Capitolo 1 La sveglia sparò a tutta come un’indemoniata. Ogni santo giorno, dal lunedì al venerdì, con quel suono irruente, mi menava alle sei e trenta l’immancabile mazzata strapazza-cervello che mi risvegliava dall’oltretomba. << Porco cane! >> Esclamai, << è già arrivata l’ora di portare le mio culo puzzolente in facoltà! >>. Odiavo a morte la sveglia, mi dava quasi l’effetto di un rimprovero, soprattutto se durante la notte non dormivo e poiché tale evento si ripeteva costantemente, la mia brama distruttiva cresceva col passare del tempo. Tuttavia mi esimevo dal sfasciarla perché la sua funzione mi era essenziale per il risveglio. Mi alzai dal letto di scatto di modo che non ricadessi nuovamente nel torpore. Siccome a quell’ora nessuno era ancora in piedi, mi misi a fare più casino possibile per far sì che gli altri componenti familiari – ossia mia sorella e mia madre – provassero la stessa angoscia della levataccia mattutina. Travolsi perciò qualunque ostacolo mi si parasse davanti e sedie e tavoli persero, con il mio urto volontario, la loro posizione iniziale. Poi, come colpo finale, aprii la porta del bagno e la sbattei come se fosse stata sospinta dal vento. Nonostante l’inquinamento acustico da me provocato, mia sorella continuava a ronfare come una cagna; neanche il Big Bang l’avrebbe tolta dai suoi fottutissimi sogni idioti. Arrivai in cucina con andamento incerto, ero ancora frastornato dalla sonnolenza, naturalmente in frigorifero gli alimenti commestibili erano quasi inesistenti. Ti credo, a convivere con due donne affette da psicosi alimentare, cosa vuoi che si mangi. Sono costantemente ossessionate dal loro maledettissimo peso corporeo ed impongono indirettamente un regime dietetico talmente severo, che persino l’acqua risulterebbe ipercalorica. Trovai un pacco di paste al cacao, purtroppo non sapevo con cosa inzupparle, visto che il latte proprio non mi andava. Mi preparai una limonata torbida come l’acqua fognaria e la versai nel mio personale tazzone azzurro. Mi accinsi, quindi, ad immergere le paste e cominciai a mangiare con disgusto. Ad ogni ingoiata emanavo una reazione di ribrezzo. Mi dissi “Mamma mia che latrina, un topicida avrebbe avuto sapore migliore”, ma continuai imperterrito a seguire la difficile impresa. Ebbi prima il voltastomaco, poi una leggera nausea ed infine mi venne da vomitare. Naturalmente non mi spaventai perché erano dei sintomi che avevo sperimentato in passato ed ero consapevole che fossero soltanto passeggeri. Infatti non era la limonata e le paste a darmi quegli effetti collaterali, era la sbornia della sera prima che doveva essere ancora smaltita. Andai pisciare e l’effetto ribrezzo cominciò ad attenuarsi. Tornai sui miei passi e misi a riscaldare il caffè, in un bricco di circa duecento millilitri. Lo feci un po’ freddare e me lo scolai alla velocità della luce. Il caffè mi era essenziale perché mi serviva per non avere un collasso durante lo svolgimento delle lezioni paranoiche. Mi vestii in fretta e furia, indossai i jeans che non venivano lavati da oltre un anno e calzai la mia maglia nera preferita con la scritta “Runner”. Mi detti una passata con l’acqua per pettinarmi i capelli, presi lo zainetto, m’infilai il giubbotto ed uscii di casa senza salutare nessuno; tanto, figuriamoci, a chi cacchio gli importava di me. Il cielo era terso, prometteva una splendida giornata. Mi separavano circa quattrocento metri dalla stazione, che si svolgevano in una sorta di percorso ad elle. Era ancora presto ed il paese viveva nella quiete che precede il trambusto urbano. Passai davanti al bar di Riccardo. Detti un’occhiata all’interno e naturalmente quello sfaticato non era ancora arrivato; c’era il padre a sostituirlo. Nei pressi dei tavolini stavano alcuni uomini muniti di gazzette a commentare l’accaduto delle notizie e degli eventi sportivi del giorno prima. Più il là l’attacchino era impegnato a collocare dei manifesti sulla parete muraria. Due operai edili trasportavano un mazzo di ferri all’interno di una casa in costruzione. Di tanto in tanto sfrecciava una macchina a forte velocità approfittando della scarsità del traffico. La vita, il sole ed il caos si stavano lentamente svegliando aumentando l’entropia dell’universo. Svoltai il vicolo, la stazione non era lontana, se avessi sforzato la vista sarei riuscito ad intravederla, ma stavolta i lavori di manutenzione stradale me lo impedirono. La circolazione degli autoveicoli, in quel tratto, era bloccata. Non esisteva alcuna zona del paese immune dai cantieri. Eravamo sommersi da recinzioni e da segnali stradali a sfondo giallo. Non avevo mai visto in vita mia tanti lavori svolti in un così limitato intervallo di tempo. Sembrava un paese fondato sull’edilizia. Il bello era che li cominciavano e non li terminavano; però nel frattempo ne iniziavano altri che via via si accavallavano a quelli preesistenti. D’un tratto m’incrociai con quel peone sindaco, o meglio ex sindaco, perché la giunta comunale l’aveva liquidato dall’incarico. Due anni e mezzo prima era stato eletto primo cittadino ai ballottaggi, per volontà della popolazione, forse in parte comprata, a gestire il suo mandato. Come tutti gli altri se c’era o non c’era non faceva alcuna differenza. L’unica manovra che aveva portato a termine non era amministrativa ma automobilistica: aveva infatti investito con la sua auto un pedone (che tra l’altro l’aveva pure votato). Poi non gli avevano approvato il bilancio e la sua elezione era andata a farsi benedire. Quindi si era nominato un commissario straordinario e la vita era ricominciata come se nulla fosse. Destra e sinistra si passavano il testimone del potere e tutto rimaneva immutato. Le stesse persone per generazioni, chi in prima linea, chi arretrato dietro le quinte del comando, mangiavano a discapito della cittadinanza. Ma tanto alla gente certa feccia gli andava pure bene. In un paese di coglioni i voti abbondavano. L’ipocrisia dei politici loro la appoggiavano, anzi diventava proprio un modello da venerare. Ciò che conta non è la persona che sei ma il posto che occupi. Io sono dell’opinione che per essere qualcuno devi essere te stesso, ma evidentemente questa è una teoria che nessuno ascolta. Nessun politico ambiva alla candidatura per ottenere un miglioramento sociale, anche minimo. No, per ogni schifoso essere di questo mondo la politica rappresentava una passerella all’esibizionismo, una sorta di prostituzione al successo, l’enfasi più assoluta, l’amore personale fino all’orgasmo, l’amplesso di vedersi superiori ai comuni mortali. Tutto questo perché ognuno è egoista e si sente superiore rispetto al prossimo. Ma la cosa che più detestavo era l’incompetenza di questa gente che era persino incapace di allacciarsi le scarpe. Degli ignoranti all’ennesima potenza, delle sciagure umane. Dei cafoni irraggiungibili. Addirittura mi è stato raccontato che l’assessore all’urbanistica mentre parlava in un consiglio comunale, interruppe il suo discorso per andare a rispondere al cellulare e tornò dopo mezzora. Se lo schifo sopraindicato avveniva a livello di provincia, figuriamoci quanto pattume e puttane si erano instaurate a livello nazionale. I politici gli ho sempre ritenuti degli uomini piccoli come i giocatori del Subbuteo. Ecco perché ero scivolato nell’anarchia e nell’apatia più totale. Erano anni che non votavo e, l’ultima volta che mi ero presentato alle urne, avevo espresso la mia scelta disegnando un pisellone da paura sulla scheda elettorale. Purtroppo la rimanente plebaglia del mio paese prima si lamentava ma poi, con la solita frase “tanto uno deve andare a comandare”, continuava a dargli consenso e tutti erano felici e belli addormentati. Però ci fu uno che sconquassò l’intero sistema con un impresa epica, degna di essere menzionata persino nelle enciclopedie. Fu clamorosa e fu un mio amico a farla: Carlo. Quando ci furono le elezioni di non so quale anno, si portò come una persona normale in cabina elettorale, senza suscitare alcun sospetto. Nel momento in cui si trovò la matita per contrassegnare la propria opinione politica ebbe un lampo di genio: disegnò la stella a cinque punte delle Brigate Rosse e naturalmente la contrassegnò, come se si fosse trattato di un autentico partito. Ci volle solo un giorno per scandalizzare tutta l’Italia. Si scatenò uno scompiglio inaspettato, al punto tale che si svolsero delle indagini meticolose per ricercare il responsabile dell’atto osceno. Carlo fu beccato, prelevato da quella baracca che doveva essere la sua casa e condotto nella sala conferenze dell’ufficio comunale a chiedere scusa all’intera cittadinanza. Dato che era una bricconata di un fuori di testa, una semplice ammenda bastava a cicatrizzare quello spiacevole evento. Il giorno prestabilito c’era un caos che sembrava di assistere ad un matrimonio reale: vecchi, donne, bambini, curiosi, cafoni di strada, drogati, alcolizzati, pompinare, poliziotti, froci, giornalisti, professori, passanti, simpatizzanti, mafiosi, merdacchioni, preti, satanisti, rotti in culo, spippa canne, spazzacamini, operai, trimonari, sporcaccioni, serial killer, piscialletto. Vi giunsero finanche persone da altri paesi ad assistere all’evento dell’anno. Il sindaco, un omone barbuto, somigliante moltissimo a Mangiafuoco, militante in alleanza nazionale, gli volle fare una tirata d’orecchie pubblica: << Ragazzo, non sai quello che hai combinato, ci hai umiliato di fronte all’intera nazione, vergogna, per tutti coloro che sono morti. Dovresti fare un esame di coscienza per il tuo gesto sconsiderato, rifletti e pentiti amaramente e che questa storia non si ripeta mai più >>. A Carlo non gliene fregò assolutamente niente, tant’è vero che al cospetto di telecamere e di una platea immensa ebbe la faccia tosta di dichiarare: << Succhiamelo, fascista di questa cappella, se ti avessi disegnato una croce celtica non avresti inscenato questo putiferio! Coglione! >>. Si scatenò l’inferno. Ci fu prima un’esclamazione di disapprovazione e poi, dalle retrovie, si udì la voce sgolata di qualcuno che urlava: << Maleducato che non sei altro! la vuoi smettere?! Prendiamolo! >> Carlo rischiò il linciaggio. Per sua fortuna ebbe la prontezza di accorgersi che la situazione stava volgendo in catastrofe; quindi se la diede a gambe e per circa un mesetto rimase latitante. Ovviamente su Facebook il video di Carlo fece il giro del mondo. Fece benissimo a sparire; aveva creato un ambiente talmente di incazzatura, che se l’avessero beccato e se la pena capitale fosse stata ancora in vigore, sicuramente non avrebbero esitato a portarlo sul patibolo. Lo volevano addirittura mettere in prigione ma, quando scoprirono che era privo sia di padre che di madre, e conviveva con un nonno che svolgeva numerosi affari di usura, divennero clementi, riducendogli la tipologia di sanzione. Gli fu tolto, comunque, il diritto al voto a vita. Continuai a camminare offuscato da quegli episodi passati, marciando su di un asfalto talmente dissestato e pieno di crateri che ricordava moltissimo il paesaggio lunare: non mi sarei stupito se nel bel mezzo di un viale avessi visto la bandiera americana, conficcata nel suolo, sventolante in segno di conquista. Dato questo lerciume, i marciapiedi si erano trasformati in parcheggi e costringevano allo slalom coloro che volevano semplicemente deambulare. Se poi aggiungiamo che la pavimentazione sulla quale si camminava era condita da rifiuti, foglie morte e merde, a chiunque gli sarebbe venuta voglia di mandare a fare in culo il paese e i suoi abitanti insipidi. Arrivai alla stazione con i piedi imbrattati di sabbia da cantiere. Provai ad obliterare l’abbonamento settimanale e la macchinetta era fuori uso. Mi toccava, appena salito nel treno, andare incontro al controllore e farmi convalidare il biglietto. Presi il sottopassaggio perché la linea che dovevo prendere passava dal secondo binario. Quando vi giunsi dentro, rallentai il passo per ammirare i nostri graffiti. Ce n’erano una dozzina e tutti rappresentavano i nostri pseudonimi. Del resto non eravamo capaci, con le bombolette spray, di disegnare un murales coi fiocchi. In questo eravamo umili e ci limitavamo a imprimere sui muri le scritte familiari. Riconobbi immediatamente la mia: era di colore blu e diceva “Febo”. Poi a fianco c’erano le altre, però meno artistiche della mia. Riccardo tra tutti i componenti della comitiva era il più cesso a spruzzare vernice, le sue opere avevano sempre intorno sbavature. Era troppo lento. Ci vuole una certa esperienza quando ci si cimenta in certe attività. Ogni qualvolta che sporcavamo un muro, le nostre scritte dopo pochi giorni venivano cancellate, ma stavolta i vari addetti alla sicurezza delle ferrovie non erano ancora intervenuti sui recenti disegni; forse si erano dati per vinti e ci avevano lasciato liberi di imprimere i nostri marchi. Finalmente avevano capito che muri appartenevano a noi, e solo noi avremmo potuto decidere quando smettere di sporcarli. Evidentemente l’ultimo sgarro che gli avevamo procurato gli aveva lasciati atterriti, gliela avevamo fatta grossa. È il duro prezzo da pagare quando ci si mette contro una gioventù balorda. Cinque settimane prima, l’intero corpo delle Ferrovie dello Stato, con l’appoggio del Comune, aveva deciso di coprire le pareti del sottopassaggio con una barriera in cartongesso che non so come avrebbe dovuto opporsi alle nostre aspirazioni creative. Si credevano intelligenti, purtroppo per loro non avevano ancora capito con chi avevano a che fare. Due giorni durò quella muraglia, il tempo di organizzare una spedizione distruttiva. Venerdì sei ottobre, intorno alle tre di mattina, giungemmo ai piedi del della muraglia in cartongesso, muniti di cacciavite, coltellini, alcol etilico e accendini. Con una velocità da record demmo il via ai lavori di disfacimento. In circa mezzora avevamo terminato la demolizione. Ognuno poi, seguì il metodo di abbattimento che riteneva più opportuno. Io, Riccardo, Alberto, Giovanni e Cosimo utilizzammo il metodo della raschiatura, mentre quelle bestie di Carlo e Rebecca si avvalsero della tecnica della combustione. Quando finimmo c’era lo schifo per terra e si librò come nebbia un fumo cancerogeno. Fuggimmo all’aperto soddisfatti perché la nostra missione era stata un grandissimo successo. Dovevamo per forza rispondere alla sfida, altrimenti ne sarebbe stato compromesso il nostro orgoglio. Coloro che bazzicavano in quelle zone erano tutti al corrente dell’edificazione di quella protezione e tutti fremevano per constatare quale reazione avremmo avuto. Se ci fossimo tirati indietro avremmo deluso le aspettative dei nostri amici non partecipi, che comunque avevano fiducia nel nostro vandalismo sfrenato. Insomma avevamo una questione morale da mantenere intatta. A noi del resto quell’intervento neanche pesava, anzi contribuiva a darci delle opportunità di sfogo all’insoddisfazione e alla noia che su di noi incombeva come una persecuzione. Uscii dalla grotta del sottopasso e mi avviai verso la panchina in cemento che stranamente non era occupata da nessuno. Poiché il treno ci avrebbe messo ancora cinque minuti ad arrivare, per ammazzare il tempo, decisi di tirare fuori dallo zainetto una cartina, un filtro e la bustina del tabacco. Il tutto per rollarsi una bella sigaretta. Quando terminai di comporla avrei tanto voluto fumarmela ma oramai il suono della campanella e la voce tuonante dell’altoparlante, avvisarono l’imminente arrivo del metrò. << Treno regionale, numero duemilatrecentoquarantuno, delle ore sette e diciassette per B*** è in arrivo al binario due. Ferma alle stazioni di… >> Come stavo per entrare nel vagone sentii chiamare: << Ciro! Ciro! Aspettami! >>. Pensai tra me e me: “A chi cazzo appartiene questa voce da rondine”. Poi capii e mi dissi: “Cristo santo fa che non sia lei”. Una mano mi accarezzò la spalla, mi voltai e nello stesso istante mi sconfortai. Era quella strarompimegapalle di Sofia, una delle persone più fastidiose di tutti i tempi. << Ciao Ciro, è meraviglioso rivederti, ho un mucchio di cose tristi da dirti >>. “Porco cane”, mi dissi, “si mette malissimo la giornata”. Tutte le volte che ci incontravamo non faceva altro che parlare solo ed esclusivamente se. Ti uccideva con i suoi discorsi paranoici e dopo che terminava di parlare, chiedeva un tuo consiglio, ma non lo ascoltava neppure, perché riprendeva a ritmi sfrenati la sua cantilena massacrante. Stavolta poi era addirittura di umore nero. Maledissi l’intero universo e desiderai ardentemente di vederla stecchita da un male oscuro. Ci scambiammo un saluto affettuoso ed ipocrita dandoci dei baci sulle guance. Il suo alito, da un metro, puzzava di saliva solidificata e per precauzione, nell’istante in cui mi avvicinai al suo volto, rimasi in apnea. Era un fetore insopportabile, persino se avesse respirato col naso quella ventata di formaggio condito di aglio e sudore sarebbe sopraggiunta ai miei ricettori olfattivi. Era una ragazza abbastanza carina; può darsi che se avesse avuto un carattere più pacato e se gli avessero esorcizzato il palato, mi avrebbe suscitato qualche interesse. Purtroppo la realtà era un’altra e se volevo uscirne vivo avrei dovuto affidare le mie energie alla pazienza ed alla tranquillità che, in quei momenti rischiava di venire meno. Avevo da un nanosecondo poggiato il sedere sul sedile dello scompartimento che aveva già, senza un minimo preannuncio, dato il via alla sua interpretazione angosciosa della vita. << Sai Ciro sono infelice perché ho un grandissimo problema >>. << E quale sarebbe? Forse il consiglio di un amico potrebbe risultarti utile >>. Ma guarda che cazzo mi toccava fare pur di assecondare questa decerebrata. << Non riesco a piangere, sono otto giorni che Sandro mi ha lasciato e non ho ancora versato una lacrima. Temo di essere una persona senza sensibilità >>. Stavolta si era superata, aveva raggiunto l’apice del rincoglionimento. Tutto mi sarei aspettato, ma questa stronzata valicò anche la più ardua fantasia. Avrei tanto voluto dirgli: “ma vattene a fanculo. Una persona, con le migliaia di problemi che si ritrova ad affrontare, ti deve stare pure ad ascoltare. Se non riesci a pisciare dagli occhi evidentemente il tuo fidanzato ti faceva schifo!”. Solo che il mio autocontrollo mi fece trattenere certe ingiurie. Anzi, con voce affabile le risposi: << Il proprio rancore non sempre viene corrisposto con le lacrime. Io credo che quello che conti realmente sia la consapevolezza di essere feriti internamente. Sono in tanti che piangono solo per dimostrare la propria sensibilità agli spettatori del mondo. Se poi si andasse a verificare la realtà dei fatti ci si accorgerebbe che il vero dolore appartiene a pochi >>. Mi ero superato, avevo compiuto uno sforzo supremo per elaborare quella frase in così pochi secondi. Mi complimentai con me stesso, non credevo di essere così pieno di concetti psichici. Quella beduina di Sofia non badò nemmeno alla mia consolazione, anzi d’un tratto ebbe il viso rigato di gocce di pianto e gridò: << Non preoccuparti Ciro, sto bene, sono felice, finalmente sono libera di soffrireeee!! Aaaah è meravigliosooo!! >>. Mi rassegnai, si era bevuta definitivamente il cervello. Le lacrime, come corsi d’acqua, sgorgavano dai suoi occhi verdi e si diramavano in tutte le direzioni, per poi finire nella foce del colletto della sua camicetta bianca. Il mascara ben calibrato che portava sulle ciglia gli macchiò le guance di nero. Mi venne voglia di buttarla dal finestrino; se mi fossi trovato un’arma a portata di mano l’avrei uccisa seduta stante. Meno male che eravamo soli nel vagone, altrimenti me la sarei data a gambe. Senza avere alcuna reazione presi il pacco dei fazzolettini, ne estrassi uno e glielo porsi quasi con violenza. Lei mi strappò di mano l’intero pacchetto e in dopo due minuti me lo restituì vuoto. Ero l’unico studente italiano che aveva la precauzione di rifornirsi di fazzolettini e per colpa di un’oca idiota ero stato lasciato a secco. E se mi fosse venuto da cacare, come avrei fatto a pulirmi il culo? Mentre fabbricavo questi dilemmi lei, nella sua recitazione, continuava a frignare: << Amore mio, amore mio, lo sapevo ti ho sempre amato >>. Non l’ascoltai più, non ne valeva la pena. Era talmente egocentrica che il mondo circostante passava in secondo piano. Guardai attraverso il finestrino lo scorrere veloce del territorio: la natura esplodeva nelle varie tonalità di verde. Le vigne a riposo si susseguivano ai mandorli spogli e agli alberi nodosi ed intricati degli olivi. C’erano sparse migliaia di pietre che punteggiavano, a casaccio, le immense distese erbose. Splendide cornici di muretti a secco, in parte decadute, delineavano ed ordinavano i confini tra le coltivazioni. Ogni tanto spuntava una piccola pineta a rompere la monotonia dell’ambiente agricolo. D’improvviso il panorama scomparve perché ci incanalammo in un sentiero roccioso, il quale preannunciava che il treno si sarebbe fermato alla stazione ferroviaria di R*** a caricare altri pendolari. In questo paese non salivano molte persone perché c’erano due linee ferroviarie, appartenenti a compagnie differenti, che lo percorrevano. La ferrovia che veniva attraversata dal nostro itinerario, veniva scartata in quanto era localizzata in una zona un po’ periferica. Il convoglio attese qualche minuto e riprese nuovamente la sua quotidiana corsa. Detti una rapida occhiata a Sofia, la quale, nel frattempo, si sgranocchiava le unghie e rideva ornata dalle lacrime. Guardava con una faccia da pazzoide il vuoto, come se fosse stata presa da un’allucinazione. La lasciai definitivamente perdere e continuai a prestare attenzione al nostro itinerario: di lì a poco il grande mezzo a motore avrebbe sostato un’altra volta per riempire le carrozze di un ennesimo carico di persone. Mentre stavamo per accingerci a svolgere la seconda fermata programmata, caddi nella malinconia più profonda: il centro abitato, nel quale la locomotiva elettrica stava per entrare, era quello della donna che aveva sconvolto per sempre la mia vita: Loredana, colei che accese le mie speranze ed avvelenò i miei pensieri, condannandomi ad un’esistenza piatta e burrascosa. Ogni maledetto giorno speravo di incontrarla e puntualmente venivo bidonato. Ma come al solito, le donne che amo, diventano belle ed irraggiungibili come gli arcobaleni. Io l’adoravo, ma non potevo intervenire in alcun modo, perché continuavo a rimanere trasparente di fronte al suo amore. Mi ero quasi rassegnato perché si sa che i sogni delle persone sono come un uomo eccitato su di una strada statale: vanno tutti a puttane. Ciò nonostante continuavo a sperare. Non la vedevo da sei anni ed ormai era diventata in tutto e per tutto una vera divinità: l’avrei soltanto adorata senza poterla mai raggiungere. Il tempo scorreva e la mia passione non si smorzava. Mi ero convinto che questo tormento si sarebbe protratto tanto quanto le stelle: ossia per almeno dieci miliardi di anni ed io sarei, nel frattempo, rimasto inchiodato nel firmamento del patimento. Non c’è soluzione a certe sofferenze, i palliativi non esistono in determinate situazioni. È il caso di dirlo: l’amore è l’unica malattia che si cura col suo stesso male. È così e basta. Sofia mi aveva davvero spezzato le palle, non la sopportavo più, dovevo trovare un escamotage per liberarmene. Anche perché, stando insieme a lei, avrei dovuto accompagnarla fin sotto l’aula dove teneva la lezione. Dovevo assolutamente fuggire. Mi inventai perciò la prima scusa che attraversò il mio cerebro; era molto banale ma senza dubbio efficace: << Vado un attimo in bagno >>. << Non mi lasciare da sola >>. Mi controbatté in tono avvilito. << Devo fare una pisciata megagalattica >>. Ed era vero, il caffè mi aveva stimolato la diuresi. << Tranquilla, ritorno. Io sono come una calcolatrice: puoi contare su di me! >>. Col cavolo! Sofia assunse un’espressione offesa che non mi provocò alcun senso di colpa. Con spavalderia mi alzai e l’abbandonai al suo insignificante destino. Mi chiusi in bagno dove liberai la vescica. Come feci per spalancare la porta, mi ritrovai il faccione severo del controllore. Chissà perché questi bestioni, quando assumono l’onere di rappresentare la legge ed hanno a che fare con me, diventano più cattivi dei nazisti. Evidentemente la mia faccia da teppista gli pareva poco raccomandabile. O forse pensava che stessi facendo delle cose zozze. Gli mostrai il biglietto che lui stesso mi aveva obliterato poco prima, data la macchinetta timbratrice fuori uso, e mi diressi alla ricerca di un posto libero che si trovasse il più lontano possibile da quella rincoglionita. Il pavimento del corridoio era parzialmente bagnato: c’era un liquido, simile all’acqua, che doveva servire per igienizzare gli scompartimenti. In realtà col calpestio continuo dei pendolari non faceva altro che sporcarli ancora di più. Il treno superaffollato mi costrinse a camminare per un bel po’. Dopo aver percorso tre vagoni invano, scorsi, in mezzo a tre persone, un sedile disponibile. Lo occupai tenendomi lo zaino in braccio, come se si fosse trattato di un neonato. Nel frattempo scrutai coloro che avevo al mio fianco: c’erano di fronte una studentessa dalla faccia di ebete che si sentì stuprata dal mio sguardo; ed al suo fianco un uomo sulla quarantina, occhialuto, con il tipico portamento da ufficio. Alla mia sinistra invece vi sedeva una donna che non riuscii bene a distinguere. Ella si rivolgeva in maniera petulante all’individuo con la faccia da impiegato. Gli disse più o meno le seguenti parole: << Sono due mesi che mio figlio è tornato a vivere a casa nostra. E’ stato messo prima in cassa integrazione, poi è stato licenziato, infine sfrattato. Adesso non sa più come mantenere la famiglia. Anche sua moglie è tornata dai suoi. Siamo stanchi, ci troviamo in una situazione veramente tragica e i politici che si permettono ancora di sostenere che dobbiamo essere ottimisti >>. << E’ suo nipote dove vive? >>. Fece l’uomo che sembrava mostrare interesse alla vicenda. << Ci alterniamo con i miei suoceri. Un giorno sta da noi, mentre quello successivo và da loro >>. “Minchia”, pensai, “mi sono andato a scegliere il posto più deprimente d’Europa”. In realtà anch’io sapevo che quella situazione stava raggiungendo la quotidianità e si stava diffondendo macchia d’olio. “Certo l’Italia è proprio un gran bel paese del cazzo. Qui si fa la fame ed i giornali che continuano a parlare d’altro”. Oramai l’informazione era diventata solo uno strumento per accalappiare ascolti e per prenderci per il naso. Sempre lo stesso ordine di categoria avevano le notizie, era diventata una questione matematica. Ce n’erano tre che in ogni telegiornale non potevano mancare. La prima apocalittica; per esempio non mi dimenticherò mai lo stato di panico creato dall’influenza H1 N1, che avrebbe sterminato intere popolazioni peggio della peste nera. Adesso era stata sostituita dalla crisi economica, che fino a pochi mesi fa era stata superata, con la frase “la recessione è alle spalle” ma che magicamente era ritornata ed avrebbe riportato il genere umano all’età della pietra. Come seconda notizia c’era quella demenziale, generalmente presa da internet, come ad esempio che un cane riusciva ad andare sullo skateboard, oppure che quando fa caldo non bisogna tenere i termosifoni accesi. Insomma robaccia di questo genere. Infine c’era quella strappalacrime, generalmente basata su un’intervista ad una persona piangente che aveva appena vissuto in prima linea una tragedia, come un terremoto, un triplice omicidio, ecc.. Per quanto mi riguarda l’intera informazione italiana andrebbe completamente vietata. Oggigiorno infatti l’obiettivo dei giornalisti non è diventato fare informazione, ma fare ascolti. Se pertanto dai una notizia, sia pure necessaria, ma che non suscita l’interesse della feccia popolana, non ha senso che tu la dia. Il risultato finale è il caos totale e non si capisce più dove si trovi la realtà. È un disorientamento continuo. Ciò che conta è che i babbei di ascoltatori tengano un organo informativo non per recepire delle notizie reali, ma solo ed esclusivamente per toglierli dalla noia. Una sorta di talk show con le vesti di un qualcosa di serio. Nel giornalismo puoi dire tutto quello che vuoi, tanto nessuno ci fa caso, nessuno controlla e tutto si dimentica. Mancava soltanto una sosta e poi saremmo giunti finalmente al capolinea. Durante questo tratto il paesaggio mutò repentinamente: le pendenze si fecero più aspre e lo sfondo agricolo si trasformò in una veduta maggiormente frastagliata. Questa parte del viaggio rapiva e soggiogava la mia attenzione. Dovevo provare le medesime sensazioni, anche se le mie avvenivano in un moto dinamico, di Leopardi; allo stesso modo il mio pensiero si annegava tra quelle immensità ed il mio stato d’animo, buono o cattivo che fosse, per qualche istante perdeva la sua astratta consistenza. L’imperiosa distesa collinare che ammiravo dal finestrino era, in prossimità della cima, macchiata da un candido paesello, non conforme alle norme di sicurezza urbanistica, e capace di mescolare le ere; senz’altro non doveva essere preso come riferimento per concepire l’epoca nella quale ci si trovasse. Anche l’ultima fermata fu valicata: il cammino, da questo punto in poi, sarebbe stato privo d’interruzioni. Per la verità, ma ciò capitava di rado, il treno era costretto a sospendersi temporaneamente per coordinare lo scambio con l’altro convoglio che sopraggiungeva in senso opposto. A pochi chilometri dalla città c’era l’ennesima alterazione del territorio. Stavolta la natura non otteneva il sopravvento perché veniva sottomessa dalla dottrina assolutista degli apparati industriali. Silos, cisterne, capannoni lunghi e piatti, smorti nel colore, uccidevano la bellezza del creato divino; ciò nonostante quei luoghi costituivano l’essenza della speranza di migliaia di persone che quotidianamente accorrevano sul posto di lavoro. Il treno, dopo circa quaranta minuti di viaggio, si arrestò puntuale sul binario numero tre. Prima di uscire lasciai scorrere una ciurmaglia di ragazzacci, di scuola superiore, che per tutto il tragitto avevano schiamazzato in continuazione. L’esterno era stracolmo di gente perché, sul binario adiacente al nostro, era piombato in contemporanea l’espresso regionale che ci obbligava ad accumularci sotto un’unica pensilina. Liberatomi a strattoni dal sottopassaggio congestionato, mi portai in Piazza della Memoria e scorsi Carlo, nei pressi della scultura bronzea, dedicata ai caduti della seconda guerra mondiale. Egli, come al solito, andava errando con le cuffiette dello smartphone impiantate nelle orecchie, come se fossero state una componente integrante del suo malandato sistema uditivo. La musica era talmente elevata che finanche a due metri di distanza, ossia poco prima che gli segnalassi la mia presenza, riuscii a distinguere quale canzone stesse ascoltando: si trattava di “Rédemption” del gruppo metallaro degli “Ad Inferna”. Come si tolse le cuffie gli chiesi: << Ehi ma tu da dove cavolo sbuchi fuori? Non dirmi che stavi nel treno >> << C’ero eccome, solo che mi sono nascosto nel cesso perché non avevo il biglietto >> << Scusa, ma il controllore non guarda anche il cesso per vedere se c’è qualche sfigato come te che cerca di prenderlo per il culo? >> << Sì ma stavolta me lo sono parato attaccando fuori, in bella vista, sulla porta del wc, un bel foglio con su scritto “guasto” >> << Che cazzata, sei penoso con questi stratagemmi. Andiamo va. È ora di andare a quel cesso di facoltà a perdere la nostra giovinezza >>. Ci mettemmo pochi minuti per giungere. All’entrata dell’ateneo c’era uno studente con barba, occhiali e capelli lunghi, che vendeva giornali di sinistra. Il ragazzo ci prese di mira: << Ragazzi volete una copia di “democrazia universitaria”, costa solo un euro >>. Carlo anticipò la mia risposta: << Pace fratello >>, fece in tono hippy, << non vogliamo proprio un cazzo di niente, sappi che la riorganizzazione fascista è imminente. Preparatevi alla nuova guerra fredda >>. Naturalmente il mio amico parlava a vanvera, l’unico obiettivo al quale puntava era quello di lasciare sconcertati i suoi interlocutori. Giustamente il venditore di giornali ci guardò storto, dopodiché rivolse la sua attenzione verso una clientela più civile. Capitolo 2 Il professor Carboni era uno di quei vecchi insegnanti baroni feudatari mangia e caca. Soffriva di una fortissima mania di onnipotenza, talmente spregiudicata, che pareva fosse discendente da stirpe divina. Ovviamente, gran parte del suo albero genealogico occupava una buona fetta della docenza della facoltà: suo padre, l’antesignano della presa al potere, era stato intorno agli anni cinquanta preside della facoltà. Gli erano succeduti, come avviene nell’acquisizione dei titoli nobiliari, il nostro attuale insegnante e sua sorella; poi a fine anni ottanta la prole didattica si era allargata in modo imbarazzante, con l’aggiunta di altri quattro consanguinei. Due di questi, onde celare ogni sospetto, erano stati inviati presso il politecnico, situato dall’altra parte della città. Da quanto detto, questi cornutazzi erano pure prolifici. C’era un’unica soluzione per estinguere la loro progenie: la castrazione. Con un loro pronipote, non mi ricordo a quale ramo familiare appartenesse, avevo frequentato alcune lezioni; naturalmente, nel giro di pochi mesi, nel percorso universitario, mi aveva dato un distacco abissale e respirava di già odore di laurea. Non era di difficile immaginarsi quale sbocco lavorativo avrebbe intrapreso. Torniamo però al nostro docente ed in particolare al suo aspetto ed alle bizzarrie che lo caratterizzavano. Iniziamo col descrivere come si presentava esteriormente: era un settantenne, appesantito dall’età e con dei capelli lunghi e bianchi che accentuavano la sua condotta maestosa. Vestiva abiti antichi ed eleganti che non saprò mai quale stronzo negozio obsoleto glieli fornisse. Forse c’era un sarto apposito che forgiava indumenti ottocenteschi. Ogni qualvolta veniva a lezione si portava il suo fedele cane, di nome Abelardo, che legava al termosifone infisso nella parete. Abelardo, credo che appartenesse alla razza dei pastori maremmani, era l’unico essere vivente che seguiva con attenzione lo svolgimento della lezione: si accovacciava con atteggiamento rassegnato e senza alcuna protesta, ammirava l’esposizione del suo padrone. Il professor Carboni non veniva da solo in aula: ogni mattina si presentava scortato da due assistenti che avevano la stessa funzione dei servi della gleba. Uno l’accompagnava a braccetto e gli reggeva la borsa, mentre l’altro si portava il cane ed assumeva il compito di dog sitter. Le lezioni venivano svolte nel seguente modo: un assistente, forse quello compreso nella scala gerarchica più alta, andava via, liberandosi da quella umiliante schiavitù, mentre l’altro si sporcava le mani, dando eventuali chiarimenti alla lavagna. Anche quella mattina il professor Carboni si presentò con circa venti minuti di ritardo. Prima che attaccasse a parlare volle perlustrare la platea e disprezzare le nostre facce. Dopo averci schifato abbastanza, si annusò intorno e prese a lamentarsi in linguaggio bleso: << Allievi, spalancate le finestve che l’avia viziata non la soppovto >>. << Ma questo gasteropode di merda ci vuole far morire di freddo >>, dissi sottovoce a Carlo. Egli, preso ad ammirare i corpi sinuosi delle ragazze sedute in prima fila, non fece caso alla mia affermazione e ribatté: << Guarda che culo da paura si ritrova quella peccatrice! >>. << Scusa ma come gli fai a vedere il sedere se sta seduta? >> << E’ una premonizione, lo sente il mio radar pisello. E’ sicuro, quella voluttuosa ha delle chiappe più sode di un uovo. Oh sì il demonio sta dalla sua parte! E poi che unghie nere eleganti e sensuali: Con cosa se le è dipinte col petrolio?! Io a quella la perforerei come un ulcera! >>. La discussione perversa fu interrotta da un vento, talmente algido, che ci fece congelare fin dentro gli organi. Si verificò un tremore di massa. Le imposte, dopo cinque minuti di assideramento, furono chiuse con nostro sollievo. La lezione finalmente cominciò: << Miei cavi appvendisti oggi continuevemo con la pavte di esegesi testuale ed in pavticolave con quella manzoniana…>> Dieci minuti durò il mio livello di attenzione, dopodiché mi trovai prigioniero nel vortice dell’incomprensibilità più disorientante. Mi sforzavo come uno stitico ma non c’era nulla da fare. Sembrava che vagassi nel mezzo di un sogno, dove le parole e le immagini, appiccicate l’una con l’altra casualmente, fornivano solo risultati insensati. Il professore, credendo di essere chiaro, continuava a vomitare parole: << …I pvotagonisti non viescono a combatteve per i pvopvi divitti cevcando consensi, pevsuadendo gli altvi ad univsi nella lotta, nella medesima divezione. Un tentativo di Venzo a Milano lo povta fuggive dalla Lombavdia… … Lucia, padve Cvistofovo e il cardinale Bovvomeo sono una dimostrazione che e nella volontà pveoccupata di tendeve al bene, opevante in uno sfovzo di pevfezione piu umanamente dolovoso che tvionfalisticamente gaudioso… >>. “Accidenti!”, mi dissi, “non sto capendo un cazzo niente! Vaffanculo pure a Manzoni che a distanza di centonovant’anni continua a scassare la minchia!”. Nel frattempo Carlo continuava a contemplare quella che secondo lui sarebbe stata la donna della sua vita: lo sguardo fisso, puntato come un cacciatore che osserva i minimi movimenti della sua preda, gli aveva permesso di raggiungere un livello di concentrazione tale, da averlo isolato dall’intera antroposfera. Noi, dall’alto delle tribune, potevamo osservare la chioma lucente e sagomata della ragazza che, con ripetuti assensi della testa, voleva dimostrare di essere interessata alla lezione. Ricevetti un pizzico sulla coscia, era sempre il mio compagno che non si dava pace: << Guardala Ciro, ammirala in tutto il suo splendore. E’ talmente bella che mi berrei persino il suo pus. La spargerei di seme come un contadino! >>. Io neanche mi degnai di rispondere. Si agitava in continuazione, come se avesse il prurito ovunque. Poi la dinamite che serbava nell’animo gli esplose: con faccia di uno che ha ceduto alle proprie debolezze emanò, quasi ad alta voce: << Basta! Non ce la faccio più, mi vado a fare una sega! >> Si alzò dalla sedia e costrinse, per uscire, a far sfilare l’intera fila di studenti che lo precedevano nella tribuna, dato che, tra una gradinata e l’altra, lo spazio risultava insufficiente. Scese di corsa le scale e proprio sulla soglia della porta fu richiamato dal professore: << Mio devoto discepolo dove intendi vecavti? >>. Carlo si illuminò ed io capii perché: l’insegnante gli aveva fatto una domanda troppo provocante. Per un attimo temetti il peggio, sapevo la risposta che era in serbo. Ebbi la tachicardia quando Carlo cominciò a pronunciare le prime sillabe. Si vedeva a distanza che avrebbe voluto dirgli “vado e torno, il tempo di masturbarmi”. E quindi mi preoccupai della reazione che avrebbe avuto il docente: era un tipo molto complessato, per un nonnulla andava in escandescenza. Una volta uno studente, con la faccia da toporagno, giunse in aula in ritardo, mentre la spiegazione era già abbondantemente in corso, e quel porco gli fece una ramanzina di trenta ore: “pevchè sei avvivato in vitavdo, offendi la nostva dignità” il ragazzo, sudato per aver evidentemente corso come un dannato, in tono riverente, rispose: “sono spiacente, il pullman ha avuto dei problemi”; “le tue scuse sono inane, se non vuoi subive conseguenze vecati al tuo posto col capo chino”. Così il poveraccio attraversò il tratto che separava la cattedra dalla sua postazione, con la testa reclinata. Nessuno lo canzonò e nessuno sorrise, ma dai volti dei colleghi notai che si sprigionò un raro sentimento di solidarietà nei suoi confronti che, forse, non ne sono sicuro, fece per un microsecondo barcollare la superpotenza di quella grandissima testa di merda. Ecco spiegata la mia paura: si sarebbe scatenata una baraonda tale che avrebbero cacciato Carlo da qualunque università e lo avrebbero condannato ai lavori forzati per l’eternità. Tutto sommato quest’ultimo verdetto glielo si poteva pure infierire. Meno male che quel maniaco galeotto si trattenne; ebbe la coerenza di dargli una risposta assennata: << Devo andare in bagno >>. Tirai un sospiro di sollievo. Carboni scocciato e contemporaneamente indulgente, dall’alto della sua sublimità, si espresse: << Acconsento >>, e lasciò libero il mio amico di sfogare le sue pulsioni. Carlo, non ritornava ed il docente continuò per un’altra ora la sua lezione tediosa. Finalmente si decise di spezzare il ritmo con una pausa. Come ebbe terminato di dire: << Intevvompiamo pev un quavto d’ova in modo che vi possiate vifoccillave >>. Una massa di studenti si riversò, a casaccio… Nel corridoio incontrai Angelo in compagnia di quel suo amico dall’aria triste: << Cristo santissimo, guarda chi cazzo si vede, il mio caro amico stronzissimo Ciro. Come te la passi brutto figlio di una cavalla frulla uccelli? E tanto che non ti si vede, speravo fossi crepato! >>. Aveva un lessico talmente scurrile che avrebbe offeso persino una scorribanda di pirati. Ogni frase conteneva come minimo un cinquanta percento di parolacce. Lo conoscevo da quando avevo iniziato gli studi universitari e le sue frasi non mi scandalizzavano minimamente. In fondo era solo un modo balordo per esprimere il suo affetto. << No >>, gli risposi, << Mi dispiace deluderti, ma non mi hanno ancora ammazzato >>. << Speriamo che ti uccidano strada facendo. Cosa straputtana stai a fare in questa facoltà cessa? Non dirmi che te ne andavi cazzeggiando >>. << Sto seguendo filologia italiana con quel frocio di Carboni >>. << Mamma mia che scoglionamento! scommetto che ne avrai piene le palle >>. << Sì infatti, non lo sopporto proprio. Mi sta sulle palle come le mie mutande. Ho dormito per tutta la lezione. E tu cosa stai facendo? >>. << Niente, oggi è proprio una crosta di giornata. Sono venuto ad imbucare uno statino. Sai, devo fare quella rogna di esame di letteratura tedesca per la quinta volta. Male che vada lo farò per la sesta volta. Oramai ci ho fatto il callo. Primo o poi dovrà promuovermi quella grandissima spana cazzi della De Frani >>. Lo congedai, anche perché avevo notato che il suo amico era a disagio. Ci salutammo, prima però di lasciarlo definitivamente, Angelo mi richiamò: << Ehi Ciro! Aspetta! Quasi dimenticavo! >>. Aveva l’espressione di uno che mi doveva informare su chissà quale avvenimento. << Ti volevo dire: in culo alla balena e in bocca alla puttana! >>. << E allora anche a te vaffanstronzo! >>. E finì il nostro dialogo da anime dannate. Ma dove era andato Carlo? Quando veniva lasciato da solo era capace di sparire più di Mandrake. Detti un’occhiata in giro, ma non riuscii a distinguere nessuno che avesse i suoi tratti somatici. Ritornai in aula e presi posto in una zona della tribuna molto più elevata di quella in cui stavo precedentemente. Il professore continuò a spiegare per un’altra ora e mezza ed io, per un’altra ora e mezza continuai a soffrire. Le palpebre si chiudevano senza l’imposizione della mia volontà. Ero costretto a compiere uno sforzo enorme per non cadere in un sonno improvviso. Chissà che figura da idiota avrei fatto se mi fossi narcotizzato nel bel mezzo della lezione. La stanchezza mi attanagliava e non mi dava tregua. Era il prezzo da pagare dopo una nottata passata a bere e a fumare. Presi una giugomma e me la schiaffai in bocca. Forse masticando avrei messo in moto una parte dell’organismo e sarei riuscito a sfuggire alla sonnolenza. Macché, non ci fu verso. Il mio capo si reclinava lentamente e, proprio quando stava per cedere, si rimetteva in posizione d’ascolto. Poi addirittura, sicuramente per quanta merda mi ero menato il giorno prima, cominciai ad avere delle allucinazioni. Vidi innanzitutto sulla lavagna una sagoma, costituita dal bianco gesso, di un uomo che camminava; poi notai che il professore portava sul naso una di quelle palline rosse che adoperano i clown, per compiere i loro numeri circensi. Stavo rincoglionendo. Mi guardai le mani e notai la differenza della lunghezza delle unghie che c’era tra una mano l’altra. L’estremità dell’arto destro portava dei veri e propri artigli: l’anomalo sviluppo era dovuto alla difficoltà che rinvenivo nel tagliarmele con le forbicine. Quando procedevo a tagliarmi le unghie della mano sinistra, impugnando le forbicine con la destra, tutto bene. Ma l’operazione contraria mi risultava assolutamente impossibile, ne veniva uno schifo, risultavano dentellate in maniera penosa, talvolta mi ferivo persino. Avrei ottenuto un lavoro migliore se mi fossi messo a limarle con una scimitarra. Poi ottenni la soluzione: ossia, le unghie della mano che riuscivano mal sagomate me le mangiavo. Il lavoro che risultava era abbastanza soddisfacente. Quella volta però avevo trascurato l’operazione di masticazione. Pertanto cominciai a mangiucchiarmele, senza sputare il chewing-gum consapevole dei miliardi di batteri che sarebbero subentrati dall’interno dell’apparato boccale. Tanto non me ne fregava niente, in fondo non avevo nulla da perdere. Dietro di me c’erano appostati dei nullatenenti che al posto di seguire la lezione, giocavano a nomi cose e città: << Dimmi una città con la zeta, che non sia Zocca, perché l’ha già scritta Luca >>. << Zenzero! >> << Zenzero?! >> << Sì Zenzero, dove fanno il pane >>. Davanti a me c’erano invece un ragazzo ed una ragazza che ovviamente parlavano di stronzate, assolutamente non attinenti a quello che stava spiegando quella mummia del professore. << … Mah, Giuliano non lo vedo almeno da sette mesi, e cioè dal giorno del suo onomastico. Andammo insieme a farci un aperitivo >> << Se non sbaglio si è trasferito in Scozia >>. << In Scozia?! >> << Sì, è andato a convivere con la ragazza che ha conosciuto tramite facebook >>. Ma guarda un po’ che razza di merdate mi toccava sentire. A prua ero costretto a sorbirmi il vociare di un gruppo di minorati che facevano dei giochi da bambini, e a poppa ero obbligato ad ascoltare il discorso di due decerebrati che raccontavano la storia di un beone che non sapeva quello che voleva dalla vita. Dico io, tra tutte le donne che esistono nel raggio di pochi chilometri, come Cristo si fa a trovarsi una fidanzata in capo al mondo? In che stato di decadenza ci ha portato la noia. Intanto la lezione scorreva con, e come il tempo. All’una e mezza finì la grande rottura di spiegazione. Scesi le scale e mi diressi verso l’uscita. Sulla soglia della porta c’era un tipo rasta che dialogava con altre due ragazze scoppiate come lui. Si erano disposti in maniera tale da ostruire il passaggio verso l’esterno. << Permesso >>, gli feci la prima volta. Ma non ci fu risposta. Riformulai la stessa richiesta, con un tono più elevato. << Permesso! >> Niente, l’indifferenza gli aveva resi sordi. Le loro facce strafottenti mi fecero saltare i nervi. Come un ariete mi abbattei sui loro corpi smidollati. L’impatto fu talmente forte che li feci letteralmente volare. Peccato soltanto che non caddero per terra. << Sei un grandissimo maleducato! >>, mi disse lo spippacanne giamaicano con il volto spaventato e indignato. << Ma se voi vi mettete davanti alla porta e nemmeno vi spostate quando vi viene chiesto con garbo, come stracazzo faccio io a passare! >>. << Non l’avevamo sentito, scusa ma quale interesse avremmo avuto, secondo te, ad ostacolare il tuo cammino? >> Non valeva la pena stare a discutere con certa cacca che fa finta di non capire. La sua domanda non ebbe risposta e pertanto continuai a tirare dritto. Giunsi nel corridoio, dove c’era la bacheca; nel suo fondale partiva la rampa delle scale. Quella era un’ora di sovraffollamento all’ennesima potenza: un susseguirsi di ragazzi, sfaccendati ognuno nei suoi impegni. Mi feci spazio nella ressa, pareva di stare in un aeroporto o in un centro commerciale. Col giubbotto addosso sentivo la calura imprigionata, sul mio corpo, che via via tendeva ad accumularsi sempre più, e che si stava lentamente convertendo in sudore. Finalmente m’incanalai nelle scale: in questa zona c’era molto meno traffico perché la pigrizia degli studenti, li portava in massa a servirsi dell’ascensore. Sui muri che accompagnavano i gradini vi erano una marea di scritte, perlopiù a sfondo politico. Il corrimano rosso, sul quale non mi poggiavo mai, data la sua perenne sporcizia, mi ricordava i vecchi tempi, quando eravamo una famiglia unita e piena di serenità. Le immagini che mi si proiettavano erano quelle di quando avevo cinque anni e, con mia sorella, giocavamo nel corridoio della casa di Faenza, dove adesso risiede mio padre con la sua nuova compagna sgualdrina di trentuno anni. Sognavamo che le scale fossero una ripida montagna, tutta da scalare e piena di imprevisti. Ci imbattevamo in diverse asperità ed in figure abbastanza inquietanti: dall’abominevole uomo delle nevi all’orso polare militare. Quante avventure ci procurava la nostra fantasia. Ormai tutti quei frammenti di esistenza sono solo la pellicola sbiadita che il nostro cervello ci ripropone continuamente per informarci che anche noi, poveri ragazzi depressi e senza futuro, abbiamo avuto degli attimi di gioia. La vita è un grande quaderno, ricca di giorni di carta: uguali, insipidi, incolori, che si ripetono in successione e senza distinzione. Di tanto in tanto proviamo a disegnarci sopra qualcosa che serva ad interrompere la loro monotonia, per mezzo di: un paesaggio, delle persone, un dolore una gioia, insomma un’esperienza qualunque. Tuttavia otteniamo soltanto degli scarabocchi che rimarranno impressi sulle pagine della nostra esistenza e che andranno ad alimentare il serbatoio dei nostri ricordi. E sì, perché quello che scriviamo nel corso dei nostri anni avrà un medesimo destino: sarà solo carta straccia pronta per essere buttata via nel cestino di un passato sempre più ingordo. Chissà poi perché tutto quello che è stato viene ricordato sempre come un periodo felice. Magari tra qualche decennio, ripensando a questi giorni, che io attualmente reputo tra i più schifosi della mia vita, li riporterò alla memoria come degli istanti ricolmi di allegria, meritevoli addirittura di essere rimpianti. Arrivato al piano che ospitava il dipartimento di psicologia, incontrai Raffaele, soprannominato San pezzente. Era ricco sfondato ma come San Francesco d’Assisi ripudiava i suoi averi e proprio per questo motivo vestiva come un pezzente. Portava quotidianamente dei jeans, risalenti agli anni ottanta, una maglia di cotone che da nera era sbiadita in grigio e delle scarpacce devastate che sembravano composte di stracci. La particolarità che veramente mi faceva trasalire e che m’invogliava a pigliarlo a calci nel culo, era quella orrenda busta di plastica che, tutti gli abitanti di questo fottutissimo pianeta utilizzano per fare la spesa, egli l’adoperava come zaino. Dentro infatti ci metteva quaderni, matite e gomma. Le penne non le adoperava mai perché il loro tratto non poteva essere cancellato e quindi gli avrebbero portato uno spreco di fogli. Lui le definiva come la pena di morte: una volta eseguita non permetteva più di tornare indietro. Invece, scrivendo con la matita, si poteva comunque attuare un’operazione di riciclaggio. Era perennemente spettinato e la sua capigliatura ondulata seguiva l’andamento del volere climatico. Portava una folta barbaccia che gli copriva gran parte del viso e lo faceva somigliare ad un licantropo. La corporatura mingherlina gli conferiva, infine, l’aspetto di un vero e proprio filosofo mendicante impazzito. Era molto pallido e si vedeva immediatamente che aveva le forze solamente per reggersi in piedi e per respirare. << Ciao! >>, gli feci, << cosa fai da queste parti? >> << Quello che faccio da oltre un mese, seguire due materie. Non riesco assolutamente a stare al passo con gli studi. Se la mattina mi arreco in facoltà, il pomeriggio mi risulta molto difficile mettermi sui libri >>. << A chi lo dici, sono rotto tanto quanto te >>. << La cosa che più non sopporto e che ultimamente si sta verificando spesso, è che questi farabutti di professori neanche si prendono la briga di venire a lezione. Ci fanno arrivare in aula, ci fanno aspettare per oltre un’ora e poi, magicamente, appare uno dei loro collaboratori che ci dice che l’insegnante è assente. È già la terza volta consecutiva che capita. Roba da matti! Meriterebbero di essere denunciati >>. << Sì è vero, sono dei maiali mafiosi! >>. << Questi bastardi ci fanno perdere tempo per trattenerci il più possibile in questa prigione didattica. Infatti fuori corso non sono un problema per l’università, ma la massima fonte di ricchezza. Immagina un mondo senza fuori corso: le entrate fiscali si ridurrebbero al minimo e le università offrirebbero ancora meno servizi di quelli che non offrono. È loro interesse che gli studenti vadano fuori corso; altrimenti chi gonfierebbe gli stipendi dei professori? Il bello è che poi si lamentano della nostra lentezza. Volete che gli studenti non vadano fuori corso? Aumentate il numero degli appelli. E invece no, ce la mettono in quel posto e ci criticano pure da sopra >>. << Già, hai perfettamente ragione >>. Ad un certo punto il suo stomaco prese a gorgogliare; lo fece talmente forte che pareva che, da un momento all’altro, si sarebbe messo a parlare. Io, sentendo quei versi strani, gli domandai: << Da quanto cacchio non mangi? Avrai sicuramente una fame da lupi >>. << Stamattina ho bevuto solo un bicchiere di latte. Sto imparando gradualmente a tollerare la sofferenza. Mi voglio liberare da qualunque dolore. Sono convinto che tra poco anche questo assenteismo del corpo docenti, non mi susciterà alcun tipo di manfrina. Ricorda: l’essenza della forza umana è la pazienza. Se si riuscisse ad essere perfettamente tranquilli in qualunque circostanza, nel mondo, la parola virtù sarebbe alla portata di tutti. Purtroppo la nostra razza è priva di volontà, quindi anche povera di perseveranza. Vuole raggiungere i suoi obiettivi nel breve periodo e senza nemmeno mettersi d’impegno. Ciò la porta ad un risultato mediocre che la lascia insoddisfatta >>. Secondo me Raffaele leggeva troppo a casa sua. Era il primo caso, enumerabile nella storia, che aveva subito degli effetti collaterali dalla cultura. La sua erudizione era eccellente, non c’era che dire. Avrebbe messo in difficoltà anche i più grandi luminari montati dei miei coglioni, che si aggirano tra i comuni mortali per comunicargli quanto è immensa la loro sapienza. Tuttavia, nella contingenza di Raffaele, questo sovraccarico di nozioni, inculcate autonomamente, l’avevano mandato letteralmente in tilt. La dottrina in suo possesso era così vasta che, talvolta, elaborava dei ragionamenti o delle frasi, che risultavano agli ascoltatori totalmente prive di senso. Egli sosteneva che, quando non lo si era in grado di seguire nelle sue dissertazioni, si sentiva più smarrito del suo stesso interlocutore. Provava la medesima sensazione di stare a comunicare con qualche animale. “Sei mai riuscito a spiegare un tuo concetto ad una formica? A me si verifica uno stato di disorientamento pressappoco simile”. Una volta mi disse: “Quanto siamo insolenti noi che fendiamo l’aria senza il suo permesso”. Quale cazzo di significato avesse, non l’ho mai capito. Neanche provai a chiedergli una spiegazione, altrimenti mi avrebbe riempito la testa di altre teorie che mi avrebbero confuso peggio di prima. Oppure, un'altra volta, cominciò a sbraitare sul perché tutti i cittadini possedessero il diritto al voto: “è un’incongruenza, i vecchi e gli ignoranti non si dovrebbero recare alle urne. Gli anziani non lavorano, hanno una mentalità inelastica e per di più sono soggetti alle influenze inculcategli nel passato. Gli ignoranti, dal canto loro, come possono votare se nemmeno conoscono le basi che stanno all’interno di un organo istituzionale? Per ricevere il diritto al voto bisognerebbe sostenere un esame di ammissione. Una volta superatolo, coloro che sono avanti negli anni dovrebbero avere un potere elettorale dimezzato rispetto a quello ordinario. Io, con tanta gentaglia messa ad esprimere la propria opinione politica, darei il voto anche ai cani ed ai gatti. Comunque rappresentano una parte cospicua della società”. A me sembrava una cazzata perché già gli anziani sono emarginati, se gli togli il diritto al voto possono tranquillamente buttarsi a mare. Ciò nonostante mi piaceva il suo modo di pensare, era al di fuori di tutto questo ammasso di cloni, che segue soltanto la strada che gli impone questa maledettissima dittatura mediatica. Sono convinto che, se si fosse trovato a vivere in un epoca molto più antica di quella odierna, prima avrebbe riscosso un successo strepitoso e poi lo avrebbero condannato a morte per eresia. Tant’è vero che era così contrario ai dogmi religiosi che le sue ideologie le dichiarava soltanto a me. In pubblico rimaneva silenzioso, onde evitare che si innescassero ripercussioni spiacevoli. Un discorso che mi colpì molto fu il seguente: “Il comunismo in tutti gli stati democratici dovrebbe essere bandito. È stato peggio del fascismo e nazismo messi insieme ma nessuno ci fa caso. Ha provocato cento milioni morti violando qualunque diritto umano. Chissà perché l’informazione in questo campo tende a scarseggiare. Io sono sempre più convinto che gli ideali di pace, solidarietà e fratellanza non potranno mai esistere, almeno fino a che esisterà l’uomo. Non credere mai ai buoni propositi, sono tutte promesse prive di fondamenta. Sono soltanto slogan per tenere calmi gli animi di coloro che potenzialmente potrebbero rivoltarsi contro. Non credere mai a nulla perché nessuno crede in niente”. Delle volte le sue divagazioni mi illuminavano, mi spalancavano gli orizzonti. Era come se fosse in grado di fornirmi un binocolo capace di guardare al di là dei limiti finiti dei luoghi comuni. Stavolta però non mi andava di ascoltarlo, ne avevo abbastanza della sua saggezza, se poi attaccava a parlare sarei tornato a casa a mezzanotte. Oltretutto il sudore mi stava irritando; avevo un prurito della malora. Lasciai Raffaele e m’incamminai nell’atrio dell’università. Capitolo 3 Finalmente ero arrivato all’aperto. Il sole splendeva, non aveva nessuna nuvola alle calcagna. Mi tornò di nuovo il caldo: stando in posizione statica crepavo dal freddo ma appena mi mettevo in moto mi trasformavo in un termosifone; la calura quasi mi soffocava. Attraversai la piazza adombrata dagli alberi semispogli dei platani. Le loro foglie, depositate sull’asfalto, cominciavano a costituire una nuova pavimentazione. Del resto l’autunno era alle porte: i giorni lentamente morivano nel buio. Appostati sulle panchine c’erano degli extracomunitari che vendevano una moltitudine di cianfrusaglie. Uno di questi mi si avvicinò e mi fece: << amigo, vuoi combrare occhiali? >>. << No >>, gli risposi secco, << sono senza soldi >>. Mi lasciò perdere e continuai ad incamminarmi sulla strada. Incontrai un paio di belle ragazze che nemmeno si degnarono di rivolgermi lo sguardo. La loro unica attrazione era incanalata solo ed unicamente ai negozi di vestiti. Che razza idiota le donne: la loro unica aspirazione e di agghindarsi il più possibile fino a diventare delle bomboniere parlanti. Ne vidi poi un’altra che mi ricordò molto Loredana: stessi capelli, stessa altezza, solo il viso era differente. Solo che Loredana era molto più graziosa. Ovviamente neanche la brutta copia di Loredana rivolse gli occhi verso di me. Poi sentii il suo profumo, era lei certamente; mi voltai e non c’era. Anche le narici si erano innamorate di lei ed avevano serbato gelosamente il suo ricordo. Erano miraggi trasformati in incubi. Giunto dalle parti del museo della marina, un signore dall’accento inglese mi chiese dov’era viale Giulio Natta. Io, come al solito, non seppi rispondergli. Se c’è un’operazione che mi fa andare in panne è quella di fornire le indicazioni, sono un perfetto incompetente. Ci metto una mezzora solo per capire quale informazione mi sia stata postulata. Dopodiché, mettiamo che abbia percepito dov’è situato il luogo richiestomi, mi ci vuole un’altra mezzora per spiegare quali strade bisogna intraprendere per raggiungerlo. Stavolta però non persi tempo, gli controbattei con prontezza dicendogli che ero estraneo alla città tanto quanto lui. Congedato il turista scesi il sottopassaggio delle Ferrovie dello Stato: sul binario quattro sarebbe partito il mio treno. Il pensiero di Loredana continuava ad attanagliarmi. Mi visitai tutti gli scompartimenti, da cima a fondo, per trovarla. Come di consueto non c’era. Erano sei dannatissimi anni che proseguiva questa insensata ricerca e, dopo sei maledettissimi anni, non ne avevo rinvenuto alcuna traccia. Avevo persino cliccato il suo nome su google e, l’unico dato messomi a disposizione era che frequentava l’accademia di belle arti e due anni fa aveva tenuto in un paesaccio, che al momento non ricordo come si chiamava, una mostra dei suoi lavori di pittura. Dunque aveva intrapreso la carriera artistica. Io gli artisti li ho generalmente sul cazzo perché sono soltanto dei montati perditempo che non svolgono alcunché di produttivo. Sono delle nullità viventi, hanno la stessa utilità delle appendici. Soltanto per lei avrei fatto un’eccezione. Era innegabile, il talento lo possedeva. Una volta mi fece un ritratto col carboncino che mi somigliava moltissimo. Anzi, aveva messo in luce una bellezza che non avevo mai posseduto. Quei minimi difetti facciali, che abbruttiscono ognuno di noi, non li aveva riportati; era come se avesse messo in risalto la parte migliore di me che nessuno era riuscito ad intravedere. Un capolavoro, il disegno ora riposava dentro un contenitore metallico, come una reliquia. Ed ora mi arrampicavo su una finta di speranza che continuava a disgregarsi e a rinnovarsi. Puntualmente ne rimanevo deluso e quotidianamente sognavo di vederla. Purtroppo i sogni erano solo menzogne che racconto a me stesso. Con gli anni era diventata una patologia vera e propria. Il suo ricordo mi si era appiccicato sui globuli rossi; essi trasportavano al posto dell’ossigeno delle immagini ormai sfocate dall’inarrestabile rotolio delle stagioni. Chissà se con un bel salasso mi avrebbero guarito. Vagavo di continuo come un fantasma saturo d’angoscia, trasportandomi addosso la mia pena invisibile. E pensare che giunsi ad un passo dall’amarla. Che fregatura che è la vita: quanto senti che il destino sul quale contavi si sta per avverare, te la infila a pressione nel culo. Che senso avevano quegli sguardi traboccanti d’affetto che ci facevamo a vicenda, se poi tutto è andato a farsi fottere? La verità è che nulla ha senso, tutto è casuale, peggio delle traiettorie delle palline dei flipper quando vengono scagliate per far partire una nuova partita. Ma chi me lo fa fare? Sono davvero stanco di maneggiare più merda di uno stercorario. Presi posto su un sedile dove c’era una scritta: “Nicole, Anna, Rosa amiche per sempre”; e affondai sul tessuto impolverato. I vagoni cominciarono a riempirsi e pertanto le poltrone furono quasi tutte occupate. Solo intorno a me c’erano tre posti a sedere liberi. Nell’intercapedine tra un sedile e l’altro, che consentiva il passaggio, le persone fluivano come pecore ma nessuna ne approfittava per accomodarsi. Le ragazze transitavano, guardavano l’opportunità messagli a disposizione, poi osservavano me ed infine decidevano di proseguire diritto. Che razziste figlie di puttana! Pur di non starmi vicino, preferivano rimanere in piedi. Ma chi cazzo si credevano di essere? Ste cafoncelle, opportuniste, carogne, con i loro sederi a violino pieni di cellulite! E vengono pure a spacciare che sono sensibili e credono all’amore? Sì, sensibili ai cazzi loro e credono nell’amore del potere e dell’apparenza. Poi si fidanzano con un autentico trimonazzo che le trascura e fanno finanche le vittime dei miei coglioni. In alcuni istanti mi vien voglia di dargli fuoco a ste facce di pesca filo naziste e puzzolenti! Con i loro fianconi debordanti che ricordano o delle trottole o delle pere. Gli auguro a tutte un’agonia piena di dolori. Comunque fui subito smentito perché una donna venne a sedersi. Solo che era una vecchiazza ultramillenaria con una faccia maligna e spiritata. La mummia egiziana, appena si mosse il treno, prese a fissarmi con disprezzo. In un dialetto sconnesso mi domandò: << D’ ce caz d’ pais sii? (di che paese sei?) >> Io gli risposi: << Sono di F*** >> Lei fece finta di sputare e mi rinfacciò, sempre in dialetto: << U’ sapev, si nu piz d’ merd d’F*** chid du pais tu so tutt na mass d’ strunz, i murt ca t’nit! (lo sapevo, sei un pezzo di merda di F***, quelli del paese tuo sono tutti una massa di stronzi. Li mortacci che tenete!). Io, di fronte a tante ingiurie, controbattei allargando le braccia, come per dire: “se lo dici tu sarà anche vero”. Prese a raccontarmi una storia assurda, piena di incongruenze, senza capo né coda, in un linguaggio pieno di sputi e difficile da percepire. Riuscii solo a tradurre che lei era di S***, e ce l’aveva con gli abitanti del mio paese perché, in gioventù, nel Mesozoico, suo padre possedeva un suolo agricolo, dal quale quelli del mio paese gli andavano a sgraffignare ogni cosa sudata con il duro lavoro. Disse pure che una notte diedero fuoco agli alberi del loro campo. Per tale ragione erano sempre vissuti nella miseria e da ciò l’odio spropositato per tutti i residenti di F***. Stava quasi per piangere ma la sua energia le mutò il dolore in cattiveria. Infilò una mano in una borsetta nera ed estrasse un foglio spiegazzato in due facciate. Lo porse a me e disse: << Liscm sta preghier ca si giuvn, ci sap quant porquari ve fascen (leggimi questa preghiera che sei giovane, chissà quante porcherie vai facendo) >>. Che avrei dato in quegli istanti per un bel bicchiere di cicuta, lo avrei ingollato in un sol sorso. Cosa cazzo dovevo fare? Gliela lessi, non esistevano vie di fuga. Sperai che il treno deragliasse ma nulla di tutto questo avvenne. Era una supplica alla madonna che avrebbe messo noia alle divinità stesse. Una palla mondiale, che finanche al vaticano gli avrebbe messo la nausea. I passeggeri che si trovavano nei paraggi, con i volti stupiti, stettero ad ascoltare la mia orazione. Stavo proprio dando spettacolo, ero diventato un coglione viaggiatore. Nel frattempo il treno scorreva lungo i binari bagnati da un esercito di pietre. Giunsi per l’ennesima volta a destinazione: un’altra giornata buttata al vento e all’insegna dell’assenza di Loredana. C’erano altri ragazzi che scesero alla mia stessa fermata. Il paese, alle due del pomeriggio, era un autentico mortorio in quanto era completamente vuoto: troppi spazi larghi in un ambiente troppo ristretto. Nell’atmosfera regnava un silenzio diffuso, mescolato con l’aria, tale che avrebbe permesso di sentire anche il respiro delle formiche. A quell’ora potevi incontrare tre categorie di esseri viventi: cani, vecchi e cafoni delinquenti che interrompevano la quiete col frastuono delle autoradio sparate a tutto volume diffondenti dolci melodie coatte. Sulla strada c’erano dei tubi di ghisa abbandonati e bloccati da un calcinaccio. Mentre li scansavo diedi un’occhiata ai manifesti mortuari. I cognomi scritti sulla carta bianca non mi dicevano alcun che. Provai ad avvicinarmi per vedere se nelle foto c’era qualche faccia conosciuta. C’era un vecchiaccio, forse era il marito di quella megera che avevo incontrato in treno, che doveva avere all’incirca millecinquecento anni. Nello sfondo lugubre egli sorrideva con una dentatura orfana di un incisivo. Indossava una maglia arancione. Era pallido, sembrava malato; magari quella foto gliel’avevano scattata qualche giorno prima che morisse. Certo avrebbero potuto anche mettergli un’immagine in cui era meno decrepito. L’unica parte del viso colorata erano i suoi occhi azzurri che luccicavano e si mettevano in mostra, quasi a dispetto della senilità. A fianco, leggermente di sbilenco, e con un angolo sgualcito, quasi strappato, vi era attaccato un necrologio di un giovane, di una trentina d’anni, avente una risata speranzosa. Secondo me lo fanno apposta ad immortalare i defunti in pose gaudenti. È tutto calcolato per suscitare l’emozione del rimpianto. È una strategia che viene utilizzata per fare in modo che, coloro che visionano il ritratto giulivo della persona deceduta, debbano poter dire la solita frase del cazzo: “Che peccato, che bel ragazzo, era tanto buono e così attaccato alla vita. Se ne vanno sempre i migliori”. E magari si trattava di un emerito coglione. Dobbiamo sempre rimpiangere i morti; mai che ci capita di rimpiangere i vivi che stanno morendo. Anche Luciano era attaccato alla vita; anche Luciano era giovane, aveva solo ventuno anni. E invece e crepato solo come un cane e nelle più atroci sofferenze. << Vai via Ciro >> mi diceva << che sto diventando una merda >>. Era l’unico della nostra comitiva che non beveva e finora, è stato l’unico a schiattare di cirrosi epatica. Bella fregatura che ti dà l’esistenza. Io sono stato l’unico a dargli una mano e a rincuorarlo fino all’ultimo momento. Non lo dimenticherò mai, era il venticinque aprile, la festa della liberazione dell’Italia dal fascismo. Per Luciano fu il giorno della liberazione del tormento. Tutti erano fuori a divertirsi e ad annoiarsi. Mi avevano invitato al mare ma io mi rifiutai categoricamente. << Non posso ragazzi, Luciano morirà da un momento all’altro >>. << Ma cosa dici >>, mi ripetevano ipocritamente. Facevano finta di non capire. Volevano, pur di soddisfare i propri interessi, addirittura rimandare la sua morte. Che egoisti figli di puttana. Non riuscivo ad entrare nella sua camera senza prima essermi scolato un bottiglia di vodka. Ero in imbarazzo di fronte al suo deperimento; mi vergognavo quasi di essere in salute. C’era sua madre ed altri parenti che mi sorrisero; ma la loro risata era distaccata dall’espressione degli occhi. Si leggeva la consapevolezza, che il loro Luciano, era un condannato a morte. Certe cose ti rimangono impresse per sempre, sono indelebili come le macchie di candeggina sopra i vestiti. Luciano se ne stava lì nel letto tutto rannicchiato. Sudato, con i suoi trenta chili di peso, e giallo come una spremuta. Puzzava maledettamente di farmaco; ma la cosa che mi provocava la nausea erano quelle sue schifosissime dita. Avevano una forma strana, verso la parte finale s’ingrossavano come le bacchette di un tamburo. Accidenti alla natura come umilia gli esseri viventi. Si diverte ad accartocciarli con la manualità della crudeltà. Ogni volta che l’andavo a trovare mi veniva un groppo allo stomaco. Me ne tornavo a casa con la rabbia e con una voglia di ringhiare spropositata. Poi un giorno, per fortuna, decise di morire. Maledissi l’esistenza umana dalla mela di Adamo ed Eva allo sbarco degli alieni. A che cavolo era servito Luciano? Che senso aveva far nascere qualcuno per farlo morire dopo soli ventuno anni? Molti diranno: certe persone, sia pure nel loro bagliore vitale, rappresentano una parte di un grande progetto. Ma quale dannatissimo progetto se tutto è destinato a scomparire. Se le nostre storie saranno assorbite da un buco nero che le smaterializzerà per sempre? Chi si ricorderà di me tra duecento anni? A chi vuoi del resto che gliene freghi. Qualcuno è al corrente delle vite delle persone comuni che sono vissute nel millesettecento? Qualcuno può dirmi se in quegli anni vi era un pazzo che come me si poneva i medesimi enigmi? La risposta è no! Si conosce soltanto la storia di chi ha scritto la storia, insomma di chi si è stato reso famoso dall’inquisizione dei mezzi di comunicazione di massa. Quindi la vita di Luciano non era finalizzata per essere conosciuta, ma solo ed esclusivamente era esistita perché in un qualche punto del globo terrestre c’era un idiota avvoltoio che doveva lasciare l’impronta in un passo scandito nella storia. Questa credo sia l’unica spiegazione plausibile, altrimenti non ne vedo altre. Quindi forse siamo come quei pezzi insignificanti che compongono l’ingranaggio di un orologio: senza utilità apparente ma, con un infinitesimale funzionamento reciproco, permettiamo alle lancette, ossia a quegli individui che influenzano la storia dell’umanità, di funzionare. Eh sì, perché le lancette, che vengono viste da un ipotetico osservatore, sono quelle che permettono di riconoscere l’orario e, del resto, sono quelle che si beccano ogni merito. Di tutto il caos che c’è dietro, nessuno se ne avvede; rimane chiuso nel contenitore dell’anonimato. Che gran bel ruolo di merda. In casa non c’era nessuno: mia madre e mia sorella erano entrambi al lavoro; meglio, quelle due sapevano solo dare fastidio. Pranzai con due panini farciti di salame e sottilette e con della frutta semi ammuffita. In televisione davano i Simpson: era una puntata che avevo già visto un migliaio di volte ma riuscì lo stesso a mettermi, momentaneamente, di buon umore. Prima di addormentarmi, accesi il computer e diedi un’occhiata su Facebook: c’era un messaggio di Cosimo che diceva: “frociò, stesso posto stessa ora?” Io gli scrissi: “ok, io vengo alle sette”. Fui abbastanza freddo, non mi andava di scherzare. Ma è mai possibile che non c’era una sola ragazza, in tutto il globo terrestre, che non mi chiedeva un contatto su questo social network, composto solo da rapporti di ipocrisia virtuale? Mi mettevo solo ed esclusivamente in comunicazione con maschi e per di più sfigati. Se almeno Loredana fosse stata iscritta le cose sarebbero andate diversamente. E invece no, nemmeno questa magra consolazione. Mi misi a dormire dalle tre alle cinque. Rimanendo sempre a letto ascoltai, per circa una un’oretta la musica sfascia orecchie dei Linea Settantasette. Alle sei, mentre mi guardavo gli appunti che avevo preso in mattinata, giunsero quasi con sincronia mia madre e mia sorella (Alessandra). Quell’idiota mentecatta di Alessandra uscì subito dopo per andare al corso di yoga, mentre mia madre pensò a mettere in ordine la casa. Alle sette meno un quarto abbandonai anch’io il mio rifugio casalingo. Ovviamente me ne andai senza salutare nessuno, senza dire dove mi recavo e senza avvisare a che ora tornavo. A chi cacchio gl’importava della mia sorte? Tanto di guadagnato, almeno non mi veniva a rompere le palle nessuno. Appena spalancata la soglia di casa mi si parava il solito bidone dei rifiuti, eruttante immondizia. Presi la macchina, ero stanco di andarmene sempre a piedi, e poi mi dava fastidio ad essere guardato e giudicato dai passanti. Ero a zero col carburante ma quel centilitro di benzina, era bastevole per compiere il viaggio di andata e ritorno. C’era però anche da considerare il problema che il cruscotto aveva più spie accese della CIA. Arrivai al luogo di appuntamento: la distilleria. Meglio dire l’ex distilleria; erano circa trent’anni che aveva chiuso i battenti. Si estendeva imponente e decadente, lateralmente al sito in cui ci incontravamo. Era fallita perché alla fine degli anni settanta un operaio era morto schiacciato da una fetta di trave che si era distaccata inspiegabilmente. La dinamica precisa dell’accaduto non la conoscevo, mi era stata solo raccontata. Sta di fatto che dopo l’incidente scoppiarono una bomba di accuse per trovare il responsabile del misfatto. È sempre così quando si verifica un incidente: si dice fino alla nausea “era una tragedia annunciata” e bisogna trovare per forza un capro espiatorio sul quale far ricadere tutte le colpe. Magari poteva essere soltanto lo scherzo di un destino amaro. Sta di fatto che si aprirono una marea di processi che non portarono a nulla e che fecero fallire la distilleria e perdere il posto di lavoro a sessanta operai. Ora ne rimaneva un rudere annerito e soccombente, pieno di erbacce, topi e colombi, che più che un’ex industria ricordava una casa infestata dai fantasmi. Rimaneva là, in balia del tempo e nessuno la toccava. Forse tutti pensavano che era biodegradabile. Magari, tra una decina di miliardi di anni, sarebbe definitivamente scomparsa. Nel frattempo ci osservava con quell’aria lugubre. Pareva che ci volesse dire: io offro malattie, disoccupazione, sporcizia e morte. Però, nonostante non svolgesse più una funzione produttiva, ne era stato fatto un uso alternativo: avevo sentito dire che al suo interno venivano compiuti dei riti satanici e che era diventato un luogo sicuro per nascondere le merci di contrabbando che stoccava la malavita. Insomma una sua attività se l’era ritagliata. Io non avevo tuttavia ancora visto nessun traffico losco; eppure passavo la maggior parte della giornata in quelle zone. Di una cosa comunque ero veramente certo: faceva schifo e non so se fosse più penoso il nostro oppure il suo stato. Gareggiavamo a sbriciolarci a vicenda. Neanche l’ambiente che ci circondava si metteva a nostro favore. Se un giorno mi avessero eletto sindaco, prima avrei raso al suolo quella fabbrica in rovina e poi avrei bruciato questo paese lassativo, che mi faceva venire da cacare senza stimolo. Altro che Cartagine. Capitolo 4 Nei pressi del vialone, illuminato dai lampioni emettenti una luce fioca, c’erano tutti tranne Giovanni, chissà in quale guaio si era cacciato. I miei amici stavano in gruppo: simili ai giocatori di football americano quando si rannicchiano a decidere lo schema di gioco, prima di cominciare una nuova azione. Solo uno di essi, era rimasto in disparte. Dal suo capellaccio rosso, avevo capito subito di chi si trattasse. Era quel porco di Andrea: stava per terra, con la schiena poggiata sul muro delle palazzine gialle, a fissare il vuoto. Sembrava un poeta in posa malinconica. Si vedeva che stava male e che voleva chiedere aiuto anche se non aveva le forze per farlo. Puzzava di acido e i suoi vestiti erano cosparsi di vino rosso. Dondolava la testa, ora da un lato ora dall’altro e farfugliava qualcosa di incomprensibile dalla sua bocca ripiena di bava. Faceva pena, persino il suo cadavere sarebbe stato più presentabile. Come lo vidi esclamai: << Giuda divino! Sono appena le sette e questo si è già impallettato! Puzzi talmente tanto di aceto che ti potrei utilizzare come condimento nell’insalata! >>. Gli tolsi il bottiglione di mano, ormai riempito per un quarto e gli diedi una sorsata. Il buio era sopraggiunto da parecchio sui nostri capi. << Ma che schifo! >>, gli gridai, << che razza di merda ci hai rifilato? Questo non è vino, questa è paraffina! E guardate quanta forfora si ritrova tra i capelli, sembra che si sia messo in testa il pan degli angeli. Se l’avessi saputo prima mi sarei portato una zuccheriera >>. Era Andrea che ci forniva l’alcol, suo padre aveva una cantina e produceva vino biologico. Ogni tanto ci portava un paio di bottiglie da un litro e mezzo, quelle di peggiore qualità. Gliele pagavamo pure, a sto ladro morto di fame. Nella sua macchina ce n’era un’altra, la stappai e l’odorai. << Che bastardo! >>, dissi, << anche questa è da buttare, sa di antiruggine. Non ti do neanche un centesimo, miserabile beone che non sei altro! >> << Il fiasco ha fatto fiasco! >>. Urlò Cosimo, non appena raggiunse il luogo del misfatto. Quel deficiente di Cosimo aveva il vizio di fare sempre delle battute orribili, da rendere una barzelletta melodrammatica. Possedeva, in verità, il talento di saper incastonare le parole in modo tale da comporre delle rime, oppure, come in questo caso, da creare delle antanaclasi simpatiche. Poi si avvicinò anche Carlo, scrutò dall’alto i resti umani di Andrea, uscì l’uccello e gli pisciò in faccia. La povera vittima inerme poteva solo sussultare e si prendeva urina in bocca, senza poterla scansare. A un dieci metri di distanza, il gregge di persone, non tendeva a diradarsi. Io invogliavo Carlo a non smettere: << Riempilo di piscia a questo porco, tanto ha lo stesso sapore del suo vino >> Cosimo invece era del parere opposto: << Dai finitela, è umiliante! >> << Umiliante?! Tutt’al più è un’onorificenza. Non sai che Orione deriva dalla piscia di Nettuno, Giove e Mercurio? E poi con un bello shampoo urinario gli vengono eliminate tutte quelle scaglie di forfora che gli scorazzano sul cranio. >> Cosimo parve soddisfatto della mia spiegazione e sparò un’altra delle sue fesserie. Quando era in vena di freddure, nessuno lo poteva fermare. Rivolgendosi a Carlo, che si rimetteva il pisello nelle mutande, disse: << Sai perché hai fatto il tuo bisogno velocemente? Perché possedevi una cerniera lampo >>. A quel punto intervenni io: << Cosimo, finiscila con questo repertorio da schifo. Le tue spiritosaggini mi fanno più vomitare di questo vino alla candeggina! >> << Ok, non ti scaldare troppo che non siamo arrivati in pieno inverno. Secondo me, bisognerebbe fargli rigurgitare l’intruglio che si è scolato. Se il suo organismo lo assorbe completamente, rischia di rimanerci secco come lo sterco >>. << Ben gli sta a venderci il vino di quarta qualità a questo parassita succhia denaro. Cosa c’è Cosimo, ti dispiace? Vuoi che vomiti? Ora ti accontento subito >>. Serrai la testa di Andrea tra le tenaglie delle mie mani e gliela scossi, come se stessi preparando un cocktail. Andrea si lamentava nel linguaggio degli sbronzi. Dopo che lo ebbi strapazzato per qualche minuto, incominciò ad avere i primi conati. << La missione è stata compiuta con successo >>, dissi ai due spettatori in apprensione. Poi rimanemmo a guardare Andrea che dava sfoggio dei suoi rigurgiti. Uscì di tutto: vino, bava, bile, essudati gastrici, enzimi, cellule, streptococchi, stafilococchi, virus, acido cloridrico e per dare un tocco artistico al miscuglio della morte, finanche del sangue color vermiglio. L’eruzione l’aveva svuotato. Per lo meno aveva ripreso la lucidità. Si tolse la maglietta e rimase in canottiera. Poi quasi a volerlo fare a posta, chiese: << E’ finito il vino? Ne vorrei ancora un poco >>. Non aveva fatto in tempo a smaltire la sbornia, che già pronto per un altro giro. Secondo me era davvero malato. Non mi spiegavo nemmeno come riuscisse a riprendersi così velocemente. Io, dopo un trauma alcolico del genere, per riacquisire uno stato decente, avrei dovuto impiegare, almeno una decina di ore. Era fenomenale, la sua persona andava studiata attentamente. Io lo avrei ingaggiato in qualche laboratorio di ricerca, per utilizzarlo come cavia. Sono convito che sarebbe stato contento di una professione così rischiosa; per lo meno avrebbe avuto uno scopo nella vita. Gli risposi: << E’ finito quel vino orrido che ci hai portato. Lo abbiamo gettato >>. << Ma come lo avete gettato?! Ed ora? Siamo senza vino? Nemmeno alle nozze di Cana erano così a corto di alcolici! >>. Cosimo volle accertarsi del suo stato di salute: << Cazzo Andrea, ma stai bene? Già ti sei ripreso? Credevo ci stessi lasciando per sempre >> << Sì ormai reggo tutto. Vedi è solamente una questione di abitudine. Basta allenarsi a bere ogni giorno per adeguare il proprio corpo. Non sono io che mi devo abituare all’organismo, è l’organismo che si deve abituare a me. Questa società, a me, non mi deve imporre niente. Dev’essere la natura ad occuparsi dei miei limiti. Nessuno mi trascinerà come Ettore. Ognuno è diverso dall’altro e in quanto tale, deve dare la precedenza alla propria indole. Quindi mi faccio a piacimento, fino a quando il mio corpo si sarà fatto invincibile ai miei vizi >>. Io gli controbattei: << Oppure fino a quando non ti vedremo, finalmente, stramazzato >>. Andrea continuava a rompere: << Sul serio, è davvero finito tutto quel vino che vi avevo portato? Ma siete degli ingrati! Ora me lo dovete pagare lo stesso >>. Cosimo gli rispose: << Se hai tanta smania di bere, puoi sempre prendere del nastro adesivo e farti un bel bicchiere di scotch >>. Assieme a Carlo lo aiutammo ad alzarsi e a braccetto, scortati da Cosimo, ci avviammo verso gli altri. C’era qualcuno che faceva da intrattenitore. Si stava osannando qualcuno, ma non avevamo ancora capito chi fosse il soggetto: << Ragazzi! Fu proprio un grande! Riuscì persino ad organizzare il concilio ecumenico Vaticano secondo >>. Andrea con un briciolo di forze disse: << Ma chi è che sta parlando di queste assurdità. Non ditemi che sono ancora ubriaco >> << No, tu stai bene. È quell’imbecille di Riccardo che sta facendo il galletto saputello >>. In prossimità della cortina umana che si era venuta a creare, Riccardo, al centro, faceva da oratore ai suoi discepoli. Stava raccontando la biografia di Giovanni XXIII: << …Era bergamasco e di umili origini. Prima di essere nominato papa, trascorse molto tempo in giro per il mondo: Bulgaria, Francia, ecc.. In Turchia aiutò gli ebrei a sfuggire dalle deportazioni naziste. Fu nominato pontefice, quando era patriarca di Venezia ed era già abbastanza anziano. Non ricordo di preciso che età avesse ma sicuramente aveva varcato la soglia dei settanta. Ancora una volta, durante il suo mandato, venne incontro agli ebrei, che non riconoscevano il nuovo testamento. Utilizzò, come forma di mediazione, le seguenti parole: “veniamo dal padre, dobbiamo ritornare dal padre”. Non vi nascondo che, sul suo conto, si proiettarono dei lati oscuri; secondo me frutto di calunnie immotivate. Ad esempio, si venne a sapere che fosse a conoscenza dei microfoni che erano stati posti nel confessionale di San Pio, per spiarlo. Oppure era contrario al dialogo con le sinistre; nel senso che ripudiava i comunisti ed i socialisti, in quanto legati all’ideologia marxsista. Tuttavia, nonostante tali fermezze, accettò la stipulazione dall’alleanza tra DC e PC. Purtroppo, come tutti gli esseri umani, si piegò all’atroce realtà: un cancro allo stomaco lo colpì, così forte, da non lasciargli scampo. Anche sua sorella aveva avuto lo stesso tragico destino >>. L’ultima frase l’aveva intristito notevolmente. Io intervenni con una delle mie solite sortite violente: << Ma dove cazzo le vedi queste trasmissioni così noiose? Io, neanche con gli integratori riuscirei a seguire una simile lordura. Se continui di questo passo diventerai più scocciante di un testimone di Geova >>. << Invece sono programmi culturali. L’ho guardata su Raitre >>. Cosimo volle porre una domanda da ficcanaso: << Ma è diventato almeno santo? >> << E certo. Come è possibile non premiare un uomo così buono? >> Cosimo non ne aveva ancora abbastanza: << Ma con quali criteri si diventa santo? Ci saranno delle procedure alle quali bisogna attenersi >>. << Sì, c’è un iter da seguire, sia per conseguire il processo di beatificazione che per raggiungere quello di canonizzazione. Innanzitutto è necessario condurre delle indagini meticolose sull’intera vita della persona interessata e, se non erro, bisogna aver compiuto, obbligatoriamente, un miracolo. Giovanni XXIII, infatti lo realizzò. Una suora, mi pare nel 1966, dopo tre anni dalla sua morte, anch’essa malata di cancro allo stomaco, guarì inspiegabilmente, proprio quando stava ad un passo dal baratro. Ella, prima di ritornare in salute, dichiarò di aver visto il papa, che la spronava a rialzarsi dal suo capezzale >>. << Se è per questo >>, proruppe Andrea, << Io, ogni giorno che passa, compio un miracolo. Riesco a mantenermi ancora in vita, nonostante gli ettolitri di etanolo che assorbo. E mica mi hanno canonizzato >>. << Il miracolo avverrebbe >>, rispose Carlo, << se perdessi quella faccia di merda che ti ritrovi. Sei talmente merdoso, che per soffiarti il naso, non usi dei comuni fazzolettini ma ti servi della carta igienica. Infatti è l’unico materiale che ti fa sentire a tuo agio. È una forma di compatibilità fecale >>. Andrea continuò fregandosene di Carlo: << Secondo me la chiesa la chiesa ti fa santo, non solo per i miracoli e per le opere di bene, ma soprattutto per il numero di fedeli che riesci a convertire alla loro religione. I cattolici sono come i mass media: non badano alla qualità; pensano solo ed esclusivamente all’odience. Che fregatura, persino il marketing si è insediato nella religione >>. Mi allontanai per scolarmi una birra. L’atmosfera quella sera mi opprimeva particolarmente. Mi guardai attorno: lo squallore e le tenebre che ci circondavano rendevano l’atmosfera tetra, quasi al limite del surreale. Era un luogo per dannati, una sorta di girone infernale dantesco, importato nel mondo dei vivi. Mancava solo uno stronzo di Minotauro o di Pluto a dettare le leggi di questo Averno di dolore. Non c’era colore, ma solo un nero sbiadito che nelle notti di luna tendeva a farsi più sopportabile. Da qui era impossibile far sbocciare speranze o sentimenti, non c’era la possibilità di farlo, rimanevamo prigionieri nella miniera della nostra iracondia. Era una sorta di sorte monotematica. Si dice che la fortuna passi prima o poi nella vita di ognuno; io qui finora, ho visto transitare solo cani. Noi le pene le scontavamo già tra i viventi. Se solo si potesse uscire da questo pantano, accidenti! Non vedo, purtroppo ancore di salvezza: ci sono solo vicoli ciechi o sbarramenti invalicabili. Noi eravamo e rimanevamo soltanto una generazione di sconforti: la parte arida della società, la diarrea della civiltà, il marcio da estirpare, insomma, per dirla in modo franco, gente da censurare. Non avevamo ambizioni, vivevamo per inerzia, senza alcuna speranza per il futuro. Nonostante fossimo molto giovani, ci gravava dentro l’enorme fardello della vecchiaia precoce. Per illudere la senilità dei nostri pensieri, ci ciuccavamo fino a stare male. Diventammo così, i piromani di un’esistenza priva di sbocchi e a suon di alcol e canne, la nostra vita si stava bruciando ad un ritmo epidemico. Del resto, che altro potevamo fare se anche la persona più ripugnate di questo mondo si sentiva in dovere di esserci superiore e, quando ci incontrava, ci lanciava sguardi di protervia e di ribrezzo? Perciò bevevo soltanto per occultare il dolore. Ma il problema era che bevendo mi facevo soltanto del male e perciò non facevo altro che ricoprire il dolore con altro dolore. Quindi invece di seppellirlo, lo sovrapponevo, di conseguenza aumentandolo. È poi c’era quella solitudine che mi stritolava ovunque, anche nel bel mezzo di un trambusto. Anche quando ero in compagnia soffrivo di solitudine. Anzi, certe volte mi sentivo meno solo quando rimanevo da solo. Esiste la solitudine fisica: data dal mancato contatto con la gente; e poi c’è quella mentale: che si innesca con l’impossibilità di condividere i propri sentimenti con il prossimo. Io soffrivo d’entrambe. Presi la lattina di birra, poggiata nel sedile posteriore della macchina di Cosimo, e l’aprii. La linguetta mi provocò un lieve taglio. La ferita era insignificante ma da quella fenditura filiforme uscirono torrenti di sangue. Tentai di medicarmi, tenendo il dito vicino alla bocca, ma non ci fu verso, lo straripamento era oramai avviato. << Pisciagli sopra >>, mi disse Andrea che per la noia mi era stato appiccicato dietro. << Sì >>, gli feci io, << poi magari gli cago e la ricopro di muco. A me non importa che si disinfetti! Quello che al momento mi interessa e che questa fastidiosa emorragia si plachi. Sai quanto me ne sbatte che il dito se ne vada in cancrena? Me lo possono pure mozzare, l’importante che prima mi riesca a bere senza rotture questa fottutissima birra! Maledizione! >>. Ero alquanto scorbutico, devo ammetterlo. Cosimo mi porse un fazzoletto e me lo avvolsi intorno al dito a mo’ di garza. Lentamente si maculò di rosso in vari punti e assunse la stessa colorazione della Pimpa. Mentre sorseggiavo la mia buona birra, scorgemmo, da lontano, dovevano essere almeno un centinaio di metri, una sagoma, seguita da due cani. Era Giovanni, con quella camminata scoordinata, lo avrei riconosciuto anche da Saturno. Le bestie che gli stavano vicino erano Sniffone e Pecorone. La prima aveva assunto quel nomignolo perché ti annusava in continuazione, era simile ad un pastore tedesco, ma in realtà non lo era, si trattava solamente di un bastardo come noi. La seconda, invece, era candida come un ovino; solo, date le dimensioni imponenti, le era stata aggiunto il suffisso –one. Erano le nostre mascotte, ci facevano compagnia ogni sera. Erano così tranquille, da non permettersi nemmeno di abbaiare. Per lo meno qualcuno ci rispettava. Non riuscivo a capire come cacchio si trovassero insieme a Giovanni. << Trimone, perché hai quella faccia? Sembra che ti abbiano arrostito le palle! >>, feci io con la mia immancabile ospitalità. Il nuovo arrivato era affannato e stravolto. Neanche mi salutò e subito raggiunse gli altri. I due cani si accucciarono in disparte. << Ehi ragazzi! >>, urlò Giovanni con quel poco fiato che gli rimaneva nei bronchi, << avete sentito del fattaccio che è avvenuto nella foresta, a tre chilometri dal paese? >> Io ero in vena di provocazioni e cominciai a stuzzicarlo: << Quale >>, dissi, << quella di querce o la pineta? >> << e che ne so io >>, ribatté, << chi le sà distinguere le piante. Quella che ha gli alberi più alti, con le foglie ad ago >> << Allora è la pineta. Ma Giuda benedetto, neanche sai distinguere un pino? >> << Ma vaffanculo! Pino, per me, è solo un nome di persona. Il punto non è questo, è la tragedia che è avvenuta! >> Cosimo s’intromise, rivolgendosi a Giovanni, con il suo sarcasmo da quattro soldi: << Come cavolo fai a sapere le notizie in tempo reale? Sbrigati a raccontare questa storia, mi stai facendo venire l’ansia, con le tue notizie ANSA >>. << Sì, se vi state un po’ zitti, vi narro l’accaduto. Dunque, di nome fa Nico, il cognome non lo so. Aveva pressappoco, la nostra età; ha la carnagione scura ed è alto e magro. Beh, non importa, sta di fatto che mentre era in bicicletta nella foresta, gli sono franate addosso una marea di macerie, che l’hanno sepolto completamente. I vigili del fuoco sono stati quattro ore, per capire cosa fosse successo e per estrarlo morto da quell’ammasso di terra e fango >> A cinque metri di distanza, seduto sul marciapiede, Riccardo esclamò: << Oh Cristo! Ho capito di chi si trattava, lavorava al mercato ittico, quello che si trova in piazza. Poveraccio, spero non abbia sofferto >> << Ma lo conoscevi? >>, domandò Carlo, con occhi spiritati. << No, cioè sì. O meglio, solo di vista >> << E allora! Chi se ne fotte! Uno di meno, ci offrirà la possibilità di usufruire di una maggiore quantità di ossigeno. È morto da eroe, pace all’anima sua. Io direi di brindare alla sua salute dato che non c’è più! E mi auspico che qualcun altro, fuorché io, possa crepare allo stesso modo! >> Rimanemmo silenziosi e atterriti, da una dichiarazione così crudele. Carlo era perfettamente lucido e non solo non provava pietà per una vicenda così allucinante, no, ma si permetteva persino di fare dell’ironia così pesante. Una volta mi illudevo che Carlo si comportasse in quel modo solo per creare scandalo e mandare in tilt gli ipocriti. Mi sbagliavo alla grande. Egli era davvero uno squilibrato, socialmente pericoloso, da rinchiudere il prima possibile in manicomio. Ne ebbi la certezza esattamente un anno fa, quando il paese si scosse per l’omicidio di una prostituta, trovata morta ammazzata lungo i bordi di un tratturo. La notizia, visto che era capitata in un piccolo centro, era sulle bocche di tutti i cittadini. Qualche settimana dopo la terribile violenza Carlo, una sera, mentre eravamo scoppiati di canne, mi prese in disparte e mi confessò che era stato lui l’autore dello squallido reato. Io non gli badai minimamente perché pensai si trattasse di una delle tante idiozie che raccontava per passare il tempo, simili alle leggende metropolitane narrate per far sognare le mandrie di illusi. I giorni passavano e Carlo continuava a ribadirmi le proprie colpe. Una volta, dopo avermi martellato il cervello con i suoi fatti scabrosi, perse la pazienza e mi annunciò con fare petulante: << Lo sapevo che non mi avresti creduto, ti porterò però una prova che ti farà cambiare idea. Vedrai testa di cazzo come muterai opinione! >>. L’indomani, infatti, si presentò giulivo, con una fazzoletto tra le mani che fungeva da involucro a qualcosa che non si poteva distinguere cosa fosse. Quando aprì il cartoccio, rimasi esterrefatto dallo sconcerto: era l’anello nuziale della vittima, annerito e d’oro; e quel mostro me lo mostrava come se fosse stato un reperto di caccia. << Hai visto >>, fece, << che dico sempre la verità? >>. Io, dopo essermi ripreso dal trauma, con voce fiacca, gli risposi con un’altra domanda: << Sei una merda, ma che cazzo ti aveva fatto quella povera donna? >> Lui allora mi raccontò la sua storia macabra: << Erano circa le diciannove e stavo tornando con la macchina dall’università, quando notai in lontananza una puttana in attesa di clientela. Poiché mi ritrovavo addosso i venti euro sgraffignati al nonno e siccome ce l’avevo talmente arrapato che avrei bucato i jeans, decisi di cogliere la palla al balzo con una bella scopata. Prima di recarmi da lei diedi una decina di sorsate all’inseparabile grappa, altrimenti avrei raggiunto l’orgasmo troppo velocemente. Una volta compiuto alla grande il mio dovere, chiesi quanto veniva a costare il servizio prestato. Lei mi rispose che dovevo sborsare quaranta sacchi ma io ne avevo solo venti. Glielo spiegai che i soldi non mi bastavano, non una, ma mille volte. Lei invece non volle sentire ragioni. Prima mi prese a parolacce e dopo, come se non bastasse, mi picchiò come una forsennata. Io, a quel punto, offeso nella dignità, persi le staffe, estrassi il coltellino svizzero dalla tasca e la riempii di pugnalate. Poi, con tutta la sensibilità che mi porto dentro, volli portare una prova da mostrarti, sfilandole dal dito della mano sinistra l’anello, che ho conservato gelosamente fino ad oggi con tanta parsimonia. È inutile che fai quella faccia schifata, anche tu ti saresti comportato allo stesso modo; dovevi sentire gli insulti che mi proferì quella troia. Vaffanculo, nessuno mi capisce, la morte se l’è cercata, è stata solo colpa sua >>. E si mise a battere i palmi delle mani contro le pareti di confine della stazione. La situazione stava degenerando, non mi andava di far scoprire l’accaduto, altrimenti saremmo stati interrogati all’infinito ed avremmo perso la libertà. Non solo, saremmo stati pure travolti da un ciclone di ruffiani. Perciò diedi a quella bestia un consiglio: << Se ti vuoi salvare il culo, liberati al più presto di quell’oggetto e dimentichiamo questa fottutissima storia una volta per tutte >>. Gli piacque il mio suggerimento, tant’è vero che lo accettò. Non mi disse però come si era liberato della prova, né tantomeno provai a chiederglielo. Nel giro di qualche mese la faccenda si chiuse definitivamente, anche perché le indagini della squadra mobile non riuscivano a seguire alcuna pista che li mettesse sulla strada giusta. Carlo, dal canto suo, rimosse subito quella vicenda dell’orrore. Giovanni aveva con sé uno zaino contenente due belle bottiglie di assenzio. Gliela strappai di mano e gli diedi una lunga sorsata. Mi quietai un pochino: l’anima, lentamente, per effetto dell’ebbrezza, si stava distaccando dal corpo. Sentivo tuttavia un bruciore lancinante di stomaco, come se, sulle pareti gastriche, stesse colando del magma. Non eravamo ancora tutti al completo, mancava solo Vernice. Anche se, a dir la verità, egli veniva saltuariamente. Era il nostro fornitore ufficiale, ecco perché la sua presenza era un evento così raro. Aveva un sacco d’impegni, spacciava droga nell’intero paese ed anche in quelli limitrofi. Si era fatto una buona fama in quanto sapeva servire la clientela alla grande. Insomma un buon libero professionista. Conosceva le persone giuste, quelle che se ne intendono di certe faccende e che ti danno della roba di buona qualità: cocaina, eroina, guaranà, lsd, mescalina, betel, marijuana. Vernice non era naturalmente il suo vero nome; lo chiamavamo così perché emanava quel tanfo intenso di solvente che ti fa venire i giramenti al capo. Sicuramente quell’odore sgradevole, onnipresente, era causato dal fatto che lavorava in un’azienda che produceva suppellettili in legno. Questo lavoro lo svolgeva di giorno, nelle ore successive si dava allo spaccio. Intorno alle dieci si fece vivo e puzzava più de solito. Sono convinto che l’arredamento che rifiniva fosse meno ripugnante all’olfatto. Noi ogni volta che ci portava qualche sostanza, ce la prendevamo, gli promettevamo di pagargliela ed invece, puntualmente, rimandavamo le nostre spese. Ci inventavamo una scusa od un motivo per distrarlo e non dargli nemmeno un centesimo, e quell’idiota rimaneva sempre con le tasche vuote. Pigliarlo per il culo era diventato il nostro passatempo preferito. << E’ arrivato Vernice! >>, schiamazzammo in coro, << chissà cosa ci avrà portato di bello! >> << Mi dispiace ragazzi, oggi ho solo del fumo. Se pazientate una sola settimana, vi porterò del guaranà che manderebbero in tilt anche il Dalai Lama >>. Giovanni lo ammonì. La tattica della serata era di riempirlo di colpe in modo da farlo sentire fustigato dai rimorsi: << Una settimana fa promettesti che ci avresti riempito di Peyote. Tu sei solo un pallonista. Tutte le volte vieni a farci visita sempre con la stesso menù >>. << E cosa volete da me, io sono un fattorino, niente di più. Dovete tenere conto che, certe sostanze, vengono dal sud America e inoltre devono anche rimanere indenni a tutti i controlli di dogana. Io sono l’ultima parte dell’intera filiera, se qualcosa nelle zone superiori va storto, le conseguenze su di me hanno una ripercussione doppia >>. Io non potevo non intervenire: << Ma non dire cazzate! So io qual è il destino della roba che ci prometti: va a finire a chi ti offre un prezzo più elevato. Conduci un indagine di mercato e vendi le tue merci all’imbecille disposto a pagarti di più. Sei uno sporco usuraio, mi fai veramente schifo. Di fronte ai soldi ti dimentichi pure degli amici >>. Era stato un colpo basso. Si vedeva che se l’era presa. Volle tuttavia mantenere l’orgoglio e si limitò a rispondere: << Guarda che ti sbagli di brutto. Io non cado così in basso >>. A momenti scoppiava in lacrime. Rimase un po’ zitto e dopo averci dato una bustina di fumo che naturalmente non gli venne pagata, s’inventò una scusa per abbandonarci: << Oh raga, io ho un impegno urgente. Deve venire un pezzo grosso dalla città e non posso mancare. Sapete com’è, certi appuntamenti sono più sporadici di un’eclissi di luna. Ricordatevi che avete un debito di trecento euro, per tutta la droga che vi ho dato gratis. A domani. Ciao! >> Carlo volle dargli la batosta definitiva: << Ehi Vernice, si dicono delle cose spaventose sul tuo conto. La gente va mormorando che hai degli atteggiamenti strani e che fai parte addirittura di un clan mafioso. Corre voce che fai anche i furti di macchine e che ti sei imbucato nel giro delle scommesse delle gare clandestine. Pare che la polizia non ti tolga mai gli occhi di dosso e ti vada sorvegliando in ogni tuo minimo spostamento. Stai all’erta, altrimenti farai una brutta fine. Non fare quella faccia da ebete, sto parlando seriamente >>. Egli sorrideva per sdrammatizzare, ma si vedeva che stava morendo dalla paura. << Dicono un mucchio di cretinate su di me >>. << Saranno anche delle cretinate ma se ti trovi un giorno un proiettile nella scatola cranica, non venire a dire che io non ti avevo avvisato >> << Ok, beh, io vado >> << Ti saluto amico mio caro >>, disse Carlo, imitando la voce di un picciotto siciliano, << mi raccomando, non far arrabbiare i cattivi e rispetta la famigghia che ci tiene tanto alla tua salute. Soprattutto cerca sempre di guardarti sia le spalle che le palle. Addio figghiu beddu, baciamo le mani! >> Vernice già lontano ma non troppo per ascoltare l’intimazione di Carlo, fece un gesto col dito medio per mandarci in sintonia a quel paese. L’avevano moralmente distrutto. Chissà quando sarebbe ritornato. Tra non molto, visto che noi eravamo essenziali nei suoi guadagni. Invece mi sbagliavo alla grande. Ci trastullammo di veleno e con un’altra sbronza raggiungemmo la mezzanotte. Nella narcosi, il tempo viaggiava senza noia, in un lampo, con tranquillità. Tralasciando i problemi che si accavallavano durante l’itinerario della nostra esistenza. L’unico cruccio che non si affievoliva era il bisogno disperato d’amore che in quei frangenti rimbombava con violenza nel mio cervello. La malinconia s’impossessava della mia personalità e mi rendeva anche incapace di fingere uno stato d’animo ottimistico. Loredana era perennemente dentro di me, ovunque, tascabile nei miei pensieri. Un tormento senza tregua, qualunque cosa io facessi, lei era presente e mi corrodeva in modo ossessivo. Con molto riserbo si nutriva a spese della mia giovinezza. L’ultimo treno della giornata giungeva alla stazione con un fracasso terribile, infischiandosene di trovarsi circondato da palazzine in tarda ora. Fino alle cinque del mattino il via vai ferroviario era in stato di dormienza. Persino le locomotive andavano al riposo. Noi no, saremmo andati avanti allo stremo ed avremmo vegliato un paesaccio, misero, squallido, immobile e silenzioso. La staticità dei luoghi era tale che sembrava che ci avessero proiettati in un’enorme fotografia. Una lieve foschia appannò l’orizzonte. Mancava solo la nebbia a deprimermi definitivamente. Forse si trattava di un aerosol perché nel giro di pochi minuti mi ritrovai inumidito fino alle ossa. Non mi volli comunque spostare, rimasi seduto sulla spalliera della panchina a godermi il panorama della solitudine. In fondo si trattava solamente di acqua, con essa ci si lava e ci si disseta. I miei amici erano rientrati al completo nelle macchine; temevano d’insozzarsi, non si rendevano conto di quanto fossero imbrattati dentro. Era inutile spiegargli certe cose, non avrebbero capito. Non sapevano che il futuro dell’intero genere umano termina in un vicolo cieco. La vita ha sempre la stessa meta, si nasce si vive e si crepa. Leggo ancora negli occhi dei miei amici, che stanno messi abbastanza male, l’ingenuità di voler credere in qualcosa. Ma loro non saranno mai capaci di crescere, sono ancora cosparsi dal liquido amniotico che sancisce la loro immaturità. Certa gente ha l’inconsapevolezza di essere incapace di intendere e di volere. Se fossero al corrente di essere rincoglioniti probabilmente si correggerebbero. E invece no, rimangono a sguazzare nella loro ignoranza peggiorando sempre di più un quadro clinico già di per sé disastroso. Si bevono le stronzate televisive, credono che i cantanti siano dei profeti, vivono di miti e di storie leggendarie. Grazie al motore dei mass media, anche il più gran demente troglodita di tutti i tempi, con un po’ di pubblicità, potrebbe reincarnarsi in un eroe. Non hanno capito veramente un cazzo che siamo quotidianamente presi per il culo. Sono tutte un oceano di minchiate per sfuggire alla semplicità della realtà. Si cerca di gonfiare e di complicare ogni cosa pur di non ammettere il nostro valore esiguo: siamo nati da una fusione di spermatozoi e ovuli e spariremo sotto forma di terriccio. Che disgusto! Il danno principale è che nessuno guarda la verità a trecentosessanta gradi. Anche di fronte all’evidenza chiunque sarebbe capace di negare il lerciume che li sovrasta. Noi non siamo altro che una valanga di carne in putrefazione, destinati ad accumularci alla rinfusa, per decomporci e sparire senza disturbo. Il mio è un concetto globale, non dico le mie parole solo perché vivo in questo paese di bifolchi. Se fossi vissuto in città, mi sarei sentito comunque solo. Sono le persone in generale che vivono con i paraocchi: aspettano ansiose che venga una svolta nella loro vita che in realtà non giungerà mai. Si finge di essere inconsapevoli. L’unica certezza alla quale non potranno mai sfuggire è la morte. Nel frattempo trascorrono le loro giornate improduttive, tentando d’ingannare la noia; ed intanto, con rapida lentezza, invecchiano. Poi, all’improvviso gli capita di osservare il loro immane declino, o mediante un confronto, oppure tramite un resoconto personale; quindi cadono in preda allo sgomento. Ma l’afflizione è passeggera, di breve durata, perché il tutto immediatamente viene gettato via come urina. Mi è capitato di sentire, in un documentario, che gli animali sono ignari all’esistenza del decesso. Pertanto noi umani, in questo aspetto, possediamo lo stesso comportamento delle bestie. E meno male che la marcia in più dovrebbe essere proprio la capacità di elaborare dei pensieri ragionevoli. Sono alla stregua di camaleonti, pipistrelli, rinoceronti, ecc.. Che massa di zombie. Non esiste la riflessione in proprio. Ma santo Dio, io quando ricevo un imput da una fonte esterna, primo lo elaboro sulla base delle ideologie e le sensazioni che improntano il mio carattere, dopodiché ne rilascio un’opinione più o meno modificata, rispetto a quello che mi è stato inviato. Il resto dell’universo no, fa esattamente il contrario: assorbe l’input e lo restituisce al mittente senza alcuna modifica. Che gente inutile, vatti a stare una vita con tanta feccia. Riccardo mi venne vicino, era strafatto, si era imbottito di sostanze più di una mummia. Si reggeva a stento, poggiandosi sulla panchina: restare in equilibrio era un’impresa alquanto ardua. Mi squadrò e fece: << Ehi Ciro, mi serve la tua mano. Devo mettere in pratica alcuni insegnamenti dei miei maestri di chiromanzia >>. Riccardo era un ragazzo biondissimo, sembrava di origini scandinave. Aveva un anno in meno di me e la sua passione era la musica. Andava al conservatorio e sognava di diventare maestro d’orchestra. Un lavoro che mi convinceva poco. Secondo me ai maestri d’orchestra gli danno troppa importanza. Mica è soltanto merito loro quando una melodia riesce. Sono come i vigili urbani: dirigono indirettamente il traffico, mettendosi al centro della strada, ma se lo scorrimento delle macchine riesce, gli automobilisti qualche merito lo devono pur avere. Dato che conoscevo ampiamente i suoi gusti, questo improvviso interesse per la chiromanzia mi aveva spiazzato completamente. Stava sicuramente delirando. Volli dargli un consiglio: << Tornatene a casa, non stai bene. Ti fai troppo, sei incapace di intendere e di volere. Stai più fumato di un comignolo. È pur vero che anche quando ti trovi in pieno possesso delle facoltà mentali fai altrettanto pena. Secondo me passi troppe ore al computer; sì, non ci deve essere altra spiegazione. Il tuo PC ti deve aver trasmesso qualche virus cronico. E toglimi quelle zampe di dosso, lebbroso che non sei altro! >>. Era troppo insistente. Due erano le soluzioni: o lo riempivo di botte oppure lo accontentavo. Scelsi la seconda via, anch’io ero alla frutta. Mi trattenne per il polso, non mi era ancora chiaro se fosse uno scherzo o se si stesse cimentando seriamente. Guardò il palmo della mia mano con lo sguardo svampito e contemporaneamente interessato; pareva che fosse assorto nella consultazione di una cartina geografica. Con un dito seguì attentamente i solchi presenti, considerò le diramazioni, e poi espresse il suo verdetto. << Caspita! Vivrai a lungo >> << Sì, hai ragione, credo che camperò almeno per un altro paio di mesi >> << No, ma che dici! Io intendo che supererai i novant’anni. La linea è interrotta a questa età ma non è terminata. Questo vuol dire che oltre questa soglia cadrai nell’incertezza e il destino sarà completamente affidato a te. Sostanzialmente, oltre questo punto, non c’è scritto assolutamente nulla >>. << Forse, dato che mi stai di fronte, avrai letto la mano al contrario >>. << Ti ho detto che non mi sbaglio, e poi, tengo conto di certi aspetti. Io le lezioni dei grandi sapienti della magia le ho seguite tutte dalla prima all’ultima. E poi sai quante prove ho fatto? Non sono mica alla prima esperienza. Ma per chi mi hai preso? Per un novello? >>. Si stava infervorando. Lo assecondai non esprimendo alcun scetticismo. La diagnosi non era ancora finita: << Mmm… Che strano, c’è comunque un’anomalia che un po’ mi spiazza >>. << E quale sarebbe? >>, chissà con quale stravaganza se ne sarebbe uscito. << Qua è chiaramente delucidato sul tuo derma: mi dice che hai una grandissima ferita e che pian piano ti sta debilitando. Sei per caso ammalato? >> Io sapevo di cosa si trattava. Riccardo non riusciva a capacitarsene, temeva che le sue previsioni avessero fatto un enorme buco nell’acqua. E invece aveva azzeccato pienamente per quanto riguardava la lesione d’amore che mi portavo dentro. Sulla longevità era al cento per cento fuori strada. Poi mi fece la proposta indecente che mi portò all’ebollizione i coglioni: << Non sono mai caduto nell’errore, com’è possibile? Non ci credo secondo me tu mi nascondi qualcosa. Devo assolutamente sapere la verità. Ti devo controllare, devo verificare se c’è un qualche dolore corporeo che ti perseguita. Adesso taci e segui i miei cazzo di ordini! Lo devi fare per me, non mi voglio rovinare la reputazione. Togliti immediatamente la maglia e i pantaloni, ti devo analizzare sin nel minimo dettaglio. Fai finta che ti stai facendo una visita dal dottore >>. Il cervello si era completamente squagliato, stava diventando autoritario e prevaricatore. Mi mise una di quelle falangi addosso e si mise a tastarmi come un pianista. Poi cominciò a tirarmi la maglietta fino a sgualcirmela. Non ci vidi più, con uno scatto della gamba gli sferrai un calcio sui genitali, con una forza e con una precisione tale che se lo avessi tirato ad un pallone, in una partita di calcio, sarei riuscito a segnare anche da quindici chilometri di distanza. Riccardo fece un urlo spaventoso e scoppiò in un pianto convulso. Neanche un fulmine di Giove lo avrebbe così addolorato. Dalla macchina accorsero tutti per capire quale evento spaventoso fosse accaduto. << Ma cosa diavolo gli hai fatto?! >> urlò Andrea terrorizzato. << Si è messo a fare il frocio e allora gli ho distrutto i testicoli per farlo tornare donna. In fondo l’ho aiutato >>. << Credo che tu gli abbia fatto male di brutto. Guardate come si contorce >>, constatò Cosimo con apprensione. Riccardo era per terra, piegato in due per la sofferenza e con un respiro da moribondo. Carlo si comportò come un angelo nero, mandato dalla divina provvidenza. << Tranquilli ragazzi è tutto sotto controllo, l’invalido tra pochi minuti tornerà nuovo di zecca. Il ragazzo non ha bevuto troppo, ecco perché sente dolore. Portatemi dell’assenzio razza di imbranati, altrimenti il mio pronto intervento non può andare in porto. Scattare!! >> Anche Carlo era ebbro, sprigionava un’allegria un po’ troppo inquietante. Prese la bottiglia del superalcolico e gliela infilò in bocca, come un biberon. << Su da bravo piccolo mio, non fare il bambino monello. Fai come ti dice il paparino che ti vuole tanto bene >>. Quel fesso di Riccardo si faceva pure abbindolare come una marionetta. Dopo tre sorsi parve quietarsi. La medicina evidentemente aveva dato degli effetti immediati. Lo fecero stendere a terra, vicino a degli alberi, di modo che se si fosse trovato a passare un viandante, non lo avrebbe potuto vedere. Io rimasi dove stavo, al mio posto, senza rimorsi e non rientrai tra quelli che lo avevano adagiato su quel letto composto da cemento e residui vegetali. Sentivo i suoi lamenti sia pure affievoliti: << Me la pagherai lo giuro, mi hai sentito! Anche tra mille anni, bastardo che non sei altro! >> << Pensi, tra mille anni, ancora di campare? >>, gli risposi io con voce fiacca. << Maledetto! Lasciatemi! Gli voglio rompere il muso a quell’insolente >>. Dopo questa minaccia non fiatò più. Giovanni mi venne vicino per avvisarmi che si era addormentato. Andai a vedere il reperto di Riccardo: stava accovacciato su di un lato, con gli occhi serrati, sommerso in un letargo infrangibile. Si era sporcato la schiena di ramaglia e di foglioline secche del cipresso che lo copriva dallo sguardo del firmamento. Intanto Cosimo esprimeva le sue preoccupazioni sulla lettiga dell’infortunato: << Ma a furia di stare in quella sporcizia non rischia di prendersi più batteri di una capsula Petri? >> Carlo rispose con voce esperta. << No, tranquillo è tutta sostanza organica verde. È come se si trovasse in una barella di compost. Male che vada lo utilizzeremo come fertilizzante >>. << Se lo dici tu. A me comunque mi pare igienica tanto quanto una discarica >>. Mi stavo per far sopraffare di tirargli un altra bella pedata in pancia. Fortunatamente mi bloccai e mi limitai a fargli una carezza tramite la suola delle scarpe; ne venne fuori una bella striscia bianca di sudiciume. Era stata una serata abbastanza schifosa, non c’era che dire; mi congedai prima del dovuto: << Pederasti, io per oggi ho finito. A domani, ammesso che viviate ancora! Vi saluto e che Dio ce la mandi buona, anche bona va bene! >>. Capitolo 5 Non appena mi avviai verso casa mi colpì un attacco di diarrea: lo stomaco tremolava vittima di un sisma gastrico; in più avevo un male alla testa che mi faceva temere che da un momento all’altro mi potesse scoppiare. Meno male che avevo preso la macchina, chissà a quali disagi sarei andato incontro se mi fossi trovato a piedi; sicuramente avrei digerito per strada. Per dirla in termini diarroici, in scioltezza raggiunsi la circonvallazione, proprio per procedere con maggiore speditezza. Intanto le feci procedevano con sicurezza verso il retto. Odio la diarrea perché è anarchica, decide sempre lei quando bisogna cacare. Non dimenticherò mai quella volta, nella notte in cui l’Italia vinse i mondiali. Ebbi uno stimolo d’altri tempi, e me la feci addosso come un neonato. Non rimanemmo in paese, ci trasferimmo in città, in quanto era più movimentata. C’era talmente tanta gente in quella bolgia che ogni persona aveva a disposizione solo un metro quadrato. Si poteva solo respirare, camminare, gridare e beccarti o dei gavettoni, oppure delle sbandierate in faccia. Cosa potevo fare? Defecarmi in silenzio. Ricordo che cominciai a camminare con le gambe ed i piedi uniti, poi dopo circa un quarto d’ora, riuscii a sgattaiolare dal corteo e raggiunsi un bagno pubblico. Non esisteva nulla per pulirsi, adoperai allora la bandiera: compii un vero gesto da leghista. Ovviamente, appena finito il servizio, tornai a festeggiare e la bandiera la gettai in una fontana. Anche stavolta trovai un ostacolo alla mia digestione. Ero ad un cinquantina di metri da casa, mancavano solo un paio di isolati per varcare la soglia. Lo stimolo si faceva sempre più opprimente. Non poteva andare liscia, lo sapevo, qualcuno mi doveva mettere il bastone fra le ruote. Chi, alle due di notte, può interrompere il tuo cammino? Un simpaticissimo posto di blocco. Se lo avessi scorto una decina di secondi prima, avrei avuto l’opportunità di intraprendere un percorso alternativo. Purtroppo non possiedo la vista di un’aquila; inoltre dovrei portare gli occhiali ma non so neppure dove li ho riposti. Da quando li ho acquistati, li avrò indossati per circa sei mesi. La visita della ausl, neanche mi ha imposto di indossarli durante la guida. Erano finanzieri, la paletta mi indicò che dovevo farmi da parte. Stranamente erano in tre, di solito agiscono in coppia. Esordirono con l’immancabile formula di presentazione, tipica delle forze dell’ordine: << Buonasera, ci fornisca la patente ed il libretto >>. Glieli diedi. Mentre porgevo i miei documenti, mi tornò in mente che dovevo rinnovare l’assicurazione; tra due giorni sarebbe scaduta. In due attestarono la veridicità delle mie carte, mentre un terzo rimase impalato davanti al finestrino. Cominciò a pormi delle domande: << Cosa fai nella vita? >> << Studio >>. << Cosa? >> << Lettere >>. << Ma sei fuori corso? >>, gli era venuto un ghigno malefico, sul lato destro della bocca. << Sì >>, risposi, << il novanta percento degli studenti va fuori corso, la parte rimanente o si ritira, oppure si suicida >>. Non badò alla mia battuta, continuò il suo interrogatorio: << Dove abiti? >> << Abito in quella casa verde, vicino a quell’insegna che pubblicizza vestiti da sposa >>. << Da dove vieni >>. << Da lavorare, faccio il cameriere in una pizzeria >>, le bugie mi venivano più veloci del mio stesso pensiero. << Ma ce l’hai un contratto regolare? Lo sai che se lavori in nero il tuo datore rischia grosso? >> << Sì sono in regola, sarebbe impossibile non esserlo. Solo nelle ultime due settimane, i carabinieri, sono venuti già tre volte >>. << Fai uso di sostanze stupefacenti? >> << No >>. Che razza di ottuso. Anche se mi fossi trovato della cocaina nella macchina, avrei negato pure di fronte all’evidenza. Fui stringato nella risposta. Se mi fossi dilungato in giustificazioni inefficaci, sia pur veritiere, si sarebbe potuto insospettire. << Questo è un controllo antidroga. Puoi uscire dalla macchina? >> Eseguii gli ordini, a momenti rischiavo di esplodere in una merda pirotecnica. Venne un mentecatto di cane antidroga, prima ad annusarmi, e poi a controllare gli interni della mia auto, portabagagli compreso. Il pastore tedesco assicurò ai suoi padroni che ero pulito, rientrai in macchina esausto. << Va bene >>, fece il finanziere malvagio, << A chi è intestato questo veicolo? >>. Non mi voleva lasciare, pareva che fosse consapevole del mio disagio gastrointestinale. << A mia madre >>, codesta frase la sussurrai perché le energie dirette alle corde vocali erano state richiamate nel mio tubo digerente, di modo che si potesse incrementare la forza di trattenuta del mio ano. Finalmente mi furono restituiti la patente ed il libretto e mi fu dato il via libera. A furia di tenermi sotto torchio, avevano dimenticato di sottopormi al controllo più comune che viene compiuto dopo la mezzanotte: la prova dell’alcol; ero semi sbronzo, avrebbero potuto incastrarmi a loro piacimento. Girai la chiave per ripartire, ma la mia maledetta carcassa, non ne voleva sapere di mettersi in moto. Forse me l’aveva manomessa il cane. Subito, i finanzieri, vedendo la mia difficoltà, si avvicinarono come predatori: << Che è successo? La macchina non parte? >> << No, temo proprio che si sia ingolfata >>. << Ah, fai un controllo di tanto in tanto >>. Potevano spingere il mio rottame per farlo tornare nuovamente alla vita. Invece no, se ne tornarono a fare il posto di blocco. Intanto stava per calarmi un bel blocco di merda dal culo. La macchina era accostata, la mia abitazione a due passi. La lasciai lì dov’era ed a passo svelto con una sofferenza atroce raggiunsi la mia tana. Davanti al portone di casa, due amanti si sbaciucchiavano; mi venne una voglia matta di cacargli in faccia. Con uno slalom li superai e piombai dentro. Riuscii appena in tempo a poggiarmi sulla tavoletta del cesso e poi feci le mie grandi feci nere come ceci. Entrai nella mia stanza, mi stesi sul letto, tenendo ai piedi le scarpe ed accesi la televisione: stavano intervistando un attrice che con la sua interpretazione in un film aveva partecipato al Festival di Venezia. …Questa parte della missionaria mi ha dato un’energia nuova, è stata un’esperienza indimenticabile che mi ha davvero arricchito dentro. Mi sento più matura, proprio perché di fronte alla povertà si recuperano quei valori, ormai caduti in disuso. Il film è molto forte, pieno di colpi di scena ed incredibilmente realistico. Il regista si è anche intestardito nel voler attuare delle inquadrature dettagliate e rallentate; il tutto per mettere in luce le scene più salienti e drammatiche. Se notate bene anche i gesti comunicano delle emozioni indirette molto passionali. È stato bellissimo, meraviglioso, non esiterei a rifare una recitazione così impegnativa… Ma guarda un po’ questa sgualdrinella come si è riempita di fumo. Fino all’anno scorso, girava i film porno ed ora si occupa di pellicole a sfondo umanitario. Ero letteralmente schifato, questa gente confonde i film con gli avvenimenti della vita reale. C’è anche da sottolineare che viviamo in una società dove vengono adoperati solo aggettivi. L’importante che si utilizzino termini come “eccezionale” o “fantastico”, per essere osannato e fotterti una bufera di soldi. Sono tutti della stessa pasta, tanti fac-simile, etichettati ed incapaci di pensare. Prodotti in serie nella catena industriale della mondanità. Scommetto che, in un una zona del corpo possiedono un codice a barra. E poi, gira e volta, sempre gli stessi personaggi si spartiscono il loro ghiotto bottino: chissà che circuito di raccomandazioni. L’importante è mettersi in passerella e posare come dei manichini. Fanno un sorriso ipocrita, che sprizza demenza da ogni poro e a fine cerimonia, con molto gaudio, ritornano a sguazzare nelle loro sporche fastosità. Come diceva Padre Cristoforo a Don Rodrigo, in un passo dei Promessi Sposi: verrà il giorno… Io potrei continuare la frase sospesa dicendo: in cui creperete e vi toglierete dalle palle! Non l’invidio neanche, se gli si guarda nel fondale del loro animo si vede la tristezza che cosparge certe vite monotone. Che gente di merda, tutti i personaggi televisivi li metterei in un plotone d’esecuzione e li trivellerei fino a farli diventare poltiglia. Comincio ad ipotizzare che Dio abbia inventato la morte per spalare via la feccia dell’inutilità umana. È come quando si fa uno scarabocchio con la matita; cosa si fa per togliere il pasticcio di mezzo? Si prende la gomma e lo si cancella. La doveva pur trovare una soluzione a tanta nullità mentale. Spensi la tv, altrimenti l’avrei distrutta. Mi era venuta una fame immane; lo stomaco rivendicava il diritto all’alimentazione. Aprii il frigorifero ed era più vuoto di una cassaforte svaligiata: c’era solo acqua da masticare. Lo chiusi e mi guardai un po’ attorno, non ero ancora al corrente se ci fosse qualcuno in casa. Controllai nella camera di mia sorella e lei, destandosi dal sonno, mi domandò: << Sei tu Ciro? >> Io con molta gentilezza le risposi: << Dormi scorfano, che c’è ancora la bassa marea! >> e me ne andai. Mia madre, invece, era uscita: aveva una delle sue missioni accalappia uomini. Non aveva ancora capito che il suo tempo era passato. Da quando aveva divorziato con papà, era scivolata nel baratro. Ricordo che cadde in depressione e passò circa un mese a letto, dimagrendo di venti chili. L’unico svago che possedeva era il lavoro, dopodiché rientrava in questa gabbia di matti per mettersi a poltrire. Era diventata un’inetta. Possedevano più funzioni i quadri che adornavano le nostre pareti. Se non ci fosse stato il legame affettivo che lega una madre ad un figlio, l’avrei presa e sbattuta a calci fuori di casa. Poi decise di reagire e cominciò a cercare un surrogato di suo marito: in chat conobbe un paio di uomini che si rivelarono solo dei maiali e che erano interessati solo al sesso. Ma dico io, santa donna, basta guardare un attimo un uomo per capire qual è il loro grado di degrado; non ci vuole molto nel leggere ed interpretare la corruzione che trabocca dal volto di un individuo! Del resto è un difetto che possiedono tutte le donne: sputare giudizi impropri, sia positivi che negativi. Non c’è verso, sbagliano sempre. Non osservano in un uomo la capacità di trasmettere affetto o le attenzioni che questo è capace di offrirgli. Per loro l’unica cosa che conti è la capacità di farle evadere dalla routine quotidiana. Ecco perché esistono casi di vecchi rammolliti che si beccano femmine sfavillanti. Talmente belle che persino al buio le si riuscirebbe ad apprezzare, come se fossero fosforescenti. Le donne sono senza dignità: ma come si fa a scopare con un rincitrullito che puzza già di decomposizione?! Ma come si fa anche a starci insieme! Non hanno alcun pregio, sono brutti, ammuffiti, pallosi e di cattivo umore; scaduti come il latte avariato. Se penso a tutti quei porci gasteropodi che stanno insieme con ragazze della mia età, mi faccio prendere da una rabbia convulsa. È mai possibile che un ragazzo come me, bello, giovane, dolce e sensibile debba ridursi allo sfascio perché non è in grado di raccattare un briciola d’amore? Inoltre sono ossessionate dall’incubo di dover rimanere zitelle, per loro il maritarsi e ed avere un figlio, diventa uno status simbol. È come l’automobile per gli uomini: chi non raggiunge certi traguardi deve rimanere fuori, è una perdente. Per questo vaffanculo pure a mia madre, crepasse: hai sposato un bastardo egoista, adesso ne paghi le conseguenze. Mi prese un colpo perché il mio cellulare vibrò, manco se fosse stato impossessato. Guardai sullo schermo luminoso la scritta “Luca”. Egli era uno dei tanti amici che deprimevano la mia esistenza. Aveva una voce inconfondibile, sempre rauca. Era pur vero che si fumava un pacchetto di sigarette al giorno ma le sue corde vocali pareva si fossero impiastricciate di catrame. Quando parlava al telefono, o in qualche strumento dotato di microfono, le sue parole sembravano pronunciate dall’etere; come se ci fossero state delle continue interferenze che disturbavano la comunicazione. Egli studiava presso la facoltà di biologia, però la sua concentrazione, direi quasi devozione, era incessantemente rivolta allo sport: sia come spettatore che come praticante. Acquistava ogni giorno la Gazzetta dello sport, per andare a spulciare tutte le notizie, anche quelle più insignificanti. Sapeva a memoria le formazioni di A, B e prima divisione. Dei giocatori della massima serie conosceva persino quale marca di scarpe portassero. Naturalmente, tra agosto e settembre, cioè poco prima che cominciasse il campionato, svolgeva i suoi oneri da maniaco fanatico: fare l’abbonamento allo stadio, iscriversi al Fantacalcio, oltre che l’avvio ad un’infinità di scommesse che dilagavano anche in altri sport, come: tennis, corsa dei cavalli, basket, pallanuoto, pallavolo ecc.. Mancavano solo delle puntate in denaro sul Monopoli o lo sciangai. C’era però una passione che prediligeva più delle altre: il Milan. Guai se i rossoneri subivano una sconfitta: cadeva in uno stato di prostrazione sino alla vigilia di una nuova partita. Io, lo giuro, l’ho visto in lacrime dopo la débacle contro l’Inter; minacciò addirittura di tagliarsi le vene. Era completamente esaurito, neanche con il ricovero lo si poteva guarire. Non so poi come si faccia a seguire una massa di ignoranti che vengono strapagati solo per svolgere un esercizio fisico. Non era difficile indovinare il motivo della sua chiamata, risposi: << Pronto? >> << Ciao, sono Luca, ti disturbo? >> << No mi masturbo. Porca di quella cavalla di troia, sono tre del mattino! Ma dove cazzo vivi, in Antartide?! >> << Ti chiamo a quest’ora perché ti devo parlare di una faccenda urgente. Lo sai che io mi occupo solo di affari importanti >>. Chissà quale argomento fascinoso avrebbe trattato. << Di che si tratta? >> << Sto organizzando una partita con quei fetenti di N***. Sarà una sfida all’ultimo sangue. Non puoi dirmi di no, ci serve un centrocampista centrale che smisti dei palloni calibrati per gli attaccanti. L’ultima volta, senza di te, abbiamo perso di sei gol. Fu una disfatta, stavo per ritirare le truppe dal fronte e ordinai di continuare solo per amor di patria. Ho quindi bisogno di una rivincita. Non hai nemmeno l’idea di come sono stato massacrato d’insulti. E continuano a farlo; è circa un mese che vengo deriso. Ma adesso basta è arrivato il momento di pareggiare i conti. Preferisco la morte piuttosto che subire queste contumelie >>. La mia reazione fu come la diarrea fatta poco prima: non esisteva la possibilità di bloccarla. << E tu mi chiami a questo schifo di ora per organizzare una maledettissima partita di calcio? Ma sei matto?! La colpa è di quelli delle compagnie telefoniche che rendono possibili certe follie. Dalle dodici di notte in poi, dovrebbero disattivare il servizio. D’accordo vengo, basta che te ne torni a letto! Alle tre anche i vampiri riposano! >>. << Grazie Ciro, ti prometto che li distruggeremo. Sto mettendo su una squadra invincibile. Sarà una vittoria storica, il nostro trionfo verrà menzionato anche nelle enciclopedie, di modo che, mediante i posteri, le nostre imprese potranno rimanere intatte anche nei millenni >>. Luca aveva reso le partite di calcio delle vere e proprie battaglie epiche. Pareva che si stesse preparando per la guerra del Peloponneso. Bisognava ammirarlo negli spogliatoi: si avvicinava ad ogni giocatore per incitarlo psicologicamente; in realtà non faceva altro che incrementare il loro nervosismo. Una volta mi abbracciò, dandomi dei baci abbastanza ambigui e con l’esaltazione di uno squinternato, mi incitò (o eccitò) dicendomi: “dai caro, o la vittoria o la vita!”. Se nel prepartita si lasciava andare a questi riti equivoci, in campo diventava un autentico generale: non stava mai zitto, era un vociare continuo, ti dava indicazioni anche sulla corsa o su come stoppare il pallone. Guai se sbagliavi un passaggio o un tiro; si infuriava dicendoti “che cos’hai fatto?! Quello era un gol sicuro! Un’occasione così non capiterà mai più!”. Credo che avessero una maggiore libertà i giocatori di un videogioco. E’ vero che venivano comandati da un joestik, ma per lo meno non dovevano ascoltare il vociare di un dittatore calcistico. Chiusi la comunicazione, senza un “ciao” o un “a presto”, per non ascoltare quella voce scartavetrata. Come precauzione spensi il cellulare. Meglio essere prudenti, poteva richiamare da un momento all’altro. Certa gente più la si evita, meglio è. Si era così insediata, la paura di quel paranoico che, per aumentare le precauzioni, staccai la spina anche al telefono di casa. Quello schizoide era capace di tutto: anche di venire a citofonarmi sotto la mia dimora. Tornai a letto con un macigno sulla testa. Appena provavo a chiudere gli occhi, mi veniva una nausea esorbitante. Ero preoccupato per mia madre. Come caspita era che non si fosse ancora ritirata? Senza rispetto, lei faceva i comodacci suoi. Con la scusa della sua fragilità emotiva, andava e veniva quando voleva. Che stronza, non si era presa la briga nemmeno di avvisare. Uno potrebbe venirmi a rinfacciare che io mi comportavo allo stesso modo; ti credo, in una famiglia dove regna l’anarchia che senso ha rispettarsi a vicenda? Se non ti dà il buon esempio tua madre, chi cacchio te lo deve dare? Occorrerebbe stendere un velo pietoso su mia sorella Alessandra; lei è campionessa mondiale di menefreghismo. È una sfaticata senza un briciolo di sensibilità, fa la maestra elementare ed odia i bambini. Si lamenta sempre, frigna come un pinguino e racconta a mia madre i suoi problemi, risolvibili anche con una scoreggia. Nel weekend sparisce senza lasciare una traccia, nemmeno un investigatore riuscirebbe ad individuarla. Si cambia, come un abbonamento, un ragazzo al mese e di tanto in tanto fa qualche servizio domestico svogliatamente. Ma la cosa che mi manda più in bestia è che si dimentica di spegnere le luci. Mi verrebbe voglia di prenderla a testate. Va in bagno, si sta quelle due tre ore, dopodiché, va via e chiude la porta con la stanza ancora illuminata. Questa anomalia si verifica anche di mattina. L’ho rimproverata più volte, ma lei niente; da un orecchio gli entra e dall’altro gli esce. Per lei apparire è l’unico obiettivo della vita, va sempre vestita sgargiante, con abiti firmati che per carità, le conferiscono un bell’aspetto ma porco cane costano quanto un computer. Ecco quale destino hanno i soldi del suo stipendio: direttamente scialacquati nella discarica dello spreco. È rimasta intrappolata nell’adolescenza, non crescerà mai. È assolutamente impossibile che riesca a maturare, con la vecchiaia sarà capace solo di marcire. Possiede più neuroni il forno a microonde. E’ solo un fantoccio che non capirà mai che la vita è solamente un continuo strisciare nella melma. Mi auguro che vada via di casa il prima possibile; se la rapissero mi farebbe anche piacere. L’importante che si tolga di mezzo. Ma ci fu un giorno che mi fece venire un raptus assassino. Erano le nove di sera e doveva uscire con non so chi. Come al solito si barricò nel cesso per imbellettarsi. Anche a me serviva il bagno, per un semplice bisogno fisiologico. La supplicai di farmi entrare ma era diventata muta. Non ce la feci più ad aspettare e fui costretto a farla nel lavabo.Venne fuori, dopo parecchio tempo, agghindata come una divinità. Io entrai nella toelette perché mi dovevo lavare i denti, quando, con mio immenso disgusto, non solo vidi che aveva lasciato i contenitori dei suoi trucchi in bella vista ma addirittura c’era un suo assorbente insanguinato per terra. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: la presi per capelli e la riempii di pugni e di schiaffi sulla schiena. Lei più continuava ad invocarmi di smettere e più io la picchiavo. Le sue suppliche erano direttamente proporzionali alla mia voglia di distruggerla. Infine svenne per il dolore. Chiamai mia madre per dirle il guaio che avevo combinato e me ne andai sbattendo la porta. Divenne ricolma di ematomi, come se l’avessero centrifugata. Ogni qualvolta le nostre strade s’incrociavano, abbassava gli occhi come una suora di clausura. Per un pelo non fui denunciato. Mi risparmiarono il carcere solo perché sapevano che ero una persona molto disturbata. Secondo loro, la detenzione sarebbe stata una mazzata che non avrei mai retto. Con mio immenso sollievo mia madre rientrò. Fece un frastuono colossale con quei maledetti tacchi; avrebbero fatto meno casino gli zoccoli dei cavalli durante il palio di Siena. Si mise a lavare i piatti e trascinò sedie e tavoli, manco se stesse compiendo un trasloco. Poi finalmente andò a riposare. Aveva sicuramente passato una serata di merda; i servizi a quell’ora erano solo un pretesto per smaltire le scorie di un altro appuntamento andato a male. Si sarebbe confidata più in là con quel microcefalo di Alessandra. Chissà quali pensieri profondi avrebbero espresso. Io, ovviamente, ne ero escluso e tutto sommato mi faceva piacere. Non era roba per uomini; soltanto le donne si capiscono e si comprendono, reciprocamente, nelle loro minchiate. Più passa il tempo più mi convinco che le donne hanno lo stesso cervello delle meduse. Ragionano con i paraocchi. Non concepiscono un fuori programma, la loro vita è già prestabilita come un menù: a dodici anni danno il primo bacio, a sedici si fanno la prima ficcata, dai diciotto ai trenta si danno al divertimento, dai trenta fino ai quaranta fanno e crescono i figli, dopodiché la loro vita è finita e se ne vanno in depressione. Quindi dai quarant’anni in poi si sentono continuamente insoddisfatte e rimpiangono il passato. Iniziano a fare paranoie sui porci dei loro mariti o compagni che non le capiscono e non le stanno vicino. Con questa attenuante si cercano la scusa giusta per andarsi a cercare un amante da trombare. È una storia già vista che continueremo a vedere. Per quanto mi riguarda l’azione migliore che possono fare e sfracellarsi in un burrone. Con la vecchiaia diventano delle totali nullità e simili a dei trans. E sì perché, mentre noi uomini, col tempo, siamo solo destinati ad invecchiare; per le donne c’è un ulteriore tappa da seguire: con la senilità, e quindi con la menopausa, prima si trasformano in maschi e poi diventano anziane. Non sto dicendo un’idiozia, è per il semplice motivo che subiscono un decremento degli ormoni sessuali femminili. Non è perciò un caso se il maschio preferisce la fica giovane. Caricai la sveglia accoppa-sogni, per farmi resuscitare all’alba del giorno dopo. A furia di pensare a Loredana mi appisolai alle quattro e trenta. Nemmeno la fase REM riuscii a raggiungere. Capitolo 6 Una settimana dopo mi recai da Andrea. Aveva una casa enorme, in stile antico; somigliava moltissimo ad un castello. Il giardino era cosparso di verde. Ci si poteva muovere soltanto percorrendo un sentiero in pietra, perché eravamo circondati dalle aiuole bagnate dagli annaffiatoi. Nel bel mezzo di uno spiazzo una fontana zampillava: c’era una statua di una Venere del Botticelli; però un versione maschile che da un anfora spruzzava dell’acqua, che finiva in un vasta piscina. In una reggia del genere mi sarei aspettato qualche cane da guardia killer tipo: dobermann o pitbull. Invece tutto era tranquillo, nessuna bestia feroce si trovava nei paraggi. Per accedere all’interno, salimmo un paio di scalini in marmo. Nell’androne vi poltriva un signore anziano, ben vestito. Sembrava un maggiordomo o una sentinella in pensione. Ci fissò con aria di sospetto e ci chiese: << Chi siete? >> << Nonno, sono io, Andrea >> << Ma ce l’avete il lasciapassare? >> << Sì, siamo apposto >> << Ah bene, allora andate signori. Ricordate che avete solo un’ora per sbrigare le vostre faccende. Dopodiché sarò costretto a prelevarvi; sia pure con la forza. I comunisti ci stanno alle calcagna. Maresciallo li lasci andare >> C’incamminammo; Andrea mi spiegò che suo nonno aveva qualche rotella fuori posto. Era malato di morbo d’Alzaimer: << Lentamente ha smarrito il senso dell’esistenza, in quest’ultimo anno si è aggravato. Ogni giorno cambia mestiere e carattere. Oggi per esempio sta di guardia, ieri credeva di essere un professore di diritto ecclesiastico e mi dovetti sorbire una sua fantomatica illustrazione dal peccato originale ad oggi. Due palle così. Spero che muoia, almeno finisce questa pagliacciata >>. L’interno della casa era pieno di fregi, perlopiù costituito da vasi di terracotta. C’era persino un’armatura medievale che poteva benissimo essere impossessata da qualche fantasma di passaggio. Sinceramente mi dava una strana sensazione tutta quell’atmosfera arcana. Oltrepassammo un’arcata in pietra e raggiungemmo il soggiorno; era spazioso e illuminato da delle lampade, poste lateralmente, che simulavano dei candelabri. C’erano appese alla parete delle fotografie in bianco e nero: in una di esse c’erano delle persone, dovevano essere una trentina, disposte su tre file, che stavano in posa. Ai bordi della prima fila c’erano due cavalli che non parevano interessarsi all’obiettivo. Mi avvicinai per leggere la targhetta argentata che spiccava sull’immagine monocromatica. La scritta, avente dei caratteri molto fini in maiuscoletto, diceva: cooperativa M*** 1956. Andrea mi disse di attendere un attimo perché si doveva mettere in ciabatte. Io sedetti su una poltrona rifinita in legno. Non c’era nessuno in casa; per tale ragione, con molta discrezione raggiunsi il pianoforte, che da un pezzo aveva attirato la mia attenzione. Adoro gli strumenti musicali, ogni qualvolta ne vedo uno, sono subito attirato. Mentre mi stavo avviando, sentii un lieve fastidio sui talloni. Era un gatto di razza Korat che mi stava facendo le fusa. Io mi chinai per accarezzarlo. Non l’avessi mai fatto; quel figlio di puttana tentò di morsicarmi con quei dentacci affilati e forse, per gioco, cominciò ad attaccarmi. Si avvinghiò ai pantaloni e con le zampe tentava di provocarmi dei graffi. Scossi la gamba ma il felino non mollava la presa. Ero anche impossibilitato dal poter adoperare le mani, altrimenti me le avrebbe massacrate di raschi. C’era un solo modo per sbarazzarsene: servirsi della violenza. Presi una sedia, bella pesante, e me la scagliai sullo stinco, dove stava abbarbicato l’animale. Gli colpii il cranio. Si sentì un rumore compatto, forse di ossa rotte ed il gattaccio cadde esanime, come preso da un’ipnosi. Chi lo sa, forse era morto, in effetti avrei potuto infierirgli un colpo un po’ più moderato. Mi dovevo sbarazzare del corpo, il delitto andava celato. Lo raccolsi e lo nascosi sotto un divano; nessuno avrebbe potuto sospettare di me. Venne Andrea in ciabatte e vestaglia. Quell’abbigliamento un po’ mi stupì: << Sembri un gentiluomo inglese. Scusa, ma se tra un po’ dobbiamo uscire, valeva la pena conciarsi in quel modo? >> << Mi sento più comodo, tanto non è che ci voglia molto per tornare in abiti civili >>. << Se lo dici tu >>. Andrea non aveva fatto in tempo a sedersi che subito si rimise in piedi. << Ma dove sarà finito il gatto? Devo dargli da mangiare, aspettami un attimo che vado a rintracciarlo >>. E andò via. Proprio ora doveva cercare il gatto. Se lo avesse trovato stecchito si sarebbe messo a fare storie. Mi poggiai con i gomiti sulle ginocchia a disperarmi. Mentre rimuginavo i miei errori, fui assalito alle spalle dal felino che evidentemente non era morto, e fui ferito sul collo. Dunque forse era vera la legenda popolare che i gatti possedevano nove vite. Ebbi un riflesso fenomenale: riuscii ad acchiapparlo con una mano, aprii il finestrone e lo scaraventai nel vuoto. Ovviamente il farabutto seppe attutire la caduta e immediatamente si rimise in posizione eretta. Rimase a fissarmi dal basso verso l’alto, con un atteggiamento di presunzione, che quasi mi stava per far venire la voglia di raggiungerlo e massacrarlo. Ci odiavamo, saremmo rimasti nemici per sempre. Io con un gesto di sfida gli gridai: << Che cazzo vuoi? Vieni su che ti squarto a morsi, pezzente! >> Dal balcone vidi Andrea con una scodella che gliela porgeva al gatto. << Eccoti Rambo! Sempre in giro stai! Chissà quante ne vedi durante la giornata! >>, poi, volgendo lo sguardo verso di me, con l’aspetto sereno, mi domandò: << Ti piace il mio gatto? Se vieni giù, potete fare conoscenza >>. << No grazie, sono allergico al pelo dei gatti >>. Se avessi avuto una pietra gliel’avrei scagliata per fargli andare il cibo di traverso. Rambo si tuffò nel pappone e, con molta ipocrisia, dimenticò l’alterco venutosi a creare poco prima tra noi. Possibile che dalla botta che gli avevo inferto ne era uscito indenne? Possibile che non gli avevo provocato neanche un’emorragia cerebrale? Forse dovevo attendere solo un po’ di tempo, per vederlo stramazzato a terra. << Vai nella mia stanza, che ti raggiungo tra un minuto. Fammi saziare questa peste e sono subito da te >>. << Ok >>, risposi e rientrai al coperto. Arrivato a destinazione, attesi il padrone di casa, poggiandomi sul davanzale ed osservando l’esterno con l’avvilimento di un galeotto. La camera di Andrea, dato che si trovava ad una ventina di metri d’altezza, permetteva di poter spaziare con gli occhi. Tra i vetri c’era il panorama della solitudine della campagna: il cielo ospitava gli ultimi spicchi di sole. In lontananza un’antenna televisiva, di dimensioni titaniche, stonava l’ambiente incontaminato. C’era una villetta bianca con le persiane rosse e due case di rustiche dismesse. Qualche macchina passava dalla provinciale. Oltre un certo punto non era possibile vedere, l’asperità del territorio non lo permetteva. Il vento si lamentava e l’inverno cominciava a muovere i primi passi: noi ci coprivamo di indumenti e gli alberi, all’opposto, si svestivano del fogliame. Finalmente il mio amico ritornò e si venne a sedere sul letto. Io gli chiesi: << Ma i biglietti per Vasco li hai comperati? >> << Li ho prenotati, da circa sei mesi. Se ci si riduce all’ultimo, stai tranquillo che il posto non lo trovi nemmeno nel cesso dello stadio >>. << In quanti dovremmo essere ad andare? >> << Siamo in sette. Non vedo l’ora di recarmi e venerare il grande profeta della musica italiana. Lui sì che ha capito come va la vita e soprattutto come va affrontata. Siamo degli autentici Vascolizzati >>. Era giulivo Andrea, l’eccitazione lo percorreva come una scossa elettrica e l’aveva mandato in estasi. Parlava con un ghigno, liberato da un’autentica emozione. Io fissavo quel suo naso aquilino che pareva si volesse distaccare dal resto della faccia. Era talmente pendente che lo si sarebbe potuto utilizzare come salita per il giro d’Italia. Con quel viso da teppistello ti dava l’impressione che ti stesse perennemente prendendo per i fondelli. Anche in quegli istanti di pura sincerità risultava poco convincente. Io, per quanto ci provassi, non è che fossi preso dal delirio di Vasco Rossi. Andavo a vedere la sua esibizione solo perché non avevo nulla da fare. Sempre meglio che starsi in casa era. Sostanzialmente recitavo la parte del fan sfegatato ma a me nulla interessava. Io pensavo solo ed esclusivamente a Loredana; il resto passava in ombra. Andrea accese la luce per evitare che rimanessimo al buio. Una mosca svolazzava sopra le nostre tempie. Zigzagava quasi con frenesia, forse era alla ricerca di qualche alimento. Supposizione svanita, in quanto il suo unico obiettivo aveva una differente finalità. I suoi volteggi erano circoscritti tra me ed il mio amico, pareva che ci fosse un campo magnetico che le impediva di spostarsi altrove. Eravamo, tutte le volte che si posava su una parte del nostro corpo, costretti a sbracciarci con rapidi movimenti, per lo meno per tentare di spaventarla. Sembravamo, con quei sussulti fulminei, dei cacciatori di pulviscolo. Dato che l’insetto seccante aveva preso troppe confidenze, Andrea decise di eliminarlo. Prese un giornale, riposto nelle viscere di uno scaffale, lo avvolse su se stesso ed ottenne una clava di carta. Appena la mosca poggiò le sue zampette sul muro, l’esecuzione scattò subitanea. Rimase stecchita alla prima mazzata. Purtroppo, per scongiurare un problema, se ne venne a creare un altro ed anche abbastanza spiacevole. La parete infatti, con l’uccisione del povero esapode, rimase dipinta dalle sue budella. Era diventata una pennellata, composta da acquerelli rivoltanti: un nero tendente al giallo, riproduceva il fossile di una vita stroncata all’improvviso. << Dannazione! >>, sbraitò Andrea, << e adesso come faccio a pulire questa sgommata di morte? >> Estrasse dalla tasca della vestaglia un fazzoletto bisunto e accartocciato, che ricordava molto una conchiglia, e si cimentò con dedizione per rimuovere la macchia dello spappolamento. Fu un’operazione vana che non fece altro che allungare la piccola chiazza organica. Strofinava con forza ma l’unico risultato positivo che rinvenne fu un leggera perdita d’intensità di colore della traccia del delitto. A quel punto il mio genio si fece spazio: << Sai cosa dovresti utilizzare? Dello spirito >>. << Non credo d’averlo, e poi c’è il rischio di inumidire l’intonaco e portalo definitivamente alla rovina >>. << Allora utilizza una gomma >>. << Bah, la gomma, che consigli stupidi che dai >>. << Deficiente, se nemmeno provi, non potrai mai sapere se ti ho detto una cazzata o no >>. Si fece silenzioso, rovistò in un cassetto ma non trovò nulla. Per tale ragione uscì dalla stanza e dopo un paio di minuti, ritornò con una gomma così ingrigita, che pareva l’avesse estratta da una miniera. Abbisognava di una pulizia sfregante. Il fesso si era già rimesso al lavoro per rimediare al danno commesso; non aveva capito che agendo in quel modo, avrebbe innescato una catastrofe di entità maggiore. Fortunatamente lo bloccai in tempo: << Aspetta! Prima di agire, fai sparire la fuliggine che ammanta la gomma. Se la applichi tal quale, rischi di creare un murales di sporcizia >> << Hai ragione >>. Prese un taglierino e limò le sei facciate della gomma, riducendola di dimensioni. Quindi passò all’azione. Dopo una decina di passate la chiazza rimase viva solamente nei nostri ricordi. << Strabiliante! Non credevo che la gomma possedesse degli altri poteri. Bisognerebbe rivalutarla e non relegarla alle semplici mansioni di pulisci-scrittura >>. << Che vuoi fare adesso, il sindacalista degli oggetti da disegno? >> << No, ma se un utensile può avere degli impieghi alternativi, perché non fargli sbocciare queste sue potenziali propensioni? >> << Tutti gli aggeggi hanno delle funzioni celate. Un bicchiere lo puoi utilizzare come un water portatile, con una penna puoi infilzare uno che ti sta sulle scatole. Anche tu, inconsciamente, hai assegnato a quella rivista, che ora giace abbandonata nella spazzatura, un compito diverso. L’hai infatti trasformata in un manganello spappola mosche. Potresti servirti della saliva per lavarti, oppure della cacca da impiegare come gel per modellare i tuoi capelli ribelli. In questo caso però si presenterebbe l’ostacolo del fetore perenne >>. << Adesso che ci penso, potrei adoperare le caccole del mio naso come adesivi >>. << Bravo! Hai visto che anche tu sei dotato d’inventiva? Io ti consiglierei di usare il tuo ano come portapenne >>. Come al solito lo scherzo stava degenerando. Eravamo sfaccendati e quindi avevamo bisogno di un passatempo prima di poter andare incontro agli altri compagni. Eravamo a secco di argomenti e la noia era sempre in agguato a tenderci qualche tranello. Il silenzio tuonava il preavviso di un immediato straripamento di tedio. Mi stavo spazientendo; tutte le volte che andavo a trovare un amico, la trama della giornata sconfinava nell’incapacità di trastullarsi. Solitamente si finiva col diventare malinconici e col respirare tramite sospiri. La prossima volta che riceverò un invito, voglio che mi venga consegnato un programma che riporti, chiaro e tondo come sono scandite le ore da trascorrere. Andrea tentava di ingegnarsi per evitare che rimanessimo ibernati nella nostra inerzia. Con un pretesto, abbastanza penoso, volle introdurre l’attività che avremmo dovuto intraprendere: << Ehi Ciro, tu che sei perennemente sveglio ed hai anche una buona memoria, te ne intendi di puzzle? >> << Puzzle? >> << Sì, ne ho uno da diecimila pezzi, ma sono ancora in alto mare. Che ne dici se uniamo le menti per comporlo? >> << D’accordo, possiamo provarci >>. << Seguimi >>. Andammo in una stanza vuota che fiancheggiava il terrazzo. Sembrava in fase di costruzione perché c’erano i mattoni forati in bella vista. Faceva un po’ freddo però non era insopportabile. Per terra c’era un puzzle pieno di vuoti, talvolta piccoli, talvolta somiglianti a delle vere e proprie voragini. L’immagine che si stava formando era una donna in topless, con il sedere in bella vista che si strusciava il manubrio di un harley. << Che mi venga un colpo! Questo sì che è un puzzle da sballo! Io, se mi fossi trovato al tuo posto, non mi sarei dato pace per terminarlo. E poi, subito dopo, me la sarei inchiappettata a dovere. Che bambola! Mamma mia che schianto! Mettiamoci immediatamente al lavoro! Questa biondina bavosa deve tornare a mostrarsi in tutto il suo splendore! >> Andrea prese un sacco enorme e svuotò nei miei pressi una valanga di quadretti colorati e dentati. Poi esclamò: << Guarda quanti sono, è pure esigente questa maledetta troia! >> Ci mettemmo al lavoro, era un’impresa impossibile: non c’era un pezzo che combaciava con l’altro. Ogni volta, prendevo un pezzo, ma l’incastonatura risultava vana. Quelle semplici operazioni mi condussero al calvario d’amore. Allo stesso modo io cercavo invano di rintracciare la mia anima gemella: una metà perfetta che ci permettesse di completarci a vicenda. Quante volte mi ero cimentato in tale impresa. Finora c’era stato soltanto il buio assoluto. Solo Loredana mi aveva abbagliato con la sua speranza. Era infatti solo un abbaglio; un’illusione prodotta da una convinzione, dedotta dalla mia immaginazione. Magari era come una di quelle tante tessere che ti danno l’impressione d’incastrarsi alla perfezione ma che poi, in realtà, si smussano l’una con l’altra, ferendosi reciprocamente. Che rottura! Nemmeno un passatempo poteva darmi pace. Anzi, il mio disagio si era dilagato come l’universo. Ci stancammo di dover risolvere una composizione, sia pure gradevole ma quasi impossibile, per i nostri cervelli maciullati dall’alcol e dalla droga. E poi io, per quei rompicapo assolutamente scoccianti, non sono portato. Molti dicono che servono per misurare l’intelligenza di un individuo. Tutte frottole. Così come reputo una grandissima balla che, chi ha un elevato rendimento scolastico, sia una persona intelligente. È un’emerita stronzata, in quanto uno che è bravo negli studi, ha un elevato grado di concentrazione. E chi ha un elevato grado di concentrazione è incapace di distrarsi. E chi è incapace di distrarsi è dotato di poca fantasia. E chi ha una scarsa fantasia è mentalmente rigido, quindi un totale demente. Magari potrei affermare che chi ottiene dei voti elevati, a scuola o all’università, è bravo in una delle tante discipline dell’intelligenza. In realtà il concetto d’intelligenza è molto ampio: abbraccia una moltitudine di settori ed è quasi impossibile che uno di noi sia dotato di tale capacità. L’intelligenza è come lo sport. Perciò dire che uno è un genio, solo perché possiede un’elevata efficienza nell’apprendimento, è sbagliato. È come se si affermasse che, se uno è un fenomeno nella corsa, debba essere anche bravo nel nuoto, nella scherma, nel ping pong, ecc.. La verità è che siamo indotti dal luogo comune ed abbiamo un concetto molto relativo di quello che ci accade intorno. Non siamo in grado di spaziare con la ragione e rimaniamo incapsulati nelle nostre ideologie sbagliate. Ci muoviamo soltanto nella realtà formata dagli eventi che ci capitano e la estendiamo al resto del genere umano. Questo ci fa dimenticare di immedesimarci nell’altro. Ecco perché non ci evolveremo mai. E poi l’intelligenza è genetica: se non la possiedi, potrai studiare come un eremita, ma sempre idiota rimarrai. Anche Andrea appariva stremato, neanche la bellezza della raffigurazione gli dette la forza di terminare quel mosaico pre impostato. << Basta, mi sono rotto. Ciro andiamo un attimo in camera mia; ti devo mostrare un video rivoltante che mi ha inviato un mio amico su facebook. Ti farà passare la voglia di mangiare per il resto dei tuoi giorni >>. Se è per questo erano anni che non conoscevo la parola fame. Ero sempre a stomaco vuoto e mi saziavo ingollando aria. Tornammo nuovamente in camera, dove c’era il computer perennemente acceso, sopra una scrivania marrone scuro. Una volta connessi in internet ed entrati su facebook, il filmato poté partire: si trattava di un uomo, a torso nudo, girato sulla schiena, che si faceva scoppiare un brufolo o una cisti, da una ragazza con un camice medico. Ne usciva una valanga di pus che somigliava moltissimo ad un’eruzione vulcanica albina. Questa porcheria si perpetuava per una decina di minuti ed era intervallata, ogni tanto, dall’applicazione di ovatta, sulla quale c’era, spero per il paziente, del disinfettante. Ecco a cosa serviva internet: a desensibilizzare la gente di fronte al dolore. Ecco a cosa vanno dietro le nuove generazioni. A questa gente è affidato il futuro? Che declino. << Mostruoso è? >> Ed io che rimanevo impassibile come una rana che, anche in punto di morte, conserva quella verde faccia da menefreghista. Poi Andrea mi costrinse a vedere un film, “La città nel macello”, che era uscito nella sale cinematografiche circa due anni fa e che aveva riscosso un successo stellare. Ci veicolammo nella sala da pranzo e la mia guida inserì il DVD nell’apposito lettore. Durante la musica iniziale diede da mangiare al pesce rosso che rimaneva, poveraccio, intrappolato in una grande bolla di vetro trasparente. Ora avevo capito quale fosse la maggiore attività di Andrea: quella di alimentare il bestiame domestico. Mentre si prestava a versare la bustina di mangime nel piccolo acquario, mi volle sponsorizzare il film, con un’enfasi da speaker: << Lo conosci? È un filmaccio! Io ho avuto l’onore di vederlo; è micidiale. Ti fa stare sulle spine per tutto il tempo. Fece degli incassi record la prima volta che fu proiettato. Poi io adoro le sparatorie, mi riempiono di adrenalina. Beh, è meglio che sto zitto; sta per iniziare >>. Prima di venirsi a sedere al mio fianco, riempì due calici con una bibita di colore rosso purpureo. Sembrava un liquido inquinato da metalli pesanti. << Che diavolo è? >> << E’ una ricetta del mio chef, si chiama americano: è un aperitivo a base di vermut, amaro e seltz. Di solito gli viene aggiunta anche una scorza di limone ma sinceramente non mi andava di mettermi a fare finezze del genere. Ho aggiunto del succo d’arancia rossa perché con la quantità che ne era rimasta in bottiglia, non sarei riuscito a riempire nemmeno un bicchiere >>. Avvicinai le labbra e trincai l’intruglio: dava di aranciata con un retrogusto alcolico. Uno schifo. Andrea, durante questi movimenti, mi osservava con l’ansia di chi si aspetta un complimento ed allo stesso tempo, teme il trauma di essere deluso. Ebbi pietà: << Ottimo, se non sbaglio mi sembra di averlo già assaggiato. Non mi è nuovo questo sapore >>. Ti credo, con le casse di succhi di frutta che mi ero bevuto nella mia vita. Credetemi, sarebbe stata più saporita il contenuto di una flebo. Il film cominciò. Passata una mezzora, mi ero già rotto di palle. La pellicola narrava di un rapinatore, vestito da cow boy, che faceva irruzione nei luoghi super affollati, derubava i clienti di ogni oggetto di valore e dopo si divertiva ad ucciderli. Adesso, ad esempio, era appena entrato in un bar, si era fregato l’incasso ed aveva trivellato di proiettili tutti gli esseri che si era trovato davanti. Era di una crudeltà spaventosa. A confronto, “Arancia meccanica” sarebbe stato paragonabile a “Biancaneve e i sette nani”. << Scusami Andrea, ma è un film d’orrore o d’azione? >> Egli rimaneva imbambolato dalla suspance dell’ennesima scena di sangue. << D’azione trimone. Ma che diamine di domande mi fai? Non vedi quanta dinamica c’è in quest’opera? >> << Sarà, però non è che mi sembri un capolavoro. Ogni due minuti si verifica un massacro. A questo punto, anch’io avrei potuto intraprendere la carriera di regista >>. Rimanemmo immobili per un altro quarto d’ora. Avevo messo tutto il mio impegno per seguire il teleschermo ma il mio interesse lentamente si stava deteriorando. Fortunatamente era sopraggiunto il momento di uscire, si erano fatte le ventuno e trentacinque. Quell’oscenità, con mio immenso sollievo, poteva essere interrotta. E poi c’era il resto della teppaglia che ci aspettava. Era il richiamo selvaggio della foresta, non ci potevamo sottrarre. Andrea tuttavia stentava a desistere: << Peccato! Non tanto per me, che ho già avuto il modo di guardare questa storia meravigliosa, quanto per te, che rimarrai a bocca asciutta. Comunque, se tu vuoi, mi memorizzo il minuto esatto in cui l’abbiamo messo in pausa e magari, la prossima volta che vieni in visita, possiamo riprendere la nostra degustazione intellettuale >>. Ma sto coglione non aveva capito una ciambella bucata in culo, che non me ne sbatteva niente di queste cafonate sperpera quattrini?! << No, senti, se c’è una cosa che odio è quella di vedermi un film fatto a spezzatini. Già le serie televisive non le sopporto, figuriamoci i nervi che mi verrebbero se mi vedessi una trama frammentata. Va a finire che lo seguo svogliatamente e ne perdo completamente l’interesse >>. << Come vuoi tu >>, ribatté Andrea, mentre sorseggiava gli ultimi sgoccioli dell’aranciata corretta. << Almeno concedimi di raccontarti come va a finire la proiezione >>. << D’accordo, però muoviti che è tardi. Anzi, prima togliti quegli abiti da barone fifì e poi sarò disposto ad ascoltarti. Fai veloce, che è tardi >>. Andrea rimaneva impalato come un imbecille. Infine riaprì quella boccaccia: << Stai zitto, stavo pensando al codice da inserire per innescare l’allarme. Porco cane! Non me lo ricordo! Meglio non mettere mani su sistemi che non conosco. Ah, quasi dimenticavo! C’è pure il nonno a metter il bastone tra le ruote! Dovrebbe esserci, da qualche parte, la badante, solo che non ne ho nemmeno visto l’ombra. Che casino! Non posso lasciare da solo quel rincoglionito del nonno. Se si accorge che la casa è vuota va a finire che le dà fuoco >>. << Scusa la domanda: ma fino ad ora non è rimasto in perfetta solitudine? >> << Sì ma è stato buono e tranquillo perché, secondo la sua mente bacata è in pieno lavoro. Quel pazzo crede di essere una sentinella e si è imposto il turno lavorativo che và dalle nove a mezzogiorno e dalle sedici e trenta alle ventuno e trenta >>. << E’ uno stacanovista, un militare ideale! >> << La vuoi smettere di scherzare?! Non vedi che è una faccenda seria? >> Quell’aggressione non mi piacque e i miei nervi sussultarono come le corde di un violino, azionate dal musicista dell’impazienza. Mi caricai di energia esplosiva. Io volevo solo sdrammatizzare la situazione e questo inconcludente mi bacchettava come un bambino. Gli risposi per le righe: << Chi se ne frega di te! Io, tra un quarto d’ora, vado via. Quindi o ti sbrighi a trovare una soluzione, oppure taglio la corda e ti lascio a fare la guardia con quello squilibrato di tuo nonno! >> << Ok, porca di quella puttana! Fammi pensare, ci sarà un cazzo di modo per uscire da questa prigione. Posso telefonare a mia madre e tentare di fargli rintracciare la badante. Ma dove si è cacciata? Eppure oggi doveva rimanere col nonno >>. Prese il cellulare e con frenesia cominciò a comporre il numero. L’ansia lo fece sbagliare per due volte consecutive. Quando riuscì a chiamare, ricevette la fregatura che sua madre, il telefonino, ce l’aveva spento. Cominciò a bestemmiare a ruota libera. Disse tante di quelle ingiurie, condensate in frasi striminzite, da lasciarmi attonito. Sembrava impossessato dal demonio e persino io, abituato ad ogni genere di porcherie, ne rimasi inorridito. La fortuna però, nonostante le filastrocche d’insulti, gli venne miracolosamente incontro. Evidentemente, per invocare l’aiuto di Dio, era necessario mitragliarlo di bestemmie. Sentimmo da lontano, provenire dal basso, il rumore di una porta che si chiudeva. Due erano le spiegazioni plausibili: o c’era un nuovo arrivato oppure suo nonno se l’era data a gambe. << Chi è?! >>, gridò Giovanni, con spavento e speranza. Una voce femminile ci rincuorò. Era la badante. << Sono Irina >>, gridò, con quel filo di voce che sebbene fosse fievole, in realtà si capiva che fosse il frutto di un forte sforzo vocale. Andrea scese le scale e le andò incontro. Nella tromba a spirale di gradini, riuscii a percepire il discorso tra i due dialoganti. << Dove sei stata? >>, l’aggredì Andrea con una voce polemica ed incuriosita. << Da mia sorella. Stare molto male signore >>, ribatté la badante lievemente intimorita. << Ho lasciato un biglietto sul tavolo della cucina >>. << Non c’era nessun biglietto. Se l’avessi visto non mi sarei preoccupato in questo modo >>. << Ti giuro signore, io avere messo. Avevo scritto: “io andare via, poi tornare tra poco” >>. << Scusa, ma da quant’è che sei fuori? >> << Una ora >>. << Ma se non ti ho sentita? >> << Sono stata a far servizi in camera da letto della signora >>. << Ok, ma io non ho scorto alcun avviso >>. << Eppure avere messo >>. D’improvviso si udii una terza voce, sicuramente fuori campo perché fino a quel momento, non era intervenuta. Aveva una voce catarrosa, con cadenza napoletana. Era il nonno fuori di senno: << Iamme Brigadiè, è tutto sotto controllo. Ho sequestrato io il foglio di carta alla gentil donna. Mi pareva materiale sospetto e allora ho compiuto il mio dovere. L’ho portato in caserma e l’ho fatto analizzare dagli scienziati che hanno tanto di laurea. Io di queste cose non ne capisco, quelli invece sì. È gente che ha sctudiato, che ha passato tutte le giornate sui libri e che non si è mai presa uno sfizio nella vita. Quelli, a Natale, neanche a carte li puoi vedere giocare. Stanno sempre a fare calcoli dalla mattina alla sera e si scuordano persino di mangiare. Però poi di certi professori ci si può fidare, soprattutto adesso che c’è la guerra e come niente può arrivare na bella bomba per posta. Da quel cornuto di Adolfo Hitlèr ci si deve ascpettare qualunque sorpresa. Quello, indo a capa sua tiene l’acqua scpuorca. Comunque la guagliona è pulita, lasciatela libera di andare che sctanno nu sacco di belli giovani in divisa che la vorrebbero spuosare. Non vedi quant’è graziosa, è proprio nu bello buocconcino! >>. Andrea si accomiatò e come ultima frase disse ad Irina: << Occupati tu di questo svitato. Io esco e non so quando torno. Ciao. >> Egli sparì per cinque minuti per potersi cambiare e ritornare in abiti incivili. Difatti poco dopo, come i super eroi che mutano il loro vestiario per espletare al massimo i loro poteri, allo stesso modo il mio amico aveva quel tipo di metamorfosi che, alla mia vista, risultava più familiare. Il suo cappello era un segno che marcava a fuoco la sua personalità turbata. Poi, i jeans e le scarpe da ginnastica bucherellate, completavano il quadro della sua trasandatezza. << Adesso sì che ci siamo >>, lo accolsi con voce trionfale, << sei tornato ad essere il maiale di una volta. Con i vestiti che indossavi precedentemente mi sembravi una buona checca >>. << Ma che dici! E poi quelli sono abiti che si indossano solo in casa. Tu sei il primo, tra tutti quelli della comitiva, che mi hai osservato conciato in questo modo. E ora andiamo. Sono stufo di stare a sentire quel malato di mente del nonno >>. Prendemmo la mia macchina. L’appuntamento con gli altri, come al solito, era davanti alla distilleria. Le stelle sfavillavano a loro piacimento perché le uniche luci nei paraggi erano quelle provenienti da quelle quattro case circostanti; il buio perciò concedeva agli astri di distinguersi nel loro splendore. Soffiava un po’ di vento che mi portò della polvere sugli occhi e mi causò un lieve bruciore. Il silenzio, a braccetto con le tenebre, ci metteva una certa tensione: era come se ci fossimo catapultati dentro un enorme cimitero. La paura si riversò di colpo quando un furgone, a tutta velocità suonando un clacson da emicrania, ci fece rigurgitare il cuore in gola. Il barbaro, autore di quell’atto, era un amico di Andrea che andava a quell’ora a lavorare: consegnava latticini in ogni caseificio della provincia. Il mio compagno sventolò il braccio in ritardo, sicuramente non era stato scorto nel ricambio del saluto. Salimmo nella mia autovettura. Andrea faceva girare un mazzo di chiavi, utilizzando come perno il proprio indice, forse credeva di stare a maneggiare un revolver. I vetri del veicolo si erano riempiti di foglie gialle e marroni. Col tergicristalli ne eliminai la gran parte. << Come mai guidi col sedile così ravvicinato al volante? >>, mi chiese il passeggero dal berretto scarlatto. << Perché, evidentemente, sto più comodo >>. << Secondo me è troppo vicino >>. << Fatti i cazzi tuoi, se mi trovo meglio in questa posizione, qualche motivo deve pur esserci >>. << Sarà. Ma quella non è una postura corretta. Rischi di non rispondere con prontezza agli imprevisti della guida. Inoltre potresti anche avere dei problemi seri alla schiena >>. << Gesù santissimo! Ho la patente da cinque anni e nella mia fottutissima vita disastrosa non ho ancora fatto un incidente! Di dolori alla schiena non ne ho mai avuti, perciò le tue teorie risultano delle autentiche stronzate! >>. Insistette: << Ma se ti lamenti in continuazione dei reumatismi alla schiena? >> << Sono i reni che mi fanno male, non la schiena. Quelli sì che non mi danno tregua. Ma ti posso assicurare che il mio modo di stare al volante non c’entra assolutamente. Ma ti vuoi guardare, una volta tanto le miriadi di difetti che ti ritrovi? >> << Calma, volevo solo darti un consiglio. Se non vuoi seguirlo peggio per te >>. Rimanemmo per qualche minuto senza fiatare. Non era tuttavia piacevole rimanere a corto di parole. L’imbarazzo è una delle sensazioni più irritanti che si possa provare. Dovevo in qualche modo uscirmene da quel fango, costituito da un mutismo auto indotto. Pur di cambiare il destino dei nostri umori, sarei stato disposto anche ad andarmi a sfracellare contro un albero. Per lo meno saremmo riemersi da quel disagio sempre più deprimente e soffocante. Già conducevamo un’esistenza da schifo, se poi non eravamo capaci di consolarci l’un l’altro, sarebbe stato più consono un suicidio in contemporanea. Odio tutti, non c’è niente da fare. Più m’impegno e più rimango deluso. Non ho ancora trovato, da quando sono nato, una persona, Loredana a parte, che mi abbia colmato di entusiasmo. Non perché siano cattive, no, peggio, il problema è dato dalla fiacchezza perenne che li ricopre; dalla noia e dalla malinconia a tempo indeterminato che guizza nel loro temperamento. Roba da farti scendere il latte alle ginocchia, simile ad un macigno che impedisce una libertà di allegria. E non mi riferisco solamente alla gente comune ma anche a coloro che hanno raggiunto l’apice della forma e del benessere. L’ho notato con i professori universitari, in particolar modo quelli che hanno ricoperto di fregi la loro immagine, mediante una carriera brillante. Sono cupi, cattivi, sprezzanti, insoddisfatti. Evidentemente la felicità non si cela dietro il manto dello sfarzo e della gloria. Probabilmente la serenità si inerpica in qualche sentiero alternativo. Forse è anche possibile vivere contenti in maniera diversa, schivando i rigidi canoni del piacere artificiale. O forse la felicità non esisterà mai nell’uomo. Magari è solo una goccia nell’oceano dei giorni che costellano un essere vivente. Come un flash: è un bagliore che prima ti acceca ed allo stesso modo svanisce. Per quanto mi riguarda, ritengo che la felicità sia solo apparente e rimanga chiusa nella cassaforte dell’aspettativa. Uno scrittore, mi pare John Stainbek in uno dei suoi libri, diceva pressappoco che: un uomo è felice quando ripete le medesime azioni nel tempo. Sarà pur vero ma finora nessuno mi è sembrato giulivo nel clonare le proprie giornate. Sono tutti alla ricerca di un diversivo, me compreso. Chissà se con Loredana sarei stato in grado di scrollarmi di dosso questa polvere di dolore che è solo in grado di tagliarmi il fiato. Per uscire da questa situazione stagnante, mirai dritto all’interesse che in quei frangenti, coinvolgeva Andrea: << Dimmi allora: come va a finire il filmazzo che abbiamo interrotto? Mi avevi promesso che mi avresti raccontato il resto della trama >>. Sembrava recalcitrante ma la sua passione non poté rimanere circoscritta nel silenzio. << Già, quasi avevo dimenticato l’impegno preso. Dunque, dove ci eravamo fermati? >> E chi se lo ricordava. Col livello d’attenzione che avevo prestato non ricordavo nemmeno se la pellicola fosse a colori o in bianco e nero. Ricordavo soltanto un’immagine che mi aveva riempito di sgomento. Fu quella che riuscì a farmi da promemoria e che mi salvò la faccia da una figuraccia, nonché da un potenziale litigio: << Se non sbaglio avevamo stoppato il lettore nella scena in cui il protagonista stava strangolando l’edicolante paffuto e, contemporaneamente, gli morsicava il naso >>. << Ah già è vero! Che realismo! Praticamente dopo avviene che…>> E parlò ininterrottamente raccontandomi ogni particolare del film. Dalla distilleria distavamo circa cinque chilometri, pertanto, andando di buona lena, in pochi minuti saremmo arrivati a destinazione. Se non che il tracciato era pieno di curve e la carreggiata risultava stretta e dissestata. Ma l’elemento che ci tenne in balia dell’attesa fu un intoppo che aveva ostacolato la circolazione. Eravamo nei pressi del ponticello realizzato in epoca fascista quando, d’un tratto, ci trovammo davanti una Lancia y, che procedeva a passo d’uomo. “Che caspita è successo?”, domandai a me stesso, visto che il passeggero che mi portavo a bordo era preso, anima e corpo, dal raccontarmi la cronaca di quello schifosissimo film che non mi aveva coinvolto nemmeno per un istante. Poi la spiegazione venne da sé: il veicolo che ci precedeva, nell’infinito serpentone di ferraglia, teneva accese le luci d’emergenza. Cercai invano, con la vista, di capire il motivo della decelerazione ma le ipotesi convergevano in un’unica spiegazione: sicuramente più in là doveva essersi verificato qualche incidente. Nel frattempo, non dimentichiamolo, Andrea continuava a blaterare. << Poi praticamente sai cosa succede? Che Luis (questo era il nome del killer cow boy) entra in un ottico e comincia a cospargere il negozio di liquido infiammabile. Ma la gente non ci sta, esausta da tanto abuso, decide di reagire. Mentre il rapinatore sta completando il suo lavoro di combustione e controlla la clientela con un mitra, un uomo di una trentina d’anni, avvia l’assalto: gli si butta addosso come un leone; solo che viene freddato. Però, contemporaneamente, altri quattro giovani, presi sia dalla disperazione che dall’esaltazione, si lanciano sull’assassino. Lo picchiano con una veemenza tale da ucciderlo. In questo modo si consuma la saga di uno spargitore di sangue più terrificanti del mondo cinematografico e con essa, il film può dare inizio alla parola fine. Bellissimo, me lo rivedrei per quaranta volte di fila. Ehi! Ma che cacchio è successo?! >> Solo adesso si era accorto che procedevamo a quindici chilometri orari. Tra un po’ persino le processionarie ci avrebbero sorpassato. << E che ne so. Si tratta certamente di un incidente. Mi auguro ci sia qualche vittima, altrimenti tutta questa attesa non ne è valsa la pena >>. Valicammo il ponte e notammo un uomo in divisa. Mi colpì che si trattava di un vigile, ossia di un dirigente del traffico e non di un carabiniere. Chiesi le dovute informazioni e ricevetti la seguente risposta: << C’è la festa patronale ragazzi, in questo momento stanno lanciando gli spari. Dovreste deviare sulla provinciale che porta a G***, altrimenti rischiereste di rimanere imbottigliati per oltre un’ora >>. Non valeva la pena di pensare, optammo immediatamente di imboccare la provinciale. Si trattava di allungare di dieci chilometri però, sebbene la distanza, avremmo guadagnato in termini di tempo; almeno saremmo sgattaiolati via da questo alveare di automobili. Raggiungemmo la rotonda sulla quale c’era in blu la scritta “G***”, che indicava il passaggio verso la libertà. Nonostante tutte le auto s’incanalavano in quella direzione, il caos tese a diradarsi. Cominciammo a rifiatare. Andrea come al solito volle rimproverarmi: << Scusa, ma non sapevi che oggi c’era la festa dell’addolorata? >> << E che ne so io? Mica tengo il calendario delle ricorrenze dei paesi d’Italia. Dato che fai tanto il gradasso, non potevi ricordarmelo? >> << Credevo che fossi a conoscenza di questo evento >>. << Ma vatti a fottere tu e la tua presunzione! È facile giudicare col senno di poi. Inoltre chi cazzo la segue la religione?! Non mi ricordo nemmeno se mi hanno battezzato e tu vieni a fare il professore delle mie palle! >> << Calmati, sei sempre aggressivo. Se continui ad avere queste reazioni, diventerai come il killer del film che ci siamo appena visti >>. << Magari! Ed il primo ad essere fucilato sarai tu! >> La distilleria era vuota, pareva che stessero facendo delle esercitazioni per un piano d’evacuazione, per prepararsi allo scoppio di una bomba nucleare. Persino le cartacce erano sparite. Accostai l’auto ed ispezionai con la testa fuori dal finestrino ma dei nostri amici non c’era nemmeno la loro ombra. C’era un’umidità pazzesca ed un clima che non poteva essere definito né caldo e né freddo. O meglio, la sensazione di gelo o di calura era affidata alle interpretazioni personali, relative alla percezione che ha ognuno di noi della temperatura. Io avevo la sensazione di stare a sguazzare in una grande brodaglia atmosferica. << Che massa di bastardi! Lo sapevo che non si sarebbero fatti trovare! Ehi Andrea, fai un numero a caso e vedi se riesci a rintracciare qualcuno >>. << Non posso, il mio cellulare è scarico >>. << E allora componilo dal mio. Gesù santissimo, dobbiamo rintracciarli per forza. E se non ci riusciremo per mezzo del telefono, adotteremo qualche altro sistema di comunicazione. Anche a costo di avvalerci del telegrafo, dei segnali di fumo o dei cerchi nel grano, riusciremo a richiamare la loro attenzione >>. << Ok, prendo il tuo cellulare. Dove l’hai messo? >> << E’ lì, sotto il cruscotto >>. Andrea aveva dato l’ennesima prova di essere un taccagno pezzente. Che morto di fame, impiegava il suo cellulare solo per ricevere le chiamate. Aveva una montagna di soldi e risicava spiccioli peggio di un’accattone. Appena prese il telefono, lo fece cadere per terra. L’impatto con l’asfalto fu notevole, tant’è vero che il mio povero aggeggio si aprì in tre pezzi. << Ma nemmeno sai agguantare gli oggetti! Hai le mani più mollicce di polpo>>. Dovevo intervenire, Andrea stava diventando troppo svogliato ed irritante. << Faccio io >>, gli dissi, e con la pazienza di un ragno rimontai pazientemente il cellulare. Nel rimettere la batteria in sesto, notai che le mie mani tremavano. Erano i primi sintomi di avvicinamento al limite. Chiamai Cosimo e stranamente mi rispose quasi subito, di solito aveva il telefono più occupato di un cesso. Domandai con una pacatezza che un po’ mi sorprese, il motivo di quel forfait inaspettato. << Non lo sapevi? >>, ribatté con stupore ipocrita Cosimo dall’altro capo del ricevitore, << Siamo al pub. Sbrigatevi che fra poco si liberano i tavolini >>. << D’accordo ora arriviamo >>. Ma che razza di cornuti quella decisione l’avevano presa massimo dieci minuti fa. Vatti a fidare di certi escrementi. Senza dare spiegazioni ad Andrea misi in moto la macchina. Intanto, da qualche vicolo non vedente, erano sopraggiunti Sniffone e Pecorone scodinzolanti. Anche se erano dei cani, per riverenza, reputai che fosse giusto dare loro delle giustificazioni: << Spiacente ragazzi, vi porterei con noi ma stiamo andando in un luogo coperto, dove i signori come voi non li accettano. Sarà per la prossima volta >>. Mentre parlavo, sentii che Andrea rumoreggiava, tramite il tipico scricchiolio fastidiosissimo che viene generato quando si scarta un pacchetto contenente alimenti. Aveva dei biscotti con sé, sicuramente scaduti da un secolo, che li lanciò alle due bestie vogliose di triturare qualcosa di commestibile tra i denti. I due canidi parvero pure contenti di questa offerta. Io invece ne ero categoricamente contrario. << Cosa c’è scritto sul contenitore? Da consumarsi preferibilmente entro l’unità d’Italia? Mi fai schifo, sei come quei pezzi di merda che si occupano di smistare gli aiuti umanitari: dai ai poveri la robaccia di quarta mano per liberarti dei tuoi rifiuti e contemporaneamente per vantarti di essere una persona solidale >>. << Ma cosa dici?! Sono solo scaduti da un mese e poi io mica becco quattrini per dare aiuto! >> << E allora che cazzo gli dai a fare quel lerciume?! Finiranno per intossicarsi e crepare prima del previsto. Mi sembra che sia più salutare quando vanno a rovistare nelle immondizie. La prossima volta che ti viene in mente di dare del cibo gratuito, prima lo devi saggiare con le tue papille gustative e se non schiatti, lo consegni all’interessato >>. << Cosa c’entra! Quelli sono cani. Hanno un metabolismo diverso dal nostro. Ad esempio, non ti accorgi che vanno matti per le ossa? Si nutrono di qualunque cosa, anche se porgi loro dei colori a cera, la prendono come una prelibatezza. Mica fanno storie come noi. E poi, se fossero tanto schizzinosi, rifiuterebbero la vettovaglia che gli viene consegnata. Saranno anche incapaci d’intendere e di volere ma santi numi, ce l’avranno un minimo di sensibilità al palato. E che diamine! Non penso che abbiamo a che fare con due fessi ambulanti! >> Non valeva la penna fare storie, voleva avere sempre ragione. Se mi fossi ribellato avremmo innescato un putiferio che si sarebbe concluso a legnate. Delle volte la quiete risulta più devastante di una tempesta. Partimmo anche lentamente, altrimenti Andrea avrebbe captato lo sgretolamento della mia pazienza. Lasciammo i due cani soli, visibili al giallo arancio dei lampioni. Tutto sommato erano contenti di trarre nutrimento dagli scarti di avanzi di cibo marcio. Si erano tuffati con la stessa voracità che adottano gli umani quando sentono il profumo di denaro: chi prima arriva meglio alloggia e l’altro essere non esiste, si tramuta in un ostacolo che va immediatamente eliminato. Il muco mi gocciolava dal naso, ogni tanto staccavo un braccio dal volante per tamponare quella perdita interfacciale. Giovanni canticchiava una canzone, riconoscibile soltanto dal suo sistema cerebrale. Dalle mie orecchie percepivo un bisbiglio che poteva essere attribuito a qualche insetto che si era fatto strada nel mondo dello spettacolo. Lungo la via che ci avrebbe condotto a destinazione non fiatammo minimamente. Il mio compagno nemmeno mi chiese in quale dannatissimo luogo lo stessi portando. Era concentrato in quel motivetto cretino, più infantile di una canzone dello zecchino d’oro. Capitolo 7 Il neon rossastro pose fine al nostro viaggio. C’erano parecchie persone che circondavano il pub. Aspettavano il loro turno, per potersi rimpinzare a dovere. Bloccai l’autoveicolo ad una cinquantina di metri dall’entrata, lungo un lieve scoscendimento. Tra la folla non riconobbi alcun volto noto; si vede che gli altri membri della comitiva si erano già bell’accomodati. Dentro la minuscola sala d’attesa, che raggrumava i clienti, scrutai i visi di coloro che mi si paravano davanti. Il mio istinto mi aveva ricondotto alla ricerca primordiale di Loredana. Ogni ragazza che possedeva lontanamente i suoi tratti fisionomici, poteva essere una potenziale Loredana. Mi auto convincevo di ritrovarla in ogni donna che riflettesse la sua immagine sbiadita. Come al solito si rivelava un’immancabile, insopportabile delusione. La tortura silenziosa si apriva dei varchi nelle piaghe dei miei sentimenti liquefatti. Sgomitai tra la calca all’interno del locale; la luce intermittente si sovrapponeva ad una serie di pezzi musicali d’antiquariato. In uno sfondo viola vidi finalmente qualcuno che mi faceva un largo gesto con a mano, era il solito esibizionista di Carlo. Con Andrea raggiungemmo gli altri che erano stati collocati dalla parte opposta all’entrata, vicino ad una parete che straripava disegni, forse enumerabili nell’ambito futurista. Avevo una voglia matta di accendermi una sigaretta: era parecchio tempo che non tiravo tabacco; ero talmente fuori di me che avevo smesso di fumare involontariamente. Meno male che quei farabutti degli amici nostri si erano degnati d riservarci un posto. Fummo collocati, ognuno, ad un angolo opposto del tavolo. Fu in quel momento che mi affiancai ad Giovanni, il quale se ne stava indifferente, può darsi già accoccolato nelle braccia dell’anestetico alcolico. Dalla parte opposta avevo le braccia imponenti di Carlo, che mi toglievano l’aria. Appena collocammo i nostri deretani sulle sediacce in legno e senza schienale, Cosimo mormorò il suo biglietto di benvenuto: << Ehi ritardatari!! Che piacere vedervi! Saremmo stati lieti se non foste venuti affatto. Mettetevi comodi, l’ospitalità è il nostro unico grande difetto >>. Accoglienza da schifo in un posto da schifo. A quanto pareva si erano dati immediatamente da fare: e sì perché le ordinazioni erano già state inoltrate, senza tener minimamente conto del parere mio e di Andrea. Va beh, a me poi non e che importava molto; una cosa valeva l’altra. Il menù era a base di hot dog e birra a volontà; c’era d’aspettarselo: erano completamente incapaci di sbizzarrire la loro creatività gastronomica. Del resto, non è che il luogo permettesse grandi opzioni di scelta. Comunque, lo scopo principale di questi pasti era di fornire alla parte liquida, una parte solida, che fungesse da tampone. Vale a dire noi mangiavamo per spalmare l’effetto alcolico nel tempo e quindi per bere di più. Generalmente queste cene improvvisate venivano stabilite molto più tardi, in prossimità della mezzanotte. Invece, quella sera, erano le dieci ed aspettavamo con foga l’arrivo delle vivande. La pecca di quell’ora precoce erano le macerie di persone che continuamente irrompevano nel pub e che ci costringevano a rimanere padroni del nostro tavolo per un periodo di tempo abbastanza limitato. Circa un quarto d’ora dopo trangugiavamo, per così dire, nel silenzio; ossia inteso come mancato rilascio della parola da parte dei membri appostatati lungo i confini del tavolo. Sopraggiunse poi un’ennesima portata di birra, in quanto precedentemente i miei compagni avevano avuto modo di gustarla. Riempiti i nostri stomaci, il cretino di turno, Cosimo, volle dare sfogo del suo repertorio inesauribile da quattro soldi: << Questa barzelletta si intitola: “comunque vada starò sul cesso” >>. Aveva l’aveva finanche decorata di un titolo. << Un water riflette tra se: “con o senza internet riesco lo stesso a scaricarmi un sacco di roba >>. Tutti si sganasciarono dal ridere, in maniera irrefrenabile. << E poi non ho nemmeno bisogno di lavarmi, rimango a bagno tutti i giorni >>. Ancora giù straripamenti di risate. << Mi considero molto fortunato, infatti, nonostante gli eccessi, ho avuto parecchio culo nella vita >>. A Carlo uscirono le lacrime per il troppo gaudio: << Basta Cosimo! tu mi mai morire! >> e sputò sul piatto il cibo che stava masticando. Ma Cosimo non ci fece caso; era gasatissimo ed inarrestabile come una slavina: << Ultimamente mi sento anche molto solo, perché non mi ha cagato nessuno. Però adesso ho conosciuto una tipa, che tutti definiscono un cesso, ma a me piace lo stesso” >>. Venne giù una caterva di risate, per sancire il trionfo del nostro giullare. Cosimo, evidentemente per quel successo inaspettato, si alzò in piedi e regalò alla platea i suoi ultimi sforzi di lavoro comico: << Sapete che, se tentate di eliminare un prurito, con un tozzo di pane, ottenete del pan grattato? Ma per fargli venire una bella crosta croccante non è necessario ferirlo >> Un’altra mossa azzeccata. Ridemmo in maniera sguaiata e ci contagiammo a vicenda. I camerieri accennavano un sorriso, ma si vedeva che erano in forte imbarazzo. Intanto gli altri clienti si erano tutti voltati verso di noi, per capire quale fosse il motivo di tanto divertimento. << Oh, santissima trinità, questa roba ti fa andare le mascelle in cancrena! >> Come quando fanno gli spari in una festa patronale, che prevedono una batteria finale con una serie di scoppi intensi, tutti racchiusi in una manciata di secondi, allo stesso modo Cosimo, senza respiro, lanciò una mitragliata di battute potentissime: << La mia lucertola soffre di un problema sessuale. Ha una disfunzione rettile >> << Sapete cosa ci fa una baldracca britannica con un meccanico italiano? Una chiavata inglese >> << E sapete cosa ci fa una mignotta ad un funerale? Le pompe funebri >> << Ed un falegname che si masturba vicino ad un veicolo a motore a due ruote? Una motosega >>. Fu il delirio. Carlo era diventato rosso per il gaudio e si stava per soffocare Cosimo riprese a parlare: << Adesso, per terminare la mia esibizione vi racconterò barzelletta storico-blasfema: In una partita di calcio, i capitani delle due squadre, che sono Luigi XVI e Gesù Cristo, si contendono chi dovrà dare la battuta d’inizio. L’arbitro va e gli chiede: testa o croce? >> Tutti scoppiarono per l’ennesima volta ridere. Dopo esserci ripresi dallo scompiscio, chiedemmo, in coro, il bis. Ma il nostro eroe della risata si congedò dicendo: << Mi dispiace ragazzi, ma io sono come il maestro Paganini: non mi ripeto >>, e si sedette come se nulla fosse. Poi si rialzò e con solennità fece: << Ho detto che non posso ripetere le mie battute, ma nessuno m’impedisce di raccontarne di nuove >> Noi, per la contentezza, spronammo lo showmen, con un “Evviva”. Cosimo si mise all’opera: << Dicesi rinculo: il movimento brusco, all’indietro, che si genera in seguito allo sparo di un’arma da fuoco, come razione alla pressione dei gas. Quindi, se due non fa tre e se la matematica non è un’opinione; il movimento contrario, vale a dire quello che si genera puntando l’arma posteriormente, e che provocherebbe una spinta anteriormente, si dovrebbe chiamare rincazzo! >> Oltre alle risate, alcuni aggiunsero anche dei fischi e degli applausi d’approvazione. << Questa era veramente l’ultima mia idea umoristica. Temo proprio di aver consumato il repertorio. Mi ci vorrà qualche settimana per ritornare di nuovo in voga >>. Fece un inchino, si rimise al suo posto e si scolò la birra che aveva lasciato a metà. Poi iniziammo ad adocchiare una delle cameriere che servivano i tavoli. Carlo aprì le danze: << Guarda quella battona! Ha più forme di un libro di geometria! Chissà che bell’emisfero australe si ritrova! Secondo me quella si prende più uccelli di una gabbia. Pasifae a confronto risulterebbe una santa. >> << E chi è Pasifae? >>, fece Giovanni. << Come chi è, quella che se lo fece menare da un toro e partorì il Minotauro >> Giovanni però era in preda ad un attacco d’amore: << Quanta carne cruda. Chissà se è fidanzata. Mmm, me la leccherei come un francobollo! Dio santissimo, sto sbavando dagli occhi! Con lei vorrei avere più rapporti di una bicicletta>>. Intervenne Cosimo con una delle sue teorie sballate: << Per capire se una donna è fidanzata o meno, basta vedere se porta degli anelli >> Giovanni si fece pure prendere dalla curiosità: << Quindi, se la tua teoria è fondata, per far rimanere le donne eternamente single, basterebbe che gli venissero amputate le dita. Per lo meno si avrebbe la certezza che un ragazzo non la possiede >>. << Esatto. Tuttavia ci sarebbe il problema che non ti potrebbe fare nemmeno una sega. A meno che non si munisca di un uncino >>. Intervenne Giovanni: << Ho bisogno di lei, mi occorre per allenarmi. Il mio pene è inattivo come la spada nella roccia. E poi, come dice un vecchio detto: le gambe delle donne sono come i libri, bisogna aprirle per scoprire il nero che c’è dentro >>. Io, sentendo quella idiozia controbattei: << Mai sentito un proverbio più depravato. E poi tu comunque ti alleni quotidianamente: ti fai più pippe di Braccio di Ferro.>>. << Ma se io sono più casto di un castrato! >>. << Secondo me tu non sei capace di combinare niente. Non ti ho mai visto tentare di zavorrare una ragazza nella mia vita >>. << Sarà anche vero, secondo me però non conta il numero di ragazze che sei in grado di accalappiare ma il potenziale che ti ritrovi. Io potenzialmente risulto un maschio dominante; questo mi permetterebbe di attirare a me qualunque donna in qualunque circostanza. E come dice un altro vecchio detto: il leone immobile non è detto che sia debole >> << Maschio dominante?! Ma sei un umano o un babbuino?! Se hai tutto questo flusso seduttore, vacci, fermala e digli: scusa mi piacerebbe conoscerti >> Carlo volle intervenire con la sua solita grazia: << Scusa mi piacerebbe conoscerti?! Ma queste frasi neanche nel Rinascimento dicevano! Questa è preistoria! Se vuoi farti una ragazza, basta che gli spifferi la seguente dichiarazione: prendetene e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi >>. << E che cacchio! Con una proposta del genere, metteresti in soggezione persino una pornostar >>. << Eh sì >>. Io volli disilludere Giovanni: << Comunque lasciala perdere, è sicuramente una testa di cazzo. Guarda che sguardo poco arguto si ritrova; una gallina ritardata la batterebbe in una prova d’intelligenza. E poi sono tutte fidanzate o sposate ste femmine scola cazzi >>. Cosimo mi chiese: << Perché le donne rinunciano alla propria personalità? Sposandosi con un uomo, sia pure ricco, ma brutto rude ed ignorante equivale ad annullare completamente i propri gusti. È come dissetarsi con un calice di diarrea >>. << Perché sono brave a fingere, anche quando non ce né bisogno: fingono di essere felici, fingono di entusiasmarsi, fingono di innamorarsi, fingono di soffrire. Sostanzialmente fingono di vivere. Rendono la loro esistenza un fiction. Questo perché temono continuamente il giudizio altrui. Ecco perché nel novanta per cento dei casi i loro matrimoni falliscono. Le donne pensano solo alla sicurezza economica, a quella mentale non ci fanno mai caso. Se badano tanto alla sicurezza, si sposassero con una cassaforte o con una porta blindata. No, invece vanno a nozze con pachiderma spietato che farebbe ribrezzo persino a Marilyn Manson e si auto convincono di essersi coniugati con il principe azzurro. Vanno avanti con questa convinzione e lentamente s’intristiscono senza sapere il perché. Ed è proprio questa infelicità che le stimola ad essere sensibili. Questo perché, generalmente, chi piange e rompe le palle lamentandosi viene considerato come una persona sensibile, in quanto emotiva. Il problema è che non si tratta di sensibilità, ma solamente di idiozia. Le donne sono infatti solo delle mentecatte deficienti. Non è una mia opinione, è dimostrato dalla scienza: non è un caso che il cervello di una donna pesa circa 1016 grammi, mentre quello di un uomo 1150. Ci sono pertanto ben 134 grammi di materia cerebrale di differenza >>. << Scusa allora, secondo la tua teoria, pure gli elefanti dovrebbero essere più intelligenti di noi, visto che hanno un cervello molto più pesante di quello umano >>. << Cosa c’entra; certi confronti li devi fare in proporzione alle dimensioni. Se un elefante avesse il nostro volume, si ritroverebbe con un cervello microscopico. Senti Giovanni, quando torni a casa fammi un favore: prendi la tua grandissima testa di cazzo e poggiala sulla bilancia. Verifica quanta materia grigia ti ritrovi in testa. Non si sa mai, la sicurezza non è mai troppa >>. Carlo mi domandò: << E allora, il cervello dei gay quanto pesa? >> << Probabilmente bisogna fare la media tra i cervelli dei due sessi opposti: dovrebbe andare sui 1083 grammi >>. Cosimo prese la parola: << Ritornando all’argomento donne, credo che invece esse in realtà facciano parte di un progetto diabolico delle multinazionali, volto ad incrementare le vendite. Ecco perché vogliono mettere su famiglia, per impennare i consumi e dare maggiori profitti alle grandi imprese >>. << Sono perciò il frutto di un capitalismo esasperatamente sfrenato, che non si fa scrupoli nemmeno di fronte ai sentimenti umani >>. << Esatto! >> Poi la noia sopravvenne. Nel frattempo il tempo navigava inesorabile sulle nostre teste. Uscimmo consumati dopo un’altra serata buttata nel nulla. La luna, imperatrice delle tenebre, stillava sulle vesti del cielo, lacrime di stelle. Era lì in sospeso in attesa di lasciare il posto al sole. La temperatura si era abbassata notevolmente, tuttavia non ci risospinse al coperto. Raggomitolati nelle nostre braccia sfidammo le intemperie notturne. Era l’una: l’ora giusta per starsene lontani dal resto dell’umanità. << Ti vedo pallido come Moby Dick ed hai anche una faccia strana. Non è meglio se ritorni nella tua sporca tana? >>, osservò Giovanni, per metà preoccupato. Dunque i miei pensieri si erano spalmati sul viso. << Forse perché non dormo un sonno sano da giorni >>, risposi al mio interlocutore. << E allora vai a casa e mettiti a letto >>. << Non ha alcun senso mettersi tra le lenzuola se poi non entri nel mondo dei sogni. Sarebbe come mangiare da un piatto vuoto; è un’azione del tutto inutile >>. Questa volta in macchina non c’era Andrea ma Giovanni, che ormai mi si era attaccato. Dall’uscita del pub alla mia auto, aveva già sputato una decina di volte. Speravo che quel viziaccio non si sarebbe protratto anche all’interno dell’abitacolo. L’asfalto sudava pozzanghere. A due passi dallo sportello ne calpestai una che rifletteva a specchio il mondo soprastante: con la mia suola, per pochi istanti, lo feci dileguare. Forse Dio, allo stesso modo, avrebbe potuto chiudere l’esistenza umana: tramite una semplice pedata; ed invece rimaneva lì, impassibile, a guardare dall’alto il riverbero delle nostre vite sgualcite. Presi una sigaretta e me l’accesi; mi era stata data da Cosimo all’interno del locale. Ne assorbii con ingordigia tutto il suo tabacco. Il fumo farà col tempo anche male, però nel frattempo è capace di regalarti per ogni boccata dei piaceri, sia pure millesimali. Si sa poi com’è il piacere, quando decade in vizio: prima o poi ti fa scontare i suoi abusi. Va beh, chi se ne frega; tanto prima o poi, in un modo o nell’altro, bisogna schiattare. Quella era un’ora tarda, in giro si sentivano soltanto i sussurri del vento. L’ombra che di giorno sembra così piccola e indifesa, col trascorrere delle ore si era presa la sua rivincita, riappropriandosi del dominio delle nostre latitudini. In macchina Giovanni non fiatò, era immerso in un’apnea d’espressione. Io accesi la radio sulla prima stazione a portata di mano. Giovanni estrasse da una scatoletta metallica due sigari, uno lo porse a me e l’altro se lo infilò tra le labbra, dopo esserselo acceso. Chi gliel’aveva dati, nessuno lo sapeva. Io gettai la sigaretta, che mi ero appiccato poco prima. Cominciammo entrambi a fumare e la macchina si riempì del candore del tabacco nebulizzato. La visibilità divenne un problema, era come se una perturbazione si fosse incanalata sotto la scorza della mia automobile. Abbassai completamente il vetro del finestrino per far sì che non rimanessimo accecati ed asfissiati. Io seguivo Carlo, il quale si mise a dare spettacolo: zigzagava con la macchina e lampeggiava come un faro con gli abbaglianti. Quando si metteva a fare il cretino non la smetteva più, evidentemente era anche aizzato dai passeggeri che viaggiavano con lui. Non finì di certo lì la sua performance; innanzitutto strombazzò lungo tutto il tragitto e poi si mise a fare uno scherzo idiota che avrebbe fatto perdere la pazienza anche ad un santone. Metteva la freccia direzionale da un lato e come un bastardo, imboccava la direzione opposta. Lungo la statale accelerava e decelerava improvvisamente, rischiando di provocare un bel tamponamento. La rabbia mi crebbe in corpo e per tale ragione decisi di sorpassarlo. Tuttavia lo stronzo, mentre ero parallelo per compiere la manovra, rimaneva al mio fianco, aumentando la velocità, mettendo la mia vita e quella di Giovanni in pericolo. L’unica soluzione era sbarazzarsene: presso la circonvallazione di F***, imboccai una strada secondaria e sparii da suo specchietto retrovisore. Liberatoci di quel deficiente scorsi Giovanni che sembrava mi volesse dire qualcosa. Aveva un viso quasi sofferente. D’improvviso attaccò a parlare: << Mia sorella mi ha regalato un libro, un dono assolutamente inutile perché nella mia vita non ho mai letto. Mi affatico persino a guardare le scritte dello scontrino, e lei cosa Cristo mi va a regalare? Un cazzo di libro. Cosa me ne faccio io di un libro se per me non ha alcuna funzione? E come se gli regalassero un deltaplano ad un uccello >>. << Chi se ne frega. Ringraziala, digli che è un bellissimo regalo, e lascia il libro ad un angolo a marcire. Tutt’al più se ti chiede di raccontarle com’è la storia, dille quello che c’è scritto sulla trama iniziale e la tieni contenta. In questo modo non rovini i rapporti ed allo stesso tempo ti liberi di una simile cianfrusaglia >>. Il consiglio gli piacque pure perché ridivenne silenzioso ma con una faccia soddisfatta. Quando giungemmo alla distilleria, all’appello non mancava nessuno: ognuno poi era ben fornito con tanto di lattina di birra, manco se stessero nel deserto. Sudavo freddo ed i reni mi dolevano. Mentre mi accingevo a raggiungere gli altri sentii che la scarpa sinistra si era slacciata. Serrai pertanto le stringhe bagnate, con un nodo stretto come una tagliola. Sull’asfalto sbrecciato c’erano foglie sparse come coriandoli: secche, avvizzite e per terra, simili alle nostre esistenze . L’asfalto era a brandelli, sembrava affetto da tigna. Quella dannatissima breccia ti imbrattava le scarpe di polvere calcarea non appena ti trovavi nei paraggi; anche con il solo respirare si librava. Fiorivano le erbacce dalle fenditure dei marciapiedi che col tempo erano diventate dei veri e propri cespugli. Forse in un futuro remoto si sarebbero mutate in alberi. Il silenzio era sepolcrale, avrebbe messo persino paura ai fantasmi. Guardai per un attimo la parete che separava la nostra via dalla stazione; con tutti quei murales ricordava molto il muro di Berlino. Ecco perché, forse, avevamo una voglia matta di farlo cadere giù: non si trattava d’inciviltà, bensì di un richiamo inconscio della storia. Può darsi che fosse semplicemente un desiderio represso di libertà, oppure una giustificazione, dalle gambe corte, delle nostre schifosissime menti malate ed intorpidite. Guardai nel vuoto, ma l’infinito non mi dava risposta; piuttosto sgretolava i miei pensieri nella sua vorace vastità. Intanto il mondo andava a rotoli per la forza del caso, e noi rimanevamo impotenti, ospiti della sua decadenza. Pensai alle altre persone che dormivano, cacavano, crepavano e scopavano, e alle loro esistenze frivole. Non le avrei mai viste e loro non avrebbero mai visto me. Che senso aveva vivere simultaneamente sullo stesso pianeta, se non c’era la speranza di scambiarsi le proprie esperienze? E chi lo sapeva, forse spettava a noi diventare dei bulimici della conoscenza. Oh Dio nemmeno Loredana potevo avere! Mi sentivo incompleto come una settimana enigmistica. Rimasi ad ondeggiare nel vuoto, come un’altalena senza passeggero. Ero sempre più convinto che in questo stato si sgomento avrei portato al crepuscolo la mia giovinezza esagitata. Giovanni mi porse una lattina omaggio e volle alzarmi il morale con una frase d’incoraggiamento: << Su bevi, che domani c’è la grande partita: gli romperemo il culo a quelle femminucce. Mettiti in forma, prevedo un trionfo storico >>. Come al solito Carlo, che evidentemente aveva sentito il nostro dialogo e che sicuramente non si era saziato con la balordaggine fatta lungo la provinciale, si esibì in un altro numero barbaro ed altrettanto inaspettato: << Si gioca ragazzi! Allora avete il dovere di svolgere una preparazione pre-partita. Gesù Santissimo! Prima di un incontro così importante è necessario un riscaldamento per constatare le condizioni della squadra >>. Era eccitato quella notte, non so quale intruglio avesse ingurgitato. Aveva gli occhi sbarrati come un folle e temetti per davvero che potesse commettere qualche cosa di brutto. Andò vicino ad un bidone e saltò sul pedale che ne permetteva l’apertura. Dopodiché cominciò a prendere a calci ed a spintoni, il contenitore dell’immondizia, fino a farlo rivoltare. Ci fu un fracasso orribile: tonnellate di spazzatura sgorgarono lungo la strada. Io rimasi ad osservare a bocca aperta e mi domandai quale fosse l’intenzione che avesse in testa. Poi capii: voleva utilizzare i sacchetti di rifiuti come dei palloni da calcio. Ne prese uno per le mani e con una pedata micidiale, lo lanciò dall’altra parte del muro, verso la ferrovia. << Si gioca miei allievi. È ora di capire con quali gambe vi scontrerete domani! >> Un vandalo in piena regola. Credevo che gli altri sarebbero rimasti fermi, stonati da tanto scempio; invece trovarono il pretesto per una nuova occupazione. All’inizio io non mi volli rendere partecipe di un simile trastullo, però dopo pochi istanti mi resi conto che ero rimasto soltanto io l’unico spettatore di questo sabba di sporcizia. Decisi pertanto di immischiarmi nella bolgia. Diedi tutto me stesso affinché si potesse creare un’insalata di rifiuti. Calciavo ogni oggetto che mi si parava davanti, senza criterio, solo per il gusto di scaricare l’elettricità accumulata nella giornata. Intanto dai sacchetti lacerati uscivano schifezze di ogni genere e colore, si stava trasformando in un caleidoscopio della merda. Con foga, quasi feroce, mi dimenai, sprigionando tutta la mia ira. L’alcol che il mio sangue aveva ospitato, non accennava a smaltirsi e contribuiva all’escandescenza immotivata. Se si fosse trovato un passante nei paraggi, avrebbe distinto delle figure non enumerabili come adolescenti in preda all’euforia; bensì degli ibridi, forse dei mutanti, metà umani metà rifiuti, che danzavano in una sacra liturgia, dedicata ad un qualche demone amante della putrefazione. Quella era la nostra nuova razza, evolutasi solo e soltanto dal nostro genoma: i rifiuti solidi umani. Sudai nel mio giubbotto e mi rinfrescai grazie all’alcol convertito in secrezione. Già la situazione di per sé stava andando in frantumi ma ahimè, subì un’ulteriore evoluzione degenerativa. Una volta adoperate le gambe si passò ai bombardamenti corpo a corpo. Come se stessimo nel bel mezzo di una coltre di neve, che istiga i soggetti a guerreggiare a suon di palle di fatte di ghiaccio, allo stesso modo noi, ci colpivamo l’un l’altro, con delle autentiche granate di sozzura. Tuttavia, c’è da sottolineare che, rispetto alla gelata e monocromatica neve, la nostra scelta era più svariata, e le possibilità di oggetti da scagliare risultavano di vasta gamma. Ad esempio io colpii Carlo con una manciata di carne macinata, che lo imbrattò di rosa fetido. A suon di “fottiti” e di “crepa bastardo”, ci inzaccherammo da capo a piedi. In una simile lordura, se fosse andata bene, come minimo ci saremmo ammalati di peste: nera o bubbonica non faceva differenza. Che devastazione, persino i ratti si sarebbero schifati. Ci eravamo in qualche modo liberati, in un luogo dove chiunque tende a coprirsi gli occhi e davanti a tanta desolazione, anche quello era un modo per divertirsi. Infatti, sebbene fossimo affamati, sporchi, puzzolenti ed infettati di batteri fin dentro il midollo, la nostra contentezza era trasalita alle stelle. << Questa guerra a palle di cacca è stata meravigliosa, dovrebbero inserirla come sport alle olimpiadi >>, urlò Carlo, con il viso sporco di sugo e ricotta. << Ragazzi >>, disse Cosimo, seduto sul bordo del marciapiede, per rifiatare, << vi rendete conto?! Anche noi siamo degli ecologisti: abbiamo trovato un metodo alternativo d’impiego dei rifiuti. La piaga delle immondizie è ormai risolta. Viva l’ambiente! E che Dio riempia questo paese schifoso di colera e di scarafaggi! >> Carlo, di nascosto, si era appostato dietro le spalle di Cosimo. Il quale, appena terminato di parlare, si ritrovò addosso una pelliccia. Poteva essere un animale, non si capiva bene. Secondo me era un gatto morto ma sinceramente non ne ero sicuro. Poteva anche trattarsi di una donnola, un ermellino o una nutria. Era decapitato, quindi la sua identità era un’interpretazione del tutto personale. Cosimo, nemmeno provò ribrezzo, anzi quel materiale da vomito lo ispirò per comportarsi ulteriormente da idiota. Si mise sul collo quell’ammasso di peli e con una voce aristocratica fece: << Guardatemi! Sono una nobildonna. Quando avevo vent’anni, ho sposato un vecchio maiale di settant’anni che mi ha riempito di gioielli. Ora, da quando mio marito è schiattato, godo di ogni privilegio. Nonostante sia flaccida e piena di rughe, organizzo eventi mondani a base di sfarzo. Sono serate che solo persone di un certo livello possono frequentare. Non c’è mica posto per la feccia popolana. Pertanto i miserabili plebei come voi non sono desiderati. Non c’è comunque da disperarsi: se volete un po’ salire di grado, vi posso concedere un posto come schiavi; questo vuol dire che sarete costretti a servirmi, da mattina a sera, ed a togliermi i porri che mi germogliano dal culo >>. Ecco come i giovani passavano il primo decennio del duemila. Al di là del pattume e del rischio epidemia venutosi a creare fu una serata memorabile. Riuscimmo in quella mezzora a fluttuare in pace, senza più essere legati ad alcun lucchetto etico. Questi sono momenti che ti fanno apprezzare veramente la vita. Tuttavia dovevamo comunque fare i conti con la realtà, e cioè ci dovevamo rendere conto del macello combinato. Poiché rimettere in ordine ogni rifiuto era un’impresa troppo lunga da compiere, decidemmo di intraprendere la scelta più rapida e pusillanime: tagliare la corda. Ciò che rimase fu una strada coperta da una quantità immane di scarti civili. Ricordava molto un cataclisma che aveva stravolto l’intero territorio urbano. << Che casino abbiamo combinato >>, dissi con un po’ di senso di colpa << bisognerebbe far saltare questo posto con delle bombe nucleari >>. Cosimo intervenne con la sua battuta pronta: << Là c’è un albero di mele granate, usa quelle >>. Carlo però volle dare un ultimo tocco di magnificenza allo scempio. Guardava la strada inzaccherata con un’aria simile a quegli artisti che sono insoddisfatti della loro opera e credono che con una sola pennellata divina, possano restituire lo splendore alle loro fatiche. Chi lo sa, forse aveva solo in mente di far sparire l’enorme massa di immondizia dispersa, oppure semplicemente era ancora preda alla sua imprevedibile follia. Sta di fatto che d’improvviso, quando noi tutti ormai avevamo preso posto, ognuno nelle corrispettive automobili, lo vedemmo con una tanica di benzina, cospargere la strada. Non so come diavolo se la facesse a trovare ma con celerità sorprendente, bagnò ogni solido dormiente sull’asfalto e poi con un leggero tocco di fiamma, quasi poetico, generato dal suo accendino, creò una sorta d’incendio controllato: un po’ come fanno gli agricoltori per eliminare le stoppie. La bruciatura durò pochissimo, i rifiuti si erano ridotti in cenere e furono sostituiti da una puzza malsana di diossina che senz’altro ridusse la speranza di vita dell’intera cittadinanza. L’avevamo combinata grossa ed era ora di fuggire al più presto. Persino Sniffone e Pecorone avevano fiutato il miasma e si erano resi conto che ci eravamo incagliati in un brutto affare; difatti in un attimo li vidi svanire dalla mia vista. Che spettacolo irripetibile. Fortunatamente da balconi e finestre non fuoriuscì nessuno; almeno così ci parve. Non c’erano perciò testimoni oculari e nasali disposti ad accusarci. Nel frattempo, la macedonia di rifiuti da noi lasciata, continuava a sprigionare un fumo bianco e tossico. Carlo al posto di migliorare la situazione, l’aveva peggiorata. L’unico vantaggio venutosi a creare da quella combustione era che il nebbione ci celava da eventuali spioni. Al di là di tutto, era passato troppo tempo, ed era ora veramente di andarsene. Con una sgommata lasciammo quell’inferno e tirammo dritto fino al parco, che aveva assunto il nome di uno storico del nostro paese. Forse ci avrebbero arrestato, in fondo non era difficile individuare gli esecutori del reato: bazzicavamo sempre e soltanto noi in quei bassifondi. Avevamo dato alle fiamme una zona residenziale e fuggivamo come dei profughi senza meta. La macchina puzzava ancora di plastica bruciata, era rivoltante farsi profanare le narici da quell’odore insopportabile. Gli occhi mi lacrimavano, evidentemente si erano irritati. Giovanni come al solito mi stava a fianco e taceva come un pesce. Dato che nessuno profferiva parola, feci con il mio pensiero un esame di autocoscienza: chi e cosa ci aveva spinto a quel comportamento distruttivo? Formulai qualche ragionamento che reputavo abbastanza plausibile. Era sostanzialmente l’insoddisfazione che c’invogliava a comportarci peggio delle locuste. E quell’insoddisfazione era generata dalla società bigotta che ci aveva tagliato fuori, che a sua volta era stata procreata da uno Stato bidone, fondato sul denaro e sulla raccomandazione. Perciò la colpa non era completamente nostra. Il nostro modo d’agire non era altro che una forma d’espressione malevola, verso le amministrazioni avariate che ci governavano. Ogni fottutissimo giorno i giornali ci parlavano di disoccupazione alle stelle e di giovani senza futuro. In più c’era da aggiungere la situazione decadente del nostro microcosmo. Ad esempio, come potevo diffondere il bene senza una famiglia, senza l’amore e con degli amici ai quali, tra l’altro gli voglio un mondo di bene, ma che come uno svago hanno quello di devastare solo ed esclusivamente la propria salute? Mi ero dato una risposta accettabile, il nostro atto poteva perciò essere giustificato ed in qualche misura legalizzato. Abbassammo tutti i finestrini per far sfiatare l’interno dell’auto. Pur di far entrare dell’aria un po’ più pura dall’esterno, sarei stato disposto a sfasciare il parabrezza. Erano le tre del mattino e naturalmente c’era il deserto urbano: i bar erano chiusi ed i palazzi pareva che dormissero. Mentre stavo circumnavigando il parco, Carlo, nel bel mezzo della strada, mi fiancheggiò e mi fece cenno di accostare. Con i miei occhi arrossati gli volsi l’attenzione. << Ehi Ciro, seguimi; mi ha chiamato Roberto e non so cosa voglia >>. Il nome Roberto non l’avevo mai sentito pronunciare in vita mia; chissà da dove era spuntato fuori. Sicuramente doveva essere un poco di buono. Gli diedi il mio assenso. Intanto Giovanni continuava ad essere immerso nel suo habitat mentale. Decisi, con tutti i rischi che ne sarebbero subentrati, di accodarmi a Carlo. Va beh, non me ne fregava niente; sempre meglio dello stare a ronzare in questo alveare di noia, era. La marmitta della macchina di Carlo emanava uno scarico tossico, che ci costrinse a chiudere i finestrini. Giungemmo in via Milano ed accostammo al primo parcheggio rinvenuto sui bordi. Per la verità la strada era completamente deserta, perciò c’era un’ampia libertà di sosta. Scendemmo dal’auto e c’infilammo in una stradina che sembrava una feritoia e che avrebbe dato problemi di deambulazione persino ad una sogliola. Carlo si salutò con un tipo alto, dai vestiti lunghi e sgargianti e con una barba incolta. Aveva dei capelli lungi e neri, più spettinati di Huckleberry Finn. Sembrava un intellettuale impazzito. Tra le dita teneva una canna che aveva agito sulla sua andatura; infatti barcollava lievemente. Rideva della tipica gioia artificiale, scaturita dalle inalazioni di certe sostanze. All’interno della stradina, deposto lateralmente ed accovacciato, giaceva un ragazzo che maneggiava un laccio emostatico ed una siringa contenente eroina. Stetti per pochi istanti ad osservare i suoi gesti: s’infilò l’ago nell’avambraccio e s’introdusse la dose di piacere fatale. Una volta terminata l’operazione sgranò gli occhi e soffiò, come se stesse spegnendo una torta di compleanno immaginaria. Il collo per un po’ barcollò, come se la testa stesse chiedendo l’indipendenza dal resto del corpo. Infine poggio il capo al muro e rimase lì fermo, in un dormiveglia tormentato: si era ibernato dalla realtà. Aveva un viso scavato e grigiastro, il tipico marchio di riconoscimento di un eroinomane di prima qualità. Temetti che sarebbe potuto scoppiare in una reazione frenetica e rabbiosa e che ci avrebbe pestato in sintonia a sangue. Fortunatamente rimase fermo ed accovacciato, mummificato dai veleni introdottisi. Sulle braccia aveva dei lividi: segni inconfutabili delle punture di vespa della droga. << Tranquilli ragazzi >>, confortò Roberto, << è innocuo. Comunque non avvicinatevi, non si sa mai >>, lo trattava come un cane assassino. Dopo esserci presentati imboccammo un’altra strada, che ci condusse quasi in campagna. Come per le colonne d’Ercole c’era un muretto a secco che delimitava la linea di confine tra il paese ed il paesaggio rupestre. Il buio da quelle parti era ancora più fitto, tale da far sembrare il nero anemico. Roberto uscì di tasca un pacchetto di fazzolettini, però riempito di marijuana. << Ehi sballati! Entro stasera dobbiamo finire questo fumo, perché ho i carabinieri alle costole. Non vorrei passare dei guai, perciò diamoci alla pazza gioia. A proposito, non mi dovete niente, offro io; stanotte il divertimento è gratuito. Ho tutto l’occorrente, in tasca ho più cartine di un atlante >>. Cominciammo a rollare, come in una catena di montaggio, una canna dopo l’altra. Ne vennero otto. Il nostro lavoro di artigiani improvvisati sembrava terminato lì, invece Roberto uscì altri due pacchetti di fazzolettini, ricolmi della medesima sostanza. << Porca puttana! >>, esclamai, << ma da dove vieni, dall’Afganistan?! Come facciamo a finire tutto questo ben di Dio entro stanotte?! Nemmeno Bob Marley ci riuscirebbe >>. << Cosa vuoi da me, non è mica colpa mia. Avevo un affare in ballo e mi è saltato. Un cazzo di rifornimento andato a vuoto. Dovevo partecipare ad un festino di un mio amico e mi avevano incaricato di provvedere agli intrattenimenti. Poi tutto è saltato e mi sono ritrovato con dosi da magazzino di fumo che non so più dove stoccare. Si è verificata una tipica situazione di congiuntura economica: in questo caso l’offerta ha superato, in modo esponenziale, la domanda >>. << Scusa, ma non la puoi rivendere? >> << Sei matto! Se chi gestisce certi giri viene a scoprire che mi sono dato al commercio in proprio, mi fanno secco. E poi, come ti ho accennato prima, ho i carruba che mi stanno pedinando. È già la terza volta in quattro giorni che me li ritrovo sotto casa. Comunque non preoccuparti, per consumare le scorte ho chiamato i rinforzi. Ed ora rimettiamoci al lavoro e continuiamo a fabbricare canne >>. Chissà cosa faceva Roberto nella vita, forse studiava, forse rubava. Non sapevo nemmeno se fosse del mio paese. Eppure il volto non mi era completamente sconosciuto. Ci mettemmo a fumare e nel giro di una mezzora, risultavamo già completamente strafatti. Mi venne la contentezza e la tranquillità dell’effetto benefico della cannabis. Sebbene mi fossi pappato due panini e due birre, mi venne una fame immensa, peggio di quella di Pantagruel. Cosimo era completamente svalvolato e sparava frasi senza cognizione di causa: << Avevo una ragazza bellissima che suonava il sax, poi si mise con quel ragazzo prussiano che leccava il culo allo zar. Quella troia, se ne andata a Stalingrado, senza nemmeno salutarmi. Quella merda del fidanzato era pure un giocatore d’azzardo. Che tristezza mi sento un senso di vuoto, come se mi avessero trapiantato un buco nero sul cuore. Cosa ci prova ad innamorarsi di un coglione del genere, che va facendo ancora scherzi da ragazzini, che va ancora mettendo la schiuma da barba sui citofoni? Ed io che sto a fare la muffa con voi che siete lo sterco del paese >> << Porco cane! >>, fece Andrea con apprensione << a questo gli si è formattato il cervello! >> Cosimo continuava a lamentarsi e a piagnucolare come una femminuccia. Io lo guardavo con occhi estranei perché mi sentivo calmo come un moribondo. Ero di una serenità inattaccabile, anche se si fossero presentati gli alieni non avrei battuto ciglio; mi sentivo un saggio che con freddezza scrutava l’avvicendarsi convulso del mondo. Che avrei dato per rimanere perennemente in quello stato. Di canne ce n’erano ancora in abbondanza e dei rinforzi tanto osannati da Roberto non ne avevo visto nemmeno l’ombra. Non mi andava più di fumare perché avevo un po’ di nausea. Se proprio Roberto voleva sbarazzarsi del fumo, poteva anche gettarlo nel fiume. Poi, anche se veniva arrestato, non è che me ne fregasse molto, anzi era uno sciagurato in meno in circolazione. Lentamente riacquistai la lucidità e potetti distinguere quali conseguenze aveva prodotto la cannabis. Feci una sorta di appello col pensiero per vedere se non mancava nessuno ma, ahimè, Carlo di era dissolto nell’aria. Chiesi agli altri che fine avesse fatto, ma nessuno mi rispose. Cercavo Carlo perché temevo la sua pericolosità: quando infatti svaniva nel nulla poteva creare dei casini seri. Della sua incolumità non me ne fregava assolutamente un accidenti. Poteva anche essere sparato; ciò che mi metteva in ansia era che ci poteva mettere nei guai, in un frangente ed in contemporanea. Poi sentimmo un frastuono provocato da un oggetto metallico che si trascinava; era odiosissimo alle nostre orecchie. Digrignai i denti a causa di quel fastidio uditivo. << Che diavolo è, un carro armato? >>, urlò Giovanni che evidentemente provava le mie stesse sensazioni. Più passavano i secondi, più quel graffiare d’asfalto aumentava d’intensità. Poi a circa una cinquantina di metri di distanza vedemmo una sagoma che a fatica, con entrambe le braccia, si trascinava una sorta di contenitore bianco. Sicuramente era lui il fautore di quel frastuono. Era Carlo, anche se molto distante, l’avevo riconosciuto ugualmente. “Che si porta appresso?”, mi chiesi con un pizzico di paura. Ci alzammo tutti in piedi per aspettare il Carlo al prodigo. Quando ci raggiunse era stremato ma appagato per l’obiettivo portato a compimento. << Ehi pargoli, guardate cosa vi ha portato il vostro amico del cuore >>. Noi rimanemmo di sasso: aveva rubato da una farmacia il bidoncino, che conteneva i medicinali scaduti. Se lo portava dietro con trionfo, come se si fosse trattato del sacco dei doni di Babbo Natale. Lo distrusse e tirò fuori una fiumana di medicine, chiuse in dei pacchetti a noi completamente sconosciuti. Si stava veramente toccando il fondo. Forse perché eravamo rintronati dalla droga, o forse perché eravamo semplicemente matti. Sta di fatto che cominciammo a scartare quegli involucri contenenti medicinali. Poi Cosimo, che quella notte era stato impossessato dal delirio, fece la schifezza: si spalmò sul viso una pomata al cortisone, come se si fosse trattata di una crema idratante. << Guardatemi! Tra un po’ potrò concorrere per miss Italia! Che meraviglia, non vedo l’ora di darla ai giudici di gara. In seguito sfrutterò la mia bellezza per ottenere le mie ambizioni. Mi iscriverò all’università e farò pompini a ripetizione a quei vecchi professoroni settantenni che hanno le rughe persino sulla lingua. Ah, quanti esami orali che farò! >> << Ehi questo sta fuori davvero, gli saranno penetrati i nematodi nei neuroni! Toglietegli quel cortisone dalle mani, altrimenti stanotte va a finire male >>. << Secondo me, la merda che gli scende dal culo gli parte dalla testa >>, feci disgustato. Cosimo si era rimesso a piangere. Io estrassi un fazzoletto dalla tasca e tentai di ripulirgli la faccia. Mentre mi cimentavo in questa opera di bene, quel figlio di buona madre mi tirò un morso con quei suoi dentacci affilati come quelli di un coguaro. Mi venne un dolore senza precedenti; sarebbe stato meglio se mi avesse morsicato un tirannosauro rex. Egli rimase attaccato alla mia carne come se avesse intenzione di staccarmela. Secondo me si era preso la rabbia. La sofferenza che mi produsse mi fece reagire repentinamente, con l’azione del riflesso. Non ebbi pertanto nemmeno il tempo di capire che cosa stessi facendo: gli sganciai un ceffone col palmo irrigidito, di modo che il colpo fosse ancora più violento del previsto. Il povero Cosimo era talmente preso dagli spasmi della cannabis che non sentì alcun dolore, tuttavia il mio intervento fu risolutivo, perché egli parve quietarsi e si fece ripulire con cautela. Carlo nel frattempo rovistava nello scatolame medico, era in cerca evidentemente di qualcosa: << Cazzo, deve pur esserci un’aspirina da qualche parte, ho un male alla capoccia bestiale >> << Cioè, fammi capire, tu hai svaligiato la parte esterna di un farmacia solo ed esclusivamente per rinvenire un analgesico che ti alleviasse il mal di capo? >> << Certo, ci mancherebbe. Dove lo vado a trovare qualcuno disposto a curarmi il mal di capo. E poi la salute è un servizio pubblico, quindi sono autorizzato a servirmi autonomamente e gratuitamente di qualunque prodotto che ponga fine alle mie tribolazioni >>. L’aspirina non c’era e Carlo parve deluso di quel furto sui generis. Pertanto tralasciò la ricerca per andarsi a riposare sulle pendici di un marciapiede. Vidi che ore si erano fatte, dato che mi sembrava di vagare nell’eternità. Erano le sei e trenta, tra circa un’ora avrei dovuto prendere il treno e recarmi all’università. Non potevo non andarci, dovevo fare l’esame di analisi dei linguaggi e dei concetti politici. Non mi andava però di tornare a casa, altrimenti avrei svegliato i miei familiari che si sarebbero messi a fare storie. Tanto il portafoglio ed il libretto universitario li avevo con me. Quindi mi allontanai dagli altri e mi recai nella mia macchina per fare una pennichella. Ripercorrendo la strada al contrario notai che il ragazzo che si stava strapazzando di eroina se n’era andato, però aveva lasciato come ricordo del suo transito un accumulo di fazzolettini bisunti di sangue e la siringa che gli aveva pugnalato il braccio. Aprii lo sportello dell’auto e mi coricai lungo i sedili posteriori. Nel dormiveglia sentii bussarmi dal finestrino; alzai gli occhi e riconobbi l’immagine sfocata di Cosimo. Aprii lo sportello per sapere cosa volesse: << Che cazzo vuoi? Speravo fossi morto di overdose >>, gli chiesi con la bocca impastata dal sonno. << Me lo dai un passaggio a casa? >> << Scordatelo, io rimango qui a dormire >>. << Dopo tutti i favori che ti ho fatto, neanche uno strappo fino alla mia abitazione mi vuoi dare? Cosa ci perdi? Se ne andrebbero soltanto una decina di minuti >>. << L’unico favore che potresti farmi sarebbe se ti impiccassi con le tue stesse mani >>. Cosimo abitava in periferia e dalla parte opposta del paese. Se fosse andato a piedi, avrebbe impiegato circa tre quarti d’ora ed avrebbe pure rischiato la vita dato che c’erano, nel tratto di strada che l’avrebbe condotto a casa sua, delle zone in cui il marciapiede veniva a mancare. Per tale ragione c’era un’alta probabilità di essere preso in pieno come un birillo da un guidatore imprudente. Io però in quei frangenti soffrivo di carenza di forza di volontà: << Ti offro due possibilità: o te ne torni a casa tua con le tue gambe, oppure ti metti a dormire con me nella mia auto matrimoniale >>. << Va bene, hai vinto tu, scelgo la seconda possibilità: opto per una gioiosa nottata con il mio marito dolcissimo. Oggi caro, te lo devo dire in tutta franchezza, non mi va di fare l’amore; mi sento più frigida del solito; ho infatti le ovaie infiammate >>. << Chiudi quella boccaccia, brutto frocio di merda e vatti a strafottere! >> Entrò e si mise a dormire nel vano addetto al portabagagli. Naturalmente, per farlo sistemare, avevo abbassato lo schienale dei sedili posteriori. Cosimo si addormentò quasi subito, o almeno così mi parve. Di una cosa tuttavia fui certo: che scorreggiasse come un motore a scoppio. Pareva di stare a dormire in un tombino. Si sentì un fetore che avrebbe messo disgusto persino ad una mummia sofferente di flatulenza; nemmeno con un depuratore impiantato nel perineo si sarebbe potuto eliminare quel puzzo da capogiri. Ciononostante il sonno prevalse sul mio olfatto: non mi lamentai della malaria venutasi a diffondere ed abituai il mio sistema respiratorio, pur di cavare una briciola di riposo. Un’ora dopo ero già in piedi, l’esame non poteva aspettare, se non lo davo adesso, avrei aspettato un’altra era geologica. Svegliai Cosimo, prendendolo per capelli. Lui si riprese tempestivamente e fu altrettanto veloce nel voler comportarsi da idiota: << Cucciolo mio, cosa c’è per colazione? >> << Un bel calcio nelle palle. Se vuoi ancora il passaggio taci e rimettimi subito in ordine la macchina. Per pochissimo tempo sei stato e c’è un casino, manco se fosse passato un uragano >>. << Certo cuoricino mio >>, e mi dette un bacio sulla guancia << sono io che faccio i servizi nella nostra dimora nuziale >>. Era inutile supplicarlo, nemmeno in ginocchio m’avrebbe dato ascolto. Mi guardai nello specchietto per constatare il mio stato: sotto i miei occhi c’erano delle occhiaie spaventose, lividi di un’ennesima notte d’insonnia. Uno zombie avrebbe avuto una cera migliore. Partimmo d’impulso, senza avvederci se gli altri ci fossero o meno; non mi voltai minimamente, la curiosità non era di moda nella mia mente. Mi vergognavo molto di condurre questa esistenza alla cieca ed ogni mattina mi promettevo di uscirne, tuttavia, puntualmente, ci cascavo come un allocco: mi ferivo con le trappole che io stesso m’innescavo. Accompagnai Cosimo e raggiunsi casa mia. Lasciai la macchina che sarebbe servita a mia madre e m’incamminai frastornato verso la stazione. Non salii a casa perché non ne valeva la pena. Vedere quelle facce di ebeti di mia madre e mia sorella mi procuravano soltanto il voltastomaco. Tanto mia madre era in possesso di un’altra copia di chiavi della macchina. Intanto piovigginava, per fortuna con un’intensità da non procurarmi noie. Lentamente il paese si risvegliava dal letargo notturno. Una scena già vista un migliaio di volte: si era messa in moto la pellicola dell’ennesima giornata fotocopia. I platani contorti erano diventati orfani delle foglie e mostravano, quasi con angoscia, le proprie falangi di rami nodosi. In stazione non c’era molta gente. Raggiunsi la macchinetta che erogava biglietti, ma questa non funzionava, o meglio, l’avevano distrutta: infatti, introducendo gli spiccioli in sommità, questi tornavano al mittente, senza che non si verificasse alcuna deviazione al loro percorso. Attesi il treno sotto un vento impetuoso. L’orologio segnava le sette e ventiquattro ed il convoglio ferroviario, che doveva essere presente già da diversi minuti, non era ancora sopraggiunto. Due ragazze imbacuccate, ritte ed intirizzite, che mi fiancheggiavano, discutevano della serata appena trascorsa in un bar fighetto. “Maledettissimo treno”, imprecai dentro di me, “ti vuoi muovere!”. Come se telepaticamente, con la sola forza dei simulacri, avessi potuto trascinarlo al capolinea. Anche gli altri pendolari cominciavano a spazientirsi perché il ritardo, da tre minuti, era passato ad un quarto d’ora e via via si stava ampliando sempre di più. Poi, l’altoparlante decise di far sentire la propria voce informativa: “il treno regionale, numero …, delle ore sette e ventidue, arriverà con trenta minuti di ritardo”. Lo sapevo che qualcosa sarebbe andata storta. L’esame lo dovevo fare obbligatoriamente, anche se mi avessero mutilato. Che sbattimento! Molti degli attendenti abbozzarono dei gesti d’approvazione ironica, come a voler sottolineare l’efficienza del sistema di trasporto italiano. Io rimasi statico, come quegli uomini rassegnati che aspettano inesorabilmente il loro destino, dato che sarebbero incapaci di mutarlo. Pertanto rimasi lì, imbambolato come un traliccio, che nemmeno una frana poteva sradicare. Poi, però, tanto per cambiare e per rendere la mia vita ancora più sfigata di quanto non lo fosse, ricevetti il colpo di grazia: il treno l’avevano soppresso. Come al solito ero stato fregato e l’obiettivo di raggiungere l’università si faceva sempre più complesso. Come dovevo fare? Non potevo neanche prendere il pullman perché, con grande intelligenza, avevano programmato degli orari di partenza, pressappoco simili a quelli dei treni. Tornai in fretta e furia sui miei passi, per tentare di raggiungere mia madre, spiegargli l’intoppo e riappropriarmi della macchina. Non credo che avrebbe dato problemi, c’erano un sacco di colleghe che l’avrebbero potuta accompagnare sul posto di lavoro. Con la foga dell’ansia mi misi a correre per un breve tratto. Le persone che incrociavo mi guardavano incuriosite e ricolme di timore. Tutte si voltavano ad osservare la mia andatura fulminea e si scrutava nella loro espressione il pizzico di ridotta quantità di materia grigia e della fame di distribuire pettegolezzi. Che cazzo c’era di così strano nel vedere un ragazzo correre? E chi lo sa, ogni pretesto era buono per ingannare lo strapotere della noia. Arrivai sotto casa grondante di sudore. Tuttavia, la mia corsa contro il tempo era risultata vana. C’era da aspettarselo, mi ero affannato a vuoto. Di solito mia madre fa sempre ritardo ma stavolta, quasi volesse infierirmi un dispetto, aveva spaccato il minuto risultando puntuale. Rimasi spiazzato da un simile evento, probabilmente ero impreparato ad un imprevisto del genere. Cazzo, credo che anche la sfortuna abbia un limite; nel mio caso no, si protraeva a tempo indeterminato. Comunque, in un modo o nell’altro, il mio intento dovevo raggiungerlo, anche a costo di servimi di un monopattino. Mi voltai dal luogo esatto dove avevo posteggiato l’auto e con molta lentezza, tentai di scervellarmi nel trovare una soluzione di salvataggio. Avrei potuto chiedere la macchina in prestito a qualcuno ma non mi andava. Del resto non ero nemmeno in grado di recitare la parte dello scroccone. Tra un’ora l’esame cominciava o meglio, tra circa un’ora sarebbe cominciato l’appello del professore e dei suoi assistenti, per capire il numero degli studenti che avrebbe dovuto ascoltare. Già immaginavo quali facce costernate avrebbero fatto, dopo aver constatato che le persone da esaminare sarebbero state più numerose delle stelle della via Lattea. Se non mi fossi presentato avrei alleggerito, seppure di poco, il loro lavoro tedioso. Non mi andava di dargli questa soddisfazione. Inoltre, perdere questa occasione, significava rimandare di altri tre mesi il mio studio nauseante. Congegnai con la mente le possibili alternative per raggiungere la mia tanto ambita destinazione. Purtroppo le possibilità lasciavano molto a desiderare. Pertanto scelsi l’unica e la più difficile da realizzare: mettermi a fare l’autostoppista. In mezzo ad un traffico continuo e soffocante qualche essere di buona volontà ci doveva pur essere. Uscii dal paese e raggiunsi la provinciale per ricercare qualcuno disposto ad accompagnarmi all’università. Dentro di me pensavo “Che schifo, siamo nel 2012 ed i giovani devono mettersi ad accattonare passaggi, pur di raggiungere il luogo di studio”. Poi mi venne un’idiozia che mi disse Raffaele, mentre stavamo squadrando una ragazzona super dotata che si dava delle arie da vip: “la bellezza è come un autostoppista: è solo di passaggio”. La strada faceva pena: c’erano fenditure dappertutto, le macchine mi sfioravano senza degnarsi nemmeno di decelerare, come se mi avessero preso per un qualunque segnale stradale da non rispettare. Sulla banchina stretta agitavo il braccio per attirare l’attenzione dei guidatori che mi passavano lateralmente. C’era l’indifferenza allo stato puro, forse ero diventato invisibile. Il cielo era plumbeo e minacciava, col suo grigiore sempre più accentuato, un’ira temporalesca; nel frattempo continuava a piovigginare. Mi misi lo zaino in testa, che funse da ombrello. Sull’asfalto c’erano numerose cartacce, bottiglie di birra vuote e preservativi appassiti dall’usura. Quando oltrepassai il distributore, che era distaccato dal paese di duecento metri, avvenne il miracolo: qualcuno, avendomi scorto e superato, prima rallentò e poi mise una freccia intermittente per accostare; infine, con mio immenso sollievo, si fermò completamente. L’ultima volta che avevo vissuto una esperienza del genere, lo stronzo del guidatore si limitò a chiedermi delle indicazioni. Stavolta mi era andata bene; a meno che il mio autista non fosse stato un maniaco omicida. Nei pressi della macchina lo osservai: era un uomo corpulento di una quarantina d’anni, bruno e con i capelli corti. Anche se si vedeva ch si era appena tagliato la barba, l’alone della sua peluria facciale gli si era già formato; come se al posto di essersela rasata se l’era strappata, rilasciandogli sulle guance le tracce di un’ombra perpetua. Dando un giudizio preventivo, tipico dei primi sguardi, nonostante l’aspetto un po’ rude, mi sembrava un buon uomo; raffrontabile ad un orco convertito. Partimmo con le gocce di pioggia che maculavano i vetri e che svanivano sui colpi del tergicristalli. Un insetto si venne a spiaccicare, con un rumore sordo, sul parabrezza e divenne soltanto una poltiglia senza forma propria. L’uomo mi chiese cosa facevo, io gli risposi che ero uno studente di lettere e che avevo da fare un esame. Egli mi raccontò che faceva il lavavetri presso numerosi negozi del paese e che quel giorno, motivo pioggia, non lavorava. Per tale ragione si stava recando a vedere sua madre che non vedeva da più di una settimana. Arrivati in città, un personaggio dagli atteggiamenti delinquenziali, che si muoveva a scatto, ci volle propinare degli accendini. Il lavavetri rifiutò. Egli allora per ripicca ci mandò in a quel paese e diede un pugno sullo sportello, dalla parte del guidatore. << Ma guarda con quali personaggi dobbiamo avere a che fare >>, fece l’autista amareggiato. Dato che non c’era un parcheggio nemmeno a volerlo trovare nel cimitero della città, il mio salvatore mi lasciò a pochi metri dalla facoltà. Lo ringraziai e ci salutammo. Egli nel congedo mi volle augurare buona fortuna con un “imbocca al lupo”. All’interno dell’università c’era il solito frastuono: dementi intellettuali che con la sigaretta tra le dita si davano arie di saccenti e se ne fottevano di fumare in luogo pubblico, sporchi comunisti che avevano barbe da cavernicoli sudate che gli ostruivano persino le narici, pigroni che trascorrevano le loro giornate all’interno dell’ateneo stabilendone un rapporto di simbiosi, culattoni in cerca di maschi da trapanare, culettone in attesa di essere trapanate; insomma tutte le tipologie di feccia sociale erano racchiuse in quei pochi metri quadrati. La caratteristica che gli accumunava era quella dell’incompetenza. Gente pronta ad entrare nel mondo del lavoro e preparata a creare dei casini ancora più spaventosi di quelli lasciati dai nostri antenati. Raggiunsi il terzo piano ed entrai in aula magna: vale a dire il luogo nel quale si sarebbe dovuto tenere l’esame. C’era un’aria viziata, quasi rarefatta, manco ci fossimo trovati in un sommergibile. Ovviamente i posti scarseggiavano perché gli sciacalli già se n’erano appropriati. Un frullato di voci mi rimbombava nei timpani sotto forma di brusio. I deficienti ripetevano quello che avevano studiato come dei macchinari industriali. La mia ultima ripassata risaliva a tre giorni prima e l’avevo condotta con lo stesso impegno di un bradipo. Sebbene all’apparenza sembravo disinteressato a quello che avrei dovuto affrontare, in realtà mi sentivo un po’ di farfalle nello stomaco che decretavano il mio stato d’ansia sempre più crescente. Avevo tuttavia nello zaino uno stratagemma infallibile che mi avrebbe riportato la calma: mezzo litro di vodka, scampata da una delle nostre nottate di baldoria. Non potevo però bermela nel bel mezzo di quella ressa di cagasotto. Mi serviva un luogo appartato, estraneo agli sguardi altrui. Uscii quindi dall’aula e andai in cerca di un bagno. C’era nei pressi del lavabo uno studente lercio e sciattone, a torso nudo, che si stava lavando le ascelle. Me ne andai in cabina e diedi tre sorsate. Ripassai nuovamente davanti a quel porco, il quale era intento ad una nuova manovra d’igienizzazione: la pulizia dentale. Già che c’era poteva anche pulirsi lo sfintere; chissà quante schiere di pantere nere gli ostruivano il sedere! Che animale, forse aveva scambiato l’università per un autogrill. Oppure a casa sua mancava l’acqua. Me ne andai senza lavarmi le mani. Rientrai in aula e mi sedetti vicino ad un cretino che ripeteva tenendo il libro chiuso. Parlava da solo come uno schizofrenico. Da quando mi ero appollaiato sulla seggiola, con la coda dell’occhio non faceva altro che squadrarmi, anche se si dava un’aria indifferente. Infatti poco dopo si voltò per pormi una serie di domande fastidiose: << Hai degli evidenziatori? >> << No >> << Una penna rossa, un colore a cera, degli acquerelli? Uno strumento per scrivere che sia diverso dal nero o dal blu? >> << Non ho niente, oggi sto scrivendo tutto col mio sangue. Per cosa mi hai preso per una cartoleria? >> Roba da matti, non si poteva stare in pace nemmeno un minuto. L’imbecille aprì il libro e cominciò a mangiarsi le unghie con ansia e voracità. Quel modo di fare certamente non l’aiutava. Si vedeva da un chilometro che era in preda ad un attacco di panico; ciononostante si ostinava in quello studio patetico. Fremeva, sembrava una pentola a pressione; si era come caricato elettricamente per auto induzione. Era talmente eccitato che se avessi portato con me il telefonino, lo avrei collegato a quell’idiota e me lo sarei ricaricato. Finalmente il demente che mi affiancava se ne andò perché la sua attenzione venne richiamata da un suo amico rimbambito tanto quanto lui. Io me ne stavo lì: appeso nella mia tenera semi sbronza. Ogni tanto andavo in bagno per pisciare e farmi un’altra sorsata del super alcolico. In questo modo trascorsi il tempo d’attesa. Vedevo un continuo gesticolare dei professori verso gli allievi che venivano esaminati. Dopo altre quattro bevute di vodka la quiete s’impossessò di me, senza peraltro farmi perdere la lucidità. Le ore divennero minuti e rimasi perfettamente fermo fino al tardo pomeriggio, ossia fino a quando giunse il mio turno. Il professore baffone che verificò la mia preparazione fu abbastanza indulgente, forse perché si era stancato. Lo ammetto, non è mica facile starsi a sentire la pappardella di uno stormo di studenti ciucci e sfaticati. Mi beccai un bel ventisei perché in una domanda ebbi qualche tentennamento. Ne fui però soddisfatto. Quindi con garbo e senza battere ciglio firmai il verbale, mi feci autografare il libretto e mi accinsi a fuggire da quella massa di mocciosi smidollati. Avevo voglia di sorridere ma ero così stremato che rischiavo un collasso. Nel corridoio deserto intravidi un ragazzo che si agitava sia verbalmente che con le mani nei confronti di una ragazza dall’apparenza innocente. Le ragazze infatti, soprattutto quando sono in colpa, appaiono tutte innocenti. Avrei voluto tanto cambiare strada ma l’itinerario non me lo permetteva: un corridoio c’era e quello dovevo imboccare. Erano fatti loro e a me non interessava; per nessuna ragione al mondo mi sarei dovuto fermare. Solo che purtroppo fui costretto, non per la violenza verbale che stava subendo la ragazza testa di cazzo, ma per il suo aggressore che aimè conoscevo dannatamente bene: era Carlo. A momenti la stava per strangolare. Poteva anche ammazzarla a quella puttana, in fondo le donne sono degli esseri totalmente inutili, servono solo da condimento all’esistenza umana. Quindi una di più o una di meno non faceva alcuna differenza. Solo che poi se quella sgualdrina lo avesse denunciato si sarebbe scatenato il putiferio. Per evitare di farlo cadere in un altro casino, mi avvicinai e tranquillizzai Carlo che mi sembrava uscito completamente di testa. Si stava incazzando perché era andato dal professore per chiedere l’orario di un esame ed era stato cacciato con una partaccia. Allora Carlo per vendicarsi si era messo a pisciare dietro la porta del suo studio. In quel momento passava quella gallina idiota che l’aveva scorto. Quindi Carlo, più infuriato che mai, l’aveva presa per il collo e la stava minacciando di non parlare, altrimenti glielo avrebbe tirato fino ad ammazzarla. Io, una volta avvicinatomi al diverbio acceso, spiegai a Carlo che non ci sarebbero stati problemi: ella sicuramente non avrebbe parlato. Gli dissi che le donne sono delle inette assolute in quanto sono delle vigliacche senza coglioni. Sono buone soltanto a scopare e a fare i servizi. Sono sempre insicure perché vivono in una paura quotidiana. Vivono in una mare d’incertezza, perciò tanto vale se si fossero affogate. Quindi poteva stare tranquillo, una demente del genere era assolutamente innocua. << Già >>, fece Carlo con aria minacciosa alla ragazza, << Una cogliona del genere potrebbe soltanto fare pompini, se però vengo a sapere che hai parlato t’infilo questo dito nella fica fino a romperti l’utero! >> Lasciammo quella donna escremento e andammo insieme al distributore automatico delle bevande e degli snack. Carlo subito cominciò a mettergli le mani, come se stesse violentando qualcuno. Non so quale marchingegno avesse architettato ma cominciarono ad uscire soldi dal nulla, come se stesse giocando alle slot machine. Poi sbattendosene delle persone che lo osservavano con occhio torvo, inclinò la macchinetta e tentò di prendersi qualcosa da mangiare. Questa volta i suoi stratagemmi risultarono vani. << Sai, devo provare un giorno di questi a portarmi una moneta attaccata ad un filo di modo che possa prendermi gioco della macchinetta: gl’infilo la moneta, facendo credere allo stupido sistema di aver pagato regolarmente il mio spuntino e poi mi prendo i soldi come se nulla fosse. Per quanto mi riguarda potresti collaborare anche tu a questo tipo di ricerca. Si lamentano tutti che in Italia quegli incompetenti dei ricercatori non hanno un lavoro. Basta un po’ d’inventiva le nuove soluzioni fioccano >>. << Magari ti insigniscono per il nobel per la truffa. Io me ne vado a casa. Mi sento esausto come la sansa >>. << Di già? Non vuoi venire con me? Devo incontrare Angelo che mi deve far vedere un film porno in hd. Qualcosa d’incredibilmente reale. Vedessi che colori! >> << No, meglio di no; ho i nervi a pezzi >> L’ultima volta che ero andato da quel depravato avevamo perduto un’intera serata a guardarci un filmaccio i cui attori meritavano di essere arsi vivi nella lava infernale per le sozzure che commettevano. Il film si chiamava “io speriamo che me la chiavo”. C’era l’attrice protagonista che si faceva malmenare, sputare pisciare cacare, come un bagno turco. Più la picchiavano e più faceva finta di godere; roba da denuncia. Poi si capiva anche soltanto sentendo la voce che fingeva, i suoi occhi erano falsi e mi riempirono di sgomento. Gli altri spettatori che erano con me invece si divertirono, manco si trovassero al Colosseo. Addirittura ci fu un momento che uno degli attori, avendogli messo l’uccello in gola come un colluttorio, sembrava volesse strozzarla. Questa oscenità mandò il pubblico in delirio: cominciarono in coro a gridare: “uccidila! Uccidila”, come quelle masse popolari inferocite di fronte ad un’esecuzione. Violenza, solo violenza, nient’altro che violenza; persino un semplice atto d’amore si era tramutato in violenza. Carlo mi afferrò per un braccio per ostacolare in qualche modo la mia decisione ferrea: << Dai, ti prego, vieni con me, mi sento così solo. Mia dolce metà non puoi lasciarmi in mezzo a questa valle di lacrime. Ho bisogno di qualcuno che mi protegga >>. Intanto la presa aumentava la sua stretta, fin quasi a farmi penetrare le unghie nella carne. Io per liberarmi adoperai la solita tattica della fuga indiscreta: << D’accordo >>, feci, << aspettami solo un attimo, il tempo di consegnare questo modulo in segreteria e sono da te >>. Fortunatamente mi lasciò, mi avviai verso la segreteria e furtivamente sgattaiolai dalle grinfie di quel maniaco omicida. Che nervi, se non fosse stata per quell’idiota di ragazza che si era frapposta sui miei passi, a quest’ora sarei già stato in treno a guardare dal finestrino come un ebete lo scorrere dei paesaggi. E’ inutile, ho una tendenza ad avere le persone sempre sopra le palle, come le valvole che tengono gonfi i palloni. Che schifo questo maltempo; per vedere un po’ di sole occorreva raggiungere lo spazio. La strada era grigia, il cielo era grigio, le facce che incontravo erano grigie. Ero immerso nella squallida realtà cinerea. I volti che incontravo erano fiacchi e apatici, cattivi e annoiati, come se li avessero costretti a vivere. Quella pelle dei loro volti era rugosa, sciolta e priva d’emozioni mi faceva sia schifo che paura. Anch’io sarei diventato così? Anch’io col quotidiano vivere mi sarei trasformato in un essere indecente a corto d’entusiasmo? Quei visi aggrottati si contrapponevano ai manifesti pubblicitari di modelli e modelle dai corpi perfetti, che imbavagliavano la città. Il futuro mi dava la nausea; avrei voluto chiedere una risposta al cielo, ma lassù c’erano solo nuvole. Poi, sotto un porticato incontrai a chiedere l’elemosina, quei due strippati di Toni e Riki. Stavano come al solito, uno col bonghetto e l’altro con la chitarra acustica, a suonare uno dei loro pezzi musicali pietosi e cosmopoliti. Erano circondati da dei cani tappezzati di tigna, che mangiavano tranquilli, ognuno la sua razione di latrina. Persino San Francesco avrebbe provato ribrezzo. Appena mi videro, in contemporanea e con un’espressione opportunista e giuliva, mi dissero: << Ciao Ciro, facci un’offerta >>. << No ragazzi mi dispiace, ma oggi sono più al verde di un semaforo >>. Ogni tanto mi impietosivo e gli davo qualche spicciolo ma questa loro messa in scena si era trasformata in una brutta abitudine. Che poi, coi soldi che si guadagnavano, si andavano a comprare il fumo per squagliarsi di canne. Fanculo pure a questi no global sfaticati del cazzo e alla loro pace universale della minchia. Si potevano andare a trovare un lavoro. Se potessi li percuoterei a colpi di manganellate fino a fargli sputare gli organi dal culo. Capitolo 8 Alle otto di sera c’era la partita. Come al solito le robe da calcio non erano lavate e odoravano come l’ano di una puzzola. Diedi loro una sciacquata e poi le asciugai col fon. Con l’acqua evaporava anche il fetore. Occorreva una maschera antigas per svolgere una simile funzione. Maledette donne; una cosa sanno fare nella vita, che è quella del lavaggio degli indumenti e nemmeno s’impegnano per portarla a termine. Comincio seriamente a pensare che il loro unico talento sia quello di apparire. Riuscii a raggiungere il campo comunale con un po’ di umidità addosso, che in quella stagione significava avviarsi sulla strada giusta della febbre. Portavo ancora con me un po’ di fetore tant’è, appena incontrai Giovanni, non ebbe alcuna esitazione ad esprimere la sua sensazione olfattiva. << Ciro quanto puzzi! Che fai, conservi le robe nell’immondizia? >> << Ma che dici?! Ma se profumo come la primavera! Profumo talmente tanto che dall’estrazione della mia cacca vengono si ricavano i cosmetici. Mentre il sudore che sgorga dalle mie ascelle viene recuperato per produrre gli oli essenziali. E’ il tuo naso che fa cilecca; forse è otturato dalla moltitudine di caccole che germogliano nelle tue narici. Chissà come sono indurite, persino un minatore avrebbe problemi ad estrartele. E poi guarda che razza di completo di ritrovi. Ma devi giocare in porta o ad hokey? Stai più corazzato di un armadillo >>. Era imbottito ovunque. D’accordo che a gettarsi a terra in quei campacci comportava delle abrasioni che non te le procuravi nemmeno con la carta vetrata, però, tutte quelle imbottiture nemmeno gli addestratori di cani le utilizzavano. Non seppe come rispondermi, conoscevo un milione di modi per zittire la gente. Sotto l’arco degli spogliatoi c’era Luca con un’espressione da folle. Con quella sua faccia di pazzo mi prese sotto braccio, poi con quella odiosissima voce da ciminiera mi fece: << Come ti senti? Sei pronto per la vittoria? >> << Certo, sono venuto per questo >>. Lo presi per i fondelli, altrimenti se gli avessi detto la verità e cioè: “non me ne sbatte niente di questa partita del cazzo” mi avrebbe torturato psicologicamente fino alla fine dei miei giorni. Per di più avevo al piede anche una bolla come Martin Lutero. Mi diede un occhiata compiaciuta e diffidente, per capire se mentivo o meno. I miei occhi ghiacciati non gli diedero alcuna risposta. Mi lasciò andare e si recò in campo per riscaldarsi. Poi però, già lontano, richiamò la mia attenzione per dirmi: << Ti ho lasciato negli spogliatoi la maglia della squadra, in modo che giochiamo con un colore uniforme! >> << D’accordo! >> Dentro gli spogliatoi tutti erano impegnati: chi si vestiva, chi si allacciava le scarpe chi si aggiustava i capelli e così via. Vidi la maglia che mi aveva portato Luca e l’indossai: era enorme e mi arrivava come il latte, fino alle ginocchia. M’inalberai e gridai dentro me stesso: “Ma che cazzo è la maglia di Polifemo?!”, solo che dovevo indossarla comunque per mantenere il colore di squadra. Quindi continuai a vestirmi silenzioso e stizzito. Dato che io avevo finito in un batter d’occhio e me ne stavo con le mani in mano, decisi di raccogliere i soldi da dare al custode del campo. Raccolsi la quota di ogni componente, ma quando arrivò il turno di quello spilorcio di Andrea le palle mi girarono ancor prima di iniziare a giocare. Mi consegnò una manciata di spiccioli che non c’erano nemmeno nel fondale della fontana di Trevi. Faceva pure l’indifferente quel gran ricchione. Mi venne la voglia di prenderlo a vangate. Lo aggredii come uno squalo: << Ma santo dio, sei proprio una gran merda! Come cristo fai ad avere cinque euro, in monete da uno e due centesimi?! Ma porco Giuda, sei l’unico in tutta l’Unione Europea ad utilizzare queste cacate. Io certi bottoni alla ramaglia quando me li trovo davanti li butto nel cesso! >> << Lo stronzo che sei, in questo modo aumenti l’inflazione >>. << Ma vatti a fottere! Ma se quegli spiccioli te li rifiutano persino i barboni >> Me li feci dare tenendo i palmi uniti ad angolo acuto, come se dessi raccogliendo dell’acqua zampillante. Terminata questa operazione glieli portai al quella capra del custode. Cominciò a partita ed iniziò subito la violenza. Il campo da gioco era accidentato perché era in terra battuta. Le caviglie pertanto si affaticavano più del normale. A questi micro traumi si sovrapposero i falli degli avversari che coll’avanzare del tempo crescevano d’intensità. C’era un tipo in particolare che combatteva sulla mia stessa fascia. Evidentemente il suo posizionamento non era casuale; mi aveva sicuramente preso di mira. Ogni qualvolta m’impossessavo del pallone mi faceva degli interventi al limite del regolamento. Ma ci fu un momento in cui mi prese in pieno il malleolo e mi fece un male che nemmeno una fucilata mi avrebbe provocato. << Cristo! >>, urlai, << vuoi moderare la tua maledettissima foga?! >>. Non mi rispose e continuò come se nulla fosse. “Ma chi e questo grandissimo figlio di mignotta?”, mi chiedevo mentre zoppicavo; poi subentrò in me un dolore ancora più acuto, che rese nebbia la sofferenza fisica: il pensiero di Loredana. La mia pena d’amore era come il vento: non la vedevo eppure me la sentivo addosso. Fottutissima Loredana, quanto mi fai soffrire; avrei tanto voluto incontrarti in questo misero campetto di periferia per pigliarti a calci nel culo. La mia concentrazione tendeva quindi a vacillare. Luca nel frattempo mi teneva continuamente d’occhio, perché era conscio di quanto fossero altalenanti le mie prestazioni di gioco. Io però me ne fregai altamente perché avevo ormai perso l’interesse. Mi sembrava tutto finto; senza senso come una strada segnalata da un divieto di transito. Tutti correvano e si affannavano per impossessarsi di una sfera che li rendeva soltanto più cattivi, mentre io m volevo impossessare di Loredana per divenire un angelo. Guardavo le corse multi direzionali dei miei compagni di squadra e degli avversari: ognuno con qualcosa che gli impazzava per la mente, ma sicuramente credo che nessuno avesse i miei pensieri. Mi riportò alla cruda realtà quell’animale che mi stava massacrando come un martire. Stavolta mi fregò un fallo laterale: lui l’aveva mandata fuori e lui si accingeva a batterlo, con indifferenza spavalda, come se fossi stato io a buttarla oltre la linea di fondo. Ma in quest’occasione l’incazzatura mi fece uscire gli artigli: andai vicino a con una spinta feci volare quell’assassino, per riprendermi il mio rispetto: << Stavolta non mi pigli più per il culo! >>. Egli subito mi si avventò contro e mi menò una manata sul petto. << Sei solo un porco! >>, gli dissi, << ti credi forse una persona furba con queste stronzate?! Mi hai proprio rotto il cazzo tu ed i tuoi modi da killer. Sai cosa ti dico, evito pure di fare una rissa, altrimenti rischieresti di finire in obitorio. Mi fai talmente senso, che nemmeno mi degno di picchiare un lurido come te, perché ti reputo pari ad una matassa di feccia. Ora me ne vado e tolgo il disturbo. Con questi soggetti minorati non voglio più avere a che fare! >>. Queste parole naturalmente le urlai per fare più effetto. Difatti rimasero tutti di stucco e scioccati dalla mia sparata inaspettata. Nessuno si muoveva, io però sì, perché me ne stavo andando via. Subito, c’era da aspettarselo, mi si parò davanti Luca, in preda ad un attacco di panico. << Che fai? Te ne vai ed abbandoni tutto? Lasci così i tuoi amici con un uomo in meno? Che razza di giocatore sei? Vuoi farci perdere? >> << No, voglio far fallire questa partita. Con un uomo in meno, l’agonismo, vedrai, scemerà. >> << Ma che ti salta in mente? Manca ancora mezzora e siamo in vantaggio. Senza di te saremo umiliati >>. << Come un flipper me ne sbatto le palle! E poi non hai visto che quell’elemento mi si avventa come un kamikaze? Mi ha maciullato le gambe. Questo porco fa scoppiare i conflitti come Gavrilo Princip! >>. << Aspetta ti prego, non andare, se rimani, ti rimborso la partita >>. Questa supplica me la faceva mettendomi le mani addosso, quasi a volermi molestare. << E smettila di fare il cretino e toglimi quelle chele di dosso! Ho detto no, punto e basta >>. << Ma ti prometto che d’ora in poi la partita sarà sempre all’insegna della correttezza e del fai play >> << Chi cazzo sei il presidente della FIFA?! Impossibile, anche sotto giuramento certe canaglie rimangono tali e quali. Le persone intelligenti si evolvono e quindi modificano il loro comportamento. I mentecatti no, rimangono impantanati a commettere sempre lo stesso errore. Nei loro sistemi operativi mentali ci vorrebbero sicuramente degli aggiornamenti. Questa è gente che non sa convivere, frequenta gli ambienti affollati ma poi è capace solo di procurare disordini >>. Lasciai Luca rassegnato e me ne andai senza voltarmi. Il mio fu un gesto d’onore e contemporaneamente coraggioso. Chiunque infatti non si sarebbe mai sognato di scialacquare i soldi spesi per giocare, per rigetto verso una persona incapace di rispettare il prossimo. Tornai a casa stanco, sebbene avessi praticato una partita dimezzata. Mi misi sotto la doccia e senza asciugarmi mi buttai nel letto. Non ne avevo più, era stata una giornata massacrante fisicamente e psicologicamente. Il bello era che non era ancora terminata. Mi aspettava qualche ora più tardi una bella serata in compagnia. Ecco perché volevo dormire. Se non avessi approfittato di quella nicchia di tempo rimastami a disposizione, probabilmente sarei morto di veglia. Appena chinai le palpebre caddi nel torpore e con esso mi lasciai dietro tutti i problemi ed i pensieri di una vita del cazzo. Adoro quei momenti, è come un’ubriacatura naturale: il dolore si annulla e la carezza dei sogni ammorbidisce l’animo. Si diventa come neonati, senza alcun tipo d’angoscia, beati nel primo approccio all’esistenza. Sarebbe impensabile farsi prendere dal cattivo umore in quei frangenti, il vaccino della serenità risulta infallibile. Del resto, se non c’è calma e spensieratezza, il sonno non può mica venire: è la compatibilità della tranquillità. Vorrei tanto essere come quei nullatenenti di quegli animali che vanno in letargo: si abbuffano come i porci, poi con l’arrivo della stagione fredda, si appisolano e chi si è visto si è visto. Che pacchia. Molti potranno controbattere che la loro vita e più breve, dato che passano parecchi mesi a dormire. Per quanto mi riguarda non c’è alcun tipo di problema: e chi se ne frega di saltare un pezzo di vita che sai con certezza che ti farà sicuramente schifo? Io il letargo la reputo la migliore vacanza: sul posto, gratuita, rilassante e senza l’assillo di quella marea di teste di cazzo che ti si attacca come il velcro. Se potessi mi farei ibernare. Quando mi svegliai la luna aveva già da parecchio tempo calato la saracinesca del buio ed io mi catapultai fuori di casa per andare ad incontrare i soliti amici bisunti. Stavolta non c’incontrammo alla distilleria, ma al parco Pisacane. Dopo lo scempio della sera precedente conveniva stare alla larga per un po’ di tempo. Nel parco c’erano ovunque segni di devastazione, panchine senza schienale, monumenti mutilati, cartacce, lampioni fulminati, e tutti quei requisiti che decorano un biglietto di presentazione di un paesello del Sud Italia. C’era a pochi metri la caserma dei vigili urbani, ma la loro presenza si era estinta come i dinosauri. Tanto comunque lo stipendio lo ricevevano. Per quale motivo allora bisognava mantenere l’ordine? La teoria del caos avrebbe riportato la materia in equilibrio permettendo la sopravvivenza della specie. Quella sera nel parco c’era ancora parecchia gente: erano perlopiù anziani che passeggiavano ed ostacolavano la nostra sporca privacy. Poi fortunatamente la ressa cominciò pian piano a svanire, come i granelli della metà superiore di una clessidra. Ero ancora solo, come al solito, soltanto io ero a conoscenza della parola puntualità. Dopo un quarto d’ora si presentarono i primi selvaggi della serata. Vennero a scaglioni e nel giro di pochi minuti raggiungemmo un bel gruzzolo di persone. Giovanni si era pure portato sua figlia, di soli quattro anni. Non voleva lasciarla sola a casa e, contemporaneamente, non voleva rinunciare a drogarsi ed ubriacarsi. La dipendenza dagli stupefacenti è come l’amore: ti permette di compiere dei sacrifici pazzeschi. In questo caso entrambe le cose convivevano, sia pure in modo anomalo. Sua moglie non c’era, era andata a fare in concorso per accedere a scienze infermieristiche ed aveva affidato a quel fallito del marito una bambina destinata al baratro. Era spaventata la piccola e lo credevo bene, con un padre del genere, ti dava più un esempio di civiltà Big foot. Appena vidi quell’essere innocente andai su tutte le furie: << Ma che diavolo ti salta in mente, perché hai portato questa poppante; cosa speri di farla ubriacare? >> << Non sapevo dove metterla. O l’abbandonavo in strada oppure rimanevo con lei in strada >> << Non potevi starti a casa? Rimarrà traumatizzata questa sera. Poi che razza di educazione le dai facendoti vedere imbottito di maryuana? >>. Subentrò Cosimo che non capii da dove fosse comparso, forse era sceso da un albero. << No ragazzi, stasera niente cannabis; oggi la mia nuova ricetta di ricettatore prevede una specialità a base di funghi allucinogeni. Dato che quell’energumeno di Vernice è scomparso ho preso io l’iniziativa facendo una bella ordinazione da internet. Ma non temete è roba di prima qualità, colta direttamente nelle selve del Guatemala. Un altro capolavoro della natura messo al servizio dell’uomo. Grazie Dio, tu manifesti il tuo amore con la natura? E noi cogliamo i tuoi frutti saziando i nostri palati e svuotando i nostri cervelli. Oh ma guarda che bella bambina, è tua figlia? Speriamo non abbia ereditato nulla dal padre, o meglio ancora, che sia una figlia illegittima >> e l’accarezzava come un cane, << sai che facciamo mio bel pulcino? Ti diamo un bicchiere di whiskey e ti mettiamo subito a nanna >>. La bambina lo guardava di striscio con una faccia diffidente. A quel punto intervenni io, anche perché Giovanni era pure apatico alle battute che venivano profferite a sua figlia. Che padre involuto, era meglio se la piccola l’avessero abbandonata in una mangiatoia. << Ma ti vuoi stare zitto? Con chi credi di stare a parlare con quegli etruschi dei tuoi familiari? Mi auguro soltanto che tu sia sterile, altrimenti chissà che razza di genitore mostro saresti. Meglio l’educazione che ha ricevuto Mogly nel libro della giungla >>. Proprio in quel momento, in cui si cercava di dare delle direttive di pedagogia e di buone maniere, giunse Carlo il flagello dell’etica, in compagnia di due tipi astratti che sembravano provenire da Marte. Andrea giulivo gridò con tutta l’aria che aveva nei polmoni: << Guardate, è arrivato mister spippato! >> Carlo prese la parola: << Ehi ragazzi, non avete l’idea degli ospiti che vi ho portato stasera! Questa è roba forte, gente di classe, geni nel loro campo, non pezzi d’ignoranti come voi. Lui è Gildo, uno di quei poeti assurdi, strampalati, che renderebbero Leopardi un felino, e Pascoli un pecoraro. Gildo è uno che soffre, mica vive la nostra beatitudine insensibile. Lui invece è Sebo, come il liquido che fuoriesce dalle ghiandole esocrine. Fa parte di un gruppo culturale come si deve che analizza ogni cosa, dalle opere più cesse ai grandi capolavori. Non so se mi spiego, abbiamo a che fare con due menti supreme che col loro intelletto vi porterebbero al manicomio >>, poi rivolgendosi alla bambina, << Ehi, ma che vi siete portati una nana? Da dove è uscita, dalla casa delle bambole? >> << Ci hai già snocciolato le palle >>, feci io, << presentiamoci con i tuoi amici e serrati quella boccaccia una volta per tutte >>. Ci presentammo, la mano di Gildo era umida e fredda, sembrava quella di un cadavere sudato. Era molto pallido e spettinato, neanche al risveglio mi ritrovo con una simile capigliatura, sembrava pettinato col frullatore. Evidentemente i suoi capelli reagivano all’intensa attività cerebrale che non si placava per un solo istante. Aveva un atteggiamento superbo tipico di quelle persone che sono consapevoli della loro superiorità e disdegnano i comuni mortali. Era un genio incompreso, o un pagliaccio da prendere a martellate. Sebo mi dette invece subito l’aria di uno sballato doc, che non fosse consapevole di cosa stesse a fare in quel contesto. Sembrava smarrito. Probabilmente si era inalato talmente tanti acidi che lo rendevano quotidianamente disorientato. Scommetto che pure nel cesso di casa sua si sentisse estraniato. << Su Gildo >>, intervenne Carlo per rompere il ghiaccio e le palle, << raccontaci cosa fai di bello nella vita >>. << La nostra esistenza è effimera, siamo fiammiferi pronti a spegnerci al vento delle emozioni. Cosa faccio di bello? Cerco di stabilire un contatto con Dio e con le intelligenze motrici >>. << Intelligenze motrici?! >>, esclamai, << Oh merda! Che cazzo si è iniettato questo psicopatico la criptonite? >> << Non mi comprendi perché sono un poeta >>, ribatté Gildo, << Solo e soltanto la nostra specie superiore è in grado di stabilire un contatto con Dio. Scommetto che tu non ti sei mai fatto delle domande del genere: perché la luna è così pallida? Cosa impensierisce il mare? Perché egli è così agitato? Perché gli alberi non si potranno mai abbracciare? Cosa fa piangere le nuvole? Come mai il sole e la luna non si potranno mai incontrare? Ho capito, siamo come pianeti: destinati a seguire sempre la stessa rotta, imposta dall’orbita dei nostri insignificanti destini. Il mio pensiero è come il polline: non è controllabile, segue solo e soltanto le corsie dell’imprevisto. Noi poeti è come se avessimo un senso in più: traduciamo con la lirica i messaggi che ci invia Dio, per mezzo delle bellezze della natura. Abbiamo una sensibilità molecolare: anche una minima particella può influire sul nostro temperamento. Così come descrisse De Crescenzo in “così parlò Bellavista”, ci troviamo nella strada intermedia tra i santi ed i saggi. I primi possiedono un eccesso d’amore, diffondibile a livello universale; i secondi sono dotati di una sapienza incomparabile. Sebbene entrambi si trovino su poli completamente opposti, hanno lo stesso una caratteristica che gli accomuna. Infatti, sia che si parli di saggi, sia che si parli di santi, sono ammantati dal manto della serenità. È proprio questa serenità mancante che frega noi poeti. Siamo tormentati da una sensibilità che delle volte, anzi quasi sempre, diventa addirittura debilitante. Noi possediamo un’emotività particellare che può portare la devastazione del nostro animo, anche con un semplice mutamento di stato. Noi entriamo in lutto se vediamo appassire un fiore, o se il sole va a morire nella notte. Con la tempera della lirica, dipingiamo gli affreschi dei nostri sentimenti. Per dirla con una semplice frase: è tutta una questione di pathos >>. << Pathos?! >>, feci io, << Chi è un moschettiere? Ma questo sta più fuori di un citofono! Il tuo discorso è l’esatto contrario di uno spermatozoo: non ha infatti né capo né coda >>. Cosimo rivolse il suo dubbio: << Ehi poeta dei miei stivali vorrei rivolgerti una domanda: ma la vita un senso ce l’ha? >> << E chi lo sa, per ora l’unica risposta che mi sono dato e che siamo solamente dei bonsai nella foresta della nostra esistenza e che i nostri sogni sono soltanto insetti bloccati dalla zanzariera della realtà >>. Non ce la feci più ed esplosi senza trattenermi: << Mamma mia! Questo si fa più buchi della luna! Sniffa come un formichiere. Ma che cacchio si è fumato la polvere di antrace? Carlo, stavolta hai trovato dei tipi unici nel loro genere. Non appena finiamo questa nottata penosa prendili, mettili da parte e sopprimili come cani randagi! >>. Carlo, con un ghigno maligno, volle invogliare Gildo nella sua principale specialità: << Gildo non ascoltarli, sono invidiosi. Facci sentire il tuo ultimo capolavoro >> << D’accordo >>, fece Gildo, << Questa poesia, dal titolo “l’ambizione di una foglia”, racchiude in pochi versi l’effimera esistenza umana ed il condizionamento che ha il destino verso le aspirazioni di ciascuno di noi. La foglia è l’uomo, la sua traiettoria è la vita che percorre, ed il vento è lo straziante destino >>. Cominciò la poesia: << L’ambizione di una foglia è volare a piacimento, ma rimane ingarbugliata tra le cantiche del vento, verso il basso o verso l’alto, a seconda del momento, lei affonda prigioniera in un languido lamento. Come un salto è questa vita, un istante ed è finita >>. Io riesplosi come un fuoco d’artificio: << Cazzo che iellata! Con questa poesia persino Gastone si taglierebbe le vene! Gildo secondo me hai più problemi un libro di matematica! >> << Non c’è che dire >>, fece Carlo, << E’ proprio flashiato! Sta dando i numeri come un elenco telefonico. Meglio abbandonarlo al vento proprio destino >> << Sì hai ragione, salvarlo risulterebbe un’impresa impossibile. Sarebbe come voler incendiare il mare >>. Gildo taceva ma non pareva offeso. Quasi si aspettasse la frana di ingiurie che gli sarebbe cascata addosso. Mi allontanai da quel ricettacolo di esauriti, per conoscere più a fondo quell’altro svalvolato di Sebo. Sentii che aveva aperto un dibattito acceso con Andrea. Non sapevo di cosa stessero parlando. Mi avvicinai quindi per origliare i loro discorsi. Ascoltai le seguenti parole: << Sì, d’accordo, se Hemingwei nei suoi libri usava un linguaggio ripetitivo, quasi elementare, era pure per creare un quadro semplificato per il lettore. Talvolta la semplicità aiuta a mandare nella mente di chi guarda la scrittura delle immagini nitide di quello che si sta avvicendando in un romanzo >>. E Andrea rispondeva: << Io un romanzo ho letto di Hemingwei, “il vecchio e il mare”, e mi ha fatto veramente cagare. Centodieci pagine dedicate ad un vecchio alcolista che lotta contro un pesce avente le stesse dimensioni di un transatlantico. Non è che ci vuole del talento a scrivere una lordata del genere. Anch’io, a questo punto, sarei capace di diventare scrittore. Io sono del parere che se sei un culo rotto raccomandato, puoi avere la strada spianata anche comportandoti da buono a nulla. Se al contrario non hai gli agganci giusti, sei fottuto e ti attacchi. Perché ad esempio la Gioconda è l’opera più bella di Leonardo da Vinci? A me fa veramente schifo. Come gli è venuto in mente a Leonardo di ritrarre la più racchia femmina del ‘400? >> << Ma che raccomandato! Quello è uno che si è fatto da solo! >> << Anch’io mi faccio da solo quando mi sparo una sega >>. Sebo volle riprendere il timone del discorso: << Comunque, domani trasmettono un cortometraggio di un regista americano che tratta proprio questo argomento. << Quale? >>, fece Andrea, << la mia sega? >> << No Andrea, di Hemingwei. Questo regista è immigrato nel nostro paese un paio di anni fa. Più che immigrato, lui si stabilisce per qualche anno in una nazione per assorbirne tutti gli aspetti culturali che essa contiene >>. A quel punto feci la mia entrata irruente: << Si vede che non ha altro da fare nella vita. Una persona che lavora, se le va bene, può permettersi un schifosissimo viaggio sono nel periodo in cui gli concedono le vacanze. Questo lurido spilorcio invece le vacanze se le fa annuali, anzi lavora andando in vacanza. Ecco perché l’intero occidente è in piena crisi: c’è chi sgobba e chi invece vive a spese degli altri senza muovere un dito. Mi verrebbe di impalarlo con un remo. Per carità, non lo invidio proprio, io i viaggi li odio. Ti sporchi, ti annoi e ti accorgi che ogni angolo della terra combacia con l’altro. Con la globalizzazione, anche se vai in Nuova Zelanda ti sembra tutto uguale a questo posto di merda. Tanto vale restarsene a casa. Talvolta la ricerca dei diversivi si rivela una delusione insopportabile. Non è mica un caso che tutti quei grand’uomini che viaggiano sono intristiti come fiori sotto sale. E poi il viaggio non è altro che una forma di cultura passiva; è come le conferenze: non ci si sforza minimamente per ampliare il proprio bagaglio culturale; si aspetta come un soprammobile e ci aggrada soltanto la vista >>. << Non dire così, ti posso assicurare che è un bravo regista. Io in realtà non lo avevo mai sentito nominare. L’ho conosciuto quando feci l’erasmus in Spagna grazie ad un amico, che mi fece vedere un suo spettacolo teatrale >>. Io alla parola erasmus ebbi un’altra detonazione: << Ah l’erasmus! Soltanto l’erasmus ci mancava! Lo sai a cosa serve l’erasmus? Te lo dico io a cosa serve l’erasmus: a scopare, a ubriacarsi, a drogarsi e a fare gli esami che non si riescono a sostenere in patria! >>. Andrea quasi con rammarico disse: << Avrei tanto desiderato fare l’erasmus sull’isola delle femmine >>. << Invece è una bellissima esperienza >>, fece Sebo, << Anzi ve la consiglierei >>. << Un’esperienza che fa spendere soldi all’università a carico dei contribuenti e che è consentita soltanto ai ricchi >>. Sebo si stava irritando: << Ciro mi sembri l’emblema della contraddizione >> << Io sono l’emblema della verità. Vedo il male dove c’è il male, non il male dove c’è il bene. E a dirti la verità io i critici d’arte non tanto li sopporto, mi sembrano come gli interpreti dei sogni: vogliono per forza dare un senso a quelle cose che un senso non ce l’hanno >>. Cosimo, che evidentemente mi seguiva in ogni spostamento, si attaccò al discorso, rimorchiandosi alle nostre parole, con un argomento assolutamente fuori luogo: << Sai perché, nonostante le grandi distanze che separano i luoghi geografici più disparati, le popolazioni, nei loro comportamenti, tendono più o meno a rassomigliarsi l’un l’altra? >> << E che c’entra. Comunque non lo so, spiegacelo tu, studioso del nulla >> << Semplice, perché gli uomini geneticamente sono tutti simili tra loro e solo per una piccola percentuale si differenziano. Ed è proprio quell’insignificante frammento di geni che ci diversifica nell’aspetto e nel carattere. In fondo discendiamo tutti da Adamo ed Eva >> << Eh sì, infatti ogni essere vivente, come Adamo ed Eva, ha la corruzione nel sangue. Loro si vendettero per una mela avariata e per di più propinatagli da un serpente! Figuriamoci quante stirpi di delinquenti si sono prodotti nel corso dei millenni >> Sebo volle riappropriarsi di quello che stava dicendo: << Ehi calma fratelli, siamo partiti da un regista ed in pochi minuti ci siamo trovati inspiegabilmente a parlare del peccato originale >> << A proposito di peccato >>, fece Cosimo, << Se ce n’è uno originale, ce n’è sarà sicuramente uno contraffatto >> << Molto divertente. Raga lasciatemi terminare il mio discorso e poi potrete nuovamente procedere con le vostre divagazioni, per altro abbastanza interessanti, e proprio per questo indispensabili da ascoltare. Dicevo che quel regista americano oltre a quel servizio di mezzora su Hemingwei terrà anche un meraviglioso cortometraggio dal titolo: “la concorrenza dei licaoni” >> Io rimasi stupefatto dicendo: << Oh mio Dio! Già il titolo mi suggerisce che sarà una bidonata incomparabile! >> << Invece non dovreste farvi prendere dai pregiudizi. Ci saranno un sacco di nomi di spicco ad assistere alla pellicola: il presidente del comitato giovani intellettuali, l’assessore dei beni culturali…>> << Cacchio, proprio gente coi fiocchi che ne ha fatta di strada nella vita a furia di prendere la macchina. Ora sì che la mia mente potrà arricchirsi di virtù. A furia d’incontrare certa gente c’è un’altissima probabilità di diventare un uomo di mondo. Continuo a ribadire che queste grandiose persone sono raccomandate come le lettere. Darei qualunque cosa pur di ghigliottinargli >>. << Se sminuisci tutti, persino le celebrità rischiano di diventare degli individui completamente inutili >> << Infatti, anche le celebrità sono delle nullità, soprattutto quelle che hanno fatto una fine da stronzi. Ma che razza di miti sono Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones o Jim Morrison? Che cazzo hanno fatto? Hanno passato un’intera vita a sniffare a scopare e a buttar soldi, solo per moda, fottendosene assolutamente degli altri. E tutta quella massa di cazzoni di fan che gli va ancora a leccare il culo a distanza di anni. Questi li chiami miti? Per me sono solo una massa di ignoranti senza personalità che si sono standardizzati al mestiere che compivano >>. Intervenne Andrea: << Perché noi non facciamo lo stesso? Non stendiamo a suon di canne? >> << Si ma noi conduciamo un’esistenza destinata a cadere ancor prima di decollare. Tu sei un fallito prefabbricato. Sei come un aborto: nato già morto. L’evento migliore che ti possa capitare è la morte >>. << Azzo!!! A furia di augurarmi la malasorte mi farai venire la varicella ai coglioni. Per la puttana! >>, e prese a grattarsi come un pervertito. Cosimo si metteva in mezzo soltanto per dare fastidio: << Sì non c’è speranza per nessuno di noi. Non vale la pena nemmeno pianificare quello che verrà. Siamo infatti senza futuro perché viviamo nel presente. È poi sti cazzo di giovani che hanno l’ansia di voler vedere oltre quello che vivono. A me sinceramente sto cazzo di futuro mi ha davvero rotto le palle. Questa gente non ha capito che a furia di pensare al futuro si ritroverà vecchia senza saperlo >>. Io, lasciando perdere le idiozie di Cosimo, continuavo a rivolgere la mia attenzione ad Andrea: << E’ inutile grattarsi, è la pura verità. Tu vali meno della piscia di un cane. Cos’hai dato a questa società? Nulla. L’unica cosa che sai fare sono quelle tue marce pacifiche da gente di sinistra, che si finge aperta al prossimo ma che in realtà fa soltanto i cazzi propri. A proposito, per cosa hai protestato l’ultima volta? Per l’inquinamento marittimo? E cosa hai concluso? Una cicca di sega. Nessuno protesta più ed il mare continua a rimanere contaminato. Nei fondali c’è talmente tanto mercurio che se ti fai un bagno ti puoi anche misurare la febbre! >>. << Ma che dici! Non hai nemmeno l’idea dello scombussolamento che abbiamo provocato; e poi le manifestazioni non violente sono state capaci di cambiare il corso della politica! >> << Le marce pacifiche non servono a nulla. Il giorno dopo vengono dimenticate anche da coloro che vi partecipano. Dimmi una sola protesta pacifica, che ti ricordi, che è rimasta nella storia. Eh dimmelo! >>. << Adesso non mi viene niente. Però ce ne sono state parecchie che hanno cambiato il sistema di una società >>. << Ancora con queste stronzate?! La verità è che se vuoi cambiare il corso delle cose, devi provocare delle stragi. Ci deve scappare per forza il morto. Non capisci che a questi bastardi non gliene fotte niente di nessuno? I lamenti dei cittadini gli entrano ad un orecchio e dall’altro gli fuoriescono. Ci vuole un terremoto di violenza per strapazzare i loro culi ingrossati ed ingombrati di merda. Altrimenti puoi stare tranquillo che continueranno a succhiare soldi a sbafo! La violenza cambia il mondo, non gli ideali. Tutte le rivoluzioni hanno come unica matrice in comune la violenza >> Intervenne Cosimo: << E’ vero ha ragione Ciro. Chi detiene il potere pensa solo ed esclusivamente ai propri interessi, fino a quando la pentola a pressione dell’insoddisfazione collettiva non esplode. Ecco perché il mio sogno è quello di diventare un politico. Voglio andare ai festini, impipparmi di cocaina, fino a sfracellarmi il setto nasale e scoparmi una gran ficona al giorno. Che bellezza, e poi finire la mia vita con una bella overdose. Spero che il mio cadavere venga ritrovato in una vasca da bagno con l’uccello mozzato. Meraviglioso! >>. Fu la volta di Sebo, che non parlava da un bel po’: << Tanto anche i politici che rubano la pagheranno. Chi si comporta male la paga sempre. La vita è ingiusta con i giusti ed giusta con gli ingiusti. Nel senso che: coloro che si comportano bene non vengono premiati, mentre gliela fa pagare ai farabutti >>. << No, allora non hai capito un cazzo di niente! Alla politica gli si può applicare la proprietà commutativa: cambiando l’ordine del governo, il risultato penoso non cambia. Le azioni umane vengono mobilitate dal Dio denaro. Gli uomini più soldi hanno, meno si sentono sazi; per questo più ne pretendono. È come se il loro cervello fosse occupato perennemente da una tenia mentale. Il mondo perciò non si divide in buoni e cattivi. Il mondo si compone di stronzi e ignoranti. Qui nessuno ti dà niente. Regna soltanto la regola del baratto. La gente ti dà qualcosa soltanto se gli fai un favore. L’iniziativa personale non esiste. Dietro la pietà si nasconde solo la vendetta. Qui c’è solo dolore, odio ed egoismo. Io reputo le persone solo e soltanto delle grandi merde. Riescono ad essere egoiste anche nell’altruismo. Hai notato che i presidenti della maggior parte delle associazioni solidali non sono altro che genitori, figli, coniugi, amici, o comunque persone vincolate da un forte legame, di quelle vittime cadute per quel determinato male per il quale si combatte? Perché si sono interessate al problema solo dopo averlo vissuto personalmente? Per quale motivo non lo hanno fatto prima? La so io la risposta: la gente, solo quando gli intacchi i beni personali diventa suscettibile a ciò che la circonda >>. Andrea cercò di contrastarmi: << Non è che uno può stare a pensare al patimento dell’intero pianeta. Quando la provvidenza gli schiarisce le idee uno imbocca una determinata strada. In fondo tentano di fare soltanto del bene >>. << Questo è vero, ma a me dà fastidio che questi individui vestano la livrea di benefattori. Secondo me il vero santo è quello che si interessa ai problemi altrui, a prescindere da quello che gli è capitato durante la sua esistenza. Ti posso fare altri esempi sulla filantropia opportunistica. Ti sei mai chiesto perché alcuni soggetti, appartenenti alle associazioni di volontariato, vanno a dare aiuto in capo al mondo, quando la sofferenza è presente anche sotto casa? Ancora una volta sarò io a risponderti: quelli si sono talmente rotti le palle dell’ambiente in cui vivono che pur di eliminare la noia, sono disposti a far finta di dare una mano ai paesi del terzo mondo >>. Andrea perse la pazienza: << Cristo santissimo Ciro! E’ mai possibile che tu riesca a trovare il marcio anche nelle persone generose? Ci sarà pure, nascosto da qualche parte, uno stronzo pulito in questa fottutissima terra del cazzo! >> L’incazzatura di Andrea mi tenne a bada. In fondo forse aveva ragione. In più mi era venuta un sete da paura. Quella sera c’era da bere birra in delle bottiglie di vetro. Non so per quale ragione le lattine, più maneggevoli, non ci fossero. Usammo come apribottiglie gli accendini ma Carlo come al suo solito attuò un metodo del tutto personale e pericoloso. Per bere infatti egli scaraventava il collo di bottiglia sull’asfalto, lo distruggeva ed ingurgitava il contenuto come se nulla fosse. Come faceva a non ferirsi le labbra rimaneva un mistero. Mi aspettavo che da un momento all’altro si mettesse a sanguinare dalla bocca come il conte Dracula, e invece nulla. Non era nemmeno facile mettere in atto quella pratica, perché per un colpo sbagliato, rischiava di farsi scoppiare la birra in mano, come un residuo bellico. Bevvi tre birre che non mi diedero alcun effetto. Mi stavo tediando terribilmente. Stavo battendo il record di rottura. Mi sentivo inutile su questo mondo malsano e pieno di intoppi. La mia vita aveva la stessa funzione del coccige che ci ritroviamo nel culo. Desideravo tanto andarmene. Sì ma dove? Ovunque c’era asfalto e insoddisfazione. Cominciai ad aggirarmi tra i miei amici per sedare temporaneamente la noia. Vidi Gildo che era rimasto solo perché si era allontanato volutamente dal resto del gruppo. Si era isolato come un fiordo. Stava assaporando l’amarezza della vita in una di quelle meditazioni che ti fanno capire quanto sia stupido andare avanti. Guardava se stesso attraverso l’infinita spensieratezza che hanno i poeti. Sentiva le parole degli alberi, degli oggetti abbandonati, della desolazione che danzava sulle nostre teste. In quel momento avevamo le stesse sensazioni che probabilmente ci scatenavano le medesime reazioni: l’impotenza davanti all’incognito e all’insensato. Quel silenzio dove ti porta il cervello e fa baccano nell’anima. L’aridità del cuore che ti spinge alla ricerca di un motivo per vivere. Una sofferenza inaudita, perché non avrà mai risposta. Possiamo infatti avere pure un miliardo di obiettivi per tirare avanti. Ma a cosa servono se si ha la consapevolezza che ogni cosa con la morte si rivelerà inutile ed andrà a finire nel dimenticatoio? C’è una prassi che si segue durante una giornata: la mattina si è ottimisti e si ha la voglia di spaccare il mondo ma col calare del buio ogni cosa diventa vana. Uno con la sera ha voglia di rinchiudersi in un convento e mandare ogni singolo essere vivente a quel paese e farla finita una volta per tutte. Solo che dopo un po’ di ore subentra il giorno successivo ed ogni cosa si resetta con l’ottimismo mattutino. Mentre camminavo inciampai su di un pezzo di metallo che se ne stava sdraiato sull’asfalto. Che desolazione, nemmeno ci si poteva muovere tranquillamente. In questo paese malvagio c’erano le barriere architettoniche persino per i normodotati. Fortunatamente non caddi. In quel mentre scorsi Cosimo che maneggiava una bustina di plastica riempita di funghi allucinogeni. Gli misi una mano sulla spalla e gli domandai: << Fammi assaggiare questi funghi allucinogeni, vediamo che sapore hanno >>. << Ok, buon viaggio >>, fece con l’espressione di un buon padre di famiglia. Ne imboccai uno, ma non aveva nessun sapore. Inizialmente non sentii alcun effetto, la lucidità non si era ancora sfarfallata. Dopo qualche minuto cominciai a sentire che la vista mi era diventata estranea. Non è che non vedessi, ma mi sentivo come se stessi nel corpo di un’altra persona. Mi stavo trasformando in un sognatore vigile. Mi sedetti ad una panchina e stesi le braccia. La mente così come la vista si stava rendendo indipendente. Vagava nei meandri dell’inconscio senza che la potessi controllare. Elaborava pensieri insensati, presi a casaccio, che sicuramente non mi sarei ricordato. Era il tipico viaggio fatto in compagnia degli stupefacenti: per lo meno non si rischiava di morire sfracellati come in aereo. Mi massaggiavo la faccia per riprendermi da quella sorta d’incantesimo. Col poco senno che avevo a disposizione mi pentii amaramente di quell’atto idiota. Chissà da dove cacchio gli aveva acquistati quei funghi malvagi, più cattivi di quelli che s’incontrano giocando a Mario Bros. Poteva anche darsi che fossero avvelenati. Bella fine da imbecille, senza nemmeno avere la consapevolezza di andare a crepare. La nausea non mi si attenuava, ma al contrario raggiunse in quei momenti l’acme dell’intensità. Bisbigliai qualcosa d’incomprensibile, ma nessuno mi ascoltava. Ci eravamo intossicati in contemporanea perché subito dopo me, il resto della compagnia aveva seguito il mio gesto. Infatti voltandomi mi avvidi dello sterminio compiuto da quei funghi. Erano tutti quasi stesi, accovacciati, poggiati in malo modo, che combattevano invano con quella forza oscura. Soltanto la piccola Nadia rimaneva là, ferma, e contemporaneamente terrorizzata ad ammirare uno degli spettacoli più raccapriccianti della realtà. Chissà col tempo quale ricordo ne avrebbe serbato: un padre con i suoi amici che si divertivano a passare il tempo mortificandosi l’anima ed il corpo. Quale orrore e quanta influenza negativa si procurano le persone tra di loro. Al posto di venirci incontro, ci respingiamo come atomi della stessa carica. La povera Nadia ne avrebbe risentito e sono convinto che quella scena avrebbe senz’altro modificato il suo approccio alla vita. Eventi che l’un l’altro si contrastavano e proprio per questa ragione si mescolavano per forgiare il carattere di una persona. Bisognerebbe nascere con una preparazione a codeste situazioni già incorporata. Ogni segno lascia un trauma, poi dipende dalla nostra corazza mentale, sopportare il colpo e trasformarlo in ferita o in un momento di passaggio. Forse il non avere memoria può aiutare a dimenticare le molestie della vita. Tuttavia nemmeno questa difesa si può rivelare efficace. Certe cose infatti si depositano nell’inconscio, ti fanno diventare portatore sano di dolore, ed esplodono quando meno te lo aspetti. Noi continuiamo come se nulla fosse, magari anche in buona fede ma così facendo, non eludiamo di certo il problema. È lui che quando gli pare e piace decide di farsi sentire. Noi non ci possiamo fare niente, dobbiamo rassegnarci e studiare la cavia della nostra improvvisa escandescenza. Chissà di quante belle paranoie soffrirà la piccola Nadia. Meriteremmo in massa di essere arrestati, per aver compromesso il futuro di una bambina in fase evolutiva. È come per le gemme fiorali che si trovano sugli alberi. Esse, affinché possano sbocciare in primavera, necessitano di particolari condizioni climatiche, naturalmente stabili che inneschino la loro apertura senza alcun danneggiamento. Ebbene noi siamo come quelle condizioni inidonee alla loro fioritura. Siamo le gelate primaverili, le piogge incessanti, o i venti indomabili di marzo-aprile. Abbiamo stroncato col nostro modo di fare il fiore che era racchiuso in quella bambina. Forse metterà comunque i petali migliori del suo cuore, o forse no. Starà a lei decidere, o meglio al carattere che si porta dentro. Io continuavo a stare fuso; controllavo la mia lucidità ma essa rimaneva sempre la medesima. Credetti con mio immenso sgomento che sarei rimasto inebetito fino alla fine dei miei giorni. Non sapevo quanto tempo era passato e non capivo più niente, mi girava la testa e sentivo solamente il mio respiro affannato. Ma che caspita di droga, nemmeno un po’ di sballo. Generalmente le droghe comuni un minimo di piacere lo riescono a procurare. Questa invece zero, era una catastrofe per i ricettori del piacere. Tentai di muovermi ma fu un’impresa assolutamente inutile. Gli arti nemmeno li sentivo, l’anima si era volatilizzata. Che potevo farci, non restava che aspettare e vedere in che modo volgevano gli eventi. Speravo solo di salvarmi. Non escludevo una potenziale morte. Temevo di poter cadere in coma ad un momento all’altro. Se si fosse verificata un evenienza del genere, sarebbe stato uno spettacolo degno di una tragedia sceckspiriana. Chissà le facce di coloro che, la mattina successiva, si fossero imbattuti in una marea di corpi buttati come vittime di una guerra atroce. Una visione orrenda, resa ancora più macabra dalla presenza della bambina, stupita e spaventata, unica esule di una strage misteriosa. Magari come ricordo avrebbero innalzato una statua in memoria di quei giovani caduti. No, forse no, anzi sicuramente no. Mica eravamo morti in modo eroico. Le circostanze del nostro decesso erano vergognose, per quanto tristi. Probabilmente nemmeno avrebbero ricordato un simile avvenimento con un lutto cittadino. Dovevamo essere immediatamente depennati dalla memoria del paese. La storia è fatta per i migliori, mica per i poveri nullatenenti. Per entrare a far parte dei libri devi infatti compiere qualcosa di grandioso, di unico, che lasci il segno e l’esempio alle future generazioni. E cosa avevamo noi di esemplare? Niente, tanto valeva essere dimenticati per sempre. Che poi se andiamo a scavare nei formidabili personaggi che sono diventati immortali possiamo suddividerli in tre categorie, ossia ci sono solo tre modalità per essere captato nell’album della storia: alla prima troviamo i ricchi come Cavour; alla seconda gli uomini dotati di talento come Mozart; nella terza i martiri come Gesù. Quindi secondo questa mia confabulazione, se nelle prime due categorie non potevamo essere catalogati, l’ultima sciance era costituita dal martirio. Di fronte ad una simile opportunità tanto valeva rimanere a crogiolarsi nell’anonimato. Magari potevamo essere anche catalogati come martiri, dato che il nostro decesso era avvenuto in malo modo. Tuttavia, mi duole dirlo, i martiri, per divenire quello che sono, cioè prima di essere ammazzati in maniera violenta, vanno a rompere le palle a qualcuno. Giordano Bruno le ruppe alla chiesa e fu messo allo spiedo. Perciò occorreva andare a contrastare il potere. A me sinceramente, nelle condizioni nelle quali mi trovavo, non mi riusciva nemmeno di badare a me stesso. E poi il potere non l’ho mai preso in considerazione. Non me n’è mai fregato niente di coloro che primeggiano al vertice della scala sociale. Non hanno capito che tutto l’affanno consumato per raggiungere un obiettivo così di prestigio si rivela prima o poi di un’inutilità pazzesca. Ogni traguardo, ogni ambizione, ogni vittoria, è schiava alle leggi del tempo. Tutto ha un termine, quindi, sono del parere che una persona le proprie energie le dovrebbe razionalizzare a favore dell’auto perfezionamento fisico e mentale. Obiettivi sicuramente impossibili da raggiungere, ma proprio per questo ci terranno impegnati per una vita. Saranno eterni perché vivranno con noi e finché noi vivremo. Questa è l’impresa straordinaria, non le stronzate che vanno a macchiare di sangue i libri di storia. Se tutti, nella storia dell’uomo, si fossero comportati a questo modo, a quest’ora saremmo già andati su Plutone. Purtroppo rimaniamo materialisti in quanto ignoranti. Gli ignoranti si azzannano per i beni materiali, per loro la virtù è solo una perdita di tempo bestiale. Questo perché le persone non hanno pazienza, vogliono tutto e subito. Ciò li rende animali mediocri. Ecco perché io reputo la maggior parte degli abitanti del globo terrestre dei minorati senza speranza. Il bello è che queste modalità esemplari di vita io me le propinavo ed io mi comportavo esattamente al contrario. Bell’ipocrita fesso che ero. Lentamente il senno cominciò ad irrorare la linfa della cognizione. Ed io altrettanto alacremente m’impossessavo dei bastioni dei miei pensieri. Mi misi a gattonare, poi pian piano cominciai a conquistare la posizione eretta; sembrava che stessi compiendo in sintesi il ciclo dell’evoluzione umana, da quando era uno scimmione, fino al conseguimento del traguardo sapiens sapiens. Gli altri stavano pressappoco nelle mie stesse condizioni e si reggevano a malapena in piedi. Venne Carlo che aveva già smaltito ogni sostanza tossica. Aveva l’aria di uno che volesse farmi una proposta allettante. Non so dove cavolo fosse stato; io in quel momento di sbandamento l’avevo perso completamente di vista. Forse se n’era andato o forse era rimasto sempre lì buttato in terra a dialogare con l’asfalto. << Cosa c’è, quale idea ti è venuta? >>, domandai con la bocca resa inelastica da quegli schifosissimi funghi. << Ehi, ma cacchio ti hanno fatto l’elettroshock?! Sei più pallido di Edwuard mani di forbici. Inoltre parli come uno scimunito! >> << Peggio, questa merda persino gli stregoni cercano di evitarla. Cosa volevi chiedermi? >> << Chiederti niente, tutt’al più offrirti. Non puoi dirmi di no, ti prego non rinunciarci come al solito. Sei sempre negativo, come le pellicole delle macchine fotografiche. Una maledettissima volta dimmi di sì. Solo perché sono matto mi eviti. Ecco con quale razza di amico ho a che fare. Mi metti sempre al margine, come le zone industriali. Sei uno xenofobo del cazzo. Ecco cosa sei. Fanculo a te e a tutto il tuo albero genealogico! >> Se non si era fatto di funghi, qualche altra sostanzaccia doveva averla pur presa. Era agitato come un cocktail ed aveva gli occhi lucidi ed arrossati, manco se si fosse preso una congiuntivite. Io tentai di sedare quell’atto d’isteria, che si era azionato non appena aveva cominciato a parlare: << la vuoi finire con questi piagnistei? Sembri un bambino viziato testa di rotto in culo. Cosa bolle nella pentola della tua mente malata? Se non m’illustri cosa diamine hai intenzione di farmi fare, come accidenti faccio a darti una dannatissima risposta?! >> << Dimmi sì o no >> << Sì o no? Ma che cacchio stiamo a fare un referendum?! Spiegati come quella stronza che ti ha procreato! Dannazione! >> << Va bene, non ti agitare. Lo sai che stai imbottito di funghi come una micosi. Non mi uccidere. Calmati, abbi un po’ di pazienza e ti spiegherò cosa ho intenzione di proporti >>. Ora mi faceva passare pure per l’esagitato, questo meritava solo e soltanto di essere internato tra le maglie di una prigione o le maglie di una camicia di forza. << Allora ti dicevo, da dove cominciare? E un po’ emozionante. Cristo santo, certi momenti sono proprio imbarazzanti. Cosa ti dovevo dire? E chi si ricorda? Stavo sclerando a furia di frequentare quel deficiente intellettuale di Sebo. Allora niente, ti volevo proporre, domani una bella nottata in discoteca, con Alessia e Rebecca. Ballo e sballo a tremila! Delirio di onnipotenza caro! Niente amfetamine però, l’ultima volta ce la siamo vista brutta. È pur vero che quelle pillole simpatiche, che ti fanno vivere la vita in un lampo, mi mancheranno; purtroppo sono sacrifici che bisogna compiere. Solo alcol, noi ci teniamo alla salute, tant’è vero che la salutiamo. Guido io, ti giuro che berrò solo una decina di bicchieri, non di meno. Se all’uscita svengo, lascio a te il volante. Ho una voglia di scopare, come un’impresa di pulizie. Li hai almeno dei vestiti buoni? Sembra che quegli stracci te li abbia venduti Robinson Crusoe, ecco perché oggi è Venerdì >> << Non preoccuparti. E poi anche se mi vestissi con un sacco di patate farei molta più bella figura di te, che sembri un galeotto di Alcatraz. A proposito di avvertimenti: non ti prendere a botte con nessuno. Sei stato già cacciato da tre discoteche. Per una volta divertiti, stantuffa chi ti pare, ma non incazzarti con nessuno. Nella tua vita non sei stato ancora capace di rimanere in un luogo pubblico per due ore consecutive. Appena si sta per creare qualche casino chiamami. Col mio savoir faire saprò risolvere qualunque questione. Per quanto sono diplomatico mi dovrebbero mettere all’ambasciata in quei paesi a rischio di guerra >>. Parole famose queste, che ricorderò per sempre. Non le avrei mai dette se fossi stato consapevole del caos che sarebbe avvenuto la notte successiva. Succede sempre così: quando ci vantiamo, ci arriva un colpo basso dalla provvidenza, un vero e proprio gancio, che ci fa rigare dritto, oppure che ci fa cadere nell’abisso della prostrazione. Quelle parole furono la tregua prima dell’apocalisse. Se avessi saputo il disastro che si sarebbe verificato l’indomani, me ne sarei andato a dormire quatto quatto come un ragazzo a modo. Ed invece si dimostra in tutto il suo squallore proprio quando meno ce lo aspettiamo. Carlo mi rispose: << Ma per chi mi hai preso, per Bruto di Braccio di Ferro? Io attacco solo per difendermi, sono come quegli animali che si vedono nei documentari e che proteggono se stessi dalle fauci dei predatori >> << Infatti sei un animale, su questo non c’è alcun dubbio. Comunque vengo, meglio passare una notte in discoteca che starsi a bivaccare con questi nomadi da paese. Una volta ogni tanto un diversivo ci vuole. Dalla feccia bisogna scuotersi qualche volta >> << Ben detto, abbandoniamo questi pagani a marcire nei loro viziacci patetici. Noi andremo alla ricerca dell’ottavo peccato capitale: lo sballo! >> Venne poi Giovanni tutto stordito, con la maglia impiastricciata di una sostanza gialla che sembrava senape. Chissà quale liquido organico fosse. Fece giusto in tempo a sedersi sull’erba dell’aiuola e vomitò le cascate del Niagara dalla bocca. Queste belle scene sotto gli occhi sconvolti di sua figlia. Appena ebbe terminato quell’obbrobrio si giustificò alla bambina dicendo: << Tranquilla Nadia, papà stava solo facendo un gioco >>. Poi si volse verso di me con una faccia pietosa come a dire “qualche frottola dovevo pur dirgliela”. Nadia parve tranquillizzarsi, ma un’altra paura la invase: << Ma papà, qui non ci sono i lupi? >> << No sono tutti scappati nella foresta >> Giovanni diceva queste scuse con un colore verdastro. Le porcherie ingerite ed iniettate l’avevano reso simile ad una pianta. Il volto si era trasformato perché si era asciugato per la disidratazione; aveva subito una trasformazione mostruosa come il dottor Jeckill. La stanchezza lo possedeva, manco se avesse fatto una maratona intorno al mondo. Lasciò momentaneamente sua figlia e con molta pacatezza mi raggiunse, affiancandomi alla panchina. Io mi stavo godendo tutti quegli esseri che pian piano tornavano lentamente alla vita, come le tartarughe che vanno a spiaggiare per partorire. Appena lo vidi gli chiesi: << Cosa c’è, è successo qualcosa? >> << E’ successo tutto e niente. Ciro ti devo chiedere un piacere. Tra questa massa di impallettati tu mi sembri il più sobrio >> << Vediamo di cosa si tratta >> << Ecco… ho portato la bambina con me, perché non sapevo dove lasciarla >> << Questo lo sapevo >> << Guarda gli occhi di mia figlia: sono esausti sia dallo schifo che ha visto stanotte e sia dal sonno. Credo che meriterebbe di andare a casa >> << Questo lo vedo. Secondo me dovremmo andare tutti a casa. Ma mi vieni a chiedere il permesso per congedarti da questo luogo ammuffito? >> << No, non si tratta di questo. Io vorrei riaccompagnarla a casa ma sto male di brutto. Ho bisogno di almeno un paio d’ore per riprendermi. In più se guido in questo stato, rischio di provocare un incidente mortale. Senza contare il fatto che i carabinieri potrebbero fermarmi ed arrestarmi in seduta stante >>. << Cosa vuoi che l’accompagni io? Bé si può fare. Ti avverto però che le mie condizioni non sono tanto migliori delle tue. Avrò anche un aspetto rassicurante, ma ti posso giurare che mi sento sgretolato dentro come un pacco di fette biscottate che ha subito degli scossoni. Se però mi dici che non te la senti, ti posso anche sostituire >> << C’è però anche un altro aspetto che credo ti sia sfuggito. Una specie di favore nel favore. Non solo me la devi ricondurre a casa, ma ti sarei molto grato se le facessi anche un po’ di compagnia. Dovresti trascorrere qualche oretta con lei. Il tempo di riprendermi. Mi sento uno straccio; è come se mi avessero buttato e ripreso una settantina di volte da un burrone. Ho il cervello spappolato; mi mantengo la testa in equilibrio con le mani >> << Oh Gesù, passare il tempo con una bambina, ma per chi mi hai preso per Mery Poppins? Comunque d’accordo, ne ho abbastanza di questo lager. Mi sento la testa sbriciolata ma posso farcela, è poi mi sto prendendo più vento di una pala eolica. Dammi le chiavi di casa tua e togliamo il disturbo >>. Mi avvicinai alla bambina e le presi la mano, lei non ebbe alcun problema nel porgermela. Mi chiese soltanto: << E papà non viene? >> << No >>, le risposi, << Deve fare la guardia contro i lupi mannari >> << I lupi esistono, ma i lupi mannari no >> << Esistono, esistono. Tu non li vedi, ma ti posso accertare che esistono. Tuo padre rimane qui a fare la guardia per evitare che vengano. Se infatti tuo padre non ci fosse, posso assicurarti che ce ne sarebbero a bizzeffe >>. Salimmo in macchina senza rimpianti. Prima di partire salutai la mandria di amici miei: << Addio miei proci froci, ci vedremo un giorno tutti ad Itaca! >> << Statti e sbatti bene! >>, mi fecero all’unisono. Carlo, che stava a pancia in giù in un’aiuola, come se stesse brucando l’erba, ci tenne a puntualizzare: << Domani ti passo a prendere con le ragazze a mezzanotte >> << Ok, ma esci da quell’aiuola e scrollati quel terreno di dosso, che somigli ad un lombrico. A furia di sguazzarci dentro ricaverai l’humus! >>. Premetti il piede sull’acceleratore e la macchina volò lontano. Giungemmo molto velocemente a casa di Nadia e Giovanni. Era situata in campagna ed era attorniata da una puzza insopportabile di cacca di vacca. C’era un grande allevamento nelle vicinanze che sprigionava i suoi prodotti fecali. Mi ci volle un po’ per abituare le mie narici; Nadia invece pareva a suo agio, sembrava che stesse camminando in alta montagna. Era proprio una bambina tranquilla, se non altro Giovanni e sua moglie avevano fatto qualcosa di decente nella loro vita. L’interno dell’abitazione era tutto sgangherato, un disordine che nemmeno i ladri avrebbero potuto provocare. In cucina, che poi fungeva anche da soggiorno, c’era un tavolo con sopra una marea di piatti impiastricciati di cibo, forse risalenti al paleolitico, sparsi come un mazzo di carte. La sporcizia era talmente remota che il cibo depositatosi sopra si stava fossilizzando, sino ad assumere la durezza del cemento. Il pavimento era appiccicoso ed incrostato di impronte di scarpe. C’era una coperta verde su una sedia, mentre su un divano giacevano degli abiti ed una pila di riviste. Il lavello era occupato nella sua interezza da piatti, bicchieri e pentole in balia di se stessi. << Mazza che lerciume, roba che persino Mastro Lindo si strapperebbe i capelli! >> Si vedeva che mancava una donna da quelle parti. Si era assentata da pochi giorni e già c’era l’invasione della sporcizia. Entrai nella camera dei due coniugi e vi ritrovai un caos della stessa razza. Il bagno era altrettanto pietoso. Nel water c’era persino della piscia annacquata che sembrava tè. Tirai lo scarico e l’acqua del cesso ritorno alla sua trasparenza originale. Pigliai uno spazzolino e del dentifricio e mi lavai i denti. Non sapevo a chi appartenesse, ma avevo il palato talmente disturbato che un’igienizzazione globale orale mi era assolutamente necessaria. Visitai infine l’ultima stanza, vale a dire quella di Nadia. Ne rimasi sorpreso: c’era un ordine puntiglioso che mi commosse. Era piena di bambole e di altri giochi idioti. Tutti erano disposti con cura, il pavimento era tirato a lucido, il letto rifatto e nemmeno col microscopio si sarebbe potuta rinvenire una traccia di acaro. Per lo meno Giovanni ci teneva alla propria figlia. Il tesoro inestimabile doveva meritare i migliori servigi. Giovanni e sua moglie, nella loro vita di merda, non avevano fatto altro che prendersi vagonate di merda: una merda di lavoro, una merda di situazione, in una merda di casa, tenuta di merda, in un posto di merda, che puzzava di merda. Tuttavia di tutta quella merda accumulata, una parte l’avevano presa e l’avevano resa concime, per far crescere in tutto il suo splendore il fiore della loro figlia, che rendeva sensata la loro esistenza. Anch’io desiderai assolutamente un figlio, nonostante fossi molto giovane. I figli sono come i corpi celesti, ti tolgono dal buio. E poi hanno degli aspetti che ammiro particolarmente: sono innocenti ed ottimisti. Come si può non reagire positivamente di fronte ad un evento tanto meraviglioso? Ti fanno anche sentire importante perché seguono cecamente le tue parole. Quindi ti sradicano dal senso d’inutilità che ognuno di noi si porta dentro. Lo Stato dovrebbe concedere il diritto d’adozione anche agli omosessuali ed ai single. Chiunque dovrebbe avere il diritto all’amore, se si ha il desiderio di amare. Esistono un sacco di persone che pur di avere un figlio sono costrette a sposarsi, anche non avendone alcuna intenzione. Questo in molti casi sta alla base dei fallimenti matrimoniali: il desiderio di avere una persona d’accudire. Se lo Stato agisse in questo senso una marea di problemi sarebbero risolti. Purtroppo questo non accadrà mai perché viviamo nella società degli ipocriti e della Chiesa. Eppure questa cazzo di Chiesa dovrebbe rappresentare l’istituzione primaria dell’amore. Ed invece si è inventata una serie di ideologie che non stanno né in cielo né in terra. Sono convinto che se Dio avesse la possibilità di commentare l’operato ecclesiastico direbbe: “avete interpretato la mia dottrina solo ed esclusivamente per fare i vostri porci comodi. Ma questo modo di agire non è religione, si chiama opportunismo!” Non sapevo cosa farle fare. Era tardissimo, eppure la poppante rimaneva ancora pimpante. Mi pentii di non averle fatto bere nemmeno un goccio d’alcol. Il broncio le era passato, forse perché si trovava all’interno delle sue familiari mura domestiche. Si fidava di me e non aspettava altro che gli impartissi qualche ordine su come passare il resto della nottata. Che potevo fare? Mandarla a letto era impossibile; si capiva dai suoi occhi vivaci che mi avrebbe mandato a quel paese con qualche pianto assordante. Poi mi baluginò un’idea niente male. Quindi le chiesi: << Che ne dici se ci vediamo qualche bel cartone animato e ci facciamo due risate? >> Non sapevo né se avesse un lettore Dvd e nemmeno se possedesse dei cartoni animati. Per fortuna ebbi delle conferme positive che mi misero l’animo in pace. << Evviva, ti voglio far vedere l’ultimo cartone che mi ha comprato papà! >> Sia fatta la volontà di Dio. << D’accordo, troviamolo e vediamocelo >>. Misi il cartone animato, ipnotizza bambini, per tenere buona Nadia. Era in realtà un cartone animato virtuale, che oltre ad imbambolarti ti fa venire anche l’epilessia. Passò un quarto d’ora e mi salì un po’ di noia. Trascorse una mezzora ed avevo già le palle a terra. Dopo quarantacinque minuti, il sonno mi aveva mandato al tappeto. Non potetti fare a meno di addormentarmi. Quell’idiozia proiettata in televisione ed il sudore caldo che mi portavo addosso, mi diedero un tepore tale che nemmeno un carillon avrebbe potuto provocarmi. Non capii più niente e dimenticai Nadia e tutta la realtà che mi cospargeva. Qualcosa mi smosse, era una manata amichevole che mi voleva far spalancare le palpebre. Giovanni era rientrato ed aveva recuperato la lucidità perduta. A fianco a me c’era Nadia, ancora sveglia, però il suo sguardo vigile si stava dileguando sulla via della sonnolenza. Era comunque lei che mi aveva mandato a nanna. Sentii dei rumori all’esterno, sottili ma pungenti: era la pioggia che cadeva e s’infrangeva sulle vetrate. Giovanni mi volle ringraziare per la disponibilità concessami: << Ti sono debitore. Come si è comportata Nadia? Ha fatto la brava, oppure si è messa a fare i capricci? >> << No, è stata bravissima. Sa badare a se stessa alla grande. Credo sia più matura di noi due messi insieme >>. Sorrideva Nadia e si godeva i complimenti che tra l’altro meritava pienamente. Che ore si erano fatte? Guardai sulla parete dove era appeso un orologio dalla forma quadrata. Erano già le quattro del mattino: un orario veramente insulso. Giovanni, cercava in tutti i modi di rendersi utile: << E’ tardissimo e fuori piove. Se vuoi puoi dormire a casa. Un po’ di compagnia non sarebbe male >>. Ero stanco e frastornato, ma desideravo con tutto il cuore di ritornarmene a casa, nella mia sperduta solitudine. Certi eccessi di altruismo, a posteriori, non sono altro che una forma per espiare i propri sensi di colpa. Se proprio Giovanni voleva fare il generoso, poteva evitare di chiedermi di mettermi a fare il babysitter. La verità è che certa gente rompe le palle sia quando ti chiede che quando tenta di farti un favore; perché anche quando tenta di aiutarti lo fa per soddisfare comunque un proprio bisogno. In questo caso Giovanni, con la scusa dell’ospitalità voleva a tutti i costi trattenermi per non annoiarsi. Tentai pertanto con ogni pretesto di sbolognarmi da quella situazione: << Grazie per l’invito, ma devo tornare alla base. Non ho avvisato nessuno dei miei, e non vorrei mettermi in allarme. L’ultima volta che ho dormito da un amico, senza preavviso, stavano mobilitando le unità cinofile per ritrovarmi. La pioggia non è un problema, i vestiti potrebbero pure bagnarsi, ma non dimenticare che la nostra pelle è impermeabile. Sarà per un’atra volta. Tanto ci si vede al più presto. >> Fortunatamente Giovanni non insistette come tutti gli altri. Fosse stato Carlo mi avrebbe sicuramente proposto uno dei suoi ricatti inaccettabili. << Fai come vuoi >>, disse << volevo farti restare soltanto per l’orario assurdo. Chissà quanti tipacci vanno pascolando in questi istanti >>. << A quest’ora gli unici esseri pericolosi che puoi trovare in giro, sono i gatti. E poi siamo noi i tipacci. Non credo esista gente più incivile di noi. Stai tranquillo, ne approfitterò per sgranchirmi le gambe >> << Ok >>. Diedi una carezza sui capelli cotonati di Nadia ed uscii fuori da quel letamaio. Non dimenticherò mai che quell’abitazione puzzava internamente ed esternamente come il ricovero di un esercito di maiali affetti da meteorismo. Mi tappai il naso e sgattaiolai via. Un'altra giornata era evaporata dal cammino della mia esistenza e si era andata a depositare nell’archivio del tempo. Ce n’era però pronta un’altra, ancora da costruire e da disfare, che fremeva per poter subentrare. Essa si sarebbe affacciata con i suoi buoni propositi, con l’avvento del risveglio del mattino o di mezzogiorno. Capitolo 9 La notte successiva, intorno alle ventiquattro, mi passò a prendere Carlo con la sua automobile. Era un rottame d’antiquariato, truccato alla perfezione da alcuni suoi amici teppisti che nel weekend si divertivano a fare i meccanici e a dopare le cilindrate dei motori. Aveva a bordo Alessia e Rebecca che frequentavamo di rado ma si mettevano subito a disposizione nel momento in cui si presentavano delle serate più sofisticate. Carlo aveva in bocca un sigaro spento e si dava delle arie da gangster. Appena entrai nell’abitacolo feci i miei saluti: << Salve ragazze, ciao Carlo; che cavolo hai tra le labbra un candelotto di dinamite? Sembri un ricottaro cubano. Se ti beccasse uno statunitense ti aprirebbe il fuoco a vista >> << Bello vero? >>, fece Carlo ingraziandosi le mie parole e mostrandomi quel sigaro mastodontico, << Me l’ha portato mio nonno dall’Equador. Hanno una fragranza eccezionale >> << Sì, sì, bellissimo, non c’è che dire. Ma cazzo, prima di entrare ho notato che la tua macchina è sporchissima di sabbia. Come l’hai fatta a far inzaccherare in questo modo? Sei per caso andato alla Parigi Dakar? >> << No, niente di tutto questo. Io non c’entro assolutamente niente con questo lerciume. Si è ridotta in questo modo perché l’ho data in prestito al Celtico, che doveva fare una gara di rally sullo sterrato che sta nel bosco >> << Oh santi numi! E tu affidi al Celtico, che non sarebbe in grado di guidare nemmeno il carrello della spesa, l’unico mezzo che ti permette di viaggiare autonomamente? >> << Beh ma c’era una scommessa in gioco e l’abbiamo vinta. Mi è entrata nelle tasche una bella banconota da duecento euro, senza che io abbia mosso un dito >> << D’accordo, ma il Celtico è uno degli uomini più ripugnanti della terra; prestargli la macchina è sinonimo di suicidio. C’era una probabilità su un miliardo che ritornasse sana; avrei preferito piuttosto affidare il mio veicolo ad uno stuntman, che al Celtico >>. Il Celtico aveva quattro anni più di me e viveva di scommesse clandestine di qualunque genere, qualcuno diceva di scippi e senz’altro di spaccio di cocaina. L‘unico momento in cui lavorava era quando veniva preso e sbattuto in un centro sociale. Non appena usciva sembrava un’altra persona, piena di salute e di speranza. Questo stato durava più o meno un paio di settimane. Subito dopo ricadeva a capofitto nella sua dipendenza, come e più di prima. Il soprannome gliel’aveva affibbiato non so chi, per via della sua capigliatura stramba: era completamente rasato ai lati e gli fuoriusciva dalla nuca un piccolo codino che dava, appunto, l’impressione di essere un guerriero nordico del quarto secolo avanti Cristo. Partimmo con un clima festoso e sereno. Sereno appariva anche il cielo buio punzecchiato qua e là di stelle. Aveva da qualche ora smesso di piovere. L’asfalto era bagnato con parecchie pozzanghere che prevalevano soprattutto sui bordi della strada. Il traffico era scorrevole com’era giusto che fosse a quell’ora. Dopo un sacco di tempo, con mio immenso sollievo mi stavo rilassando. Per la prima volta la presenza di quello psicopatico di Carlo non mi creò tensione. Discorremmo con le ragazze con vivacità e garbo, sinceramente non ricordo nemmeno di quale argomento. Non appena giungemmo in discoteca trovammo immediatamente il parcheggio. La nottata pareva volgere dalla nostra parte. I buttafuori ci fecero immediatamente entrare, cosa che non fecero la volta precedente. Se ne uscirono con la scusa che non avevamo gli abiti adatti. Tutte cazzate, la verità è che in quell’occasione ci eravamo presentati sulla soglia dell’entrata senza ragazze. Chissà perché non ci dissero come stavano in realtà le cose. La discoteca faceva un fracasso infernale e le luci erano così ad intermittenza che rischiavano di farti diventare cieco. Carlo in un attimo sparì, come un tappo di bottiglia di spumante quando viene aperta. Dopo un po’ lo rividi che parlava con il Farmacista; ossia uno che forniva le pillole di ecstasy ed altra robaccia spazza cervello. Anche le ragazze le persi di vista. Salutai un mio conoscente di un altro paese e mi accomodai al bar. Ordinai una Redbull e poi mi bevvi quattro cicchetti, manco fossi un cowboy. Nel frattempo ammiravo con orrore il gregge di persone che ballava e fingeva di divertirsi. Chissà perché avevo la strana sensazione che fossero tutti scemi. Sì lo erano sicuramente, si fingevano uomini e donne mondane e si sentivano al centro dell’attenzione. Una massa di allocchi mandati al macello dell’ignoranza. Come facevano a fingere di sorridere, non sapevo spiegarmelo. In quei metri cubi c’era solo feccia inutile, che viveva per il nulla e non serviva a nulla. Cosa cazzo vivono a fare coloro che sciupano il loro intelletto e lo mettono alla mercé dei canoni della società svalorizzata? Gente già schematizzata mentalmente, che si finge trasgressiva ma rimane nella recinzione della banalità. Si credono immortali, pensano che il loro fisico rimarrà per sempre giovane ed integro; come se rimanesse sempre al presente. Prima o poi il futuro li attenderà per fargliela a suon di acciacchi. Ho già previsto il loro destino: una vecchiaia ricolma di rimpianti di un passato vissuto all’insegna della stupidità. Cosa vivono a fare mi chiedo, se consumano ossigeno inutilmente. Io li ammazzerei sprigionando nell’aria una buona dose di gas nervino. Che razza di ragionamenti mi venivano, stavo diventando come uno di quei filosofi pazzi dei primi del novecento. Se a quell’epoca avessi diffuso la mia dottrina, avrei disseminato morte e distruzione a suon di stragi, in nome del mio verbo. In fondo quelle persone non stavano facendo nulla di male. Ognuno aveva il diritto di interpretare la vita a modo proprio. Tuttavia non li consideravo intelligenti e sicuramente non meritavano la mia stima. Continuai a bere perdendo il conto di quanto alcol avessi ingerito. Mi chiesi che caspita ero venuto a fare in quel covo di dementi. Mi ero speso un occhio della testa per accedere in discoteca e poi, per fare cosa? Per starmene imbambolato a scolarmi cocktail da vomito. Potevo farlo in strada con quei luridi dei miei amici. Almeno non mi sarei allontanato: distruzione a chilometro zero. Il motivo invece c’era: ero andato per fare compagnia a Carlo. Se non fossi andato io, nessuno si sarebbe degnato di stargli al fianco. Avevano tutti paura; finanche Hannibal si sarebbe intimorito nel stargli vicino. Gli alcolici devono avere qualche legame col tempo, perché sono le uniche sostanze, insieme alla droga, capaci d’interagire con esso. La nottata trascorse speditamente e intorno alle cinque e trenta eravamo già tutti in macchina sulla via del ritorno. Non avevamo però fatto i conti con il nostro stato di alterazione. Carlo al posto di parlare, gridava. Io invece avevo il capo a pezzi, mi girava la testa, manco mi trovassi sulle montagne russe. Riacciuffammo le ragazze e le caricammo in macchina. << Si parte!!! >>, urlò quel pazzo di Carlo, mentre premeva i piedi contemporaneamente sull’acceleratore e sui freni. La macchina rombava dall’impazienza di partire, faceva un putiferio infernale. Finalmente Carlo decise di staccare il piede dal freno e fummo catapultati come un Shuttle verso il vuoto. Il viaggio di ritorno fu completamente diverso, fu un incubo nel mondo reale. Carlo stava fatto di brutto, gli occhi gli brillavano ed erano arrossati; sembravano stregati. Al volante era un vero pericolo. Chissà perché non volle ingranare la quinta, anche quando oltrepassava gli ottanta chilometri orari: questo faceva andare la macchina su di giri ed in questo modo la faceva ringhiare come un belva feroce. Certe volte non guardava nemmeno la strada che gli si parava davanti, perché era impegnato ad usare il telefonino. Poi ruttava come un cinghiale, manco si trovasse in un bosco. Ma il peggio doveva ancora arrivare; e giunse in corrispondenza dell’ingranaggio della quinta marcia. La velocità divenne paurosa, non solo, si mise sulla corsia di sinistra a pericolo di provocare un incidente frontale, con un’eventuale veicolo che ci poteva venire incontro. << Gesù santissimo, vuoi rallentare e vuoi metterti sulla corsia di destra? Che cazzo sei diventato un inglese? >> << Tranquillo milord >>, mi diceva con accento britannico, << entro le 6:00 pm, arriveremo nella sua tenuta, tra i suoi bracchetti scodinzolanti. La regina ne sarà orgogliosa. Giusto l’ora di prendersi un tè >>. Non gliene fregava assolutamente niente. Dovevo agire, le ragazze avevano capito che era uscito di senno e cominciavano ad inquietarsi. Io che gli stavo affianco, notavo il suo affanno e la sua lucidità sempre più offuscata. Poi fece quel gioco idiota che faceva tutte le volte che si metteva alla guida: spense le luci e per di più cominciò a strombazzare col clacson come un forsennato. Nemmeno se l’Italia avesse vinto i mondiali si sarebbe messo a fare un simile baccano. A quel punto persi la pazienza ed intervenni con un’azione drastica ma efficace. Anche perché non potevo reggere quella follia, dovevo in qualche modo intimargli a terminare quella roulet russa a motore. << Fermatiiiiiiii!! >>, gli esclamai con tutta l’energia delle mie corde vocali. Con una sgommata alla “Fast end Furios” pose fine alla corsa dannata. Lo buttai per terra e gli menai tre calci in pancia. Poi, ripensando alla violenza che aveva inferto a quella prostituta e sicuramente invogliato dall’alcol, fui preso da un raptus omicida. Lo presi per i capelli e gli stampai con tutta la potenza che avevo nelle gambe degli altri calci, ma questa volta in pieno viso. Mentre lo picchiavo selvaggiamente gli gridavo: << Prendi questo perché sei un rincoglionito! E quest’altro per aver ammazzato quella maledetta troiona! >>. Lui, del resto, non tentava nemmeno di difendersi; rimaneva impavido a prendere mazzate come un battiscopa. << Hai ragione >>, gridava << Merito di essere fustigato. Continua ti prego che lentamente mi sto purificando >>. E prendeva colpi come un sacco da box. Dopo averlo distrutto di botte, Carlo, imperterrito, riprese a guidare. Io mi ero placato dalla mia ira, ma non avevo sbollito del tutto la rabbia e la voglia di diffondere violenza. La testa mi girava, quella notte mi ero ciuccato più del solito. Le luci dei lampioni rimbalzavano sui miei occhi e mi invogliavano a vomitare. C’era una sovrapposizione di pensieri, di immagini e di colori che si mescolavano e mi stavano facendo venire una nausea insopportabile; un frastuono senza rumore. Ero indemoniato e depresso allo stesso tempo; dentro di me, lentamente e sempre più prepotentemente, si stava diffondendo un terribile desiderio di piangere; strinsi pertanto i pugni per trattenermi. Tuttavia sentivo che l’autocontrollo non era uno stato d’animo di mia proprietà. Carlo, nel frattempo e apparentemente ripresosi, con il volto devastato, cominciò a parlare a vanvera: << Oh! Ciro grazie per avermi salvato, sei proprio un grande, mi stavo perdendo >> e intanto grondava sangue e lacrime. La maglia bianca si era macchiata di rosso, sembrava, in quello stato di delirio, un maniaco omicida; che in effetti lo era. Poi, in un momento, si accasciò su volante ed a peso morto sterzò bruscamente verso sinistra. Io mi precipitai a riprendere il controllo dell’auto, ma era troppo tardi, la macchina fece un testa coda da paura e ci ritrovammo, di sbilenco, nel senso opposto a quello che avevamo intrapreso, come se ci fossimo diretti nuovamente verso la discoteca. Fortunatamente non uscimmo di strada e non passarono altre macchine, altrimenti ci sarebbe stata una strage. Restammo illesi in un silenzio imbarazzante. Carlo rimaneva con la testa appoggiata al finestrino appannato ed imbrattato dei suoi essudati. Io, vedendo che nessuno aveva alcuna reazione, mi incazzai di nuovo come una bestia: << Lo ammazzo a sto ricchione! >> uscii dalla macchina andai allo sportello di Carlo, lo aprii e lo scaraventai fuori dall’abitacolo. Egli batté il suo corpo malandato sull’asfalto e rotolò sull’erba bagnata. Sembrava uno di quegli animali, che si ritrovano ai bordi della carreggiata, uccisi dai pirati della strada. Presi a quel punto le redini del comando e misi in moto la macchina. Avevo deciso di abbandonarlo al suo tragico ed insensato destino. Vedendo i miei gesti risoluti, le ragazze con voce disperata mi supplicarono: << Ciro ti prego non lo lasciare fuori! Finirà per morire! >>. << Non vi immischiate in questioni che non vi riguardano maledette puttane! >> Poi, vedendo i loro pianti sinceri mi placai e diventai ragionevole. Lo presi dalle ascelle, lo caricai in auto sui sedili posteriori, feci inversione e ci rimettemmo in marcia. Carlo si risvegliò e come se nulla fosse successo, si mise a raccontare le esperienze sessuali passate nel bagno della discoteca: << Gli ho fatto dei gargarismi ad una troia di quindici anni, vedessi Ciro che schifo. Se ti fossi trovato nei pressi del cesso gliel’avremmo infilato io davanti e tu da dietro…. >>. Carlo svenne per la seconda volta e per la seconda volta rinvenne. Il secondo collasso l’aveva stremato, era affannato e si era smontata completamente l’aria da bullo che portava sempre con se. Era diventato fiacco e smidollato come un mollusco, non riusciva nemmeno a rimanere in posizione eretta, probabilmente gli avevo maciullato le ossa. Chiudeva gli occhi e li riapriva, come se stesse sotto l’effetto di qualche anestetico. Rimase per tutto il viaggio chino da un lato e farfugliò qualcosa in una lingua incomprensibile. Alessia lo guardava preoccupata, però rimase in silenzio per non far riemergere la mia ira che in quei frangenti era raffrontabile a quella di Achille. Ella poi con voce frammentata decise di esprimersi: << Ciro… secondo me… dovremmo portarlo al pronto soccorso >>. Io con prontezza gli risposi: << Taci altrimenti ti faccio fare la stessa fine. Anche se dovesse morire non sarebbe una grande perdita per l’umanità >>. Non parlò più, sentivo solo i suoi lamenti repressi che mi pizzicavano le orecchie. Anch’io ero satollo della mia violenza, avevo esagerato. Forse solo adesso, con lo smaltimento degli alcolici, cominciavo a capacitarmi del casino che avevo combinato. Per tale motivo i rimorsi si insinuarono nei miei pensieri. Mi venne persino un certo dispiacere per le mazzate che avevo inferto a Carlo. Poi all’improvviso, il male di vivere mi ricordò che non c’era speranza per me e lo spettro del mio stato mentale, riprese il sopravvento. Senza alcun motivo accelerai e dai novanta all’ora che avevo mantenuto fino a quel momento, passai e valicai i cento ottanta. Mi stavo comportando allo stesso modo di Carlo; meritavo dunque gli stessi trattamenti truculenti che egli aveva subito? Le mie due amiche scoppiarono in lacrime e gridarono disperatamente: << Rallenta Cirooo!! Rallentaaa!! >>. Io esplosi in una risata isterica e simultaneamente demoniaca. Poi con una tranquillità da saggio dissi: << Tranquille ragazze, non dovete aver paura della morte. Noi siamo già morti. Se ci pensate bene, la morte si configura con il non essere e noi, prima di nascere, non eravamo. Come direbbe Seneca: noi torneremo ad essere quello che eravamo già stati! >> La loro arma principale, ossia superbia, che mostravano al mondo, non c’era più, si era polverizzata. Si erano trasformate in delle mocciose bambine. Dallo specchietto retrovisore vidi una di loro, con la testa tra le ginocchia, che gemeva come un animaletto impaurito. Io tuttavia non volli demordere, non c’era più pietà in me e continuai a procedere ad una velocità supersonica. In dieci minuti eravamo arrivati già a F***. Giunti alla periferia del paese, accostai la macchina e dissi: << La corsa è finita andate in pace. Ragazze è stata una serata fantastica. Alla prossima. Io ora me ne vado per la mia strada e vi affido questa larva umana. Addio >>. Lasciai le ragazze intontite ai bordi del paese e proseguii a piedi. Le case di quelle zone mi sembravano apatiche, ti davano l’impressione che non fossero abitate da alcun essere vivente. La torcia della luna faceva un po’ di luce, dato che persino i lampioni erano spenti. Come mai soltanto io mi sentivo circondato dalla solitudine e dalla desolazione? Cazzo, nessuno che in tutta la mia vita, m’avesse confidato una sensazione similare alla mia. Evidentemente ero troppo lontano dagli altri. Non avevo l’intenzione di tornarmene a casa, volevo prima passare dalla distilleria per vedere se c’era qualcuno che si era intrattenuto a dormire in qualche panchina, in attesa di smaltire i fumi dell’alcol. Avevo una strana voglia di conversare. Durante il tragitto ebbi l’impressione che qualcuno mi stesse seguendo. Forse era solo un’impressione sbagliata. Eppure per tutta la serata e la nottata avevo notato, durante l’andata in discoteca, che qualcuno con la macchina di venisse dietro, come per tallonarci. Stavo evidentemente diventando schizofrenico. Chi caspita mi doveva spiare? A chi potevo suscitare tanto interesse? Sebbene cercavo di dirmi che si trattava di pure congetture, non riuscivo a rimanere tranquillo. Ero sempre all’erta, come una gazzella in un covo di leoni. Ad ogni passo del vento che generava un fruscio di foglie o di cartacce, io voltavo la testa. Ero quasi in preda al panico. Mi stava quasi venendo voglia di tornarmene a casa. Chi me l’aveva fatto fare di starmene tutto solo in un paese così insicuro. Adesso che ci pensavo, anche la notte precedente, cioè quando ci imbottimmo di funghi allucinogeni nel parco, sia pure con la testa appesantita dalla droga, avevo scorto una macchina ferma, all’entrata, con due tipi sinistri che ci osservavano. Mi sentii per la prima volta solo ed indifeso. Stavolta ebbi veramente la voglia di sgattaiolare dritto, verso la mia dimora e barricarmi dietro le sue mura. Solo che ormai ero giunto alla distilleria. Dare un’occhiata in giro non mi costava nulla. E poi se c’era qualcuno, tanto di guadagnato. Per quanto disturbata che fosse si poteva comunque rivelare una valida compagnia. E invece nessuno, più disabitato della luna. Soltanto Sniffone e Pecorone scorazzavano nella loro innocente libertà. Appena mi videro mi vennero incontro e scodinzolando vennero a farmi un sacco di feste. Mentre gli stavo vicino mi accorsi che avevo dimenticato le chiavi di casa in casa. Ero per l’ennesima volta costretto a passare la notte fuori, sotto gli occhi vigili delle stelle. Mica potevo rientrare e citofonare a quell’ora balorda. E poi chi se le sentiva quelle due oche di mia madre e di mia sorella. Avrebbero fatto le vittime per un mese asserendo che non le facevo dormire. Cazzo, era pure sabato; il giorno dopo non si doveva andare nemmeno a lavorare. Avevo paura ma andava bene così. Meglio comunque starsene rintanati all’aperto e farsi rimboccare le coperte dal vento. Mi trovai pertanto una bella panchina morbida d’acciaio, così avrei avuto il segni della sua conformazione persino sulla spina dorsale. Mi rannicchiai, i due cani mi avevano seguito. Si moriva di freddo ma mi ci dovevo abituare. Tremavo e bestemmiavo tutto il mio vocabolario osceno alla rigidezza della temperatura. Ogni tanto giungeva una folata di vento, quasi volesse prendersi gioco di me. Io rabbrividivo e tentavo di compattarmi il più possibile, per riuscire a trattenere quel poco di calore rimastomi in corpo. Il buio color lutto inumò i colori del mondo. Il silenzio penetrò dentro la cassa di risonanza del mio inerme corpo, mettendo a tacere persino i pensieri. Non si sentiva nulla, tranne le foglie che facevano attrito sul suolo. Di tanto in tanto passava una macchina a distanza, se ne sentiva il rombo lontano. Per il resto era identico il paese ad una foresta. Una giungla cementificata, piene di bestie feroci pronte a straziare i più deboli. Dormii profondamente e, quando mi svegliai, dovevano essere le otto, per gli otto rintocchi di un campanile, provenienti da chissà quale chiesa. Mi sentivo pieno di reumatismi, causati dalla posizione scomoda di quel letto improvvisato. Il sole aveva ridestato il cielo, ma nella posizione in cui mi trovavo mi era impossibile vederlo. Avevo una nausea immane e mi sentivo stravolto, come se mi fossi appena svegliato da un coma. Chissà se Carlo era ancora vivo. Sicuramente si era ripreso alla grande, altrimenti a quest’ora mi sarei già dovuto trovare in manette. Sniffone e Pecorone erano ancora lì che vigilavano le movenze della mattina. Raggiunsi un bar e gli comprai due focacce ai wurstel che ingurgitarono ad una velocità pazzesca. Io invece non avevo trangugiato alcunché di solido dal pranzo del giorno prima. Ieri infatti la mia cena era stata a base di alcolici. Mi sentivo disgustato ed infreddolito. Me ne tornai a casa perché mi sembrava come se mi fossi preso la febbre. Qualche linea l’avevo sicuramente perché ero diventato pesante e per raggiungere casa mi ci volle uno sforzo disumano. Mi sentivo le gambe molli, come di gelatina. Arrivai con l’affanno, citofonai, entrai e mi misi subito a letto, senza avere la minima preoccupazione di dare delle spiegazioni di quel rientro. Finalmente la mia giornata si era conclusa con l’inizio di un nuovo giorno. Capitolo 10 Ma com’è che bevo e non mi disseto? Vado ad aprire il rubinetto, porgo le mie labbra secche, inghiotto ettolitri di acqua ma niente. La gola mi rimane arida. Sto subendo una desertificazione del palato, ho bisogno di una sorgente liquida. Già, ma com’è che quando bevo non ricevo alcun beneficio? D’ improvviso si avvicina una donna con la barba che mi fa: << Tieni, beviti questo orologio >>. Poi scompare. Provo ad abbeverarmi ma comincio a perdere i denti. Apro la bocca e vedo che, del mio apparato masticatorio, mi sono rimaste soltanto le gengive. Entro in ascensore, ma questo si blocca; poi però si riattiva e va velocissimo. Va talmente sparato che mi porta in un lunapark. Mentre mi avvio all’interno del lunapark, tutto diventa oscuro e… Mi destai rimbambito, con un rumoraccio assordante che proveniva dall’esterno. C’erano degli operai che stavano trapanando l’asfalto per rifare le tubature della rete fognaria. Quel fracasso quindi lo generava il martello pneumatico, addetto a tali lavori. Guardai la sveglia, segnava mezzogiorno. Mi misi in piedi, ma l’effetto della sbornia non era ancora svanito. Arrancando raggiunsi la cucina perché sentivo una fame tremenda. In casa non c’era nessuno; ormai si viveva come in un hotel, alla giornata. Aprii il frigorifero ed ovviamente scarseggiava di vivande. Su una delle due mensole c’era un contenitore di riso, risalente a chissà quale periodo storico. Senza nemmeno apparecchiare consumai quei rimasugli con molta malinconia. Il riso si staccava a blocchetti per quanto era vecchio e disidratato. A malincuore mangiai quella porcheria, pur di sopravvivere all’inedia che mi divorava. Dopodiché mangiai una fetta di pane e burro e me ne tornai in camera mia. Presi un libro universitario e tentai di studiare stando a letto. Un quarto d’ora rimasi a leggiucchiare quei paragrafi incomprensibili, perché il sonno s’impossessava nuovamente del mio corpo esausto. Caddi come un sasso, sebbene il frastuono del cantiere sottostante non aveva cessato la sua aggressività acustica: la mia stanchezza lo trasformò in una ninna nanna. Alle sette di sera ripresi conoscenza, mi diedi una lavata e mi attaccai al computer. C’erano sia mia madre che mia sorella, naturalmente si catapultarono su di me per rompermi le palle. << Tu hai mangiato il riso nel frigorifero?! >>, fece mia madre con un’acidità tale, che se le avessi messo a contatto una cartina tornasole, si sarebbe colorata di rosso. << Sì non c’era assolutamente niente da mangiare. Se non mi fossi pappato quel riso sarei probabilmente morto di fame >>. << Come hai potuto, quel riso era riservato al nonno. Ora cosa gli preparo? >> << Allora ho fatto bene a sbafarmelo, era così vecchio ed indurito che per tutto il tempo mi è parso di masticare della ghiaia. Se invece lo avesse assaggiato il nonno, probabilmente la dentiera gli sarebbe andata in frantumi >> << Ma smettila, mangione che non sei altro! >> << Sarà, ma sono comunque talmente magro che mi si vedono gli organi con tutto il sistema circolatorio >>. Mia madre si ruppe di scatole e se ne andò infastidita. Quell’idiota di mia sorella invece rimaneva imbambolata, manco se Medusa, con il suo sguardo l’avesse pietrificata. << E tu che cazzo guardi! Tornatene nelle fogne in mezzo ai tuoi simili! Mutante! >> << Fanculizzati >> mi fece lei e mi mostrò il dito medio con un’eleganza tale che le fece perdere tutta la sua femminilità. Alle nove e trenta uscii per andarmi a comprare una vaschetta di patatine, poi mi recai alla Distilleria per il solito appuntamento. Giunsi che ancora mangiucchiavo. La distilleria era un’ecatombe, vuota come un pozzo artesiano nel deserto. La stessa immagine del giorno prima mi si parò davanti. Ed allo stesso modo Sniffone e Pecorone mi vennero festanti per la mia visita. Sentii d’improvviso delle macchine sgommare, ma non mi preoccupai, mi sembravano troppo lontane. Mentre rimanevo chino ad accarezzare i due cani, con il sovrappensiero che mi rimbombava l’enigma di dove si trovassero i miei amici, qualche cosa di brutto accadde. Mi trovai circondato di uomini incappucciati che si coprivano il viso con una sciarpa ed occhiali da sole, nonostante il buio imponente. Alcuni di loro avevano un casco da motociclista in testa. Erano una decina all’incirca. In quei momenti di terrore non potevo mica stare a fare calcoli. Cosa volevano era fin troppo chiaro: menarmi fino a rompermi le ossa. Quello che invece non mi era chiaro era il motivo di una simile retata. All’inizio pensai che si fosse trattata di una vendetta di Carlo, dopo le botte da orbi che gli avevo dato. Poi scartai questa ipotesi perché l’organizzazione di una simile banda di violenti non poteva essere stata messa assieme in un lasso di tempo così breve: non erano passate nemmeno ventiquattro ore. Inoltre Carlo era talmente scimunito che neanche si sarebbe ricordato quello che gli era successo; rimuoveva i suoi ricordi come un computer quando cestina i suoi file. Probabilmente a quest’ora stava dormendo alla grande. Mi accorsi con mio immenso dispiacere che avevano anche delle spranghe per fracassarmi anche i globuli rossi. Non si fecero problemi, subito incominciarono. Mi arrivò una sprangata sulle gambe che mi mise subito k.o.. Poi una seconda sulla schiena a pericolo di sfasciarmi la colonna vertebrale. Un male cane. Cominciai a piangere per il dolore. Fortunatamente, vedendo il mio cedimento immediato, misero da parte quelle odiosissime sbarre di metallo. Ma la violenza di certo non era terminata. Infatti mi riempirono di calci per non so quanto tempo. Una sofferenza della malora, persino la mia anima sentiva dolore. Una tortura raffrontabile ai desaparecidos e Gauntanamo messe assieme. Mi sputarono ed umiliarono, poi mi saltarono addosso, manco fossi stato un tappeto elastico. Ma su di me erano solo in quattro. Gli altri si misero a malmenare i cani come se avessero commesso qualche torto. Che vigliacchi figli di puttana. Mentre mi pestavano a sangue vidi con la coda dell’occhio che riempivano di sprangate Sniffone. Pecorone non lo vedevo ma sentivo che urlava di dolore. Mi voltai e chiusi gli occhi ad un simile scempio; meglio essere picchiato. Continuarono ininterrottamente ad umiliarmi a suon di parolacce: << Muori merda! Così imparate ad insultarmi e a non saldare i debiti con la gente per bene! >> Capii di chi si trattava, sia da quello che aveva detto che da quella voce da evirato che si ritrovava. Era Vernice, con i suoi amici malavitosi. Forse si era aggiunto anche Riccardo perché era sparito da tempo e mi aveva giurato vendetta. Ebbi veramente paura. Vernice era un coglioncello ma quelli erano dei veri e propri mafiosi: trafficavano armi e rubavano macchine all’ordine del giorno. C’era perciò il rischio di rimanerci secco. Questi a lungo andare mi avrebbero ammazzato. Di fuggire non potevo, mi avevano trasformato in un’ameba. L’unica sciance che mi rimaneva era quella di urlare a squarcia gola. Con tutta la forza che avevo in corpo urlai senza preoccuparmi delle legnate che mi buscavo. Per il fracasso che feci quegli animali s’intimorirono e temendo di essere scoperti se la diedero a gambe. Tanto un bel lavoro coi fiocchi era stato compiuto, non c’era bisogno che si trattenessero per qualche altro minuto per continuare la loro opera. Potevano ritenersi completamente soddisfatti. Io, allo stremo delle forze, appena sentii l’ultima macchina andarsene cercai di riprendermi dal massacro. Non potevo ancora constatare se avevo qualche cosa di rotto perché ogni cosa mi faceva male, perfino i peli del naso mi dolevano. Mi confortai per essere sopravvissuto a quell’alluvione di botte. Ero disteso in mezzo alla strada. La mia prima azione fu quella di togliermi da là in mezzo, altrimenti la prossima automobile che sarebbe passata mi avrebbe ridotto ad una bella frittata. Mi fischiavano le orecchie ma riuscivo a sentire il mugolio di uno dei due cani che mi martellavano i timpani. Arrivai a gattoni sul marciapiede e mi rimisi nuovamente disteso. Ero esausto e con quel lamento di cane mi sembrava di essere disceso nell’Ade. Basta! Era insopportabile! Mi strapazzava i gangli del cervello. Con le lacrime addosso implorai aiuto. Ma la voce che possedevo l’avevo tutta consumata per salvarmi la vita. Una nausea si posò sulla testa, aumentando lentamente la sua pressione, come se volesse schiacciarmela. Iniziai a vedere le stelle che coprivano la mia visuale, dopodiché tutto diventò nebbia, anche i miei pensieri. Mi svegliai ancora con quel maledettissimo piagnisteo che mi rimbombava dentro la scatola cranica. Provai ad alzarmi e a verificare le mie condizioni fisiche. Sputai per terra un fiotto di sangue. Mi sentivo pieno di lividi. Feci qualche passo, ma lo compii in modo molto disagiato perché un piede aveva perso di sensibilità. Andai incontro a quelle lamentele e vidi il disastro. Pecorone era ancora vivo ma lo avevano imbrattato di vernice spray. Era tutto colorato, peggio di Arlecchino. Su di un lato gli avevano disegnato una bella svastica, sull’altro il pesce cristiano. Stava accucciato e piangeva. Ma l’obbrobrio mi sopraggiunse quando m’imbattei in Sniffone. L’avevano ucciso a colpi di spranghe. Se ne stava immobile a pancia in su, gonfio come una zampogna. Un’immagine orripilante. Mi voltai immediatamente e meditai sul serbatoio di male inesauribile che porta con se l’uomo, sulla sua capacità di trasferire la violenza ovunque e di impiegare gli esseri innocenti come unica fonte di sfogo ai propri complessi. Fui sovrastato dal senso di colpa. Lasciai tutto come stava e mi avviai verso un luogo remoto, possibilmente privo di traccia umana. Bestemmiavo e piangevo come un dannato della Divina Commedia. Ero stato abbandonato da tutti, non avevo più nulla su cui contare: la mia famiglia era andata allo sfascio e sopravviveva come un relitto in mezzo ad una tempesta. L’amore neanche a parlarne: una tortura senza tregua, come se masticassi di continuo del filo spinato. Ma stavolta avevo perso pure gli amici, le uniche persone sulle quali potevo contare. Nessuno si era degnato di avvisarmi che quella sera si sarebbe presentata una spedizione punitiva a flagellare il primo che gli si parava davanti. Anzi, probabilmente avevano deciso di mandare me, in prima linea, usandomi pertanto come capo espiatorio dei peccati collettivi. Ora che si erano sfogati su di me, non c’era più alcun bisogno di ritorsioni future. Che maiali vili del cazzo, senza un briciolo di coraggio. Non potevo contare su nessuno, ero praticamente finito. Tutto mi sarei aspettato fuorché una simile beffa. Che pezzi di merda, persino Giuda li definirebbe dei traditori. Le persone sono come l’acqua: dall’esterno sembrano limpide, dentro contengono un sacco d’impurità. Intanto camminavo verso una meta sconosciuta, sempre più lontana da casa. Il paese era come al solito vuoto. Nessuno poteva vedere il ragazzo soccombente che respirava l’asfissia. Ognuno era impegnato a coltivare la pianta del proprio egoismo. Adesso ero completamente libero da ogni rapporto umano. Non potevo dare e ricevere alcunché. Come le larve degli insetti xilofagi, che lentamente si nutrono della polpa legnosa degli alberi, uccidendoli internamente e contemporaneamente lasciandoli intatti dall’esterno, allo stesso modo io, sotto il mio strato di derma, sentivo la fiamma della mia anima spegnersi, con foga ed altrettanta cruda discrezione. Non mi rimaneva altra scelta: farla finita. Sperare non serviva più; sapevo che non si sarebbe aggiustato nulla. Anche se mi fossi messo di buona lena a credere in qualcosa sarei stato inevitabilmente deluso. Nessuno aveva ideali, quindi un progetto di miglioramento risultava un’impresa totalmente vana. Morire così giovani avrebbe per qualche tempo portato qualcuno a riflettere: tuttavia la vita insipida delle persone avrebbe nuovamente ripreso il moto perpetuo dell’avidità. Chi se ne fregava, è tutta una finzione, dove tutto è stato destinato a finire. Tanto nella vita ne usciremo tutti sconfitti, perché si finisce coll’invecchiare e col morire; e chi non invecchia comunque muore. Porre fine a questa pagliacciata sarebbe stato dal mio punto di vista uno dei gesti più dignitosi che si potessero mai fare. E poi non volevo più avere a che fare con queste facce di ebeti che ti sanno soltanto regalare cattivo umore. Staccare la spina e dimenticarsi di qualunque cosa per sempre. Che splendore. Sollevare un muro invalicabile verso coloro che ti vogliono del male ed isolarli soli con se stessi. Si sarebbero sbranati tra loro come miserabili antropofagi. Nutritevi della vostra carne e godetevi lo spettacolo dell’olocausto di anime. Io ne resto fuori, salvando ed uccidendo la mia persona. Raggiunsi i binari che segnavano il confine con il paese dalla campagna. Vi camminai nel mezzo inciampando qua e là sulle pietre che si frapponevano tra le traversine. Piangevo, ma tanto nessuno mi poteva sentire. Cominciò a piovere e le gocce di pioggia si mescolavano alle mie lacrime. Continuai con passo strascicato per un bel po’ di metri, fino ad una nuova risalita che, una volta raggiunta, permetteva di spaziare sull’orizzonte che rimbalzava sulla mia vista. Di fronte a me si stagliavano le luci di altri paesi, lontane come pianeti, esprimevano il mistero di un’altra esistenza remota. Mi fermai con l’affanno, manco se mi fossi trovato sull’Himalaya. Rimuginavo il mio stato di abbandono: maltrattato ed incompreso da chiunque, costretto a viaggiare in una vita schifosa che non meritavo. Cazzo, non credevo di essere l’individuo più ripugnante del mondo, eppure mi trovavo qui, abbandonato come l’ultimo escremento di fogna. Da lontano un rumore funesto era pronto ad offrirmi l’occasione per la fine. Era il treno che giungeva a liberarmi. Tramortito poggiai la testa sui binari di modo che, al passaggio del mezzo, venissi ghigliottinato come un monarca durante la rivoluzione francese. Il rumore aumentava convertendo la mia rassegnazione in terrore. Chiusi gli occhi e feci in ogni modo per rimanere immobile. Oramai la decisione l’avevo presa ed andava portata fino in fondo. Non avevo nulla da perdere e da guadagnare. L’importante era sbattersene altamente. Come gli stoici che avendo raggiunto un livello di saggezza talmente elevata si distaccano completamente dal corpo e dal materialismo, dato che racchiudono nel loro spirito l’essenza della vita, allo stesso modo io, in maniera altrettanto e diversamente distaccata, chiudevo la mia parentesi terrena. Dico diversamente distaccata perché a differenza di un saggio decidevo di morire non per eccesso di serenità, ma per un surplus di tristezza. Ma il treno era già vicino e sentivo le vibrazioni che mi penetravano fin dentro l’anima. Col suicidio, secondo la divina commedia, sarei stato trasformato in pianta, come Pier della Vigna. Ad un passo dall’abisso la paura mi dette uno scossone non previsto che mi rese rigido come un tondino d’acciaio. Un brivido fermentò lungo la spina dorsale: digrignai i denti, strinsi i pugni e tentai di farmi coraggio davanti a quel dinosauro di ferraglia che mi veniva contro a tutta velocità. Eccolo, eccolo! Era giunto quasi al capolinea e la sua opera infallibile si stava quasi per completare… Capitolo 11 Ritrassi la testa all’ultimo secondo, dopodiché affondai le mani nel suolo bagnato e con esse il mio ardimento alla vita. Le falangi stritolavano le zolle di fango, per sgretolare la mia dannazione sempre più crescente. Nel frattempo la pioggia continuava a battere, insensibile, sul mio corpo ridotto allo stremo. L’acqua meteorica mi urtava la testa e, ripetutamente, mi infliggeva i suoi colpi privi di forza, come se avesse avuto l’intenzione di inabissarmi ancora di più. Le gocce che toccavano la mia ripida fronte, valicavano gli occhi e si mescolavano col liquido delle mie lacrime amare. Che peccato, non meritavo di diventare così disgraziato; non è giusto. Purtroppo, nonostante stavolta l’avevo scampata, sentivo di essere giunto alla fine. Eppure mi sono sempre accontentato di poco. Basterebbe che qualcuno mi tendesse una mano d’amore ed io risalirei rapidamente la china. Sì, necessiterei di una trasfusione d’amore ed invece nulla; continuerò come le stelle cadenti a dissolvermi strada facendo. Il treno era ormai lontano, il suo rumore un’esperienza passata, forse un’occasione sfuggita. Continuai a piangere nelle tenebre cercando di ributtare il dolore che mi portavo dentro. Sebbene il cielo fosse coperto, la luna, prendendosi beffa sia delle nuvole che delle stelle, rimaneva là, in bella vista, immobile, a scrutarmi dall’alto. Essa era pallida, come il mio viso cadaverico. Io che volevo rimanere al buio e solo nel mio umore nero, mi sentii quasi imbarazzato dalla sua lucente presenza. Infreddolito e zoppo, col capo reclinato me ne tornai come un reduce verso casa. Una guerra interna e rapidissima si era svolta, già da tempo annunciata ma che non aveva condotto da nessuna parte. Non c’erano stati né vinti né vincitori ma soltanto un nulla di fatto. La mia anima prigioniera della mia stessa carne chiedeva di liberarsi, senza tuttavia riuscirci. Camminavo vuoto e senza una minima sensazione. Sarei rimasto dunque ancora a galleggiare nel campo di sterminio terreno? Non m’importava ormai, era tutto di un’inutilità esasperante. Seguire il corso delle cose come se ci si trovasse lontani, osservare lo scivolare della propria vita davanti al televisore del distacco. Preoccuparsi è per gli stolti, roba da gente mediocre. Se facciamo mente locale e proviamo a ricordare, ed al contempo rivivere le nostre preoccupazioni, ci rendiamo conto del sangue che abbiamo buttato a vuoto. Ansia che si sovrappone e ci dà la sensazione di stare sempre sull’orlo del dell’abisso. Noi ci lamentiamo sempre di condurre un’esistenza sfortunata e da ciò ne usciamo perennemente insoddisfatti, siamo noi però che condizioniamo la riuscita di una vita. Uno può vivere in un bidone ma rimanere di buon umore, oppure al contrario un individuo potrebbe diventare l’uomo più famoso del mondo ma sentirsi flagellato da uno stato di torpore dell’umore. E perciò una questione interna, bisogna assistere alla globalità degli eventi senza farsi influenzare perché tutto ciò che influenza genera conseguenze. Io, viandante in un paese decadente vivevo a mille anni luce dalla realtà che mi circondava. Le ganasce dei sentimenti si erano ormai sciolte e non m’imbrigliavano più di condizionamenti. Ero stanco ma non sentivo fatica, ero ferito ma non sentivo dolore, solo ma non mi sentivo isolato, ero in lacrime ma non mi sentivo depresso, insomma ero io ma non mi sentivo me stesso. Pioveva ed i miei vestiti si erano assorbiti più acqua di una pezza per lavare a terra. Arrivai a casa ed entrai senza nemmeno pulirmi le scarpe. Lasciai, con l’acqua che mi ero preso, più impronte di un dinosauro. Fortunatamente il fango, nel cammino, dalle suole si era parzialmente distaccato. Dentro non c’era nessuno. Mia madre e mia sorella, non sapevo dove si trovassero ma non me ne fregava assolutamente niente. M’inoltrai nel soggiorno e là vi rimasi; poi mi stesi e col sangue freddo di un’iguana mi addormentai sul pavimento, come un barbone senza dimora fissa nella propria dimora. Potevo andarmene a letto, in fondo era a due passi. Non lo feci perché stare per terra o accucciarsi su di un materasso per me era la stessa cosa. Tanto entrambe queste azioni avrebbero condotto al sonno. Io scelsi quella più spontanea, cioè quella che fu adottata dall’uomo sin dall’alba dei tempi. Chiusi gli occhi e ogni cosa divenne lentamente sempre più pura e remota. Così aleggiai verso l’infinito, dove ogni elemento materiale assume la fluidità dell’astrazione e col nostro sonno nebulizza la propria consistenza. Aprii gli occhi con lo sconforto di aver ritrovato la realtà. Mi alzai in qualche modo con i dolori che mi trapanavano fin dentro le ossa. Sul pavimento avevo lasciato un’immensa impronta di fango sfumata di sangue: il calco della mia gioventù bruciata. Erano le sei del mattino: l’ora esatta per andare in facoltà. Sebbene non ero nelle condizioni e chiunque mi avrebbe consigliato di prendermi almeno una giornata di riposo, decisi comunque di barcamenarmi in un bel po’ di ore pregne di lezioni. Per me non faceva differenza, ero senza speranza: non sognavo e non temevo più nulla; ogni evento mi avrebbe solamente arrecato indifferenza. Niente umiliazioni, niente timori, niente di niente per sempre. Mi sciacquai e poi diedi una sorsata di birra lasciata in frigo in balia di se stessa. Nulla più, non occorreva nemmeno mangiare. Avrei organicato l’anidride carbonica presente nell’aria così come fanno tutti i vegetali di questo pianeta. Scesi le scale con leggerezza, come se mi avessero rimpinzato di elio. Prima i andare in stazione entrai in una chiesa. Non c’era nessuno, nemmeno una vecchia bizzoca di passaggio. Mi sedetti col capo reclinato ed incominciai a pregare davanti ad una statua di Gesù crocifisso: “Dio perché non mi aiuti? Perché fai finta di niente di fronte alle mie lacrime e guardi solo ed esclusivamente i miei peccati? Come fa uno a condurre una vita esemplare se il dolore non lo prendi in considerazione? Cazzo, punisci i peccati ma santo Dio indennizza le buone azioni!” Ma le mie suppliche erano vane e rimanevano sigillate dentro me stesso. Credo che Dio, ammesso che esista, il dolore dell’uomo non sia assolutamente in grado di recepirlo; nemmeno se si munisse di telescopio riuscirebbe a vederlo. Nessuno ha pietà, nessuno si accorge di te, è come piangere sott’acqua. Le lacrime dell’anima sono come le falde freatiche: scorrono al di sotto senza che nessuno se ne avveda. Abbandonai la statua del Cristo crocifisso che come un pesce pensava solo e soltanto alle sue spine e mi riavviai verso la stazione. Ero condannato all’inesistenza e come un condannato avrei dovuto vivere. Mentre compivo i miei gesti primordiali, dentro me stesso, col pensiero, facevo la radiocronaca delle mie azioni: “uomo morto che cammina attraversa la strada, uomo morto che cammina raggiunge la stazione, uomo morto che cammina aspetta il treno, uomo morto cammina sale sul convoglio, uomo morto che cammina trova un posto e si siede, uomo morto che cammina osserva il paesaggio”. Fermai questa voce interna e con occhi annacquati di tristezza vidi quella natura che tranquillamente se ne stava ad adornare le terre del mio paesaggio. La natura calma e senza reazioni non cambiava mai nel breve periodo come l’umore della gente. Noi c’incazziamo, ci disperiamo, ci soffochiamo, ci malediciamo, ed ella rimane là a sbattersene delle nostre monotone calunnie. Sembra volerci dire: ma che caspita fate?! Non vedete quanto è stupido sbracciarsi ad afferrare le ambizioni? Cosa concludete? Avete passato il vostro vivere a sputare veleno. Guardate noi, arriviamo al vostri stesso risultato ma stando completamente fermi e per di più ci guadagniamo in termini di anni. Chissà in quanti nel vedere un ambiente rupestre abbiano fabbricato i miei stessi ragionamenti. Il problema sta proprio là: nessuno ti capisce perché nessuno riesce a raggiungere il tuo modo di pensare. C’è un’immensa solitudine nel regno umano, nonostante la densità di popolazione sia in continuo aumento. Steppe di solitudine che ghiacciano l’anima. Calai una mano sugli occhi perché mi vergognavo persino di essere ancora vivo. Sentivo una nausea immensa quando pensavo a quante migliaia di giorni avrei dovuto affrontare. La stessa sensazione che prova un avventuriero prima di cimentarsi in un’ardua impresa. Ingoiai angoscia e mi saziai di adrenalina. Mi sentivo impossessato dai reumatismi, sicuramente avevo anche un po’ di febbre. Ero ormai un relitto: toccavo lentamente il fondo a pezzi. Intanto il treno seguiva il suo destino lungo un binario. Il rumore del cammino monotono e soporifero mi comandò di chiudere gli occhi. Io obbedii senza fare storie. Dopodiché l’oscuro investì la mia coscienza. Capitolo 12 Sognai una luce che mi veniva incontro. Era così intesa che mi disturbava gli occhi. Ciò nonostante se ne fregava altamente della mia vista perché continuava ad avanzare inesorabile. In quello scoppio di luminosità c’era una figura che lentamente cominciava a distinguersi. Quando arrivò a circa un metro dai miei piedi non potetti credere a quello che mi si parava davanti. Era lui, non c’erano dubbi, un po’ cambiato per il meglio ma era lui. Scintillava di bellezza, tirato a lucido come non mai, Luciano, il mio caro amico defunto, mi sorrideva con un affetto che non gli vedevo da anni. Di slancio, per quella frustrata di emozioni, provai ad abbracciarlo ma agguantai solo il vuoto. Una simile scena si deve essere verificata tra Enea e suo padre Anchise. Senza pensare sparai la prima frase che mi passò per la mente: << Non ci posso credere! Sei tu Luciano?! Porca puttana stai benissimo e sei anche bellissimo. Ci voleva la morte a farti dare una ripulita! A proposito, quella trimona di tua madre è offesa con me perché non sono venuto al tuo funerale >>. << Lasciala perdere è rincoglionita, poverina. Mi ha sempre trattato come un coglione ed ora mi rimpiange. Se la dovessi trovare digli: “Luciano ti vuole bene ed allo stesso tempo ti manda a fanculo” >>. << Dove ti hanno messo? All’inferno? >> << Ma sei matto?! Se mi avessero escluso dal paradiso, il regno dei cieli avrebbe chiuso per sempre i battenti. Santo Dio! >> << Ma le bestemmie non sono peccato? >>. << No, non sono queste stronzate che fanno incavolare il grande capo. A meno che non si tratti di offese dirette e abbastanza volgari. Lui, le ingiurie nemmeno le prende in considerazione >>. << Raccontami, ci sono delle gran fighe in paradiso? >> << Certo, e sono tutte proprietà delle divinità. C’è più giustizia sulla terra che nell’aldilà. Almeno da voi gli stronzi primo o poi crepano, qua invece sono immortali e sono ancora più montati >>. << Hai visto per caso quel barbone capellone di Gesù?>> << Sì, ma si rasato completamente >>. << E di un po’ che tipo è? E’ un comunista sfegatato? >> << No so che carattere abbia. L’ho visto di sfuggita in una conferenza. Appare pochissimo in pubblico. Era poco presente sulla terra e lo è altrettanto meno in paradiso. No scherzavo naturalmente, finora ho solo detto una marea di cazzate. Qui il corpo non esiste. Tu mi vedi con il mio aspetto, solo per darti prova della mia identità. In realtà sono luce. Il corpo non è altro che un imballaggio che tiene incapsulate le nostre aspirazioni divine. Non hai nemmeno l’idea dello stato di beatitudine che si prova. Non sarei nemmeno in grado di spiegartelo. È una sensazione che si sente soltanto quando la vita giunge al capolinea. Volevo dirti una cosa, il nostro incontro non è casuale. Mi è giunta voce che ti volevi fare secco decapitandoti con il treno. Sono qui per farti respirare il senso della vita e per abbattere quella depressione che da un po’ di tempo non ti lascia tregua. Il senso della vita è l’amore. È molto semplice: la voglia di vivere risorge amando. Bada, quando parlo di amore non intendo quello spicciolo, ossia quello tra un uomo ed una donna. Intendo quello in senso lato. Quella forma di energia, sviluppata dalla fonte dei sentimenti migliori, che tiene in moto l’intero universo. È citato pure nella Divina Commedia: quando Dante fissa negli occhi Beatrice, raggiunge l’amore assoluto che si configura con il conseguimento di Dio. Dio infatti è sinonimo di amore e l’amore è sinonimo di vita. Quindi ti consiglio, appena ti svegli, di darti da fare ad amare. Apprezza tutto ciò che ti circonda e liberati delle parti oscure che ti attanagliano. Al di là di quello che ti capita diffondi amore e polverizza una volta per tutte l’odio, l’invidia, la pigrizia e via di scorrendo. Non ti chiedo mica di vivere come San Francesco, ma di superare quegli ostacoli di male che ci rodono il cuore. Ama anche te stesso perché l’amare se stessi è un’altra delle tante ramificazioni dell’amore. Perché secondo te chi tiene allenati il corpo e la mente vive di più? Perché ama se stesso e questo amore si traduce in un investimento di vita. Questo non vuol dire mica che tu non ti debba dedicare agli altri, anzi, quando hai la possibilità riversa quantità abbondanti d’amore senza farti scrupoli. Tanto l’amore non ha limite, può generarsi in maniera indefinita: eterno ed infinito e per l’appunto, come l’universo e Dio. Se agirai in questo modo aumenterai la speranza di vita e adornerai tutti i tuoi giorni con la voglia continua di vivere. In questo modo, sia pure in maniera molto sfocata, riuscirai a toccare la bellezza del divino. E poi non sentirti così solo: da qualche parte c’è qualcuna che ti ama ed attende il tuo amore >>. << Ah sì, adesso che ci penso l’altro giorno mentre camminavo, nei pressi di una fattoria, notai una pecora che mi fissava intensamente. Quasi quasi, la prossima volta che la incontro la metto a pecora e me la fiocino. Quella che hai detto mi sembra una gran cagata. Ma se non mi desiderano nemmeno gli scarafaggi? >> << Ma che cacchio vai dicendo?! Persino nei sogni ti ubriachi?! >> << No è che mi sembra una cosa assurda. Ma se lo dici tu, non mi resta che aver fede in Dio e nella chiesa >>. << Altra cazzata. La fede serve per far vivere una vita anti dissipazione a coloro che sono incapaci di autogestirsi, non per spianarti le porte del paradiso. Dio non guarda la dedizione che una persona impiega nell’adorazione, egli tiene conto che tu abbia rispetto verso il prossimo. Sai quanto gliene fotte che tu gli vada a leccare il culo? Cosa se ne deve fare l’entità più potente dell’universo della tua ipocrisia? Per chi cazzo l’hanno preso per un cretino rimbambito? D’accordo che ha un’età avanzata, ma cazzo mica soffre di alzaimer! >> << Okay ci credo. Ma toglimi una curiosità: se come dici tu ti trovi in uno stato di beatitudine molto avanzato, addirittura incomparabile con quello terreno, non farei prima ad uccidermi per raggiungere il tuo stato? >> << E qui viene la fregatura mio caro. Quando ti sveglierai non saprai mai se questo è un sogno oppure un’apparizione. Rimarrai col dubbio per il resto dei tuoi giorni. E questo ti spingerà a non commettere nuovamente la cazzata che stavi per compiere >>. << Cacchio, voi in paradiso ne pensate sempre una in più del diavolo! Ma non sei proprio capace di descrivermi quello che provi? Ed è mai possibile che sulla Terra nessuno sia mai stato capace di ottenere le tue stesse emozioni? >> << Io sinceramente a parole no ti so spiegare un bel niente. È indescrivibile perché valica quelle che sono i confini della ragione umana. È come se si tentasse di spiegare la teoria della relatività ad una cimice: è impossibile. In effetti qualcuno dalla Terra è stato capace di raggiungere Dio, ma si è trattato di casi eccezionali. Parlo di eremiti e di alcuni religiosi che con la meditazione hanno lacerato l’involucro corporeo per andare a ricongiungersi con le divinità celesti. Il Lama Itigilov è stato uno di questi. Bisogna avere soltanto un po’ di pazienza. La vita è imprevedibile e riserva, sia eventi negativi ma talvolta anche grandi sorprese. Addio! >>. << Cazzo e mi lasci così? Rimani un altro po’ con me, sono tre anni che non ti vedo >> << Uffa, che pizza! Non rompere con queste stronzate strappalacrime. Solo perché sono schiattato non è mica detto che tu debba essere triste. Sti cazzo di religiosi ci hanno condizionato il cervello spacciando la morte come un evento negativo. Sto alla grande, quindi non rompermi le palle, altrimenti ti faccio fulminare da Dio in persona. Scherzo ovviamente. Ricorda però le raccomandazioni che ti ho fatto e cercale di seguirle con il massimo impegno. Non rimpiangermi mai, tanto un giorno ci rivedremo e spero sia il più tardi possibile >>. << Allora ciao mio caro amico, non ti dimenticherò mai >> << E’ basta! Stai diventando veramente pesante! Se non la smetti mi materializzerò sotto forma di fantasma e verrò a spaventarti la notte a te e a tutti i tuoi familiari! >> E scomparve in un solo istante. Capitolo 13 Aprii gli occhi e dalla sommità del mio viso scorrevano rigagnoli di lacrime, il mio animo però rimaneva stranamente tranquillo, quasi beato. Forse qualcosa esisteva oltre questo marciume. Mi sentii sobrio e tutto intorno a me sembrava in silenzio. In realtà c’era un tran tran ininterrotto di brusii e frastuoni meccanici. Pensai a Luciano e a quello che mi aveva detto. Forse erano soltanto un mucchio di coglionate di un sogno senza senso, ma le coincidenze erano troppe. Tutto combaciava, non una parola fuori posto, non un argomento strambo. Dovevo crederci, non poteva essere il frutto della mia immaginazione. Inoltre era l’unico appiglio che mi rimaneva, se l’avessi lasciato sarei sprofondato nel baratro. Il treno fece capolinea alla stazione del paese, dove avrebbe dovuto salire Loredana. Cercai con gli occhi ovunque perché sentivo che quello era il giorno della mia rinascita ma le speranze furono vane. Nessuna pietà per un povero cuore sanguinante. Come al solito il bidone giornaliero non poteva mancare. Passerà un oceano di tempo, ma non la dimenticherò mai, è più probabile che una stella si muti in una nana bianca, piuttosto che si verifichi un affievolimento del suo ricordo. Ho capito che si è insinuata nell’anima. Anche dopo morto la terrò con me. Si era ormai ibernata nei miei pensieri raggelandomi il cuore ed era diventata come l’oro: preziosa e inossidabile nei miei ricordi. E sia pure l’avessi incontrata, cosa le avrei detto? Avrei trovato il coraggio, oppure l’emozione mi avrebbe giocato un brutto tiro? Se la sua presenza mi riempiva d’angoscia e di tensione, come avrei potuto reggere il suo ritrovo? Come il sole era lei: solo per pochi secondi potevo fissarla, dopodiché venivo accecato dalla sua bellezza abbagliante ed ero, con mio immenso rammarico, costretto a distogliere lo sguardo. Forse perché la ritenevo troppo affascinante per i miei standard. Come avrei potuto interferire ed inquinare la sua vita se aveva già raggiunto la perfezione senza di me? Sarebbe una profanazione al suo splendore. Quindi, l’unica risposta che mi davo, era che amarla mi risultava impossibile, perché temevo di violare la sua bellezza, sarebbe come stato togliere i petali ad un fiore. Tuttavia questi pensieri tristi non mi scoraggiavano; qualcosa da dentro mi spingeva a non desistere. Bisognava continuare e rimanere al proprio posto come soldati in un campo di battaglia. Andare senza bloccarsi mai, far finta che sia tutto a posto e mantenersi eretto come un pene. C’era una grande forza in me, un’energia mai provata prima che avrebbe lenito in ogni circostanza il dolore. Strinsi le mie mani e guardai il sole splendente che galleggiava nel mare del cielo. Sentivo il calore fin dentro i cromosomi. Lì c’era Dio che con uno dei suoi raggi infondeva speranza anche a me. Ora toccava a me renderla tangibile. Prima di entrare in aula incontrai Angelo che come al solito mi fermò e m’investì con un’ondata di parolacce: << Ma per tutte le chiaviche di questo emisfero! Ciro frocissimo! Da quanto tempo! Che cera di merda hai stamattina. Hai la faccia di uno che si vuole buttare sotto un treno >>. Sto cornuto ci aveva pure azzeccato. Stemmo a parlare per un po’. Gli spiegai dell’esame che avevo appena passato. Egli al posto di darmi dei cenni di assenso, diceva: “sticazzi”. Ad ogni frase era un “sticazzi”. Al ventesimo “sticazzi” persi la pazienza e gli feci: << Angelo misericordioso ma non sai dire nient’altro oltre a “sticazzi”?! >> << Certo. Sticoglioni! >> Dialogammo per altri cinque minuti e dovetti sorbirmi altrettanti “sticoglioni”. Dopodiché mi volle congedare, mantenendo sempre una certa raffinatezza: << Bé io devo andare. Salutami quella caimana di tua sorella e tutti li stramortacci tuoi! >> << Okay, ma tu ricordati di andare a fottere! >> Seguii le lezioni con l’attenzione di un radar e tornai a casa senza pensieri. Poi me ne tornai a casa meno affaticato del solito. Sulla soglia c’era Pecorone claudicante. Il suo pelo era sempre imbrattato di vernice spray. Lo accarezzai e lo strinsi forte. Ci capivamo, eravamo gli unici superstiti di un’immane dramma. Era venuto per essere consolato e per consolarmi. Me lo portai dentro casa, che ovviamente era deserta. Lo misi nella vasca da bagno fottendomene dell’igiene della casa. Tolsi ogni macchia con l’acetone, e man mano che l’inchiostro si estingueva l’attaccamento alla vita si accresceva. Poi lo lavai, lo asciugai e gli diedi da mangiare tutto quello che c’era nel frigo. Lui non fece storie ed ingurgitò ogni vivanda. Poi uscimmo nelle strade decorate dal sole. Ero fortissimo, un uomo d’acciaio indistruttibile. Mi sentivo nobile e superiore a tutti questi esseri spregevoli e carenti d’amore. Che pena provavo per loro. Era in fondo povera gente. Non capivano che il loro comportamento gli avrebbe fatti invecchiare precocemente e morire in un’esasperata insoddisfazione. Più rubavano dall’esterno e più si svuotavano da dentro. Che massa di deficienti schiavi inconsapevoli. Io no, sarei stato diverso ed in quanto tale mi sarei distinto diventando un pezzo raro e di valore. A un tratto vidi quel porco di Carlo passare mano per la mano con una ragazza. Ma guarda che razza di figlio di puttana. Prima ammazza poi si fidanza. Fortunatamente non mi vide. L’averlo scorto mi fece venire una gran nervosismo. Tornai a casa incazzato con la rabbia idrofobica e desideroso di fargli un torto a quella carogna. Una merda del genere non poteva rimanere libero, meritava come minimo la sedia elettrica. Era un peso quella prostituta uccisa che mi torturava come una malattia. Pensavo e non mi decidevo. Intanto il tempo correva nei miei tormenti. Dovevo fare per forza giustizia altrimenti tutti i propositi fatti poco prima non sarebbero serviti a un cazzo. Se però andavo a spiattellare tutto ai carruba avrebbero condannato pure me per complicità. In fondo avevo tenuto un segreto orribile che andava denunciato istantaneamente. Mi scolai quattro cicchetti di alcol puro misto a succo di frutta e, forse per la semi sbronza che avevo mi venne un’idea niente male. Aspettai le tre di notte, presi un bomboletta spray e mi coprii il viso con una sciarpa ed un cappuccio, come un black block. Andai sulla piazza principale e scrissi sulle mura di un palazzo che era in bella vista e che quindi potevano osservare tutti i passanti: l’assassino della prostituta è Carlo A***. Non fece in tempo nemmeno ad albeggiare che Carlo era già in stato di fermo. I carabinieri lo misero sotto torchio per otto ore per fargli sputare il rospo. Perquisirono la casa da cima a fondo e ritrovarono in un bidone l’anello nuziale della povera prostituta. Dopo tre giorni di interrogatorio incessante Carlo confessò il suo reato e fu sbattuto in prigione peggio di Al Capone. Solo allora mi resi conto di aver commesso una grande cazzata: i carabinieri stavano cercando colui che aveva scritto quella confessione sul muro. I giornalisti lo chiamavano il “rivelatore”. Ero spacciato, non avevo calcolato questa leggerezza. Iniziai a sudare freddo. Ogni qualvolta squillava il telefono o suonava il citofono mi saliva il cuore in gola perché credevo che i carramba si trovassero dietro la porta, pronti per prelevarmi. Invece il tempo passava ma non succedeva una mazza di niente. Di colpo, esattamente tre giorni dopo l’arresto di Carlo si venne a sapere il responsabile di quella scritta: era stato lo stesso Carlo. Egli mi volle per una volta salvare la pelle. Un briciolo di umanità c’è sempre anche nel maniaco più seriale. Confessò agli inquirenti che lui stesso aveva imbrattato quel muro, incolpando se stesso, perché i rimorsi della coscienza lo stavano sbranando. Fu ragionevole per una volta nella vita, oppure no. Può anche darsi che tutta la merda che aveva bevuto e fumato gli avesse talmente incatramato il cervello da non capacitarsi degli eventi accaduti poche ore prima. Forse nella sua follia più estrema si era immaginato che di notte fosse andato a verniciare quella parete ruffiana. Tuttora rimane ancora un mistero, tra quattordici anni quando uscirà di prigione probabilmente glielo chiederò. Se mi andrà glielo chiederò, perché c’è ancora una distesa di tempo da dover attraversare. Chissà quanti altri casini mi aspettano negli anni a venire. Quindi è meglio fare un passo per volta, tanto le cose avvengono un po’ per volta. Quello che conta è che quella disgraziata abbia avuto il suo riscatto, ora che la verità era venuta a galla poteva finalmente riposarsi in pace. Era infatti la prima volta che assistevo ad una vittoria del bene sul male. Poteva anche essere un segno divino, dal sogno di Luciano le cose pareva stessero volgendo per il meglio. Adesso non mi restava che archiviare quell’assurda violenza e cercare di coltivare la mia morale ed il mio grado intellettuale. Un senso per me la vita ce l’aveva e soprattutto non avrei più commesso la cacchiata di tentare di uccidermi né con droghe, né con alcolici e né tantomeno con dei treni arrugginiti. Camminavo e pensavo, e più camminavo e più mi rendevo conto che viviamo nella più totale anarchia, le regole e le leggi si polverizzano nei nostri impulsi animaleschi, perché noi non siamo altro che prigionieri della nostra strafottenza. Mi guardo intorno e scorgo la più immensa desolazione, un mondo immondo, nessuno che rispetta nessuno. Macchine parcheggiate su posti per disabili, macchine parcheggiate in doppia fila, macchine parcheggiate sui marciapiedi. Vogliono tutti prevaricare, c’è prepotenza ed arroganza dappertutto. La contraddizione, che sarebbe la madre della democrazia e della discussione, viene continuamente messa a tacere dalla violenza. Vedo due auto in fila indiana: carcasse di metallo lungo cordoni di traffico. All’improvviso quella che sta davanti frena, l’altra rischia di tamponarla. Volano bestemmie gratuite senza che nulla sia successo. Ma quella evidentemente deve essere la prassi, è il biglietto da visita della virilità. Chi non si serve della forza non potrà accertarsi la sopravvivenza della specie. Non c’è più niente da fare, siamo selvaggi con i panni di esseri umani. Sotto il balcone pende, attaccata ad un filo, una busta d’immondizia gocciolante. Appesa a quel modo pareva un punge ball. Se non fosse composta di sozzura, due ganci glieli avrei pure dati. Il responsabile di quel capolavoro non sapevo chi fosse, sicuramente trattasi di una mente balorda, che non ha nemmeno la voglia di alzare le proprie chiappe e portarle fino al cassonetto dei rifiuti. Una signora piena di se mi viene incontro fumando, è all’ultimo tiro. Appena terminata l’ultima boccata getta la sigaretta per terra, inquinando l’ambiente per almeno un paio di secoli. Mi si para poi davanti una schiera di cani stravaccati sulle logore strade. Sono loro il primo presagio di quanto si stia inselvatichendo la vita urbana. Hanno una faccia rilassata e non mostrano alcun disagio. Questo mi fa supporre che non è l’animale più simile all’uomo, ma è l’uomo che è più simile all’animale. C’è poi uno scheletro di un’abitazione, ancora forse in fase di costruzione, che una volta, nelle favole dei nostri amministratori, sarebbe dovuta diventare una scuola. È invece è ancora lì, in fase embrionale, senza intonaco, con i mattoni forati in bella vista; priva delle palpebre delle finestre e circondata da alberi spogli, che paiono anch’essi in fase di costruzione. Devo attraversare la strada, ma non c’è una sola automobile disposta ad arrestarsi per potermi fare passare. È una gara ad ostacoli. L’egoismo ha raggiunto picchi vertiginosi. Leggo negli occhi di chi m’incrocia una brama senza senso, una ricerca di benessere che non potrà mai essere soddisfatto, come un sacro Graal di un’ambizione introvabile. In questo trambusto mi cala addosso una stanchezza nuova. Dico che è nuova perché mi dà quasi una sensazione piacevole. È la ripugnanza del genere umano, ma contemporaneamente il distacco completo dal materialismo. Sto ragionando da sapiente. Forse ho raggiunto un livello superiore. Non mi entusiasma più niente, dato che m’imbatto di continuo con gli stessi comportamenti individualistici e patetici; ma nulla oramai mi pesa. Sono diventato leggero e per questo sereno: pulviscolo senza gravità. Tutta questa poltiglia di gente che s’affanna per briciole di ossa decrepite, mi fa pena. È per tale ragione la compatisco. Sono diventato finalmente tollerante. Forse un giorno riuscirò a domare la bestia della vendetta, per dedicarmi all’amore dell’odio. La fine è giunta alla fine è l’inizio è tornato al punto di partenza. Mi trovo un cammino lunghissimo da percorrere con l’itinerario tracciato dalla mia esistenza. Sarà il miglioramento di me stesso che tenterò di aggiornare nel tempo. L’auto perfezionamento risiederà in ogni frazione di secondo. Un obiettivo impossibile da raggiungere; ma proprio perché impossibile da agguantare, mi terrà attivo una vita. Cercherò ogni difetto nelle tenebre del mio essere; li metterò in luce e li curerò con la medicina della parsimonia. Dalla pazienza alla bontà, dalla cultura al mio aspetto. Su tutto veglierò e su tutto cercherò d’intervenire. Molti ritengono che il senso della vita è diventare qualcuno, niente di più sbagliato. Il senso della vita è ritrovare se stessi. Rincorrendo un’ambizione si finisce col dimenticare cosa compone l’essenza di ognuno di noi. Circondati da vari ambienti, che si contendono il conseguimento della meta sognata; si va incontro ad una miriade di perturbazioni esterne, che in un modo o nell’altro influenzano la nostra personalità, cambiandocela. Ecco che si viene a creare il conflitto: anche se l’obiettivo tanto sudato è stato raggiunto, si continua a rimanere abbattuti. Questo perché non c’è più rispondenza tra quello che eravamo, ossia le predisposizioni che abbiamo incorporate; e quello che siamo diventati, vale a dire la metamorfosi che abbiamo subito. Questo stato infelice ci porta nuovamente a muoverci verso un altro obiettivo, magari più difficile e perciò più doloroso da raggiungere. Così trascorriamo la nostra vita e così trascuriamo la nostra vita. Io sono del parere che tanto affanno è soltanto uno spreco di fiato. Non dà alcun rendimento perché è tutto fondato sull’illusione creata da un modello pubblicitario che ha suddiviso la società non più in classi ma in status. D’accordo il benessere, ma oltre una certa soglia non dà più frutti. È come se si tentasse di mungere una vacca con le mammelle svuotate. Rimanere un po’ fermi ci gioverebbe soltanto. Quindi in mezzo a tanto scempio mi posso ritenere uno dei pochi esseri che possiede dei sentimenti. Tutti soffrono, si preoccupano, combattono, piangono, cagano, ma la verità e che nessuno prova niente. Sono tutti una massa di attori, apatici senza memoria; peggio dei pc, perché almeno questi un po’ di memoria la possiedono, anzi è l’unico pregio che hanno. La gente vive la propria vita come se fosse un film: subiscono un trauma e devono sentirsi in dovere di recitare la parte degli afflitti e, magari, dopo qualche minuto hanno dimenticato qualsiasi preoccupazione. In verità sono più vuoti delle campane: se gli si bussasse si sentirebbe il rimbombo. Io almeno ho qualcosa di concreto. Pertanto anche se riceverò secchiate di male non gli darò scampo a questi stronzi. Anche se mi butteranno giù, mi rialzerò da terra come un gayser. Nella vita bisogna fare come le boe: farsi sommergere dal mare del dolore e poi, come se nulla fosse, riemergere dalle profondità ancora più intatti e più saldi di prima, nonostante i ripetuti scossoni provocati dalle onde della disperazione. La mia fine non è ancora arrivata, o per lo meno non giungerà per mano mia. Per adesso ho altro a cui pensare. Fanculo, si fottessero, non mi avranno mai. Luglio 2010 – Agosto 2012