Seconda lezione Tempo della storia e tempo del racconto Il tempo della narrazione, nel suo insieme, scorre in modo diverso da quello reale. In generale, la narrazione è composta da: – momenti in cui si imita la realtà, anche nella sua durata temporale: è la mimesi, costituita soprattutto dai dialoghi; – momenti in cui si racconta la realtà, attraverso la voce del narratore: è la diegesi, in cui il tempo scorre diversamente rispetto a quello reale. Questi due modi si alternano e si mescolano continuamente. Ma non c’è solo il rapporto tra la narrazione e il tempo reale (o esterno) da considerare: esiste anche la durata della storia. Una storia può durare qualche giorno, alcuni mesi o molti anni. Ha, cioè, una propria estensione temporale che si può ricostruire con esattezza se nel testo ci sono abbastanza riferimenti. Il tempo del racconto è invece il tempo – in genere più breve! – che occorre al narratore per raccontare la storia (e a noi per leggerla). Il narratologo francese Gerard Genette, per spiegare questo rapporto, ha usato il concetto di velocità. Nella definizione di Genette la velocità è data dal rapporto tra il «tempo della storia», cioè il tempo degli avvenimenti nel mondo narrato, e il «tempo del racconto», cioè il tempo effettivo di lettura della sequenza (o del gruppo di sequenze), che determina il ritmo della narrazione. Il ritmo della narrazione Il rapporto fra tempo della storia raccontata e il tempo che ci vuole per raccontarla può essere variato in molti modi, anche nello spazio di poche righe: la loro alternanza decide il ritmo della narrazione. In genere un ritmo narrativo serrato si basa su sequenze narrative agili e rapide, ricche di azione, e il tempo del racconto è inferiore al tempo della storia. Viceversa, in un ritmo lento e disteso, o comunque più statico, prevalgono sequenze descrittive e riflessive. Schematizzando, le principali possibilità di rapporto tra tempo della storia e tempo del racconto sono cinque: pausa o sospensione, analisi o ralenti, scena, sommario o riassunto (o anche condensazione), ellissi. Pausa o sospensione Il tempo della storia è fermo perché il narratore fa una pausa in cui commenta l’accaduto o descrive qualcosa o fa una digressione -> la vicenda non procede: effetto di stop. T9 Una buona digressione vivace Nel romanzo di Sterne Vita e opinioni di Tristram Shandy la digressione è la tecnica narrativa principale. (L.Sterne, Vita e Rileggendo dalla fine l'ultimo capitolo Lunga digressione del ed esaminando il tessuto della sua narratore stesura, mi rendo conto che è necessario venga inserita una buona quantità di argomenti eterogenei, per mantenere quel giusto equilibrio fra saggezza e follia, senza il quale il libro non resisterebbe un solo anno: né sarà una povera digressione furtiva (che se non fosse per il nome, non impedirebbe a nessuno di procedere opinioni di Tristram Shandy, [The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman], 1760) indisturbato sulla strada maestra del re) a servire allo scopo—no; se di digressione deve trattarsi, che sia una buona digressione vivace, dove né il cavallo né il cavaliere possano esser presi se non di rimbalzo. Analisi o ralenti Il tempo della storia è inferiore al tempo del racconto. Il narratore racconta l’azione minuziosamente e descrive molti particolari → poco tempo raccontato in molte pagine: effetto di rallentamento T10 Risveglio al mattino La prigioniera è il quinto volume dell’opera di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto (1923). (M. Proust, La prigioniera [La prisonnière], 1923) Al mattino, con la testa ancora girata verso il Indugio muro e prima di aver visto, al di sopra delle particolari grandi tende della finestra, di che sfumatura fosse la striscia della luce, sapevo già che tempo facesse. I primi rumori della strada me l’avevano detto, a seconda che mi giungessero smorzati e deviati dall’umidità o vibranti come frecce nell’area risonante e vuota di un mattino spazioso, glaciale e puro; sin dal passaggio del primo tranvai, avevo capito se questo era gelato nella pioggia o in partenza per l’azzurro. sui Scena Il tempo della storia è uguale al tempo del racconto perché è composto di azioni brevi o dialoghi -> il tempo del racconto è simile a quello della realtà: effetto di equilibrio T11 Gli uccelli Da questo racconto della scrittrice britannica Daphne du Maurier è stato tratto il film Gli uccelli, capolavoro di Alfred Hitchcock. (D.du Maurier, Gli uccelli [The Birds], 1953) Poco dopo i colpi ricominciarono, questa Azioni brevi volta più energici, più insistenti, e ora la moglie si svegliò anche lei e voltandosi nel letto gli disse: “Vai a vedere la battute di dialogo finestra, Nat, sta sbattendo”. “Sono già sceso a vedere,” disse lui “dev’essere un uccello che tenta di entrare. Senti il vento? Soffia da levante, e gli uccelli cercano riparo:” “Mandali via,” disse la moglie, “non riesco a dormire con questo chiasso.” Sommario o condensazione o riassunto Il tempo della storia è superiore al tempo del racconto. Un lungo periodo della storia è raccontato in breve, senza dettagli, come se fosse un riassunto -> molto tempo raccontato in poche pagine: effetto di accelerazione. T12 Ho seguito Avevo lasciato la città con l’intenzione di Le azioni si susseguono non tornarci più ed ero stata due anni velocemente nell’ufficio reclami di una compagnia aerea, a Roma. Finché, dopo il matrimonio, mi ero licenziata e avevo seguito Mario lì dove lo portava il suo lavoro di ingegnere. l'ingegnere Elena Ferrante è lo pseudonimo di una scrittrice (o scrittore) di cui si ignora la vera identità. (E. Ferrante, I giorni dell’abbandono, 2002) Ellissi Non c’è racconto ma la storia va avanti-> le vicende trascorrono ma il narratore non racconta nulla: effetto di salto. T13 La barriera di ghiaccio In questo racconto di fantascienza un cambiamento delle radiazioni solari ha diminuito la temperatura sulla Terra, provocando una glaciazione. (Arthur C. Clarke, Lezione di storia [History Lesson], 1949) Poi Shann alzò gli occhi verso sud, e tutte le È omessa una parte sue speranze caddero. Là, ai confini del della storia mondo, scintillava con un luccichio sinistro la stessa barriera di ghiaccio che tante volte aveva visto a nord. Non c’era scampo. In tutti quegli anni, i ghiacciai del Sud erano saliti incontro a loro, e presto la tribù sarebbe scomparsa sotto la mobile parete di ghiaccio... I ghiacciai meridionali arrivarono alle montagne soltanto una generazione dopo. In quell’estrema estate, i figli di Shann portarono i cimeli sacri della tribù alla piramide solitaria che dominava la pianura. Esercizio in laboratorio NON CI SONO PIU' LE STAGIONI DI UNA VOLTA..... Esercizio in laboratorio “Non ci sono più le stagioni di una volta “ sospira nonna Olga tirando dentro lo stendino dei panni. E' il 15 di agosto e non si ricorda di un'estate così piovosa da quella del del '46, l'anno della fine della guerra. “Eh l'agosto del '46” pensa” fu quando tornò il mi' poro babbo a piedi dal campo di prigionia in Germania. La mi' pora mamma ci manco' poco 'un le venisse un colpo quando se lo vide usci' dallo stradello che traversava il bosco!” Dopo ci furono anni di lavoro e di miseria, ma l'importante era essere tutti insieme. “Ora “ pensa Olga, “dopo tanti anni guarda come sono cambiate le nostre vite: Mi vedesse ora il mi poro babbo in questa casa grande, dove 'un ci manca niente, potesse guarda' dentro a questo frigorifero pieno di ogni ben di Dio!” E intanto comincia a tirar fuori la roba per fare il sugo: ecco..la carne macinata, i pomodori, la cipolla..”.oh dove l'ho messe le cipolle... povera me la testa non mi dice più il vero!” “Mamma… mammina ma ci vuoi stare un pochino ferma! Perché hai tirato fuori questa roba dal frigo?” “Come perché Anna, è quasi mezzogiorno e non ho ancora fatto il sugo. Fra pochino torna il babbo e non c'è niente di pronto!” “Su mammina stai bona, qui, davanti alla televisione. Guardiamo se casci e ti rompi il femore!” Anna sospira e lancia un'occhiata alla foto del povero babbo sul tavolo di sala e pensa che la vecchiaia è proprio una brutta bestia! Beatrice Putti 2 febbraio 2015 Stesso esercizio rivisto secondo le indicazioni sopra NON CI SONO PIU' LE STAGIONI DI UNA VOLTA Non ci sono più le stagioni di una volta. Era il 15 di agosto e pioveva forte. Nonna Olga tirò dentro lo stendino dei panni e si mise a piegare gli asciugamani con gesti lenti e precisi, intanto si guardava le mani. Nella geografia delle rughe, nei rilievi di vecchie cicatrici era racchiusa tutta la storia della sua vita. Olga ripiegò l'ultimo asciughino e si avvicinò le mani al viso. Sfiorò con delicatezza la macchia scura di una bruciatura, la cicatrice sull'indice sinistro, il callo sul polpastrello del dito medio dove per tanti anni aveva infilato il ditale. La fede all'anulare sinistro si era consumata e anche il dito sotto era più fino, ma le gonfiavano le nocche e l'anello ormai non veniva più via. Anna la vide immobile nel profilo della porta finestra. “Mamma che fai? A che pensi?” “Ti ho mai raccontato di quando il mi' poro babbo tornò a casa dal campo di prigionia nell'agosto del '46? Me lo ricordo come fosse ora! Sbucò dallo stradello del bosco all'improvviso.La mi pora mamma era fori a stende' i panni, proprio come me ora. Lo guardò e non lo riconobbe subito. Poi lui la chiamò “Anna! ”Manca poco 'un gli venne un colpo! “ Ma si mamma, me l'hai raccontata tante volte questa storia! Ormai la so' a memoria. Vieni, vieni qui nel divano , stai un pochino buona qui che devo uscire a fare la spesa. Vieni ti accendo la televisione!” Olga si mise a sedere mentre fra sé pensava che i giovani non hanno mai tempo per ascoltare i vecchi. Hanno sempre fretta., devono correre sempre da qualche parte, hanno sempre qualcosa di più importante da fare.. e poi sono sempre attaccati a quei maledetti telefonini...accidenta' a loro e a chi l'ha inventati! Poi si alzò e con piccoli passi malfermi andò in cucina perché era quasi mezzogiorno e non aveva ancora fatto il sugo. Fra poco sarebbe tornato Nello e non c'era niente di pronto. Non si accorse che il poro Nello la guardava con due occhi miti dalla foto in una cornice d'argento appoggiata sul tavolo di sala. BEATRICE PUTTI 3 FEBBRAIO 2015 Esercizio in laboratorio AL BAR − Eh sì, caro mio, ormai si so' rovesciati i poli, è tutto all'incontrario! − Arriva lui, ora, sembra che abbia scoperto l'acqua calda! − E 'un ho scoperto l'acqua calda, perché te la pensi differente? Gosto sta sbattendo il suo palmo sul tavolino solcato da impronte ad anello, impronte che non riescono a diventare evanescenti. Raccontano delle innumerevoli bevute di uomini, di anziani come lui. Con quei rimbombi cerca di dare forza alle sue teorie. Le vene sporgono dalle sue mani, violacee e pulsanti, descrivono un labirinto che cerca delle strade sui dorsi deformati dall'artrosi. Tutti i compagni al bar assomigliano ai due personaggi che sono appostati al tavolino del bar “Da Bebbe”. In loro si potrebbero riconoscere generazioni e generazioni di parolai, imbonitori, narratori da due soldi con una vena polemica sempre sul punto di aggredire l'interlocutore, e capaci di saltar su e dire la propria su ogni argomento. I bar si alimentano di questi personaggi, perché, si sa, danno colore locale, ma a volte i gestori, avendoli in abbondanza, vorrebbero eliminarli almeno per una sera. Due mesi dopo, stesso tavolino, stesso bar. − E come la mettiamo ora che questo luglio fa caldo e c'è il sole come dev' esse? Come la metti con le tue previsioni, eh, Bernacca? Lucia Burzi lezione 2/2/2015 Stesso esercizio rivisto secondo le indicazioni sopra NON CI SONO PIÙ LE STAGIONI DI UNA VOLTA Un primo pomeriggio come tanti altri ce ne sono. L'anta trasparente della porta si apre ed entrano due giovani, barbette leggere e definite accuratamente, abiti blu e grigio; entrano cedendosi il passo disinvolti e ordinano i caffè. Sembrano quasi indifferenti alle due ragazze che stanno finendo i loro panini squittendo sui seggiolini a trampolo, poi però, scusate, possiamo, e si insinuano tra di loro, e così poggiano le tazzine sulla mensola addossata alla parete. L'angolo più luminoso è colonizzato, come al solito, dal gruppetto chiassoso dei lavoratori, edili gommisti giardinieri, in pausa pranzo, con i loro giubbotti pesanti e i berretti di lana a coste, che non è il caso di togliere per così poco tempo; ridono forte e si scherniscono, vociano a sovrastare lo schermo della televisione che sta in alto, proprio sopra di loro, e manda a ciclo continuo litanie di video musicali, che se stai alla distanza giusta, metti al bancone, possono ipnotizzarti per ore. Ma per andare in bagno, allora devi passare proprio di lì, allora bisogna andare verso la parte più buia del locale, prosegui e il vano si restringe quasi a formare una stanzuccia e da lì, appunto, c'è l'ingresso al wc. La luce è ambrata, per via delle lampadine sempre accese sulle pareti ocra, con i loro paralumi a parete un po' sghembi, che d'altronde concordano con i quadretti non perfettamente a squadra: riproduzioni di cani da caccia, folaghe pettorute e fagiani già accasciati nel carniere, cacciatori con i pantaloni dentro gli stivali e la penna sul cappello. Poi c'è la sezione sportiva, con le foto della squadra del quartiere dagli anni '60 in poi, in cui si riconoscono i progressivi cambiamenti della tecnica fotografica e dello stile delle divise. L'angolo delle celebrità forse è un po' modesto, dato che annovera due foto del gestore di allora, una con Tony Dallara, con su il fregio della firma obliqua, e una con Giancarlo Antognoni, con i suoi occhi sbarrati e increduli. Una retrovia, si direbbe, quasi sempre presidiata da due coppie di anziani ai rispettivi tavolini. In loro si potrebbero riconoscere generazioni e generazioni di parolai, narratori da veglie, imbonitori, retori popolari in vena polemica sempre sul punto di aggredire l'interlocutore, e capaci di saltar su e di dire la propria su ogni argomento. -E io ti dico che si so' rovesciati i poli, che è tutto all'incontrario! -Arriva lui, ora, sembra che abbia scoperto l'acqua calda! -E 'un ho scoperto l'acqua calda, perché te la pensi differente? Gosto sta sbattendo il palmo della mano sul tavolino solcato da impronte ad anello che non riescono a diventare evanescenti, nonostante i lavaggi. Con quei rimbombi cerca di dare forza alle sue teorie. Le vene sporgono dalle sue mani, violacee e pulsanti, descrivendo un labirinto che cerca delle strade sui dorsi deformati dall'artrosi. Si alza spazientito, e sentenzia: -No, che 'un ci so' più le stagioni di una volta! Si siede all'altro tavolino, forse lì la conversazione gli renderà giustizia. -Se Togliatti 'un c'avesse fermato, sarebbe stato il finimondo! -Ma figurati, se 'un c'avessero aiutato l' americani, si sarebbe sfasciati come all' est! - Guarda che il meglio ci s'è avuto noi, come Berlinguer 'un ce n'è più stati! -Perché Moro ti sembrava un bischero? Soltanto che era troppo bono, ecco quello che era! Per questo l'hanno fatto fori! Prova una specie di vertigine, gli sembra che i suoi compagni vengano risucchiati come da un vortice del tempo, come quello che si vede nei vecchi film di fantascienza e ti trasporta indietro in un'altra dimensione. Il suo istinto di sopravvivenza lo fa alzare anche da quella sedia. -Ma lo volete capì che un ci so' più le stagioni di una volta? E' meglio prendersi un caffè, con una correzione abbondante magari. Si avvicina al bancone e fa l'ordinazione. E' arrivata l'Angelina, la ragazza che fa il turno di pomeriggio. Si sta mettendo ora ora il grembiulino bianco, lo stringe intorno ai fianchi, seguendo il bordo dei pantaloni aderenti che lasciano scoperto un ventre teso e rotondo. Qualcosa occhieggia dalla chiocciolina dell'ombelico. Gosto non può sottrarsi dal frugare con gli occhi, sì, è una perlina d'argento, uno di quegli abbellimenti che mettono oggi, come fosse necessario per indirizzare lo sguardo proprio lì. E d' un lampo si sovrappongono immagini di altri fianchi, bianchi e sodi, come una carrellata inarrestabile proiettata in testa suo malgrado, flash, dissolvenze, e di nuovo bagliori di ricordi di altre nudità. Ma sarà stato più di cinquant'anni fa, allora era difficile incontrarsi, e bisognava farlo di nascosto, nel granaio per esempio, o nella stalla, con la scusa di fare dei lavori. Ma si prendeva così la vita, per quello che poteva dare. E Maria … aveva la pelle così liscia... Gosto alza lo sguardo sulla parete al di là del bancone, il lungo specchio che sporge obliquamente in avanti gli rimanda il volto di un uomo anziano nel quale immediatamente non si riconosce, finché non si guarda negli occhi, in quell'azzurro che, rimasto immutato nel tempo, è l'indizio per un' inequivocabile agnizione. Angelina ha sollevato le braccia per cercare il liquore nella mensola alta, e così ancor di più la maglietta e i pantaloni non combaciano; lungo la scanalatura subito sotto il fianco emergono due leggere ali tatuate, che fanno immaginare nella parte coperta che so, una fata, un elfo o una farfalla. “No, non sono più le stagioni di una volta, ”pensa Gosto” e beato chi si può godere queste primavere!” Lucia Burzi Febbraio 2015 Esercizio in laboratorio Alzò, lentamente, la serranda della sua bottega, oggi aveva da riparare molte scarpe ma il pensiero era lontano da lì; la sua mente era affollata da mille immagini legate agli vissuti in Sicilia. Sentiva i rumori del vicolo dove era vissuto con la sua famiglia in una abitazione disadorna, gli sembrava di sentire sulla pelle la calda luce del sole e le narici si riempivano del profumo salmastro del mare mentre al suo udito arrivava il dolce rumore delle onde del mare. Quando dei passi decisi lo riportarono alla realtà, ”Buongiorno Antonio, ho portato un paio di scarpe da riparare” “Maria le metta sul tavolo” “Per quando saranno pronte”? “Ripassi domani” Maria chiuse la porta ed Antonio a malincuore riprese a lavorare. Prese in mano un paio di scarpe bianche, piccole, senz'altro di una bambina. Ora ricorda, sono le scarpe di Elisa, una bambina di circa 6 anni, con un viso birichino e illuminato da vivaci occhi azzurri, che viene sempre accompagnata dalla nonna. Elisa, quando entra nella bottega è sempre sorridente e cortese, abita lì vicino da pochi anni, proviene da una città del nord Italia, dopo la morte del babbo si è trasferita con la mamma a casa della nonna. Queste piccole scarpe in mano gli fanno ricordare la sua infanzia, si vede giocare ,spensierato, sulla spiaggia, tuffarsi nelle onde del mare e con un nodo alla gola si ricorda di quando, molti anni fa, ha preso la decisione di lasciare la sua terra per costruirsi una vita migliore Valeria Rocchi Stesso esercizio con indicazioni sopra “Buongiorno Antonio, ho portato un paio di scarpe da riparare, ne avrei bisogno quanto prima” “Maria ,lei ha sempre fretta… le metta sul tavolo e vediamo di accontentarla” “Allora, qual è la sua risposta ?” “Vedrò di farle per domani, anche se ho molto lavoro da svolgere prima di lei” Maria era una persona anziana che viveva lì vicino , sua cliente da vari anni, aveva sempre fretta… come se il tempo le stesse sfuggendo di mano, forse è proprio così...con il passare degli anni occorre fare i conti con il tempo che passa e la mente va spesso ..all'indietro... Questa visita, di prima mattina, aveva interrotto il suo lavoro iniziato con poco entusiasmo, stava riparando un paio di scarpe bianche, di piccole dimensioni, mentre la mente cercava di ricordare a chi potevano appartenere, i suoi pensieri lo hanno portato lontano, nella amata Sicilia, quando era un bambino vivace e spensierato; ricorda il piacevole tuffarsi nelle calde acque del mare, la carezza sferzante dei flutti sulla pelle ,lasciandosi piacevolmente trasportare dalle onde, come gli sembrava bella e facile la vita.. Da molti anni viveva in Toscana con la sua famiglia e ripensa, con un nodo alla gola, quando ha preso la sofferta decisione di lasciare la sua terra per assicurarsi un futuro più dignitoso, senz'altro non era pentito di ciò, ma una parte di se stesso era rimasto là dove era nato. Ogni tanto era piacevole farsi invadere da queste emozioni, era come riconoscere e dare valore ad una parte di se stesso che forse, troppo spesso, tentava di nascondere nel profondo dell'anima. Riprese in mano le piccole scarpe bianche e davanti agli occhi gli sembrava di vedere il visino curioso e paffutello di Elisa ”ecco di chi erano le scarpe” mormorò tra se. Questa bambina di circa sei anni, veniva spesso nella sua bottega accompagnata dalla nonna ,con la quale viveva insieme alla mamma dopo la morte del padre, questo lutto sembrava aver lasciato nei suoi occhi una luce malinconica che veniva attenuata da un sorriso radioso e da una risata cristallina. Valeria Rocchi Esercizio in laboratorio NON CI SONO PIU' STAGIONI DI UNA VOLTA Doveva cambiare casa solo questo gli aveva detto suo figlio. Un alloggio più pratico e funzionale. Due valige avrebbero dovuto contenere la sua vita. Non sapeva decidere, così chiese a suo figlio di farlo per lei, le veniva chiesto di lasciare ciò che le era più caro, non aveva alcun senso per lei scegliere ciò che non le interessava. Si occupò solo di una scatola. Prenderò la scatola di cartone quella più leggera con le scritte di quelle pubblicità che andavano di moda quando era piccola la nonna. La tirò fuori dall'armadio dove l'aveva custodita con cura per anni, così come l'aveva visto fare alla mamma e alla nonna. La posò sulla scrivania, prese un panno morbido e lo passò sopra sotto davanti e dietro alla scatola poi fece scattare la chiusura. Prese la tazza del té e lo sorseggiò assaporando lentamente il gusto delicato e allo stesso tempo corposo, posò la tazza nel lavandino e solo allora si sedette e aprì la scatola. Suonò il campanello ed andai ad aprire la porta senza chiedere chi era. -Ciao mamma, come stai? Sei pronta? - Si devo solo chiudere una valigia e sarò subito da te Andai in camera mentre mio figlio caricava in macchina il primo bagaglio. Presi la scatola di cartone che avevo avvolto con un foulard di seta e lo riposi nascosto tra i vestiti per essere sicura che non si rovinasse. Feci appena in tempo quando mio figlio mi raggiunse - se vuoi ti aiuto a chiuderla -si grazie. Puoi portarla giù insieme all'altra -Vedrai ti troverai bene - Se lo dici te. Era un venerdì di sei mesi prima quando mio figlio venne a darmi la notizia. Lo ricordo bene perché era giorno di mercato, stavo uscendo quando vidi arrivare la sua macchina, strano pensai oggi non è domenica, deve essere successo qualcosa. Entrò mi fece togliere il cappotto e ci sedemmo sul divano. Parlò per un'ora circa mentre si guardava intorno e toccava gli oggetti che erano sempre stati lì. Alla fine capii che dovevo lasciare la casa dove avevo vissuto con mio marito e cresciuto i miei figli, e portarmi poche cose, una ladra in fuga. Salimmo in macchina e partimmo. Durante il tragitto non si scambiarono neppure una parola, solo qualche rapido sguardo. IL viso rivolto davanti sulla strada nel vuoto. Chissà quale nuova stagione l'attendeva. Elena Negro Esercizio rivisto secondo le indicazioni sopra La mamma uscì per prima di casa, impiegò circa dieci minuti per percorrere i due metri che separavano l'auto dalla sua casa. Nella testa rimbombavano echi di voci e rumori, forti poi deboli, le immagini, nitide poi sfocate, andavano e venivano. Ogni tanto alzava il capo davanti a sé e con la mano dava piccoli colpetti nell'aria, anche la strada si sdoppiava, si fermava, non sapeva quale prendere. Passo dopo passo, alla fine si trovò davanti l'auto dove si ancorò con tutti e due i bracci. Alzò la testa e vide suo figlio al posto del guidatore, aveva contracchiavato la porta di casa, aspettò che salisse e con un 'altra chiave e una sola mandata accese l'auto. Aveva potuto portare con sé solo due valigie che aveva fatto preparare a suo figlio, doveva lasciare ciò che le era più caro non le interessava scegliere quello che non le interessava. Si occupò solo della scatola di cartone che aveva custodito con cura nell'armadio come sua nonna e la mamma prima di lei. L'aveva spolverata , guardato e sistemato il contenuto prima di richiuderla. Durante tutto il tragitto non si scambiarono neppure una parola solo qualche rapido sguardo. Nel resto del tempo il viso era rivolto sul lato destro della strada, con gli occhi sgranati vide la sua vicina rientrare in casa, quante chiacchierate insieme, il fioraio dove acquistava i mazzolini prima di andare a trovare suo marito, e ancora il supermercato, il bar, il macellaio, anche il nipote del migliore amico di suo marito che giocava a palla in giardino, lei era la sua madrina. Pensò che era stata scortese con tutti loro non era passata a salutarli. Successe tutto in fretta, troppo. Era un venerdì di sei mesi prima quando mio figlio venne a darmi la notizia. Lo ricordo bene perché era giorno di mercato, stavo uscendo quando vidi arrivare la sua macchina, strano pensai oggi non è domenica, deve essere successo qualcosa. Entrò mi fece togliere il cappotto e ci sedemmo sul divano. Parlò per un'ora circa mentre si guardava intorno e toccava gli oggetti che erano sempre stati lì. Alla fine capii che dovevo lasciare la casa dove avevo vissuto con mio marito e cresciuto i miei figli, e portarmi poche cose, una ladra in fuga. Suonò il campanello ed andai ad aprire la porta senza chiedere chi era. -Ciao mamma, come stai? Sei pronta? - Si devo solo chiudere una valigia e sarò subito da te Andai in camera mentre mio figlio caricava in macchina il primo bagaglio. Presi la scatola di cartone che avevo avvolto con un foulard di seta e lo riposi nascosto tra i vestiti per essere sicura che non si rovinasse. Feci appena in tempo quando mio figlio mi raggiunse - se vuoi ti aiuto a chiuderla -si grazie. Puoi portarla giù insieme all'altra -Vedrai ti troverai bene - Se lo dici te. Il figlio accese la radio in macchina , la musica riepì il silenzio e interruppe i pensieri. Guardò il cruscotto della macchina e il display dove scorreva una scritta con le informazioni della stazione radio, poi si guardò fuori dal finestrino muoveva la testa a scatti in cerca di qualcosa di familiare, ma ora c'era una fila lunga di alberi verdi unica striscia di colore nello sfondo brullo delle montagne e il grigio della strada. Si girò verso suo giglio e accennò un sorriso, ma lui mosse solo il braccio per cambiare la marcia. Le stagioni non sarebbero più state come una volta, niente sarebbe stato come una volta. Elena Negro Esercizio laboratorio NON CI SONO PIU’LE STAGIONI DI UNA VOLTA I lampeggianti della polizia illuminavano la strada. -Ispettore Russel mi faccia passare, sono il medico legale- Con passo lento, facendo attenzione a non smuovere i segnalini che la polizia aveva posizionato e a non toccare le macchie di sangue sul pavimento, esattamente come fanno i gatti mettendo lentamente un piede dietro l’altro e appoggiando prima la parte esterna della pianta e solo dopo il piede tutto intero, Catherine Licata, medico legale di nuova nomina, si avvicinò al cadavere. Era stata una bellissima donna quella che stavano per caricare sull’ambulanza chiusa in un sacco di plastica. Elène si chiamava. Qualche anno prima l’avevano eletta Miss Eleganza. Poi due anni fa aveva conosciuto Claude e se ne era innamorata. Tre mesi dopo l’aveva sposato. Senza conoscerlo. Subito Claude aveva dato i primi segni di gelosia furibonda. Vedeva pericolosi rivali dappertutto. Purtroppo molti uomini non riescono ad adattarsi ad un rapporto paritario con la loro donna e cercano di riprodurre quei comportamenti che hanno visto attuare dai loro padri. Catherine Licata pensò al suo compagno, a come l’amava e la rispettava. -Ma solo all’apparenza – disse fra sé – in fondo mi controlla anche lui. Non c’è niente che lui non sappia di me. Non c’è niente che io non riesca a non dirgli.In quel momento vide Claude nella macchina della polizia che partiva per portarlo alla Centrale. In aula, quando il giudice lesse la sentenza che lo condannò a 10 anni di galera, Claude rimase immobile. Sembrava che la cosa non lo riguardasse. Catherine lo avvicinò: aveva bisogno di chiedergli – perché?Claude la guardò inebetito, gli occhi da folle – Piccola stupida – le disse – le cose devono continuare come sono sempre andate- non sarai tu a cambiarle. Oggi tutto è diverso, NON CI SONO PIU’ LE STAGIONE DI UNA VOLTA…. Non è giusto!!! Andata tutto così bene prima……Maria Paola Ruffoli Stesso esercizio secondo indicazioni sopra NON CI SONO PIU’ LE STAGIONI DI UNA VOLTA I lampeggianti della polizia illuminano la notte. - Ispettore Russel mi faccia passare – sono il medico legale. L’ispettore Russel guardò Catherine Licata, medico legale di nuova nomina, bionda, diafana, con il naso leggermente aquilino e le labbra sottili. - Non è bella – pensò –ma mi piace - Ispettore Russel si tolga di mezzo e mi lasci analizzare il cadavere”- ripetè Catherine. - Ma allora è anche stronza- pensò l’ispettore – così giovane e vuole comandare me che ho vent’anni di carriera alle spalle.... La donna stesa per terra morta avrà avuto si e no trent’anni. Lei si che era davvero molto bella, per chiunque l’avesse guardata, anche da morta. La bellezza non dipende dalle circostanze: la bellezza è bellezza e basta. Ci si possono sommare altri fattori, anche orrendi: la sofferenza, lo spavento, il terrore… Ma la bellezza non può mai essere sottratta se c’è…. La si intuisce, la si riconosce sempre…. Il tepore di quella fine di novembre fece pensare a Catherine Licata che LE STAGIONI NON SONO PIU’ QUELLE DI UNA VOLTA, ma gli uomini sono sempre, fondamentalmente, quelli di sempre. L’auto della polizia sgommò portando via l’assassino, l’ennesimo compagno che non aveva saputo rassegnarsi ad essere lasciato dalla sua donna. Catherine guardò la folla di curiosi che si accalcava vicino alla scena del delitto. I suoi occhi si posarono su una donna piccola e magra con le fosse sotto gli occhi, poi il suo sguardo si spostò lentamente su un’altra più giovane e infine si fermò su una poliziotta. Donne. Ad ogni donna che osservava si domandava quale storia ci fosse dietro, quante di queste avessero compagni solo apparentemente normali, ma in realtà violenti. E sul cadavere per terra vide i loro volti. Immersa nelle sue divagazioni, le sembrò che fosse passato un secolo, quando l’ispettore Russel la chiamò – Dottore ma che fa? Si è incantata? Ora è lei che deve lasciarmi passare…- Queste donne – pensò l’ispettore – non hanno più rispetto per gli uomini…Ma a lui non passò neppure lontanamente per la grancassa del cervello che lui l’aveva chiamata “dottore “ e lei era una donna… Maria Paola Ruffoli Esercizio in laboratorio VITTORIA DOPO VITTORIA Osservava il parco fuori dalla finestra, era ricoperto di uno strato ghiacciato. A lei il caldo toglieva il respiro. Pensò che anche le stagioni si fossero invertite là dentro. Sentiva il rossore pulsarle sulle guance e le orecchie mentre un velo di sudore le appiccicava il vestito. Aveva dovuto chiedere un permesso speciale al direttore per poter indossare i suoi meravigliosi abiti di seta, chiffon, gabardina e lino. Ed era stato necessario l’intervento del neurologo. - Dusnella è molto legata alle sue abitudini. - Anche gli altri. Sa quante richieste ho avuto per poter portare qua dentro cani, gatti, canarini. - Mi permetto, ma è diverso. Nel caso di Dusnella è veramente rilevante per il suo equilibrio psichico, mantenere un aggancio con la sua vita, mano a mano che la malattia progredisce. Alla struttura in fine dei conti non costa nulla. - No, ma non è corretto nei confronti degli altri degenti. - Suvvia. La paziente rimane sempre nella stanza, anche per mangiare. Gli occhi neri di Dusnella luccicavano a pensare a quella vittoria, piccola ma importante. Vittoria era stato il nome di sua figlia, della sua unica figlia. Vittoria dopo vittoria si era conquistata la vita. Prima la partenza da quel paese polveroso e povero del sud. L’arrivo a Milano insieme alla madre, l’infanzia in quel garage, senza finestre ma con un vaso di margherite fresche sempre sul tavolo. L’incontro con Angelo. La fatica di conquistarlo. Poi erano arrivati la villa, i vestiti, i gioielli e poi e poi … tutto svaniva, le si annebbiava la mente e si perdeva per ore in una ruga del soffitto. Bussarono alla porta - Dusnella è arrivata la tua estetista. Sorriso. - Sei pronta per farti bella? Sorriso immobile. - Dai tesoro, guarda quanti smalti ti ho portato. Quale scegli? Dusnella si guardò l’abito. Era a pois rossi e neri. Con un movimento quasi rapace, spostò lentamente gli occhi tenendo immobile la testa, sulla boccetta carminio. Lucia Cosci Esercizio con indicazioni sopra VITTORIA DOPO VITTORIA Da due ore stava fissando fuori dalla finestra. Si era persa nel reticolo di ghiaccio che quel mattino stringeva il prato, i rami dei tigli, il marciapiede in cemento intorno all’edificio e il vialetto di ghiaia. Tutto un unico ricamo. Passarono dietro ai vetri alcuni fiocchi di neve, soffiati dal vento. Di colpo si ricordò di Milano. Aveva sei anni. Era da poco arrivata con la mamma. Avevano lasciato quel paese del sud polveroso e povero. Milano era piena di case, di gente, di bambini, di negozi e cani al guinzaglio. - Mammina perché abbiamo la saracinesca per entrare in casa? - Stiamo più al sicuro, come l’automobile di don Peppino giù al paese. - Ma mamma non ci sono finestre. - Sentiremo meno freddo in inverno e meno caldo in estate. Non era vero. Ma almeno la mamma sistemava ogni settimana dei fiori freschi sul tavolo, margherite, giunchiglie, rose, crisantemi, a seconda della stagione. La prima mattina in cui aprendo la saracinesca Dusnella vide la neve saltellò e corse e rise e prese la mamma per mano e scivolarono tutt’e due con il sedere a terra. Poi si incamminò verso scuola. Doveva percorrere due chilometri a piedi, di cui buona parte in mezzo ai campi. La neve scendeva giù mista ad acqua e la poltiglia che si era formata in terra aveva creato un blocco di fango intorno ai suoi stivali. - Dusnella viene dal sud, è una sudicia – le aveva detto una compagna di classe davanti agli altri. E tutti in coro le gridavano “sudicia sudicia sudicia” e giù scrosci di risa. Il caldo dei termosifoni in ghisa le stava togliendo il respiro tanto che sentiva il rossore pulsarle sulle guance e le orecchie. Anche le stagioni si erano invertite là dentro. Tirò la cordicella appesa al muro per chiamare l’infermiera. - Dusnella che c’è adesso, cara? Lei prese a stropicciare il vestito che aveva indosso. Si era appicciato alla pelle. Non poteva rischiare di sciupare proprio quello, l’abito di gabardina del suo colore preferito, verde petrolio. - Allora Dusnella che hai stamani? Lei continuava a rigirare il vestito come poteva con le mani secche e indurite. - Hai prurito? Sarà ancora il fuoco di Sant’Antonio. Hai la fronte tutta sudata. Così tirava giù i lembi del vestito, con tutta la poca forza che aveva. - Ho capito, ho capito, te lo cambio. Per poter indossare i suoi bei vestiti aveva dovuto chiedere un permesso particolare, con l’intervento del suo neurologo: - Dusnella è molto legata alle sue abitudini. - Anche gli altri – aveva risposto il direttore - sa quante richieste ho avuto per poter portare qua dentro cani, gatti, canarini. - Mi permetta, ma è diverso. Nel caso di Dusnella è veramente rilevante per il suo equilibrio psichico, mantenere un aggancio con la sua vita, mano a mano che la malattia progredisce. Alla struttura in fine dei conti non costa nulla. - No, ma non è corretto nei confronti degli altri degenti. - Suvvia. La paziente rimane sempre nella stanza, anche per mangiare. Gli occhi neri di Dusnella luccicarono a pensare a quella vittoria, piccola ma importante. Vittoria dopo vittoria si era conquistata la vita. Vittoria era il nome di sua figlia, della sua unica figlia. Bussarono alla porta - Dusnella è arrivata Sonia – le disse l’infermiera. Sorriso. Quando quattro anni prima era arrivata a Villa Paradiso, aveva legato subito con Sonia. Perché era soda e bionda, con un tratto di eyeliner sugli occhi come Audrey Hepburn. Non le chiedeva mai del suo passato e non guardava con curiosità il suo anello di rubini o la collana di ametiste. Sonia era l’estetista. Le faceva la ceretta, la manicure, la pedicure, le sopracciglia, le metteva i prodotti antirughe. Insomma tutti quei gesti necessari per una donna, anche se vecchia, anche se confinata in una casa di riposo. Così tra una lozione, un massaggio, una passata di acetone e un pediluvio alla menta, Dusnella aveva raccontato a Sonia pezzi della sua vita. Di quando aveva conosciuto Angelo, lei frequentava il coro della chiesa e lui era l’imprenditore che aveva fatto ristrutturare il campanile. Che fatica era stata conquistarlo. Chiedere all’amica parrucchiera di mamma di arricciarle i capelli, gli abiti presi in prestito dalla zia che stava in via Brera, le scarpe rimediate con il pennarello dove la pelle si era sciupata. Ma poi era stata ripagata. La casa di fronte a palazzo Pitti, i vestiti, i gioielli, l’Alfa rossa decapottabile, la villa a San Remo e le serate di bridge…e poi sempre più spesso tutto svaniva, le si annebbiava la mente e si perdeva per ore in una ruga del soffitto. - Sei pronta per farti bella? – le chiese Sonia Sorriso immobile. - Dai tesoro, guarda quanti smalti ti ho portato. Quale scegli? Dusnella si guardò l’abito. Era a pois rossi e neri. Con un movimento quasi rapace, spostò lentamente gli occhi tenendo immobile la testa, sulla boccetta carminio. Lucia Cosci esercizio in laboratorio LE STAGIONI NON SONO PIÙ QUELLE DI UNA VOLTA Il primo giorno di scuola, la sua giovane mamma e quelle del vicinato accompagnarono lui e gli altri bambini suoi coetanei al primo appuntamento importante della vita. Non era caldo, però c’era il sole, quello quieto dell’autunno, sulla strada persistevano alcune pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte. Tutti erano allegri, grandi e piccini, il giorno era di quelli fatidici, ma non sembrava. Dal muro di un giardino vicino casa sua, sporgevano i cachi di colore arancione, ancora non ben maturi ma che già facevano venire l’acquolina in bocca a guardarli. Un tocco deciso di colore nel panorama già ricco dell’autunno. “Ancora non sono stati raccolti” disse una delle signore. “Ancora no” ribatté sua madre, che poi si rivolse ai bambini specificando: ”Il proprietario, ogni anno, quando pensa che sia il momento giusto, li coglie tutti, con delicatezza e li mette in fila uno accanto all’altro lungo quel cornicione in mattoni che circonda la sua casa. Dice che solo così maturano perfettamente per essere mangiati. Altrimenti, se lasciati nella pianta, non sarebbero mai commestibili e le prime brinate li rovinerebbero irrimediabilmente”. Tutti sembravano interessati ed un’altra mamma commentò: “Quella casa, ogni anno, nel periodo in cui è circondata da quella cintura colorata è proprio buffa !”. Durante il tragitto per la scuola sua madre gli fece conoscere il bottegaio che gli avrebbe dato tutte le mattine la colazione per diversi anni. Quando arrivarono davanti alla scuola lui si fermò a guardarla pensieroso, era così solenne e misteriosa. Sua madre lo lasciò con una carezza ed uno sguardo dolcissimo, promettendo che all’uscita sarebbe stata lì ad aspettarlo. Conobbe la maestra, la seconda donna indimenticabile della sua vita dopo la mamma. Seguirono giorni di scoperte continue. Il passare del tempo scandito dalle date fondamentali. I preparativi per la recita di Natale, l’albero fatto con il cotone colorato appiccicato alla finestra. Le vacanze, i dolci e poi la befana, l’unico giorno dell’anno, oltre al compleanno, in cui si ricevevano doni. La neve, i coriandoli e poi l’uovo di Pasqua ed ancora dolci, però quelli di Pasqua, diversi da quelli del Natale. Piano, piano, tornò il verde sugli alberi, sui balconi, nei campi ed era primavera, poteva vestire più leggero e colorato. L’estate con la gioia della vacanza arrivò prima di quello che pensasse. Venne il viaggio per la villeggiatura, atteso per tutto l’anno. Solo in estate si viaggiava, tutti insieme. Passò l’estate e tornò la scuola. Tutti gli anni seguenti furono così, regolarmente governati dalla stessa cadenza di eventi. Ora si trovava sul quel divano un po’ sformato dall’uso, relegato in un angolo in fondo allo studio, e mentre nella sua mente scorreva il film della sua vita, fuori della finestra vedeva gli effetti di un grigio pomeriggio piovigginoso come molti altri di quel luglio definito anomalo in tutti i telegiornali ed in tutti i bar. Era solo perché doveva lavorare, mentre la moglie era al mare con la madre. I figli dove erano ? Chissà in quale parte di mondo. In quello stesso anno erano già andati via per capodanno e per la settimana bianca. Ed ora dove erano ? Altro che viaggiare tutti insieme sotto il sole della villeggiatura. Si alzò e prima di rimettersi a lavorare guardò ancora una volta il grigio oltre la finestra e pensò: ” Certo, le stagioni non sono più quelle di una volta”. Fabrizio Burri Esercizio con indicazioni sopra Replay La vidi venire avanti ad una cinquantina di metri di distanza, camminava lentamente dalla parte opposta della strada guardandosi distrattamene intorno come chi ha soltanto la preoccupazione di trascorrere il tempo senza pensieri. Subito ebbi la sensazione che anche lei, quasi contemporaneamente, mi avesse visto. Questa sensazione coincise con un improvviso cambiamento nella frequenza dei suoi passi, che si fecero più brevi e veloci, mentre la sua testa si era girata ostentatamente dall’altra parte, come se guardasse qualche cosa nelle vetrine. Erano milioni di anni che non la vedevo, da quella fatidica ultima sera, quando mi lasciò come un salame in mezzo alla piazza, ricoprendomi di contumelie mentre si allontanava incollerita, come se avesse avuto ragione lei. Era passato tantissimo tempo e non l’avevo più incontrata, neppure una volta, neppure intravista, ma lei non era scomparsa affatto dai miei ricordi. Era come se una cometa fosse emersa dallo spazio profondo e compisse il suo giro intorno al sole, per poi scomparire nuovamente per chissà quanto tempo. Non potevo permettermi di perdere quell’incontro, perché forse non sarebbe capitato mai più e quell’ansia mai placata che avevo dentro quando pensavo a lei, sarebbe rimasta con me per sempre. Dovevo sapere. Quindi forzai la situazione, pur conscio del fatto che lei potesse non avere il mio stesso desiderio di approfittare di quel fortuito incontro. Le arrivai alle spalle esclamando un banale: “Ma guarda chi si vede ! Come va ?”. Lei non si finse neppure un po’ sorpresa, mi aveva visto eccome. Si girò con lentezza puntandomi direttamente negli occhi, come era sempre stato suo costume. “Mah ! Che vuoi che ti dica, va come vuole, non proprio come vorrei io” rispose con un mezzo sorriso malinconico. Le chiesi cosa aveva fatto in tutti quegli anni, perché era scomparsa, aveva forse cambiato città ? Lei, come srotolando una pergamena appositamente preparata, mi disse che dopo di me si era messa subito con un altro uomo molto più grande di lei che gli stava già intorno, giusto il tempo di farci un figlia insieme e poi via, ancora in malo modo. Altro giro, altra corsa, come sulla giostra. Questa volta con un politicante che per un certo tempo l’aveva addirittura coinvolta nella sua attività, ma dopo un po’ lei si era accorta di essere solo il bel contorno di una vita già predisposta anche nei dettagli, senza possibilità di alcun diversivo che avrebbe potuto far mancare il bersaglio del successo. Quindi via di nuovo. Poi era stata la volta di un romantico musicista straniero di passaggio che le dedicava brani struggenti, ma che appunto era solo di passaggio e quando lei lo capì, lui era già passato. E così via, altri ancora, senza avere il tempo di fermasi a riflettere. Aveva avuto tanto amore, ma senza alcuna logica di vita reale. Ora era lì, ancora desiderabile ma sola, senza niente che valesse veramente la pena di essere ricordato. Per fortuna non c’erano stati altri figli, perché l’unica figlia avuta: “Mi evita come se fossi una malattia” disse “mi odia, forse si vergogna di me e non sa neppure dove mi trovi. Per lei sono scomparsa nel nulla, come per te e non le importa niente”. Poi ravviandosi i capelli con le dita e sempre guardandomi negli occhi aggiunse: “Insomma sono sola. Non so cosa volevo esattamente, ma so che nessuno di voi mi ha soddisfatto, non è colpa mia. Io sono la vittima, quella che ha pagato di più e per tutti. Come vedi non ti considero l’unico colpevole, anzi tu sei l’unico di cui conservo un briciolo di ricordo. Forse perché sei stato il primo, eravamo così giovani. Peccato”. Peccato davvero, era così bella, vivace, piacevole. Negli anni, niente mi aveva turbato come il profumo che aveva la sua pelle. Il sapore della sua bocca non lo avevo mai più risentito, neppure con l’immaginazione. Io non riuscii a dire niente perché non mi veniva niente in mente e rimasi ancora una volta lì fermo come un salame in mezzo alla strada, a guardarla mentre si allontanava. Questa volta però con una profonda amarezza dentro di me per lo spreco che quell’esistenza rappresentava. La cometa continuava il suo viaggio in solitario. Chissà se un giorno sarebbe andata ad annullarsi nel sole oppure avrebbe affrontato ancora lo spazio profondo della vita. Altro giro, altra corsa. Fabrizio Burri Esercizio in laboratorio NON CI SONO PIÙ LE STAGIONI DI UNA VOLTA Vene varicose in gambone coperte di calze spesse che agli occhi del nipotino apparivano come colline nelle cartine geografiche sbalzate, nascoste da un vestitone a fiori ma di colore scuro; era difficile rivederci quella donna che sorrideva nella foto sopra il canterano che non si poteva toccare mai ,mai <<Come va Gina?>> <<Mi dolgono le gambe, con questo tempo, un giorno caldo, un giorno freddo ‘unn’è cosa per la mi’ circolazione>> <<Eh non ci sono più le stagioni di una volta>>. La conta degli scalini di travertino , stretti, alti e consumati, per arrivare in casa, li collocava alla pari lei e le gambe piccine del nipotino: salivano sempre con lo stesso piede appoggiandosi sempre all’altro e contando uno, due, tre , quattro… quando s’arrivava a dieci lei col fiatone cercava la chiave nella tasca del vestito che c’aveva un buco perché la chiave c’entrava pigiata dal pancione in quella tasca e dentro c’era semper anche qualche caramella, ma anche stendendo tutte le braccia, le dita non ce la facevano a prenderla e tamburellando sul pancione tirato con la nenia: <<me la dai nonna, me la dai>> <<Oh stai boncitto l’hai già mangiata una, poi chi la sente la tu’ mamma, lo sai quanto costano i dentisti?>> Non è giusto doveva toccare a lei, non è naturale morire a 22 anni e lei che ne ha 89 rimanere a guardare: il buco nero fangoso sotto la pioggia, la figliola che non sa nemmeno piangere, gli amici intorno pieni di capelli e magari con le facce che esprimono tristezza senza nemmeno una ruga, e lei in piedi sopravvissuta, non è giusto questo Dio non glielo doveva fare <<Mamma mettiti sotto l’ombrello>> <<Che voi mi faccia un po’ di pioggia! Magari…>> Il giorno che morì fu così veloce che non ebbe tempo nemmeno di levare i latte dal fuoco. Si alzò dal letto alle sei come tutte le mattine, andò subito al bagno che attraversare il corridoio le portava via tempo, i piedi ormai li pattinava trascina uno, ritrascina l’altro appoggiata al muro c’era di che prendersi un bel freddo, meno male erano solo cinque mattonelle bianche e cinque nere, poi l’esercizio da circo per sedersi, pori vecchi e pensare che da giovane c’aveva due gambe lunghe che tutti guardavano, andava sempre a ballare e non saltava un giro. Rialzarsi e strascicare altre quattro mattonelle bianche e cinque nere fino in cucina, latte e caffè freddo al fuoco e poi una sbirciatina fuori per vedere se il Cioni era uscito con la macchina o come sempre la su’ moglie s’era scordata di chiamarlo,; e lì cascò per terra, la trovarono appoggiata al muro fra il fumo e il puzzo di bruciato. Elisabetta Casagli Esercizio con accorgimenti sopra UNA DONNA IN GAMBA La conta degli scalini di travertino, stretti, alti e consumati, per arrivare in casa, metteva alla stessa prova le gambone coperte di calze spesse e attraversate da vene varicose che agli occhi del nipotino apparivano come colline nelle cartine geografiche sbalzate, e quelle gambe corte e secche: tutti e due salivano sempre con lo stesso piede, appoggiandosi sempre all’altro e contando: uno, due, tre, quattro… quando s’arrivava a dieci lei col fiatone cercava la chiave nella tasca del vestito a fiori ma di un colore parecchio scuro, che c’aveva un buco perché la chiave c’entrava pigiata dal pancione in quella tasca, e poi dentro c’era qualche caramella, ma anche stendendo tutte e due le braccine, le dita non ce la facevano a prenderla e tamburellavano sul pancione tirato, con la nenia: <<Nonna me la dai una, me la dai una>> Era difficile rivederci quella donna che sorrideva nella foto sopra il canterano che non si poteva toccare mai, mai. Il valzer era il ballo che preferiva, non se ne perdeva uno, dondolava la gonna del suo vestito nuovo e nel giro mostrava la parte del suo corpo più bella. << Quanto mi garbano le gambe lunghe della Gina, e quelle caviglie fine, è proprio una bella figliola, io me la sposerei>>. E si sposarono, senza una lira andarono a stare in quella casina piccina della mamma di lui, con quella scalinata stretta, ripida che tenne muscolose quelle gambe per tutto il tempo della gioventù. L’anno della morte degli olivi la trovò ancora dritta sulle sue gambone, sotto una pioggia gentile estiva, con l’animo però che non si reggeva in piedi, davanti a quel buco nero fangoso. -Madonnina questa non me la dovevi fare, quando m’hai portato via il mi’ Alberto io t’ho pregato tanto, tutte le sere il rosario e il lumino sempre acceso in cucina davanti al crocifisso del tu’ Figliolo, ma te, proprio te che sai che vuol dire perde un giovane, lui non me lo dovevi porta’ via così presto, prima di me che ho 89 anni e che tutti mi guardano, la mi’ figliola, quei giovani pieni di capelli e secchi, secchi, e pensano perché unn’è morta lei! No, questo no Madonnina è stato un dispetto cattivo, proprio cattivo, e io mi vergogno e ‘un so come morì, poro il mi’ cittino. La natura sembra avere leggi giuste ed equilibrate, ingranaggi che si incastrano perché tutto possa scorrere: naturale; invece è una madre cattiva, impietosa la cui unica e sola legge è quella della morte per sostenere la vita. Il giorno che morì fu così veloce che non ebbe tempo nemmeno di levare il latte dal fuoco. Si alzò dal letto alle sei come tutte le mattine, andò subito al bagno, ché attraversare il corridoio le portava via tempo: i piedi ormai li pattinava, trascina uno, ritrascina l’altro, appoggiata al muro: <<Madonna! Tutte le mattine me la fo addosso per attraversa’ questo corridoio freddo come la morte>>. Meno male erano solo cinque mattonelle bianche e cinque nere; poi l’esercizio da circo per sedersi: <<Pori vecchi e pensare che da giovane c’avevo du’ gambe che facevano invidia a tutti e gli garbavano tanto il mi’ Alberto>> Rialzarsi e strascicare altre quattro mattonelle bianche e cinque nere fino in cucina, latte e caffè avanzato al fuoco e poi una sbirciatina fuori: <<Il Cioni è partito, si vede che la su’ moglie l’ha chiamato in tempo stamattina>> E lì cascò per terra, la trovarono appoggiata al muro fra il fumo e il puzzo di bruciato. Elisabetta Casagli Esercizio in laboratorio - Non ci sono più le stagioni di una volta- disse mia nonna, mentre si dondolava sulla sedia a dondolo, guardando fuori dalla finestra. La mia nonna, 96 anni per 130 cm, fumatrice accanita da ben 80 anni, aveva una sua personale opinione su tutto, ed era profondamente convinta che il mondo intero ne dovesse essere messo a conoscenza. Usava passare le sue giornate alla finestra, seduta sulla sedia a dondolo, a commentare qualsiasi cosa vedesse. Quando in casa non c'era nessuno, telefonava a parenti e amici per raccontare loro cosa stava facendo la vicina di casa, un passante, una macchina. A volte, se amici e partenti, visto il numenro di telefono, no le rispondevano, chiamava le televendite e comprava i più disparati oggetti, non mancando di raccontare al presentatore qualche aneddoto su quello che vedeva dalla finestra. -Dicevo, non ci sono più le stagioni di una volta, cari miei. Secondo me è colpa del riscaldamento globale. -E dai, nonna, le stagioni cambiano perché devono cambiare. E' l'evoluzione della natura- le risposi io, mentre cercavo di studiare, per evitare che ripetesse per la terza volta quel concetto fondamentale. -Siè, che vuoi sapere te dell'evoluzione! Te lo dico io: è lo smog e quegli aggeggi moderni che avete voi chen inquinano e fanno venire le malattie. Guarda un po': c'era il sole, l'arcobaleno, poi pioggia, poi neve, poi pioggia. Ai miei tempi quando nevicava la neve ci stava per giorni. E ora? Quarda quello, ha persino preso il motorino. Nel dire queste parole, con un audace colpo di reni, fece dondolare la sedia in modo da raggiungere la finestra, sul cui davanzale era appoggiata una tazza di caffè fumante. Nel mentre che si avvicinava all'obiettivo, passò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra (movimento un tempo rapido ma adesso no più) e allungò la mano libera, tremolante, nella direzione della tazza. Purtroppo mancò l'obiettivo. -Ma porca di una puttana. Diavolo! Io la guardai esterrefatta. Con un ghigno caparbio ripetè l'operazione e questa volta riuscì a afferrare saldamente la sua tazza. Tornai a casa di mia nonna dopo 3 giorni, aveva un biblioteca gigantesca e mi servivano i suoi libri per fare un esame. Era sempre lì, alla finestra. -Hai visto? Quello là deve avere vinto alla lotteria. Ha cambiato la macchina 2 volte in 1 anno. Sarà mica uno spacciatore di droga? In questo quartiere ci sta arrivando della gentaccia.. Malatesta Esercizio con accorgimenti sopra -Nonna, non stare sempre alla finestra, Alla tua età ti raffreddi. La mia nonna mi guardò, con un movimento lento, misurato, abituale alzò la mano tremolante fino alla bocca rossa di rossetto, appoggiò la sigaretta alle labbra, aspirò, buttò fuori una nuvoletta di fumo azzurrino, mi guardò ancora. -Ieri non mi hai risposto al telefono, e nemmeno tua madre- altro sbuffo lento di fumo- ho dovuto comprare un un cavatappi con la calamita. Meno male che quel signore, tanto carino, mi ha ascoltato, lui. Leggi leggi i libri, te. Se non fosse per i libri non verresti mai a trovarmi. Si voltò ancora alla finestra, assorta a osservare il vicino che saliva su uno scooter. -Sono rimpicciolita, un tempo si che venivo rispettata dai vicini, certi salutoni mi facevano quando mi vedevano qua dietro. C'era Antonio, gran bell'uomo, che mi lasciava sempre una rosa appoggiata alla porta di casa. Quanto si arrabbiava tuo nonno. Adesso invece lanciano uno sguardo alla finestra, si girano e se ne vanno, come infastiditi. Una sigaretta finita, un'altra accesa con un cerino- chissà dove li trovava. Iniziò a dondolarsi sulla sedia a dondolo, avanti e indietro, ogni due movimenti uno sbuffo di fumo, in a strana, antica, sincronizzazione. Malatesta Esercizio in laboratorio NON CI SONO PIU’ LE STAGIONI DI UNA VOLTA Era quasi arrivato in montagna per la meritata settimana bianca e di neve, non ne aveva visto un fiocco neanche per sbaglio. -“Non ci sono più le stagioni di una volta!”- pensò fra sé e continuò a guidare mettendo la stazione locale per capire quale strada era meglio fare, sempre convinto, che dietro al prossimo tornante, avrebbe trovato la bianca distesa che il febbraio doveva garantirgli: invece niente. Erano dieci anni che andava al Tonale, stesso albergo, con gli stessi amici che venivano un po’ da tutta Italia; era una rimpatriata dei finanzieri del quarto scaglione del 1976 che si ritrovavano con l’unico scopo di sciare. Questa volta sua moglie non l’aveva accompagnato perché il loro matrimonio si stava esaurendo, e lei in montagna non ci si era mai divertita. Che cosa avrebbe pensato Paola del suo arrivo in “solitario”? Due anni prima, sulle piste, era iniziata quella loro storia non storia. Lei viveva per sciare e, quattro anni fa, quando era morto suo marito, l’avevano convinta a continuare a frequentare la comitiva. Giordano era morto in uno scontro a fuoco, che aveva scosso tutti. Tutti le eravamo stati vicini e c’eravamo prodigati per questa perdita improvvisa. Come sempre capita, le morti inaspettate sconvolgono e ci rendono partecipi oltre misura soffocando di attenzioni i congiunti, poi con il tempo, la vita va avanti, l’attenzione si focalizza su altro, e in pochi erano rimasti vicino a Paola, lui era fra quelli: una fitta corrispondenza per mail e lunghe telefonate al cellulare, circa due anni fa iniziarono a usare whatsapp, si chiedevano consiglio su tutto, ora si conoscevano meglio. Alessandra Pianigiani Esercizio con accorgimenti sopra NON CI SONO PIU’ LE STAGIONI DI UNA VOLTA (compito a casa) Giacomo guidava ormai da cinque ore, si era fermato giusto per fare il pieno, un caffè veloce, e sgranchirsi un attimo le gambe. Voleva raggiungere la meta quanto prima, la sua settimana bianca: la seconda settimana di febbraio era, per lui, sacra. Era la sua valvola per sopravvivere al quotidiano: alle scelte da fare rinviate, alle pressioni sul lavoro, a tutto quello che non condivideva e che non poteva cambiare, perché non aveva più vent’anni e sapeva che non poteva cambiare il mondo. Mai come quest’anno aveva fatto la stecca, e proprio il suo bisogno d’evasione sembrava rallentare lo scorrere delle giornate, quando si desidera tanto qualcosa, sembra che il tempo si dilati e che il momento tanto atteso non debba mai arrivare. Vivere nell’attesa dell’evasione e sognarla ad occhi aperti ci fa agire con superficialità e una concentrazione ridotta e queste sono le cause delle situazioni faticose che ci creiamo intorno e che ci appiccicano come carta moschicida. -“Non ci sono più le stagioni di una volta!”- pensò fra sé continuando a guidare di neve, per ora, non ne aveva visto un fiocco neanche per sbaglio. Erano dieci anni che, con gli stessi amici, veniva al passo del Tonale, per sciare. Erano un gruppo di amici particolari poiché si erano conosciuti proprio lì quasi vent’anni prima quando, per ritrovarsi con una posizione dopo il militare, avevano fatto domanda ed erano entrati alla scuola finanzieri del quarto scaglione del 1976 senza sapere che, anche nel 1996, dovevano saper sciare e loro venivano tutti da paesi, dove le montagne non erano proprio a portata di mano e non si erano mai messi gli sci ai piedi. L’esperienza li segnò, per quattro mesi da gennaio ad aprile non videro che neve, stettero sui campi da sci dalla mattina alla sera e loro, che erano inizialmente i più scarsi, fecero un patto affinché nessuno fosse punito, decisero di far vedere i loro progressi quando erano patrimonio di tutti. Finito il militare, tutti ebbero la loro destinazione e non si tennero in contatto. Nel 2004, per caso, tutti e sei si ritrovarono a Roma per un aggiornamento: Vincenzo, di Ragusa, aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi, inizialmente sugli sci era stato il più scarso, laureato in economia, tenevano il corso, già alla sua sesta edizione e, ormai sicuro di se, non aveva badato chi fossero i discenti. Arrivò Marco, di Civitanova Marche, spettinato e dinoccolato con un maglione informe che sorrideva felice abbracciato a Giordano, di Caserta. Si erano incontrati nel parcheggio e avevano ripreso un discorso, sembrava, mai interrotto, Giordano si era sposato con Paola, che era già la sua fidanzata ai tempi del militare, aveva messo su un po’ di pancia e dei gran baffi neri. Entrando si guardarono e si misero a ridere, non poteva essere vero, difronte a loro in divisa impeccabile: Vincenzo detto Silvestro che senza frenare era entrato come un cartone animato nella neve fresca l’avevano recuperato solo dopo un bel po’. La risata attirò l’attenzione di tutti, compreso me, che in ultima fila scrivevo un messaggio a mia moglie, perché quella mattina si era leticato, guardo l’uomo in piedi alla cattedra e anch’io mi metto a ridere, anche della fila centrale si alza una risata è Daniele, di Cento. Vincenzo diventa rosso imbarazzato, poi ci guarda tutti e cinque mentre gli altri sorridono ignari anche lui ridono di gusto ci andiamo incontro e ci abbracciamo la sera a cena insieme, la decisione di fare una settimana bianca in ricordo dei vecchi tempi. Sì, tornare ragazzi e trovarsi per sciare e fare zingarate una settimana senza problemi, l’anno dopo Vincenzo e Daniele vollero far partecipare anche le mogli, perché senza non si divertivano, si sentivano in colpa per quella libertà non condivisa. Ginevra, sua moglie l’aveva accompagnato e aveva imparato a sciare, ma lei preferiva molto la vita comoda delle terme e la sua settimana si svolgeva fra massaggi e piscina. Quest’anno che si erano finalmente detti che la loro storia era al capolinea, non aveva fatto neanche lo sforzo di accompagnarlo. Che cosa avrebbe pensato Paola del suo arrivo in “solitario”? Due anni prima, sulle piste, era iniziata quella loro storia non storia. Lei amava sciare e, quattro anni fa, quando era morto suo marito, l’avevano convinta a continuare a frequentare la comitiva. Giordano era morto in uno scontro a fuoco, che aveva scosso tutti. Tutti le erano stati vicini e si erano prodigati per questa perdita improvvisa, poi con il tempo, la vita va avanti, l’attenzione si focalizza su altro in pochi erano rimasti vicino a Paola. Lui era fra quelli: aveva scoperto una donna diversa da sua moglie e da quelle che aveva frequentato, una fitta corrispondenza per mail e lunghe telefonate al cellulare, circa due anni fa iniziarono a usare whatsapp, si chiedevano consiglio su tutto, ora si conoscevano meglio. Alessandra Pianigiani Lezione in Laboratorio: NON CI SONO PIÙ LE STAGIONI DI UNA VOLTA L’aereo ballava come se una masnada di bambini se lo contendessero sull’erba del parco. Ma questo era vero, le eliche a pochi metri dagli oblò sembravano enormi ventilatori che però non riuscivano minimamente a dirimere le nuvole. Tanta acqua, troppo vento, fulmini e la paura di non farcela. Successe quando le cadde l’anello. Il tintinnio di quel ninnolo sul pavimento lo sentì nitido, come quando una forchetta d’argento accorda il suono di un calice di cristallo e tutti i commensali guardano entusiasti l’improvvisato direttore d’orchestra. Quel suono fu la cosa più chiara che i suoi orecchi avessero udito da tre anni a questa parte, da quando le leggi razziali aveva cambiato la vita di migliaia di persone. Nell’attimo che lo raccolse si affacciò al finestrino. Le nubi erano scomparse, il rumore delle eliche sembrava sparito e là sotto era apparso il rio Tejo. “Ce l’abbiamo fatto, siamo arrivati finalmente” disse con gli occhi che irradiavano una luce cristallina, rivolgendosi all’uomo che stava nel seggiolino accanto al suo. L’aereo effettuò tre o quattro passaggi sopra la città; poi, simile a un migratore stanco, decise di planare. Da lì alla nave – nonostante tutte le operazioni che effettuarono per i visti – le sembrò che fosse passato un attimo. Invece ci vollero 18 ore dall’aeroporto al piroscafo “Ausilio” che l’avrebbe portata a New York. Le sarebbe piaciuto vederla in primavera Lisbona, quando il vento dell’Atlantico porta una brezza fresca e la pioggia obliqua scaraventa i suoi abitanti in un mondo surreale. “Ma non esistono più le stagioni di una volta.” La guerra aveva sconvolto tutto, persino le frasi fatte non avevano la stessa valenza di un tempo. Valacchi Stefano Febbraio 2015 Esercizio con accorgimenti sopra NON CI SONO PIU’ LE STAGIONI DI UNA VOLTA L’aereo ballava come se una masnada di bambini se lo contendessero nel parco. La mano del più piccolo fletteva l’ala di destra e il velivolo si piegava pericolosamente, puntando l’erba. Nel peggiore dei casi c’era il laghetto; tentarvi un ammaraggio sarebbe stata probabilmente la mossa migliore da fare. Ma questo aereo era vero, le eliche giravano a pochi metri dagli oblò, enormi ventilatori che non riuscivano minimamente a spazzar via le nuvole. Tanta acqua, troppo vento e tutti quei fulmini non erano il miglior scenario per rappresentare quel viaggio. Quando le cadde l’anello percepì quel suono come la cosa più nitida che i suoi orecchi avessero udito da tre anni a questa parte, da quando le leggi razziali avevano trasformato la vita di migliaia di persone in un inferno. Nell’attimo che lo raccolse si affacciò al finestrino; le nubi erano scomparse, il rumore delle eliche sembrava scomparso e là sotto era apparso il rio Tejo. Pensò che ce l’aveva fatta; lo trasmise all’uomo seduto accanto a lei con uno sguardo luminoso. In meno di mezz’ora l’aereo atterrò. Ci volle un mare di tempo per regolarizzare i visti, prima che potesse salire sul piroscafo “Ausilio”, destinazione New York. Le sarebbe piaciuto vederla in primavera Lisbona, quando il vento dell’Atlantico regala alla città una brezza fresca e la pioggia obliqua la trasforma in un dipinto surrealista. “Ma non esistono più le stagioni di una volta”disse ad alta voce, mentre il piroscafo lambiva la torre di Belem. La guerra si era ingoiata tutto, persino le frasi fatte non suonavano cristalline come un tempo. Stefano Valacchi, Febbraio 2015 Esercizio in Laboratorio: Mostri. Non pensarci più Michele mio, è successo ieri, ormai è acqua passata. E poi oggi sei stato proprio bravo, mi hai avvertita prima. Ed è così che devi fare, appena senti lo stimolo mi fai un cenno e andiamo subito in bagno. Tra noi non c’è bisogno di parole, basta uno sguardo. Lo sai che qui, tu puoi contare solo su di me, non sui professori e di sicuro nemmeno su quella di sostegno, che non si scomoda certo a mettersi un paio di guanti e ignora dove stanno i tuoi pannoloni. Lei tutta così perfettina, è impensabile che metta a rischio quelle belle unghie lunghe appena uscite dalla manicure. Sai cosa facciamo, quando a giugno chiude la scuola prendiamo, io e te da soli, e andiamo al mare, saliamo su una barca di un vecchio marinaio con la barba e ci facciamo portare in una di quelle spiagge bianche e deserte, con le palme e l’acqua trasparente. Voglio stare in mezzo all’oceano senza nessuna terra all’orizzonte e poi voglio aspettare la notte, il buio assoluto illuminato solo dalle stelle e il silenzio. Voglio il silenzio che qui non c’è mai, coi ragazzi e professori sempre a urlare e a far rumore. Ti piacerebbe? Sono sicura che qua sarebbero tutti felici se non ti vedessero più, perché, mi dispiace dirtelo caro Michele, ma questi ti considerano solo un peso, al massimo una scusa per un posto di lavoro in più. Anche quelli là fuori, che ora sembra che si preoccupino tanto di te, in realtà se ne fregano, lo fanno solo per avere una loro foto in prima pagina. Invece io gli faccio comodo, una schiava serve sempre: Aurora portami il caffè, Aurora dove sono i gessi? Aurora quest’aula è indecente, domani la voglio pulita a specchio. Grandissimi bastardi, ma con chi vi credete di parlare. Io sono qui perché ho vinto a pieni voti un concorso. Il decreto ministeriale era per un solo posto di addetta al servizio di pulizia di plesso scolastico, e io, con la mia laurea in lettere antiche passata a pieni voti e la mia brillante tesi “Mostri marini, ciclopi e leviatani nelle antiche scritture sacre e profane”, ero la persona adatta. Sai Michele, anche allora, quando facevo l’università, non è che fossi proprio una gran bellezza, ma nonostante questo dovevi vedere quanti ragazzi mi facevano la corte. Dopo, con il tempo, sono spariti tutti. Comunque, passi spaccarmi la schiena sullo spazzolone e rovinarmi le mani con i detersivi, ma non ho studiato tanto per diventare la loro sguattera. E poi ho sentito sai, le scempiaggini che vi raccontano, sono solo bestie ignoranti, analfabeti di ritorno che hanno imparato a mente la lezioncina e la ripetono a pappagallo. Ma quello che proprio non sopporto è il coro lamentoso dei flauti, che solo un sordo o un deficiente come il professor Soldini può tollerare. Per questo l’altro giorno ti sei messo a piangere Michele, io l’ho capito subito, quel suono è una tortura, e invece quella stronza di sostegno fa: “Ti annoi Michele? Vuoi che Aurora ti porti in giardino?” Ma meglio così, almeno siamo stati un altro po’ insieme, io e te Michele. Hanno pure il coraggio di dirmi che non sono capace di organizzarmi il lavoro, che non è quella l’ora di passare lo straccio. Si sentono superiori, mi guardano dall’alto del loro sapere. Idioti! E fanno la morale anche ai ragazzi, gli dicono come dovrebbero comportarsi, fanno anche l’ora di “cittadinanza e costituzione”. Ipocriti. Il professor Silei si porta a casa mezza cancelleria, la Mariotti prende i permessi sindacali per andare a fare shopping e il preside Mattei tocca il culo alla professoressa Pierini e quella zoccola ci sta pure, anche se lui è un mostro con moglie e figli, mostri anche loro. Comincio a essere stanca, ormai siamo qui da un giorno intero. E quelli là fuori che vogliono parlarmi. Ma io non voglio parlare con loro. No Michele, adesso non guardarmi con la tua espressione vuota, con il tuo immenso sguardo liquido, con i tuoi occhi stupiti di ogni attimo di vita. Non lo sopporto. Dai, mi sembra che ancora tu ne possa, hai tanti fogli da disegnare. E poi, almeno tu stanotte hai dormito un po’ sulla branda. Io invece non ho chiuso occhio, con quei fari che illuminavano a giorno il giardino e il retro della scuola. Sei buffo Michele con quelle cuffie enormi dell’i-pod che ti sparano come sempre la tua nona di Beethoven, sembri uno dei mostri della mia tesi. E mi guardi di nuovo. Te l’ho detto già che Beethoven era sordo, vero? Che ha composto codesta meraviglia e non è mai riuscito ad ascoltarla. Quando ho provato a dirlo al Soldini, sai cosa mi ha detto: “Aurora sei proprio una sciocca, come avrebbe fatto a scrivere la musica senza sentirla, sarebbe come un pittore cieco.” Stavo per chiedergli se aveva letto Cattedrale, ma ho chinato la testa, ho detto “Ha ragione professore, sono una stupida.” E ho segnato mentalmente un’altra stecca sul taccuino. Ho capito, hai fame, tieni, bevi un’altra tazza di tè, i panini del mio pranzo di ieri sono finiti, l’ultimo l’hai mangiato stamattina. Un po’ di pazienza Michele, tra poco sarà tutto finito. Quelli là fuori continuano a ripetere che vogliono parlarmi, il telefono della segreteria squilla continuamente e nessuno risponde. Mi dicono che devo lasciarti libero. Ma come si può liberare chi è già libero, chi dentro la sua testa ha milioni di pensieri che fluiscono senza costrizioni o confini, senza tutti i luoghi comuni della brava gente, senza le censure del vivere quotidiano. Solo perché non parli, perché non controlli completamente i tuoi sfinteri, perché continui a dondolarti all’infinito, solo perché non ti capiscono, dicono che tu non capisci. Sono degli idioti e io non voglio uscire adesso, non posso, ho ancora un altro servizio da compiere. Bravo, continua a fare i tuoi disegni, tanto nessun altro, oltre a me li comprende. E invece sono così chiari, con tutti i colori giusti messi nei punti giusti, le proporzioni rispettate. Sono proprio i mostri della mia tesi, i miei mostri: “aveva sette teste e dieci corna, e nelle sue corna dieci corone, e sulle corone erano incisi nomi di bestemmia. E la bestia che io vidi era simile ad un leopardo, e i suoi piedi come piedi d'orso, e la sua bocca come bocca di leone. E ancora quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro, il primo animale era simile a un leone, e il secondo animale sembrava un vitello, e il terzo animale con la faccia come d'uomo, e il quarto animale simile ad un'aquila volante. E i quattro animali avevano ognuno sei ali, e all'intorno e al di dentro son pieni d'occhi. E poi il leviatano, il re su tutte le fiere, il più superbo.” 1 Stamani, mentre dormivi, sono andata a controllare i prof e dalla finestra della 3° C ho visto uno stormo di corvi. Si sono stagliati tra il cielo azzurro e il campo di grano, proprio come il quadro che ti ho fatto vedere la scorsa settimana e che ti è piaciuto tanto, ti ricordi? Ho capito subito che era un brutto segno, i corvi vengono a visitarti prima della morte e anche per Van Gogh è stato così, li ha dipinti e subito dopo è morto. Ma non sono stati certo i corvi ad ucciderlo. È che se lo sentiva, e il pennello è caduto da solo sul nero e da solo ha fatto quei baffi tristi su un cielo che cominciava già a vestire i panni del lutto e dal quale il sole era fuggito via. Non farmi sentire troppo in colpa Michele. Lo so che anche a te i prof non piacciono, tanto meno quella di sostegno che pensa solo a telefonare. Ma non preoccuparti Michele, il Silei e la Mariotti sono chiusi nello stanzino delle scope, immobilizzati da mille passate di nastro adesivo. Quella di sostegno è là, dietro la lavagna, imbavagliata e incaprettata. Il preside Mattei e la Pierini invece li ho legati in bagno. Quell’isterica non ne voleva sapere di stare zitta e le ho dovuto rompere lo spazzolone in testa per calmarla. Non ha sanguinato molto e si è calmata subito. Il Mattei invece si è fatto incatenare zitto zitto e non ridere se te lo dico, ma mi sembra che se la sia fatta sotto. Vedi Michele che non sei il solo. Il braccio. Il braccio comincia a farmi male, non ce la faccio più a reggere questa pistola. Era l’orario di uscita dei ragazzi. Un turbine, e i genitori e il pulmino se li sono portati via tutti in pochi minuti. A parte te Michele, ché tua madre arriva sempre con almeno un’ora di ritardo. Normalmente la prima ad andar via è la tua inutile insegnate di sostegno, poi alla spicciolata tutti gli altri. “Aurora, mi raccomando, chiudi tutto. Ci pensi te a Michele.” Certo che ci penso io. Io, che tanto non ho niente da fare. E nessuno che mi aspetta. Ma ieri i prof sono rimasti anche dopo la campanella, hanno detto “siamo in riunione”. Il Mattei ad un certo punto mi chiama: “Aurora vai a prendermi le sigarette, le ho lasciate sul sedile della macchina, queste sono le chiavi. Forza sbrigati!” Ho aperto, mi sono seduta sul lato passeggero di quel macchinone e ho preso i due pacchetti di super ligth. Stavo per scendere, ma in quel momento non so proprio cosa mi ha preso. Io non sono curiosa, in genere mi faccio gli affari miei, però nonostante questo, ho provato ad aprire il vano portaoggetti. Chiuso a chiave. Ho infilato la chiave e ho aperto. Libretto, assicurazione, un pacchetto di foto chiuso con un elastico e sul fondo un oggetto nero. Una pistola. Mi sono spaventata e stavo per rimettere tutto a posto, quando l’elastico si è rotto. Sono tornata su, ho aperto la porta della presidenza senza bussare, lui era a testa china a scrivere su un registro. Gli ho lanciato le sigarette e le foto, un pacchetto è caduto a terra e le foto si sono sparpagliate sulla scrivania. Senza alzare gli occhi ha detto “Che cazzo …”, e lì si è bloccato, perché, alzando lo sguardo, gli è apparso il mirino della sua pistola, nella mia mano, puntata sulla sua faccia. È sbiancato e ha cominciato a boccheggiare come se l’aria della stanza fosse stata improvvisamente risucchiata via, infinite goccioline di sudore sono apparse sulla sua fronte. L’ho portato in bagno e l’ho legato al termosifone con la catena del cesso chiusa con il lucchetto del mio armadietto. “Se fiati t’ammazzo” gli ho sibilato piano all’orecchio, e in effetti da allora è rimasto muto come un pesce. Poi ho immobilizzato anche gli altri. 1 (Apocalisse di Giovanni: 13,1-2 ; 4,6-7) Il braccio, non ce la faccio più ad alzarlo e anche le palpebre mi si chiudono. Vado un attimo in bagno Michele, stai buono qui. Torno subito. Dal rubinetto incrostato di calcare esce un filo d’acqua, mi bagno la faccia ed il collo. Mi siedo sul water con il volto ancora gocciolante e mi libero. La Pierini nell’antibagno piagnucola. La sento nonostante il bavaglio di nastro adesivo. Il preside invece è sempre lì, muto, catatonico, non ha più aperto bocca da ieri. Mi chino su di lui, con una mano gli copro gli occhi. Appoggio la canna della pistola sul suo torace, finalmente i muscoli del braccio si rilassano. Il sollevarsi e l’abbassarsi veloce e ritmico del suo respiro culla l’arma e la mia mano come un’altalena, come un gioco da bambini. Anche il dito sul grilletto si muove, ma lentamente, troppo lentamente. La porta degli inferi si spalanca, ne escono folgori, urla, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine. I fumi accecanti dell’inferno mi avvolgono e mostri dalle enormi teste corazzate mi circondano. Con i loro piedi di capra mi colpiscono. Tutto si tinge di rosso, e le facce, come maschere di cera, si disfano al calore di un sole infernale. E colano sangue. E colano lacrime. Stefano Vallini, febbraio 2015 Esercizio con accorgimenti sopra MOSTRI 2 (CON VARIAZIONI) Aurora cercò di accarezzare la testa di Michele, lui ebbe uno scarto e si sottrasse: “Non pensarci più Michele mio, è successo ieri, ormai è acqua passata. E poi oggi sei stato proprio bravo, mi hai avvertita prima. Ed è così che devi fare, appena senti lo stimolo mi fai un cenno e andiamo subito in bagno.” Con un gesto che faceva trasparire tutta la sua stanchezza, Aurora si sedette di fronte al ragazzo: “Sai cosa facciamo, quando a giugno chiude la scuola prendiamo, io e te da soli, e andiamo al mare, saliamo sulla barca di un vecchio marinaio e ci facciamo portare in una di quelle spiagge bianche e deserte, con le palme e l’acqua trasparente. Voglio stare in mezzo all’oceano senza nessuna terra intorno e poi voglio aspettare la notte, il buio assoluto, solo stelle e silenzio. Voglio il silenzio che qui non c’è mai, coi ragazzi e professori sempre a urlare e a far rumore. Ti piacerebbe?” Da fuori arrivò una voce amplificata dal megafono. Aurora si mise le masi sulle orecchie, mentre Michele, protetto dalle cuffie del suo iPod, non mostrò di aver udito quella voce distorta. Tornò il silenzio e Aurora sibilò le peggiori ingiurie per quei porci maledetti, poi il suo sguardo si perse oltre il vetro della finestra, nello spicchio di blu incorniciato tra due cipressi. Il ricordo tornò ai tempi dell’università, ai ragazzi che le facevano la corte nonostante non fosse una modella, la laurea in lettere antiche passata a pieni voti con la tesi “Mostri marini, ciclopi e leviatani nelle antiche scritture sacre e profane”. Se la ricordava ancora tutta a memoria. E poi la depressione, il ripiegamento verso quel posto di “addetta al servizio di pulizia di plesso scolastico”, come diceva il concorso. “Ma non per questo mi potete trattare come una schiava” riprese Aurora urlando verso la porta dell’aula “Aurora portami il caffè, Aurora dove sono i gessi? Aurora quest’aula è indecente, domani la voglio pulita a specchio.” Continuò ad urlare verso quei professori che la guardavano sempre dall’alto in basso, stupidi e disonesti, fino a che Michele non staccò gli occhi dal foglio, dove stava meticolosamente tracciando i suoi geroglifici colorati, e come faceva con tutti, li piantò dritti sui suoi. Quel suo immenso sguardo liquido, stupito di ogni attimo di vita, era, per coloro che lo incrociavano, un peso sopportabile solo per pochi attimi. Uno sguardo di medusa che scatenava sensi di colpa, forse immotivati, che metteva il gelo nel cuore e rattrappiva lo stomaco. Aurora c’era ormai abituata, e spesso lo sosteneva senza problemi, certe volte addirittura scherzava mostrandogli la lingua, ma stavolta disse: “No Michele, adesso non guardarmi con la tua espressione vuota, non lo sopporto. Dai, mi sembra che ancora tu ne possa, hai tanti fogli da disegnare. E poi, almeno tu stanotte hai dormito un po’ sulla branda. Io invece non ho chiuso occhio, con quei fari che illuminavano a giorno il giardino e il retro della scuola.” “Ho capito, hai fame.” e così dicendo riempì una tazza di tè freddo e appoggiò due biscotti sul disegno. Michele bevve avidamente e dai bordi della tazza qualche goccia cadde sul muso del gatto stampato sulla sua maglietta, lasciando due segni più scuri come i solchi delle lacrime che mamma ghepardo versò copiose quando perse i suoi piccoli. “Un po’ di pazienza Michele, tra poco sarà tutto finito. Tu continua a fare i tuoi disegni, quelli che spaventano tanto quella di sostegno. La spaventano perché non li comprende, ma se li capisse, come li capisco io, allora ne sarebbe terrorizzata. Perché quelli sono proprio i mostri della mia tesi, i miei mostri: “aveva sette teste e dieci corna, e nelle sue corna dieci corone, e sulle corone erano incisi nomi di bestemmia. E la bestia che io vidi era simile ad un leopardo, e i suoi piedi come piedi d'orso, e la sua bocca come bocca di leone. E ancora quattro animali pieni di occhi davanti e di dietro, il primo animale era simile a un leone, e il secondo animale sembrava un vitello, e il terzo animale con la faccia come d'uomo, e il quarto animale simile ad un'aquila volante. E i quattro animali avevano ognuno sei ali, e all'intorno e al di dentro son pieni d'occhi. E poi il leviatano, il re su tutte le fiere, il più superbo.” 2 Per tutta la durata della nuova discussione della sua tesi, Aurora si era massaggiata il braccio indolenzito dal peso della pistola. Avrebbe voluto liberarsene, ma non era ancora il momento. Con la coda dell’occhio percepì una macchia nera che si muoveva nel riquadro della finestra. Nonostante il dolore puntò la pistola in quella direzione. Ma era solo uno stormo di corvi che volavano tra il cielo azzurro e il campo di grano, proprio come il quadro che aveva mostrato a Michele la settimana prima e che al ragazzo era piaciuto tanto. I corvi erano un brutto segno, pensò, i corvi vengono a visitarti prima della morte. Anche Van Gogh era morto poco dopo averli dipinti. Ma non sono stati certo i corvi ad ucciderlo. È che se lo sentiva, e il pennello è caduto da solo sul nero e da solo ha fatto quei baffi tristi su un cielo ormai senza sole. Anche il giorno prima il cielo era strano, c’era un sole annacquato e la luce diffusa sembrava togliere profondità alle cose. Ma comunque alla fine, come tutte le mattine, era arrivato il suono della campanella di uscita. Un turbine, e i genitori e il pulmino hanno fatto il deserto in pochi minuti. La madre di Michele era in ritardo come al solito, spesso arrivava dopo un’ora e l’unica ad aspettarla insieme al ragazzo era Aurora. Aurora che non aveva niente da fare. Aurora che non diceva mai di no. Ma ieri era tempo di scrutini e i professori si sono trattenuti. Il preside Mattei ad un certo punto aveva chiamato: “Aurora vai a prendermi le sigarette, le ho lasciate sul sedile della macchina, queste sono le chiavi. Forza sbrigati!” Aurora era entrata dal lato del passeggero e aveva preso i due pacchetti di super ligth. Ma mentre stava per chiudere e andar via, chissà perché, aveva provato ad aprire il vano portaoggetti. Chiuso a chiave. Allora aveva infilato la chiave e aperto la ribaltina. Libretto, assicurazione, un pacchetto di foto chiuso con 2 (Apocalisse di Giovanni: 13,1-2 ; 4,6-7) un elastico e sul fondo un oggetto nero. Una pistola. Si era spaventata e aveva cercato di rimettere tutto a posto con l’agitazione di chi si sente osservato da mille occhi, e l’elastico si era rotto. Quando aveva aperto la porta della presidenza senza bussare, il preside Mattei stava a testa china a scrivere su un registro. Le sigarette e le foto lanciate malamente si erano sparpagliate sulla scrivania, senza alzare gli occhi aveva sbottato: “Che cazzo …”, e lì si è bloccato. La sua pistola adesso era in mano di Aurora e il mirino era puntato sulla sua faccia. Il preside era sbiancato, aveva cominciato a boccheggiare, come se l’aria della stanza fosse stata improvvisamente risucchiata via e infinite goccioline di sudore erano apparse sulla sua fronte. Non era riuscito a gridare, l’aria non usciva dai polmoni, il suo sguardo era incollato sulla pisola e sulla pazza che lo minacciava. Aurora l’aveva portato in bagno e legato al termosifone con la catena del cesso. Prima di andare via gli aveva sibilato piano all’orecchio: “Se fiati ti ammazzo”. Anche se avesse potuto, non avrebbe parlato. Quando si arriva alla fine non c’è mai niente da dire. Poi, uno ad uno, aveva immobilizzato anche gli altri. I corvi erano spariti dietro i cipressi e Aurora si riscosse dai suoi pensieri, si era accorta si avere chiuso le palpebre, ma non avrebbe saputo dire se fosse passato un secondo o una vita intera. Il braccio pendeva inerte, la mano che impugnava la pistola dondolava leggermente. Disse: “Vado un attimo in bagno Michele, stai buono qui. Torno subito.” Dal rubinetto incrostato di calcare usciva un filo d’acqua, Aurora si bagnò la faccia ed il collo. Si sedette sul water con il volto ancora gocciolante e si liberò. La Pierini nell’antibagno piagnucolava nonostante il bavaglio di nastro adesivo. Il preside invece era sempre legato al termosifone, muto, catatonico. Aurora si chinò su di lui, con una mano gli coprì gli occhi. Appoggiò la canna della pistola sul suo torace, una sensazione di sollievo la prese quando finalmente i muscoli del braccio si rilassarono. Il sollevarsi e l’abbassarsi veloce e ritmico del respiro cullavano l’arma e la mano come un’altalena, come un gioco da bambini. Il dito sul grilletto iniziò lentamente a muoversi. Nei giorni successivi, dal suo letto di contenzione, gli infermieri la sentirono più volte biascicare: “La porta degli inferi si spalanca, ne escono folgori, urla, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine. I fumi accecanti dell’inferno mi avvolgono e mostri dalle enormi teste corazzate mi circondano. Con i loro piedi di capra mi colpiscono. Tutto si tinge di rosso, e le facce, come maschere di cera, si disfano al calore di un sole infernale. E colano sangue. E colano lacrime.” Stefano Vallini, febbraio 2015