di
distanza. Avrebbe dovuto sparare sui componenti del gruppo di
fuoco delle “Brigate Rosse”, nel caso avessero ucciso Aldo
Moro, che doveva a breve essere liberato, qualora fossero stati
rispettati i patti siglati tra Moretti e i servizi; secondo l’exbrigatista Franceschini il capo delle B.R., durante il sequestro
Moro, non solo fu guidato dai servizi segreti italiani, ma addirittura fu al servizio della C.I.A. Dei seri dubbi su Moretti che
vantava amicizie femminili nell’aristocrazia milanese, lo manifestò anche Anna Laura Braghetti, una dei carcerieri di Moro,
che non solo ebbe modo di apprezzare lo statista, ma addirittura auspicava la sua liberazione, assieme agli altri, compreso
Prospero Gallinari; Moretti, che si assentava dalla prigione di
via Montalcini per recarsi nel covo di via Gradoli, misteriosamente vicina ad importanti uffici dello stato, per lunghi periodi
e quasi liberamente, decise da solo la sorte del politico democristiano, passando i comunicati “all’ingegnere Altobelli”, alias
Germano Maccari, che stranamente fu arrestato anni dopo e
misteriosamente morì d’infarto in carcere. Alla fine dell’estate
dell’80 chiesi l’assegnazione provvisoria al provveditorato di
Torino, per l’anno scolastico 80-81 e fui assegnato in una sede
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del Canavese. Prima di partire, venne a trovarmi un capocellula del P.C.I., di cui ero molto amico e data la mia attendibilità e la mia assoluta fedeltà al partito, mi confidò le sue
preoccupazioni; suo fratello, assieme ad un suo amico, stavano
attraversando un periodo di crisi e rischiavano di dare ascolto a
delle “sirene” insidiose. L’Italia era in pericolo e bisognava vigilare, per evitare derive avventurose, giustificate dalle velleità
terroristiche. Ogni tanto andavo a trovarli e con discorsi vari
spiegavo loro come il P.C.I., difendendo la legalità ed assumendo atteggiamenti fermi contro il terrorismo, di fatto diventava un baluardo a favore della democrazia. Parlavo loro della
funzione e dell’importanza del questionario sul terrorismo, che
loro bollavano d’infamia. Quando andavo a trovarli, il fine settimana, dormivo da Filippo, qui presente, nella Barriera di Milano. Egli mi pregava di lasciarli al loro destino perché di sicuro erano pedinati, in quanto Torino era diventata la città più
blindata d’Italia. In effetti un giorno, mentre giravo senza meta
notai che ero seguito sempre da una stessa macchina. Allora
per due ore feci le strade di Torino sempre seguito da una Ritmo beige. Alla fine posteggiai e a piedi raggiunsi i due ragazzi
e li ammonii di nuovo, rivelando che erano sotto controllo. A
casa con loro c’erano due giovani parigini, d’origine armena,
che da quanto capii facevano parte dell’Asala. Mi misi a passeggiare sul Lungodora e mi sedetti per riposare su una panchina. All’improvviso arrivarono due macchine, che si fermarono
ai bordi della strada. Da una di esse uscì piangente una bella
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ragazza bionda che tentò di scappare, cercando aiuto. Un ragazzo alto e robusto la raggiunse e cominciò a picchiarla selvaggiamente. Io mi avvicinai di corsa all’uomo e cercai di immobilizzarlo. Egli, come una furia, si voltò e mi sferrò un pugno in un occhio, stendendomi sul marciapiedi. Continuò poi a
picchiare la ragazza e poi, di forza la caricò piangente sulla
macchina e partì sgommando. Ebbi un occhio “truccato” per
una decina di giorni e dopo una quindicina la visita dei due ragazzi, che tentavo di condurli sulla buona strada, in compagnia
di una coppia splendida; lei era bella e bionda e mi sembrava di
averla vista altrove, il ragazzo mai visto prima, indossava un
completo nero di pelle, era alto, snello, bruno, dagli occhi verdi. Costui si definì rivoluzionario e mi chiese di che tendenza
fossi. Gli replicai pacatamente che la rivoluzione si fa lavorando onestamente, difendendo con le armi del diritto e delle leggi
le conquiste della democrazia, aggiungendo che ero un militante del P.C.I.; restò deluso, mentre la ragazza mi pregò
d’indicarle la toilette. Prima di entrare mi parlò sottovoce, dicendomi che era la ragazza che avevo tentato di difendere sul
Lungodora e che il ragazzo con cui si accompagnava era un poliziotto; mi raccomandò pertanto di stare lontano da quei due
poveri idioti. Ritornai a sedermi e invitai a cena i quattro. Cucinai velocemente e durante la cena i due miei conoscenti parlarono della necessità di estendere la lotta armata e dando delle
pacche sulle spalle al loro presunto amico, gli prospettavano
azioni ardite, che l’interlocutore avallava con convinzione. Non
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li frequentai più e due mesi dopo lessi su un giornale del loro
arresto, con l’accusa di banda armata. Prima di andare a Torino, in assegnazione provvisoria, avevo tentato di costituire una
cooperativa agricola, che coltivasse i terreni abbandonati degli
emigrati, coinvolgendo dei giovani disoccupati. Con piccole
somme dei soci, senza mai richiedere finanziamenti pubblici,
pagando regolarmente i canoni d’affitto per i terreni, avviando
al lavoro regolarmente le raccoglitrici, cominciammo con qualche prospettiva di successo, ma successivamente ci trovammo
in difficoltà per motivi ambientali. Nella fase di liquidazione
della struttura associativa, fummo aiutati dal presidente della
cooperativa “Rinascita” di Rosarno, Fausto Bubba, imparentato con il ministro dell’agricoltura e delle foreste, del II° governo Badoglio e altri successivi, Fausto Gullo, comunista, che si
era battuto, con i suoi decreti, per l’assegnazione delle terre incolte ai contadini. Egli era stato il primo nel 1944 a proporre
l’istituzione dell’Assemblea Costituente e quando al dicastero
dell’agricoltura fu sostituito da Segni, il 13 luglio del 46, divenne ministro della Giustizia. Le sue disposizioni concernenti
l’assegnazione delle terre incolte, furono combattute con successo da De Gasperi, che scatenò nell’Italia meridionale la polizia e i carabinieri contro i braccianti senza terra, facendo centinaia di morti, mentre in Sicilia la criminalità organizzata fu
usata contro le leghe contadine, guidate da sindacalisti meravigliosi e sorrette dall’impegno politico del possente segretario
politico del P.C.I. siciliano, Girolamo Li Causi. Placido Rizzot-
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to aveva pagato con la vita il suo impegno contro la mafia, ma
anche Girolamo Li Causi si era battuto contro di essa ed era
stato fatto segno ad un attentato a Villalba, dove, attinto da un
proiettile ad una gamba, rimase claudicante per il resto della
sua vita; era il 16 settembre del 1944 e l’azione criminale era
stata organizzata dal capomafia Calogero Vizzini che in seguito fece uccidere per conto della D. C. di De Gasperi, i banditi
non affiliati e consegnò alle forze dell’ordine numerosissimi
latitanti. In Calabria fu più difficile asservire al potere democristiano la ‘ndranghita ed infatti solo alle elezioni politiche del
48 si piegò al diktat di Scelba e da allora seguì scodinzolando
le direttive della D. C.; prima c’erano stati tentativi di ribellioni
organizzate, il più eclatante dei quali fu quello di Caulonia. Qui
infatti il comunista Pasquale Cavallaro, proclamò la repubblica
con prospettive di egalitarismo assoluto, che durò dal 6 al 9
marzo 1945, dopo aver avuto la promessa di appoggio anche da
parte di vecchi capibastone che erano vicini alle esigenze dei
contadini. Allora i proprietari terrieri furono sottoposti a pene
di “contrappasso” ed essi, che avevano gravato i lavoratori con
pesi indicibili, fatti di umiliazioni e sfruttamento, furono costretti, a suon di nerbate, a trasportare sacchi di sabbia dalle
fiumare al centro del paese. Dalle indagini eseguite sui registri
comunali risultò che il 75% dei terreni posseduti dai maggiorenti, erano stati usurpati e sottratti alle comunità locali. La
“repubblica” finì di esistere il 9 marzo del 45, quando la cittadina fu circondata da mille carabinieri e 200 poliziotti. Aveva
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espresso il suo appoggio Stalin da Radio Praga, mentre aveva
mandato messaggi di solidarietà Terracini, contemporaneamente però, il movimento era stato sconfessato dalla federazione
del P.C.I. di Reggio Calabria. Era stata creata la milizia popolare ed eletto un commissario del popolo. In quei giorni il tempo
turbinò vorticosamente e si lasciò dietro amarezza, delusione
ed un prete ucciso, la controparte di Cavallaro: don Gennaro
Amato, abbattuto con un colpo di fucile all’inguine. Per alcuni
fu vittima dei comunisti, secondo altri fu ucciso dal marito di
una donna con cui don Gennaro aveva avuto una relazione. Del
resto gli interessi in questione erano minori di quelli siciliani in
quanto, in seguito alle lotte contadine, che precedettero
l’avvento del fascismo, specie nella provincia di Reggio, i feudatari più importanti (i Carafa, ad es.) avevano liquidato i propri latifondi, vendendoli, mentre nel dopoguerra, grazie ai decreti del ministro comunista Gullo, c’era la speranza che parti
di essi sarebbero assegnate ai contadini senza terra. Ancora la
situazione divenne difficile per il governo nell’attuale provincia di Crotone, dove in prevalenza i latifondisti avevano mantenuto i propri privilegi. Qui la lotta divenne dura e le organizzazioni contadine si batterono, pagando un forte tributo di
sangue e tra tanti episodi il più noto è quello di Melissa. Infatti
il 29 ottobre 1949 una moltitudine di lavoratori, uomini e donne si trovarono ad occupare le terre di contrada Fragalà, che
erano state assegnate al demanio comunale con decreto
dell’amministrazione francese già dal 1811, ma che in seguito
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furono usurpate dai marchesi Berlingieri. Un centinaio di poliziotti furono fatti affluire da Bari e fu indicato a loro di sparare
sulla folla; furono uccisi Giovanni Zito di 20 anni, Francesco
Nigro di 29, che guidava pacificamente la manifestazione ed
Angelina Mauro di 24. La situazione in Puglia in alcune aree
divenne difficile, nonostante la guida moderata del grande
Giuseppe Di Vittorio, per cui ci furono degli episodi tristi connessi alle lotte per l’occupazione della terra dei latifondi, ma il
caso più eclatante fu quello di Andria, dove vittime sacrificali
in un caso esecrabile furono due donne innocenti, mentre negli
scontri caddero 7 braccianti e 2 due rappresentanti delle forze
dell’ordine. Ad Andria infatti il 5 marzo 1946 la ditta Spagnoletti-Zeuli si rifiutò di eseguire un’ordinanza del Moa (Ufficio
della Massima Occupazione in Agricoltura) che l’invitava ad
assumere quattro reduci di guerra. I contadini, riuniti nella locale Camera del Lavoro, decisero per rappresaglia di sequestrare e tenere in custodia nella stessa sede alcuni proprietari terrieri. L’intervento delle forze dell’ordine, fece degenerare la protesta, il 5 ed il 6, con scontri furibondi, per cui il locale segretario della Camera del Lavoro, per chetare le acque, promise
l’arrivo del segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio, amatissimo dai braccianti di tutta Italia e specialmente dai
suoi conterranei pugliesi. Il segretario arrivò il 7 marzo e si
stava apprestando a fare un discorso pacificatore, quando
echeggiò un colpo di fucile all’indirizzo della Camera del Lavoro e subito si diffuse la notizia che avevano tentato di ucci-
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dere Di Vittorio. Alcuni pensarono di aver individuato il palazzo da cui era partito il colpo indicato erroneamente con quello
posto di fronte alla Camera del Lavoro, che era il palazzo Porro; esso era abitato da quattro indifese ed innocenti donne e per
giunta anziane. La casa venne invasa e saccheggiata e due delle
occupanti, Carolina di 54 anni e Luisa di 76, furono trascinate
in via Bovio e crudelmente assassinate. Lo sgomento fu grande
in tutto il paese ed il giorno 8, i carri armati riportarono la pace
ad Andria; 150 furono gli inquisiti. La Puglia comunque divenne terra democristiana, dove rifulse l’intelligenza di Aldo Moro. Anche nella pacifica Lucania i contadini senza terra, spinti
dalla fame del dopoguerra, portarono avanti le loro lotte ed in
questo si distinsero i braccianti di Montescaglioso, guidati dal
combattivo sindaco Ciro Candido, che non si era piegato ai voleri di De Gasperi e del suo beneamato ministro degli interni
Scelba. Già nel 45, i contadini del posto, forti dei decreti Gullo
avevano occupato il latifondo La Cava, ma furono costretti a
desistere, ma ricominciarono il 7 dicembre del 1949 e resistettero fino al giorno 13, quando dalla Puglia, mandati da Scelba,
arrivarono centinaia di celerini con l’ordine di sparare e di trovare ad ogni costo il sindaco Ciro Candido, che non fu scovato.
Nella notte tra il 13 e il 14 i poliziotti incrociarono dei manifestanti inermi e pacifici e fecero fuoco su di essi; caddero Michele Oliva e Giuseppe Novello. In Campania, terra di criminalità organizzata, la camorra si barcamenò all’inizio fra i monarchici e i democristiani, che furono da essa in seguito pienamen-
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te gratificati, dopo la scomparsa politica di Achille Lauro, che
consegnava una scarpa prima del voto e la seconda ad elezioni
avvenute. In seguito, con l’aiuto dei siciliani, i clan dei marsigliesi asservirono i capi della vecchia guapperia. Ai primi degli
anni 70, in loro aiuto accorsero gratuitamente e disinteressatamente i calabresi della ‘ndranghita che in poche settimane eliminò i marsigliesi e i siciliani. Il più avvantaggiato risultò Raffaele Cutolo, che ricambiò i fratelli De Stefano di Reggio, con
l’eliminazione a Poggioreale di don Mico Tripodo.
Nell’autunno dell’86, durante il II governo di Bettino Craxi, ci
fu la necessità di smaltire rifiuti altamente tossici o addirittura
scorie radioattive e i servizi si rivolsero alla mafia siciliana, alla camorra, alla ‘ndranghita. I clan di S. Luca, per bocca di
Giuseppe Nirta, cercarono di vietare lo smaltimento in Calabria ravvisando il pericolo;in seguito però, arrivarono con il
coordinamento dei servizi,si dice, camion carichi di fusti pieni
di rifiuti tossici o radioattivi, interrati in buche scavate da pale
meccaniche in tutto l’Aspromonte centrorientale. In definitiva
con tale operazione folle i bacini idrici del Careri, del Bonamico, della Verde, del Bruzzano, del Palizzi, dell’Amendolea sono stati irrimediabilmente inquinati; da essi deriva
l’approvvigionamento di acqua potabile e di uso domestico per
50.000 abitanti. In tale area si muore ormai prevalentemente di
malattie tumorali. Ad Africo Nuovo, solo nella via Provinciale,
negli ultimi 20 anni sono morte 25 persone di cancro, su una
popolazione di circa tremila abitanti. I servizi aiutati da uomini
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senza onore del territorio, hanno dato il benservito alle comunità dell’Aspromonte. Infatti nel caso si scoprisse che i veleni sepolti in queste zone sono costituiti da scorie radioattive, tutta
l’area che va da Bovalino a Condofuri, sarà completamente
compromessa per millenni. Il caso più sconcertante è costituito
dal fatto che l’operazione dello smaltimento dei rifiuti tossici o
addirittura radioattivi fu , si dice, in stretto rapporto con gli alti
gradi delle forze dell’ordine e con un’equipe dell’Enea operante a Rotondella in Basilicata. I traffici, estesi in tutta la Calabria, naturalmente continuarono e a nulla valsero le segnalazioni del giudice Neri, operante presso la Procura di Reggio
Calabria. Ai politici italiani, specie alla funesta coppia Andreotti-Craxi, importava poco inquinare per lunghissimi periodi
le regioni d’Italia o altre aree affamate del globo. Eppure molti
italiani rimpiangono questi “statisti”; il primo è ritenuto
l’esempio più luminoso di politico che l’Italia abbia avuto nel
dopoguerra, forse superiore al suo “maestro” Alcide De Gasperi. Egli rappresentò il modello ideale per il Vaticano. Infatti
ogni mattina presto va a ricevere la comunione, per ottenere la
remissione dei suoi tanti peccati, perché solo i peccatori, non i
cittadini onesti ed esemplari, sono visti bene dalla Santa Romana Chiesa. Il “canto del cigno “ del “divo Giulio “ si ebbe
con la strage di Capaci. L’altro personaggio fu in linea con la
tradizione socialista italiana, a parole con le classi lavoratrici,
di fatto sempre con gli arrampicatori sociali e disonesti. Il loro
laboratorio ideale è stato sempre uno solo: Milano. A Milano
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infatti il socialista Mussolini, elaborò un nuovo sistema politico
e nacque il fascismo, che avvelenò tutta l’Europa e poi tutto il
mondo, a Milano dallo “statista a statura europea” fu partorito
il craxismo, basato sull’arrivismo, sulla disonestà istituzionalizzata, sugli sprechi, sul furto, sulle tangenti, sul rifiuto dei
principi ideali veri del socialismo. Dalla scuola politica e
dall’impegno profuso a piene mani dal socialismo craxiano, a
Milano nacque il fenomeno dell’ “Uomo-Fogna”, che basa il
suo pensiero politico sulla menzogna, sulla prevaricazione, sul
pressapochismo, sul bonapartismo da operetta, sulla corruzione, sul culto dell’immagine, sull’illegalità. Frattanto nel 1989
era caduto il muro di Berlino e la supposta barriera tra gli opposti schieramenti politici era ovvio che non avesse ragione di
esistere più in Italia. A questo punto Francesco Cossiga, propose ai politici italiani, da Presidente della Repubblica, di fare
pubblica ammenda e di confessare, in massa, le rispettive colpe. Fu giudicato folle, ma forse, se fosse stato ascoltato, non ci
sarebbero state le tragedie successive e ci sarebbe stato un
cambiamento vero della politica italiana. Egli in altri termini,
voleva, dato che non esisteva più il pericolo comunista in Italia,
la confessione pubblica della classe politica inerente i retroscena dei grandi misteri d’Italia, che avevano avvelenato la vita
politica e sociale del nostro paese; le stragi di Stato, le connessioni mafia-politica, la verità sul terrorismo, sul caso Moro.
Restai sbalordito una sera in quel periodo, ascoltando le sue dichiarazioni in televisione; accennò chiaramente alla responsa-
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bilità dei politici italiani più potenti, in relazione al sequestro
Moro. Il suo appello disperato non fu ascoltato neppure dai dirigenti del P.C.I., che avrebbero avuto senz’altro dei vantaggi.
Fu osteggiato, oltre che da Bettino Craxi, che aveva interessi a
farlo, anche da Achille Occhetto, che blaterando, non gli offrì
l’opportunità di svelare i misteri d’Italia. Il 28 aprile 1992 formalizzò le sue dimissioni. –
Isidoro terminò il suo lungo intervento, mentre verso
oriente un chiarore rossastro salutava un nuovo giorno. Tutti
erano sfiniti, il fuoco languiva ed Andrea si premurò di preparare il solito caffè, nella Bialetti da 10. Dopo un po’ cominciò
Filippo, promettendo di essere breve.
–Nacqui in un paesino a ridosso di Reggio Emilia,
nell’immediato dopoguerra. Mio padre era stato partigiano nella 144ª Brigata Garibaldi e alla fine della seconda guerra si trasferì in città, dove fu assunto nelle Officine Meccaniche Reggiane, da cui fu espulso nel 51 perché comunista. Trovò un altro lavoro altrove, mentre contemporaneamente aiutava il fratello di mia madre, non sposato, a condurre il suo piccolo podere, fornito di stalla e di una piccola cascina, dall’estensione di
12 biolche, divise in aree destinate a prato-pascolo, a cereali, a
frutteto, a vigneto. Mio padre con il suo prestigio che discendeva dalla sua partecipazione alla guerra partigiana, era molto
stimato nella sua sezione del P.C.I. che contribuiva ad animarla
ed iniziative di vario genere. Io, invece, frequentavo, quasi
clandestinamente l’oratorio ed ero diventato molto affezionato
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al prete che lo reggeva. Tutte le sere, dopo cena, mio padre andava in un circolo del partito, dove amava giocare a scopone,
bere qualche bicchiere di lambrusco e parlare di politica ed io
talvolta, avevo quattordici anni, andavo all’oratorio, dove ero
stimato per la mia bravura nel giocare a calcio balilla. Egli naturalmente lo sapeva e talvolta rientrando in casa alla stessa
ora, incontrandomi, sospirava, sentendosi tradito. In casa allora
si rabbuiava e si consolava, prendendo in braccio un grosso
gatto rossiccio, che l’aspettava sulla porta. Mia madre, allora
sorridendogli un po’ mestamente, gli passava una mano tra i
capelli e gli diceva: “Emilio, non te la prendere, vedrai che
quando sarà più grande, comprenderà e seguirà il tuo esempio e
i tuoi passi”. Non ci fu bisogno di molto tempo, purtroppo. Infatti nella primavera di quell’anno fu data la fiducia al governo
di Fernando Tambroni, con il voto determinante dei fascisti.
Facevano parte di esso due affiliati alla “Gladio”, che brigò
sempre a far male all’Italia: Antonio Segni e Paolo Emilio Taviani. In tutto il paese ci fu tanto sbigottimento, che aumentò
quando la direzione del M.S.I.,il 30 giugno del 1960, decise di
tenere il congresso nazionale a Genova, nei giorni 2,3 e 4 luglio dello stesso anno. A presiederlo sarebbero stati il repubblichino Emanuele Basile, ex prefetto, responsabile della deportazione in Germania di centinaia di anti-fascisti ed operai genovesi, durante la IIª guerra mondiale. Alla notizia, Genova, città
medaglia d’oro per la Resistenza insorse. Guidarono la protesta
i capi partigiani liguri, con le loro bandiere, affiancati dai ca-
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malli, i lavoratori del porto e da decine di migliaia di cittadini,
in prevalenza giovani, “i ragazzi dalle magliette a strisce”,
l’indumento che in quei giorni simboleggiò la protesta. La polizia tentò di sciogliere la manifestazione ed immediata fu la
reazione dei manifestanti, che cominciarono a rovesciare le
jeep ed impadronirsi di molti mitra. Le forze dell’ordine si rinchiusero nelle caserme e in piazza De Ferrari furono bruciati le
armi della polizia, su un rogo che ebbe il significato di ammonimento per le forze antidemocratiche, che si erano palesate in
modo così numeroso. Il governo ordinò la linea dura contro altre manifestazioni. E le forze dell’ordine in una, organizzata a
Licata il 5 luglio, spararono ed uccisero Vincenzo Napoli di 25
anni e ferirono altri 24 manifestanti. Il 6 luglio in una manifestazione a Roma a Porta S. Paolo, la polizia ferì alcuni deputati,
socialisti e comunisti. Il 7 fu tragico in molte città italiane dove
ci furono manifestazioni. A Catania, in piazza Stesicoro la polizia prima ferì gravemente a manganellate Salvatore Novembre, poi lo finì a raffiche di mitra e depose il corpo in segno di
ammonimento in piazza; a Palermo ci furono 4 morti. Quel
giorno mio padre, prese parte attivamente, anche alla fase preparatoria della manifestazione a Reggio, gremita di gente, operai, contadini, intellettuali, tanti “ragazzi dalle magliette a strisce”. La polizia attaccò violentemente, sparando e isolando un
gruppo consistente di manifestanti che si barricò in un edificio
abbandonato, da cui partì qualche lancio di pietre. La polizia
incentivò il fuoco, sparando all’impazzata e morirono due gio-
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vani operai ed altri tre adulti, tra cui mio padre. Egli era stato
ferito da colpi di pistola, ma poi in seguito, quando era a terra,
a bruciapelo, gli fu esplosa una raffica di mitra. Io, assieme a
dei coetanei, ero rimasto ai margini della manifestazione, terrorizzato dalla reazione violenta delle forze dell’ordine e piangevo perché, sentendo gli spari, temevo per mio padre. Ad un certo punto vidi un gruppo di operai portare un ferito agonizzante
su uno spiazzo vicino ad una strada, in attesa dell’ambulanza
ed allora cominciai a correre in quella direzione. Quando arrivai vicino constatai che il ferito era mio padre. Mi feci un varco tra i presenti e urlando per il dolore, poggiai il mio petto sul
suo, coperto di sangue, e avvicinai il mio volto al suo, ugualmente pieno di sangue. Ebbe la forza, tra i rantoli di sussurrarmi: “ricordati di questo giorno e battiti sempre per i deboli e
per gli oppressi”. Spirò poco dopo su un’ambulanza che lo portava in ospedale. Su quei fatti il Vaticano non spese una parola
di protesta. Da quel giorno non frequentai più l’oratorio, né una
chiesa, mentre mia madre non sorrise più. Conservo ancora, tra
le cose più care, come monito per i miei figli, la “maglietta a
strisce”, impregnata del sangue rappreso di mio padre. –
Ascoltando queste vicende, dagli occhi di Paolo scesero
giù delle lacrime, che stentavano ad avanzare, sul suo volto affinato dalla malattia, a causa della barba ormai grigiastra.
– Mi impegnai, continuò Filippo, con rigore negli studi
e a 21 anni ero già laureato. Durante un viaggio in America in-
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contrai una ragazza di origini italiane, che mi apparve come un
miraggio per la sua bellezza. Ben presto la sposai e la portai in
Italia. Sua madre era d’origine calabrese, suo padre, napoletana. Nei primi anni dopo il matrimonio volli esaudire i suoi desideri tendenti a scoprire le proprie radici. Cominciammo pertanto a visitare tanti posti del Sud Italia, sempre ospiti di parenti ed allora scoprì un fatto inaudito, attraverso l’urbanistica e i
monumenti del periodo precedente l’unità politica della nostra
penisola e mi accorsi di una realtà ben diversa da quella descritta dai libri di storia. I centri storici, quelli non ancora deturpati, risultarono armonici, forniti di edifici ricchi, di buon
gusto e dotati di tante opere d’arte. Mi misi a studiare la storia
del Mezzogiorno e scoprii fatti sconvolgenti, specie dopo la visita alla Reggia di Caserta, di cui non esisteva il corrispondente
negli altri stati-regione d’Italia. La confrontai con quella dei
Savoia e ne trassi le conseguenze: la reggia dei Savoia non
reggeva il confronto con quella del Regno di Napoli o Delle
Due Sicilie. Scoprii con stupore che il tanto vituperato Ferdinando IV di Borbone,re di Napoli, nei pressi di Caserta, a S.
Leucio, aveva costituito una “ colonia industriale democratica”,
già nel 1789, dopo un attento studio e una programmazione urbanistica, basata sui principi d’uguaglianza e della comunione
dei beni. Tale esperimento riuscito, taciuto dai libri di storia,
avvenne 35 anni prima del tanto esaltato e poi fallito esperimento di una comunità utopica, New Harmony, tentato
nell’Indiana (U.S.A.) nel 1824, dall’inglese Robert Owen. Nel-
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la colonia ideale del Regno di Napoli, come fu chiamato lo stato del Sud, fino al 23 gennaio del 1806, quando il re si rifugiò
in Sicilia di fronte alle armate napoleoniche, si produceva seta
con i più avanzati telai dell’epoca, i Jacquard (opere preziosissime in seta di S. Leucio si conservano ancora al Quirinale, in
Vaticano ed addirittura in Inghilterra a Buckingham Palace),
mentre gli abitanti erano obbligati a usare abiti uguali, ad osservare l’assoluta parità tra uomo e donna; godevano del diritto
alla casa, mentre era contemplato per loro quello all’assistenza
sanitaria gratuita. Tale esperimento fu il primo in assoluto in
tutta l’Europa e rimase in attività finché visse Ferdinando IV,
mentre vicino, cominciò ad essere edificata Ferdinandopoli,
città ideale ad integrazione della colonia democratica. Fu inoltre creato un centro di conservazione delle piante più importanti sotto il profilo agricolo, dove spiccava il Ventaglio, dove venivano coltivati i biotipi viticoli più importanti del regno e i vitigni internazionali più famosi d’Europa. L’impianto aveva
l’aspetto di un anfiteatro mentre “ la città ideale “ era concepita
a cerchi concentrici, come “la città del sole“, vagheggiata da
Tommaso Campanella. Il Ventaglio perì subito dopo la conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie, come fu rinominato l’ex Regno di Napoli, dopo il congresso di Vienna, quando ,
il 9 giugno 1815, il re ritornò ed assunse il titolo di Ferdinando
I, sovrano del Regno delle Due Sicilie appunto. Continuai ad
indagare e scoprii che Napoli era una città dinamica in ogni
campo, compreso quello della ricerca scientifica, con accade-
100
mie ed università efficienti, l’unica capitale di rango europeo di
tutti gli stati italiani, fregiata di uno dei più antichi teatri stabili
d’Europa, il San Carlo. Esso era stato costruito, in otto mesi,
per volontà di Carlo III di Borbone nel 1737, al posto del piccolo Teatro di San Bartolomeo, quasi 120 anni prima del Teatro Alla Scala di Milano, eretto alla metà dell’800 dagli austriaci. Era dotata di un’industria siderurgica e meccanica, che
utilizzavano i metodi più innovativi del settore, prontamente
applicati nella cantieristica navale, con la nascita dei primi piroscafi in tutt’Italia. In una gita turistica con mia moglie
nell’area di Stilo, in Calabria, dove pranzammo in un ristorante, chiamato “La Vecchia Miniera” a Bivongi, seppi che nel
passato in tutta la vallata dello Stilaro e nelle aree vicine
c’erano stati degli impianti siderurgici. Volli informarmi a proposito e restai sconvolto, quando venni a conoscenza che addirittura durante la dominazione spagnola nell’area c’erano delle
fonderie che producevano palle di cannone e che prima della
metà del XVIII secolo erano operative a Stilo ben otto ferriere
che lavoravano i minerali locali, mentre nel 1746 nel territorio
della stessa cittadina furono costruite sei nuove ferriere che
alimentarono la produzione della “Reale Fonderia di Cannoni
della Città di Stilo”, la seconda fabbrica d’armi del Regno di
Napoli, mentre addirittura negli anni 1754-1755, su progetto
del grande artista ed architetto Luigi Vanvitelli furono prodotti
i tubi che servirono l’acquedotto carolino della Reggia di Caserta. L’attività del settore nell’area si ampliò quando nel 1771,
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sotto Ferdinando IV di Borbone, nacque il primo complesso siderurgico d’Italia con le “Nuove Regie Ferriere” della Mongiana, rispetto alle vecchie esistenti a Stilo, dislocate in varie parti
del territorio. A Mongiana stessa l’area di produzione si basava
su 12.000 metri quadri, dove erano operativi tre altiforni, sei
raffinerie, due forni Wilkinson; ogni forno produceva 35 quintali di ghisa al giorno, che era giudicata pari a quella inglese,
per la qualità. All’interno del complesso, su 4.000 metri quadri
erano operativi gli “Stabilimenti calabresi per la manifattura
delle armi”, che producevano canne per fucili e pistole. I carrelli che servivano gli altiforni erano spinti da una macchina a
vapore che recuperava i gas sprigionati dagli altiforni stessi.
Tra il 1806 ed il 1814, durante la dominazione francese, venne
restaurato il complesso siderurgico delle “ferriere vecchie” di
Stilo, con la nascita di nuove, tra cui la Robinson e fu costruita
una fonderia per cannoni ed una fabbrica di fucili, mentre fu
migliorata la tecnologia a Mongiana stessa, dove erano occupati direttamente e nell’indotto 4000 operai. Dunque in Calabria,
ritenuta ora, l’area più arretrata dell’Europa, in una zona a cavallo tra l’attuale provincia di Vibo e quella di Reggio Calabria
esisteva un polo siderurgico molto avanzato, servito dal piccolo distretto minerario di Stilo-Bivongi-Pazzano. Ancora nel
1825 da Mongiana partì il materiale per la costruzione del primo ponte intieramente in ferro d’Italia: quello sul Garigliano.
Inoltre ancora dalle ferriere della Mongiana provenivano le rotaie della prima ferrovia d’Italia: la Napoli-Portici completata
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nel 1839. Nel 1840 verso sud la ferrovia raggiunse Torre del
Greco, nel 1842 Castellamare di Stabia, nel 1844 Salerno, mentre in direzione nord nel 1843 toccò Caserta e nel 1844 Capua;
anche in questo caso contribuì Mongiana. Naturalmente inizialmente il materiale ferroviario più sofisticato era
d’importazione (inglese e francese), ma nel 1840 fu inaugurato
il Reale Opificio Borbonico di Petrarsa, abilitato alla produzione di materiale dopo qualche anno e che fu il più avanzato
sistema industriale di tutta l’Italia, che nel 1860, all’atto
dell’unificazione contava 1200 dipendenti. Esso lavorava il ferro delle miniere calabresi sopra menzionate e per la sua concezione moderna fu visitato dallo Zar di Russia Nicola I che trasse ispirazione per la costruzione del complesso industriale di
Kronstadt. Dopo l’unificazione gradualmente le strutture di Petrarsa furono smontate e trasferite a Terni; la stessa cosa avvenne per il distretto siderurgico calabrese che fu eliminato e
contemporaneamente i macchinari utili furono smontati e trasferiti al nord; persino i frantoi tecnologicamente più avanzati
di tutto il meridione, presero la via delle aree più miti della
Lombardia, dove cresceva l’ulivo. A Mongiana però la gente,
comprese le donne, ebbe la dignità di sollevarsi contro i vandali venuti dal nord ed il tricolore, il simbolo della fame e delle
disgrazie portate al sud, fu da tutta la popolazione calpestato e
poi tutto il territorio rispose con la ribellione contro gli occupanti, selezionando decine e decine di “briganti” che si batterono furiosamente contro i piemontesi. A Serra San Bruno parti-
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colarmente spietata fu la reazione delle truppe d’occupazione,
con gli impiccati penzolanti dagli alberi per giorni. Nel Regno
delle Due Sicilie esistevano 40 cantieri navali, in stretta relazione con le scuole nautiche, presenti in Campania e Sicilia, e
la flotta commerciale, costituita da 9.800 bastimenti che raggiungevano i porti di tutto il mondo, era la seconda di tutta
l’Europa, mentre la flotta militare era la terza del continente.
La” Società dei battelli a vapore“ dei Florio, fondata prima
dell’unità era attivissima in tutto il Mediterraneo, mentre gli
stessi si distinguevano in altre attività imprenditoriali e in opere
benefiche. Fiorente era la bachicoltura e di conseguenza
l’industria della seta, che faceva da volano a tutte le industrie
tessili, attivissime erano le conciarie e le tintorie, quella connessa con la produzione della manna e dell’estrazione dello
zolfo, la cerealicoltura, l’olivicoltura, la viticoltura, il cui prodotto in buona parte andava in Francia. Sistematicamente le
fabbriche d’avanguardia che lavoravano la seta, quelle di S.
Leucio e quelle in provincia di Catania, furono chiuse e depredate dei macchinari che presero la solita via, dopo l’invasione
del sud. Era fortissima la pressione dei baroni, che dopo essersi
impossessati di parte dei beni della chiesa, tentavano di impossessarsi dei campi comuni, ma la volontà del re, li contrastava
con successo. La fronda ai Borboni non derivava dalla borghesia nascente, ma dall’aristocrazia, che sognava di estendere la
propria influenza, anche alle montagne, ricchissime di essenze
forestali, appartenenti alla Corona, che s’identificava con lo
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stato. Proprio dai baroni e dai loro campieri, da cui sarebbero
discesi i quadri mafiosi, sarebbe arrivato l’appoggio a Garibaldi. In altri termini le ricchezze del Regno di Napoli venivano
viste non come potenzialità per lo sviluppo, ma come obiettivi
di rapina e guardava a queste ricchezze il Regno di Sardegna,
indebitato per le guerre fatte contro gli austriaci, dentro il cui
territorio circolava carta moneta, non sorretta dall’equivalente
in oro, per cui comprendiamo il motivo dell’operazione della
conquista del Sud, dove il benessere era almeno uguale a quello del Nord, con uno sviluppo in fase espansiva dell’industria
siderurgica, con ben 100 stabilimenti attivi e distribuiti armonicamente su tutto il territorio. Fra l’altro c’erano dei prodotti
d’eccellenza esportati in tutto il mondo, con il marchio, diremmo oggi “made in Naples”, tra cui i raffinatissimi prodotti
serici e le celebri porcellane di Capodimonte. Nel 1859 il PIL
(prodotto interno lordo) nel Regno di Napoli in lire (la moneta
circolante era il ducato in oro e la piastra in argento - la presentazione in lire piemontesi serve per il confronto) era di
2.620.860.700 (dati riportati dall’U.T.E.T di Torino nel libro “I
vinti del Risorgimento“) contro quello piemontese che era di
1.610.322.220. Il debito pubblico del Regno di Napoli era scarso con un rapporto del 16,57 %, del D.P./PIL, mentre nello
stesso periodo il debito pubblico piemontese era elevatissimo
con un rapporto del 73,86% del D.P./PIL. Il reddito pro-capite
era leggermente superiore quello del regno di Napoli, con
l’aggravante però per il Regno di Sardegna, che l’ enorme de-
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bito pubblico minava in prospettiva il benessere della popolazione. Notevoli erano le risorse finanziarie gestite dagli istituti
di credito dello stato borbonico. Infatti il Banco del Regno delle Due Sicilie nelle sedi continentali, era dotato di tonnellate di
lingotti e di monete d’oro (solo nella prima parte del suo regno
Ferdinando IV aveva fatto coniare tre milioni di ducati d’oro) e
di monete d’argento per un valore superiore, tradotti in lire
piemontesi, ai trecento milioni mentre il Banco nella sede di
Sicilia era ugualmente dotato di lingotti d’oro, di monete d’oro
e d’argento per un valore superiore ai 150 milioni di lire piemontesi. Nel complesso l’ istituto bancario del regno gestiva il
corrispondente di 500 milioni di lire piemontesi, cifra notevolissima. A questo punto e dati i suddetti presupposti, con cui i
piemontesi guardavano al Regno di Napoli come preda, scattò
l’operazione militare programmata da vari protagonisti in un
momento di debolezza del regno stesso che si trovò senza difese e senza alleati. Infatti l’anno prima l’Austria era stata sconfitta dai francesi, alleati dei piemontesi e non poté intervenire,
mentre lo stato borbonico era governato da circa un anno
dall’inesperto giovane sovrano Francesco II, vicino ad essere
spodestato per la seconda volta dal ramo cadetto dei Savoia –
Carignano. Infatti egli era nato da Maria Cristina di Savoia, che
morì partorendolo, figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, re di
Sardegna, che per non concedere la costituzione il 13 marzo
del 1821 abdicò a favore del fratello Carlo Felice, che aveva
sposato la cugina Maria Cristina di Borbone, figlia di Ferdi-
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nando IV, spianando la strada ai Savoia-Carignano. Egli aveva
sposato Maria Sofia di Baviera divenendo cognato dunque di
Elisabetta Amalia Eugenia, imperatrice d’Austria, meglio conosciuta con il nome di Sissi e dell’imperatore Francesco Giuseppe. La politica filorussa dei Borbone irritava inoltre gli inglesi, che cercavano in tutti i modi di destabilizzare il regno.
Ebbero l’occasione con Garibaldi, di cui coordinarono le operazioni a bordo dell’Hannibal, la nave ancorata a Palermo, dopo l’arrivo dei Mille, che erano “padani” in prevalenza e borghesi: 434 lombardi, 194 veneti, qualche decina piemontesi e
poi 156 liguri, 78 toscani, 71 siciliani, 35 stranier, ecc.; come si
vede l’impresa fu portata avanti da soggetti non del Sud. Durante lo sbarco di Garibaldi a Marsala, nel porto c’erano due
cannoniere inglesi, l’Argus e l’Intrepid, che impedirono alle
navi da guerra borboniche, dotate di moderni cannoni, di sparare sul Piemonte e sul Lombardo, prima che sbarcassero i volontari; lo permisero solo a sbarco avvenuto. È un mistero del perché lo fecero, ma in parte, in quanto essi guardavano con sospetto alle potenzialità del Regno di Napoli e non volevano
avere un intralcio alla loro egemonia totale nel Mediterraneo,
come pure è misterioso l’ossequio che fa alla figura di Garibaldi la massoneria di rito scozzese. C’è da aggiungere inoltre che
gli inglesi volevano punire i Borbone per la loro mancata partecipazione alla guerra di Crimea a favore della Turchia, che
tramite la massoneria britannica, sponsorizzò la spedizione garibaldina con l’invio di una cassa di piastre d’oro, incoraggian-
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do decine e decine di “volontari” ad aggregarsi al battaglione
internazionale che supportò Garibaldi, specie nella cruciale battaglia di Milazzo. Inoltre gli inglesi rifornirono di una flottiglia
e costantemente d’armi “l’eroe dei due mondi”, man mano che
avanzava. I piroscafi inglesi dotati di equipaggi mercenari internazionali erano il Panther, il Cambria, il City of Aberdeen,
l’Indipendence, il London, il Badger, il Ferret, il Weasel, il
Queen of England ed il Fairy Queen. Gli americani diedero a
Garibaldi, dotandoli di mercenari, il Washington, l’Oregon ed
il Franklin, mentre la compagnia francese Frassinet, pagata dai
piemontesi, consegnò l’Algerie e la Provence. Attivissimi pertanto furono gli inglesi, che erano stati abbondantemente gratificati dai Borbone, dopo le guerre napoleoniche, con la concessione all’Inghilterra dell’arcipelago di Malta e con
l’assegnazione a Nelson della ducea di Bronte, costituita da
circa 6.570 ettari. Pertanto la spedizione dei Mille fu iniziata
all’insegna della prevaricazione del diritto internazionale nei
confronti di uno stato legittimo, da parte del Piemonte e
dell’Inghilterra, aiutata dalla massoneria e dalla picciotteria al
servizio dei baroni, che avevano avuto la garanzia da Garibaldi
che i loro latifondi non sarebbero stati toccati, anzi accresciuti
con i terreni in uso alle comunità locali, con quelli demaniali e
con quelli da sottrarre alla manomorta ecclesiastica. Nella battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860 si ebbe la prova del
complotto ordito sull’Hannibal, in seguito al quale il generale
borbonico Francesco Landi ebbe da Garibaldi un accredito di
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14.000 ducati, come prezzo del suo tradimento, da convertire in
monete sonanti dopo la conclusione positiva dell’impresa garibaldina. All’inizio della battaglia Landi era in posizione dominante in località Pianto Romano con un numero prevalente di
soldati e teneva sotto scacco con 400 tiratori scelti, dotati di carabine modernissime e due potenti cannoni le truppe nemiche
male armate ed in posizione sfavorevolissima che possedevano
poche decine di moderni fucili. Si profilava una facile vittoria
borbonica, quando Landi ordinò la ritirata, tra lo stupore dei
suoi soldati. Il numero dei morti complessivo fu meno di 50.
L’anno successivo si ritrovò con la promozione nell’esercito
piemontese a generale di corpo d’armata da generale di brigata
quale era stato, mentre i suoi cinque figli, già in servizio
nell’esercito napoletano, si ritrovarono ufficiali nell’esercito
sabaudo. Non fu però a lieto fine la storia di Landi, in quanto
quando si presentò in una banca a riscuotere l’importo pattuito
con Garibaldi scoprì che il documento che presentava era un
falso; addoloratissimo per tale contrattempo, morì poco tempo
dopo colpito da un ictus cerebrale. La battaglia di Milazzo,
combattuta tra il 17 ed il 24 luglio del 1860 evidenziò ancora
meglio il mistero delle “vittorie” di Garibaldi, che si era preparato all’evento accuratamente. Qui si ritrovò di fronte il colonnello Ferdinando Beneventano Del Bosco, non disponibile a
tradire con i suoi 3400 soldati, mentre egli disponeva di 6000
uomini, tra cui i mercenari del battaglione internazionale organizzato dai britannici, dotati di carabine a canne rigate, rifornite
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dagli inglesi e piemontesi. Gli scontri furono furibondi e i garibaldini lasciarono sul terreno 650 soldati contro i 51 di Del Bosco. La situazione era di stallo nonostante la superiorità
dell’esercito garibaldino, ma si sbloccò grazie al dio denaro.
Infatti l’ammiraglio Persano “convinse” il capitano Amilcare
Anguissola a consegnare ai piemontesi la modernissima unità
di combattimento “La Veloce” dotata di formidabili cannoni;
con essa, rinominata Tukory, dal nome di un “volontario” ungherese, si cominciò a bombardare le posizioni del colonnello
Del Bosco che fu costretto a rinchiudersi nel forte di Milazzo.
Dopo qualche giorno, sempre con la mediazione degli inglesi,
da Napoli arrivò l’ordine di resa per Del Bosco e per tutti i soldati borbonici, che s’impegnarono ad evacuare la Sicilia, per
mantenere però il resto del Regno, secondo i patti. Qualcosa di
analogo era successo a Palermo dove le truppe borboniche stavano eliminando nella città i garibaldini quando intervennero
gli inglesi che avevano imposto una tregua tra le parti in lotta
con la complicità del generale Letizia, contattato, portato
sull’Hannibal e corrotto. In seguito il generale Fileno Briganti,
comandante della piazza di Reggio avrebbe potuto impedire
con facilità lo sbarco garibaldino in Calabria, ma si affrettò ad
arrendersi; il 25 agosto 1860 mentre a cavallo stava transitando
per Mileto fu riconosciuto da alcuni soldati borbonici, che additandolo come traditore lo buttarono giù dal cavallo e lo uccisero a fucilate. Garibaldi aveva promesso la terra dei feudatari
ai contadini e quando i cittadini di Bronte, violarono il feudo
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dei Nelson (inglesi), Nino Bixio su mandato di Garibaldi fece
fucilare alcune persone dopo un processo sommario; altri tentativi di occupazione delle terre feudali, con uccisioni, ci furono
a Tre Castagni, a Castiglione, a Mirto ,a Caronia, a Randazzo
ecc,, ma senza risultati positivi per i braccianti senza terra.
Ovunque i garibaldini arrivarono, saccheggiarono, rubarono,
usarono violenza contro le donne, uccisero. Ai siciliani Garibaldi aveva promesso tanto, ma poi rubò l’oro del Banco del
Regno delle Due Sicilie nella sede di Palermo e poi fece la
stessa cosa con l’oro custodito nella sede del banco a Napoli
consegnandolo ai piemontesi, non interamente. I siciliani troppo tardi capirono chi erano i liberatori del nord e anche quando
i “briganti” del continente si batterono ferocemente contro un
esercito di 150.000 occupanti, stettero a guardare e solo nel settembre del 1866 (dal 15 al 22) si ribellarono a Palermo, fuori
tempo massimo, in quanto ormai le truppe non indispensabili
altrove, furono concentrate contro la città in rivolta. Dopo un
intenso bombardamento navale, Palermo fu attaccata, con
40.000 soldati da Raffaele Cadorna. La rivolta venne stroncata,
a causa del mancato coordinamento tra i capi e i siciliani ebbero circa 5.000 morti e migliaia di carcerati, in parte destinati al
lager di Fenestrelle, da cui non si ritornava né vivi, né morti, in
quanto i corpi dei prigionieri venivano sciolti nella calce viva
per non lasciare tracce. La ribellione era scattata in seguito alla
decisione dei piemontesi di mettere all’asta e non di dividere
gratuitamente tra i contadini, come promesso e come avevano
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fatto in Piemonte con la legge Siccardi, i 250.000 ettari di buona terra, confiscata alla chiesa. Gli isolani pagarono le proprie
terre e i proventi finirono nelle casse dello stato, che li investì
solo nelle regioni del nord. Frattanto i “volontari“, originariamente pezzenti, dopo qualche anno, si ritrovarono con patrimoni consistenti. I garibaldini quando si ritrovarono a Napoli
continuarono la spoliazione iniziata “dall’eroe dei due mondi”
e la città venne letteralmente saccheggiata, aiutati in questo dai
camorristi di Salvatore De Crescenzo, alla sorella del quale,
Marianna, Garibaldi accordò un vitalizio. L’operazione di
coinvolgimento della camorra fu portato avanti dall’ex ministro
borbonico Liborio Romano, che si mise a disposizione dell’
“eroe dei due mondi”. Naturalmente non furono toccate le terre
dei baroni, garantiti, che anzi dilatarono i propri latifondi comprando dai piemontesi le terre demaniali appartenenti alle varie
comunità locali, su cui i cittadini gratuitamente o quasi, avevano diritto di semina, di legnatico, di pascolo. Quando i piemontesi presero possesso del Regno delle Due Sicilie, imposero ai
cittadini meridionali la riconversione dei ducati-oro o delle piastre in argento, ridotti di un terzo del loro valore, in lire piemontesi, in carta moneta dunque, che fino a quel momento si
basavano sul nulla. Infatti furono capaci di convertire nella loro
carta-moneta per 443 milioni di lire le monete d’oro e
d’argento dei cittadini del Regno delle Due Sicilie, mentre nelle restanti parti d’Italia, tranne il Trentino Alto Adige, Friuli e
Veneto, solo225 milioni ossia poco più della metà. Centinaia di
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migliaia di ettari di terre comuni e quelle della chiesa, furono
messe all’asta e i meridionali pagarono ai piemontesi l’acquisto
delle proprie terre; con tutte queste operazioni criminali il sud
restò con pochi capitali. Buona parte dei conventi furono incendiati e i monaci dispersi; ciò causò un danno enorme per i
bambini poveri ,i quali si ritrovarono nell’impossibilità di ricevere l’istruzione più essenziale, negli istituti religiosi. In tutta
l’Italia fu allora estesa la giurisdizione scolastica piemontese,
dove, dal gennaio del 1860, era andata in vigore la legge Casati, che prevedeva l’obbligo scolastico per un biennio, nelle comunità al di sotto dei quattromila abitanti e ove non ci fossero
istituti superiori, e l’onere era a carico dei comuni. Nel Sud,
che era stato depredato e poi sconvolto dalla guerra contro i
piemontesi, le possibilità di provvedere all’istruzione furono
poche e la scuola praticamente venne meno ai suoi compiti,
mentre precedentemente essa si basava sulle scuole religiose e
su quelle laiche, improntate quest’ultime alle proposte avanzate
dai francesi nell’agosto del 1806. L’enorme furto di capitali,
fatte le dovute proporzioni, corrispondente ad un numero rilevantissimo di miliardi di euro attuali, fu reinvestito prevalentemente in Lombardia, Piemonte e Liguria, dove vennero potenziati o costruiti ex novo dei porti e create strutture industriali
o rimontate quelle rubate al Sud. A riprova di ciò si ricorda
che dal primo censimento d’Italia eseguito nell’ottobre del
1861, i cui dati furono analizzati e pubblicati in seguito
dall’economista Francesco Saverio Nitti, emerse che gli occu-
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pati nell’industria nell’ex Regno delle Due Sicilie, in
quell’anno, anche dopo le razzie piemontesi, erano ancora
1.595.359, su una popolazione di otto milioni, mentre la restante parte della penisola, con una popolazione di nove milioni, gli
occupati risultavano 1.435.427; da questo si deduce che
l’industrializzazione nel meridione era maggiore che nel centro-nord. Il Regno delle Due Sicilie era dotato di numerosissimi
porti ed approdi attrezzati, razionalmente distribuiti sulle coste;
il governo post-unitario li trascurò e li fece deperire. I Borbone
avevano affrontato il problema delle comunicazioni viarie, costruendo delle nuove o rifacendo le antiche vie consolari romane. Ripristinarono la via Annia-Popilia, che da Capua portava
sullo Stretto di Messina; per la sua costruzione i Romani avevano impiegato solo 4 anni: dal 132 al 128 a.C. È un bel confronto se paragoniamo i tempi di rifacimento della SalernoReggio Calabria, più o meno analoga nella lunghezza, dove i
lavori “fervono” da circa un decennio. Il governo post-unitario
continuò la costruzione della ferrovia lungo le coste dell’Italia
meridionale, usata per far affluire le truppe di repressione nel
Sud, negli ultimi anni della rivolta, che era scoppiata a causa
della spoliazione subita dal popolo che si ribellò e fu tacciato
allora di brigantaggio. Allora furono applicate le disposizioni
di guerra e secondo i dati ufficiali i morti e gli arrestati furono
15.000, ma secondo le stime attuali furono centinaia di migliaia, mentre per alcuni addirittura un milione. A riprova dei
massacri celati negli archivi militari, proponiamo l’esempio di
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Pontelandolfo e Casalduni in provincia di Benevento, dove una
colonna di resistenti (briganti per i piemontesi) aveva ucciso
quaranta soldati italiani. Il 14 agosto 1861, su indicazione degli
Alti Comandi Militari i due paesi furono attaccati; circondati,
le donne più belle furono sistematicamente violentate, poi
sventrate con le baionette ed infine lasciate insepolte e nude a
marcire al sole. Di tutte le case del primo villaggio solo tre rimasero intatte, mentre le altre, dopo essere state saccheggiate,
furono date alle fiamme; solo una parte della popolazione si era
salvata, fuggendo prima. Ebbene i dati ufficiali, per Pontelandolfo indicano solo 13 morti, mentre dalle indagini incrociate
fatte di recente, risultano almeno 900, ossia 60 volte in più. A
questo punto se proviamo a moltiplicare 60 per diecimila, il
numero ufficiale per difetto degli uccisi (i dati ufficiali parlano
di 15 mila fra morti ed incarcerati) otteniamo la cifra di
600.000, non molto distante dal milione sospettato. Nel caso si
rivelasse vera l’ultima valutazione si consumò in quegli anni il
più grande genocidio nella storia dell’Europa contemporanea,
paragonabile a quello degli armeni, durante la I guerra mondiale o a quello indicibile, perpetrato a danno degli ebrei, nella seconda. Fatto sta che gli archivi dell’esercito ancora sono soggetti a severissime censure e non sono facilmente consultabili;
si temono infatti rivelazioni sconvolgenti. Per domare la ribellione vennero dislocati nel Sud più di centoventimila soldati,
coadiuvati da trentamila tra carabinieri e guardie nazionali; fu
promulgata la famigerata legge Pica, che prevedeva la fucila-
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zione per i sospettati e la carcerazione per le mogli e per i
bambini dei “briganti”; furono rasi al suolo 54 villaggi. Nei
paesi collusi con” i briganti” le teste dei caduti venivano portate in giro infilzate su picche e tutti coloro che piangevano, anche le madri degli uccisi,venivano passati per le armi. Allora
per i “lavori sporchi” i piemontesi si servirono dei battaglioni
di feroci mercenari ungheresi che stupravano, massacravano
donne, vecchi e i bambini dei villaggi ribelli, che successivamente incendiavano, in assenza degli uomini lontani sulle montagne o a battersi contro le forze di occupazione. Tra i capi dei
resistenti, che mobilitarono più di 80.000 combattenti mi onoro
di menzionare Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture, antenato dell’attore Michele Placido, che ogni anno organizza delle manifestazioni teatrali in Lucania, tendenti ad esaltare la lotta di resistenza contro i piemontesi e Pasquale Domenico Romano (il Sergente Romano) di Gioia del Colle. Nonostante l’enorme apparato repressivo e la deportazione di migliaia di uomini, in fortezze del nord, solo nel 1870 il “brigantaggio “ venne eliminato, mentre oltre questa data continuarono
a morire di maltrattamenti i “briganti” meridionali, nel forte di
S. Benigno a Genova, in quello di S. Maurizio Canavese, ma
specialmente nel lager modello di Fenestrelle, in provincia di
Torino. In poco tempo furono costruite delle ferrovie e i treni
andarono su e giù, pieni di soldati nella direzione Sud, al contrario carichi di bottino e legname destinato alle industrie nascenti del Nord. In pochi anni tutti i boschi costieri furono di-
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strutti. Descrive chiaramente la situazione pre-unitaria delle foreste meridionali, il viaggiatore inglese Edward Lear, che attraversò parte della Calabria a piedi nel 1847. Sulle montagne di
Pietrapennata, località in provincia di Reggio crescevano foreste millenarie di leccio, ora sono prive di alberi e degradate dalle frane. In pochi anni la fame più nera s’impadronì della gente
del Sud, che da popolo si trasformò in plebe. Nell’ultimo scorcio del secolo XIX non restò altro che lasciare la propria terra
ed emigrare verso le Americhe. Ogni estate, a partire dal 1971,
l’anno successivo al mio matrimonio, andammo in vacanza tutti gli anni, per un intiero mese dai parenti di mia moglie in Calabria o in Campania, ospiti attesissimi e contesi. Notavo il degrado che avanzava anno dopo anno in quelle contrade. Del resto anche l’Italia tutta sta attraversando un periodo tristissimo,
con una corruzione dilagante sponsorizzata da una classe politica becera e stracciona. A tutto ciò si aggiunge l’arretramento,
nella qualità della vita, di tutti i popoli europei e dell’America
del Nord. Grazie alla globalizzazione, alla delocalizzazione, ai
giochi bancari e a quelli di grandi speculatori, si è pervenuti al
neo-feudalismo, regredendo in una sorta di nuovo Medioevo.
Tempo fa restai trasecolato ascoltando, in una conferenza, tenuta in una scuola, Alex Zanotelli, che descriveva la sua esperienza tra i poveri del Kenya. Egli spiegava ai ragazzi come
ormai il 70 % della ricchezza di tutto il mondo, è nelle mani di
pochi ricchissimi; circa 400 in tutto. Il restante 30 % se lo dividono più di 6 miliardi di uomini, che vivono sulla Terra. Inoltre
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aggiungeva che ormai le multinazionali stanno mettendo le
mani sulle acque dolci del globo, dopo essersi impadronite delle altre risorse. Credevo che le sue fossero esagerazioni, ma
dopo un po’ di tempo mi recai in Calabria, assieme a mia moglie e ai miei due figli, che vollero salutare i parenti, prima della partenza definitiva per gli Stati Uniti, dove i miei ragazzi già
lavorano. Qui invece erano praticamente disoccupati nonostante che fossero ambedue laureati in ingegneria informatica; lavoravano mal pagati, con contratti a termine. Allora seppi da
un ingegnere della S.O.R.I.C.A.L., società che si occupa della
gestione degli acquedotti calabresi, che sei anni fa una società
francese, la Veolia, che gestisce anche l’inceneritore di Gioia
Tauro si è comprata il 47 % dell’acqua degli acquedotti calabresi. In altri termini ormai siamo in pieno neofeudalismo, dove i pochi super ricchi, attraverso una stretta cerchia di topmanager, pagati in modo scandaloso, dominano sulle masse
enormi di sudditi, che lottano disperatamente per la sopravvivenza. Grazie poi alla delocalizzazione, le tecnologie sofisticate dei paesi più avanzati, sono andate a finire nelle mani dei cinesi e degli indiani, che con velocità inaspettata, si sono proiettati sulla ribalta dell’economia mondiale. In Cina il capitalismo
di stato, in nome del comunismo inesistente ha asservito le
classi lavoratrici che con salari da fame, equivalenti ad un centinaio di euro al mese, stanno producendo beni di consumo per
tutto il mondo, mentre gli ex burocrati di partito si sono trasformati in capitani d’industria o in top manager. In Italia poi
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dalla fine degli anni 60 in poi, il processo di mafiosizzazione è
andato avanti a ritmi impressionanti. Allora gli uomini del potente partito cattolico, pensavano che le varie mafie d’Italia
fossero il vero baluardo contro il comunismo; e la gente faceva
finta di credere a questa fandonia. Le stesse stragi di Stato,
programmate a partire da quella alla “Banca dell’Agricoltura”
del 12 dicembre 1969, servivano secondo i servizi segreti ad
indebolire i comunisti. E così ci furono innumerevoli altre: alla
questura di Milano il 17/05/1973; in Piazza della Loggia a Brescia il 28/05/1974; sul treno Italicus il 04/08/1974; alla stazione
di Bologna il 02/08/1980; sul treno 904 il 23/12/1984. Caduto
il muro di Berlino il 9 novembre 1989 è venuto meno il “pericolo comunista”. Per quale motivo si insiste ancora sulla lotta
al comunismo, che non esiste più nel mondo? E per quale motivo gli italiani fanno finta di credere a questa crociata. Il motivo è uno solo: dopo Tangentopoli, quando i cittadini onesti si
sono ritirati dalla politica attiva, i servizi segreti, la massoneria,
le mafie, i ladri più incalliti d’Italia, si sono alleati in una sorta
di Santa Alleanza, per rubare tutte le risorse d’Italia, palesemente, di fronte agli occhi degli italiani, che, come paralizzati
assistono impotenti a questo scempio. È stupefacente poi constatare che tale operazione è portata avanti da loschi figuri mediocri, al di sotto delle capacità intellettive normali. Ma perché
non esiste una reazione violenta, perché i politici non sono abbattuti come porci da macello per le strade? La verità è una sola: la maggioranza degli italiani, spera in cuor suo di poter par-
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tecipare prima o poi a questo infame banchetto. Il nostro paese,
non chiamiamolo più nazione, né tanto meno patria, perché non
merita più questi appellativi, è senza speranza, perduto definitivamente. –
Ormai tutti erano sfiniti, mentre il sole si alzava nel cielo ed il fuoco, ormai inutile, spento da parecchio. Anche Filippo stanco non seppe impedire che tutti andassero di corsa a
buttarsi sui propri lettini.
Invitò però tutti, prima della partenza, programmata per
il pomeriggio inoltrato, di descrivere su un pezzo di carta in
anonimato, una possibile soluzione incisiva per l’Italia; uno di
loro avrebbe letto le risoluzioni auspicate.
Erano all’incirca le 7 del mattino quando tutti andarono
a letto e a mezzogiorno il solo Andrea si svegliò. Si alzò e andò
a sbirciare nel frigorifero, dove c’erano solo una decina di melanzane, alcune uova, prosciutto cotto in abbondanza e numerose sottilette. Appese alla parete di fronte al caminetto c’erano
una ghirlanda di agli ed un’altra di cipolle e un mazzetto di origano. C’erano inoltre quattro confezioni di pomodori pelati e
altre due grandi di passata di pomodori.
Data l’abbondanza di ciocchi, accese il fuoco nel caminetto e poi con delicatezza andò a svegliare Isidoro e sottovoce
gli richiese collaborazione per preparare velocemente un pranzetto.
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Restò perplesso Isidoro non tanto per la proposta di collaborazione, quanto per il fatto che il frigorifero appariva sfornito di quanto servisse persino per un poverissimo pranzo.
– Ricordati, che io come Gesù, che amo moltissimo e
che considero il più grande rivoluzionario della storia, farò il
miracolo di creare dal quasi nulla un pranzo raffinato; imiterò il
miracolo dei pesci e del pane. Tanto per cominciare inizia a
sbucciare tre melanzane, che non sono piccole e poi riducile a
cubetti di circa 1,5 cm di lato. Quando avrai fatto
quest’operazione friggi assieme a pezzetti di aglio. Le restanti
melanzane falle a fette e metà friggile, mentre le restanti cospargile di sale e lasciale riposare in quel contenitore celeste. –
Nel frattempo Andrea armeggiava con prosciutto e con
uova che lessava in un tegamino.
Alle tre di pomeriggio prese un ciocco e cominciò a batterlo con delicatezza sul fondo di un grande recipiente di rame,
appeso ad uno stipite di una porta murata. Esso funzionò da
gong e tutti si alzarono di soprassalto.
Con letizia si apprestarono al pranzo inaspettato, ma Filippo ingiunse loro di scrivere sul foglio di carta quanto sopra
stabilito. Qualcuno obiettò che sarebbe stato preferibile farlo
dopo, ma egli fu irremovibile in quanto temeva che a pancia
piena e con l’aiuto di un bicchiere di vino, sarebbero stati clementi con i politici da giudicare. Gli addetti alla cucina imbandirono una saporitissima pasta alla Norma, che soddisfece i
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commensali, mentre successivamente pervenne miracolosamente una squisita parmigiana, cotta in un antico forno a legna,
alloggiato sotto un casotto all’esterno della baita. A questo
punto fu doveroso un applauso per il cuoco ed il suo aiutante.
Chiusero il pranzo delicatissime melanzane grigliate, al salmoriglio, cotte alle braci su una vecchia graticola. Quando furono
servite, si levò un oh prolungato, servito tra lo sfottò e
l’ammirazione. Comunque Andrea era molto gratificato per
l’esito positivo della sua arte culinaria. Naturalmente accompagnò il tutto, il solito popolare e buon Barbera, seguito dal caffè.
A questo punto Domenico cominciò lo scrutinio delle “schede”
e cominciò:
– Su sei foglietti c’è l’indicazione di uccidere l’UomoFogna e di far saltare in aria il parlamento, assieme agli occupanti, con una potente carica di tritolo. –
Intervenne Filippo a commentare.
– Emergono in quasi tutti noi volontà tirannicide,
senz’altro giustificate, ma non so fino a che punto legittime dal
momento che i componenti della Camera dei Deputati e del
Senato della Repubblica, risultano regolarmente eletti da circa
il 70 % degli italiani … –
– Non sono d’accordo – interruppe Paolo – sul concetto
di tirannicidio, che nel presente caso è fuori luogo, poiché si
tratterebbe di clowncidio, in quanto la maggioranza degli italiani, pagliacci interessati, hanno eletto a rappresentarli un uomo degno di loro, ossia un clown. Una minoranza d’italiani,
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accettabilmente onesta, ha diritto di privare la maggioranza degli italiani, pagliacci, del loro clown? Il quesito sul diritto delle
minoranze, o di pochi addirittura di abbattere un dittatore o un
surrogato di dittatore, come nel nostro caso, si dibatte nella civiltà occidentale da 514 a. C., ossia da quando Armodio ed
Aristogitone, uccisero Ipparco, figlio di Pisistrato, fratello di
Ippia, che reggeva in modo antidemocratico Atene.
Sull’argomento si dibatté anche in epoche successive ed il tirannicidio fu praticato molto in tutti i tempi e ricordo i più emblematici riferiti alla civiltà romana, quali l’uccisione di Cesare, l’episodio di Nerone costretto al suicidio con l’aiuto di uno
schiavo, anni dopo il fallimento della congiura dei Pisoni,
l’eliminazione di Caligola. Ho posposto volutamente Caligola a
Nerone, dal punto di vista cronologico, per il fatto che esiste
una certa somiglianza di comportamento tra l’imperatore della
dinastia Giulio-Claudia e l’Uomo-Fogna. Infatti Caligola, disprezzando i senatori, minacciò di nominare senatore il suo
cavallo preferito, mentre l’Uomo-Fogna suole introdurre armenti di docili somari, in parlamento; resta da vedere se sarà
assassinato dalle sue guardie del corpo, in quanto Caligola fu
ucciso dai suoi pretoriani, oppure si farà sopprimere da un suo
servitore, come capitò a Nerone che sul punto di essere linciato
si fece uccidere da uno schiavo. Il tema fu di attualità anche nel
periodo dell’Illuminismo e in quello della Rivoluzione Francese, quando in pieno Terrore, Carlotta Corday uccise Marat. Ora
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bisogna stabilire in nome di chi e con quali mezzi bisogna eliminare questo pagliaccio. –
– Io vado subito al sodo – cominciò Domenico – e dal
momento che non è degno neppure di una pallottola, il mezzo
migliore per toglierlo di mezzo, sarebbe quello di immergerlo
nel suo elemento naturale, ossia la merda. Non è facile però,
dal momento che è difeso da schiere di guardie del corpo, per
cui non resta che lo strumento più facile, ossia una pallottola,
veicolata da un fucile di precisione. Sarebbe da esplorare anche
l’ipotesi di un attentato con l’ausilio di esplosivo, ma è più
problematico. In tutti i modi, dal momento che qui stiamo facendo solo salotto, possiamo sbizzarrirci con varie proposte. –
– Personalmente – intervenne Teodoro – nutrito di legalità sin da bambino, provo orrore a teorizzare un attentato persino ai danni di un personaggio squallido qual è l’uomo di cui
stiamo dibattendo. Gli italiani l’hanno voluto? Se lo tengano!
Aggiungo inoltre che a favore della sua scesa in campo si batterono volontariamente, indirettamente ed in modo interessato,
perché corrotti, tanti politici del centro-sinistra. Ormai non c’è
speranza e solo una ribellione improbabile del popolo italiano
ci può salvare. Del resto quasi tutta la storia d’Italia, dall’unità
ad oggi, ha seguito la via maestra della corruzione e della corsa
alla razzia del pubblico denaro. Qualche anno addietro ascoltai
un’intervista di Donna Assunta Almirante, la quale affermava
che suo marito, simbolo vivente fino alla morte, del rispetto
formale del concetto di patria, poggiante anche sull’onestà,
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quando morì gli lasciò un libretto di risparmio di soli 4 milioni
di lire. Alludendo poi ai rappresentanti più in vista della destra
attuale, faceva capire più o meno velatamente, che individui al
massimo agiati, si sono trasformati, in un decennio di vita politica, in persone ricche. In quanto poi all’ipotesi di far saltare in
aria almeno uno dei rami del parlamento, lo considero raccapricciante, in quanto si violerebbe uno dei simboli fisici della
Repubblica. Naturalmente ho saputo che Filippo, ha organizzato questa specie d’indagine apparentemente improvvisata, proposta come gioco di società, per conoscere, con un campione
ristretto di persone provenienti da alcune regioni d’Italia,
l’umore vero degli italiani. Contemporaneamente gli individui
prescelti dovevano corrispondere a delle caratteristiche precise:
essere dotati di una certa cultura e rappresentare diverse tendenze politiche. Infatti, nelle alte sfere dell’apparato dello stato, si sta pensando seriamente di eliminare con una congiura,
questa sozzura fatta uomo, che ha ormai portato sull’orlo del
baratro l’Italia, trasformata in riserva di caccia per i corrotti e i
ladri e per questo motivo è stato preparato quest’incontro. Io
personalmente ho curato la scelta degli ospiti, badando a coinvolgere persone integerrime, dotati di alto senso civico, di ogni
tendenza politica. So per certo, che l’assieme di tutti noi, nonostante le parole dette, rappresenta, per le idee politiche, la destra, il centro, la sinistra. Io non riesco a capire perché è stato
organizzato tutto ciò e a quali finalità tende. –
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– Il responsabile di questa messinscena – iniziò l’ex allievo di Filippo – sono io e tutti quanti ci siamo sottoposti ad
una terapia di gruppo, da cui è venuto fuori in maniera spontanea tutto il risentimento contro la classe politica italiana, che è
al di sotto della media, di tutto il popolo italiano messo assieme, dal punto di vista dell’onestà, della sensibilità, del civismo
ed è emerso chiaramente che la repubblica italiana, contrariamente a quello che recita la costituzione è fondata sulla mafia,
sulla corruzione, sul ladrocinio, sull’intrigo, sulla menzogna e
sulla disonestà. In altri termini il nostro esperimento ha denunciato l’odio viscerale di tutti contro la classe politica. Nessuno
di loro si salva. Metà degli italiani credono che il male della
nostra nazione derivi dalla politica del centro-sinistra, l’altra
metà da quella del centro-destra, dove però è ben definito il
colpevole, rappresentato in questo caso dall’Uomo-Fogna. Fin
a quando reggerà quest’equilibrio? E cosa succederà quando si
romperà? Vi dico solo che di questa riunione ho avvisato alcuni
miei colleghi, alti funzionari dell’apparato dello Stato e
dell’esercito e le nostre conversazioni sono state registrate a distanza, tramite un’apparecchiatura miniaturizzata che ho addosso. Non dovete però temere, sarà tutto distrutto e vi spiego
il motivo di questo mio atteggiamento. Tra gli alti gradi
dell’esercito, tra i servizi non deviati, tra le forze dell’ordine,
tra gli alti funzionari serpeggia un sordo malcontento ed alcuni
hanno auspicato l’uccisione dell’uomo oggetto prevalente della
nostra tavola rotonda. Io ed altri abbiamo voluto saggiare, con
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persone scelte a caso, l’umore degli italiani. È stato bellissimo
ed ognuno di noi, come dallo psicanalista, raccontando se stesso, ha passato in rassegna buona parte della storia d’Italia. Vi
prego di perdonarmi ancora. –
Nessuno aprì bocca e Domenico, nero in volto invitò
Paolo a lasciare il posto. In un baleno tutti abbandonarono la
baita, ognuno per la propria destinazione, pieni di preoccupazione e di angoscia. Prima di partire Isidoro, in qualità di aiutante cuoco, abbracciò Andrea e fu avvicinato da Teodoro che
gli allungò un foglio scritto a mano e gli richiese il suo indirizzo. Sbirciò il foglio dove c’era scritto: “verrò a trovarti in Calabria”. Poi s’infilò nella macchina assieme a Filippo e al suo
ex allievo e dopo poco più di un’ora fu a Porta Nuova, dove salì su un treno per Milano e successivamente prese un altro per
Monza e con un taxi raggiunse Lissone.
Ormai il sole era tramontato, ma nonostante ciò l’afa
era insopportabile. Entrato a casa si mise per un pezzo sotto la
doccia e l’acqua fresca gli portò refrigerio, che non fu capace
però di cancellare dalla sua testa la preoccupazione, per quello
che aveva detto a Sant’Elisabetta e che era stato registrato. Durante il tragitto in macchina con Filippo ed il suo ex allievo
verso la stazione di Torino, Isidoro non disse neppure una parola e non intervenne mai nel dialogo degli altri due. Invitato di
dare un parere su qualcosa rispondeva solo a monosillabi e tale
suo comportamento provocava un lieve sorriso sardonico sulla
bocca dell’alto funzionario dello Stato. Quando poi scese
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dall’automobile nei pressi di Porta Nuova, Filippo gli disse di
stare tranquillo mentre l’altro lo salutò con una formale stretta
di mano. Appena fu a terra però, sentì che i due ridevano di gusto e ciò lo fece dubitare di Filippo e gli provocò maggiore
preoccupazione.
La notte non dormì, si alzò per tempo e uscì, fece colazione in un bar e poi andò a trovare un’amica d’infanzia che si
era trasferita in Lombardia 40 anni prima. Abitava nel comune
di Monza a ridosso di Lissone e fu lieta di rivederlo. Lo portò a
visitare le sue galline ed il suo orto, curatissimo da quando era
andata in pensione. Nonostante ciò non perse la sua preoccupazione.
All’improvviso gli squillò il cellulare e sentì Filippo che
l’avvisava che si sarebbero visti, per qualche minuto alla stazione ferroviaria di Monza. Arrivò dopo circa un’ora e lo rassicurò aggiungendo che negli alti apparati dello Stato c’era molta
insoddisfazione e preoccupazione e c’era la tentazione da parte
di alcuni di preparare una congiura finalizzata all’eliminazione
del politico di cui si era dibattuto durante l’incontro a Santa
Elisabetta;tali affermazioni lo rasserenarono un po’. Filippo era
arrivato in macchina per cui, date le dovute informazioni, partì
alla volta di Como.
Isidoro nell’arco di due giorni sbrigò delle faccende e
poi ripartì per la Calabria.
Ai primi di agosto cercò di organizzare il suo tempo,
andando al mare, curando un pezzo di terra, organizzato come
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campo di conservazione di viti autoctone e piante da frutto. A
quel punto, nonostante qualche turbamento, volle aprire il sacco ricevuto dal misterioso personaggio, prima della sua partenza per Milano. C’era un foglio dattiloscritto, su cui erano evidenziate delle coordinate geografiche. Sullo stesso veniva data
l’informazione che nel posto indicato, era già stato riposto, in
una grande custodia per uno strumento musicale, un fucile di
precisione; dentro un sacchetto di pelle c’era una quantità notevole di proiettili che un foglio scritto a matita quantizzava in
200. L’abbondanza eccessiva di munizioni, era dovuta alla necessità di allenarsi al tiro autonomamente, perché era impossibile farlo, sull’arma consegnata, in un poligono.
Inoltre dentro la busta, c’era un manuale d’istruzione e
sole 20.000 euro, in banconote da 500 e da 100 euro; erano stati promessi 50.000 per ogni base. A giustificazione di questo,
c’erano dei chiarimenti: i “volontari” per l’operazione erano saliti a dodici. Nel caso dovessero aumentare ulteriormente,
avrebbero dovuto trovare altri finanziamenti. Da una distratta
lettura delle coordinate capì che la località, dove era stato nascosto il fucile, si trovava un po’ oltre il 38° parallelo, ad una
quarantina di km dal posto dove egli abitava, in montagna. In
un’altra annotazione si avvisava che periodicamente sul cellulare consegnato, sarebbero comparse delle coordinate, corrispondenti a delle località o a degli edifici con funzioni istituzionali.
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I brevi ed improvvisi contatti del personaggio in questione, sarebbero state seguiti sul cellulare, dalle coordinate
precedute da P, che stava ad indicare le prove con funzione di
esercitazione. Solamente quando la visita sarebbe stata programmata ed abbastanza lunga, solo allora sarebbe scattata la
possibile emergenza ed in quel caso sul cellulare sarebbe comparsa la lettera A, nel significato di azione, seguita dalle coordinate geografiche del posto visitato.
Isidoro non sentiva nessuna sollecitazione di fronte a
questa prospettiva ed ormai la persona che prima odiava così
profondamente, cominciava ad essergli indifferente. Se tale stato d’animo, sarebbe stato presente anche in seguito in lui, di sicuro avrebbe rinunciato al progetto che prima lo solleticava. Di
nuovo cadde in uno stato di abulia e di frustrazione e se avesse
avuto la possibilità di comunicare con colui che lo stava trascinando in una situazione tanto complicata e nello stesso tempo
logorante dal punto di vista psicologico, gli avrebbe detto che
preferiva rimanerne fuori.
Sperava che al più presto gli arrivasse una telefonata dal
personaggio misterioso, perché gli potesse comunicare la sua
non disponibilità a continuare.
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Donatello Dell’Uva ed il ruolo della donna nelle
società del Mediterraneo antico
Da tanti giorni ormai viveva in uno stato di prostrazione, quando arrivò da Londra sua cugina, che era capace di svegliarlo dal torpore. Prima di giungere nella casa di sua madre,
era stata ospite in Sicilia dei due fratelli, titolari della più importante casa editrice siciliana, Francesco ed Antonia, conosciuti tramite Margherita, fidanzata del primo.
Si ritrovò in una dimora signorile di campagna, immersa nel verde di un giardino all’italiana, con al centro una fontana monumentale zampillante acqua attraverso i capezzoli dei
seni di quattro sirene.
Visse con intensità i dibattiti culturali che duravano fino
alle prime luci dell’alba, tra personaggi impensabili in altri posti d’Italia.
Raccontò di una serata calda, che si stava prolungando
sul tema sofisticato della donna ed il potere nel mondo antico,
proposto dal raffinato Donatello Dell’Uva, amico ed abituale
animatore del cenacolo culturale della padrona di casa, splendida valchiria bruna dalla pelle di luna.
Prima d’iniziare il dibattito, la comitiva cenò all’aperto
in giardino, in un delizioso posticino abilitato per gustare il the,
a ridosso di un boschetto di querce. Esso era circondato da muri alti meno di due metri, affrescati con scene ispirate alla mitologia greca ed il tutto formava un ambiente quadrangolare, di
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7-8 metri di lato e su ognuno di essi erano collegate delle torce,
ricavate dal tronco di un pino d’Aleppo ch’era stato sradicato
dal vento alla fine dell’inverno; esse producevano una luce
ovattata ed emettevano un acre profumo di resina, che si univa
a quello dolce dei gelsomini, che crescevano su quattro strutture di legno predisposte a mo’ di ghirlande.
Al centro era stato creato un tavolo in pietra tenera, dotato di dodici sedili dello stesso materiale, forniti di schienali
rigidi. Fu necessario aggiungere altre tre sedie, in quanto i convitati erano quindici: prevalentemente signore. Fu servita una
cena parca a base di verdure e di pesce e subito dopo si passò
alla presentazione del tema.
– Gentilissime signore – esordì Donatello – il tema prescelto vi si riferisce in quanto donne e mette in risalto il ruolo
femminile nella società dell’antico Egitto. Di sicuro in tale
mondo il loro ruolo era altamente considerato ed il loro universo osservato con tatto e delicatezza. Io credo che, in nessun periodo storico, compreso quello attuale, la donna abbia avuto
una considerazione ed un rispetto superiore. La civiltà egizia fu
quella in cui la figura femminile mantenne buona parte del potere che aveva avuto nella precedente civiltà mediterranea,
prima dell’irruzione, in tale area, dei guerrafondai e maschilisti
indoeuropei. Infatti vi vigeva la civiltà matriarcale e la donna,
in quanto generatrice di figli, aveva la funzione primaria
all’interno della società. Era madre e contemporaneamente
guida all’interno del nucleo familiare. Il partner o i partner, ve-
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nivano scelti da lei e i figli riconoscevano in lei l’unica autorità. Nel mondo egiziano, anche se non nei termini prima descritti, la donna ebbe una grandissima autonomia. Il diritto di famiglia le riconosceva l’assoluta libertà di decidere sulla scelta
dello sposo e sul suo futuro, anche dal punto di vista di eventuali attività economiche e neppure il padre, per legge, aveva la
possibilità d’interferire nelle decisioni prese da una figlia; vi
informo che erano consentite le esperienze prematrimoniali a
sfondo sessuale e ci sono notizie addirittura di donne nel ruolo
di comandanti di navi. –
– Affascinante l’argomento che ha scelto per questa sera, signor Dell’Uva – lo interruppe Margherita, una trentenne
dalla delicata bellezza botticelliana – se assieme, e con il suo
aiuto l’approfondiremo, potrei ricavare un pezzo per il mio
giornale? –
– Su quale giornale scrive? –
– Su Repubblica. –
– Io sono un lettore attento di Repubblica, nonostante
talvolta su di esso leggo degli articoli, che mi si riferiscono,
non certamente lusinghieri. –
– Evidentemente lei ha o ha avuto dei ruoli importanti,
se su di lei qualcuno scrive. –
– Non saprei. Lei sarebbe … – Sono la fidanzata, diremmo la ragazza di Francesco,
fratello della sua amica e vivo a Mosca. –
– Interessante … –
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– Signor Dell’Uva – protestò un’avvenente signora sulla trentina – prima ci sollecita la curiosità e poi ci lascia in
mezzo …? –
– Scusami Patrizia, riprendiamo. Dove eravamo rimasti? –
– Si parlava della libertà di decidere da parte delle figlie
in seno alla famiglia, ma i rapporti con il marito erano improntati alla subalternità della moglie? –
– No Patrizia cara, ci è pervenuto un papiro risalente,
mi pare al tempo della XVII dinastia, dove chiaramente venivano consigliati i comportamenti dovuti dall’uomo nei confronti della sposa. Esso recita: “Non agire in modo sostenuto
con tua moglie, non dirle mai vai a prendere quell’oggetto. Ricordati di non essere richiesto di qualcosa da parte della tua
donna, ma devi capire i suoi desideri ed anticiparli”. –
– Esattamente come capita in Sicilia – interruppe ironica Antonia, la padrona di casa.
– Resto perplessa sempre più della civiltà egiziana, su
cui riemergono ancora riferimenti nuovi ed interessanti; – disse
la signora Agata intervenendo – allora la donna a Tebe o a
Menfi era più emancipata della donna di Atene? –
– Signora lei sta bestemmiando, cercando di paragonare
la condizione della donna in Egitto con quella di Atene,dove
praticamente una ragazza sposata era prigioniera nella casa del
marito. Addirittura le dimore non avevano finestre che affacciassero all’esterno, ma solo verso l’interno, ossia verso il cor-
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tile. Naturalmente le donne non uscivano più quando smettevano di essere bambine, neppure per andare a fare la spesa al
mercato; per questo adempimento erano preposti i mariti, mentre contemporaneamente non avevano possibilità di scegliersi il
futuro sposo, che era concordato dal genitore con un eventuale
consuocero. Era già migliore la situazione della donna a Sparta,
dove almeno aveva la possibilità di riunirsi con le amiche o
coetanee in una palestra per fare esercizi ginnici. La donna poi
a Roma, ne parleremo la prossima volta, nel caso lo vorrà la
dolcissima padrona di casa … –
– Donatello, tu lo sai che questa è casa tua. –
– A Roma, dunque, le donne uscivano liberamente, gestivano autonomamente dal marito i loro affari, andavano persino al circo, lo sappiamo da Marziale, dove si sedevano in
promiscuità assieme agli uomini, che ricercavano, in tale luogo
eventuali “prede”. –
– Ritornando in Egitto … –
A questo punto si udirono nella notte dei rumori di automobili in arrivo e dopo un po’, preceduto da un maggiordomo giunse sul luogo del dibattito un personaggio importante
della politica, amico di Francesco, fratello della padrona di casa. Era circondato da un codazzo di guardie del corpo ed era
letteralmente “guidato” da un enorme San Bernardo, che arrivato in mezzo alla comitiva, tra i sorrisi ironici e le grida un
po’ allarmate delle signore, le andava annusando nonostante le
loro rimostranze un po’ divertite. Naturalmente tutte si alzaro-
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no per accogliere con il dovuto rispetto il personaggio importante, tranne Donatello Dell’Uva che palesò una certa contrarietà, restando seduto.
– Presidente come sta? – salutò Antonia, evidenziando
un sorriso radioso.
– Bene cara … riverisco le signore presenti, che in parte
conosco e naturalmente i signori uomini. Vedo poi … oh il mio
Donatello. Fatti vedere … ti vedo in forma. –
E si avvicinò per salutarlo. Dell’Uva non si mosse e replicò al saluto con una fredda stretta di mano.
– Sono latore, da parte del nostro leader di saluti affettuosi e della consueta stima. –
– Non ho che farmene né dei saluti, né degli apprezzamenti del tuo leader. –
– Del nostro, mio caro … –
– Io non ho mai avuto leader, essendo stato sempre indipendente ed autonomo in tutte le mie decisioni, pretendendo
semmai una sola cosa, in cambio di diecimila che avrò dato. –
– Tu lo sai che ti è sempre riconoscente. –
– Non pretendo riconoscenze da parte di nessuno, nonostante potrei richiederne. –
– Lo sai che sempre ti pensa e cerca di esserti moralmente vicino ora, per via del tuo grosso problema. –
– Con il pensiero, ma non con i fatti. –
– Egli, lo sai ha tanti fastidi, connessi ad una giustizia
ad orologeria, teleguidata da una regia occulta e misteriosa. –
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– A ciascuno il suo – concluse Donatello Dell’Uva, accompagnato dalla desolazione delle signore quando si alzò per
andarsene.
Antonia lo seguì volutamente da sola fino alla sua auto,
dove lo salutò a malincuore, dicendogli:
– Come al solito gli uomini rovinano tutto –
– Non gli uomini, gli omuncoli, i garzoni da fornaio … –
– Ma cosa sta succedendo? –
– Siamo vicino alle strette finali e se non si risolveranno
positivamente alcuni problemi, ci saranno delle reazioni a catena e salterà tutto in Italia perché verranno fuori fatti compromettenti per personaggi importantissimi. La politica sarà letteralmente destabilizzata, nei piani alti. –
– Mi dispiace … –
– Pazienza, avremmo parlato delle “grandi spose reali”, Nefertari e Nefertiti. Buon proseguimento di serata, dolce bambina. –
E la baciò sulla fronte, salendo poi sulla sua auto.
Invece Antonia non era affatto dispiaciuta per la piega
che stava prendendo la politica a livello nazionale, ma doveva
recitare da afflitta per motivi di opportunità aziendale.
Rientrata nella comitiva ritrovò il San Bernardo che teneva banco, giocando con le signore, saltando di qua e di là,
preferendo Patrizia ed Agata, che evidenziando gambe splendide, tentavano di cavalcarlo, come fosse un pony.
Il presidente se lo mangiava con gli occhi, ridendo divertito e soddisfatto nel vederlo impazzare di gioia.
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A questo punto intervenne Francesco, che propose un
nuovo tema per il prosieguo della serata: il potere ed il cane.
Risero di gusto tutti quanti e al cameriere che proponeva loro
dei cannoli richiesero due bottiglie di passito di Pantelleria,
fredde al punto giusto.
Ad un certo punto il cane si stancò e si accucciò accanto
al padrone, che con un certo sussiego cominciò a parlare del
suo ruolo all’interno del parlamento, specie nel caso dovesse
defungere il presidente della Repubblica.
Ben presto i suoi discorsi, accompagnati dagli sbadigli
degli astanti, cominciarono a stancare, per cui ci furono le prime defezioni. Patrizia ed Agata abbracciando il testone del cane festante, salutarono la comitiva, seguiti da altri. In poco
tempo restò solo il presidente, con la scorta e con il cane, ma
alla fine anche lui si arrese; abbracciò Antonia e Francesco, fece un inchino a Margherita ed andò via.
Naturalmente i padroni di casa, con le ospiti, velocemente ed in silenzio, guadagnarono le proprie stanze e dormirono all’istante.
Il pomeriggio seguente i quattro commentando la serata
precedente espressero le loro impressioni e Francesco riferì di
aver sentito in giro, che quasi tutti i deputati siciliani della
maggioranza di governo non ne potevano più della situazione
emersa nel loro partito e che meditavano il cambiamento del
Presidente del Consiglio.
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Ci furono altre serata su temi vari, ma nessuna somigliò
a quella in cui Donatello Dell’Uva aveva affascinato i presenti
introducendo appena il tema della “donna ed il potere”
nell’antichità.
Addirittura Margherita si accorse che in un libro, dalla
veste tipografica bellissima, lasciato sul tavolo di pietra nel
giardino, c’era un programma, scritto a mano, su alcune serate,
da dedicare al tema suddetto. Spiccavano fra l’altro: le donne
nella funzione di faraone da Nicotri a Cleopatra; l’etera Aspasia: confronto con le attuali accompagnatrici; il grande amore
di Cornelio Gallo, Licoride, finito nelle mani rudi di Antonio e
poi in quelle di un altro ufficiale dell’esercito romano, in una
tenda militare della Gallia renana; Agrippina: il fascino al servizio del potere.
Margherita ammirò il libro, Le storie di Erodoto, ed
analizzò la grafia del programma, chiara, equilibratissima, dalle
vocali tondeggianti; l’ultima caratteristica evidenziava la bontà
d’animo del soggetto.
Si meravigliò del fatto che un uomo di grandi qualità,
forse anche morali, si fosse messo al servizio di un politico così
losco.
Antonia allora tentò un’interpretazione del personaggio:
il suo era stato un gioco, finalizzato a sperimentare la sua intelligenza. Ossia aveva voluto dimostrare come un uomo superintelligente, con strumenti non ortodossi, addirittura illegali,
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avesse potuto trasformare uno sciocco, brutto anatroccolo, prima in un creso e poi in un cigno della politica.
Con tale operazione aveva evocato un mostro di vanagloria, futilità, egoismo, che s’era materializzato, occupando
con la sua ingombrante megalomania la scena politica.
Ritornata nella casa di sua madre la cugina raccontò ad
Isidoro, che restò perplesso, la sua esperienza siciliana.
Nella grotta con lo Zeus Fulminante
Egli continuava a persistere nella sua abulia ed ogni
tanto accendeva il telefonino per verificare se ci fossero dei
messaggi, mentre di malavoglia andava al mare e distrattamente ascoltava le notizie dei telegiornali.
Nonostante il suo stato d’animo aveva deciso di ritornare in
contrada Palazzo di Caulonia con tutto l’armamentario necessario per esplorare la grotta sottostante il basamento del tempio
ellenico.
La sera prima di partire preparò tutto l’occorrente e lo
sistemò nella vecchia macchina: una piccola cazzuola, la scala
di corda, la corda annodata, una piccola scure, un coltello, tre
piccole travi di castagno. Quest’ultimi fuoriuscirono per più di
un metro dal portellone, che fu lasciato semiaperto su di esse.
Assieme furono ben ancorati al gancio da traino sottostante. In una borsa sistemò il binocolo agli infrarossi, la digita-
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le, un cacciavite, un gomitolo di spago e poi puntò la sveglia
alle quattro e quando fu attiva la suoneria si alzò e già alle
quattro e mezza fu in partenza.
Già prima che fosse chiaro arrivò a Caulonia Marina,
dove consumò un cappuccino in un bar, aperto ininterrottamente notte e giorno. Prese la direzione della montagna e alle sei fu
in contrada Palazzo. Il sole era appena sorto ed il cielo verso il
mare era irrorato di un tenuissimo rosso, mentre tra gli arbusti
del pianoro attorno si udivano i versi dei colombacci, intervallati sporadicamente da quelli di un merlo. Trasportò in pochi
minuti, ai bordi del dirupo, il materiale che aveva in macchina
e per prima cosa legò ben saldamente alla base di un robusto
cespuglio di lentisco, i due capi della scala di corda, attraverso
cui scese, portandosi appresso una delle tre travi di castagno e a
tracolla la corda annodata. Arrivato in direzione dei due grossi
lecci divaricati, posti appena al di sotto dell’apertura verso la
grotta, incastrò tra i due alberi la trave e poi tenendosi dalla
scala di corda ci salì sopra e cominciò a guardare dentro la caverna. Restò subito turbato alla vista di due scheletri riversi su
un’enorme lastra rettangolare di pietra, poggiante forse su altre
pietre. Essi erano avvicinati, come in un abbraccio e a questo
punto si ricordò della leggenda raccontatagli da Maria.
Sotto il tempio, diceva, esiste una grotta maledetta, mai
profanata in quanto dentro vi morirono di fame e di sete, due
giovanissimi amanti. La ragazza era figlia di un funzionario di
altissimo rango dell’impero bizantino, che era rimasta orfana
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sin dalla nascita, in quanto la madre era morta nel partorirla.
Il padre era vissuto nel ricordo della moglie, di cui era stato
innamoratissimo e mai più aveva cercato una nuova compagna. Con molta cura aveva fatto allevare la bambina, che era
cresciuta, avendo come compagno di giochi, il figlio di un servo. Divenuta adolescente si era innamorata del suo compagno
di giochi, ricambiata.
Il padre quando lo seppe rimase sconvolto ed addolorato e proibì alla fanciulla di frequentarlo, anzi cacciò dalla sua
dimora, ch’era una fortificazione, il servitore con la famiglia,
che si trasferì in un tugurio nei pressi di contrada Palazzo.
Una notte la fanciulla scappò dal castello e raggiunse il ragazzo, che spaventato l’invitava a ritornare a casa.
Il funzionario, accortosi della fuga della figlia, ne organizzò la ricerca. Quando i due ragazzi videro da lontano un
gruppo di armati, s’immaginarono che a guidarlo era il padre
della fanciulla e scapparono e si rifugiarono nella caverna, attraverso uno strettissimo cunicolo che la raggiungeva dal basamento del tempio. Arrivato alla povera casa, il padre non
vedendo la figlia e neppure il giovane, comprese che s’erano
nascosti da qualche parte, per cui furibondo, di propria mano
massacrò la povera famiglia; di essa facevano parte, oltre il
padre e la madre, due bambine in tenerissima età.
Fuori di sé continuò la ricerca e quando seppe che
s’erano rifugiati nella caverna sottostante il tracciato del tempio, fece ostruire l’accesso ad essa, con dei grandi massi. I
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giovani dopo qualche giorno cominciarono a chiedere aiuto
attraverso la finestra ricavata sullo strapiombo e li sentirono
alcuni giovani pastori, che solevano percorrere la macchia,
che si estendeva nella vallata. Cercarono di porgere loro
dall’alto una lunga corda ricavata dagli steli lunghi e flessibili
di vitalba, ma furono sorpresi dagli armati che ispezionavano
l’area e furono giustiziati. I lamenti dei giovani divennero
sempre più flebili e poi non si sentirono più.
Passarono pochi giorni ed il padre, folle per il dolore
s’impiccò in un ramo di quercia che penzolava sul vuoto, nel
posto dove egli aveva costretto l’unica persona che avesse potuto amarlo, ad una fine orribile.
D’allora quel posto e quella caverna si considerarono maledetti e d’inverno quando soffia il vento furibondo di greco, si
ode il pianto lamentoso dei due giovani e l’urlo disperato del
padre.
Nessuno mai ha tentato di entrare nel luogo dove i due
giovani penarono tantissimo prima di essere liberati dalla
morte.
Isidoro rammentando il racconto di Maria e guardando i
due scheletri si commosse e delle lacrime solcarono il suo volto
ormai segnato da qualche ruga e dalle preoccupazioni. Guardò
lungo la parete e in una fessura della roccia, notò una violacciocca in fiore, poco distante da uno dei due tronchi di leccio.
Pericolosamente, camminando sul tronchetto, si avvicinò alla
pianta e colse i fiori, restando aggrappato alla scala, che gli
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permise di entrare poi nella grotta. Per prima cosa depose i fiori
sulle povere ossa e poi s’inginocchiò in senso di riverenza, persistendo nello stato di profonda commozione. Dopo un po’ cominciò a perlustrare la grotta, non molto illuminata dalla poca
luce che entrava. Era a forma quadrangolare, di circa dieci metri di lato e risultava, dai segni lasciati dai picconi, essere stata
creata artificialmente. Guardò in giro e vide ovunque grossi
frammenti di ceramica emergere a malapena da spessi strati di
polvere e poi sagome tondeggianti. A questo punto legò la corda annodata, dopo aver ricavato un grande cappio, al lato interno più corto del lastrone, su cui erano adagiati i due scheletri;
infatti i lati lunghi erano orientati perpendicolarmente verso
l’apertura, dalla forma perfettamente rettangolare e probabilmente corredata da una finestra nell’antichità. Come aveva giustamente pensato prima, il lastrone era poggiato su basamenti
di pietre regolarmente squadrate alti circa 70 cm.
Fece in modo che la corda passasse di lato e non di sopra, per non profanare il riposo dei defunti, poi la raccolse ordinatamente e la collocò all’interno dell’apertura. Nel caso
qualcuno si fosse accorto della scala e l’avesse tirata a sé, mentre egli era nella grotta, gli rimaneva una via di fuga, ridiscendendo con la corda annodata lungo la parete.
A questo punto risalì due volte e ridiscese con le altre
due travi che sistemò, incastrandole tra i due tronchi divaricati;
ormai era agevole calarsi e camminare davanti alla finestra in
quanto la passerella ricavata era larga circa 40 cm.
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Prima di risalire definitivamente volle riposarsi un po’
al fresco della caverna, mentre all’esterno, ancora faceva molto
caldo, nonostante ormai si era avvicinata la fine di agosto.
Si ritrovò accanto ad una delle tante sagome tondeggianti ed allora prese dalla borsa, la piccola cazzuola che aveva
riposto e cominciò ad asportare con delicatezza, i sedimenti sopra ed attorno ad essa; alla fine apparve, completamente intatta
un’anfora vinaria del tipo G.M.S. Provò ancora ed estrasse dalla polvere sedimentata e dal terriccio un’altra. Poi vide che alla
parete di fronte al tavolo di pietra, erano addossate altre ancora;
in due di esse riconobbe delle dressel e a ridosso di esse i
frammenti di un vaso dipinto a figure nere, chiaramente locrese. Dedusse che attorno fossero stati attivi vigneti fiorentissimi
dal periodo magnogreco al periodo repubblicano romano.
Nell’angolo di destra intravide, a dimensioni umane, una statua
di marmo. Cominciò a pulirla con delicatezza e alla fine gli apparve una divinità maschile nell’atto di scagliare qualcosa, con
la mano destra; guardandola attentamente capì che rappresentava Zeus fulminante. Probabilmente l’area sacra era rimasta
operativa fino alle guerre annibaliche, quando sarà stato distrutto o abbandonato il tempio, in seguito alle ritorsioni incrociate tra romani e cartaginesi.
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Con i bizantini e San Bruno di Colonia
Ormai stremato per le tante emozioni provate risalì su e
dopo aver ritirato la scala di corda, si accinse a ritornare a casa,
dove la moglie e le due figlie erano appena rientrate dal mare.
Ai primi di settembre sul cellulare dell’uomo dei servizi comparve un breve messaggio preceduto dalla lettera P, che stava
per prova, seguito da coordinate geografiche, che indicavano la
città di Milano. Non riuscì però a stabilire, tramite il G.P.S., in
quale edificio preciso si sarebbe recato l’Uomo-Fogna e tale
problema si sarebbe riproposto in prospettiva. Per ovviare a tale inconveniente comprò un navigatore di ottimo livello ed allora incrociando i dati, capì che l’edificio istituzionale in questione era Palazzo Isimbardi, sede principale della provincia di
Milano.
Alla fine della prima decade di un caldo settembre
all’improvviso arrivò Teodoro, che fu ospite di ex militanti del
P.C.I., in un casolare restaurato nelle campagne di Riace e che
gli diede un appuntamento per il pomeriggio inoltrato del giorno 11. L’invitava ad essere disponibile a pernottare.
Isidoro si preparò ad incontrarlo, ma prima si recò in un suo
piccolo podere, per provvedere ad alcuni adempimenti indispensabili. Contigua al suo pezzo di terra, un vecchio omonimo
di suo padre, defunto ormai da più di vent’anni, possedeva e
curava una vigna bellissima, ricca di viti, che davano anche ottime uve da tavola.
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Guardando in cielo ed imprecando contro il diavolo,
lamentava il furto dei grappoli più belli di zibibbo e zibibbo
moscato, che proprio quel giorno avrebbe dovuto portare ai
suoi nipotini. Augurava malattie dolorosissime al ladro e a tutti
i suoi familiari.
Isidoro, ridendo di gusto cercava di rabbonirlo, ricordandogli che sarebbe caduto nel peccato, augurando il male al
ladro, che di sicuro non navigava in acque favorevoli, dal momento che si dedicava al furto.
A questo punto il buon vecchio si rabbonì e volle raccontarmi una fiaba, che evidenziava il rapporto tra un ladro incallito e Cristo.
– Gesù andava in giro per il mondo per tentare di redimere dai peccati, quante persone potesse, quando incontrò in
un paese un ladro, che vedendogli estrarre dalla tasca, in una
bottega dove aveva comprato un pezzo di pane, un porta zecchino con delle monete d’oro, voleva derubarlo.
Gesù, uscendo dal paese, si vide dietro il ladro, che lo
seguiva da vicino, come un’ombra nelle notti di luna.
Camminando uno dietro l’altro, arrivarono sotto una
quercia vetustissima, dove Cristo si coricò per terra, mettendosi sotto la testa una manata di avena e di altre erbe. Il ladro si
coricò accanto, mettendosi sotto il capo una pietra, per appoggio, e chiese al suo compagno se avesse bisogno di lui, come
uomo di fatica.
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“Io personalmente, buon uomo, non ho bisogno, ma
chiedo a dei miei parenti, se vi possono aiutare”.
“Non avete capre, pecore, vacche che io possa pascolare per voi?”
“No, no!”
“Posso diventare vostro amico?”
“Senz’altro!”
“Come vi chiamate?”
“Cappellaccio!” Gli mentì Gesù. “E voi?”
“Filippino!” E invece si chiamava Peppe.
Era alla fine di maggio e faceva caldo, nonostante che
il tempo fosse un po’ nuvoloso ed erano in cammino già dal
mattino, quando il ladro cominciò ad essere tormentato dai
morsi della fame, per cui si lamentava in continuazione.
“Abbi pazienza”, gli diceva Gesù, “che fra poco mangeremo!”
“Non si tratta di pazienza, ma per la debolezza estrema
non riesco più a camminare!”
“Va bene! Guarda, su quell’altura c’è una grande
mandria di pecore e capre in un ovile, dove i pastori stanno facendo la ricotta, che è quasi pronta, in due grandi paioli. Va e
a nome di Cappellaccio, chiedi due porzioni abbondanti di ricotta, assieme a del siero e al ritorno, l’impaneremo con un
tozzo di pane che ho nella bisaccia. Porta con te questo secchio di legno, che ho sempre con me, dentro cui ti verseranno
ciò che ti daranno.”
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“Ma che mi state infinocchiando! Son sicuro che appena sarò arrivato i pastori mi aizzeranno i cani, che mi faranno
a pezzi!”
“Va tranquillo, perché fra breve mangeremo!”
Andò e appena arrivò, i cani gli fecero festa ed addirittura uno
gli leccò la mano. I pastori poi, con tanta cortesia lo salutarono e dopo gli riempirono a metà il recipiente, con ricotta e siero. Restò sbalordito Filippino, che salutando ritornò da Cappellaccio, a cui disse:
“Ma voi, come ho potuto constatare avete più potere di
un mago!”
“Non è vero quello che tu dici, perché quello che abbiamo avuto, a farcelo avere è stato Dio che aiuta tutte le anime buone e tutti i peccatori che sono pronti a redimersi, facendo buone azioni. Tu sei responsabile di qualche piccolo peccato? Pentiti, se lo sei e fa sempre il bene e mai il male!”
“No, no, io sono puro come una colomba e non ho mai
peccato!”
Dopo averla impanata, si mangiarono la ricotta e dopo
si coricarono sotto una pianta d’ulivo, frondosa, con una cavità vicina alla biforcazione.
Gesù prima appese il secchio e la bisaccia ad un ramo
e dopo infilò il portamonete, con qualche moneta d’oro, nella
cavità dell’albero.
Quando il ladro pensò che Gesù si fosse addormentato,
si alzò ed allungò la mano per rubare il portamonete, ma
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quando cercò di tirarla non fu capace e restò con la mano dentro la parte vuota della pianta.
Gesù fingeva di dormire e solo dopo tre ore aprì gli occhi e vide il ladro in quella strana posizione.
“Che stai facendo Filippino? Stai tentando forse di rubarmi il portamonete?”
“Che dite mai! Io ho messo la mano dentro la cavità
per sapere se c’è un nido di barbagianni!”
“Va bene! Vieni a sederti!”
E allora la mano di Filippino fu libera ed il portamonete volò nell’aria ed andò ad infilarsi nella tasca interna
dell’abito di Gesù, con grande meraviglia del ladro che esclamò:
“Ma voi siete più abile di un mago, sembrate un santo
che fa miracoli!”
“Io sono semplicemente un giusto e come tutti i giusti
faccio del bene e lo pretendo da quelli che mi stanno vicino!
Ricordati il bene arreca bene, il male procura il male! Tu hai
fatto sempre il bene?”
“Sempre! Non ho fatto mai del male!”
Gesù non parlò più e si misero in cammino e ad un certo punto Filippino disse:
“Cappellaccio, ho fame! Procura da mangiare tu che
ne sei capace!”
“Io provvedo per i giusti e per gli onesti e anche per
quelli che sbagliano, ma che si pentono!”
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“Io non ho niente di cui pentirmi, perché la mia coscienza è bianca come la ricotta! Provvedi dunque al cibo!”
“Va in quella mandria laggiù, perché i pastori stanno
preparando la ricotta e fatti versare un pò nel secchio, assieme
al siero!”
Andò e gliela diedero, ma di malavoglia, dicendo:
“Te la diamo, ma di malanimo, perché uno di quelli che
si mangerà la ricotta, è ladro!”
Arrivando Filippino disse a Gesù:
“Cappellaccio, tu sei un ladro, perché i pastori sanno,
non so come, che uno di noi due è ladro! Io non lo sono, allora
il ladro sei tu!”
Gesù fece un sorriso e rispose:
“Dio lo sa e tenta sempre di salvare i peccatori!”
“Allora salverà te!”
Si rimisero in cammino e dopo mezza giornata la fame
cominciò a tormentare Filippino che rivolgendosi a Gesù disse:
“Cappellaccio ho fame! Provvedi!”
“Allora va in quella mandria che vediamo e chiedi ai
pastori che ti diano l’agnello migliore e se non vorranno dartelo, chiamalo, perché esso, saltando la staccionata, ti seguirà!”
Non credeva il ladro a quanto Gesù raccontava, ma nonostante
ciò andò e quando i pastori non gli vollero dare l’agnello, egli
lo chiamò ed esso saltò la staccionata e lo seguì, con grande
meraviglia dei presenti.
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Filippino accese il fuoco, preparò le braci, scannò e
scuoiò la bestia. Tagliò quattro grossi polloni d’oleastro, gli
fece la punta, preparò con essi quattro forcelle, che conficcò
per terra e su di esse fece girare sopra le braci l’agnello diviso, infilato in stecchi, assieme a fegato, pancreas, reni, aspersi
con salmoriglio, tramite un filo d’origano. Arrostendolo mangiava le parti migliori e ad un certo punto si mangiò il fegato.
Gesù pensò:
“È l’ultimo tentativo che faccio per salvarlo!”
E quando l’agnello fu ben arrostito gli disse:
“Io non mangio perché non ho fame! Fammi assaggiare un pezzettino di fegato!”
“Quest’agnello non aveva fegato!”
“Filippino di’ la verità perché ti verrà bene! L’agnello
ce l’aveva il fegato e l’hai mangiato tu!”
“Io ho sempre detto la verità! L’agnello non aveva fegato!”
Gesù abbassò la testa sospirando e non parlò più. Dopo
che Filippino si mangiò tutto l’agnello partirono e camminarono tutto il giorno e la notte seguente, fin quando non arrivarono in un bosco, dove trascorsero la notte in un pagliaio abbandonato dai carbonai.
Arrivò il mattino e attraversando tutto il bosco, verso la
fine, dovevano passare per un pezzo di strada scavato nella
roccia, su cui bordi crescevano delle piante di ginestre che
pendevano sulla strada e che erano coperte letteralmente di
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vipere e altri serpenti velenosi, che aprivano minacciosi la
bocca, dimenando la lingua e soffiando.
“Filippino passiamo! Perché ti sei fermato?”
“Mi son fermato perché temo che mi facciano del male!”
“Cammina dietro di me e sta sicuro!”
“No, io voglio la salvezza e non la morte!”
“La salvezza ti verrà da me! Sta sicuro, io dico la verità!”
Cominciarono a passare e man mano che avanzavano, i
serpenti velenosi si ritiravano e così arrivarono in una pianura
dove si riposarono.
“Cappellaccio, tu hai grandi poteri, da come vedo!”
“Il mio potere è la verità! Perché non ti penti Filippino
dei tuoi peccati?”
“Non ho di che pentirmi, perché non ho peccati!”
Raggiunsero la riva di una grande fiumara in piena,
che rumoreggiava grandemente e Gesù disse:
“Filippino passiamo dall’altra parte?”
“E come? Voliamo?”
“Stammi dietro!”
E come Gesù camminava l’acqua si apriva e si vedeva
la ghiaia asciutta come il pane. Arrivarono all’altra riva della
fiumara che subito si chiuse alle spalle.
“Cappellaccio tu hai un gran potere! Io credo che te lo
dia Dio o addirittura tu sei Iddio!”
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“Filippino
pentiti!
Dammi
una
piccola
prova!
L’agnello era dotato di fegatello?”
“No, era senza fegatello!”
Camminarono per un’altra giornata in un’aspra montagna, quando arrivarono in un posto dove la strada era franata e non si poteva passare dall’altro lato, perché c’era un burrone alto quanto il cielo.
Gesù passò camminando nell’aria e quando fu
dall’altro lato disse:
“Filippino pentiti e dimmi la verità, se no non passare,
altrimenti precipiterai e morrai! L’hai mangiato tu il fegatello?
Dammi questa piccola prova!”
“L’agnello non aveva fegatello!”
“Non passare perché non dici la verità!”
“Dico la verità e passo, camminando nell’aria! Se l’hai
fatto tu lo posso fare anche io!”
Fece il tentativo di passare e cadde urlando nel precipizio. –
Alla fine del racconto, il vecchio contadino sembrò meno carico di tensione e di rabbia, forse perché aveva identificato colui che gli aveva rubato l’uva, con il ladro finito male della fiaba, esposta con tanta espressività.
Il giorno successivo Isidoro fu assolutamente puntuale
all’appuntamento, fissato in un bar vicino al mare, ancora frequentato da qualche turista.
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Si salutarono con una stretta di mano e poi ognuno salì
sulla propria macchina e si diressero verso l’entroterra. Raggiunsero un casolare ben restaurato non lontano dal monastero
dei santi Anargiri, Cosma e Damiano. I padroni abitavano a
Settimo Torinese e per l’estate avevano restaurato il vecchio
casolare con una vista magnifica sul mare, che si godeva specialmente da un’altana ricavata, al primo piano, sul lato orientale della casa. Attorno c’era un orto, recintato con un muretto
a secco, ed abbellito, da due gelsi, un limone, due aranci ed una
pianta di mandarino. Lungo il muretto correva, ricco ancora di
frutti, un filare ininterrotto di fichidindia, mentre una pergola
proteggeva dalla calura un cortile, costruito attorno all’entrata,
verso ponente.
I proprietari, due fratelli ed una sorella, l’usavano, a
turno, a partire da giugno, mentre l’avevano dato in uso gratuito, per il mese di settembre, al loro amico Teodoro, che si trovò
a suo agio. Addirittura gli procurarono da lontano degli amici
sul territorio, che andarono ad accoglierlo alla stazione di Monasterace. Infatti l’auto con cui si spostava era stata messa a disposizione dai padroni di casa; era una vecchia Punto che lasciavano nel casolare per i loro spostamenti estivi.
Era rimasto sbigottito per quello che vide nel territorio
che l’ospitava. Infatti aveva visitato prima fugacemente il Sud,
che s’immaginava una terra abitata da primitivi. Era capitato
però in una delle aree più sorprendenti d’Italia, inusuale. Il
borgo di riferimento per lui era Riace, il paese nel cui mare
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erano stati ritrovati i bronzi, retto da un sindaco, Mimì Lucano,
dalle qualità incredibili. Egli già prima di essere alla guida del
comune del suo paese natale, aveva creato una cooperativa
“Città Futura”, che si prefiggeva di salvare Riace, uno stupendo borgo medievale, dall’esodo totale, ch’era fino ad un decennio prima, inarrestabile.
Ha creato laboratori artistici e artigianali: uno, guidato
da un latino-americano produce ceramica, un altro produce vetri soffiati, un altro è attrezzato per la tessitura, dove lavorano
anche delle donne mediorientali. Infatti la giunta comunale
guidata da Lucano, ha creato una comunità multietnica con
elementi provenienti da molti paesi del mondo: eritrei, somali,
curdi, iracheni, libanesi, palestinesi, indiani, peruviani, ecc.,
che vivono in armonia ed in collaborazione. D’estate le case
restaurate da “Città Futura” accolgono ospiti da tante parti del
mondo, che animano la vita del paese semi- abbandonato.
All’esperimento di “Città Futura” collaborano con amore tutti i cittadini, mentre è vista male dagli investitori dei paesi
circonvicini, che avevano rilevato i terreni vicino al mare per
portare avanti orribili speculazioni edilizie.
Gli interessi di costoro, collimano con quelli della
‘ndranghita, che ha minacciato Mimì, sparando colpi di pistola
nel suo portone di casa ed esplodendo altri contro la vetrata di
una sede di “Città Futura”. A futura vergogna, i vetri bucati rimangono per evidenziare a tutti i componenti della comunità di
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Riace e a tutti i visitatori, che il male deriva dall’egoismo e che
il bene dall’altruismo e dall’amore.
L’esempio del sindaco di Riace comincia a contagiare i
paesi vicini e Placanica, Stignano, Camini, Stilo, Bivongi, Pazzano, stanno costituendo un coordinamento per portare avanti
un progetto di sviluppo basato principalmente sulle radici culturali del territorio e sull’ambiente.
Bivongi, fra l’altro, ormai da quindici anni porta avanti
il suo particolare progetto basato sulla storia, scommettendo sul
passato e principalmente sul monastero greco-ortodosso di San
Giovanni Teresti, che è stato, da condizioni ruderali, restaurato
e restituito al rito greco, grazie all’impegno anche finanziario
di Monte Athos e quello personale di padre Cosmas.
Teodoro restò allibito per tutto ciò e visitando Bivongi
constatò la pulizia estrema del borgo, posto a 14 km dal mare e
dove da tanti anni viene praticata con rigore la raccolta differenziata.
Alla base di tali risultati però, c’è la cultura e l’assenza
o quasi della criminalità organizzata in tali posti che, la ‘ndranghita cerca d’insidiare, infiltrandosi.
Questi apprezzamenti da parte di Teodoro furono fatti
sull’altana, ma ad un certo punto egli invitò Isidoro a scendere
in cucina, al piano terra per cucinare e per parlare d’altro. Ormai era scesa la sera da qualche ora ed un concerto di grilli
canterini ammaliava tutta la campagna circostante, mentre una
lieve e piacevole brezza spirava dalla montagna. La luna era in
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fase calante, ma nonostante ciò riusciva a far immaginare il
paesaggio, costituito da colline che si proponevano in scansioni
diverse.
Velocemente prepararono degli spaghetti e mangiando
iniziarono la loro conversazione.
– Dunque – cominciò Teodoro – a Santa Elisabetta non
intervenni, in fase finale, perché non ti conoscevo e non perché
diffidavo dell’ex allievo di Filippo. Infatti egli è un servitore
dello stato severissimo, che sa bene chi è il presidente e conosce pure i pericoli che sta correndo l’Italia, ostaggio di questo
losco figuro. Egli è un prefetto di un’importante città della
Lombardia ed effettivamente, per conto degli altri suoi colleghi, organizzò la registrazione, per evidenziare gli umori degli
italiani, che esprimevano liberamente il loro parere, senza alcune previsione su quello che avrebbero detto. Ciò che tutti noi
abbiamo allora espresso ha rafforzato la convinzione in lui ed
in altri alti funzionari dello stato, di operare al più presto per
eliminare dalla scena l’Uomo-Fogna, come l’ha definito con un
linguaggio colorito Domenico. Infatti il progetto bonapartista
del presidente è in atto e prevede la presa del potere diretto,
grazie al controllo del Sud, tramite i plenipotenziari mafiosi, e
di buona parte del nord, in virtù della disponibilità degli uomini
del partito del Nord. Infatti egli, assieme ai suoi più fidati servitori, tra cui l’avvocato Nicola Vadalà, che cercando di qua e
di là, trova espedienti vari per salvare il suo padrone, ha elaborato due disegni: uno massimalista, l’altro minimalista. Il primo
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prevede, attraverso i corrotti il controllo di tutt’Italia, il secondo la secessione e l’istituzione di una repubblica presidenziale
padana costituita con le regioni disponibili: la Lombardia, il
Veneto, il Friuli Venezia Giulia; il Trentino Alto Adige, non
disponibile, si aggregherebbe all’Austria. Dai sondaggi risulterebbe che neppure il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria, sarebbero disponibili ad imbarcarsi in tale avventura. Comunque
sia i progetti, difficilmente potrebbero essere realizzati, ma porterebbero l’Italia ad una grave destabilizzazione per un certo
periodo, con conseguenze inimmaginabili quali la bancarotta
finanziaria, per via del debito pubblico e l’estromissione
dall’area C.E.E. Il prefetto, mal sopporta da sempre il personaggio, ma ha cominciato addirittura ad odiarlo,da quando in
un incontro ristretto tra svariati prefetti del Nord Italia, in presenza anche del leader del Partito del Nord, per compiacere
quest’ultimo e per fare qualcosa di spiritoso, fece finta di soffiarsi il naso, con un lembo del tricolore. In altri termini, negli
ambienti che contano è visto come un appestato e trepidano in
attesa della sua fine politica. –
– Ma non capisco ancora; chi sono i poteri che contano,
dal momento che in Italia, almeno da trent’anni, ormai in modo
non più velato, comandano le mafie? –
– Non è facile rispondere a questa domanda, in quanto
fino a poco tempo fa si additavano tra i poteri forti, la Fiat,
l’alta finanza con le banche, una parte consistente della Confindustria, ma a questo punto in Italia di poteri effettivamente
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forti sono rimasti quelli derivanti dalla criminalità organizzata,
che ormai determina tutto in Italia. Nonostante ciò c’è un grande malessere tra gli alti quadri dell’esercito, tra i grandi funzionari dello Stato, tra le gerarchie della chiesa cattolica, fra
l’aristocrazia industriale, fra tutta la classe media, fra le forze
dell’ordine, fra le logge massoniche; sono ancora non del tutto
scontenti i bottegai, mentre gongolano i palazzinari. Per quanto
riguarda la massoneria, specie quella di derivazione piduista,
ha un piano pronto da molto tempo per la sua eliminazione, ma
ancora non ha trovato gli elementi adatti per il futuro assetto
politico, però alcuni suoi componenti dicono ormai liberamente
che l’Uomo-Fogna è un cadavere ambulante. Addirittura cominciano a manifestare qualche malumore anche i criminali
delle varie mafie. –
– In definitiva cosa s’intende fare? –
– Tutti sono in attesa e sperano in qualche evento nuovo
oppure nell’implosione del partito di maggioranza relativa, al
governo. –
– Nessuna azione si prospetta? –
– Si parla di congiurati, che operano nell’ombra, ma di
fatto ancora tutto è in alto mare, perché si spera nella stanchezza del leader che potrebbe gettare la spugna. –
– Ciò è poco credibile, perché se lo facesse, in breve tempo cadrebbe il castello di sabbia, su cui si regge l’attuale governo,
che tenta disperatamente di diventare regime. –
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– Intanto però la situazione peggiora di giorno in giorno, a parte la contingenza negativa a livello internazionale, nelle grandi città si comincia a morire letteralmente di fame. –
– Ma tu perché sei venuto in questo posto? –
– Per farmi la vacanza e non spendere molti soldi, che
con i tempi che corrono cominciano a diventare pochi. –
– Credevo che tu fossi giunto con uno scopo ben preciso, dato che mi hai pure contattato. –
– Già a fine luglio sapevo della mia venuta. –
– Conosci il prefetto? –
– Da una vita … –
– È affidabile? - Affidabilissimo. –
– Sta facendo qualcosa? –
– Sta tentando. –– E tu? –
– Sono tra quelli che tenteranno qualcosa. –
– Allora ti posso far vedere e far sentire qualcosa? –
– Certo. –
Isidoro accese il suo telefonino e gli fece vedere
l’immagine del presunto uomo dei servizi e poi gli fece sentire
le sue affermazioni.
Rimase senza fiato per un pezzo e poi cominciò a dire.
– È un ufficiale di alto livello dei servizi segreti ed opera assieme al prefetto, mi meraviglia il fatto che abbia rischiato,
facendoti quelle proposte. È molto serio, per cui, scusami, non
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guadagna ai miei occhi dal momento che si è rivolto a te. È
preposto ai servizi e alla sicurezza delle alte personalità. –
– Perché dici questo? –
– Perché, scusami ancora, tu sei un nulla, dal punto di
vista che interessa a lui, ossia per compiere un attentato. –
– Ti dico però che le congiure orchestrate, tranne quella
contro Cesare e poche altre, da grossi personaggi o furono scoperte o fallirono. Invece ebbero successo gli attentati organizzati individualmente che però ebbero alle spalle quasi sempre
delle organizzazioni. Vedi il caso di Gaetano Bresci, di Gavrilo
Princip, di Giuseppe Zangara, il mio compaesano. –
– Non conosco quest’ultimo … –
– Tentò di uccidere nel 1933,gli era toccato in sorte,
Franklin Delano Roosvelt, su indicazione degli anarchici italoamericani,per vendicare Sacco e Vanzetti, giustiziati da innocenti il 23 agosto 1927. Egli prima di emigrare ,aveva preso
parte alle lotte per l’occupazione delle terre feudali ed aveva
adorato come un santo, l’anarchico di Calabria, l’ingegnere
minerario Bruno Misefari di Palizzi.
Gli anarchici di Petterson, prima di dargli il via per
l’operazione,sapendo che la strada che stava imboccando era
senza ritorno, gli regalarono una vacanza in compagnia di belle
donnine ,su un panfilo ed egli, preparato alla morte, cominciò a
seguire il presidente designato in alcuni giri elettorali e quando
alla fine di un comizio, gli si avvicinò con un revolver dentro
un mazzo di rose, lo prese di mira, ma fu spintonato da una
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donna e sbagliò bersaglio, colpendo a morte il sindaco di Chicago; nel 1933 morì dignitosamente sulla sedia elettrica,non rivelando il nome dei suoi amici –
– Tenta di non sbagliare tu … –
E rise Teodoro.
– Nella registrazione si parla di un fucile di precisione.
Dove lo conservi? –
– Ancora non sono andato a recuperarlo. Se vuoi andremo assieme. –
– Va bene. Io sono esperto d’armi e d’esplosivi. Infatti
quando feci la guardia del corpo al più grande segretario politico del P.C.I. partecipai, in Medio Oriente, ad un corso finalizzato al disinnesco di bombe. –
– Possiamo concertare la data. –
– Mi riposo alcuni giorni e poi, oggi è mercoledì, ci vedremo domenica 14 in un posto da concordare per telefono. –
Andarono a letto in una stanza del primo piano, con le
porte-finestre spalancate sull’altana e quindi con la vista sul
mare, punteggiato quasi sulla linea dell’orizzonte da alcune luci in lieve movimento. Il cielo, scarsamente illuminato da uno
spicchio di luna, offriva alla vista lo scrigno brillante delle sue
stelle, mentre nella quieta campagna circostante il concerto
ininterrotto dei grilli canterini invitava al sonno, che stava per
impadronirsi dei due, quando squillò brevemente il cellulare
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speciale. Isidoro lo consegnò a Teodoro, che lesse un messaggio: aquila agnum rapiet.
- L’aquila rapirà l’agnello – tradussero simultaneamente
ambedue, che interpretarono la città dell’Aquila, come la probabile località dove ci sarebbe stato l’attentato.
Tentarono d’imbastire un discorso su svariati temi banali, ma alla fine il sonno li vinse e dormirono fino a quando il
sole alto nel cielo cominciò ad illuminare la stanza ed il letto su
cui dormiva Isidoro, che si svegliò.
Egli si alzò, si lavò con una certa lentezza e poi, rientrando in camera, si affacciò dall’altana guardando verso
oriente. Faceva caldo e l’acqua del mare in quel periodo risultava particolarmente piacevole, riscaldata dalla lunghissima
estate che non accennava a diventare più mite, per cui ebbe il
desiderio di fare un bagno nel mare mitico dei bronzi di Riace.
Ad un certo punto sentì la banda scricchiolare e capì che Teodoro s’era svegliato. Infatti rientrando lo sorprese nell’atto di
alzarsi, per cui gli propose qualche ora di mare.
– A parte il mare, vorrei visitare il borgo di Stilo ed il
monastero di San Giovanni Theresti che è situato nelle campagne di Bivongi.
– Va bene partiamo senza perdere tempo, lavati velocemente, ti propongo un itinerario bizantino mozzafiato. –
– Faccio in un baleno. –
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Infatti dopo dieci minuti circa partirono con la vecchia
Panda di Isidoro e per strade interne arrivarono in poco più di
mezz’ora a Stilo.
– Sono le 8,20 e dato che dovremmo attorno alle tredici
essere al mare, visiteremo solo i monumenti bizantini. –
Consumarono un cappuccino, seduti ad un tavolino di
fronte alla statua di Tommaso Campanella e velocemente, saliti
in macchina si avviarono al prezioso tempietto della Cattolica.
– Dalle fotografie me la immaginavo più grande –
commentò Teodoro quando si trovò di fronte al luogo di culto
più famoso di Stilo. –
Osservarono gli affreschi all’interno, che rappresentano
vari passaggi di civiltà sul territorio e poi le colonne, forse derivanti da templi ellenici situati sulla costa dell’antica Kaulon.
Usciti all’esterno, ammirarono la magia delle cinque cupolette
e poi quella del paesaggio vario che si presentava magnifico
verso il mare. Alle spalle il monte Consolino impediva la vista
verso le montagne.
Dietro quella collina laggiù, indicò Isidoro, in contrada
Vincitore avvenne una delle battaglie campali più importanti
prima del 1000 e naturalmente i libri di storia italiani non ne
parlano, mentre si dilungano in lunghe chiacchiere per risse
scoppiate nel Centro-Nord Italia. Era il 15 luglio del 982 ed Ottone II, imperatore di Germania, avendo sposato Teofano, principessa bizantina, pretendeva come dono di nozze, altresì pro-
165
messo, la provincia
rappresentata dall’Italia meridionale e
venne con un grosso esercito a prenderne possesso.
Fino a Stilo aveva sconfitto tutti gli eserciti imperiali di
Costantinopoli, ma frattanto Abu-Al-Qassim, emiro di Sicilia,
che era stata conquistata dagli arabi da più di un secolo, aveva
invaso con migliaia di fanti e cavalieri la Calabria, con
l’intento di sottometterla e giunse fino a Stilo dove si scontrò
con i tedeschi. Costoro al primo scontro batterono gli arabi e
issarono la testa tagliata di Abu-Al-Qassim, caduto in battaglia,
su una lancia. L’emiro, però, prima di iniziare lo scontro aveva
nascosto una riserva strategica di cavalieri su quell’ altura,
all’epoca intieramente coperta di boschi.
Finita la battaglia Ottone concesse ai suoi di spogliarsi
delle armature e di riposarsi al riparo del sole e in questo mentre i cavalieri arabi, gonfi d’odio vennero giù dall’alto come furie e fecero a pezzi i soldati tedeschi, molte decine di aristocratici ed addirittura dei vescovi, tra cui quelli di Vercelli e di
Augsburg, che avevano accompagnato l’imperatore in Italia
meridionale.
Ottone sfuggito alla carneficina, assieme a suo cugino,
il duca di Baviera, disperatamente cominciò a galoppare verso
il mare inseguito da cavalieri arabi. Ebbe fortuna perché, arrivato sulla spiaggia, spinse il suo cavallo verso una salandra bizantina all’ancora, che lo condusse in salvo a Rossano. – Ma è una leggenda? –
– È storia. –
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– Mai ho sentito parlare di tutto ciò –
– Bisognerebbe riscrivere la storia. –
– Sul monte Consolino cosa c’è? –
– Ci sono i resti di un castello normanno-svevo; infatti
su una precedente fortezza bizantina, i normanni edificarono un
altro castello e poi Federico II, una super fortezza, forse mai
espugnata. Gli arabi dopo la vittoria su Ottone II devastarono
Stilo, ma forse non presero il castello, che fu assediato e su tale
episodio si narra una bella leggenda, che io conosco. –
– Raccontala. –
– Va bene. –
– Era arrivato luglio e faceva molto caldo, ma nonostante ciò, la gente andava in campagna per terminare la mietitura e per preparare la trebbiatura del grano.
Ogni famiglia, sul greto dello Stilaro aveva preparato
l’orto estivo ed il lavoro degli artigiani ferveva nel paese; i vigneti poi erano stati curati con diligenza e l’uva era ormai già
ben preparata.
All’alba di uno di quei giorni due soldati di sentinella
al castello, videro nel mare prospiciente, non lontane dalla riva, moltissime navi e allora cominciarono ad urlare per dare
l’allarme e dopo un po’, tutte le campane nelle chiese del paese, cominciarono a squillare. Di conseguenza, dopo un intervallo di tempo breve, tutti, donne e uomini, adulti e bambini,
svegliati, balzarono dal letto e dopo essersi vestiti velocemente,
alcuni addirittura non completamente coperti, sciamarono per
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le strade, per appurare cosa fosse capitato, poiché sapevano
che il suono delle campane, significava pericolo.
Scese a quel punto velocemente dal castello, il comandante dei soldati del presidio, che intimò che tutti, adulti e piccini, dovessero mettersi al sicuro, poiché stavano arrivando i
saraceni; aggiunse che ognuno doveva portarsi tutto ciò che
poteva essere utile, specialmente viveri ed addirittura gli animali che fossero a portata di mano.
Nella pianura vicino al mare, si distingueva una moltitudine di uomini in marcia, simile ad una teoria di formiche.
Ogni famiglia dalla propria casa prese tutto ciò che poteva essere trasportato con facilità, anche con l’ausilio di bestie da
soma e tutti quanti s’inerpicarono faticosamente sul monte
Consolino, lasciando il paese, mentre contemporaneamente la
moltitudine in marcia, più visibile, si avvicinava e la paura
cresceva.
Arrivando sul monte, ognuno depositava nei sotterranei
del castello, gli elementi deperibili al caldo, specie i salumi ed
i formaggi. Gli alimenti secchi, legumi e grano furono accatastati in sacchi nel cortile del castello. Le capre, le pecore, i
porci furono liberati sul monte, dopo che chiusero con rocce, i
varchi da cui si sarebbero potuti allontanare; infatti buona
parte dell’area circostante il castello impediva loro di scappare, per via dei precipizi che si articolavano attorno e gli animali cominciarono a vagare, cibandosi della folta vegetazione,
costituita in prevalenza da lecci ed erba secca.
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Guardando verso la pianura, diventava sempre più visibile la gente in arrivo e si distinguevano uomini a cavallo,
che staccandosi dalla formazione in marcia, appiccavano il
fuoco ovunque e dense colonne di fumo si alzavano verso il
cielo, mentre la paura cresceva.
Intanto sul monte Consolino, la gente si sistemò come
meglio poté e tutte le donne e i bambini alloggiarono nel castello, mentre gli uomini lo fecero all’esterno. Dopodiché tutti,
adulti e fanciulli, cominciarono ad accatastare pietre vicino ai
dirupi e a rafforzare le mura. In una bassura verso le montagne nasceva una debole sorgente, che sistemarono con un pezzo di canna, che regalasse il flusso e cominciarono ad attingere acqua, conservandola in recipienti. Vicino trascinarono un
truogolo di pietra, perché potessero essere abbeverati gli animali. Del resto, neppure il castello era privo d’acqua, in quanto era dotato da quattro o cinque cisterne.
Verso mezzogiorno arrivarono i saraceni, che cominciarono ad incendiare le case e la gente tremava per la paura.
Essi inviarono dei messaggeri sul castello intimando la resa,
ma la risposta degli stilesi fu quella di rotolare dei massi sugli
invasori, che arretrarono, restando a distanza di sicurezza dai
lanci, ma controllando che gli assediati non uscissero per
chiedere rinforzi o per trovare approvvigionamenti alimentari.
Dopo dieci, quindici giorni, sul monte erano stati divorati tutti
i capretti, gli agnelli e qualche porcellino, che potevano sfinire
allattando, le loro madri, non adeguatamente alimentate. I le-
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gumi venivano bolliti, mentre il grano, macinato con i piccoli
mulini a mano, serviva per panificare.
Il bosco di lecci, che ricopriva il Consolino, ormai era
ridotto a poca cosa, a causa dell’uso di legna da parte degli
assediati e per via delle bestie, che lo brucavano.
Nei giorni successivi mangiarono quasi tutti gli animali ed ormai le altre scorte alimentari erano alla fine, mentre i saraceni
si cibavano di tutto quello che avevano trovato nelle case o in
campagna.
Gli stilesi con quello che restava, alimentavano prima
le giovani donne, madri di bambini, che dovevano essere allattati e naturalmente i bambini più grandi.
Il tempo passava ed i saraceni erano sempre presenti, il cibo
scarseggiava sempre più e non era stato macellato, degli animali solo un maiale non magro, poiché si nutriva di radici e
tuberi, che trovava scavando. Era rimasto meno di un quintale
di grano, con cui nutrirono a sazietà il maiale. Poi lo catturarono ed esso cominciò ad emettere i suoi versi disperati, uditi
distintamente dai nemici; si avvicinarono poi al dirupo e lo
scaraventarono giù, in direzione dei posti dove stazionavano i
saraceni, che lo presero ed aprirono il suo corpo, notando lo
stomaco pieno di grano. Si meravigliarono ed esclamarono:
“Se questi danno il grano come nutrimento ai porci, significa che possono resistere all’assedio ancora per mesi!”.
Il cibo ormai era scarsissimo e per due, tre giorni, gli
assediati nutrirono solo le donne che allattavano i loro bambi-
170
ni, con vivande liquide, di modo che fosse in loro stimolata la
secrezione lattea. Passato tale breve periodo, ogni donna premette il latte dai propri seni e lo versò in un paiolo e quando
esso fu sufficiente, prepararono la ricotta che misero in cinque,
sei contenitori di giunco.
A questo punto, una donna bellissima, una di quelle che
aveva dato il latte, accompagnata da un giovane e da due vecchi, tutti quanti ben vestiti e ripuliti, portarono in dono, su un
vassoio d’argento, abbellito da una tovaglia di lino ricamata,
al comandante dei saraceni, la ricotta contenuta. Egli vedendola esclamò:
“Ma quante scorte alimentari hanno costoro, se si permettono il lusso di nutrire con il grano i porci e le capre?”.
Ordinò un’assemblea, dove all’unanimità decisero di
togliere l’assedio e di andarsene. Così Stilo fu salva.– È interessante. –
– Identica si racconta a Gerace. –
– Ora dove si va? –
– A monte Stella nel comune di Pazzano. –
Montarono in macchina e dopo qualche chilometro attraversarono il paese successivo.
– Che strano nome! Significa paese dei pazzi? –
– Assolutamente no. Esso rappresentava il passaggio
obbligato da e per la montagna e fu fondato forse da fucinatori
francesi, che fabbricavano armi, durante la dominazione angioina o successivamente; dunque significa via di transito per
171
le Serre e per il Tirreno. C’erano miniere di ferro che furono
sfruttate fino al 1860 e servivano le manifatture d’armi di
Mongiana e di Stilo come già hai sentito raccontare a Santa
Elisabetta. –
Dopo una serie di tornanti svoltarono a sinistra per
monte Stella ed in sommità di esso ammirarono il panorama
verso il mare e verso la montagna. Scesero velocemente di
quota per poco più di 2 km e si ritrovarono su un piccolo piazzale a ridosso di una chiesa.
– E tutto questo è quello che mi decantavi? Sarebbe la
chiesa di monte Stella questa? Che delusione!
– Aspetta un po’ a giudicare … seguimi! Seguirono una scalinata che ad un certo punto girò a sinistra e si ritrovarono di fronte ad uno spettacolo mozzafiato.
Teodoro restò di sasso ed ammirò a bocca aperta una grande
grotta che si apriva verso oriente e rientrava notevolmente man
mano che scendevano gli scalini.
– Scusami Isidoro, avevo dubitato del tuo giudizio estetico. Se questo è il santuario di monte Stella è veramente notevole per la bellezza inusuale. –
Scesero ancora e quando si trovarono di fronte ad un altare, ricavato in una nicchia della grotta, illuminato da candele
elettriche, si voltarono indietro e guardando verso l’alto ammirarono un pezzo di cielo sopra l’entrata da cui erano scesi.
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– Questo fu uno dei tantissimi romitori che impreziosirono la Calabria a cominciare dal VI secolo d. c. Essi si fregiavano della regola di S. Basilio di Neocesarea sul Ponto, che
invitava i monaci di tale ordine, non solo a pregare, ma specialmente a studiare i classici latini e greci, a ricopiarli , a diffonderne i contenuti ritenuti validi. I basiliani non si fermarono
a questo, ma divennero dei formidabili divulgatori agricoli, che
dissodarono terreni, piantarono vigne, uliveti, castagneti, querceti, costituiti anche da querce che davano le ghiande dolci, a
momenti come le castagne, usate per allevamenti suini, ma anche per cibarsi nelle annate di carestie. Essi si irradiarono dalle
coste, su cui sbarcavano provenienti dall’Oriente e raggiunsero
le montagne più alte, per vivere in pace ed in preghiera. Si pensa che alla regola di S. Basilio si ispirarono sia Cassiodoro di
Squillace che S. Benedetto da Norcia. Essi vivevano in solitudine nei romitori, in piccoli gruppi nei monasteri più o meno
grandi, in aggregazione talvolta enormi, le laure, che in alcuni
casi accoglievano diverse centinaia di monaci, costituite da celle individuali, ma che avevano in comune una chiesa. Il monachesimo basiliano in Calabria raggiunse l’acme nel corso
dell’VIII secolo, in seguito ai provvedimenti di Leone Isaurico
l’iconoclasta, che nel 726 proibì con un editto il culto delle
immagini, che furono bruciate, assieme ai monasteri, i cui monaci si rifiutavano di distruggere le icone; molti religiosi furono
trucidati. Allora ci fu un esodo verso la Calabria e si pensa che
nell’VIII secolo i luoghi di culto ortodossi raggiunsero, in que-
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sta terra, il numero di 400; equivalenti dunque a 400 luoghi irradianti cultura superiore. Anche in precedenza, nel VII secolo,
schiere di profughi raggiunsero la Calabria dal Medio Oriente e
dall’Egitto, durante l’avanzata islamica. Smetto di parlare di
quel periodo magico, perché capisco che tu sei scettico su quello che ti sto raccontando. –
– In effetti stento a credere a quello che tu dici, in quanto non ne accennano i libri di storia. –
– Ma la storia in Italia è stata sempre influenzata dalla
chiesa cattolica, che ha sempre tentato di cancellare completamente la raffinata civiltà bizantina dalla memoria. –
– Prima di andarcene da un’uscita diversa, guarda là
due affreschi danneggiati da poveri deficienti, che feriscono la
loro storia. Mentre qui dietro c’è un buio camminamento, dove
i monaci andavano per espiare i loro presunti peccati, soffrendo. –
Continuarono a percorrere degli scalini a destra e si ritrovarono in un ampio slargo della grotta, che comunicava con
la campagna vicina.
Risalirono verso la macchina ed in pochi minuti furono
sulla statale verso Pazzano , da cui proseguirono per Bivongi, il
borgo civilissimo ed evoluto, dove da tempo si scommette sulla
storia e sulla cultura. Teodoro con curiosità guardava le strade
pulite del paese e le vetrine linde dei piccoli negozi.
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Volle fermarsi in una gelateria e gustare un buon cono
alla frutta. In tutta fretta uscirono dal paese e si diressero, attraverso una ripida salita, verso S. Giovanni Theresti.
Prima di arrivare al monastero ortodosso, sulla destra
ammirarono i ruderi del monastero latino degli Apostoli, costruito in funzione antibasiliana dai Normanni, che furono
strumenti efficaci della latinizzazione della chiesa in Calabria,
dopo il mille. Arrivati di fronte al monastero suonarono la
campanella e comparve un alto e barbuto monaco, che velocemente fece loro visitare anche l’interno della chiesa restaurata
anche da artisti provenienti da Athos.
Teodoro all’esterno ammirò la costruzione, affascinante
nella contaminazione dello stile arabo-normanno, evidenziato
dagli archi che s’incrociano, con quello bizantino, messo in luce dall’uso magistrale e differenziato dei mattoni.
– È molto bello il posto ed ispira pace e tranquillità. Ma
da quanto tempo è stato restituito al culto ortodosso? –
– Ormai sono trascorsi 13-14 anni da quando è stato riconsacrato al culto greco. –
– Ma come mai sono ritornati qui i monaci orientali?
Raccontami. –
– Dunque agli inizi degli anni 90 del secolo scorso, un
egumeno morente a Monte Athos, chiamò al suo capezzale un
monaco e lo pregò di venire in Calabria: “va, Cosma, nella nostra Terrasanta, che ha bisogno di noi. Essa è oppressa dal buio
del male, va Cosma a contribuire a riportarla alla luce della ve-
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rità, del bene e della giustizia. Ti prego Cosma, va!” E
l’egumeno spirò. Padre Cosma restò impressionato da queste
parole e cominciò ad analizzare la storia della Calabria, dal periodo magnogreco ai tempi nostri. Studiò inoltre i santi italogreci, ossia, originari della Calabria e quelli che nacquero ed
operarono in Sicilia. Costoro non solo si distinsero per le loro
opere nelle loro terre d’origine, ma evidenziarono il loro valore
e la loro serietà in tante città ed in tanti monasteri dell’impero
bizantino. Analizzò quanto successe dopo, quando i normanni
finirono l’occupazione della Calabria nell’anno 1059 e cominciarono, in qualità di vassalli del papa l’opera di demolizione
della chiesa greco-ortodossa. Sulle montagne delle attuali Serre Vibonesi, a non molti chilometri da questo posto, il conte
Ruggero D’Altavilla nel 1090 assegnò a S. Bruno di Colonia
un territorio in località Torre. Egli dal 1057 diresse la scuola di
Reims per quasi vent’anni, poi abbandonata per dissidi interni
e nel 1084 ebbe dal vescovo Ugo di Grenoble, nelle Alpi del
Delfinato, nel Massiccio della Cartusia (da cui certosa) la concessione di un territorio, in Val d’Isère, dove assieme a sei
compagni fondò un monastero, che diventò in seguito la prima
certosa, la Grande Chartreuse, da cui dipendono tutte le altre
sparse nel mondo, basate sulle regole codificate nel 1128. Nel
1090 fu chiamato a Roma dal papa Urbano II, suo discepolo
nella scuola di Reims, da cui ebbe l’impulso per ricercare in
Italia un luogo di preghiera e di meditazione, che trovò in Calabria, dove in località Torre, donatagli dal conte Ruggero
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d’Altavilla nello stesso anno, fondò l’eremo di S. Maria del
Bosco, nell’attuale comune di Serra S. Bruno, assieme ad altri
due monaci; qualche chilometro più a sud nel 1091, per i frati
conversi, ossia coloro che ancora non potevano seguire le regole monacali più impegnative, fece edificare il monastero di
Santo Stefano del Bosco, che in seguito diventò certosa, pertanto la più antica dopo quella di Grenoble, ora dedicata allo
stesso San Bruno e a Santo Stefano. Alcuni anni dopo Landuino, il monaco che egli aveva preposto alla guida della Grande
Chartreuse, ebbe il desiderio di rivederlo ed allora affrontò il
viaggio faticosissimo verso l’eremo di Santa Maria del Bosco;
pertanto proprio in Calabria, dopo la Francia, si ritrovano le radici più importanti del movimento certosino. Bruno di Colonia
morì nell’eremo di S.Maria del Bosco il 6 ottobre del 1101,
dove fu sepolto, quattro mesi dopo la morte del conte Ruggero,
assistito da lui nel trapasso, avvenuto il 22 giugno a Mileto. Ritornando al discorso di prima, a distanza di più di mille anni, i
santi italo-greci, sono venerati in Grecia, in Russia, in Romania, in Bulgaria, in Serbia, in Ucraina, naturalmente ad Athos,
che contribuirono a fondare, ed essi sono talmente amati, che la
loro terra d’origine, in questo caso la Calabria, è considerata
Terrasanta. –
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Declino del monachesimo basiliano ed abolizione del
rito greco-ortodosso nella Calabria greca.
– Tu racconti delle stranezze a cui io stento a credere. A
chi è intitolato questo monastero? –
– A S. Giovanni Theresti, ossia il mietitore, chiamato
così perché egli aiutò dei mietitori a falciare una distesa enorme di grano, in poco tempo ed in modo miracoloso. Egli era figlio di una cristiana catturata dai saraceni in questi posti e portata prigioniera a Palermo dove partorì Giovanni. Secondo una
tradizione fu violentata dal padrone a cui era stata venduta, secondo altri quando fu rapita era già incinta. Quando Giovanni
crebbe, la madre mandò il figlio fra la sua gente e giunse qui,
dove fondò questo monastero. Ritornando al discorso di prima,
Cosma studiò la discriminazione strisciante al tempo dei normanno-svevi, tranne che per il periodo coincidente con il regno
del grande Federico II, quando una politica favorevole ai basiliani fu dettata dalla lotta che egli dovette sostenere contro il
papato. Infatti terribile era stata la contesa anche in questo territorio tra il papa Gregorio IX e l’imperatore, che impedì ad un
vescovo di nomina papale di occupare la sede vescovile di Gerace, dove Federico impose un intruso, il monaco basiliano
Barsanufio, dal 1233 fino alla sua morte. La contesa aveva raggiunto momenti altamente tragici e quando nel 1239 Gregorio
IX scomunicò l’imperatore, Federico decretò che tutti coloro
che fossero stati sorpresi con lettere del papa, sarebbero stati
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impiccati e marchiati in fronte con un ferro rovente ,in segno
d’infamia, i simpatizzanti. Anche Innocenzo IV nel 1245 scomunicò Federico II, che attivò ritorsioni nei confronti del clero
latino e folle fu quella portata avanti a Gerace, dove il vescovo
di nomina papale fu immerso in acqua bollente. Tale politica
antipapale sarebbe stata foriera di disgrazie per la casata sveva,
in quanto il papato, dopo la morte di Federico fecero venire in
Italia Carlo D’Angiò che riprese l’azione antibasiliana, che divenne più sistematica al tempo della dominazione aragonese.
Tutto ciò provocò la decadenza dei monasteri dovuti anche alla
lontananza dalla madrepatria greca e dal patriarcato di Costantinopoli. Fra l’altro era vietato ai monaci, avere rapporti con
l’Oriente, pena la morte, minacciata ed eseguita per volontà
della chiesa cattolica. Dopo la caduta di Costantinopoli nel
1453 venne meno anche la speranza, per cui i monasteri ortodossi non ebbero più futuro. Proprio per questo motivo alla fine
del 400 fu abolito il rito greco. Resisteva solo a Bova dove
venne eliminato alla fine del 1572, con l’introduzione della liturgia latina per opera del vescovo Giulio Stauriano, cipriota
d’origine armena, che dopo la caduta di Cipro in mano ai turchi, nel 1571, si era trasferito in Calabria. Tutto questo aveva in
mente padre Cosma quando arrivò, per cui subito si diede da
fare per creare un movimento, aiutato anche dal vescovo di Locri-Gerace, Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, con cui in
più occasioni pregò assieme. Il comune di Bivongi gli diede in
uso i ruderi del monastero ed il terreno circostante, per 99 anni;
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riparò un vecchio caseggiato rurale, lo rifornì di energia elettrica, creò una condotta che capta l’acqua, per uso irriguo e potabile, da una sorgente montana. Qualche anno dopo, da Monte
Athos e da altri monasteri greci arrivarono monaci capaci di effettuare lavori di restauro, coadiuvati fondamentalmente da
esperti e restauratori della Sovrintendenza per i beni monumentali della Calabria e da maestranze locali e aiutati finanziariamente anche dal comune di Bivongi, che attivò fondi europei,
ripristinarono la chiesa, riconsacrandola al rito ortodosso e costruirono gli alloggiamenti per i monaci e gli ospiti. Ogni anno
dalla Grecia e da altre aree geografiche dove vige il rito greco,
arrivano decine di torpedoni carichi di pellegrini. Intanto il
monastero è stato dotato di una biblioteca già ricca di oltre
5000 libri, mentre personalità illustri della cultura, spesso sono
ospitati dentro le strutture d’accoglienza che sono state qui costruite. –
– Incredibile quello che sto vedendo ed ascoltando. –
Esercitazione di tiro con fucile di precisione
Attorno alle dodici salutarono il barbuto e gentile monaco, proveniente da un monastero della Romania, che aveva
fatto loro da cicerone e poi partirono verso la marina di Monasterace, dove di fronte al tempio ellenico, che forse era stato
dedicato ad Apollo, s’immersero nel mare.
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Prima di sdraiarsi al sole, ancora cocente, vollero visitare i ruderi notevoli dell’area sacra.
– Da quanto ho potuto constatare, prese a dire Teodoro,
ammirando i palazzi dei borghi medievali, i monumenti, le
opere d’arte presenti ovunque nel territorio che stiamo visitando, sono portato a concludere, che quello che stiamo vivendo
sia il periodo più funesto della storia della Calabria. È difficile
immaginare uno peggiore: il territorio bello, sottoposto a violenze di ogni genere, le potenzialità culturali notevoli, vengono
trascurate e talvolta distrutte, i fondi europei, come tu affermi,
supportano grossi progetti , che restano sulla carta, ma risultano eseguiti a puntino per cui lucrano i progettisti, i collaudatori,
i politici, i funzionari e naturalmente i soggetti proponenti. A
tutto ciò si aggiunge il male più grande, ossia la ‘ndranghita,
che insozza la regione ed il cerchio si chiude. –
– Effettivamente la situazione è grave in Calabria, ma
tutta l’Italia ormai è condannata alla rovina più totale per colpa
di una classe politica funesta. Infatti, quasi tutti gli individui
che aspirano a proporsi per il “bene comune”, nel caso riescano
a raggiungere l’obiettivo di essere eletti in un consesso importante, pensano che bisogna approfittare dell’occasione favorevole a loro capitata ed immediatamente progettano di lucrare al
massimo, organizzando azioni disoneste per arricchirsi a spese
della comunità. E questo capita a tutti i livelli, dagli enti locali
a quelli più alti; rubano gli assessori comunali e i ministri. Ormai fare politica è diventata un’attività finalizzata, nella con-
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vinzione di tutti, a rubare ed arricchirsi alle spalle della nazione. –
– Infatti l’ambizione di rubare è comune a tutti i politici, di destra, di centro, di sinistra, per cui è difficile trovare una
via d’uscita. –
– Sono convinto di questo e non ci sono alternative, in
quanto i cittadini italiani non sanno reagire, protestano verbalmente, urlano promettendo sfracelli, poi si mettono la coda tra
le gambe e soddisfatti se ne vanno a cuccia. –
– E la situazione è peggiorata da quando è sceso in
campo l’Uomo-Fogna, dal momento che egli ha corrotto, insozzato tutto, è andato alla ricerca dei peggiori, disposti a vendersi e a prostituirsi ai suoi interessi, che diventano sempre più
consistenti, in quanto lui compra tutto, non saziandosi mai. –
– E noi come gli altri ci lamentiamo e basta. –
– Almeno noi, abbiamo un progetto per eliminarlo dalla
scena, in collaborazione con quel signore dei servizi. –Tu hai solo il progetto, in quanto non sei andato neppure a prendere il fucile. –
– Ma secondo me, non basta uccidere lui, bisogna pensare a qualcosa di più grosso; bisogna dare una lezione alla
classe politica. –
– A cosa pensi? –
– Bisognerebbe fare un attentato dentro il Parlamento,
ma non so come. –
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– Il difficile è arrivarci, sarebbe bello piazzare una mitragliera e fare a pezzi il più alto numero possibile di quei porci. –– Bisognerebbe preparare un commando ed irrompere
con armi automatiche e fare … –
– È inutile, loro sanno cautelarsi, sono irraggiungibili. –
– E va bene pensiamo ad altro, parliamo d’altro, quegli
infami ci hanno pure tolto il gusto di vivere. –
– Tu almeno hai la possibilità di fare altro, hai dei campi, cerchi di curarli, t’inventi degli interessi, hai figlie giovani
che hanno bisogno di te, per cui ti senti utile ed indispensabile,
io invece mi sono sposato molto giovane, ho tre figli, sposati
con bambini a loro volta, mia moglie è morta ed io sono ormai
solo. La vita di partito non esiste più e spesso mi sento inutile.
Ti confesso che sta diventando di grande interesse per me pensare seriamente ad un attentato e sta diventando l’unico scopo
della mia vita. Infatti io sono in mezzo come te e rappresento
uno dei contatti. –
– E perché non me l’hai detto prima? –
– Ho avuto il compito di sondarti e studiarti, perché bisogna fare in fretta, bisogna ucciderlo prima della primavera o
al massimo non oltre il prossimo anno. Sta facendo dei danni
enormi. –
– Va bene. Domenica tredici andremo a prendere il fucile destinato a me. A te hanno dato uno? –
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– Al momento no, pensano di addestrare alcuni ed io
sono venuto anche per questo motivo; infatti in qualità di
esperto di armi, ti farò da “consigliere militare” e chissà che
non ci indicheranno di operare assieme, nel centro-sud, dove è
più facile trovare delle occasioni. –
Era passata più di un’ora da quando si erano bagnati,
per cui decisero di lasciare quel posto e presto si ritrovarono in
viaggio per Riace, che raggiunsero in un quarto d’ora. Si prepararono un panino con degli affettati e poi si salutarono.
L’estate era ormai alla fine,ma faceva ancora un caldo
canicolare, che andava sicuramente bene per Teodoro, ma non
per Isidoro che era indaffarato in tante faccende connesse alla
sua attività amatoriale riferita alla terra.
Comunque all’appuntamento programmato per la domenica i due s’incontrarono in una località della costa ai primi
chiarori dell’aurora e dopo un po’ si ritrovarono a percorrere
una vecchia provinciale verso l’entroterra, che portava a Samo.
Ad un certo punto, finita la provinciale, cominciarono a percorrere un’interpoderale e poi una sterrata che portava verso la
montagna. Il sole era ancora un globo rosso sul mare e Teodoro
guardava senza fiatare i paesaggi che variavano in continuazione; si passava dal giallo delle sterpaglie, dominanti nelle colline costiere, al verde dei rari vigneti, al bianco tendente al grigio delle colline di caolino o al verde cupo della macchia mediterranea, mentre verso oriente il mare pervinca, appariva irrora-
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to dai riflessi rossastri del sole, che vi si specchiava; il cielo era
caratterizzato ancora da un celeste indeciso.
Ambedue avidamente respiravano l’area fresca e sempre più ricca d’ossigeno mentre salivano verso la montagna,
seguendo le coordinate sul G.P.S., precedentemente trasferite
dal telefonino su un pezzo di carta. Giunti su un breve pianoro
la sterrata si biforcava, con l’asse viario principale che seguiva
la dorsale e puntava verso Montalto e con una variante che
scendeva leggermente a destra, dove bisognava dirigersi, seguendo le indicazioni dello strumento.
Per Isidoro quei luoghi erano familiari, in quanto talvolta ci andava a visitare un’area, secondo il suo punto di vista,
frequentata dall’uomo già nel neolitico. Infatti numerosi erano
gli anfratti rocciosi che offrivano dei comodi ricoveri, odiernamente frequentati dalle capre, mentre anticamente dagli uomini primitivi, come indicavano i canalini ricavati ai bordi
esterni delle rocce che servivano a deviare in modo preciso le
acque piovane ed evitare che scendessero indiscriminatamente
e bagnassero anche gli ambienti abilitati a dimore.
Spesso su grandi rocce dominanti in modo imponente
sull’area circostante, si potevano leggere delle buche di libagione, usate per raccogliere il sangue degli animali o forse dei
nemici sacrificati a divinità sconosciute, che bisognava libare
ossia bere perché gli spiriti vitali degli uccisi rafforzassero i
propri.
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Isidoro ricordava una “lezione magistrale” su queste
tematiche offerta sulla cima di una roccia del territorio che si
apprestavano a visitare, da Paolo Piernerli di Firenze. Fino a
poco prima della seconda guerra mondiale, in alcuni territori
dell’Aspromonte, quando veniva ucciso qualcuno, un congiunto, a sangue ancora caldo, era obbligato a bere un po’ del suo
sangue perché il suo spirito vitale passasse a lui.
Attraversando un querceto arrivarono in contrada Litri
ed in un pianoro parcheggiarono la macchina. Erano da poco
scesi, quando li avvistò Stefano, un amico d’Isidoro che da
quelle parti aveva un gregge di capre. Vedendoli li invitò ad
andare al suo ovile dove si stava apprestando a preparare la ricotta, un po’ fuori tempo, perché le capre stavano perdendo il
latte, in quanto erano in attesa dei loro piccoli. Assieme a lui si
accompagnavano tre signori del territorio ed una bella signora
del Nord Italia, a cui la ricotta era dedicata. Chiese Stefano il
motivo della visita ed Isidoro mentì affermando che erano venuti per visitare la grotta del brigante Martino, che era
l’attrazione più importante di Litri. Cogliendo l’occasione, il
pastore cominciò a raccontare la leggenda del celebre brigante,
che si diceva fosse vissuto anche lì.
– Un giorno Nino Martino, abile nei travestimenti,
nell'eludere i gendarmi e nell'affrontare i pericoli, vestito da
montanaro, scese al paese.
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Era il tempo della quaresima ed entrò nella chiesa per
ascoltare la predica di un monaco, che in quel periodo di penitenza, aveva convertito tanti peccatori.
Con la sua voce tonante il frate si mise a predicare, nel
silenzio dei presenti ed il discorso si riferiva alla morte.
“Viene come un ladro, gridava, ricordando le parole di
Gesù, e voi non potete sapere quando arriva!”.
All'improvviso per Nino Martino, scese dal cielo il pentimento, per i suoi peccati e pensò che per lui la morte potesse
arrivare da un momento all'altro senza preavviso.
Il suo cuore, fondamentalmente buono, si ribellò a quella vita di brutture, costellata di omicidi.
Gli venne in mente la sua vecchia madre, afflitta per la
sua condotta, che sempre l'invitava a ritornare ad una vita
onesta e cercandola con ansia dentro la chiesa, la vide, inginocchiata vicino ad una colonna, che pregava per lui, con il
volto rigato di lacrime.
Lasciò la chiesa sconvolto e s'incamminò verso la montagna.
Quando entrò nella grotta, dove erano in riunione i
suoi compagni di misfatti, essi si accorsero dal volto, che il suo
cuore era pieno di rimorsi.
Lo circondarono ansiosi e gli fecero tante domande ed
egli rispose in tali termini:
“Ho combattuto una grande lotta contro la mia coscienza, ma essa mi ha vinto ed ora butto ai vostri piedi le mie
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armi, i miei vestiti, i miei denari; lascio il comando della banda e mi ritiro in una zona sperduta per implorare, in solitudine
Dio, che perdoni i miei peccati!”.
Alla fine del discorso, abbracciò i compagni, uscì dalla
grotta e s'incamminò verso il bosco più fitto.
I briganti, si meravigliarono grandemente e cominciarono a parlare animatamente tra di loro, scandalizzati per
quello che aveva fatto il loro capo.
Senza di lui, ch'era il più coraggioso, si sentirono perduti e ormai nelle mani dei gendarmi, tra le invettive lo chiamarono vile e traditore e prese le armi, si misero all'inseguimento, seguendo le sue orme con l'intento di ucciderlo.
Lo raggiunsero in una zona della montagna, chiamata
l'Arma dei Conti, una strettoia fitta d'alberi, tra due rupi.
Nino Martino camminava incurvato, sfinito dai rimorsi,
quando i suoi compagni urlando gli si pararono davanti, come
lupi affamati e dopo averlo insultato, cominciarono ad infierire
sul suo corpo e smisero quando lo videro a terra, in un lago di
sangue.
Pensarono poi di seppellirlo e per ammonimento ai
passanti, fecero un cumulo di pietre sul suo corpo; chi passava
doveva aggiungere una pietra al mucchio.
Terminata la faticosa incombenza, si sparpagliarono
per la montagna.
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Il giorno successivo si sparse la voce, nel paese, della
morte di Nino Martino e lo seppe anche la vecchia madre del
brigante.
La povera infelice, spargendo le sue lacrime, partì per
trovare il posto dove avevano ucciso il figlio, che trovò a causa
della terra bagnata di sangue e per la catasta di pietre.
Piangendo, cominciò a disfare il cumulo e presto le sue
braccia deboli furono sfinite dalla fatica e coperte da ferite
sanguinanti, ma il suo amore di mamma fu più forte di tutto e
continuò tutto il giorno nella disperata fatica e solo quando
cominciarono a scendere le prime ombre della sera, si presentò ai suoi occhi, il figlio morto.
Il suo corpo grande, era bellissimo, nonostante fosse stato colpito da centinaia di colpi; neppure le pietre a cui era stato sottoposto l'avevano sfigurato.
La vecchia madre, con una forza sovrumana che gli derivò dall'amore, lo prese nelle sue braccia, come un bambino
dormiente, dopo che lo riempì di lacrime e di baci e se lo portò
a casa.
Nessuno la vide ed i nemici lo credettero ancora sotto
la catasta di pietre, mentre lei invece lo nascose in casa, con
tanto amore, così poteva averlo sempre vicino, quando gli volesse parlare.
Gli lavò prima le ferite con acqua e aceto e non avendo
il coraggio di coprirlo di terra, togliendo il coperchio, lo depose in una botte, sistemandolo dentro. Ogni tanto riapriva la
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botte, lo ammirava, lo baciava e si accorgeva ch'era sempre
bello e fresco come le rose e sembrava che dormisse.
Un giorno, dopo tanto tempo, tentò di smuovere il recipiente,
ma non riuscì nell’intento perchè esso era pesante come il
piombo.
Batté sopra con le nocche delle mani ed il rumore fu
quello di un recipiente pieno.
“Povera me, diceva la vecchia mamma, allora ero in
delirio, quando pensavo di aprire la botte e di vedere il corpo
del mio povero figlio!”
Dal momento che nella parte alta della botte c'era un
rubinetto, l'aprì e con grande meraviglia si accorse che scorreva un vino rosso come il sangue.
L'assaggiò ed era delizioso, il migliore di quelli che
avesse mai assaggiato. Riempì un fiaschetto, chiuse il rubinetto
e poi chiamò tutti i poveri del vicinato ed offrì loro da bere; restarono sbalorditi per la bontà del vino e dopo che finirono di
berlo, spillò un altro fiasco, poi un altro ancora, offrendo da
bere ai vicini ed ai passanti.
La botte rimaneva sempre piena, nonostante che da essa il vino sgorgasse come da una sorgente e la povera afflitta
non sapeva spiegarsi il motivo e si preoccupava perché non
poteva ammirare più il figlio.
Un giorno chiamò il bottaio e così gli parlò:
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“Da una anno spilliamo vino da questa botte ed essa è
sempre piena. Togliamo il coperchio e vediamo quanto vino c'è
ancora”.
Il bottaio, quando tolse il coperchio, vide qualcosa di
prodigioso; infatti nel fondo della botte era adagiato il corpo
di Nino Martino e da una ferita vicino al suo cuore, era spuntata una vite, che anche al buio vegetava e i suoi tralci erano
sempre carichi di uva matura.
Quando la vecchia madre spillava il vino, i grappoli si
trasformavano in vino e ne nascevano altri, che si alimentavano dal sangue, che sgorgava dal cuore di Nino Martino. –
Mentre raccontava, non aveva perso tempo a lavorare il
latte che era stato precedentemente cagliato. Frantumata la pasta fresca del formaggio abilmente cominciò a raccoglierla con
una fiscella adeguata e la stava lavorando su una piccola madia
ricavata da un tronco di faggio, fra l’attenzione attonita degli
astanti e specie della signora e di Teodoro. Data la stagione ancora calda, la preparazione del formaggio avveniva all’aperto a
ridosso di un frondoso castagno, sotto cui c’era un tavolo costituito da un’enorme lastra di pietra, poggiante su tre massi. Attorno erano poggiate sul terreno delle sezioni di grossi tronchi
di pino, più alti di una sedia. Frattanto il paiolo contenente la
scotta era stato poggiato su un tripode, mentre il fuoco scoppiettante non era invitante, data la calura ancora notevole. Ad
un certo punto fu aggiunto del latte fresco e Stefano in modo
ritmico cominciò a far scivolare dolcemente un certo bastone di
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legno sul fondo del recipiente, dando con lo stesso, ogni tanto
dei lievi colpi. Ad un certo punto miracolosamente cominciò ad
emergere la ricotta, tra i bollori che bisognava dominare con
l’aggiunta di acqua fresca. Attorno all’attrezzo di legno, nella
ricotta che era emersa quasi completamente, si era formata una
rotondità, tramite cui si vedeva il siero ceruleo, tendente un po’
al verde.
La fiaba terminò di essere raccontata, fra la commozione di tutti, nello stesso istante in cui Stefano tirò giù dal tripode
il paiolo con la ricotta già pronta.
Ci fu un applauso ed il “buon pastore” sorridente, munì
ognuno di un grande cucchiaio ricurvo di legno di erica e di un
grande barattolo di latta, che aveva contenuto dei pelati.
Ognuno si serviva dal paiolo fumante ed assieme alla
ricotta aggiungeva siero, blandamente lassativo, secondo Stefano.
La bella signora, seduta come una regina sulla sezione
di tronco di pino, era obbligata a guardare verso nord ed attraverso un rigoglioso bosco di lecci, intravide in lontananza un
paese ai piedi di una montagna.
– Che paese è quello? –
– San Luca. –
– San Luca! – E scese dal sedile.
– È vicino a questo posto. Ma qua siamo nel comune di
San Luca? Non è pericoloso? –
– No, in quello di Samo. – rispose Stefano sorridente.
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– I due territori sono vicini? – Li divide solo il fiume Butramo e siamo confinanti fino a Montalto, che si vede in alto, oltre la Valle Infernale. Un
po’ prima di essa, a Civerti, ci sono boschi millenari di lecci e
querce che non sono stati mai tagliati tranne che al tempo dei
romani. –
Mangiarono la ricotta con il siero, calda e tenera e non
la vollero amalgamata con il pane, messo in ammollo.
Ben presto essa terminò e si riprese la conversazione su
temi vari. Ad un certo punto Isidoro e Teodoro, ringraziando
salutarono e seguirono le coordinate sul G.P.S., che puntava
verso la grotta di Nino Martino.
Essa è situata ai bordi di un pianoro degradante verso il
Butramo ed è dentro un caotico coacervo di enormi massi.
S’inerpicarono verso di essa ed entrarono nella grotta in un
groviglio di pietre, che lasciava libera un’area centrale, protetta
dall’intemperie in alto, da un immane calotta litica. Isidoro mostrò a Teodoro, sulla parete prospiciente l’entrata una misteriosa iscrizione, in parte cancellata dal tempo, costituita anche da
segni che possono ricordare lo iod ed il digamma. Fecero delle
foto a luce radente e poi consultarono il G.P.S. che indicava
una posizione di una decina di metri spostata ad est, dove però
si ergeva una parete intatta.
– Allora sarà stato collocato nell’ipogeo della grotta,
che anni fa ho tentato di perlustrare, ma non l’ho fatto fino in
fondo, in quanto ogni tanto vi si rifugiavano dei lupi. –
193
Uscirono e aggirarono gli ammassi verso est e alla base
di essi entrarono in un’apertura, che man mano si restringeva
verso l’interno. Procedevano con cautela e con una certa trepidazione, aiutandosi con una torcia elettrica. Alla fine di uno
stretto cunicolo si trovarono di fronte ad una grande custodia di
qualche strumento musicale lungo circa un metro e trenta cm.,
nascosto per buona parte sotto un cumulo di erba secca.
Uscirono e guardando a destra e a manca, con cautela
raggiunsero l’auto e con ansia cominciarono a percorrere la
strada di ritorno, evitando però la provinciale e facendo le interpoderali, spesso delle sterrate, che li condussero ad un casolare di Isidoro, in una campagna isolata, a ridosso di una rada
boscaglia.
Proprio sotto una parete rocciosa resisteva un piccolo
casolare con il tetto ad unica falda in coppi, che ormai non
aveva più porta, asportata da qualcuno per puro atto vandalico.
Una porticina secondaria comunicava con un vano segreto costituito da un anfratto naturale, alla base della parete, che il padre di Isidoro aveva protetto con un muro a secco. Era sufficiente asportare sei grosse pietre rettangolari, in sommità, per
entrare nella cavità. Lo fecero ed entrarono trovandovi un vecchio piccone ed una roncola che erano appartenuti al genitore,
morto 21 anni prima. Si commosse Isidoro vedendo i due attrezzi, di cui accarezzò e baciò i manici.
Con prudenza eccessiva portarono dentro il bagaglio e
l’aprirono. L’anfratto era a forma di capanna, capace di conte-
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nere comodamente una decina di persone e la luce penetrava
dall’alto attraverso una grossa buca tondeggiante sulla parete
che comunicava con l’esterno ed illuminava abbastanza
l’ambiente. Apparve un’arma che sbalordì Teodoro, che con gli
occhi sgranati cominciò ad ammirarla e a lisciarla. Era completo di tutti gli accessori, già montati: il mirino telescopico, il caricatore a 5 colpi ed il silenziatore.
– È un gioiello! È un Heckler-Hoch, la fabbrica costruttrice è tedesca, che utilizza una tecnologia ultra sofisticata. È
un MSG 90, usato dai reparti speciali di tanti stati del mondo,
per missioni impossibili; naturalmente è usato anche dai nostri
GIS e NOCS. –
Isidoro guardava ma non capiva molto, ma gli piacque
tantissimo la forma del fucile. Dentro una piccola busta c’erano
5 proiettili, che Teodoro infilò nel caricatore, dopo aver invitato Isidoro a seguire l’operazione.
– A quanto pare hai dimestichezza con questa arma, la
conoscevi? –
– In effetti l’avevo solo studiata su una rivista specializzata, però mi sono allenato lungamente al tiro, con un’arma
della stessa azienda, prodotta circa trent’anni fa, la PS6-1A1,
che era più lunga, più pesante e senza dubbio meno maneggevole. –
– Il mirino telescopico di questa è regolabile in 6 posizioni, ed è più facile ad essere personalizzato per chi lo usa. –
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– Nella confezione però non ho visto il libretto
d’istruzione. –
– Stranamente mi è stato consegnato prima, forse nella
speranza che io studiassi il fucile, ma io non ho avuto voglia di
farlo, forse perché inconsciamente lo collego ad un’azione che
teoricamente condivido, ma che poi praticamente mi ripugna. –
– Ormai però siamo arrivati ad un punto di non ritorno e
poi guarda che bisogna salvare l’Italia con un’azione scioccante finalizzata a traumatizzare l’opinione pubblica, specie se sarà accompagnata dall’attentato in Parlamento, per cui non abbiamo né i mezzi tecnici, né quelli finanziari per affrontarlo;
per il primo obiettivo siamo attrezzati, in quanto abbiamo
l’arma per farlo. –
– Talvolta ho dei forti dubbi, in quanto gli altri politici
non sono di molto migliori di lui, anche se egli con la sua megalomania ha accelerato il degrado di tutta la classe politica, in
atto già da tanto tempo. Ormai essa è sorda e cieca e non vede
che sta ballando irresponsabilmente sull’orlo di un baratro dove
precipiterà prima o dopo. –
– È così purtroppo e noi dobbiamo aiutarla a farla risucchiare dall’abisso predisposto da tempo. –
– Infatti è noto che essa è autoreferenziale, bada unicamente ai propri interessi e mentre gli altri muoiono ormai di
fame, specie nelle grandi città; essa predispone vantaggi sempre più vergognosi per se stessa. –
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– Infatti, in prospettiva quelli che smetteranno di lavorare per anzianità di servizio o per raggiunti limiti d’età, percepiranno una pensione più magra, mentre essi ancora non hanno
rinunciato ai propri privilegi e con una legislatura interamente
fatta, mi riferisco ai parlamentari, usufruiranno di una pensione; pertanto per essi non bisogna avere rimorsi. E ora andiamo
a provare il fucile, anche se abbiamo solo cinque colpi. –
– Il signore dei servizi mi ha lasciato duecento che ho
nascosto in un altro pezzo di terra di mia proprietà. –
– Allora siamo a posto! –
– Prendi la casseruola che l’usiamo come bersaglio. –
– No, no, ci cucinava mio padre quando pernottava qui
a curare una vigna di cui non è rimasto nessun segno, tranne
quel palmento laggiù, scavato nella roccia. –
– Va bene, prendi allora un frammento di tegola e vai a
segnare sulla parete d’arenaria che abbiamo di fronte tre cerchi
concentrici con un puntino nella parte centrale e poi vieni qui
che cominciamo. –
– Sparo io per primo, ma osserva come faccio. –
Appoggiò alla spalla destra il calcio del fucile, mise
avanti il piede sinistro di mezzo passo rispetto al destro, fece
pressione con delicatezza sul grilletto, poi mirò, trattenne il respiro, aumentò la pressione sul grilletto e sparò. Si sentì solo
un sibilo lieve, quasi un fruscio, in quanto l’arma era dotata di
silenziatore. Isidoro andò a vedere ed il colpo era andato due
centimetri sopra il centro.
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– È andata non bene in quanto stiamo sparando a meno
di cinquanta metri e due centimetri di errore a questa distanza,
può significare un fuori bersaglio sui duecento. –
– Vieni tu ora. –
Gli fece imbracciare il fucile, gli raccomandò di far
coincidere il punto centrale della crocetta del mirino telescopico con il centro del bersaglio, poi lo lasciò fare ed il colpo con
il solito fruscio partì, ma andò addirittura di qualche centimetro
fuori del limite del bersaglio.
Riprovò ancora una volta Teodoro e questa volta centrò
il bersaglio.
Toccò ancora una volta ad Isidoro, che seguì con più
cura le raccomandazioni dell’altro, lasciò partire il colpo e questa volta colpì la parte interna dell’ultimo cerchio del bersaglio.
Utilizzò l’ultimo proiettile Teodoro che non mancò il centro.
– Per oggi abbiamo finito perché abbiamo terminato i
proiettili. –
– Se vuoi, pernotterai stanotte in una mia casina vicino
al mare e così domani ricominceremo. –
– Va bene accetto. –
– Stasera sei invitato a casa mia, per la cena. –
Prima di partire Isidoro scavò con il piccone una lunga
buca nel terreno e vi collocò il fucile con la custodia. La ricoprirono poi con molta cura, uscirono dall’anfratto e rimisero a
posto le sei pietre rettangolari e tutto tornò come prima.
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Al mattino molto presto ripresero ad allenarsi, ma prima
erano passati nell’altro nascondiglio e prelevarono 40 proiettili.
Si allontanarono dal bersaglio, dopo aver contato 120
passi.
Toccò prima a Teodoro, che mancò il centro per meno
di un centimetro, provò poi Isidoro che miracolosamente colpì
l’ultimo cerchio che conteneva il centro del bersaglio.
Nei tiri successivi Teodoro solo una volta mancò di poco il centro, mentre Isidoro solo una volta andò fuori dal cerchio più interno, mentre per ben due volte colpì il centro. Era
visibilmente soddisfatto e sentiva che ce l’avrebbe fatto a colpire un uomo ad un centinaio di metri di distanza.
Nascosero il fucile, rimisero al loro posto le pietre e si
allontanarono, dirigendosi verso la marina dove si salutarono,
ma prima di farlo Isidoro gli raccontò del basamento del tempio ellenico in contrada Palazzo e della grotta sottostante, contenente dei reperti archeologici.
Teodoro espresse il desiderio di visitare il posto ed Isidoro promise che l’avrebbe accompagnato, per cui fissarono la
data per il 20 di settembre.
A partire dal 16 settembre cominciò a piovere con inaudita violenza e l’estate improvvisamente finì. Ancora le fiumare, non ancora ricaricate e sature in profondità, apparivano
asciutte, mentre i terreni non assorbivano più acqua per la
quantità enorme che cadeva. Le colline ovunque erano ferite da
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numerosi smottamenti e le strade risultavano pericolosamente
percorribili per la melma che le ricopriva in parte.
La data del 20 saltò per il maltempo e solo attorno al 25
ci fu una stasi del maltempo.
Il 26 prestissimo Isidoro partì portandosi dietro
l’occorrente per scendere nella grotta, ma in aggiunta si portò
un sacco a pelo ed un plaid di lana per uno strano presentimento. Sulla linea infatti dell’orizzonte verso il mare aveva intravisto, tra i chiarori incerti dell’alba una linea ininterrotta di nuvole nere, che secondo le tradizioni popolari potevano presagire
tempesta.
Alcuni esponenti di spicco dell’andragatia esprimo
no delusione verso il capo del governo
Arrivati a Caulonia Marina, avrebbero potuto puntare
diritto verso Ursini e poi proseguire verso contrada Palazzo, ma
Isidoro temeva che il suo compagno di viaggio avrebbe potuto
rivelare il sito dove riposava protetto dalla segretezza da oltre
duemila anni, un Zeus fulminante. Pertanto continuò per Riace,
lambì Camini poi attraversò Stilo e Pazzano, procedendo sulla
statale per le Serre, poi improvvisamente, dopo 5 chilometri
circa proseguì per Petra a dopo aver attraversato il Precariti si
diresse verso contrada Palazzo. Teodoro si meravigliava per i
tanti andirivieni e guardava a destra e a manca e leggeva ad alta
200
voce i nomi delle località segnalati dai cartelli stradali. Finalmente arrivarono, ma la macchina per precauzione, non fu portata vicino al traliccio dell’alta tensione, ma fu lasciata ai bordi
di una sterrata, cosparsa di pietrisco, nei pressi della provinciale; infatti nel caso fosse sopravvenuta la pioggia come si prevedeva, l’automobile non sarebbe rimasta bloccata nella sterrata divenuta scivolosa.
Presero tutto l’occorrente, compreso il sacco a pelo ed il
plaid e cominciarono a camminare verso il posto prefissato.
Appena arrivarono Teodoro guardava in tutte le direzioni, ma
l’unico punto di riferimento poteva essere rappresentato dal
mare, che ad oriente s’intravedeva oscuro, coperto da nubi minacciose. Infatti verso nord delle colline boscose, oltre lo strapiombo, coprivano la visuale, mentre a sud e ad ovest faceva
altrettanto una macchia rada di lentischi.
Erano ormai le nove e velocemente legarono le cime
della scala di corda ai soliti arbusti e cominciarono a scendere
lentamente a turno e in silenzio, nel timore che dalla parte sottostante ci fosse qualche pastore. Entrò per primo Isidoro e si
trovò davanti gli scheletri dei due giovani e con sorpresa udì un
vocio proveniente, evidentemente da una caverna accanto, attraverso una fenditura della roccia. Ritornò verso Teodoro che
si apprestava ad entrare e gli fece segno di non fiatare ed egli
appena fu dentro, capì il motivo.
La fenditura cominciava a circa un metro e cinquanta da
terra e continuava fino alla sommità. La parete divisoria era
201
spessa più di un metro e la spaccatura era larga circa tre centimetri; la parte da cui venivano le voci, era protetta dal buio
quasi completo. Isidoro si avvicinò con un occhio alla fenditura
e si predispose a guardare e ad ascoltare; Teodoro con la sua
imponente mole, fece altrettanto con facilità perché lo superava
in altezza con tutta la testa.
A sei metri circa di distanza da loro, vicino ad una strettissima finestrella sullo strapiombo era stato ricavato un lungo
tavolo con degli assi ed accanto ad esso erano sistemate delle
sedie pieghevoli di plastica bianca. La grotta era più ampia di
quella dove si apprestavano ad origliare i due ed al centro di
essa, verso est si vedeva chiaramente il cunicolo, tramite cui
erano entrati e che sboccava a circa trecento metri di distanza;
era lo stesso osservato da Isidoro e che comunicava con un
pianoro ad una certa distanza dalla caverna.
Erano una quindicina di persone, per lo più anziani ed aspettavano delle altre, che sarebbero arrivate a breve dalla Locride
meridionale.
Dopo appena dieci minuti infatti arrivarono quattro persone, un giovane e tre anziani, che appena entrati si tolsero di
dosso la polvere, specie il giovane elegantemente vestito. Isidoro riconobbe subito in lui il ragazzo che aveva incontrato alla
stazione di Milano e che era dotato di un portatile.
Ci fu un coro festante ed il centro dell’interesse fu rappresentato fondamentalmente da lui, che cercava di salutare solamente con delle strette di mano, adducendo a scusa la violen-
202
ta influenza in atto in quei giorni, ma ad un certo punto il più
vecchio dei presenti, un tal D’Agostino, l’avvinghiò e lo baciò
ripetutamente dicendo: questo è per il buon’anima di tuo padre,
questi due sono per i buon’anima di tuo nonno materno e di suo
figlio, questo è per il buon’anima di tuo nonno paterno, questo
è per il buon’anima del tuo prozio, Giuseppe Belfiore e questo
è per te Francesco. E lo baciò all’angolo della bocca.
– E l’influenza è assicurata. – Disse il giovane e tutti
quanti risero in coro.
– Bello mio sta tranquillo, a quest’età, a novantadue anni suonati, non ho mai avuto un raffreddore. –
A questo punto Francesco, in modo rituale baciò tutti
gli altri, al pari degli altri tre, che lo fecero con sussiego ed impegno.
Chiaramente era una riunione di ndranghita che doveva
stabilire qualcosa di importante e che coinvolgeva le cosche
più legate tra loro da interessi e da parentela.
La parola fu data a D’Agostino, in qualità di membro più anziano dei presenti.
– Amici carissimi sono onorato nel guidare la presente
adunanza fatta di esponenti delle “famiglie “più oneste del nostro territorio che si distinsero sempre per il loro comportamento aderente ai principi più santi della nostra società. Io stesso
ho voluto scegliere i nominativi che indicano chiaramente la
virtù a cui ciascuno di noi aspira. Voglio ancora ricordare ciò
che significava andragatìa; essa indicava il fiore degli uomini
203
che rifiutavano il male, ossia il furto, la violenza, l’arroganza,
la prepotenza. L’uomo virtuoso doveva difendere i deboli, i
poveri, gli oppressi, gli orfani. Nel passato essa si era battuta
contro i pirati turchi che arrivavano, incendiavano, uccidevano
e rubavano i giovani; essa inoltre vigilava a che non ci fossero
traditori che indicassero ai turchi i paesi da colpire; essa era la
difesa delle giovani povere e belle che venivano sedotte con la
violenza dai ricchi prepotenti. Naturalmente i tempi cambiarono ed esseri spregevoli snaturarono questi principi.
L’andragatìa, specie dopo la seconda guerra mondiale mutò e
fu prevaricata da persone senza scrupoli, ladri, violenti, ipocriti, seminatori di discordie. I presenti in parte aderiscono ai
principi antichi, a cui bisogna ritornare se non si vuole perire.
Le “famiglie” qui rappresentate, non hanno mai praticato il furto, non hanno preso parte ai sequestri di persona, non hanno
trafficato in droga, non hanno avvelenato il nostro territorio
con i rifiuti tossici. Certamente, quando ne valeva la pena, hanno curato il contrabbando di sigarette, hanno accettato offerte
in denaro per aiutare i parenti in carcere e poi, senza prevaricare nessuno, hanno lavorato onestamente nel settore dell’edilizia
e di quello dei lavori pubblici. I soldi così onestamente guadagnati, spesso sono stati reinvestiti specie nei settori del commercio e del turismo. Naturalmente accanto al fiore
dell’andragatìa ci sono quelli che hanno deviato dalla retta via
attratti dai soldi, tanti soldi e ciò ha provocato fiumi di sangue
nelle nostre terre. Quelli che hanno preso vie diverse sono stra-
204
ricchi, ma spesso cadono nella tentazione di prevaricare gli altri, in virtù del loro denaro e periscono, combattuti dai propri
consimili e dallo Stato. Noi che rappresentiamo in parte le antiche virtù, dobbiamo stare uniti, aiutarci reciprocamente, investire con saggezza i nostri risparmi per aiutare la nostra povera
terra. Abbiamo di fronte dei pericoli nuovi costituiti dai desideri del partito del Nord d’impadronirsi dei nostri risparmi. Inoltre c’è la tentazione da parte dell’uomo che guida l’Italia, di
non mantenere le promesse fatte, ossia di limitare le carcerazioni e di non privarci dei nostri sudati capitali. Eppure c’era
stato promesso l’eliminazione del 41 bis, per cui tanti di noi
stanno soffrendo nelle carceri. Molti beni, contrariamente alle
promesse fatte ci sono stati tolti e pubblicamente si vantano che
ci faranno una guerra tanto dura, da portarci alla rovina totale.
Io vi ricordo che le parole dette contano, perché offendono e
non è tollerabile metterci in ridicolo agli occhi della gente, specie di quella che crede in noi. -–
Le parole prudenti e di pace di D’Agostino furono accolte con il totale assenso dei presenti, che furono invitati ad
ascoltare il secondo personaggio, che si preparò a parlare.
– Nonostante che la “famiglia” che guido con onore,
non ha mai preso parte ad azioni infami, quali furto, sequestro
di persone, traffico di droga, da alcuni anni è sottoposta a persecuzioni da parte dello Stato. L’uomo che ci governa ci aveva
promesso mari e monti ed invece quotidianamente ci fa degli
affronti gravissimi, in quanto aspira ad impossessarsi dei tesori
205
di noialtri “uomini”. Su indicazioni della D.I.A. molti dei miei
sono stati privati della libertà, dopo tante vite perdute per inimicizie accese da infami capaci solo di preparare “tragedie”.
Alla mia “famiglia” sono stati sequestrati beni per tre milioni di
euro e confiscati altri per due milioni. Nonostante ciò assieme
ad altre due “famiglie” vicine alla mia, abbiamo raccolto un
milione di euro e lo mettiamo a disposizione di tutta la “società” per il progetto di cui in seguito parlerà Francesco. –
Il terzo oratore parlò a nome di due “famiglie” legate da
vincoli di sangue e di matrimoni e lamentò il tradimento
dell’uomo che aveva garantito per tutti gli “uomini” della
‘ndranghita, la possibilità di lavorare in pace e in tranquillità in
Calabria e altrove. Decine di arresti li avevano profondamente
umiliati e nell’adunanza portavano un contributo di un milione
di euro.
Parlarono altri in nome delle proprie “famiglie” con discorsi dello stesso tenore e alla fine offrirono un contributo per
un progetto forse da portare avanti a breve o da dilazionare nel
caso non fossero state mantenute le promesse fatte.
Il discorso più importante lo fece Francesco Belfiore, che
quando cominciò volle sedersi accanto a D’Agostino e tenergli
una mano stretta nella sua destra.
– Fratelli, molti dei miei cari non ci sono più e mi sono
seduto accanto a Peppino D’Agostino perché egli mi ha baciato
sei volte, ma cinque di quei baci onorarono cinque miei congiunti, che ci hanno lasciato, di cui quattro furono ammazzati.
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Mio padre fu ucciso perché si opponeva a coloro che portarono
rifiuti tossici nella nostra sventurata terra, mio zio materno e
mio nonno, furono uccisi perché si opposero ad un sequestro di
persona, il mio adorato prozio, Giuseppe Belfiore fu ucciso
perché, cercava di portare la pace tra due “famiglie” in guerra,
mio nonno paterno morì nel suo letto, disperato, perché impedito dalla malattia, non aveva potuto consumare legittime vendette. Mio padre mi lasciò quando avevo meno di dieci anni e
fui mandato a studiare da mia madre in una prestigiosa scuola
all’estero. Mi laureai in economia alla Bocconi e poi frequentai
diversi masters all’estero, tra cui uno all’Imperial College di
Londra, dove fui allievo prediletto di Tommaso, docente di
origine torinese. Proprio in questa città conobbi la ragazza che
sposai, che insegna ora in un’università svedese. Vi racconto
queste cose non per vantare i miei successi nella vita, ma per
evidenziare le rinunce che feci, per i motivi di cui parlerò a
breve. Dopo severissime selezioni, fui assunto nel F.M.I., dove
lavorai per alcuni anni e dove conobbi i meccanismi che regolano i rapporti finanziari internazionali. Ero ritenuto efficientissimo, per cui avevo cominciato a fare carriera, con prospettive
di diventare top manager ed essere gratificato con uno stipendio da favola. Lavoravo a Londra e già guadagnavo più di
200.000 sterline all’anno, ma ritornando in Calabria, come tutti
gli anni, promisi a mio nonno paterno, prima che morisse, di
mettere a disposizione di alcune “famiglie” amiche e corrette,
le mie conoscenze tecniche nel campo degli investimenti. Ab-
207
bandonai così il mio prestigioso posto di lavoro, con grande
rammarico di mia moglie e particolarmente di mia madre. Cominciai a manovrare somme vostre notevolissime, che investii
in modo vario. Comprai per voi titoli di stato sicuri, quelli tedeschi fondamentalmente, azioni di importanti industrie europee solide ed attive, immobili in paesi europei sicuri quali la
Svezia, l’Olanda, la Germania, attività commerciali sempre nei
più prosperi stati della comunità europea, addirittura villaggi
turistici in Portogallo ed in Spagna. Ho sempre evitato investimenti fantasiosi e privi di fondamento quali furono i prodotti
derivati ossia pacchetti di debiti rifilati dalle banche agli sprovveduti. Non vi ho mai fatto perdere un solo centesimo. Quando
in giro si disse che alcune “famiglie” avrebbero guadagnato di
più con alcuni prodotti finanziari, consigliati da super esperti,
vi dissi che gli esiti li avremmo visti ai fatti. In breve poi,
quando scoppiò quella che chiamarono bolla speculativa, ingenti capitali furono persi, in seguito al fallimento della Lehman Brothers e di altre banche in America, Irlanda e Inghilterra. È sotto gli occhi di tutti la fine che hanno fatto le iniziative
turistiche connesse appunto ad investitori inglesi ed irlandesi.
Questo è il resoconto sul piano finanziario ossia dei soldi, parlando terra terra, su quello politico la situazione è tragica in Italia ed anche di conseguenza per le “famiglie” calabresi. A breve si voterà un provvedimento per favorire il rientro dei capitali, ma io già vi consiglio, di lasciarli all’estero; infatti
l’operazione di legittimazione di risorse finanziarie è possibile
208
portarla avanti, pagando il dovuto, che non è molto, lasciando i
soldi là dove sono. Del provvedimento, voialtri avrete dei benefici, ma è stato fatto, per i grandi evasori fiscali del Nord,
che hanno portato l’Italia sull’orlo del fallimento. L’attuale
classe dirigente è costituita da straccioni e da analfabeti, sul
piano della preparazione tecnica ed amministrativa. Infatti ho
constatato che alcuni ministri, dalla competenza di lavacessi, si
avvalgono, per far funzionare i loro ministeri, di schiere di
esperti esterni. Sul piano dei provvedimenti hanno puntato tutto
sullo sfruttamento dei lavoratori ed i ricchi non pagano più
neppure un centesimo di tasse, mentre miliardi di euro sono
stati destinati alle cordate di amici loro. In riferimento alle
promesse fatte prima delle elezioni, fu preparato un tavolo di
lavoro e di trattative, in un albergo della Costa Azzurra, predisposto dai nostri amici del Ponente ligure, per le “famiglie” calabresi. Vi partecipai in qualità di esperto finanziario, con delle
proposte operative, promettendo l’impegno di nostri capitali, a
favore di tutta la costa ionica del Reggino in particolare e della
Calabria tutta in generale. Gli emissari, ad altissimo livello del
“Grande Lavandaro”, guidati dal più importante uomo del partito di governo della Liguria, d’origini calabresi, vicinissimo al
cuore del “capo”, che si è arricchito facendo il candeggio delle
risorse degli amici siciliani, dei calabresi e dei napoletani ci fecero le seguenti promesse che ho appuntato in questo taccuino:
abolizione del 41 bis, cambiamento radicale della legge sui
pentiti, abolizione o almeno forte limitazione dell’uso delle in-
209
tercettazioni telefoniche, leggi che rendessero i processi dilatati fino alla prescrizione. Sul piano dei nostri interventi finanziari sul territorio ci assicurarono ampie possibilità di manovra, in
quanto noi avremmo avuto la funzione dei grandi istituti finanziari e saremmo stati il volano dello sviluppo della Calabria,
che avremmo trasformato in una piccola California, puntando
sul turismo, sull’agricoltura specializzata, sulle opere strutturali
della regione. Mi ricordo pure di un particolare, riferito da uno
degli emissari, ligure mi pare. Egli affermò a più riprese che
noi saremmo stati come i grandi fuorilegge del Texas, a cui
nell’800 furono conferiti tutti i poteri dal governo federale
americano, per rimettere ordine nello stato, attraverso
l’eliminazione violenta di chi si opponeva al progetto di riportare la legalità, ossia attraverso gli assassinii di banditi da parte
di altri banditi; e così avvenne, raccontava. Ritornando ai nostri
problemi, l’estate scorsa, che è finita a quanto pare, perché è in
atto un violento temporale, percorrendo la costa ionica ho constatato che i villaggi turistici, che stavano per essere costruiti
con le nostre risorse, sono stati miseramente abbandonati, perché i conti in banca dei nostri sono stati bloccati e perché sono
in atto indagini della magistratura. Intanto sono stati utilizzati,
al momento inutilmente, milioni di euro. Di chi è la responsabilità di tutto ciò e dove sono andate a finire le promesse fatte?
Non mi ricordo se abbiamo parlato di questo, ma in certi ambienti della Lombardia, vicini al partito del Nord, si vocifera a
mezza bocca, che il governo, a corto di risorse, voglia impa-
210
dronirsi dei capitali degli amici siciliani, napoletani e di noialtri
calabresi. In prospettiva diventeranno operativi dei decreti legge e saranno approntate delle rogatorie internazionali per confiscare i nostri capitali nelle banche europee o in quelle dei paradisi fiscali. Eppure ancora attualmente all’Expo 2015 stiamo
lavorando in prevalenza noialtri calabresi e non perché minacciamo le imprese del posto, protette e garantite dai loro politici,
ma perché esse stesse lucrano il triplo rispetto a noi, dandoci,
con la garanzia del partito del Nord, i subappalti. Vi faccio un
esempio,un gruppo di nostri fratelli della Jonica reggina,ha
avuto un contratto per un lavoro di 20 milioni di euro avuto naturalmente in subappalto da parte di una ditta lombarda, che
senza muovere un dito guadagnerà 60 milioni di euro, perché
ad 80 milioni ammonta l’appalto originario. Per cercare di guadagnare un tozzo di pane, i nostri stanno lavorando in cantiere
24 ore su 24, illuminandolo di notte con le fotoelettriche; anche
i ragazzini delle “famiglie “ danno il loro serio contributo. Ebbene, abbiamo avuto delle notizie attendibili che ci indicano
che il governo, dopo aver sfruttato le nostre potenzialità, senza
storcere il naso, si stia preparando alla confisca dei nostri mezzi di lavoro, dei nostri capitali e dei nostri beni immobili, in
Lombardia ed in Calabria. Ancora una volta il Nord, si comporta come da sempre ha fatto: vuole spogliare ulteriormente il
Sud e dopo aver trasferito altrove i fondi Fas che erano stati
destinati, dalla Cee, al Sud, sta puntando alla creazione di una
fantomatica Banca del Sud, che utilizzerà, ossia ruberà, i nostri
211
risparmi depositati negli uffici postali. Nel caso si dovesse arrivare a questo disastro la nostra risposta sarà immediata contro
lo Stato, che più di una volta è stato aiutato dai miei famigliari.
Ricordo il caso più eclatante, durante il sequestro Moro, quando uno della mia famiglia fu in via Fani, in funzione antibrigatista ed essa svelò, dopo una breve ricognizione in città e tramite degli informatori fidatissimi, che l’onorevole Moro si trovava prigioniero in via Montalcini 8. I dirigenti democristiani, di
più alto livello, avvertiti, fecero finta di non sentire, per i motivi che noi ormai sappiamo e Moro fu ucciso. Nel malaugurato
caso, ripeto, che si arrivi a quanto si vocifera in giro, la nostra
risposta sarà implacabile. Il parlamento salterà in aria, il
“Grande Lavandaro” e la sua famiglia saranno tutti trucidati.
Qui in contanti saranno conservati, 5 milioni di euro, io ho portato degli altri in aggiunta a quelli menzionati prima, in due valigette che poggeremo in quell’angolo buio di destra e non saranno gli unici. Sono stati predisposti altri due depositi in caverne dell’Aspromonte. Qui dentro in quelle cassette all’angolo
buio di sinistra ci sono 2 quintali di TNT con numerosi detonatori elettrici, esploditori, telecomandi. –
– E che è Francesco? – Gli domandò D’Agostino.
– Esplosivo. –
– … ed inneschi. Inoltre qui saranno conservati quattro
bazooka e due carabine ad altissima precisione ed un vecchio,
ormai, stinger. –
212
– Fratelli ho terminato, vi ringrazio per il vostro affetto
e l’attenzione. Mi dimenticavo; l’accesso là sul pianoro sarà
ostruito con un enorme cumulo di massi, che sarà cementificato. È pronta una ruspa e più tardi arriveranno le betoniere con il
cemento. Abbiamo misurato questa finestrella ed è larga 23
centimetri, la parete su cui è stata aperta è spessa due metri ed è
collocata a quasi cinque metri dall’orlo del precipizio. –
Freneticamente cominciarono a lavorare per custodire
quanto avevano portato e dopo meno di mezz’ora furono pronti
ad andare via. Da lì a poco sentirono i rumori di una potente
ruspa che evidentemente accatastava massi, all’imboccatura del
cunicolo. Più tardi si sentirono rumori di mezzi pesanti; forse
erano le betoniere che cementavano i massi. L’accesso ad uno
dei covi della ‘ndranghita era praticamente tappato.
I due nella grotta sottostante il tracciato del tempio,
quando furono sicuri di essere soli, commentarono sbalorditi
quanto avevano sentito, mentre restarono intrappolati dentro in
attesa che la furiosa tempesta d’acqua cessasse e desse loro la
possibilità di uscire ed andare via. Teodoro guardava l’acqua
che scendeva ininterrottamente ed i due scheletri sulla lastra,
che orientati con i teschi verso la finestra, sembrava che osservassero a loro volta la pioggia. In un angolo c’erano mucchi di
foglie secche, portate dal vento, attraverso l’apertura sulla parete, chissà quando.
213
Cominciò a raccogliere una parte e a sistemarle a mo’ di
materasso e poi si avvolse nel plaid e si adagiò sopra.
– Adoro dormire quando piove, perché la pioggia mi
concilia il sonno. Se non vuoi fare altrettanto svegliami quando
spioverà e così ce ne andremo. Io ho il sonno molto duro e sarei capace di svegliarmi domattina. –
Erano ormai le quindici e l’acqua non smetteva di cadere a scrosci; il vento sibilava tra le rocce ed incurvava i rami
degli alberi che Isidoro guardava giù nella vallata, mentre sentiva uno stridio dai due lecci divaricati, provocato forse da
stecchi secchi che facevano frizione tra di loro. Non avevano
portato da mangiare ed aveva un po’ fame, ma l’affliggeva
piuttosto la sete; infatti la bottiglietta da mezzo litro ormai
l’aveva terminata. Allora di essa tagliò la parte superiore e poi
sporgendosi all’esterno, l’incastrò tra due travi. Si annoiava a
morte e andò ad ammirare lo Zeus fulminante, che accarezzò
nel volto e poi le MGS, mentre Teodoro ronfava.
Non trovando niente da fare prese la piccola cazzuola
ed in un angolo vicino alla parete divisoria tra le due grotte,
cominciò a ripulire del terriccio il pavimento, nella speranza di
trovare qualche frammento di vaso. Ad un certo punto
l’attrezzo restò impedito da qualcosa ed allora con più impegno
e più attenzione si mise a ripulire la parte ed apparve un grosso
anello di bronzo, fissato tramite un grosso chiodo, pur’esso di
bronzo, al centro di un riquadro di circa 70 cm. di lato. Tolse il
terriccio attorno agli interstizi di ciò che sembrava una botola e
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poi si mise a tirare e dopo molti tentativi riuscì a smuoverla e a
tirarla su.
Apparve una buca ed allora prese la torcia elettrica che
aveva nel borsone e l’illuminò. Con cautela scese dentro ed il
corpo gli restò fuori dal petto in su. Si abbassò e constatò che
un cunicolo si dirigeva verso est, in modo non rettilineo. Con
non poca ansia, mista a paura, in quanto soffriva di claustrofobia, cominciò a percorrere il camminamento che si fermò di
fronte ad una lastra quadrangolare, un po’ più piccola della botola. Lateralmente ad essa c’erano quattro passanti di bronzo,
poggiati alle pareti e posti in canalini adeguati, che penetravano
la lastra, su cui, al centro, era conficcato un anello di bronzo,
simile a quello della botola.
Dopo svariati tentativi fu capace di tirare i passanti e
spingendo smosse la lastra verso l’esterno e si trovò al bordo
del camminamento, debolmente illuminato, che portava alla
seconda grotta, che ammirò voltandosi indietro, dove entrò, facendo tre scalini; infatti la caverna era rialzata rispetto alla lastra di circa 80 cm. Puntò la torcia agli angoli, dove vide tre valigette in quello di destra e cinque contenitori metallici in quello di sinistra.
Fece dei velocissimi calcoli mentali e ritornò indietro,
dove ritrovò Teodoro che dormiva beatamente. Guardò fuori e
si accorse che la pioggia era diminuita d’intensità e velocemente svuotò il borsone di tutto il contenuto che ripose sulla lastra
accanto agli scheletri. Con esso ritornò nella seconda caverna
215
ed illuminò le tre valigette, che erano chiuse semplicemente
con una cerniera. L’emozione era tale, che temeva che il cuore
non gli reggesse più. Aprì una e la vista gli si annebbiò trovandosi di fronte a tante mazzette costituite da banconote di 500
euro. Il respiro gli veniva meno per cui si avvicinò alla finestrella ed aspirò aria avidamente.
Ritornò poi alle valigette e contò le banconote di una
mazzetta: erano cento. Cominciò a prenderne e a collocarle ordinatamente nel borsone. Ne prelevò dalle tre valigette in tutto
trenta, per un valore di un milione e mezzo di euro. Risistemò
le mazzette nelle tre valigette, allargando quelle di sotto, per
evitare che si notassero quelle mancanti e poi ritornò nella prima caverna, dove sopra le banconote mise una vecchia rivista
di archeologia che aveva nel borsone, assieme alle altre cose e
sopra sistemò il binocolo, il coltello, un cacciavite, una tenaglia, mentre la piccola cazzuola e il cellulare non fu capace di
collocarli, assieme ad un rotolo di nastro adesivo ed altre cianfrusaglie.
Tranne il cellulare e la piccola cazzuola buttò tutto attraverso l’apertura nella parete. A questo punto svegliò Teodoro e gli raccontò che aveva trovato un passaggio segreto verso
l’altra grotta, evidentemente una via di fuga ideata quando erano stati scavati i due vani sotterranei.
Teodoro si alzò in piedi immediatamente ed invitò Isidoro a precederlo. Appena furono dentro la seconda grotta si
fece consegnare la torcia elettrica ed ispezionò prima i conteni-
216
tori metallici, dove constatò la presenza d’esplosivo e di ciò
che era necessario per confezionare degli ordigni, gli imballaggi che contenevano, le altre cose, fucili e poi le valigette. Alla
vista delle mazzette sbiancò in viso e per evitare uno svenimento andò a respirare aria più fresca alla finestrella.
– Dunque Isidoro, qui abbiamo l’occorrente per portare
avanti il progetto e punire in modo feroce la nostra immonda
classe politica, fermo restando che non cambieremo idea
sull’Uomo-Fogna, che deve essere tolto di mezzo. Il difficile è
trovare chi metterà una carica esplosiva in uno dei due rami del
parlamento, o a Palazzo Madama o a Montecitorio. Io nel frattempo prenderò il materiale, con cui preparerò tre ordigni
esplosivi, che tu conserverai. Vai a prendere il sacco a pelo,
dove metteremo l’esplosivo, i detonatori, gli inneschi, i timer,
gli esploditori, i telecomandi. –
Isidoro fece in un baleno e ritornò con il sacco a pelo.
– A proposito poi dei soldi, tu che ne pensi? –
– Io sono indifferente ai soldi – mentì Isidoro.
– Come mai? –
– Boh –
– Io vorrei prenderne un po’; mi potrebbero fare molto
comodo. –
– Fai bene. –
– Ma tu non ne vuoi una piccolissima parte? –
– No, no, ti dico! –
217
– Mi metti in crisi e mi sembra di passare per ladro, ma
ricordati che non è peccato rubare ai criminali. –
– Sono convinto. –
– Allora approfitta! –
– No, non m’interessano i soldi. –
–- Strano, uno dei piemontesi, che sono ritenuti tra i più
onesti d’Italia ruberà e uno dei calabresi, considerati tra i più
ladri, ometterà di farlo; arrossisco solo a pensarlo. –
– Guarda fai come vuoi. –
– Ne prendo un po’. –
E prese solo quattro mazzette, riordinando le rimanenti.
Scelse poi opportunamente il materiale per preparare tre cariche esplosive, mettendolo nel sacco a pelo e poi si prepararono
ad uscire.
Isidoro appena dentro il cunicolo riordinò la lastra
dall’interno, con l’uso dei passanti e rientrati nella prima grotta, risistemò la botola, coprendola di terriccio. Ormai aveva
smesso quasi di piovere, ma nubi cariche d’acqua non promettevano nulla di buono, per cui si affrettarono a partire, tanto più
stavano calando le ombre della sera. Uscì prima Teodoro che
salì con il sacco a pelo, poi Isidoro uscendo baciò i teschi dei
due ragazzi, buttò giù la piccola cazzuola che non aveva dove
riporre, si lavò le labbra con l’acqua piovana caduta nella bottiglietta, che schiacciò ed infilò in una tasca e poi si apprestò a
salire tramite la scala di corda. Restando sul primo piolo di essa, scaraventò giù le tre travi di castagno e poi finalmente salì.
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– Addio Zeus fulminante, addio ragazzi, di sicuro io
non verrò più a farvi visita; non sarà salutare. –
Appena fu sull’orlo in cima tentò di slegare la scala di
corda, ma l’acqua piovana l’aveva resa rigida, per cui fu costretto a tagliarne i capi legati agli arbusti. Fece una cinquantina di metri e tagliò a pezzi la scala stessa e così ridotta la buttò
nel precipizio, cancellando i segni del loro passaggio. Camminava Isidoro con il borsone a tracolla ma sistemato davanti; gli
scendeva fino allo stomaco e lo teneva abbracciato come si fosse trattato di una dolcissima amante.
Arrivarono appena in tempo alla macchina, perché un
acquazzone furioso arrivò, accompagnato da tuoni e fulmini. Il
buio della sera era già calato, ma era stato reso nero come la
pece da nuvole immani e basse. Furono costretti ad un’andatura
lentissima, in quanto la strada, piena di buche, era resa incerta
da quantità di acqua spropositata. Il cielo livido era attraversato
dalle linee asimmetriche dei fulmini, che illuminando tutto,
mostravano all’improvviso i contorni delle montagne lontane.
Tra le “cattedrali nel deserto” con visita agli ultimi
ellenofoni della Bovesia
Isidoro non usò precauzioni per il rientro, tanto più che
Teodoro, non avrebbe più osato fare ritorno in Calabria, dopo il
furto alla ‘ndranghita, anzi quando arrivarono a Riace, volle
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velocemente preparare la valigia. Mise a posto ogni cosa in casa, avvisò gli amici dei suoi ospitanti dell’improvvisa partenza
e arrivati poi al bar del paese, vicino al municipio, vi lasciò le
chiavi della casa e dell’automobile.
Ripartirono verso la marina e non parlarono per un lungo tratto.
– Stasera, se non ti dispiace dormirò nella tua casina al mare e
stanotte ti preparerò le tre cariche. –
– Va bene. –
– Domattina prestissimo verrai e così le porterai nel tuo
covo segreto, dopodiché andremo presso un’agenzia di viaggio
e se ci sarà un posto, nel pomeriggio mi accompagnerai in aeroporto. –
– Va bene, stai tranquillo. –
Tranquillo non era, con quello che aveva addosso. Era
ansioso di portare quel bottino a casa e poi pensava ad ipotetiche terribili ritorsioni che sarebbero arrivate dagli uomini
dell’andragatìa.
– Dovremmo, ripeto per l’ennesima volta, trovare il
modo di collocare una bella carica in uno dei due rami del parlamento. –
– Studia qualche soluzione, mentre io farò altrettanto. –
– Cosa preferisci, Camera o Senato? –
– Io preferisco i fuochi d’artificio dentro il Senato per
fare festa al suo presidente, che lo merita perché è di fine intel-
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ligenza e di rara perizia politica. – Aggiunse ironicamente Isidoro.
– E faremo festa al tuo caro presidente del Senato. Senti
mi avevi parlato di Villa Caristo. Non l’abbiamo visitata. –
– Hai fatto appena in tempo a parlarne, in quanto fra
qualche centinaio di metri, c’è l’indicazione che la segnala a
pochi chilometri. Te la illustro semplicemente dunque. È stata
fatta costruire dai Clemente, signori di Placanica, Stignano, S.
Luca, Pentedattilo, nella seconda metà del 700. Il padrone afferma che è stata ideata da Vanvitelli, ma sicuramente è di
scuola vanvitelliana. Ora è stata abilitata ad uso agrituristico
mentre vengono celebrati anche matrimoni pretenziosi nella
cappella gentilizia situata nella parte nord del complesso. Agli
inizi dell’800, i marchesi Clemente impoverirono a tal punto,
almeno nel ramo che aveva fatto costruire la villa, che i loro
eredi si ridussero a chiedere l’elemosina a Napoli. Un funzionario del Regno, Caristo, la comprò, con parte delle pertinenze
agricole. Essa era dotata di 365 statue marmoree, trafugate agli
inizi del 900, dai nuovi ricchi, che abbellirono le loro dimore.
Sono rimaste solo due: una di fronte alla facciata, raffigurante
Tancredi disperato, che reca sulle braccia Clorinda morente;
era la più pesante, quindi più difficile da trasportare; l’altra raffigurante un Tritone è collocata in una fontana monumentale
in fondo al giardino all’italiana. Sotto la fontana è ricavata una
stanza, che secondo il racconto del proprietario era dotata di un
letto, dove si rifugiavano amanti clandestini, durante il gioco in
221
promiscuità della mosca cieca, dove i toccamenti erano conseguenza del gioco, ma consentiti agli aristocratici nel tollerante
secolo XVIII. –
Man mano che percorrevano ormai la litoranea, Teodoro leggeva i cartelli con le indicazioni turistiche e faceva delle
domande.
– Su quella collina rocciosa vedo un grande manufatto
illuminato … –
– È il castello di Roccella, rimaneggiato varie volte,
dalle dominazioni che si susseguirono, dai normanni, agli aragonesi, spagnoli, austriaci … –
– Ma che dici! Che c’entrano gli austriaci con l’Italia
meridionale, scusa questa è grossa! –
– Facevo l’insegnante di lettere, buon dilettante di storia
ed in qualità di ex-docente, pretendo ancora di svolgere la mia
funzione pedagogica, a questo punto nei tuoi riguardi. Dopo la
fine dell’indecente dominazione spagnola gli austriaci governarono l’Italia meridionale, con un’inversione di tendenza in positivo, per pochi decenni, prima dell’arrivo dei Borbone, discendenti del Re Sole, ma che erano stati imposti sul trono di
Spagna. –
– Mah, quando arriverò a casa mi documenterò … – Fai bene a farlo e così le vicende ti rimarranno più
impresse nella memoria. –
Proseguirono in silenzio lungo la costa e ad un certo
punto Teodoro lesse:
222
– Villa romana del Naniglio … che significa villa romana del piccolo nano? –
– L’indicazione turistica invita a visitare una delle tante
fattorie rustiche, che i romani costruirono tra il I ed il IV secolo
d.C. Esse rimasero attive per tutto il tardo antico, ossia fino oltre il VI secolo d.C., producendo ed esportando i prodotti del
territorio, specialmente vino. Naniglio deriva dal greco ana +
elios, senza sole, in quanto ciò che resta di essa è costituito dalle splendide terme abbellite da mosaici, che sono al buio sotto
l’antica strada che corre verso le Serre vibonesi. È ubicata a
Gioiosa Jonica e si pensa che sia stata devastata dal popolo
germanico dei vandali, che partivano per le loro incursioni dalle basi dell’Africa settentrionale, prima che fossero massacrati
dall’esercito bizantino di Belisario, all’inizio del VI secolo. –
Teodoro annotava qualcosa su un’agendina e non parlò
per circa 20 chilometri.
– Villa romana di Palazzi di Casignana, lesse, parlami
di questa. –
– Come ti dicevo, tutta la costa jonica della Calabria
meridionale, fu prospera per tutto il tardo antico e fino al periodo culminante della civiltà bizantina, quando cominciarono
le incursioni saracene ossia degli arabi stanziati nel Mediterraneo occidentale, che partivano dalla Sicilia, dal IX secolo in
poi. Non tutta la Calabria si trovò in tale posizione privilegiata
perché i longobardi del ducato di Benevento attaccavano anche
223
la parte settentrionale della provincia di Cosenza, dove addirittura costituirono dei castaldati autonomi. –
– Anche nei meridionali ora c’è sangue longobardo!
Vuoi togliere al capo del partito del Nord anche questa soddisfazione! –
– No povera bestia, gliela lascio, ma ti voglio rammentare che mentre al Nord i longobardi furono per buona parte
annientati dai franchi di Carlo Magno, già alla fine dell’VIII
secolo e all’inizio del seguente, nel Sud sopravvissero in enti
territoriali autonomi fino all’XI secolo quando si fusero con i
normanni originari della Norvegia e della Danimarca, trapiantati poi nell’attuale Normandia francese. Ti ricordo che Sichelgaita, seconda moglie di Roberto il Guiscardo era longobarda,
imparentata con Guaimaro principe longobardo di Salerno. –
– Mah, allora ai militanti del partito del Nord cosa resta,
che non hanno in comune con i meridionali? –
– Sono un po’ migliorati nella loro conoscenza storica e
hanno deciso di cambiare direzione e di optare per i celti, di cui
hanno studiato la storia ed hanno appreso che a partire dal VI
secolo a.C. , dilagarono nella Pianura Padana, espandendosi oltre il Po raggiungendo con le loro incursioni addirittura Roma,
che fu messa in serio pericolo. Non sanno però chi c’era prima
nella Pianura Padana, eccetto il Veneto. –
– Perché chi c’era? –
– Era abitata dai liguri, che furono massacrati e resistettero solo nelle regioni montuose della Liguria e della Toscana
224
settentrionale. Essi erano tenaci e bruni, perché erano originari
dell’Africa settentrionale. Infatti se vai nell’entroterra ligure
troverai dei soggetti autoctoni molto bruni, dalla pelle talvolta
olivastra. Del resto i baschi, i sardi, i berberi e probabilmente
anche i liguri dell’entroterra, rappresentano ciò che resta degli
antichi popoli del Mediterraneo. Se tu osservi attentamente il
capo storico del partito del Nord, ti accorgi come somiglia ad
un berbero o ad un abitante della Libia. Se ci fai caso somiglia
molto a Gheddafi. –
–Vuoi scherzare? –
– Un po’ per sdrammatizzare. –
– Parlami della villa di contrada Palazzi e lasciamo perdere il precedente argomento. –
– Va bene. Essa era stata edificata su almeno 100.000
metri quadri e oltre la dimora padronale e del fattore, vi erano
gli alloggiamenti per gli schiavi che lavoravano alcune migliaia
di ettari di terreno attorno, ma anche i laboratori sartoriali, la
falegnameria, la fucina, i depositi per tutto quello che vi si produceva. Era servita da un approdo da cui partivano le navi che
portavano in mercati lontani il vino, l’olio, il grano, ecc. Produceva enorme ricchezza, deducibile dalla presenza di due aree
termali, abbellite da mosaici e da marmi pregiati provenienti
dall’Oriente: le terme occidentali e le terme orientali. L’uso
non era solo appannaggio del dominus, ma anche dei lavoranti.
Probabilmente le terme doppie stanno ad indicare la destina-
225
zione differenziata per gli uomini e per le donne; del resto il
cristianesimo sessuofobico, si era ormai diffuso ampiamente.
Era in funzione persino una sauna, destinata ad eliminare dal
corpo, attraverso il sudore le tossine dovute ad errata alimentazione. –
– Sono stanco di sentire altro per oggi. –
– Va bene smetto, ma prima di dimenticarmi ti chiedo
la cortesia di lasciarmi il cellulare che stai usando, il cui intestatario non sarai certamente tu. –
–Eccolo, prendilo, ma che te ne fai? –
– Nel caso riesca a trovare un collaboratore per portare
avanti il progetto sul senato, lo potrà usare senza essere individuato. Tu te ne procurerai un altro intestato ad una persona diversa da te. –
Arrivarono alla casina di Isidoro e Teodoro scese portandosi dietro l’occorrente per preparare le tre cariche esplosive.
– Domani andrò a comprarti un biglietto per il pomeriggio, solo che il volo non sarà diretto,ma ti porterà a Roma e
poi raggiungerai Torino con un altro aereo. –
– Va bene, aspetta che ti do i soldi. –
– Me li darai domani, perché si è fatto tardi ormai ed il
tempo volge al peggio e sta arrivando una tempesta. Buonanotte. –
226
La notte piovve ininterrottamente fino alle prime luci
dell’alba, ma poi il sole si aprì un varco tra le nuvole ad oriente
e poco alla volta esse si diradarono e poi si dissolsero del tutto.
Isidoro comprò un biglietto aereo in un’agenzia e poi andò a
consegnarlo a Teodoro, da cui ebbe gli ordigni, dotati ognuno
di telecomando¸ si fece spiegare il funzionamento e poi raggiunse il covo segreto, smosse le pietre e li collocò in un angolo; rimise tutto a posto e ripassò da Teodoro.
– Sono ormai le dieci, se vuoi possiamo partire e mangeremo strada facendo qualcosa. –
– Va bene possiamo andare e se vuoi ti posso portare in
un agriturismo, dove troveremmo forse qualcosa di genuino da
mettere sotto i denti. –
Partirono e strada facendo ebbero l’opportunità a Brancaleone di leggere nella piazza prospiciente il municipio,i nomi
dei caduti nella prima e nella seconda guerra mondiale e Teodoro li contò e notò che i nominativi erano 82.
–Strano, ma quanti abitanti contava all’epoca delle due
guerre questa cittadina che mi sembra piccola? –
–Tra i tre e i quattromila abitanti. –
– Come mai tanti caduti? –
– Al sud sono toccati sempre i sacrifici, agli altri i privilegi. –
– Che significa questa affermazione? –
227
– Sui fronti più difficili di guerra i comandi militari
mandavano allo sbaraglio prima i meridionali e poi i settentrionali. –
– Stento a credere –
– Leggiti allora le indagini statistiche e troverai i riscontri a quanto ti ho detto. Anzi ti dirò di più, durante la prima
guerra mondiale caduti non proporzionati al numero di abitanti,
delle regioni del nord, li ebbe pure la terra di Romagna che fu
punita perché aveva espresso un forte movimento anarchico. –
– Farò dei riscontriNon parlarono più e prima di mezzogiorno raggiunsero
un agriturismo, che visitarono e si predisposero a mangiare sotto un pergolato da cui vedevano in lontananza Bova.
– Che paese è quello? –
– È Bova, che fu il centro più importante dei greci di
Calabria, nelle cui contrade più isolate parlavano il greco fino
ad alcuni decenni fa. –
– Il greco, come mai? –
– Mi pare di averti già detto a proposito di S. Giovanni
Theresti, che la Calabria fu parte integrante dell’impero bizantino fino al 1059, quando si concluse la conquista normanna e
la gente che vi abitava era ellenofona e professava la religione
greco-ortodossa. Per ordine del papato, di cui i normanni si dicevano vassalli, iniziò la latinizzazione, sia sotto l’aspetto linguistico che da quello religioso di tutta la regione. I nuovi do-
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minatori fecero affluire in Calabria gente dalla Normandia, dal
resto d’Italia, persino dalla Germania, con la funzione
d’eliminare sia la lingua che la religione della Calabria e ci riuscirono. Della Germania il conte Ruggero, come già ti ho raccontato, gratificò con ampie donazioni, S. Bruno di Colonia,
che costituì nell’attuale Serra S. Bruno, la certosa di S. Stefano
del Bosco. Essa è ancora molto attiva, anche se ha perso la ricchezza del passato basata su numerose donazioni elargite a
spesa talvolta dei monasteri basiliani. I normanni, per loro convenienza, fecero finta di seguire la volontà del papato, continuando ad erodere la posizione della chiesa ortodossa in Calabria. Tale collaborazione durò per circa 170 anni e cessò con lo
splendido Federico II di Svevia, che entrato in conflitto con il
papa privilegiò i monasteri greco-ortodossi. La mancata acquiescenza al potere papale, costò caro a Federico, in quanto
esso gli suscitò nemici in tutt’Italia, compresi i comuni del
Nord e sappiamo come andò a finire a Fossalta. Finché fu in
vita l’imperatore nessuno osò attaccare il suo fantastico regno,
ma alla sua morte, il papa con la pretesa che i territori che costituivano il regno di Sicilia, formassero un’entità subalterna, o
in vassallaggio della chiesa di Roma, “assegnò” il regno dei
normanno-svevi a Carlo D’Angiò, che vinse a Benevento Manfredi e poi a Tagliacozzo, Corradino di Svevia, impadronendosi
del regno. Nonostante le tante traversie la grecità resistette a
Bova, talvolta rinvigorita da nuovi arrivi dall’oriente durante
l’avanzata islamica, prima araba e poi turca. Il tempo passò ed
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il rito latino fu imposto in Calabria,come già prima ti accennai,
nel corso del XV secolo,quando il vescovo di Gerace,esule di
riguardo ,dopo la caduta di Costantinopoli, Atanasio Calceopulos, il 29 marzo 1480,officiò la messa in rito latino nella cattedrale di Gerace appunto,decretando la fine del rito greco. Esso
però continuò a resistere nella Bovesia, ma il 23 novembre del
1572 il vescovo cipriota d’origine armena, Giulio Stauriano,
sotto la forte pressione del papato, abolì il rito greco, che formalmente fu soppresso con una solenne liturgia in latino,il 20
gennaio del 1573,nonostante la forte opposizione del popolo.
La lingua continuò a sopravvivere nelle campagne, tra gli umili
e gli oppressi, fino al tempo del fascismo. Raccontava, il mio
dolce amico, Bruno Casile, poeta contadino, che tentò fino alla
morte di salvare la lingua dei padri, che da bambino, quando la
madre lo mandava a scuola nel paese, gli raccomandava: “Bruno, ti prego, non parlare la nostra lingua perché i maestri ti puniranno e potranno fare del male anche a noi”. In aggiunta
all’azione demolitrice del fascismo i preti della chiesa di Roma
ogni domenica strepitavano dal pulpito e raccomandavano ai
genitori di non far parlare ai propri figli la lingua dei “rambali”,
dei “tamarri”, ma piuttosto la lingua di Dante. La nobile lingua
dei padri continuò a sopravvivere, secondo l’espressione di
Bruno, “tra le capre” e tra i rudi contadini. Nel frattempo erano
arrivati degli studiosi, dalla Germania, tra cui Rohlfs, e dalla
Grecia e scoprirono che il greco di Calabria conservava elementi del greco classico, ma fondamentalmente era la cataréu-
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sa, ossia la lingua degli aristocratici, contrariamente a quella
che era parlata nella madrepatria, derivante dal demotichì, ossia
la lingua popolare. Bruno fu scoperto ed onorato da Pier Paolo
Pasolini, riverito dal Ministro della Cultura Ellenica, Melina
Mercuri, che ogni anno si fregiava di farlo ospitare in Grecia.
Più di ogni parte della Grecia, amava Creta e raccontava un
episodio illuminante. Un giorno ad Heraclion si trovò a chiacchierare con una signora, su una panchina in un giardino pubblico e dopo una lunga conversazione ella gli chiese da quale
città provenisse e restò allibita quando seppe che il suo interlocutore proveniva non da una comunità ellenica, ma da un villaggio sperduto della Calabria. Bruno continuò la sua lotta ma
le “pale dei mulini a vento”, lo scaraventarono ogni giorno per
terra a mordere la polvere. Ed allora, dopo un furioso incendio
che cancellò le piante millenarie collocate nella sua “Cavalli”
dai profughi di Caso, di Rodi e di Cipro, non ebbe più voglia di
vivere. Si ricoverò per un intervento alla prostata e si addormentò tra la desolazione di quanti lo conobbero, rendendo più
povera la sua Bova. –
Non parlò più Isidoro, perché la commozione lo interruppe e delle lacrime rigarono il suo volto. Il suo compagno rispettò i suoi sentimenti e per un pezzo non gli fece delle domande.
– Senti, osò dopo alcuni minuti, vorrei visitare Bova. –
–
Ti
accompagnerò
volentieri
ed
approfitterò
dell’occasione in quanto dovrei ritirare da un mio amico la tra-
231
duzione nel dialetto romanzo di Bova, di una fiaba raccontatami 13 anni fa, prima che morisse, da Bruno Casile. –
– Va bene, mangiamo in fretta, perché le cose che mi
hai raccontato mi hanno molto incuriosito. –
In breve consumarono il pranzo e poi partirono, facendo la
vecchia strada che s’inerpicava tra numerosi tornanti, dal mare
fino quota 900, per 14 chilometri.
– Conosci qualcuno che parli ancora il greco? –
– Ti farò conoscere il mio amico Bruno Traclò, che mi
consegnerà la traduzione della fiaba e poi Agostino Siviglia e
Tito Squillaci; Bruno è relativamente giovane e fa il dentista,
Agostino non lo è più e appunto per questo la sua conoscenza
del greco è più profonda, perché possiede anche i termini del
linguaggio settoriale riferiti ai mestieri che non esistono più.
Tito,è pediatra all’ospedale di Melito, è l’unico poi che ha parlato in greco alle sue figlie sin dalla nascita,per cui anche loro
conoscono la lingua degli antenati. La macchina se la cavò
egregiamente ed in meno di 20 minuti arrivarono nella piazza
principale del paese e posteggiarono. Teodoro ad un certo punto fu attratto da qualcosa d’insolito, costituito da una vecchia
vaporiera adagiata su un pezzo di binario.
– Dimmi, ma anche qui arrivava la ferrovia? Fino a
quando i treni sono stati attivi in questo territorio impervio? –
– Guarda che la ferrovia non c’è mai stata qui. –
– Ed allora che ci fa qui questa stupenda vaporiera? –
– Essa è il frutto della politica democristiana. –
232
– Che significa? –
– Per vent’anni e passa questo paese fu amministrato
dal sindaco Foti, che aveva forti agganci nell’ambiente democristiano. Bastava che alzasse la cornetta del telefono ed in poco tempo arrivavano dei fondi per tutto quello che egli proponeva. Ad un certo punto ebbe un’idea balzana e propose al suo
amico, Ludovico Ligato, presidente dell’ente ferroviario
dell’epoca, che gli regalasse il locomotore a vapore che vedi.
Foti ebbe bisogno di fondi, perché la vaporiera fosse trasportata
sulla strada allucinante, che abbiamo percorso e gli furono accordati; ebbe necessità di un mezzo speciale e lo trovò, ebbe
bisogno di tecnici che predisponessero i binari su cui è stata
collocata la locomotiva e li trovò … –
– Basta non voglio sentire più queste stronzate; in Italia
bisognerebbe far funzionare per anni i plotoni di esecuzione. Ti
sembra il modo questo di servirsi dei fondi pubblici? –
– A me no, ma ai nostri politici comportamenti simili
risultano normali, addirittura ovvii. –
– Oh Dio! Come si fa a liberare l’Italia dal fango da cui
è interamente coperta? Bisognerebbe agire subito con un governo di salute pubblica,costituito da uomini intransigenti come
Marat ed incorruttibili come Robespierre,con il compito di processare, anche post mortem, tutti gli individui che costituirono
la classe dirigente degli ultimi 50 anni,che hanno dilapidato le
risorse del nostro paese a proprio vantaggio,arrivando alla confisca dei loro beni e dei loro eredi. Comunque è impossibile ar-
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rivare a questo,per cui non resterebbe che l’azione violenta attraverso attentati mirati contro i politici o addirittura sarebbe
auspicabile, come accennavi tu un’azione catartica, traumatica
e destabilizzante indirizzata ad uno dei due rami del parlamento,utilizzando un’immane carica esplosiva capace di fare una
carneficina di quest’immondi porci. Come si fa a liberarsi di
questa cancrena ! Come si fa! –
– Calmati per cortesia, perché ti vedo stravolto ! –
– Mah … andiamo a trovare i tuoi amici. –– Aspetta che telefoni a Bruno, ma devo trovare il suo numero
segnato su un foglietto. –
Cercando tra i numerosi biglietti da visita che aveva nel
portafogli, miracolosamente trovò un piccolo foglio piegato in
quattro, che aprendolo lo fece sorridere di gioia.
– Teodoro, guarda, leggi, è Bruno Casile che ci parla e
che ci manda un messaggio! È l’ultima sua poesia, inedita, di
cui mi fece dono prima che morisse. È scritta in greco, ma è
anche corredata della traduzione in italiano. Ce l’ho in questo
scomparto protetta dalla cerniera da 14 anni ormai. Il portafoglio che l’ha contenuta per tanto tempo all’epoca l’avevo messo da parte, perché non mi si adattava la patente. Da pochi mesi, rinnovandola e avendo ricevuto quella valida per tutta
l’Europa comunitaria, che è più piccola, ho ripreso ad usare il
vecchio portafoglio e Bruno si è fatto vivo. –
– Fammi leggere:
“O chimóna i zoì
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Ene chimóna, olo jénete tsichrò,
tsichrèni i elpìda tus áthrupu
tsichrèni to nerò sta riàcia
ti murmurízi catu stin vathía
tsichrèni to onirò ti nnista
ti o áthropo angaglíazi sto scotídi
tsichrèni cióla i cardíamu
den stipái pléo sto sternò
i zoímu jénete pago”. –
– Ma non capisco manco una parola! –
Per forza è un’altra lingua. Leggi la versione italiana.
– L’inverno della vita –
È inverno, tutto diventa freddo,
fredda la speranza degli uomini,
fredda l’acqua dei ruscelli
che mormora giù nella valle.
Freddo il sogno della notte
che l’uomo abbraccia nell’oscurità,
freddo anche il mio cuore,
non batte più nel petto.
La mia vita diventa gelo.
Bova, marzo 1995”. – È molto triste. Rappresenta un mondo muto, incapace
di comunicare. Racconta l’inverno, ma quello del suo cuore,
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che ormai aveva perso tutte le speranze e disilluso aspettava solo la pace che solo la morte può dare. –
Isidoro telefonò al suo amico Bruno, che in meno di
cinque minuti li raggiunse e li condusse al bar sulla piazza, dove consumarono una bibita. Assieme andarono poi al punto
vendita della cooperativa vinicola, per trovare Agostino Siviglia, che stava conversando in greco con il dott. Tito Squillaci,forbito ellenofono della Bovesia.
Naturalmente tutto ciò fece molta impressione a Teodoro, che ascoltava sbalordito e nello stesso tempo contento per
quello che aveva visto durante il breve periodo di permanenza
nella terra così vituperata da buona parte degli italiani.
Ad un certo punto Agostino si rivolse in italiano ai due
ospiti e li pregò di assaggiare i loro vini, prodotti da poco tempo, da uve di vitigni autoctoni del territorio.
Assaggiarono due tipi e poi Bruno volle leggere in italiano, la fiaba raccontata da Casile prima che morisse.
– Una coppia aveva avuto dodici figli, ma un giorno la
moglie capì d’essere ancora una volta incinta e lo comunicò al
marito. Prima che nascesse il bambino si scervellarono non
poco per sceglierne il nome, in quanto avevano usato completamente il nome di tutti i loro famigliari. Pensarono per un po’
di tempo e alla fine decisero di chiamarlo Tredicíno.
Il bambino che nacque cresceva delicato, molto intelligente e dotato di infinita bontà e quando tutti i suoi fratelli si
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sposarono, egli non lo fece e restò con i suoi genitori nella loro
casina. Quando essi morirono, restando solo, si dedicava ad
aiutare i vecchietti.
In una notte d’inverno, cominciò a diluviare e l’acqua
era accompagnata da tuoni e fulmini. Ad un certo punto sentì
bussare alla porta; si alzò dal letto ed aprendo si trovò di fronte, bagnato fino alla radice dei capelli, un uomo sulla trentina,
alto, magro, delicato nel volto e con i capelli lunghi ed ondulati. Lo fece entrare, accese subito il fuoco, gli asciugò gli abiti,
arrostì per lui un pezzo di lardo, che gli offrì assieme ad olive
schiacciate, sott’aceto e lo fece mangiare. Assieme bevvero un
boccale di vino, dopodiché l’invitò ad andare a dormire nel
suo letto, costituito dai trespoli su cui poggiavano delle tavole
ed un materasso fatto da un grande sacco riempito di paglia
d’orzo; gli diede due coperte di ginestra, un’imbottita di lana
ed un cuscino confezionato con penne di galline. Egli invece si
adagiò su un tronco squadrato, di circa due metri, accanto al
focolare e coprendosi con una bisaccia, sonnecchiava poggiando i piedi vicino al fuoco.
Al mattino si alzò e all’ospite arrostì un palmo di salsiccia, una spanna per sé, stringendoli in un pane spaccato a
metà, e mangiarono assieme, bevendo ciascuno un boccale di
vino. Alla fine di tutto questo l’uomo si rivolse a Tredicíno e gli
disse:
“Tredicíno, io non sono quello che tu hai pensato, ma
Gesù e sto andando in giro per il mondo per saggiare il cuore
237
degli uomini. La notte scorsa durante quella tempesta d’acqua,
ho bussato a moltissime porte, ma nessuno ha aperto per ospitarmi, anzi una persona mi ha aizzato il suo cane che invece si
è avvicinato e mi ha leccato, invece di mordermi. Tu sei l’uomo
più buono che abbia mai visto e voglio ricompensarti; qualsiasi cosa tu chiedi, io te la procurerò!”
“Io non voglio niente, perché ciò che ho fatto, me l’ha
dettato il cuore!”
“No tu devi accettarmi qualcosa, altrimenti mi offendo,
perché significa che non mi vuoi bene. Chiedimi tre cose dunque!”
“Se voi pensate che non vi voglio bene, vi accetto qualcosa per dimostrarvi che ciò non è vero!”
“Comincia a chiedere dunque! Che cosa desideri?”
“Desidero una sedia!”
“Ma una sedia … è troppo poco per te!”
“La sedia però non deve essere come le altre, ma tale
che, quando qualcuno vi si siede, non potrà alzarsi senza la
mia volontà”.
“Va bene, questa è la sedia da te richiesta!” E comparve una sedia impagliata.
“Cosa cerchi ora?”
“Desidero un sacco”.
“Un sacco?”
238
“Un sacco, ma non come tutti gli altri, ma confezionato
in modo che, chiunque vi s’infila non potrà più uscirne senza il
mio permesso”.
“Questo è il sacco!” E apparve un sacco bianco, tessuto a trame spesse, molto grande.
“Per finire cosa chiedi?”
“Un berretto!”
“Un berretto! Così poco?”
“Ma non deve essere come gli altri, ma leggero per me,
ma tanto pesante da non poter essere smosso dagli altri”.
Così gli diede il berretto richiesto, ch’era di color marrone
chiaro. Da quel momento in poi Tredicíno lavorando continuò
a vivere con l’aiuto di Dio, ma una notte sentì bussare.
“Chi è?” Chiese.
“Sono io!”
“E chi sei tu?”
“Sono la Morte!”
“E che vuoi da me?”
“Sono venuto a prenderti perché è arrivata la tua ora!”
Tredicíno andò ad aprire la porta, chiusa con un passantino, fece entrare la Morte e la invitò ad accomodarsi.
“Aspetta che vado a lavarmi e a prepararmi; indosserò
il vestito apposito, il berretto nuovo e poi partiremo”.
Avvenne che quando fu pronto si avvicinò alla Morte e le disse:
“Io sono pronto!”
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Ella fece il tentativo di alzarsi, ma restava attaccata alla sedia;
provò, una, due, tre, dieci, venti, cento volte, ma non le fu possibile alzarsi. Passò un giorno, poi dieci, venti, trenta, restava
avvinta alla sedia. Nascevano bambini ma nessuno moriva più.
La Morte, avendo compreso che la possibilità di alzarsi dalla
sedia dipendeva da lui, un giorno gli disse:
“Tredicíno, non sai quanti danni stai combinando!
Bimbi nascono, ma nessuno più muore e nello spazio di poco
tempo, tutto il mondo sarà così pieno di gente, che alla fine gli
uomini si mangeranno tra di loro. Dimmi che vuoi che te lo
concedo”.
“Voglio vivere altri trecento anni!”
“Avresti potuto chiedermelo prima! Fra trecento anni
ci rivedremo!”
Passarono gli anni ed anche per Tredicíno stava arrivando l’ora. Una notte sentì bussare, andò ad aprire e vide che
era la Morte.
“E’ arrivata la tua ora, andiamocene! Ricordati che sta
per albeggiare e come tu sai, io non posso camminare di giorno. Fa presto!”
“Ho capito! Vado a prepararmi, ad indossare il vestito
per l’occasione, il berretto nuovo. Intanto sedetevi!”
“Non mi freghi questa volta! Sto all’impiedi non ti
preoccupare! Fa presto che sta albeggiando!”
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La Morte restò in piedi e Tredicíno andò a prepararsi e
fece di tutto per perdere tempo e alla fine, quando fu pronto,
era ormai chiaro.
“Hai visto? Ora debbo aspettare tutto il giorno a casa
tua!”
“Ma non è detto. Possiamo andare comunque. Mi indicate la strada, v’infilate in questo sacco e vi metterò sulle mie
spalle ed andremo, ad esempio, in paradiso”.
“Sta fresco! Apri il sacco e ricordati di andare verso la
montagna, seguendo sempre il sentiero più frequentato.”
Tredicíno aprì il sacco e la Morte saltò dentro. Camminavano
da un pezzo quando arrivarono in un posto dove c’erano uomini che spaccavano pietre e Tredicíno poggiò il sacco per terra e disse loro:
“Tirate alcuni colpi di mazza sul sacco”.
Gli spaccapietre eseguirono e la morte, ad ogni colpo,
lanciava urla disperate:
“Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato! Tredicíno
mi stanno riducendo in poltiglia! Fammi uscire, per l’anima
dei tuoi morti!”
“Non ti preoccupare. Ti farò uscire, ma quando sarà
buio, come tu hai comandato”.
Proseguirono il cammino ed attraversarono tutta la montagna,
giungendo su un’altura dove c’era una fucina. Appena giunse
Tredicíno vi entrò e disse ai fabbri ch’erano quattro, dopo aver
poggiato il sacco sull’incudine:
241
“Tirate qualche colpo qui sopra!”
Al primo colpo la Morte cominciò ad urlare:
“Tredicíno, cuore di pietra! Mi stanno facendo a pezzi!
Fammi uscire, ti prego!”
“Ora ti farò uscire, perché sta calando la sera, ma prima mi devi promettere che mi farai vivere altri mille anni!”
“Te lo prometto, parola di Morte!”
Così appena fece buio uscì fuori dal sacco, ma dopo
mille anni ritornò e si portò via Tredicíno, dicendogli:
“Brutto ceffo; ti aggiusterò io ora! La prima volta avevo pensato di portarti in purgatorio, ma ho cambiato idea e ti
porterò dritto all’inferno, dove ti divertirai un mondo a gironzolare tra braci grandi come una cassa!”
Camminarono per cinque, sei ore ed arrivarono di
fronte alla porta dell’inferno, arrugginita e grande quanto
quella di una chiesa, localizzata in un posto buio, che provocava solo sconforto.
Bussò la Morte ed aprì un enorme diavolo, rosso con la
coda attorcigliata, nera e gialla; gli orecchi li aveva come
quelli di una capra minda, interamente neri. Aprì e chiese con
stizza:
“Che cercate?”
“Voglio che ti prenda cura di questo delinquente che mi
ha fatto passare le pene di Giobbe; ti raccomando di rifilargli
tre mani di botte al giorno!”
242
“Ma che dici! Se lasci qua codesto babbeo è capace di
darci fastidio e di mettere zizzania e di provocare discordie tra
noialtri diavoli! Vattene prima che decida d’infilzarti con questo tridente di ferro!”
Sconfortata andò via pensando:
“Spero che l’accettino al purgatorio e così me lo tolgo
dai piedi!”
Camminarono un altro po’ e arrivarono davanti alla
porta del purgatorio, ch’era più piccola di quella dell’inferno.
Bussarono e si affacciò una figura d’uomo con un berretto rosso, ornato di fiocchi verdi.
“Cosa desideri?” Chiese alla Morte.
“Ti ho portato questa faccia di scimmia che mi ha procurato tante sevizie!”
“Ma che dici! Non te l’hanno accettato all’inferno, replicò con un tono di voce femminile, e pretendi di lasciarlo
qua! Vattene via, altrimenti chiamo rinforzi e non so cosa ti
potrà capitare!”
Sconfortata andò via pensando:
“Va a finire che gli devo permettere di vivere sempre,
ma nel dubbio passo dal paradiso”.
Arrivarono di fronte alla porta del paradiso e bussarono. Aprì San Pietro e saputo cosa desiderasse la Morte disse:
“Ma cos’hai in zucca? Non te l’hanno accettato
all’inferno e nel purgatorio e pretendi di lasciarlo qua? Vatte-
243
ne, perché se perdo la pazienza ti do una botta in testa e te la
spacco a metà!”
La morte era tanto sconfortata che partendo pensò:
“Ora debbo riportarlo nel mondo, dove mi toccherà
farlo vivere per sempre, dopo tutto quello che mi ha fatto!”
Nel frattempo Tredicíno, con parole gentili si rivolse a
San Pietro:
“Maestro, per cortesia, potete socchiudere la porta e
così potrò vedere com’è fatto il paradiso?”
“Va bene, ti accontento!”
Appena aprì Tredicíno si tolse il berretto dalla testa e
lo buttò davanti alla porta semiaperta, al ché San Pietro disse:
“Bestia, screanzato e maleducato!” E cercò di togliere
il berretto che impediva la chiusura della porta, attraverso cui,
essendo semiaperta si vedevano gli angeli giocare a palla.
Cercò di afferrarlo San Pietro, ma non lo spostò neppure di un
centimetro e nonostante si sforzasse non riusciva a smuoverlo
ed intanto la porta rimaneva aperta. Seppero la notizia le anime dell’inferno, con i diavoli e tutti quanti cominciarono a
correre per infilarsi nel paradiso.
“Sventura nostra!” Gridava San Pietro assieme agli
angeli, che smisero di giocare a palla.
“Se entrano nel paradiso, la nostra pace finirà! Forza
togliamo il berretto!”
“E’ inutile che vi sforziate!” Disse loro Tredicíno.
“Allora cosa possiamo fare?”
244
“Se mi promettete che mi farete entrare, per restare, la
tolgo io!”
“Te lo prometto! Fa presto!”
Tredicíno entrò e tolse il berretto e fece appena in tempo, in quanto tutte le anime dannate dell’inferno, assieme ai
diavoli, erano arrivati a pochi passi. – Bellissima e molto arguta. – Apprezzò Teodoro.
– È inutile che la legga in greco di Calabria, tanto non
capireste nulla. Dove siete diretti ora? –
– Prendo l’aereo per Roma da Reggio, da cui raggiungerò Torino, mentre lui tornerà a casa. –
– A questo punto è inutile parlare di cena, però se volete
possiamo visitare il poco che resta del castello normanno e la
parte alta dove era ubicato il quartiere ebraico. –
– C’era una comunità ebraica a Bova? – Molto antica. Infatti in località San Pasquale circa
trent’anni fa è venuta alla luce una sinagoga di una città distrutta verso la metà del VI secolo o agli inizi del VII d.C.,di nome
Delia. Comunque l’edificio sacro si riferisce al periodo romano,deducibile da un mosaico che rappresenta la Menorah, ossia
il candelabro ebraico a sette bracci e da altri reperti –
– Fino a quando abitarono questo territorio? –
– La loro presenza è documentata fino all’inizio del
XVI secolo, ma quando arrivarono gli spagnoli , dovettero andar via.
245
Già prima, con il decreto degli aragonesi del 1492, furono espulsi dalla Sicilia e dalla Sardegna e poi da tutto il Regno di Napoli con le disposizioni di Ferdinando il Cattolico del
23 novembre del 1510.
Furono obbligati a lasciare tutte le loro ricchezze senza
indennizzo,compresi i capitali,di cui s’impadronirono banchieri
non del Regno di Napoli ,che lì investirono nel centro-nord Italia.Con questi provvedimenti vennero annientate le comunità
che avevano contribuito notevolmente, al benessere di tali territori,dopo mille e cinquecento anni di radicamento sugli stessi. I
profughi si stabilirono nel medio oriente o nell’est europeo,ma
la maggioranza di essi perì in naufragi o venne eliminata durante il trasferimento coatto
Infatti le comunità giudaiche erano prospere per via dei
commerci che attivavano con l’oriente, specie con i territori
gravitanti attorno al Mar Nero, anche dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi. Nel tardo-antico esse costituivano le
strutture portanti dell’economia della Calabria (si chiamava ancora Bruzio ) e navicularii (armatori ) giudaici trasportavano i
prodotti locali, tra cui il vino contenuto dalle urne vinarie keay
LII, marchiandole talvolta con la menorah quando contenevano
il vino Kasher o rituale per le altre comunità ebraiche del Mediterraneo. Esso era prodotto da vigne coltivate da ebrei,i quali
vinificavano l’uva e manipolavano il prodotto finito ,che veniva conservato in anfore apposite,dentro cui raggiungeva le sinagoghe più importanti del Mediterraneo. Addirittura in un do-
246
cumento,scoperto dal prof. dell’università di Messina Daniele
Castrizio, che peraltro è papàs della chiesa a rito ortodosso di
S. Paolo dei Greci a Reggio. C., si legge che un diacono di una
chiesa di Ravenna venne in Calabria per rifornirsi di vino
“lipòs “, ossia di passito, perché fosse utilizzato nei riti religiosi
cattolici. I suddetti navicularii portavano ovunque anche il vino non rituale e per il ritorno si rifornivano di prodotti di lusso,
tra cui tessuti di seta. In riferimento all’espulsione dei giudei si
raccontava una leggenda secondo cui ai primi del 500 qui a
Bova scoppiò un’epidemia di peste che coincise con il rientro
dall’Oriente di mercanti, carichi di merci preziose. Una giovane signora comprò da loro un bellissimo velo di seta e malauguratamente si ammalò e morì di peste, che si diffuse in tutta la
comunità. Agli abitanti fu vietato di uscire dalla loro città a cui
fu imposta la quarantena e quando finirono la scorta di cibo, furono aiutati dai cittadini di Amendolea, che avvicinandosi lasciarono intorno alle mura delle mucche, che macellate, sfamarono la cittadinanza. Quando l’epidemia cessò, gli ebrei,con il
pretesto della pestilenza, furono mandati via,secondo quanto
racconta la leggenda,ma in verità ,furono espulsi con decreto
dagli spagnoli,da tutta l’Italia meridionale,come già abbiamo
prima detto. Secondo il mio punto di vista molti abiurarono la
loro religione e rimasero sul territorio. Infatti nel circondario
erano diffusi cognomi, corrispondenti a nomi di città spagnole,
tra cui Cordova e Siviglia e si sa che talvolta essi erano denominati con il nome delle loro città d’origine. In questo caso si
247
sarà trattato di individui, che cacciati dalla Spagna nel 1492 da
Isabella di Castiglia, si rifugiarono in queste aree, da cui furono
espulsi oppure per restare, furono costretti a rinnegare la loro
fede. –
Visitarono il castello, il borgo, dove Teodoro evidenziò
il restauro di alcune case eseguito alla perfezione rispettando la
tipologia del territorio, poi salutarono Bruno Traclò , Agostino
Siviglia ed il dott. Tito Squillaci ed andarono via facendo questa volta la nuova strada, per cui arrivarono sulla statale in poco
più di dieci minuti.
– Dunque abbiamo trascorso pochi giorni assieme, ma
intensissimi ed emozionanti e ho capito quanta sofferenza ha
prodotto in questa terra sfortunata la corruzione ed il degrado
politico. Speriamo che il futuro riservi per tutta l’Italia tempi
migliori, ma ci credo poco. In tutti i modi devo avvisarti di alcune cose, per cui ascoltami con attenzione. Sul G.P.S. ho segnato le coordinate del tuo covo, perché le devo consegnare
all’ufficiale dei servizi che ti ha coinvolto in questa vicenda. –
– Ma perché …? –
– Perché loro faranno fuori l’Uomo-Fogna, ma hanno
bisogno di capri espiatori e nel caso l’attentato avverrà nella
parte più meridionale d’Italia o in Sicilia, farà loro comodo tirarti in ballo, per cui segui con attenzione le vicende e al momento opportuno sposta altrove il fucile e le altre cariche
esplosive che ti ho preparato. –
248
– Bell’affare … – Credo però che sarà ucciso al Nord, dove le occasioni
saranno molto più numerose. Filippo comunque ti pensa sempre con affetto e ti ha mandato questi documenti falsi, con la
tua foto … – Ma chi gliel’ha data? –
– Quel giorno a Santa Elisabetta, se ti ricordi, ha voluto
fotografare alcuni di noi, mentre le tue foto le ha eseguite in
casa, con lo sfondo neutro del muro imbiancato di fresco della
cucina. Ti ha fatto sedere e ti ha fatto mettere in posa. –
– Ma quanto è stato bravo …! –
– Nel caso dovesse capitare quanto ci auguriamo, per
qualche tempo, un anno scarso, vai all’estero. Ti basteranno le
20.000 euro che ti ha lasciato l’uomo dei servizi, se li userai
con una certa sagacia. Volevo aggiungere che ho notato quanti
giri tortuosi hai fatto quando ci siamo recati nella grotta e ti è
andata bene in quanto avevo dimenticato a casa il G.P.S., con
cui avrei potuto annotare le coordinate. Comunque hai fatto
male quel giorno a non prendere un po’ di soldi dal deposito
della ‘ndranghita. –
– Non ci pensare, così sono più tranquillo. –
– Ma cosa succederà quando se ne accorgeranno? –
– Penseranno che alcuni di loro hanno contribuito con
una somma minore. –
– E per l’esplosivo che manca? –
249
– Non ci faranno caso perché dal mucchio, notevole, tu
hai prelevato da 10 a 15 chili. –
Intanto percorrendo la statale verso Reggio arrivarono in un
punto dove si ammirava Pentidattilo in tutta la sua straordinaria
particolarità. –
– Che paese è quello? –
– Pentedattilo. –
– Potremmo visitarlo? –
– Il volo è fra tre ore ed un quarto e considerando che il
check-in si fa un’ora prima, abbiamo a disposizione un’ora e
mezza, per cui possiamo andare. –
Cominciarono a salire verso il paese e quando furono di fronte,
su un piccolo piazzale …–
– Ma è abbandonato …! –
– Da poco più di cinquant’anni. –
– Come mai? –
– Negli anni 50, la rupe che ci sovrasta, che è a forma di
mano con cinque enormi dita, da cui Pentedattilo, secondo
un’equipe d’ingegneri era sul punto di crollare, per cui in tempi
rapidi bisognava evacuare il paese, spostandolo per salvare da
morte sicura la sua gente e così a poche centinaia di metri nacque il nuovo e squallido Pentedattilo, da cui la gente è andata
via comunque. L’unica a rimanere nel posto dove si erge da
chissà quante centinaia di migliaia di anni è la rupe, mentre la
gente minacciata non c’è più, assieme al paese, che poco alla
250
volta scompare anche fisicamente in quanto i tetti crollati si
portano dietro anche i muri delle case. –
– Allucinante quanto racconti. È continuo, titanico, lo
sforzo degli apparati dello Stato tendente a distruggere l’Italia,
non solo del Sud, ma tutta ormai. Bisogna fare presto, è indispensabile fermare questa deriva, questo meccanismo infernale
che ha annientato il Sud, ma che ora sta divorando il Nord. È
come se tutta la classe dirigente o quasi di questo paese si sia
trasformato in un unico, smisurato Doctor Faustus, che ha venduto l’anima al diavolo, in cambio del successo e di soldi. Bisogna fare in fretta e cominciare con l’Uomo-Fogna, ma non
basta; è necessaria un’ecatombe catartica in parlamento. –
– L’abbiamo detto altre volte. Dobbiamo visitare ciò
che resta di un gioiello costruito pietra su pietra, per più di un
millennio e poi annientato in pochi decenni dal maglio
dell’ignominia? –
– Certamente. Vorrei andare fino in cima. –
– Non è possibile, possiamo arrivare al massimo nel posto dove era ubicato il castello, distrutto, mi pare, dal terremoto
del 1783. –
E s’inerpicarono passando attraverso i corpi in decomposizione delle case fino al sito del castello e s’affacciarono,
dalla cinta muraria orientata verso le montagne.
– Sarà stato grande ed era in bella posizione. I signori
godevano di una bella vista in sicurezza. –
251
– Non direi, in quanto in questo posto nel 600 si è consumata un’orribile tragedia, che vide protagonisti proprio i castellani. –
– Che cosa accadde? Raccontami.
– Nell’ultimo scorcio del XVII secolo era Signore di
Pentedattilo, il marchese Domenico Alberti felicemente sposato con donna Giovanna Vactoten e padre di numerosi figli.
Dominava a Montebello, il cui territorio era confinante con
quello di Pentedattilo il barone Bernardino Abenavoli, discendente di Ludovico, uno dei tredici cavalieri italiani, che si erano battuti con successo contro i tredici cavalieri francesi nella
celebre disfida di Barletta. Da sempre non correva buon sangue tra i signori dei rispettivi feudi, per motivi di confine. La
situazione si era rasserenata da quando il barone ebbe modo
di vedere la figlia del marchese, Antonietta, dotata di una bellezza divina. La splendida fanciulla occupò allora il cuore e la
mente del barone, che non lasciò indifferente la ragazza. I due
avevano modo di comunicare tramite la complicità clandestina
di una donna di Pentedattilo. Nel 1685 venne a morire il marchese e subentrò come titolare del feudo il figlio Lorenzo, che
aveva avuto la fortuna di fidanzarsi con la figlia del viceré di
Napoli, Caterina Cortez. Il matrimonio tra i due fu celebrato
nell’aprile del 1686 e la sposa arrivò da Napoli, accompagnata da un grande e sontuoso corteo, di cui faceva parte il padre,
la madre Agnese Velasquez ed il figlio, don Pedrillo Cortez,
che si ammalò dopo le nozze ed assieme alla madre dovette
252
prolungare il soggiorno nella dimora del cognato. Ebbe modo
a questo punto di conoscere la bellissima Antonietta e di innamorarsene, chiedendone la mano al fratello Lorenzo che acconsentì di buon grado.
Quando Bernardino Abenavoli seppe del progettato matrimonio, un terribile furore lo invase e meditò la vendetta.
Servendosi del tradimento di Giuseppe Scrufari, risentito contro il marchese, che non lo riteneva più degno della sua fiducia
come consigliere, la notte della domenica di Pasqua del 16
aprile 1686, servendosi di scale ed aiutato dal servitore infedele irruppe nel castello con numerosi armati e dirigendosi nella
camera nuziale degli sposi, colpì a morte con due archibugiate
Lorenzo e poi per assaporare ulteriormente la vendetta, affondò per 14 volte il suo pugnale nel corpo del morto, straziandolo e lasciandolo in un mare di sangue. Alle urla disperate della
sposa, accorse la madre del marchese, Maddalena Vactoten,
che fu trucidata. La caccia fu estesa alle altre stanze, da cui fu
prelevato il fratellino minore di Lorenzo, di 8 anni che in un
crescendo di orrore fu straziato, sbattuto con la testa su uno
sperone roccioso. Completò la strage della famiglia Alberti il
servitore infedele che uccise Anna, una fanciulla di sedici anni;
altre persone non appartenenti alla famiglia del marchese furono trucidate. Il barone risparmiò Antonietta, la sua amata,
don Pedrillo Cortez e la madre donna Agnese Velasquez, da
usare come ostaggi, contro l’intervento del viceré spagnolo. Il
19 aprile del 1686 Bernardino sposò a Montebello Antonietta.
253
La notizia della strage pervenne al governatore di Reggio, che
avvisò il viceré di Napoli, il quale prontamente mandò sette
galee con nove compagnie di fanteria spagnola. Le truppe irruppero nel castello di Montebello, liberarono don Pedrillo e
donna Agnese, ma non trovarono il barone e la marchesina
Antonietta, ma in compenso furono catturati sette responsabili
della strage, tra cui Giuseppe Scrufari. Essi furono decapitati e
le loro teste furono appese ai merli del castello di Pentedattilo,
mentre la testa del servitore infedele fu esposta sul posto dove
era stata uccisa la marchesina Anna. Il barone frattanto si era
rifugiato nel convento del Crocefisso sopra Reggio, ma delle
informazioni pervennero ai comandanti delle truppe, che ispezionarono il monastero senza trovare Bernardino. Egli infatti
era fuggito, rifugiandosi a Malta, ma prima di farlo, aveva accompagnato Antonietta in un convento. Il matrimonio nonostante l’orribile trauma a cui era stata sottoposta Antonietta
era stato consumato, in uno stato d’animo immaginabile da
parte della marchesina. Nel 1690 la Sacra Rota annullò il matrimonio perché era stato imposto con la violenza alla giovane
donna, che trascorse i suoi giorni fino alla morte, in un convento di clausura, rosa dal rimorso di essere stata la causa
della rovina della sua famiglia. Frattanto da Malta Bernardino
raggiunse Vienna, dove riuscì a convincere l’imperatore che la
condotta provocatoria di Lorenzino Alberti l’aveva indotto a
consumare quell’orribile strage. Per espiare la sua colpa chiese di poter partecipare ad operazioni di guerra contro i turchi,
254
che attaccavano sia per terra che per mare l’impero asburgico.
Fu arruolato con il grado di capitano nell’esercito austriaco
ed il 21 agosto del 1692 durante uno scontro navale contro i
turchi, morì colpito dall’esplosione di una palla di cannone.
Ancora oggi, nelle notti d’inverno, quando il vento ulula tra le
gole del monte Calvario, ai piedi del quale sorge Pentedattilo,
si odono i dolorosi lamenti di Lorenzo Alberti, mentre la rupe
sovrastante, si colora di vermiglio, assumendo le sembianti di
una mano insanguinata; quella diabolica di Bernardino Abenavoli. –
– Raccapriccianti le vicende che mi hai raccontato; andiamo non voglio più visitare il resto del villaggio, che mi
sembra pervaso dall’orrore. –
Non parlarono più e discesero lentamente verso la statale imboccando la direzione per Reggio.
Ad un certo punto l’attenzione di Teodoro fu attratta da
un’altissima ciminiera.
– Che è questo? –
– Agli inizi degli anni 70 si decise di costruire in questo
sito, che era in parte occupato da un piccolo bacino lacustre,
una fabbrica del settore chimico, fornito di porto, che avrebbe
dovuto produrre bioproteine. Si oppose ferocemente a questo
progetto l’ingegnere capo del Genio Civile, Romano mi pare si
chiamasse, che affermava che l’area prescelta era inidonea, in
quanto le correnti marine avrebbero reso inutilizzabile il porto
255
da
costruire,
con
l’aggravante
che
c’era
il
rischio
dell’abbassamento del terreno dove sarebbe stato costruito il
complesso. L’ingegnere fu ucciso in un incidente stradale simulato ed i lavori iniziarono, finalizzati solo al furto di capitali
pubblici. Terminati i lavori la fabbrica lavorò per pochi mesi e
poi fu chiusa, gli operai, messi in cassa integrazione, usufruirono di tale provvedimento fino a pochi anni addietro, mentre il
porto s’insabbiò. Furono sperperati all’epoca circa duecento
miliardi di lire e stanno spendendo altri per la demolizione;
frattanto, come aveva ipotizzato Romano, la sede stradale che
lambisce il complesso si è abbassata. La costruzione del porto
inoltre, ha provocato un disastro ambientale, per cui tutta la
spiaggia da Capo D’Armi a Pilati di Melito, è stata erosa dal
mare. –
Arrivati un po’ prima di Capo D’Armi Isidoro accostò
la macchina ed invitò Teodoro a scendere.
– Mi dimenticavo, guarda quel complesso vicino alla
riva sinistra di quel torrente. Dopo lo sperpero della Liquichimica, a pochi centinaia di metri, fu progettato un altro strumento per rubare soldi pubblici e divenne operativa la costruzione
delle Officine Grandi Riparazioni dove si sarebbero dovuti riparare i locomotori ed altri macchinari delle Ferrovie dello Stato. Appena furono completate, con grande utilizzo di fondi
pubblici, si disse che era antieconomico l’utilizzazione, per cui
furono chiuse dopo un breve periodo di attività. –
256
– Non ne posso più. Ma quanti esempi di spreco di pubblico denaro! Questo significa che siete irrecuperabili voialtri
meridionali! –
– Ma che dici! Le ruberie piuttosto sono state portate
avanti da plenipotenziari pubblici e da politici non certo del
luogo, che in nome dell’aiuto da dare al Sud, hanno gonfiato i
propri portafogli! Ricordati che quelli del sud hanno sempre
dato e mai hanno preso, se non batoste! –
– Cosa hanno dato? –
–Tutto! Sono stati sempre derubati! Dall’inizio
dell’unificazione fino ai tempi attuali! Ora è in atto la spoliazione dei cervelli del Sud, oltre che dei capitali. Non esiste più
una banca del Sud ed il risparmio dei meridionali è gestito dalle banche del Nord. I nostri soldi vanno nel centro-nord con
l’acquisto di appartamenti per i nostri figli laureati, fra l’altro
nelle migliori università d’Italia, quali quella di Bologna ad
esempio. Noi abbiamo dato a voi, piatti e banali la nostra genialità. –
– E quando? –
– Sempre! Anche alcuni vostri simboli li abbiamo creati
noi! –
– Quando e quali! –
– Il siciliano di Messina Filippo Juvarra, con la sua genialità ha impreziosito di grazia i monumenti più importanti del
tuo Piemonte progettando la basilica di Superga, la chiesa di
San Filippo Neri a Torino, la palazzina di caccia dei Savoia a
257
Stupinigi, aggiungendo alla reggia di Venaria reale la citroniera
e la scuderia grande, rifacendo la facciata e lo scalone di Palazzo Madama, creando armonia e bellezza, con il secondo piano
del Palazzo Reale a Torino. Inoltre il vostro Corriere della Sera
è stato fondato da Eugenio Torelli Violler, avellinese. –
– Ma che cazzo dici! –
– L’Alfa Romeo è stata fondata dall’ingegnere napoletano Vincenzo Romeo. –
– Ma che cazzo dici! –
– Scommettiamo? –
– Certo. I miei coglioni contro un euro da parte tua! – E diventerai eunuco! –
Presi dalla passione non svoltarono verso l’aeroporto e
dovettero trovare un’uscita successiva e tornare indietro, per
cui smisero di rinfocolare il dibattito campanilista, portato
avanti con tanta passione per giunta da due ex militanti del
P.C.I.
– Dunque rimettiamo ordine nelle nostre idee., Isidoro,
lasciando da parte le polemiche. Dunque non è difficile eliminare l’Uomo-Fogna con un fucile di precisione, ma per salvare
l’Italia, bisogna incidere in profondità ed eliminare il male
oscuro che sta distruggendo il nostro paese. –
– E come? –
258
– Bisogna dare a quegli immondi porci una lezione durissima ed attaccarli durante un congresso oppure intervenire in
uno dei rami del parlamento. –
– Penso che la seconda opzione sia preferibile in quanto
colpirebbe un simbolo ormai del degrado. –
– Non solo, avrebbe un effetto destabilizzante e ci sarebbero reazioni a catena e verrebbero a cadere psicologicamente le resistenze di tutti i centri di potere e si aprirebbero degli scenari nuovi per la ripresa morale e civile della nostra martoriata nazione. –
– Ascolta, per fare alcune decine di morti, quanto esplosivo occorrerebbe? –
– Non conta il numero, ma la “qualità” dei morti. Basterebbero quattro, cinque chili di tritolo per uccidere quindici –
venti persone, ad esempio dentro il senato, se fosse ben posizionata la carica. Bisognerebbe scegliere però il personaggio, ti
ripeto. Per aumentare poi ed il numero dei morti sarebbe opportuno riprovare con una seconda carica, nel momento della
fuga dei superstiti verso la salvezza. Bisognerebbe studiare i
tempi e il posto di massimo affollamento. –
– Ho capito, sono da utilizzare almeno due cariche. –
– A te ho dato tre, di circa 4 kg ciascuna. –
– Ma come si usano quelli che mi hai consegnato? –
– Con molta cautela. Bisogna evitare urti violenti prima
che siano depositati nel posto prescelto. In seguito si possono
far deflagrare a distanza con i telecomandi. Ogni carica è cor-
259
redata di una specie di modalità d’uso e come hai potuto notare, è riposta in un contenitore. –
– Solo i servizi possono portare avanti il progetto. –
– Non è difficile per noi, ma le forze occulte, che hanno
dato il potere all’Uomo-Fogna, che pensano di eliminare, sono
terrorizzate dall’idea di destabilizzare troppo il sistema e stanno studiando un personaggio sostitutivo, puntando ad un modello blandamente bonapartista, orientato verso quello presidenziale, corroborato da alcuni contrappesi, per non scandalizzare l’opinione pubblica europea. Alcuni di loro pensano all’ex
presidente della Fiat che incontra ancora notevoli resistenze. –
Arrivarono all’aeroporto e Teodoro eseguì il check-in e
subito dopo continuarono a chiacchierare.
– Senti stai molto attento quando ti daranno il segnale
d’azione; tieniti lontano dal luogo indicato e fatti vedere in giro
nella tua zona, perché altrimenti potresti diventare un capro
espiatorio. –
– Va bene. –
– Mi dispiace per via di qualche incomprensione legata
alla diversa interpretazione della nostra storia. –
– Non ci pensare … –
– Penso invece al tesoro notevole della ndránghita che
abbiamo lasciato intatto o quasi, senza approfittarne. Sarebbe
conveniente ritornarci. –
– Daremmo troppo nell’occhio. –
– Comunque debbo andare. –
260
Teodoro ben presto scomparì alla vista, dopo essersi
avviato all’imbarco ed Isidoro non attese il decollo dell’aereo,
partendo subito dopo.
Alla fine di settembre e ai primi di ottobre, dopo una
breve pausa di bel tempo riprese a piovere con molta violenza
ed insolitamente persino le fiumare, ricaricate nelle falde profonde, cominciarono ad assumere le sembianze di corsi
d’acqua, ma limacciosi per via dell’humus e del terriccio superficiale eroso e poi trasportato dalla pioggia.
L’enorme quantità d’acqua caduta con violenza in pochi
giorni, produsse effetti devastanti specie nella Sicilia orientale,
con conseguenze tragiche per gli abitanti di quelle aree.
Ai primi d’ottobre sul telefonino speciale di Isidoro
giunse un messaggio preceduto dalla lettera A indicante azione,
corredato dalle coordinate geografiche con questo contenuto:
“Foetidus hircus apud fretum cras pabulabitur” (Il puzzolente
caprone domani si pascerà d’erba in riva allo Stretto).
Con l’aiuto del navigatore riuscì a stabilire il luogo più
cruciale per il visitatore, corrispondente al Duomo di Messina.
Nonostante l’avvertimento di Teodoro, qualche ora dopo aver
ricevuto il messaggio partì per la città dello Stretto e si recò in
un albergo vicino all’edificio religioso indicato dal messaggio e
richiese una camera con il balcone che desse verso la piazza e
gli fu risposto che da qualche giorno l’albergo era stato dato in
uso interamente alle forze dell’ordine. Infatti notò all’entrata la
261
presenza di giovani prestanti sulla trentina e ciò dimostrava che
l’area era già abbondantemente presidiata da forze della sicurezza. Notò che appena si diresse verso l’uscita, uno di loro si
avvicinò alla reception a chiedere qualcosa ed Isidoro si affrettò a girare l’angolo, di corsa, s’infilò in un negozio di frutta,
dove tergiversò a scegliere delle mele e vide in lontananza il
giovane guardare in giro. Perse un po’ di tempo e poi con cautela si diresse verso l’approdo degli aliscafi e fece in tempo a
salire su uno già pronto per la partenza. Nel primo pomeriggio
era già a casa.
Il giorno successivo non si allontanò dal paese dove
abitava e si fece vedere in giro ripetutamente, fermandosi in un
bar, dove dei suoi conoscenti giocavano a carte e fece finta di
essere interessato all’esito delle varie partite.
Contrariamente alle sue abitudini si mise a passeggiare sulla
strada principale ed incontrando degli amici li portò in un bar e
li costrinse a consumare il caffè. Attorno a mezzogiorno da un
centro abilitato spedì un fax.
Tranquillo ormai, per il resto della giornata sperò
nell’evento augurabile che non si verificò e si sorbì le immagini dell’Uomo-Fogna, che con il volto di circostanza, seguiva
nel Duomo della città dello Stretto, la messa officiata per le vittime di un disastro naturale.
Nei giorni successivi ritornò il bel tempo e si dedicò a
dei lavori agricoli nel suo campo di conservazione di vitigni
262
autoctoni, difendendosi dalle informazioni di carattere politico,
non comprando giornali e non guardando la televisione.
Nonostante ciò ogni tanto captava delle notizie, riferite
a scandali, a provvedimenti per evasori vecchi e nuovi, a tentativi di produrre delle leggi più favorevoli ai corrotti e alle varie
mafie d’Italia.
Questo tentativo di difesa persino dalle sozzure riferite,
lo portò a rinchiudersi a riccio nel suo mondo che stava diventando sempre più angusto. Si vietò di partecipare a conferenze
a cui era invitato e persino negò la sua collaborazione ad
un’associazione ambientalista romagnola, che cercava collaboratori sul territorio per fotografare e mettere in rete le numerosissime piante monumentali della Calabria meridionale.
In riferimento a quest’ultimo argomento era amareggiato per due casi capitati. In uno era stato protagonista un suo conoscente, che dopo aver distrutto un antico selciato, per rendere
più agevole una pista, aveva raggiunto una quercia plurisecolare, ripulita con fasce antincendio per alcuni anni, da lui assieme
al suo amico Paolo ora gravemente ammalato; tagliandola,
aveva ricavato trecento quintali di legna da ardere. L’altro caso
più recente si riferiva ad un gruppo di castagni millenari, piantati dai monaci basiliani, dal diametro di quasi tre metri tagliati
da alcuni carbonai dell’Aspromonte, grazie all’indifferenza
delle guardie forestali della caserma di pertinenza.
263
Il capro espiatorio cerca di organizzare un attentato
Intanto il tempo non si fermava, assieme alle vicende
umane, sempre più problematiche in Italia e nel mondo globalizzato, dove la delocalizzazione aveva favorito la Cina. In novembre andò in Toscana e poi in Lombardia, sempre più assediata dalle mafie di tutto il mondo e da Porta Garibaldi partì su
un treno regionale per Bergamo, dove avrebbe dovuto incontrare un suo ex alunno, che da circa un decennio faceva
l’imprenditore edile a Palma di Maiorca. Era per lui necessario
incontrarlo perché era imparentato con un commesso di Palazzo Madama, che si era messo in notevoli difficoltà in seguito al
matrimonio con una bella ragazza ucraina.
Il breve viaggio per Bergamo lo sbalordì in quanto non
poté neppure sedersi poiché le carrozze erano sudice a tal punto
che tutte le persone erano in piedi, mentre i servizi igienici non
erano agibili in quanto non era stata eseguita la pulizia da parte
dell’impresa addetta a tale compito. La gente sfiduciata neppure protestava ed un signore diede una notizia strana, che Isidoro
e gli altri considerarono una panzana.
– A breve – disse – su questa tratta fino a Milano, sarà
operativo un treno austro-tedesco, pulito, efficiente, veloce, dotato di tutte le comodità e sempre in perfetto orario. –
L’appuntamento con il suo ex alunno era fissato in un locale
della Mc Donald, poco distante dalla stazione ferroviaria, dove
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in una certa ora si sarebbero trovati, fingendo un incontro casuale.
Egli era appena di ritorno dalla Calabria, dove si era recato per la ricorrenza dei morti, a cui mancava ormai da parecchi anni.
Non lo vedeva da più di vent’anni da quando era andato
via spinto da qualche necessità ambientale, forse in Toscana
inizialmente e poi in Lombardia.
Si era trasferito assieme alle sue pale meccaniche, al
suo escavatore e a due camion adatti al trasporto degli inerti.
Isidoro non aveva saputo più niente di lui, ma un giorno in una
cittadina della Calabria incontrò la sorella, che si ricordò di lui
e lo salutò e cominciarono a conversare. Era accompagnata dalla moglie del fratello, una splendida donna di circa quarant’anni d’origine lucana, gentile e molto aperta.
Isidoro offrì loro una consumazione in un bar dove si
accomodarono. Conversando osservavano la gente passare e ad
un certo punto la loro attenzione fu attratta da un anziano che si
accompagnava, sorridente, ad una giovane badante dell’est europeo; le due donne facevano osservazioni sulla coppia e ad un
certo punto la moglie del suo ex alunno esternò la sua amarezza per la situazione incresciosa in cui s’era cacciato un suo cugino, sposando una giovane donna ucraina.
– Era stato fortunato, esordì, in quanto fa il commesso
al senato, dove era stato sistemato dal nostro grande benefattore, il politico per eccellenza della nostra terra, più di vent’anni
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fa. Era stato fidanzato con una ragazza del nostro paese, Barile,
ed era pronto a sposarsi quando in un incidente stradale la sua
promessa sposa morì assieme a sua sorella e a suo cognato. Fu
una tragedia immane e lui si prese l’incarico di allevare due nipotini rimasti orfani, un bambino ed una bambina, e fece ciò
con amore mantenendoli a scuola. Ora sono all’università ed il
ragazzo è vicino a laurearsi in ingegneria elettronica, mentre la
ragazza frequenta un corso di laurea in medicina. Assorbito dal
suo compito non pensò mai a formarsi una sua famiglia, fino a
quando non ebbe la sfortuna d’incontrare una ragazza dell’est
europeo, presentatagli da un senatore della Campania. Ebbe
modo di conoscerla nello studio del politico, che faceva
l’avvocato e restò folgorato dalla sua bellezza; gli ricordava
molto la sua promessa sposa, morta tragicamente, con la differenza che era più alta. Egli era ormai vicino ai cinquant’anni
mentre la ragazza era di poco al di sopra dei trenta. Il senatore
comprese l’interesse del suo conoscente, che considerava un
subalterno in servizio permanente ai suoi voleri. Infatti lo utilizzava anche per i piccoli compiti esterni alla sua funzione a
Palazzo Madama. Egli ne abusava talvolta, dato ch’era molto
potente dentro al senato e vicino agli interessi del capo del governo. Fece le presentazioni e la ragazza guardò con un certo
interesse il soggetto, dato ch’era giovanile, dal volto bello,
molto alto, superava il metro e novanta, dal fisico asciutto e
scattante. Il politico era parecchio più basso, robusto, di qualche anno più giovane, sposato con due figli ventenni, ad una
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donna sulla quarantina ancora bella, ma che certamente non
reggeva il confronto con la ragazza che fungeva da segretaria,
coadiuvante quella vera ch’era professionale, ma ormai sfiorita.
In seguito mio cugino, che si chiama Antonio, conobbe a sua
spese la vera natura dell’aiuto che ella dava al politico; infatti
era l’amante che il senatore cercava di ben sistemare, però con
un uomo buono, ma non di carattere, che egli avrebbe potuto
dominare in un rapporto a tre. La ragazza aveva i capelli nerissimi e gli occhi verdi come l’erba della steppa a maggio, era
alta, dal corpo perfetto, prosperosa ma non in modo esagerato.
Aveva la pelle candida ed un sorriso smagliante ed era ucraina
di un villaggio della Crimea, vicino al mare. Ella manifestò una
certa simpatia per Antonio e grazie all’appoggio del politico
cominciarono a frequentarsi. Mio cugino ben presto si innamorò, mentre l’ucraina evidenziava una certa attenzione, ma mai
ricambiò con la stessa intensità i sentimenti del suo spasimante. Viveva ancora mia zia, la madre di Antonio, che lo sconsigliò d’imbarcarsi in una relazione squilibrata per via dell’età di
entrambi. Inoltre la sensibilità materna aveva ravvisato nella
ragazza un animo infido che avrebbe potuto arrecare dispiaceri
al figlio. Aggiungeva che c’erano decine di buone e sicure opportunità matrimoniali nel nostro paese e che inoltre bisognava
ancora vegliare sui nipoti orfani che ancora avevano bisogno di
lui. Egli promise di essere cauto ed aggiunse che mai e poi mai
avrebbe smesso di essere vicino in tutti i sensi ai nipoti. Dietro
insistenza del senatore in poco tempo si sposarono e scelsero la
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comunione dei beni. La donna, che appagava pienamente il
marito sul piano fisico, recitava da moglie affettuosa e premurosa, mentre contemporaneamente continuava a frequentare lo
studio del senatore in qualità di “segretaria”. Antonio colmava
di regali costosi la moglie, che inoltre l’aveva facilmente convinto a mandare ai parenti in Ucraina ogni mese dei soldi, in
quanto versavano in condizioni economiche disagiate. Contemporaneamente cominciò a finanziare con meno generosità
gli studi dei nipoti e ciò turbò moltissimo la vecchia madre che
vide materializzarsi le sue fosche previsioni. Antonio vent’anni
prima aveva comprato a prezzi convenientissimi da due anziani
coniugi un appartamento ampio e comodo, in via Franco Bortoloni, con vista sul parco archeologico della Caffarella. Era comodissimo in quanto era vicino alla stazione metropolitana dei
Colli Albani, mentre il traffico automobilistico che vi scorreva
non era molto intenso. Dopo appena cinque mesi dal matrimonio, l’ucraina che si chiama Svetlana, cominciò a proporre al
marito la vendita della loro casa in quanto il senatore aveva
trovato una vera occasione in corso Vittorio Emanuele II, vicino allo studio del politico e contemporaneamente non distante
da Piazza Navona. Andarono a vedere la casa in vendita, di circa 80 metri quadri, contro i 120 della sua, mal divisa e poco
funzionale, dal costo esorbitante, per via della vicinanza alla
celebre piazza. Obiettò che la sua era senza dubbio di gran lunga migliore, ma la donna non volle sentire ragione e tanto strepitò che alla fine fu costretto a svendere la sua e predisporsi a
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comprare l’altra, ricorrendo ad un forte mutuo, di oltre 130.000
euro che gli fu accordato da una banca, dato il suo buon trattamento economico. Quando lo seppe la madre per il dolore si
ammalò e quando il figlio le si presentò in ginocchio davanti al
suo letto di morte, di fronte ai suoi nipoti orfani e ai figli del
fratello, ebbe la forza di maledirlo e di chiedere ai nipoti di non
accettarlo ai suoi funerali; e spirò rimanendo con gli occhi
sbarrati su di lui. Egli cercò di avvicinarsi alla salma, ma i miei
cugini lo allontanarono con fermezza e l’invitarono a lasciare
la casa. Gli impegni finanziari per 15 anni furono sottoscritti
solamente da lui, mentre la moglie risultò intestataria di metà
dell’appartamento, che assorbì anche i risparmi del povero Antonio. I nipoti con atto di compravendita, voluta dalla vecchia
congiunta, ereditarono la casa della nonna e per potersi mantenere agli studi la vendettero a parenti, che s’impegnarono a
permetterne loro l’uso per alcuni anni. Divenuta comproprietaria della casa in via Vittorio Emanuele, Svetlana non volle avere più rapporti con lui, che un giorno tentò di forzare la sua volontà, provocando l’intervento del senatore, che lo schiaffeggiò. La reazione di Antonio fu violenta, per cui il politico risultò pestato a sangue e per 15 giorni non si recò a Palazzo Madama. E la risposta del senatore fu violentissima, in quanto fece
picchiare selvaggiamente il poveraccio, più di una volta, da una
banda di camorristi della Campania settentrionale. Il politico
promise che l’avrebbe fatto uccidere, però solo dopo la vendita
della casa da poco comprata, di cui metà apparteneva per legge
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a Svetlana, che nel frattempo era andata a vivere in un mini appartamento, a Montesacro, a spese del senatore. Durante
un’assenza di Antonio la casa fu letteralmente devastata: fu rovinato l’impianto elettrico, distrutti i sanitari, danneggiati i mobili, rotti i piatti, i bicchieri, in altri termini niente rimase integro nella casa che risultò inabitabile. Lo sconforto più totale
s’impadronì di lui, che cominciò a vivere come un incubo la
sua vita, privo ormai degli affetti che l’avevano tanto gratificato. Dovette affittare una casetta nei pressi di largo Boccea, per
cui cominciò a pagare 800 euro mensili; ormai la sua vita era
diventata un inferno, e più di una volta meditò il suicidio.
Un giorno incontrò per caso la moglie del politico, che gli raccontò della relazione ormai non più clandestina del marito, per
cui ella s’era decisa alla separazione, spinta anche dai figli
amareggiati dall’atteggiamento del padre. L’amarezza della signora, che volle sapere come aveva fatto a conoscere l’amante
del marito lo sollevò un po’ e cominciò a nutrire nei confronti
dell’uomo che gli aveva procurato tanto male un odio inestinguibile e cominciò a meditare vendetta. Per celare i suoi sentimenti chiese scusa al politico, che rimase sulle sue, ma che poco alla volta cambiò atteggiamento, in cambio di un continuo
sfottò di fronte a chicchessia, basato sul concetto del supporto
affettivo che gli dava . Un giorno persino il capo del governo si
rivolse al senatore definendolo aiutante generoso di una donna
afflitta e di un marito incapace di copulare. Tale intervento
procurò le risate scimmiesche di una parte dei senatori della
270
sua parte politica ed atteggiamenti di disgusto da parte dei suoi
oppositori. Il senatore umiliava in continuazione Antonio
commissionandogli delle incombenze servili ed apostrofandolo
con nomignoli svariati. Egli sopportava con pazienza ogni affronto, per poter coronare il suo sogno ossessivo di vendetta.
Studiava piani di eliminazione fisica continuamente ed ipotizzava scenari truci. Un giorno il senatore gli comunicò che Svetlana aveva deciso di vendere la casa e gli chiese la disponibilità
di fare altrettanto per la sua parte. In questi giorni appunto, si è
recato in Lombardia a chiedere consigli a mio marito. –
Smise di parlare la donna e questo racconto stimolò la
fantasia d’Isidoro, che chiese alle due signore di poter parlare
al telefono con il loro congiunto.
Le due acconsentirono e favorirono immediatamente il contatto.
Damiano, il suo ex alunno, fu felice di sentirlo e disponibile ad incontrarlo, quando gli fosse capitata l’occasione di
andare in Lombardia.
E l’occasione la preparò, inventando una visita medica
urgente e dopo tre giorni si ritrovò a Milano.
Isidoro dunque giunse al Mc Donald di Bergamo,vicino alla
stazione ferroviaria, e si apprestò ad una consumazione al piano terra, quando entrò il suo ex alunno che riconobbe, nonostante fosse passato tanto tempo.
271
Cominciarono a parlare del più e del meno e seppe che
Damiano aveva smesso di lavorare a Palma di Maiorca in
quanto il mercato immobiliare non tirava più. Infatti s’era deciso di ritornare in Italia, lasciando il compito ad un’agenzia di
vendere circa 40 alloggi per uso turistico.
Egli grazie ad alcuni amici calabresi, a breve avrebbe
iniziato a lavorare con i suoi mezzi all’Expo 2015 e ciò lo rendeva tranquillo in quanto aveva necessità anche lui di guadagnare.
Ad un certo punto Isidoro portò il discorso su quanto
aveva appreso, fingendo afflizione per Antonio ed il suo interlocutore gli rivelò che era disperato, pronto a qualsiasi cosa.
Uscirono fuori e camminando gli disse che addirittura andava
alla ricerca di un sicario, per cui avrebbe pagato anche il ricavato della sua parte della casa che prima o poi bisognava mettere in vendita. Si era recato in Lombardia perché gli si trovasse un killer, ma Damiano pensava che fosse difficilmente realizzabile l’eliminazione a Roma ed impossibile in Campania,
dato che il senatore era protetto da una falange di camorristi.
Isidoro espresse il desiderio di conoscerlo e Damiano li mise
telefonicamente in relazione e preparò per loro un incontro per
la stessa serata, in quanto Antonio all’indomani sarebbe partito
per Roma.
Egli non sarebbe stato con loro perchè impegnato in
una cena di lavoro con degli amici calabresi a Corsico, dove
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avrebbero deciso la spartizione di alcuni subappalti per l’Expo
2015.
L’incontro avvenne nella stazione ferroviaria di Rho,
nei pressi della quale Isidoro aveva l’uso di un appartamento
di un congiunto momentaneamente assente. I due dopo aver
consumato delle bibite in un bar, andarono alla ricerca di un
luogo isolato per poter parlare e cominciarono a camminare
lentamente su una strada sopraelevata che da Rho porta in direzione di Cornaredo.
Antonio era ansioso e depresso, ma risultò all’altro il soggetto
adatto a portare avanti un progetto eventualmente auspicabile
per ambedue.
Egli evidenziò la sua repulsione per tutta la classe politica ed espresse sentimenti profondi di disprezzo e di odio per
il presidente, volgare, disonesto, spregiudicato, megalomane,
che per apparire si circonda di uomini mediocri, di nessun valore, capace di qualsiasi nefandezza, pur di mantenere i propri
privilegi ed il proprio smisurato potere.
Isidoro ascoltava ed osservava l’altro guardandolo attentamente
nel corpo e nel volto. Gli appariva molto bello, altissimo, snello ma forte, dai capelli castani fluenti, dagli occhi azzurri, dalla
pelle chiara. Somigliava un po’ ad Alain Delon e si meravigliava come l’ucraina l’avesse tradito, lasciato, vilipeso, preferendo l’altro.
Evidentemente ella cercava unicamente di realizzare un
suo progetto che era quello di fare soldi.
273
– Perché ha voluto conoscermi? –
– Mi hanno interessato le sue vicende, io odio forse più
di lei il presidente, che amo chiamare l’Uomo-Fogna. –
– E che risultato vuole ottenere dalla mia eventuale
amicizia o collaborazione? –
– Dipende da lei. –
– Intanto cosa vuole da me? –
– Parliamo prima, così ci possiamo conoscere un
po’. Dunque sono stato l’insegnante di lettere di suo cugino
Damiano …. –
– Anche io sono laureato in lettere, in lettere
classiche per la precisione. –
– Strano caso. Anch’io sono laureato in lettere
classiche. Ma come mai lei fa il commesso al senato e non
l’insegnante? –
– Ero sul punto di laurearmi quando morì mio
padre, mi mancava solo qualche materia e stavo lavorando sulla tesi in storia greca, su un argomento della mia terra, sulla
tematica della “ubris”, riferita alla distruzione di Siri e a quella
di Sibari, che aveva collaborato alla rovina della prima. –
– Bellissimo l’argomento. Anch’io all’epoca ho
lavorato per la tesi, su un argomento di storia greca, riferito ad
un’opera attribuita falsamente, a Scilace di Carianda, un condottiero della Caria, che venne in esilio in occidente dopo che
la sua patria fu occupata dai persiani. –
274
– Ho letto anch’io lo Pseudo Scilace, in quanto
avevo analizzato il contenuto etnografico da mettere a confronto, per la mia tesi, con i popoli che abitavano l’Italia meridionale tra l’ VIII e il VII secolo a.C. –
– Abbiamo dunque un interesse comune per la storia
antica. –
– A quanto pare … Ma torniamo a noi. Mi racconti del
motivo vero per cui è venuto a trovarmi. –
– Non ha risposto per quale motivo non ha fatto
l’insegnante … – Dunque quando morì mio padre, il nostro politico per
eccellenza e benefattore della nostra terra, venne a casa per farci le condoglianze, data l’amicizia che lo legava al mio genitore e restò impressionato positivamente della mia prestanza fisica e della mia preparazione culturale e m’invitò a prendere parte ad un concorso che superai. Io consideravo tale lavoro provvisorio, ma data la buona retribuzione alla fine rimasi a fare definitivamente il lavoro che consideravo transitorio, anche se
ugualmente conseguii la laurea da lì a poco. Ritorniamo ora sul
primo argomento la prego. Cosa vuole da me? –
– Senta, che considerazione ha dei politici italiani? –
– Guardi, salvo rare eccezioni, rappresentano la feccia
d’Italia, sono in assoluto i peggiori cittadini della nostra nazione e che pensano senza alcuna remora a rubare e a portare a
termine progetti infami. –
275
– C’è differenza tra i due schieramenti, secondo il suo
punto di vista? –
– Guardi, quello del presidente è espressione della sua
personalità in quanto, data l’impossibilità di scegliere con le
preferenze, cura nei minimi particolari la cernita dei suoi candidati ed opta per i più meschini, per i corrotti, per i servi, che
poi saranno, anima e corpo, acquiescenti alla sua volontà.
Quelli del centro-sinistra spiccano per inettitudine e pusillanimità e sono espressione di un debole apparato di partito, pronto
a scomparire; sono nel complesso più dignitosi. –
– Odia qualcuno in particolare? –
– È una domanda retorica la sua, in quanto è stato informato da mia cugina. –
– Per intensità di odio o di un sentimento consimile, chi
è secondo nella sua graduatoria? –
– Ovviamente l’Uomo-Fogna, come lei lo chiama. Per
cortesia vada al dunque e la smetta con queste domande insulse, a questo punto. –
– Guardi sono stato contattato da un uomo dei servizi, il
quale mi ha confidato che pensano di eliminare il male assoluto
che sta inabissando l’Italia in un mare di vergogna, di sperpero
di pubblici denari, di inefficienza e corruzione. Essi sono
d’accordo con la massoneria, che fino al momento l’ha sorretto; gli resta al momento in parte l’appoggio della chiesa, retta
formalmente da un papa senza carisma , alla mercé di un gruppo di individui senza scrupoli, che pensa solo al contingente,
276
delimitando con operazioni alla K.G.B., gli spiriti onesti che la
sorreggono. Sono stato dotato di un fucile ad altissima precisione e di una piccola somma di denaro, ma mi è venuto in
soccorso il potere del caso ed ora dispongo di una somma notevolissima derivante da una potentissima organizzazione e la
metto a disposizione per un progetto che miri a dare una lezione alla squallida classe politica, all’insaputa dell’uomo dei servizi. –
– Guardi su due piedi, non le posso dare la mia disponibilità ma non l’escludo per il futuro. Mi lasci il suo indirizzo e
così in anonimato potrei eventualmente comunicare con lei. –
– Va bene, ma a questo punto le faccio dono di un telefono cellulare, intestato non so a chi, con cui senza pericolo,
potrebbe mandare dei messaggi a questo numero, il cui intestatario non sono io. Sono stato dotato di questi apparecchi dagli
uomini dei servizi. –
– Va bene prendo il portatile. –
– La prego di non usarlo per altri scopi e di non comunicare con esso, perché in questo caso esso risulterà bruciato,
ossia inutilizzabile. –
– Stia tranquillo. –
Continuarono la conversazione camminando fino a
Cornaredo, dove presero un caffè in un bar frequentato in prevalenza da calabresi e poi ritornarono indietro ed arrivati sulla
piazza prospiciente la stazione di Rho si salutarono.
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Isidoro sulla via del ritorno in Calabria si fermò per alcuni
giorni a Roma, ospite della sua amica Elia in via Azone, vicino
Largo Boccea. Si alzava prestissimo e poi si faceva condurre
da un taxi in via degli Astalli nella chiesa del Gesù dove già alle sette confessava ad un giovane prete orribili peccati mai
commessi. Alla fine della confessione consegnava al ministro
di Dio cento euro in una busta.
All’indomani rivelava altri peccati dimenticati il giorno
prima e poi dava l’obolo aspettato con ansia.
A piedi percorreva l’ultimo tratto di corso Vittorio, via del Plebiscito, raggiungeva talvolta Piazza Venezia e studiava la posizione di due alberghi della zona. Dalla sua analisi emergeva
che non c’era la possibilità nell’area di portare a termine, né
con il fucile di precisione né con l’esplosivo un attentato.
Espletata tale indagine, ritornò in Calabria, dedicandosi in modo rituale alla coltivazione di due campi.
Rigorosamente non guardava la televisione e solo saltuariamente comprava dei giornali per tenersi informato a
grandi linee sulle vicende politiche nazionali ed internazionali.
Passarono novembre e dicembre e non ci furono novità. Solo
alla fine di gennaio ebbe due messaggi nel telefonino speciale,
ambedue preceduti dalle coordinate geografiche e dalla lettera
A, indicante azione.
Le coordinate riconducevano a due località improponibili, da non prendere assolutamente in considerazione. A metà
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febbraio ebbe un messaggio sul telefonino particolare di Antonio, il commesso di Palazzo Madama, che l’invitava per un incontro a Scalea, che dista non molto dal confine con la Basilicata.
L’incontro era stato deciso per le 10 di un mattino che
si prevedeva freddo, ma sereno. Per raggiungere la località
puntualmente, Isidoro partì alle cinque e trovò la strada libera
del tutto di traffico, ma la distanza era notevole, per cui arrivò a
destinazione solo con mezz’ora di anticipo.
S’incontrarono in un bar a ridosso della stazione ferroviaria e
subito entrarono nel vivo della conversazione.
– Ho impiegato tanto tempo a farmi sentire, in quanto
ho voluto raccogliere delle informazioni su di lei, che sono risultate positive. A convincermi è stato determinante un suo
compaesano che vive ormai da molto tempo a Scalea. Qui ho
una casettina che uso per l’estate, vicina a quella del signore in
questione e alla fine di gennaio ci trovammo assieme e ad un
certo punto la conversazione fu incentrata su di lei, che avevo
incontrato a Milano. Quando gli feci il suo nome e quello del
suo paese egli per tutta risposta prese dalla sua biblioteca due
testi e m’invitò a leggere il nome dell’autore che risultò essere
lei. Lessi la sua dedica e capii che vi conoscevate. A questo
punto mi rivelò che lei è un idealista, ossessionato dall’amore
per la verità, onestà, giustizia, per una patria che non esiste più,
vilipesa e distrutta da una classe politica stracciona, la più ladra
d’Europa, sorretta da cittadini sempre più squallidi e più ac-
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quiescenti ai potenti di turno. Lessi poi la presentazione dei libri di cui risultava autore e capii che potevo fidarmi e sono qui
a sua disposizione, se posso essere utile. –
– È indispensabile. Come ha risolto i suoi problemi? – Mi hanno sottoposto a pestaggi altre due volte, per
costringermi a mettere in vendita la casa, per poi dare almeno
la metà del ricavato all’ucraina. Tento però di resistere in quanto il senatore ha programmato il mio assassinio dopo la vendita. Questo l’ho saputo dal marito di mia cugina, l’ex alunno
suo, che come ha potuto capire è organico alla ndranghita calabrese. In aggiunta mi hanno fatto sapere che se oso fare denuncia uccideranno i miei nipoti. L’unica alternativa è quella di
uccidere quel verme. Inoltre sono oberato dai debiti con le banche ed avrei bisogno urgente di una somma al momento di circa 100.000 euro. –
– Senta Antonio non deve pensare ai soldi, che sono
l’ultima cosa. –
– L’ultima cosa, ma ora ho bisogno di soldi … sono disperato … Ed il poveretto si mise a singhiozzare come un bambino.
– Antonio, per cortesia, non è dignitoso da parte sua
comportarsi così. I soldi li avrà perché glieli darò io, a partire
da domani. –
– E lei me li darà in cambio di che? –
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– In cambio di niente, anzi io l’aiuterò inoltre a consumare la sua vendetta, necessaria per la sua incolumità. –
– Non capisco perché mi vuole aiutare. –
– Io l’aiuterò perché odio i politici, come già le dissi a
Rho ed il suo nemico è un politico. –
– Ho capito, se per questo io li odio più di lei perché ci
vivo assieme. –
– Ed allora assieme faremo fuori più di uno, con il senatore. È contento? – Non vedo l’ora … ma come? –
– Guardi, volendo posso avere a disposizione dei finanziamenti per un attentato ad un politico o a più politici da parte
di un’organizzazione che vedrebbe di buon’occhio qualcosa di
questo tipo per iniziare a liberare l’Italia dalla feccia. –
– Ma ci vorrebbe un attentato con esplosivo ad uno dei
due rami del parlamento, per poter raggiungere lo scopo. –
– Se questo è il suo pensiero io la posso aiutare a tradurlo in
azione. –
– Ma come? –
– Non corra e cominci a pensare ad un progetto, al resto
ci penso io, ossia ai finanziamenti e a tutto ciò che occorre. –
– Guardi lei sta promettendo con troppa facilità cose a
cui io stento a credere e prima di continuare su questi temi mi
dia una prova che lei non dice solo chiacchiere. –
281
– Va bene, ho capito, io adesso farò subito ritorno a casa e stanotte ripartirò per questo posto con i soldi promessi.
Quanto le serve? –
– Le ho detto prima almeno 100.000 euro. E poi i miei
nipoti, nonostante abbiamo venduto la nostra casa avrebbero
necessità di una certa somma di denaro per essere tranquilli e
concludere i loro studi. –
– Ho capito, va bene una somma di 150.000 euro? –
– Va bene. Ma come me li darà? –
– In contanti. –
– Sicuro che non sono falsi? –
– Guardi domattina prima dell’apertura delle banche
cercherò di essere qua e così lei con somme inferiori a 5000 euro, anche se di poco, per evitare accertamenti di polizia, si presenterà agli sportelli bancari e trasformerà in assegni circolari
intestati a lei i soldi che io le darò e così facendo verificherà se
sono falsi o meno. Naturalmente in ogni banca lei si potrà far
intestare un solo assegno, per cui dovremmo girare da un paese
all’altro. Nel tempo che avremo a disposizione potremmo fare
le operazioni in cinque o sei banche. Ciò però le servirà per fugare i sospetti, mentre poi continuerà tale procedura a Roma
in banche diverse ed in giorni diversi, per evitare le ripeto, accertamenti di polizia. Ora ci lasciamo in quanto deve ripercorrere più di 250 km. –
– A domani dunque. –
282
Isidoro arrivò a casa sul pomeriggio inoltrato e dopo
aver mangiato velocemente si recò nella sua piccola cantina,
dove aveva nascosto la somma di denaro rubata alla ndranghita. In un angolo buio, aveva scavato una buca ed interrato il
borsone, poggiando sopra un vecchio armadio. Al tempo del
furto, per alcuni giorni, aveva provato una forte emozione
quando si trovava vicino a quella quantità notevole di soldi, ma
una notte ebbe un incubo terribile, che gli fece provare disprezzo per quel tesoro. Sognò infatti che si trovava nel luogo sopra
accennato per effettuare il travaso del vino, quando in un angolo si udirono pianti infiniti di giovani che lamentavano le sofferenze patite per via della droga. All’improvviso dal posto dove
era nascosto il borsone cominciò ad emergere un rivolo di sangue accompagnato dai lamenti, che cominciò a lambire Isidoro.
Dal sangue che gli bagnava i piedi si alzavano gridi disperati
misti a sospiri e poi il rivolo raggiunse l’uscio e cominciò a
scorrere su una stradina antistante.
Anche all’esterno, dal sangue si levavano lamenti ancora più forti e all’improvviso da esso emerse una schiera di giovani emaciati, che puntarono il dito contro Isidoro gridando:
“la sete di denaro si nutrisce del nostro corpo!” A questo punto
si svegliò dall’incubo e si ritrovò madido di sudore.
Il giorno successivo pensò di distruggere il denaro, ma dopo,
riflettendo, decise di risparmiarlo per usarlo in modo utile a favore di altri o per una giusta causa. Non utilizzò per fini personali neppure un centesimo e tutti i giorni si portava appresso
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una scorta di monete da due euro e li dava a tutti coloro che ne
richiedevano.
Infatti aveva fretta di sbarazzarsi di quel mostruoso
coacervo di peccati e quando andava in quel posto a prendere
qualche bottiglia di vino, immediatamente si sentiva sporco in
tutto il suo essere.
Prelevò dal nascondiglio in cantina 150.000 euro, sistemandoli in un suo vecchio borsello che ripose poi sotto il
sedile della vecchia macchina e rientrò a casa.
Poco prima delle quattro di un mattino freddissimo, ma sereno
si ritrovò in viaggio e alle 8 fu a Scalea.
Incontrò Antonio e cominciarono le operazioni, usando banche
diverse, in paesi diversi, puntando sempre verso la stessa direzione, che in quel caso era il sud.
Conclusero la riconversione in assegni a Paola, durante
la breve apertura pomeridiana e alla fine furono capaci di convertire in assegni circolari circa 50.000 euro.
Antonio era ormai sereno e a partire dalle undici cominciò a
raccontare barzellette, di cui alcune apprese dall’Uomo-Fogna.
Isidoro consigliò ancora Antonio di usare solo i contanti che gli
aveva dato, risparmiando il suo conto in banca. Chiese inoltre
quanto di quella somma avrebbe destinato ai nipoti ed Antonio
gli rivelò che nella stessa giornata avrebbe loro consegnato
45.000 euro.
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Gli chiese inoltre se desiderasse riscattare la casa dei
genitori ed Antonio rispose negativamente in quanto i ragazzi
semmai avrebbero avuto bisogno di una casa a Roma, anche se
piccola.
Isidoro promise un aiuto e a questo punto portò il discorso sul progetto “politico”.
– Dunque, come sta il senatore? –
– Lui bene e attualmente con quella poco di buono di
Svetlana si trova in Brasile, per cui sono tranquillo. –
– Ancora è dell’avviso di procedere verso una soluzione
radicale? –
– Sempre più convinto –
– Ha studiato un piano? –
– Due addirittura. Uno si pone degli obiettivi minimi,
con l’eliminazione dell’Uomo-Fogna e del senatore, in una località della costiera amalfitana, nella casa di villeggiatura del
politico campano, dove so per certo, trascorreranno un fine settimana in maggio. A cento metri dalla dimora estiva del senatore sorge un albergo dove noi ci potremmo recare e tentare
l’eliminazione dei due con un fucile di precisione. L’albergo
sovrasta la casa con la sua posizione dominante ed è immerso
in un parco selvaggio, disponibile all’uso dei clienti e da un anfratto roccioso, sommerso dalla macchia mediterranea, si ha
sotto tiro la casa del senatore, che si affaccia in una piccola cala non servita da strada. A 200 metri dall’albergo, verso l’alto
si snoda una strada utile per una veloce via di fuga verso
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un’altra a scorrimento veloce. In alternativa alla soluzione
dell’albergo c’è quella di una villetta, circondata da un boschetto di allori e di corbezzoli, più vicina alla strada, distante meno
di 200 metri dalla villa del senatore, in posizione prospiciente
l’altana, dove il politico suole consumare i pasti. –
– Io credo che sia preferibile la villetta. –
– Solo che l’affittano in nero per tutto l’anno e chiedono
15.000 euro. –
– Non ci sono problemi. –
– Senta dovrebbe trovare un fucile di precisione. –
– Sarà fatto quello che lei richiede. –
– Chi sparerà? –
– Lo farò io. –
– Ma su chi? Io preferirei il senatore. –
– Sarebbe un obiettivo minimo e non risolutore dei suoi
problemi. Eliminando invece l’Uomo-Fogna, il quadro politico
sarà destabilizzato dalle fondamenta, il suo senatore sarà raggiunto da un avviso di garanzia o da un mandato di cattura,
mentre contemporaneamente sarà varato un governo tecnico di
salvezza nazionale. –
– Forse ha ragione lei. –
– Questo è il progetto minimo e quello più ambizioso
quali percorsi prevede? –
– Apparentemente è quello più complicato, però credo
che sia più incisivo e più facilmente realizzabile. Infatti esso
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prevede la collocazione di un ordigno esplosivo da parte mia
dentro Palazzo Madama, facendolo poi esplodere a distanza. –
– Lei studi il piano perché per il resto penserò io. –
– Per il primo progetto bisognerebbe contattare a breve
il proprietario e fare al più presto un contratto in nero per tutto
l’anno. –
– Mi comunichi la data ed io verrò con l’occorrente entro 24 o 48 ore. –
– Allora è tutto a posto e a breve mi farò sentire. Adesso cosa vuole fare. Le posso offrire un pranzo? –
– No grazie, ho problemi di rientro e non voglio tardare.
Mi offrirà un caffè e poi ci lasceremo. –
E così avvenne e dopo mezz’ora Isidoro fu sulla via del
ritorno.
Trascorse febbraio e marzo e non ci furono novità, ma
all’inizio della seconda decade di aprile sul telefonino speciale
Isidoro ebbe un messaggio di Teodoro, con cui indicava la data
del suo arrivo, all’aeroporto di Reggio e l’ora con un volo del
mattino da Roma.
Fu puntuale l’aereo da cui scesero Teodoro e l’uomo
dei servizi, i quali dopo aver ritirato il bagaglio cercarono con
lo sguardo Isidoro, che andò loro incontro festante e li costrinse
riluttanti ad un bacio affettuoso.
Era andato a riceverli con la macchina della moglie, una
Punto nuova e ben tenuta, con cui, dopo una consumazione rituale al bar dell’aeroporto, partirono.
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– Tutto a posto? – Iniziò l’uomo dei servizi.
– Insomma. Io tiro avanti con la mia famiglia a stento,
dato che sono l’unico ad avere un reddito derivante da una pensione. In relazione alla situazione dell’Italia, lei la conosce meglio di me. Qui dalla metà degli anni 70 in poi la funzione di
governo l’assolve la ‘ndranghita. –
– Lo so. Ormai le mafie stanno governando tutta
l’Italia, con qualche rara eccezione. Ancora reggono il Trentino
Alto Adige e forse la Valle d’Aosta, dove è in atto
l’infiltrazione da alcuni anni. –
– Come sta il governo? –
– Si regge per mancanza di alternativa, ma gli scricchiolii si sentono ormai chiaramente. –
– Non si è fatto niente poi. –
– Non c’è più bisogno, perché persino l’interessato sa
che la sua fine politica è vicina, per cui si preoccupa di trovare
delle vie di fuga per buona parte dei suoi capitali, collocandoli
in paradisi fiscali,in Russia e in Bielorussia. Il problema sussiste per il dopo, quando deciderà di togliersi dai piedi,dopo che
il partito del Nord lo abbandonerà e si arriverà ad un governo
d’unità nazionale. –
– Meglio così. –
– Forse sì, ma i danni prodotti dal personaggio sono stati infiniti; ha fatto scempio dell’Italia, dove i corrotti ad ogni
livello hanno avuto il via libera ad operare, con la conseguente
prevaricazione degli onesti. –
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– Senti – irruppe Teodoro – il signore qui presente, è
diretto in Sicilia, mentre io resterò con te qualche giorno. Vuoi
accostare da qualche parte? Parleremo velocemente di qualcosa
e poi l’accompagneremo a prendere un aliscafo per Messina. –
– Dunque – riprese l’uomo dei servizi – la registrazione
che lei mi ha fatto, potrebbe cancellarla, se lei ha una sola? –
– Subito. Ho una sola, contenuta nel telefonino che mi
porto appresso. È sufficiente che lei controlli, poi tirerà fuori la
scheda e la distruggerà. –
– Se lei è d’accordo … – Assolutamente. –
Si fermarono in un bar, fecero l’operazione e subito dopo l’importante personaggio fu accompagnato a prendere un
aliscafo al porto di Reggio.
Questa volta presero la via del ritorno e non parlarono per un
po’.
– Dunque – ricominciò Teodoro – mi sono documentato
su quelle notizie storiche che ti contestavo ed avevi ragione tu.
La storia d’Italia è stata falsificata almeno per gli ultimi 150
anni. Comunque sia credo che questa Italia, basata sulla menzogna e sull’intrigo stia arrivando al capolinea, o si cambierà
oppure essa, come nazione cesserà di esistere. –
– Ma come si farà? –
– Tutto è in movimento e si sta tentando, contrariamente a quello che si è detto prima o di allontanarlo dal potere con
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le buone o sarà ucciso in una congiura di palazzo. Qualcuno dei
suoi “pretoriani” è d’accordo. Si preferisce la prima ipotesi. –
– Quanto tempo passerà? –
– Dipende dalla pressione finanziaria internazionale,
che sta tentando di destabilizzare l’area euro. Guidano
l’operazione rischiosissima i possessori di titoli di stato ma
fanno la loro parte anche singoli stati. Nel caso riuscisse
l’attacco all’Italia, in pochi giorni si arriverà ad un governo di
salute pubblica, con l’estromissione dell’Uomo-Fogna dal potere, con la possibilità del suo arresto e della sua eliminazione
fisica. –
– Quindi tutto si deciderà a breve? –
– Si dice entro l’anno. –
– Tu come stai, come mai da queste parti? –
– Sono venuto con il preciso compito di consegnare a te
il denaro rubato alla ‘ndranghita. –
– Come mai? –
– Quando arrivai a Torino, la sera stessa andai a cenare
in un ristorante lussuoso, pagando con quei soldi e la notte feci
indigestione. Giorni dopo feci la stessa cosa in un altro ristorante e all’indomani mi ritrovai ricoverato in ospedale per intossicazione alimentare. E la prima notte di ricovero in sogno
mi apparvero decine e decine di giovani che piangevano lacrime di sangue che cadendo per terra di trasformavano in un rivolo che si dirigeva verso di me e quando mi raggiunse si trasformò gradualmente in un grumo sempre più grande che im-
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prigionò poco alla volta il mio corpo e quando esso arrivò a livello della bocca mi svegliai. Da quel momento in poi non usai
più quei soldi, anzi ricomposi la somma con denari miei per
quello che avevo speso e ho portato tutto con me, pronto a consegnarlo a te. –
– Ed io che c’entro, non sono certo un affiliato alla
‘ndranghita e non avrei come spenderli se non a mio favore.
Dato però i presupposti, ossia l’ incubo a cui hai accennato,
non posso accettarli. –
– Allora non ci resta che andare a riporli dove li abbiamo presi. –
– Non è neppure proponibile ciò, in quanto firmeremmo
la nostra condanna a morte, nel caso fossimo sorpresi da quelle
parti. –
– Ed allora cosa mi consigli? –
– Consegna la somma alla Caritas, che di sicuro
l’accetterà. –
– L’organizzazione a cui hai accennato utilizza il 90 %
dei fondi destinati in Italia alle associazioni che operano senza
fini di lucro e successivamente partecipa anche al residuo 10%.
In altri termini si appropria di quasi tutti i fondi disponibili. –
– Ho capito, allora consegna i soldi ad Emergency di
Gino Strada. –
– Mi hai dato un’idea, Strada è una persona meravigliosa e farò ciò che mi hai suggerito. –
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– Ascolta io ti consegnerò la somma datami dall’uomo
dei servizi, a cui tu la girerai. –
– Lo farò. –
E poi il fucile – recitò Isidoro – che tu riconsegnerai. –
– Naturalmente lo porterò a tracolla sull’aereo. Fa di esso ciò che vorrai. Distruggilo, buttalo in mare. –
– Lo lascerò invece lì dov’è, tanto in pochi anni la ruggine lo renderà inutilizzabile. Senti e i telefonini ed i documenti falsi? –
– Tienili per il momento, possono essere utili nel caso
ci fosse ancora un cambiamento di programma. –
– Allora andiamo a casa mia? –
– Senti dato che riporterò indietro i soldi, per cui ero
venuto per consegnarteli, riportami all’aeroporto, da cui partirò
con il primo volo utile per Roma, Torino o Milano. –
Tornarono indietro, ma il primo volo per una delle tre
destinazioni fu nel primo pomeriggio e così ebbero modo di fare un’escursione sul territorio visitando il castello di S. Aniceto
e poi Motta S. Agata, che gratificarono moltissimo Teodoro.
Nel primo pomeriggio un aereo lo portò via ed Isidoro tornò a
casa, contrariato per non aver potuto restituire i soldi all’uomo
dei servizi. Si ripromise di andare appositamente a Torino, per
consegnarli a Teodoro, che aveva assentito a tale proposta.
Dopo qualche giorno il telefonino speciale di Antonio,
il commesso di Palazzo Madama, segnalò un appuntamento a
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Maratea, per l’affitto della villa per tutto l’anno sulla costiera
amalfitana; il costo sarebbe stato di 20.000 euro. L’incontro
avvenne alle ore 9 del 17 aprile, per cui ancora una volta Isidoro partì prestissimo, attorno alle tre con l’occorrente; portò con
sé anche i documenti falsi, di cui fece delle fotocopie. Il signore proponente l’affitto era un distinto pugliese sulla cinquantina
di Gioia del Colle, che ebbe la premura di portarsi dietro il titolo di proprietà. Viaggiarono su una potente BMW del proprietario della casa e imboccata l’autostrada raggiunsero ben presto
Vietri sul Mare e viaggiando sulla statale 163, dopo breve tempo furono nella villetta, non grande, graziosa, immersa in un
giardino all’inglese, costituito da essenze mediterranee. La casa
era prossima alla statale, da cui in poco tempo si sarebbe potuto
raggiungere l’A3. In un momento di distrazione del proprietario, Antonio indicò ad Isidoro la villa del politico, distante circa
duecento metri, con l’altana ben visibile dalla villetta proposta
in affitto. Era circondata da un muretto elegante in pietra a vista e costruita con sobrietà e buon gusto; era dotata di un grande giardino.
I due evidenziarono al pugliese il loro apprezzamento
per la casa ed in pochi minuti stilarono un contratto da non registrare e dopo il pagamento con banconote da 500 euro, sottoposte a verifica di autenticità tramite una macchinetta, avute
due copie di chiavi, partirono verso sud.
Percorsero in minor tempo il tragitto e ben presto furono a Maratea. Rimasti soli, Antonio espresse ad Isidoro la sua
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preoccupazione in quanto era stato picchiato ancora una volta.
Il pestaggio aveva avuto doppia funzione, quella di costringerlo
a svendere la casa e l’altra punitiva. Infatti il senatore, camorrista organico, non aveva mandato giù la reazione di Antonio che
aveva osato difendersi, picchiandolo al cospetto di persone.
Ciò costituiva un punto di forza per il progetto in quanto il commesso in modo disperato tendeva alla stessa finalità di
Isidoro, che promise all’altro, nel caso riuscisse l’attentato un
premio di un milione e duecento mila euro, come al solito in
contanti, offerti da un’organizzazione segreta che aveva a cuore la salvezza dell’Italia. Si lasciarono con l’augurio di rivedersi a maggio.
Ed in effetti il 19 maggio apparve un messaggio sul telefonino speciale che indicava per il 22 seguente un incontro di
lavoro tra il senatore e l’Uomo-Fogna, alle 21 di sera. Nella
stessa serata Isidoro fu in viaggio per Maratea, che raggiunse
alle 22. Si portava dietro 150.000 euro come anticipo del premio promesso ad Antonio, i documenti falsi ed il fucile di precisione, riposto nella custodia di uno strumento musicale. La
restante parte del tragitto la percorsero sull’automobile di Antonio, sul cui cruscotto campeggiava protettiva un’immagine di
S. Attanasio. All’una di notte erano già a letto. Trascorsero i
due giorni in casa, uscendo solo per fare la spesa e badando solo a cucinare e a studiare nei minimi particolari una fuga fulminea dopo l’attentato.
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Antonio ebbe la forte somma di denaro con la promessa
della parte restante a qualche giorno dall’evento ormai prossimo.
Arrivò l’ora tanto attesa e nessuno arrivò, furono svegli
tutta la notte in trepidazione, ma invano. Alle sette del mattino
del 23 s’addormentarono e quando si svegliarono, nel primo
pomeriggio, delusissimi andarono via.
Progettarono durante il viaggio il tentativo disperato
dell’uso dell’esplosivo, che Isidoro avrebbe dovuto procurare.
Antonio da tempo doveva portare al senatore in tre pacchetti
per Svetlana, una coppia di abat-jour in oro e cristallo che le
aveva regalato al principio del loro rapporto e un diadema in
filigrana d’oro bianco, impreziosito al centro da un turchese,
dono per l’agognato giorno del matrimonio. Li conservava gelosamente nella sua nuova casa, in ricordo degli intensissimi
sentimenti che aveva provato per la sposa infedele.
Al posto del diadema e di un abat-jour, avrebbe recato
doni dispensatori di morte e proponeva inoltre un tributo prezioso per l’Uomo-Fogna. Bisognava fare presto perché le pressioni che venivano esercitate su di lui erano diventate insopportabili e a breve avrebbe dovuto cedere e mettere in vendita la
casa. Dal canto suo avrebbe indicato la data della visita del presidente in senato, per cui il giorno prima Isidoro sarebbe partito
con le cose necessarie. Si lasciarono a Maratea ed ognuno prese la via di casa.
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Dopo qualche giorno fu comprato il dono prezioso per
l’Uomo-Fogna, creazione del grande orafo calabrese Gerardo
Sacco, costituito da un piccolo scettro in oro abbellito da bande
di smalto oblique, verdi ed azzurre; esso era sormontato da una
croce giustinianea, smaltata in rosso rubino. L’oggetto era contenuto da un cofanetto di cristallo, che l’evidenziava con la sua
trasparenza.
Nel frattempo Isidoro preparò in confezioni eleganti
due delle tre cariche esplosive, che sistemò in un borsone separandole tra loro da una quantità rilevante di lana di vetro e deponendole nella cantina.
Ogni giorno aspettava con trepidazione il segnale per
l’ultimo tentativo e si distraeva da qualsiasi altro pensiero o
dalle occupazioni solite, che di solito l’appagavano. Aveva
consultato varie volte gli orari dei treni per l’andata e quello
degli aerei per il ritorno. Sarebbe arrivato a Latina, dove avrebbe consegnato il tutto ad Antonio e poi in tempo utile sarebbe
stato accompagnato da un taxi a Fiumicino. Aveva contato le
ore, i minuti per sé e per l’altro, ma tutto gli sembrava molto
difficile, impossibile da attuarsi. I giorni erano interminabili,
come pure le ore ed i minuti che sembravano dilatarsi e non
passare mai.
Passò la prima decade di giugno ed allora Isidoro comprò una valigetta dove ripose i due telecomandi in altrettanti
contenitori rigidi e poi aggiunse 200.000 euro per Antonio. Il
tempo passava lentamente e nessun messaggio arrivava. Il 25
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di giugno arrivò una lettera senza mittente con un messaggio
costituito da lettere di giornale incollate su un foglio, che spiegava: “sono disperato, ho comprato una pistola e se non capiterà qualcosa di nuovo, provocherò il senatore, che mi picchierà
ed io l’ucciderò”. Chiaramente era Antonio.
Trascorsero i giorni e finalmente il 25 agosto arrivò un
messaggio dal suo telefonino speciale, in cui si annunciava la
seguente comunicazione: 8 settembre, ore 10,40; arrivederci a
Latina alle sei e trenta.
Era chiaro che le 10,40 indicavano la visita del presidente al senato nel giorno 8 settembre,per cui Isidoro andò in
un’agenzia e prenotò un biglietto con un posto in cuccetta di
prima classe per la sera del 7 su un treno per Roma, con partenza da Reggio alle ore 19; l’arrivo a Latina sarebbe stato alle
ore sei e trenta. Contemporaneamente comprò un biglietto aereo per il ritorno, intestato al nominativo dei documenti falsi e
si preparò alla partenza.
Il giorno 7, con il borsone e due valigette, di cui una
contenente i telecomandi e i soldi per Antonio, partì alle 16 con
la sua vecchia Panda alla volta di Reggio ed arrivato
all’aeroporto, la posteggiò nei pressi di esso, in una stradina.
Da un taxi si fece poi accompagnare alla stazione di Reggio, da
cui partì in treno alle 19,per Villa e poi alla volta di Roma. Nello scompartimento a lui assegnato fu solo, ma non riuscì a
prendere sonno, in quanto temeva, in caso di urti violenti, che
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esplodessero le cariche. Stette lontano dal suo posto per tutta la
notte e fu per lui una liberazione l’arrivo a Latina alle 6 e 30.
Scese velocemente, incontrò Antonio, lo salutò, gli mostrò i telecomandi, indicati con il numero 1 e il numero 2, poi
la somma di denaro e a questo punto gli ribadì la promessa; ad
operazione completata gli avrebbe consegnati i restanti 700.000
euro.
Gli raccomandò di attirare l’Uomo-Fogna nel posto dove avrebbe collocato la prima carica, consegnata sotto forma di
regalo al senatore della camorra, con l’evidenziazione dello
scettro d’oro,per lui. Nel frattempo andando fuori con la scusa
di andare a prendere il diadema, avrebbe spostato verso l’uscita
la seconda carica e poi allontanandosi un po’ avrebbe fatto deflagrare le cariche; la seconda dopo 20 secondi dalla prima. Si
lasciarono velocemente ed Isidoro con un taxi raggiunse Fiumicino, con un solo bagaglio a mano, la sua valigetta personale. Alle 9,15 decollò l’aereo per Reggio, dove atterrò alle
10,30.
Già alle 10,45 era alla guida della sua vecchia auto e
cominciò a correre come non mai verso casa, perché sospettava
qualche contatto telefonico. Negli ultimi chilometri prima di
arrivare, per le strade notò delle strane animazioni; la gente era
in festa e molti si abbracciavano. Addirittura incrociò un corteo
strombazzante di macchine, talvolta dotate di bandiere tricolori.
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La stessa animazione la notò nel paese dove abitava,
che attraversò con difficoltà. In ogni casa le televisioni erano
accese ad altissimo volume e davano edizioni straordinarie.
Arrivò a casa alle 11,20; non c’era la moglie, al lavoro, né le
figlie, forse al mare.
Alle 11,35 arrivò un messaggio da Teodoro con la seguente comunicazione: ti contatterò fra un quarto d’ora, da un
telefono pubblico sul tuo fisso perché voglio verificare, per un
riscontro importante, se sei in casa; io non parlerò tu mi reciterai la poesia di Casile, che mi hai fatto leggere.
Dopo un po’ squillò il telefono e non avendo avuto risposta Isidoro cominciò a recitare:
- È inverno, tutto diventa freddo,
fredda la speranza degli uomini,
fredda l’acqua dei ruscelli
che mormora giù nella valle.
Freddo il sogno della notte
che l’uomo abbraccia nell’oscurità,
freddo anche il mio cuore,
non batte più nel petto.
La mia vita …. –
Un suono metallico interruppe la comunicazione quasi
alla fine della recita.
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Untitled - Fausto Molina