Carlo Molinaro
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Carlo Molinaro
Ieri 14 novembre 2007, 17.26.10
Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l'amore
lunedì 4 giugno 2007, 17.10.32 | molinaro
Non so perché oggi pomeriggio mi è venuto in mente di creare anche un blog. È vero che lo fanno un po'
tutti. Quindi perché no. Ovviamente non so se e quanto ci scriverò. Non so neanche bene come funziona.
Ci provo. Vediamo. Oggi stavo pensando al "quasi". Se giochi al lotto sei quasi sicuro di non vincere, ma è
il quasi che fa sì che il gioco esista (e lo Stato ci guadagni un sacco). Non succede quasi mai che una
ragazza prima non ci stia e poi dopo un mese o un anno ci stia, ma è al quasi che si appigliano i lunghi
corteggiamenti. Io le cose le faccio sempre collegate a persone, non sono autonomo dalle persone.
Creando questo blog penso a Petarda, che è la mia bloggatrice preferita http://www.petarda.splinder.com
e spero mi insegnerà delle blogherie, oltre che della blagherie, e a Sel, che adesso sto lungamente
corteggiando e mi ha fatto venire in mente il secondo quasi. Non significa che queste due siano al centro
della mia esistenza, sono però quelle a cui ho pensato creando il blog. Ovviamente senza nessun motivo,
non c'è mai nessun motivo. Ma dato che sono fondamentalmente un poeta (ormai ho smesso di
vergognarmene e di fare smancerie sul termine, c'è chi è idraulico o schizofrenico e chi è poeta, basta),
nel primo messaggio del blog mi par giusto piazzare una poesia, e la piazzo. La poesia non è dedicata né
a Petarda né a Sel, se no sarebbe troppo semplice. La scelgo soprattutto perché è la più recente che ho
scritto, o quasi. Cogliamo l'attimo.
TI LEGGEVO POESIE NUDI NEL LETTO DOPO L’AMORE
Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l’amore:
non avevamo vent’anni, non era tanto tempo fa,
era oggi pomeriggio e avevamo più di cent’anni
fra te e me. Ti leggevo poesie nudi nel letto:
non è un ricordo lontano perso nelle nostalgie,
era oggi pomeriggio con un cielo grigio e azzurro
mescolato dal vento – e i colori vivaci sul terrazzo.
Non avevamo vent’anni, non era un tempo lontano,
era oggi pomeriggio ed era la prima volta
in vita mia che leggevo poesie nudi nel letto,
tu la prima volta che qualcuno te le leggeva,
e sono nudo al tavolo adesso che scrivo
mentre tu sei quasi addormentata sulle lenzuola spaiate
di due verdi diversi, recuperate insieme
per questa casa che sembra di studenti squattrinati.
È di oggi pomeriggio la luce sui coppi dei tetti,
le mansarde di fronte abitate da slavi e magrebini;
se dico questo secolo intendo dire il ventunesimo,
il nostro: nel Novecento non t’ho conosciuta ma ora
ti ho letto poesie per la prima volta nudi nel letto,
le lenzuola spaiate di due verdi diversi
spinte via dalle gambe, fresche ancora del nostro sudore.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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TRE LIBRI SEGNALATI
martedì 5 giugno 2007, 7.24.40 | molinaro
Dopodiché, essendo un intellettuale più o meno gemebondo, eccomi a segnalare
tre libri. Un libro di poesie di un poeta bosniaco, uscito nel 1999, che trovo molto
bello e che quasi nessuno conosce in Italia, un libro di poesiole doppiosensuali di
una mia amica che sta a Venezia, uscito pochi giorni fa, e un racconto lungo di una
mia amica che sta dalle parti di Savona, che uscirà entro il corrente mese di
giugno. Del secondo e del terzo ho scritto la prefazione e nota. Quindi una
segnalazione da «semplice» lettore, di un grande poeta recentemente defunto, e due segnalazioni da
amico e collaboratore di due autrici che considero valenti. Del libro del poeta bosniaco propongo una
poesia (letta a voce molto bene dall’amico Cesare a una festa agreste a Erli, dietro Albenga, il 26 maggio
scorso), degli altri due propongo perlappunto la mia prefazione o nota. Ecco dunque qui di seguito le cose.
Da Izet Sarajlić, 30 febbraio, San Marco dei Giustiniani, Genova 1999, la poesia a pag. 17
Nati nel Ventitré, fucilati nel Quarantadue
Questa sera ameremo per loro.
Erano 28.
Erano cinquemila e 28.
Ce n'erano più di quanto amore ci sia mai stato in una poesia.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
Noi, che sui marciapiedi di un secolo abbiamo sofferto
le solitudini di tutti i Robinson del mondo,
noi, che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno,
mia piccola grande,
questa sera ameremo per loro.
E non chiedere se potevano tornare.
E non chiedere se si poteva tornare indietro mentre per l'ultima volta,
rosso come il comunismo, bruciava l'orizzonte dei loro desideri.
Attraverso i loro anni senza amore, trafitto e ritto,
è passato l'avvenire dell'amore.
Non ci sono stati segreti di erba schiacciata.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Non ci sono stati segreti di bluse sbottonate.
Non ci sono stati segreti di gigli lasciati cadere dalle mani stremate.
C'erano le notti,
c'era il filo spinato,
c'era il cielo che si guarda per l'ultima volta,
c'erano i treni che tornano vuoti e squallidi,
c'erano i treni e i papaveri,
e con essi, con i tristi papaveri di un'estate da soldati,
con un magnifico senso di imitazione, si batteva il loro sangue.
E intanto sui Kalemegdan e sui Nevskij Prospekt,
sui Boulevards del Sud e i Quais degli Addii,
sui Campi dei Fiori e sui Ponti Mirabeau,
meravigliose anche quando non amano,
attendevano le Anne, le Zoje, le Jeanettes.
Attendevano il ritorno dei soldati.
Se non fossero tornati,
avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate.
Non sono tornati.
Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati.
Sui loro occhi fucilati.
Sulle loro Marsigliesi mai cantate fino in fondo.
Sulle loro illusioni crivellate.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
All'appuntamento d'amore ora attendono come tombe.
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15/11/2007
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Mia piccola grande,
questa sera ameremo per loro.
(1953)
Da Clara Vajthó, Poesiole doppiosensuali, Graphe.it Edizioni, Perugia 2007, la mia prefazione
La prima cosa notevole è che questi piccoli componimenti leggeri, che ruotano su arguti incastri di parole,
sono vere poesie: ci trovi lo sguardo attento e meravigliato che scava nelle cose in cerca di senso e di
ritmo, e ci trovi anche una storia viva, narrata in sottili trasparenze.
La seconda cosa notevole è la voce argentina di un parlare erotico al femminile che risulta assai
innovativo: non cade dentro il gorgo ritroso e lamentoso della femmina doverosamente sofferente pure nel
sesso (retaggio d’antica sottomissione e mercificazione, camuffata da famiglia e religione), ma neppure si
perde all’inseguimento delle espressioni più crude o sguaiate della tradizione erotica maschile, di più
collaudata (ma spesso falsa) liberazione.
Clara Vajthó mette in versi un eros che assomiglia, nella sua limpidezza, al gioco dei bambini: serio
preciso attento, e simultaneamente gioioso stupito lieto. In questo orizzonte le differenze fra ciò che è più
lirico e ciò che è più ironico, fra ciò che è più vestito di metafora e ciò che è più nudo e crudo, perdono il
carattere di contrapposizione e diventano complementari pennellate a dipingere lo stesso quadro:
ventaglio di esistenze quotidiane in un chiaroscuro nitido, scritto in colore amoroso e in musica giocosa.
Allora anche espressioni come «apro le gambe», o riferimenti diretti al membro e alla vagina, perdono
ogni traccia di volgarità o di tavolo anatomico, e si restituiscono, come è giusto, alla piena naturalezza
dell’essere, la stessa a cui appartiene il desiderio che «ronza... dentro il cuore», così come l’amore:
«L’amore che hai vissuto / non è tempo perduto / l’amore che hai sognato / è tempo anticipato».
Questo sciame di brevi poesie è dunque un gioco (spesso il titolo contiene, in modo più o meno
enigmatico, la chiave di lettura dei versi) eppure va oltre: va oltre senza strafare e senza presunzione,
proprio come il bambino, che quando gioca a fare il pirata della Malesia è pirata ed è in Malesia, anche se
sa benissimo che fra cinque minuti salirà le scale e si laverà le mani per sedersi a cena con mamma e
papà.
Da Chiara Borghi, Il tempo è scaduto, Edizioni Joker, Novi Ligure (AL) 2007, la mia nota
Il primo libro di Chiara Borghi, Drake’s Heaven, del 2001, è stato definito fra l’altro “romanzo di
formazione” e “monografia sulla psiche giovanile”. Questo suo nuovo lavoro, Il tempo è scaduto, apre uno
sguardo più ampio sulla vita osservata nel suo aspetto individuale e, insieme, in quello sociale,
inscindibile. C’è ancora un riferimento generazionale, ma la generazione di cui si parla sembra via via
ampliarsi fino ad abbracciare quasi tutti i viventi del momento storico contemporaneo: i più anziani,
sconfitti, non hanno saggezza da regalare ai giovani, perché la saggezza è stata corrosa e dilapidata dal
trionfante materialismo che ha trasformato l’uomo in “produttore e consumatore”, e il senso di vuoto si
estende ad accomunare i nati nel dopoguerra, negli anni Cinquanta, e i nati alla fine del Novecento
(“secolo breve” oppure, da un altro punto di vista, secolo lunghissimo, separatore di mondi).
La riflessione filosofica sull’esistenza resta centrale nel percorso dell’autrice, e talvolta l’intreccio della
storia sembra un canovaccio su cui l’importante è tessere immagini e meditazioni. Il protagonista, un
uomo sui trent’anni, parla in prima persona, mescolando il presente al passato. La sua vicenda è esile,
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15/11/2007
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tutta interiore, non ha nulla di sensazionale. La tragedia si dipana nel suo animo a partire dal suicidio della
ragazza amata, dalla perdita di un amore che poteva, forse, disegnare un senso, tracciare una rotta nella
vanità del quotidiano – e forse no, forse tutto si sarebbe comunque irrimediabilmente dissolto sotto il peso
di una plumbea impossibilità, di un destino pre-scritto.
L’uomo si stacca dalla vita a poco a poco con una rassegnazione calma, quasi sconcertante, che sembra
averlo accompagnato sempre: da un matrimonio contratto per inerzia a un lavoro accettato per
stanchezza, alla noia delle compagnie, fino al lampo d’amore che però lo trova incredulo, inadeguato e
infine inetto, incapace di prendere e farsi prendere. L’occasione perduta di vivere davvero apre la porta
all’irrompere della morte.
C’è forse il nulla della piccola borghesia, che in Occidente sembra aver contagiato più o meno ogni strato
sociale, all’origine di questo vuoto: “Anche se il luogo comune recita che bisogna credere e lottare, questo
nostro esserci non è vita, non è speranza, non è guerra e non è pace: è solo un crudelissimo lungo addio”
– dice l’uomo.
Il gesto finale estremo del protagonista del racconto non è un gesto d’amore ma di fuga, la fuga dalla più
orribile e più desiderata delle cose, la “vita normale”. All’enunciato del titolo sembra doversi aggiungere un
avverbio: il tempo è scaduto finalmente: è scaduto il tempo grigio dove manca il coraggio di versare il
sogno nella realtà, dove per vigliaccheria si dichiara l’impossibilità di credere e impegnarsi, dove la
disperazione diventa un vizio comodo. In questo senso – e forse al di là della stessa intenzione conscia
dell’autrice – il racconto esce dall’intimità di una vicenda sentimentale e proietta sullo schermo il dramma
di una generazione (in senso ampio, come dicevo) a cui, nel frastuono incessante di un pandemonio di
stimoli altamente tecnologici, il potere tenta di amputare l’organo essenziale del vivere: la ghiandola del
sogno. Inceppato il motore del desiderio, l’orizzonte si restringe e il viaggio si chiude. Il tempo è scaduto
sì, ma è scaduto di qualità, come un prodotto industriale che si vuol vendere a prezzo troppo basso. Se la
vita è un giro in un centro commerciale, morire è meglio.
Ma la vita può essere altro? Chiara Borghi parte da un pessimismo predestinato che mi spingo a definire
irritante, provocatorio: “ogni persona è una pellicola su cui il tempo e le occasioni imprimono una storia”, fa
dire al protagonista nelle prime pagine del libro. Nessun margine di libertà e di scelta, nei riquadri chiusi
dei fotogrammi del tempo e delle occasioni? E tuttavia, nello svolgersi della storia, l’amore sembra essere
una possibilità reale, un’acqua che lambisce e che potrebbe penetrare. Nel libro precedente Chiara
incideva rapporti umani più duri: “o si calpesta o si è calpestati”. Qui c’è invece uno spazio di tenerezza, di
commozione. C’è in qualche modo il germe dell’amore stesso (cioè della vittoria della vita sulla morte, mi
sia permesso dirlo: l’amore è sempre rivoluzione), ma è un seme che non riesce a radicarsi.
Forte è la tensione a liberarsi della prigione individuale: “Naufragare nell’aria come nell’acqua,
disperdermi, disintegrarmi, dissolvermi lievemente, in un rarefarsi di cellule” – questa una delle sensazioni
che il protagonista del racconto prova quando è invaso dal pensiero della ragazza amata. È in questi lampi
che lo stile dell’autrice sale più alto, è qui che il racconto ci dà il meglio. Un racconto che è forse una
dichiarazione, un manifesto spirituale, un appello. Ed è anche una domanda.
Uscire dalla pasta molle e insidiosa della rinuncia piccoloborghese, riappropriarsi del coraggio e del rischio
della vita, è un’illusione o è una possibilità? Il racconto di Chiara Borghi lascia, problematicamente, la
questione aperta. E lascia, secondo me, un’ansia di fertilità. È un grido sommesso, che va in cerca di chi
ha orecchi per intendere. Ma così, senza apparire, senza retorica. Come un remoto spiraglio.
Chi sono i miei colleghi
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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martedì 5 giugno 2007, 10.58.57 | molinaro
Poco fa sull'autobus 1 mentre andavo a prendere un lavoretto in una casa editrice una bella signora
bionda mi ha chiesto un'informazione, e poi ha attaccato bottone. Mi ha fatto notare che l'autobus era bello
pulito. Perché lo puliscono loro. La cooperativa dove lavora lei. Ci sono diverse cooperative, diverse per
ogni deposito di autobus. Quella dove lavora lei è la migliore. "Passiamo dappertutto con il detergente e il
disinfettante. Mica come certe altre cooperative che danno un colpetto di straccio e via. La differenza si
sente". Aggiunge orgogliosa: "I pullman per le olimpiadi li hanno fatti pulire a noi, anche se la cooperativa
di via Nizza sarebbe stata più vicina. Eh, hanno verificato, e hanno scelto noi". Poi sospira: "Ma certo con
questo sistema delle cooperative non sai mai com'è. A gennaio e febbraio ho preso 1200 euro, ma questo
mese non arrivo a 500. Mi tocca girare qua e là". Esito un attimo, e poi le rispondo: "Anch'io all'inizio
dell'anno ho avuto molto lavoro. Una cosa di fino, fatta rapidamente e bene. Poi però per due mesi niente.
Adesso vado a prendere un altro lavoretto". Mi chiede in che settore, e le dico: "Editoria, libri". Sorride
complice: "Eh, è così. Io sono iscritta al sindacato, ma non c'è niente da fare". Ci intendiamo
perfettamente, finché scendo alla mia fermata e penso che ho chiacchierato con una collega. E con una
della mia classe. Forse è qui che sta nascendo una nuova classe sociale, quella che forse saprà anche
lottare, al posto del proletariato ormai dissolto nelle nebbie della cultura piccoloborghese. Puoi pulire gli
autobus o puoi pulire le frasi di autori distratti per libri eleganti, e puoi essere orgoglioso di come pulisci
quegli autobus e quelle frasi: orgoglioso, a testa alta. Ma se prendi quattro o cinque euro all'ora netti (è la
paga sia per gli autobus sia per i libri), e non sai se e per chi e quanto lavorerai il mese prossimo,
appartieni alla stessa classe, alla stessa compagnia. Non saprei bene come definirla, questa nuova classe
sociale, ma esiste. Forse è semplicemente la classe di chi lavora bene e ha voglia di fare cose ma non ha
in mano le leve del grande macchinario tritatutto, nemmeno le levette piccole, quelle riservate ai leccaculo
e agli ignavi più comodi. Di chi è serio e anche un po' orgoglioso, ma prima o poi, chissà, avrà voglia di
buttare un po' di ghiaia in quegli ingranaggi. Anche se non si sa ancora nemmeno da che parte
incominciare. Magari ditelo a Prodi. O non diteglielo, che è lo stesso.
Com'è che ieri ho aperto questo blog
martedì 5 giugno 2007, 16.21.27 | molinaro
Scattano, le cose. O sfumano, tornano, vanno, vengono. Aprire un blog non è una cosa
epocale, l’ho fatto ieri e ci ho messo pochi minuti. Però non saprei dire perché proprio ieri.
Tante volte avevo pensato di farlo, tante volte avevo pensato di non farlo mai. Succede così.
Vale per cose ben più importanti, anche. Sedici anni fa ho smesso di bere. Perché proprio in
quel momento? Già da anni prima ero conscio del problema. Undici anni fa mi sono
separato da mia moglie. Perché quell’anno e non quello prima o quello dopo? Il rapporto era
insopportabile già da tantissimo tempo. Ma le situazioni insopportabili si sopportano, fino a un certo punto che non si
sa qual è.
O almeno, io non lo so. Non generalizziamo. Altri forse sono più programmatori. Certi nodi si sciolgono e certi
restano annodati. Per tanti che ne sciogliamo, moriremo sempre con qualche nodo ancora stretto. Alla mia veneranda
età non so proprio perché gli amori più solidi cominciano in modi così deludenti, senza sogni; e gli amori sognati o
non cominciano neppure o cominciano sì ma durano poco. È una cosa che mi infastidisce alquanto. Non è detto che
sia una regola generale, magari è successo solo a me, e in tal caso aspetto e spero l’amore-sogno che durerà e sarà
solido. Ma certo che il tempo passa e la vita non è eterna. Forse invece avere avuto qualche amore solido e qualche
amore-sogno che comunque qualche mese è durato è già una grande fortuna, forse a tanti non è successo neppure
così, è successo molto di meno, magari non è successo nessun amore per come intendo io. E anche lì: non si sa mai
bene che cosa si intende. Fa niente. Io continuo a innamorarmi e a provarci.
Non c’è un’epoca predestinata. Una settimana fa mi sono buttato per la prima volta in un gelido torrente di montagna.
A vent’anni non l’avrei mai fatto, ero troppo pauroso e imbranato. A quarant’anni ho smesso di portare la canottiera
d’estate. Non è che prima la portassi per un motivo preciso. Da bambino mi avevano detto che era bene portarla e poi
non ci avevo mai più pensato. A volte le cose non mi vengono in mente subito.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Al primo anno di università, nel 1972, c’era una ragazza piccolina con i capelli lunghissimi che frequentava con me il
corso di romeno. Le piaceva tutto quello che facevo ed era contenta di venire nella mia stanzetta di studente. Ho
pensato che avrei potuto provare a baciarla. L’ho pensato nel 1997. Lei nel frattempo aveva sposato un vietnamita e
fatto dei figli, credo. È molto simpatica. Io dovrei essere più tempestivo. Adesso sono migliorato un po’, però.
Va bene, ma in certe cose ero preveggente: studiavo romeno e a Torino non c’era nessun romeno, ma io lo
immaginavo che oggi sarebbe stato pieno! Ehm. Adesso mi serve. Oddìo, non a guadagnare denaro; mi serve così a
livello di volontariato. Qualche immigrato mi chiede di tradurgli dei documenti o cose così, poi non è mica che mi
paga, anzi mi chiede se ho venti euro da prestargli e io glieli presto, ma non ditelo in giro, per favore.
Forse un blog non è che serva a scrivere tutte queste cazzate. Non ho ancora deciso a che cosa serve e probabilmente
non lo deciderò. Mah, ci metto un’altra poesia recente, e basta.
IL CONTRORELATORE
La tua tesi sul teatro di satira
con cui sei diventata dottoressa
in filosofia nell’ateneo di Genova
dev’essere una cosa interessante
e vorrei leggerla. Le poesie che scrivi
raggiungono una certa intensità
almeno qualche volta e io le apprezzo;
e il tuo nuovo racconto ha uno stile più saldo
del precedente. Sei brava e sei amabile,
fiera ragazza con gli occhi molto azzurri
(forse darebbe un bel nome in cinese
o in pellerossa), però ti ho sognata
in altre circostanze: che ballavi
sui cubi in discoteca, per lavoro,
o baciavi in un bosco di castagni
un uomo, o ubriaca ti sprecavi
in qualche sera storta. Non s’appiglia,
l’amore, ai meriti curricolari
né alle più degne imprese, lo sappiamo:
s’infila nelle crepe per spiare
cose più ambigue – che sa decifrare:
è questo il bello. Comunque la tesi
se me la presti la leggo volentieri
e parleremo di letteratura
mentre il pensiero, senza farsi vedere,
sfiorerà le tue labbra e le tue unghie,
ti slaccerà la gonna e il reggiseno.
Intrecci di poesie e non solo di poesie
mercoledì 6 giugno 2007, 11.11.41 | molinaro
La festa di poesia, musica e cose varie a Erli (SV) il 26 e 27 maggio è stata molto
bella. È la terza volta che partecipo. Quest’anno Chiara e io abbiamo voluto leggere
poesie in coppia, scambiandocene anche una, nel senso che lei ha letto una poesia
mia e io una poesia sua. Un prestare la voce alla poesia dell’altro. Alla fine della
nostra performance Nico, il grande capo di Erli, ci ha un po’ intervistati, con
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15/11/2007
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domande anche difficili. Io avevo dato al “pubblico” (se così vogliamo chiamarlo: la
compagnia di amici di Erli) un fascicoletto con alcune mie poesie, e dalla “platea” (per così dire: la
piazzuola, o radura, sotto le case, dove si fa la festa) si è alzata la voce di alcuni: «Leggici quella
dell’amore gioioso». Quella dell’amore gioioso è una piccola poesia di desiderio che secondo me non è
neppure fra le mie migliori. È una piccola invocazione. Ma Nico ha detto: «Allora leggila, su». E poi ha
aggiunto: «Anzi, potrebbe leggerla Chiara». E questa è una curiosa coincidenza, perché Chiara prima,
mentre una sera a Savona in piazza del Popolo preparavamo la nostra performance, aveva detto che
proprio quella poesia le sarebbe piaciuto leggere – anche se dopo ne avevamo scelta un’altra che pure le
piaceva, una nata in un viaggio a Bucarest (lei è affezionata all’Europa dell’Est). Si vede che in qualche
modo quella poesia è proprio destinata a Chiara. Perché ho raccontato questo? Forse perché è bello
pensare che i pensieri legati alle poesie viaggino per canali misteriosi fra le persone. E poi forse è una
scusa per parlare di Erli, che merita: è un paese dove c’è una borgata rimessa a posto da un gruppo di
validi volenterosi, la contrada Bassi, e dove ogni anno, solitamente l’ultimo finesettimana di maggio, si fa
una festa per dare il benvenuto all’estate. Ci potete arrivare da Albenga, in Liguria, prendendo la strada su
verso il passo che porta a Garessio, in Piemonte. O viceversa. È luogo di confine. Va bene. E poi questo
raccontare è anche una scusa per offrire tre poesie. La prima è la mia cosiddetta suddetta dell’amore
gioioso, che in realtà lo chiede, non lo ha: Fammi scrivere versi d’amore gioioso. La seconda è la mia
poesia che Chiara ha letto a Erli, Vento dell’Est, e la terza è la poesia di Chiara che io ho letto a Erli, In
morte a un amico. Sì, è stato bello. Bisogna intrecciare, abbracciare, amare.
FAMMI SCRIVERE VERSI D’AMORE GIOIOSO
[di Carlo]
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
da troppo tempo mancano da me.
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
poi li tolgo dal foglio e li semino in te.
Vedrai che germogli, vedrai che primavera!
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
li potrai coltivare nell’orto del tuo seno.
Sorrideranno quando fiorirai.
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15/11/2007
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IL VENTO DELL’EST
[di Carlo]
Rodica si concede a Bucureşti
con ritrosia. L’amico la spalleggia
cercando di ottenere anche due paia
di pantaloni, oltre il mangianastri.
Deve tornare da sua madre a Giurgiu:
ha gli occhi blu come il Danubio blu.
Io parlo româneşte troppo bene,
per questo è diffidente: dice che
non lascerebbe mai il suo paese.
Trascorriamo la notte in una stanza
lercia, senza nemmeno un lavandino,
che mi è costata quattrocento lei;
giaciamo stretti in un lettuccio sghembo,
timidamente forzati a toccarci,
sicuri appena dei nostri vent’anni
e con l’amore di non far l’amore.
All’alba un vento gelido ravviva
la cenere dei suoi capelli corti
mentre mi lascia in Calea Victoriei.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Racconto tutto al vecchio alcolizzato,
ex miliţian ex securist ex uomo,
che incontro per le strade di Giuleşti:
dice che la conosce, che è fututa
(lemma neolatino) fino in bocca,
mi dice la sua età e il suo cognome,
e che non è di Giurgiu ma di Arad.
Io mi sdegno con lui, lo ingiurio un poco,
però non se ne accorge, e andiamo a bere
un intruglio che chiamano coniac,
perché la ţuica non si trova più.
Entriamo in casa, e m’offre con orgoglio
un bel pezzo di carne affumicata,
frutto di relazioni altolocate;
poi conosco sua figlia, brutta e grassa,
che con la scusa d’una passeggiata
mi porta in un negozio per stranieri
a comprare una gonna e una bottiglia
di whisky vero, con un prezzo assurdo.
Protesto che non ho quasi più soldi:
lei mi conduce al lago Herǎstrǎu,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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dove c’è pace e il cuor si riconforta.
Dormo da loro clandestinamente,
perché la legge snaturata vieta
la sacra antica ospitalità:
e la casa è graziosa, e fuori ha preso
a nevicare, e io teneramente
li stupisco cantando un loro canto.
Alle cinque, il mattino, scendo in strada
per la coda dell’olio, con la madre
di Elsa, la ragazza brutta e grassa.
La neve fa una pasta scivolosa
sulle pietre rotonde mal disposte.
Mi prende un senso strano di dolcezza.
Cosa farà Rodica stamattina?
Fra cinque giorni tornerò a Vercelli.
IN MORTE A UN AMICO
[di Chiara]
Non ti avvertono
gli amici
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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quando se ne vanno.
Non ti telefona nessuno
se deve dirti «io parto,
io non torno più».
Nella navata gremita la folla s’accalca
ma è tardi, è già l’attimo dopo (di nuovo vita),
non si fa notare lei, tra noi,
non smuove l’aria
non calca
non parla.
Solitaria
fa cenno con la mano
di seguirla
nel suo lontano.
È pausa musicale,
è spazio vuoto nel saliscendi del bus della folla
che sembra smarcata
mentre sempre è
anticipata e rincorsa dall’ombra scura,
l’impronunciabile suono:
Morte
(non c’è più).
La mauvaise graine
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Carlo Molinaro
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giovedì 7 giugno 2007, 8.51.49 | molinaro
Pensavo ancora a che cos’è un blog. Normale, l’ho aperto solo da tre giorni, è la fase in cui
uno si interroga. Tranne quelli che prima s’interrogano e poi fanno le cose, più saggi, ma io
no, io prima faccio le cose e poi penso se era il caso – per me è l’unica via possibile, perché
se ci penso prima poi non faccio niente – vale anche per sposarmi, mettere al mondo un
figlio, prendere un lavoro, eccetera.
Un blog è un contenitore. Quelli di personaggi famosi (Beppe Grillo per esempio) o di
organizzazioni sociopolitiche probabilmente servono anche a organizzare appunto movimenti sociopolitici. Ma io
non sono un personaggio famoso e non ho questa intenzione. Credo di intendere il blog, questo blog, come una specie
di lettera rivolta a chi ha voglia di leggerla. Chi mi conosce sa che di lettere ne ho sempre scritte molte. Il mio
epistolario (se qualcuno l’avesse conservato: io no di certo) occuperebbe più volumi di quello del Mazzini, che pure è
stato stampato in una quarantina di tomi. Certi giorni la mia cassetta della posta riceveva anche cinque o sei lettere.
Quasi tutte colorate, con disegni e ornamenti, quasi tutte di ragazze. Sì, intendo lettere di carta con il loro francobollo
– ormai bisogna precisarlo. Le più belle in assoluto sono state quelle di Diletta, fra il 1993 e il 1996. Anche se ci
vedevamo e facevamo l’amore, ci scrivevamo magari tre lettere nello stesso giorno, addirittura.
Adesso succede molto meno. C’è la posta elettronica ma non è la stessa cosa. Dai, su, tu, chiunque tu sia, magari
scrivimi, oggi l’affrancatura è 60 centesimi, abbordabile, meno di un caffè, e l’indirizzo è via Pinelli 34, 10144
Torino. No, non hanno intitolato una via a quel Pinelli volato dalla finestra della questura, questo è un Pinelli uomo
politico dell’Ottocento.
Per un lungo periodo lettera, caffè, giornale e biglietto dell’autobus hanno proceduto a prezzo uguale. Per molti anni
erano tutti a 50 lire. Poi si sono ritrovati insieme ancora a 100, a 150 lire. Questi discorsi mi fanno pensare che non
sono più un ragazzino. Vabbè. Adesso sono più sparpagliati: lettera 60 centesimi, caffè prevalentemente 80
centesimi, giornali perlopiù un euro, biglietto dell’autobus a Torino 90 centesimi ma lo vogliono aumentare con la
scusa della metropolitana.
Il blog insomma per me è uno spazio libero in cui divagare. Non mi preoccupo di destare l’interesse di qualcuno. È
una lettera a un destinatario imprecisato. Ecco, oggi almeno la penso così. Ieri sera alla stazione di Vercelli ho
incontrato ben tre persone. Strano perché di solito non incontro nessuno, la mia città natale mi è diventata abbastanza
estranea. Ma ieri ho incontrato un compagno di scuola (eravamo insieme nella stessa classe alle elementari e anche
alle medie, poi al liceo in classi diverse) che mi ha pure chiesto una copia del mio romanzo Io sto come mi pare. È
esaurito, forse lo ristamperanno quest’autunno ma non è sicuro. Ho ancora un po’ di copie mie d’autore, se qualcuno
ne vuole me lo dica.
Lui fa l’avvocato quindi dovrebbe passarsela bene ma adesso non tanto, dice che c’è crisi, poco lavoro e poi non lo
pagano. Eh, la crisi c’è. Anch’io sono sempre senza soldi. Pazienza. Non mi lamento troppo. Non sono mai stato un
arrapato del lavoro, lo faccio bene, credo, quello che faccio, ma sono così svagato, adesso sono le nove passate e
sarebbe meglio essere già al lavoro anziché scrivere nel blog. Lavorare in casa senza un orario preciso è un vantaggio
ma anche uno svantaggio: il cartellino da timbrare mi costringeva, quand’ero travet; adesso rimando, e poi finisce
che lavoro ancora alle tre di notte.
Poi ho incontrato una bionda poetessa con il marito, che era lui mio compagno di scuola, non di classe perché è di
due o tre anni più giovane. Con lei faccio il LovePoetry!Tour, che lo trovate fra le pagine amiche di questo blog.
Sicuramente sbaglierò qualcosa, io con la privacy (parolaccia inglese: come facevamo prima di importarla?) ho già
fatto casini a volte, e questo, il blog, è un luogo a rischio. Devo ricordarmi che può leggere chicchessia. Ma starò
attento. Pochi nomi! Una frase come «ieri sera ho fatto meravigliosamente l’amore con Xxxxxx» potrebbe creare
problemi con, secondo i casi e le età, i genitori, i figli, i fratelli, i fidanzati o i mariti di Xxxxxx. Già mi hanno fatto
notare che nel mio libro di poesie La parola rinvenuta ci sono parecchie dediche con nome e cognome e qualcuna sta
in capo a poesie dove si capisce fin troppo bene quello che è successo. Ma insomma la poesia è un po’ una zona
franca... o no? Certo l’amore libero è rimasto fra i sogni, e bisogna un pochino distinguere i sogni dalla realtà, anche
se non sempre, non proprio sempre.
Sta piovendo davvero a dirotto su Torino alle 9.26 del mattino del 7 giugno 2007.
Una mia amica-amore mi ha scritto recentemente una poesia che parla di questo, dell’amore e dei sogni, e voglio
citarne almeno i primi versi: Non sminuire troppo / questo amore / non sarà sogno / è vero / ma è pelle sulla pelle / è
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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abbraccio / in giorni dove non c’è abbraccio. Ricevere poesie dedicate a me è raro, di solito sono io quello che le
scrive. Questa è molto bella.
Ma non sempre è vero che l’amore vissuto concreto si oppone all’amore sognato. Per fortuna non sempre. A volte il
sogno precede, a volte si effonde dopo, a volte accompagna, a volte segue. Quei due o tre che conoscono bene la mia
poesia sanno che non sono di quei poeti lagnosi che scrivono solo per quelle che non gliela danno. Chiaro che scrivo
anche poesie di corteggiamento, di desiderio non (ancora) appagato; ma tante mie poesie sono per l’amore appagato,
contento, vissuto, pieno. Dato che prenderò probabilmente l’abitudine di spargere qui mie poesie, ve ne offro una
d’amore contento, tratta da Sospeso sogno e poi ripubblicata nell’onnicomprensivo La parola rinvenuta. Poi mi metto
a lavorare, che se no è inutile che mi lamento che non ho soldi. Poi adesso non so perché mi è venuta in mente una
bellissima canzone di Léo Ferré, La mauvaise graine, il testo dovrebbe essere qui
http://perso.orange.fr/scl/Lamauvaisegraine.htm finché c’è, perché internet è il regno dell’effimero.
IL GUARDIANO DEI SOGNI
Tu eri un sogno. T’ho sognata una notte
e m’hai riempito il sonno di colori.
Ma quella notte il guardiano dei sogni
– il guardiano che tiene chiuso l’uscio
fra sogno e realtà – s’è addormentato.
S’è addormentato lui! Tu sei sgusciata
lesta fuori e il mattino t’ho trovata
nel letto accanto a me. Che cosa fortunata!
Adesso tu sei la mia fidanzata.
LA MANO CHE NON MORDI
venerdì 8 giugno 2007, 0.02.19 | molinaro
Fare pubblicità gratis a una casa editrice grossa mi rompe un po’, ma fa lo stesso.
Questo libro mi piace e mi coinvolge. Un buona chiave per capire qualcosa dell’ex
Iugoslavia ma anche della Romania, che non è molto diversa. Io che con la
Romania ho avuto profondi rapporti, che ci ho viaggiato molti mesi nel corso di
molti anni, e che mi sono imparentato con romeni, ritrovo nel testo un sacco di
cose, quindi posso dare la mia «conferma», per quel che vale, a ciò che scrive
Ornela. Sono solo ottanta pagine ma dense di sostanza. Si legge in una sera. Ho comprato due copie del
libro, una per me e una per Chiara. Faccio spesso così: anche se ho pochi soldi, quando un libro mi
colpisce ne compro un’altra copia, a volte persino altre due, per qualcuno che a quel libro mi sembra
adatto. Bene, non mi dilungo: il libro è La mano che non mordi, di Ornela Vorpsi (che scrive in italiano: non
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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è una traduzione), Einaudi, Torino 2007, pp. 88, euro 8,80 (non so se l’hanno fatto apposta: esattamente
dieci centesimi a pagina). Io l’ho comprato a Torino alla libreria Massena 28, ovviamente in via Massena
28, ottima e volenterosa piccola grande libreria aperta al nuovo e agli incontri: http://www.massena28.com
Poetry slam al «Circolo dei lettori»
sabato 9 giugno 2007, 18.43.03 | molinaro
Ieri sera ho partecipato a un poetry slam organizzato al «Circolo del lettori», a Torino in un
palazzo sontuoso, del Seicento, mi pare, che mette soggezione. È un palazzo dove abita
anche della gente, certo gente un po’ particolare, non credo precari da 700 euro al mese. C’è
pure un portinaio che sembra un ammiraglio (ma non è sempre il medesimo: anche lì,
ormai, cooperative sparse di ammiragli a tempo determinato e senza pensione). Quindi è un
condominio, e funziona come tutti i condomìni: i condòmini si lamentano del viavai del
«Circolo dei lettori», benché tale circolo sia aristocraticissimo. È nella natura del condomino lamentarsi: dove c’è una
discoteca si lamenta della discoteca, dove c’è un bar si lamenta del bar, dove ci sono bambini che giocano si lamenta
dei bambini che giocano, dove non c’è nulla si lamenta che il quartiere è abbandonato.
Comunque: ho partecipato al poetry slam e sono arrivato terzo su sette. Non male, anche se come al solito (è almeno
la terza volta che mi succede) dopo la partenza lanciata con un componimento classico di sicuro effetto (il Recitativo
contro i treni rapidi), mi sono fregato al secondo giro con una poesia che stavo ancora scrivendo, nuova, neppure
ancora finita, e per di più vagamente d’amore. Poco adatta. È un errore che commetto spesso, ma non importa. Mi
rifiuto di scegliere sempre i pezzi più adatti alla competizione, altrimenti la poesia poi comincia a sembrarmi un
mestiere e se mi sembra un mestiere poi rischio di odiarla come si odiano tutti i mestieri: come si odia, naturalmente,
ogni cosa che deve essere fatta in cambio di qualcosa.
La poesia in questione avevo cominciato a scriverla il pomeriggio all’Imbarchino, un posto affacciato sul Po che vi
consiglio vivamente (è al Valentino, più o meno sotto il castello della facoltà di Architettura, un po’ a valle, mi pare,
delle società di canottieri Armida e Cerea – o un po’ a monte, adesso non riesco a focalizzare, comunque nelle
vicinanze) perché è bellissimo, è gestito da una cooperativa di ragazzi e puoi passarci tutto il pomeriggio prendendo
un caffè (80 centesimi) o anche prendendo niente, ma qualcosa prendi, dai, se no finisce che fallisce e chiude e
sarebbe un vero peccato. Poi avevo continuato a scriverla cenando con un’insalata al Brek di piazza Carlo Felice.
Quando l’ho letta al poetry slam non era proprio finita, ma quasi; adesso è finita e ve la offro qui. La copertina di
libro a cui è ispirata la potete comodamente vedere: è l’immagine attaccata al messaggio che precede questo. Bene.
Va così.
LE ALI DI CHIARA
Osservando una fotografia intitolata appunto Le ali di Chiara, sulla
copertina del libro di Ornela Vorpsi La mano che non mordi,
nell’edizione Einaudi, collana L’Arcipelago Einaudi, 110, Torino,
febbraio 2007.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Il fiume s’è alzato, ha coperto i tre gradini
più bassi. Le ali di Chiara
sono dipinte sulla schiena. Hanno tolto i tavolini
dalla terrazza inferiore. Le ali di Chiara
sono dipinte sulla schiena in color sangue.
Si resta a bere sul terrazzo più alto. Le ali
di Chiara, color sangue, non sono per volare.
Si servono caffè in tazze di plastica. Le ali
vere sono nascoste. Gli studenti sfogliano
dispense in fotocopie rilegate con spirali.
Le ali scendono sulla schiena come sangue.
Squilla un telefono. Bisogna cancellare
le ali di sangue perché possano schiudersi
le ali vere. Quattro canottieri spingono un armo
nella corrente. Come cancelli il sangue?
È giugno, è tempo d’esami, due ragazze
s’interrogano di biologia. Non lo cancelli
ma seccherà, e si distaccherà. Il fiume è gonfio,
dopo la siccità prende respiro. Le ali di Chiara
si apriranno leggere, invisibili, frantumeranno
il sangue. Un ragazzo si toglie gli occhiali.
Asciugate dal sangue le ali di Chiara
la porteranno in volo, via dall’amore in eccesso,
via dallo stringere di braccia senza garbo,
via dalla nostalgia carnivora, da tutte
le trappole del tempo. Un cameriere
prepara per la sera. Osserveremo
il volo libero, non alzeremo il braccio
per fare segni, non racconteremo
come si svela il suo mistero. Il fiume
trascina tronchi grigi. Eviteremo
di fare chiasso, d’innamorarci troppo
o di esternare chissà che sciocchezze.
S’accende qualche luce dietro il banco,
un uomo indossa il grembiule e risciacqua
i boccali. Le ali di Chiara
non saranno più argomento per discorsi
quando Chiara, ordinata una birra,
sorriderà come dovrebbero sorridere
tutte le donne, in piedi, fra gli amici.
Torino, 8-9 giugno 2007
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Un sabato sera in casa da solo
sabato 9 giugno 2007, 22.07.27 | molinaro
Un sabato sera in casa da solo. Non mi dispiace poi tanto, andrò a letto presto, sono
stanco, domani mi aspetta una domenica lavorativa. Credo di avere capito un’altra cosa
su questo blog che ormai ha quasi una settimana di vita. Forse l’ho aperto per tenere di
nuovo un diario io, semplicemente un diario mio. Da i 13 ai 40 anni circa l’ho tenuto,
un diario: scrivevo quasi ogni giorno su un’agenda gli avvenimenti, i pensieri, le
considerazioni. Ho tutte quelle agende in uno scaffale, è divertente a volte (ma molto di
rado) andare a riscoprire gli eventi di un giorno lontano. Giorni importanti: il 1° febbraio 1969 dichiarai
apertamente il mio amore a Chiara (dopo averci pensato più di un anno, s’intende). Non la stessa Chiara di cui
ho già parlato in questo blog, perché questa era ancora molto di là da nascere, le mancavano una dozzina
d’anni ancora prima di venire al mondo. Un’altra Chiara. Giorni meno rilevanti: il 1° giugno dello stesso anno
1969 feci una pedalata da Vercelli fino al santuario di Crea, con amici di cui nel diario elenco i nomi. Un diario,
cose grandi e piccole. Poi non ci sono più riuscito. Ho riprovato, ogni tanto, a cominciare un quaderno. Ma
sono tutti abortiti dopo poche pagine. Tenere quaderni non è (più) da me. Anche le poesie le scrivo su fogli
sparsi, prima di trascriverle al computer. Le cose non mi piace più raccontarle solo a me stesso, a un diario
chiuso in un cassetto. Sarò diventato più estroverso, che volete mai. Era anche ora, si potrebbe dire. Ma sì, vado
a dormire. Poco fa mi frullava in capo una domanda: ma se sono permessi l’alcol, il tabacco e le religioni, che
senso ha vietare gli spinelli? Buona notte.
Vercelli, Vercelli, stazione di Vercelli
domenica 10 giugno 2007, 22.54.47 | molinaro
Un temporale violento su Vercelli ha fulminato il televisore di mia madre e un treno,
ma con un altro treno sono tornato a Torino. La domenica sera vado spesso a cena
da mia madre a Vercelli. Dopo il temporale, alla stazione, nuvole di zanzare.
Vercelli, la mia città natale, ha con me un rapporto tenue, debole, forse
insignificante. C'è uno scarso interesse reciproco. Credo che nessuna libreria di
Vercelli tenga miei libri. Li terrebbero se scrivessi di storia locale, o di cucina, o se
almeno, pur essendo un poeta, fossi un poeta dialettale che va alle sagre. Credo che non mi perdonino il
mio trovarmi meglio a Torino, che a me appare così naturale. E a Vercelli non so mai che cosa raccontare.
Mi chiedono come stanno i miei figli e nipoti e come va il lavoro. Stanno bene, per fortuna, e il lavoro va
come va, c'è e non c'è, è poco pagato ma si tira avanti. D'accordo, ma, detto questo, potremmo parlare di
qualcosa un po' più in confidenza? Di che cosa ci ha emozionati stamattina e di chi siamo innamorati?
Uno se la aspetterebbe, questa confidenza, dal natio borgo selvaggio. E invece no, niente.
Prima di entrare in stazione ho preso un orzo in tazza grande nel chiosco della piazza lì davanti: è l'unico
bar di Vercelli che, si può dire, frequento, almeno occasionalmente. Ci sono guardiani notturni, taxisti,
vagabondi, viaggiatori e stranieri. Mentre bevevo l'orzo ho sentito ordinare un caffè e ho avuto
un'illuminazione. Il caffè è stato ordinato con queste parole: "Ma sì, vah, dammi un caffè, ah". Ma più che
le parole conta il tono, un tono rassegnato e nello stesso tempo infastidito, stanco, scazzato. Quasi a dire:
non sarebbe il caso di prendere un caffè. Non sarebbe il caso di fare nulla. Non sarebbe il caso di parlare,
di comunicare. Non sarebbe il caso neppure di vivere. Non vorrei mai confidarti, barista, che voglio un
caffè. Cioè, che forse lo voglio. Lo voglicchio. Dio quanto mi pesa questa confidenza. Ma per stavolta, vah,
ma sì, uff, dammi un caffè. Mi sono accorto improvvisamente che a Vercelli quasi tutti i caffè si ordinano
così. Che dire qualsiasi cosa è una grande fatica. Anzi, non è una fatica, è un disonore. Se fossi un vero
uomo starei zitto. Ma mi abbasso a parlare per chiedere un caffè, sì, vah. Me ne vergogno molto.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Vercelli mi ha abituato a questo: a considerare ogni cosa che faccio, ogni cosa che dico, un disonore,
un'onta, un abbassamento. Un'umiliazione. A meno che uno gridi, che sia prepotente, allora è un altro
discorso, dopo che uno ha gridato forte e a lungo il caffè non deve più nemmeno chiederlo, basta un
cenno.
Mah. Probabilmente esagero. È stato anche il luogo della mia infanzia. Qualche sogno ci è rimasto. Però
da non dire, appunto. Da tenere ben nascosto. Ben chiuso. Come le cose vergognose. Fra le risaie, solo i
deboli e le donnicciuole possono avere un'anima da comunicare. Gli uomini stanno zitti, o parlano di
cazzate, che è lo stesso che stare zitti. Va così. Eppure c'era, poco distante da Vercelli, una grande
foresta, e lì il silenzio aveva un senso, e io stavo zitto per non disturbare, e ci scrissi una poesia. Ma non si
poteva stare per sempre zitti e chiusi. Secondo me, almeno, non si poteva. Io ho preferito andare via.
RICORDO D’INFANZIA
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
Jorge Guillén
C’era, poco distante da Vercelli,
una grande foresta. A torso nudo
m’inoltravo nel verde, e mi colpiva
il sole, che oscillava sulle foglie.
C’era una chiazza d’acqua che agitava
bolle di sabbia, e nasceva un ruscello
che rallentava in piccoli laghetti.
Molto lontano, il croscio di una cava.
C’era un sentiero nitido, compatto
di terra bianca fra due cigli d’erba:
di colpo si perdeva sul ghiaione
sparso di secchi rami calcinati.
Il fiume scintillava e scivolava
vegliato dagli stridi degli uccelli.
Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo
stava in piedi, qualche volta, fissando.
Spingevo piano la mia bicicletta
perché non disturbasse. Mai nessuno
disse sconce parole.
Liberiamo il libero amore
lunedì 11 giugno 2007, 9.51.47 | molinaro
Le utopie sono sempre state pericolosissime e tanti (troppi)
sono stati i filosofi utopici: persino Platone può essere
interpretato in questo senso, ma poi arriviamo a Tommaso
Moro, Tommaso Campanella (forse Tommaso è un nome da
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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utopista?) e ad architetti come Le Corbusier, e così via. Finché
l’utopista è un giocherellone che si diverte a immaginare una vita perfetta (senza
rendersi conto della contraddizione primaria già insita nel termine: una vita
perfecta è prima di tutto una vita passata, finita, quindi è la morte) possiamo
anche lasciarlo stare nel suo brodo. Immaginare un mondo perfetto è come la
masturbazione, mentre vivere nel mondo imperfetto è come fare l’amore; se lui
preferisce masturbarsi, cavoli suoi. Quando però l’utopia viene propagandata e
usata dal potere per imporre un modello totalitario, allora non è più innocente:
c’è un filo rosso che lega Platone a Hitler e Stalin (l’ha evidenziato Karl Popper).
Insomma sì, l’utopia è pericolosissima.
Nelle utopie spesso ci sono alcuni ingredienti comuni: abbondanza di merci e di
beni, meccanismi sociali funzionalissimi, abolizione della proprietà, educazione
comunitaria dei bambini, libero amore. Pare che per gli utopisti queste cose siano
della stessa natura, da mettere nello stesso paniere. A me sembra che l’ultima, il
libero amore, sia invece molto diversa. Per inciso, notiamo che è l’unica utopia
che nessuna dittatura ha mai promesso. Vorrà ben dir qualcosa.
Il fatto che gli utopisti mettessero il libero amore nel paniere con l’abbondanza di
beni materiali (il paese di Cuccagna) secondo me dimostra che erano utopisti
maschilisti, e il loro discorso assomigliava a un pane e figa per tutti. Ci sono stati
anche utopisti più seri, forse, che hanno previsto un libero amore anche
femminile. Però ancora in modo molto materiale, carnale, mentre l’amore è un
cortocircuito di carne e spirito – le due cose insieme, sempre. A ogni amore
partecipano i cieli, come scrissi in una poesia molti anni fa. Ma il problema è un
altro: è che il libero amore, proprio in quanto libero, con l’utopia fa a pugni, e
dunque inquadrarlo nel pericoloso schema dell’utopia è da mentecatti.
Il libero amore è una cosa che nasce democraticamente dal basso,
semplicemente facendolo. Infatti quel poco che esiste esiste così. Mica con i
proclami. Libero amore è una ragazza di Genova che conosco, che nel
festeggiare i suoi 18 anni ha constatato divertita: «Coi ragazzi ho fatto l’inverso
del numero degli anni, ne ho avuti 81». E non ha perso il conto, perché ognuno
ha avuto la sua importanza. Libero amore è un amico che sta dalle parti di
Savona che dopo tanti discorsi e tante poesie sull’universalità dell’amore, sul
profumo di tutte le donne e di tutte le città, si scopre geloso come un serpente e
incapace di tollerare che la «sua» ragazza baci un altro, e però non ha più tutto
un universo a dargli ragione come sarebbe successo cinquant’anni fa, e va pure
in crisi. Libero amore è una ragazza lombarda che s’innamora di uomini e donne
e lavora normalmente e non ha altri problemi che quelli che nascono dai
sentimenti. Libero amore è quando chi critica le ragazze dai molti fidanzati viene
considerato non più di moda, e succede così, spontaneamente, non perché
qualcuno l’ha deciso. Libero amore è quando m’innamoro di una ragazza con tutti
i suoi altri amori o quando lei s’innamora di me con tutti i miei altri amori. Libero
amore è persino stare insieme solo in due, se oggi o sempre ci va bene così, ma
senza pensare neppur lontanamente di fare una cosa più giusta di altre. Sono
tutte faccende che nascono dalla quotidianità, dal basso. Lentamente, forse
troppo lentamente, ma nascono.
Fare discorsi utopici sul libero amore è invece contraddittorio, appunto, è voler
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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normare e schematizzare ciò che non è normabile né schematizzabile: come si fa
a dare una norma all’aggettivo «libero»? È la trappola dell’utopia. Dunque
liberiamo il libero amore dall’utopia del libero amore. Non è un meccanismo che
deve ben funzionare, il libero amore. È un casino, con tutti i suoi drammi. Ma è
bellissimo!
Ora, io ho parlato del libero amore perché sono notoriamente maniaco di questo,
ma mi viene il ragionevole dubbio che il discorso valga anche per tutto il resto.
Per la democrazia, per la libertà politica, per la libertà religiosa, per le scelte
economiche, stilistiche, estetiche. Tutte queste cose se vengono imposte dall’alto
cadono su di noi come una cappa di piombo, magari formalmente perfetta ma
che ci soffoca e ci uccide. Se nascono lentamente dal basso, saranno sempre
imperfette, conflittuali, ingarbugliate, ma vive, vere, con meravigliosi precari
sprazzi di felicità (e non la tetra felicità perenne promessa/promossa dagli
utopisti).
Persino il mitico non fate la guerra fate l’amore è uno slogan troppo totalitario.
Nella vita potrà capitare di far guerre, neppure le guerre si possono cancellare
dall’alto, d’autorità: cercheremo di evitare le guerre, ecco tutto, nel nostro
piccolo, dal basso. Ma non sempre ci riusciremo. Tantomeno riusciremo a far
sempre l’amore. Io stamattina mi sa che non lo faccio: le due donne che ogni
tanto gradiscono farlo meco sono lontane; un’altra non lo gradisce ormai più
tanto; una che mi piace moltissimo mi ha detto di no, benché io non mi rassegni;
con qualche altra ci sono sviluppi possibili ma per oggi un po’ astratti. Quindi
anche non fate la guerra fate l’amore è un po’ una cazzata che, in fondo, nega il
libero amore: ciò che è libero è precario, imperfetto, vagante, trepidante,
ansioso, bello, inatteso, imprevedibile, fuggente, incompiuto, indefinibile – e
soprattutto non potrà mai stare dietro un imperativo, perdipiù plurale, collettivo,
come fate.
Fatevi tutti una buona giornata, però! Ciao!
Buon compleanno, Francesco!
martedì 12 giugno 2007, 20.51.09 | molinaro
Vent’anni fa, di sera come adesso, nasceva il mio secondo figlio, Francesco. Un figlio che
compie vent’anni è sempre un’emozione. Del resto la prima figlia, Lucia, mi ha già dato
pure l’emozione di secondo grado: nonno di due nipotini. Forte, Lucia, 24 anni e già due
figli. Ma forte anche Francesco. Ho due figli tosti, mi piacciono molto, sono entrambi in
gamba, critici eppure gentili, autonomi ma non isolati. Sanno amare la società senza essere
travolti dalle sue componenti consumistiche, sanno vivere con poco, sanno apprezzare ciò
che il denaro non compra. Eh, insomma, non vorrei fare un panegirico, adesso, ma con tanti genitori che si lamentano
dei figli e viceversa, dire che io sono contento dei miei figli (e loro sono contenti di me, e c’è un dialogo molto bello)
mi sembra un contributo all’ottimismo cosmico. Buon compleanno, Francesco!
(nella foto, Francesco un paio di anni fa con la chitarra di Fabrizio de Andrè nel negozio genovese di Gianni Tassio
in via del Campo)
La fiacca, lo scialo, l'amour, la guerre, le travail
giovedì 14 giugno 2007, 9.15.44 | molinaro
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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La fiacca, lo scialo, perdere tempo e pensare che forse lo si
perde comunque, oppure mai. Non estremizziamo: ci sono
modi migliori e peggiori di impiegarlo. Ma non sarò mai un
positivista. Ricordo bellissime giornate in cui non ho combinato
nulla di oggettivo e tantomeno di produttivo. Parole dal
significato incerto, peraltro. Stamattina alle sei mi hanno
svegliato i vigili urbani per chiedermi di spostare la Panda. Non che fosse
posteggiata male, è solo che è esplosa una tubatura e devono scavare proprio lì,
sotto la mia Panda. Bene, l’ho spostata. Così adesso so che il passaggio di
proprietà è registrato, se mi hanno trovato subito leggendo la targa. Però gli
adesivi da appiccicare sul libretto non sono ancora arrivati.
Mi ha mandato un messaggio una mia amica di Venezia, era dal dentista. Il
dentista mi ha fatto pensare a un’altra amica, di Roma, che aveva un dentista fra
i suoi tre amanti principali, che la trattavano tutti e tre malissimo e secondo me
lei era – ed è – una ragazza splendida. Un anno e mezzo fa all’improvviso ha
smesso di rispondere al telefono e ai messaggi e alle lettere e poi dopo che ho
insistito in vari modi mi ha mandato un messaggio laconico dicendomi di non
cercarla più. Mi sto ancora domandando perché e che cosa ho fatto di sbagliato e
mi manca. Chiaro però che a me mancano troppe persone perché ciascuna di
loro possa considerare la cosa rilevante. Mi piace questa frase che mi è venuta
così senza volere, l’avesse detta Woody Allen la metterebbero qua e là nei posti
dove si mettono le frasi. A me mancano troppe persone perché ciascuna di
loro possa considerare la cosa rilevante. Le persone, e le donne in
particolare, gradiscono una certa esclusiva. Comunque l’amica di Roma, che poi
non è proprio di Roma ma ci abitava e non so se ci abita ancora, dopo avere
abitato a Como e a Parma, mi manca «specialmente». Chissà se sono troppe
anche le persone che mi mancano «specialmente». Sono incostante e poco
gerarchico. L’altra notte ho dormito solo tre ore e non per insonnia ma perché ho
lavorato fino alle tre e mi sono dovuto alzare alle sei, ma non sono uno
stakanovista, è solo che faccio tutto alle ore sbagliate, per esempio adesso tutti i
bravi adulti regolari lavoratori staranno appunto lavorando e io cazzeggio nel
blog.
È complicato non fare nomi, l’amica di Venezia, l’amica di Roma (che poi a Roma
ne ho due o tre o quattro), mi ci ingarbuglio. Ma inventare nomi di fantasia è
peggio ancora. Odio quando lo fanno i giornalisti: «La piccola Chiara è stata vista
l’ultima volta appollaiata su un palo del telegrafo a Cosseria, in provincia di
Savona. Gli inquirenti hanno immediatamente interrogato la popolazione per
accertare come mai a Cosseria ci sia ancora un palo del telegrafo, visto che
primo il telegrafo non si usa più e secondo adesso i cavi sono tutti interrati.
Naturalmente Chiara è un nome di fantasia. La polizia brancola nel buio, per
forza che poi qualcuno qua e là si prende una manganellata a caso».
Ieri ho passato molte ore a letto con un’altra amica, questa dei dintorni di Torino,
a parlare, dormire e fare massaggi (niente più di questo, ragazzi, niente più).
Certe cose normalissime a raccontarle suonano strane. Come scrive Stephen
King in un suo racconto giovanile (Stand by me, un gran bel racconto), le cose
importanti sono anche semplici ma sono le più difficili da raccontare. L’amica con
cui sono stato a letto ieri (vedete come la frase è equivoca!) ha trovato in casa
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 22 di 200
sua una lettera mia per lei già aperta da altri, presumibilmente i suoi genitori,
diciamo quasi certamente i suoi genitori. Non è la prima volta che accade. Stavo
macchinando con lei di mandarle magari nei prossimi giorni un po’ di lettere con
dentro solo un foglio con su scritto: Ma farvi i cazzi vostri no, eh?
Sì, la cosa dello spionaggio è un po’ collegata a quella dei nomi. Un’altra amica
ancora (è chiaro che con il termine «amica» definisco una molteplicità di rapporti
con varie sfumature; ma esiste forse una parola migliore?) sta dalle parti di
Vicenza, è una ragazza molto dolce, scintillante, i suoi baci sono buoni, ci piace
abbracciarci le poche volte che possiamo. Se scrivessi qui il suo nome potrebbero
esserci problemi familiari per lei, forse.
A volte però ci si lancia e non ci si bada. In un locale in riviera ho letto una
poesia d’amore per una splendida ragazza e c’era lì anche il suo fidanzato, e si
capiva benissimo per chi era la poesia. Uno in certi momenti pensa: basta, vada
come vada. No? Mica si può sempre star lì. L’amour, la guerre, Julienne, come
dice quella poesia di Guido Catalano con musica di Andrea Gattico [in Sbronzi
all’alba senza sigarette, vi consiglio il CD ma anche lo spettacolo dal vivo, per
esempio lo fanno adesso a Torino venerdì 15 alle 22 all’Imbarchino (che è un
posto di cui parlo in un messaggio precedente) e sabato 16 alle 21.30 alla
libreria Massena (altro posto di cui ho già parlato – è bello, mi accorgo che
ricominciano a esistere dei luoghi, c’è stato un periodo che quasi non ce
n’erano)].
Certo che scrivere fluentemente puttanate è una cosa che mi riesce abbastanza
bene. A questa riga sono arrivato in una ventina di minuti, conosco gente che ci
metterebbe un giorno o non ci riuscirebbe mai. Mi pagassero per scrivere queste
puttanate avrei risolto ogni mio problema economico. Ma poi forse no,
immediatamente non mi sentirei più libero. Amen. Mettiamoci al lavoro, l’altro,
quello noioso obbligato e pagato, benché poco. Buona giornata!
Gli straccetti
venerdì 15 giugno 2007, 5.40.05 | molinaro
Basta, oggi lavoro e basta se no poi diventa davvero un casino. Oggi il blog neanche lo
guardo, sono le sei e mezza del mattino e mi metto al lavoro – e basta! Vi offro solamente
una poesia scritta l’altro ieri, ispirata da una ragazza che vedo spesso, e alla quale gli
straccetti... Beh, lo dice la poesia. Buona giornata, gente.
GLI STRACCETTI
Chi è che non vorrebbe toglierteli
gli straccetti di cui ti sei vestita
stasera – lo farei anch’io qui adesso
nella luce di miele di questo caffè
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 23 di 200
– lo farei volentieri anche se
sono ben preso da un’altra maestosa
ragazza azzurra, da una bianca mandorla
acerba, da una bruna montanara
e da altre donne superbe e festose
di svariati colori e svariati profumi
– quegli straccetti te li toglierei
senza pensare ad altro, in solo omaggio
alla gioia, alla vita, alla fuggente
felicità – ma soprattutto a noi,
a noi qui ora, qui adesso, qui a bere
una tisana d’erbe, in questa sera che non è
mai stata prima e non sarà mai più.
L'anima
sabato 16 giugno 2007, 0.48.18 | molinaro
Nella prefazione al mio libro La parola rinvenuta Sandro Gros Pietro a un certo
punto sottolinea come io sia un poeta che ha il «coraggio» di parlare di anima, in
pieno XXI secolo: e cita una serie di mie poesie in cui compare appunto la parola
anima. Non so se ho avuto bisogno di coraggio per scrivere anima, direi che m’è
venuto così senza pensarci, che non l’ho fatto apposta. L’anima per me non credo
che sia una cosa di religione: è soprattutto un fluido, un plasma un po’ magico
perché pur essendo individuale può fondersi con altre anime. Ora mi è successo di nuovo di parlarne, in
una piccola poesia di stampo genovese, Sottoripa: il secondo verso della seconda sestina si chiude con
anima. Ma anche stavolta non l’ho fatto apposta. E nel cuore della notte che segue un venerdì di lavoro e
precede un sabato di lavoro, mi permetto di offrirvi la piccola poesia. E la sua anima.
SOTTORIPA
C’è la freschezza buona della sera:
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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ho visto una finestra scintillare
in un lampo d’arancio. In queste stanze
abitano persone. Ti vorrei,
ragazza, qui: vorrei che usassi il mio
asciugamani: che tu fossi a casa.
Basterebbe scoprire il varco aperto
o il punto di contatto, dove l’anima
ritrova sé nell’altro: l’improvvisa
gioia di combinarsi, come quando
ha un odore di te l’ombra che sale
imprecisa da un angolo del porto.
That's all jazz
domenica 17 giugno 2007, 0.34.40 | molinaro
Secondo me il jazz, più che un genere musicale, è quando un
po’ di amici si trovano a casa di qualcuno, o in un posto piccolo,
per fare musica fra loro. Se aggiungiamo alla musica la poesia,
si è fatto del jazz stasera alla libreria Massena a Torino. Una
ventina di amici, una tastiera, un violino, i fogli con le poesie.
Sono arrivato in lieve ritardo perché Claudia non finiva di
vestirsi e truccarsi, così sono entrato che già Arsenio leggeva, Guido lo guardava,
Andrea e Mayumi suonavano. C’era anche Stefania, una collega o ex collega o
paracollega o nient’affatto collega (con il lavoro precario non si capisce più un
cazzo), che è carina ed è alta quasi come me e allora le ho dato un bacio. Mi
sono seduto su uno sgabello in fondo.
La prima poesia di Arsenio mi ha subito stimolato risonanze e fantasie, perché è
così che mi succede. Partecipazione. Una poesia forse un po’ da laudator
temporis acti, anche se non del tutto. Parlava di una Torino d’altri tempi, più
sportiva, e di ragazze di adesso troppo svestite, e di baci che duravano quindici
minuti ma solo nei primi tempi, e ogni bacio fa sì che quello dopo duri di meno,
insomma il tempo, con la ripetizione, accorcerebbe i baci. Io che Torino la vedo
più colorata adesso, e per me le ragazze sono sempre ancor troppo vestite, e che
il bacio più lungo della mia vita l’ho dato a maggio ma intendo il maggio del
2007, anzi era il 1° giugno, e mi piacerebbe darne uno più lungo ancora martedì
prossimo a Venezia e uno a Vicenza e uno ancora più lunghissimo sabato fra Novi
e Tortona ma quello sarà difficile, non seguo tanto il discorso arseniano, ho i
tempi a rovescio, forse, e le meglio cose le devo ancora fare, sperando nelle
more delle Moire; però la poesia mi è piaciuta abbastanza lo stesso.
L’importante è che non ci si perda a rimpiangere passati che non sono stati
migliori del presente, ogni tempo è in sé, e nessuno sa di fare le cose mentre le
fa, lo si sa solo dopo, e il jazz appunto non è più a New Orleans o nel Missouri, e
può essere alla libreria Massena una sera a Torino, ma non lo sappiamo adesso,
e forse nel 2070 diranno «che schifo questo vacuo presente, non sono più gli
anni eroici d’inizio secolo, quando si trovavano a suonare e leggere poesie nelle
librerie».
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Dopo le altre poesie di Guido e la musica di Andrea e Mayumi ero molto
emozionato: se mi avessero chiesto di improvvisare una poesia avrei potuto,
perché avevo tirato su la serata come una carta assorbente, me n’ero imbibito, e
ne avevo un disegno netto dentro, combinato con le cose mie, tutta una roba da
dire, volendo. Da improvvisare lì. Versione unica irripetibile. Jazz.
Perché io quando improvviso improvviso davvero. Come a Savona al Raindogs,
mica me l’ero preparata. C’era Chiara, c’era amore e rabbia, c’era colore, c’era
tensione ideale e non ideale, i versi mi sono scoppiati dentro e li ho buttati fuori:
poésie de l’art, come la comédie, sul momento. Certo che rischi grosso, può
sempre uscire una stronzata. Se salti un tempo, una pausa, è finita. Certo che
consumi energie e nervi a manetta, da perdere qualche chilo. Certo che non lo
puoi fare tutte le volte. Ma per me l’improvvisazione è così. Ho sentito Beppe
Grillo e Dario Fo, e anche la senatrice Franca Rame, dire che l’improvvisazione
non s’improvvisa, che in realtà è tutto preparato meticolosamente, che non c’è
nulla di più preparato di quello che sembra improvvisato. Sarà, ma secondo me
così non vale. Ci prendono per il culo anche loro. Certo, se devono farlo
obbligatoriamente a ogni spettacolo, li capisco anche. Però non è
improvvisazione onesta. La chiamino in un altro modo. Non è jazz.
Sia come sia, che la ricordino poi mitizzata nel 2070 oppure no, questa serata
alla libreria Massena è stata una bella serata, io me la prendo adesso, che nel
2070 non ci sarò proprio, questo è certo. Jazz. Hic et nunc. Ho comprato due
copie della nuova edizione del libro di Guido, I cani hanno sempre ragione, una
per me e una da regalare a Chiara con dedica alla sua neoadottata cagnetta Zoe,
che oggi mi ha detto che è stupenda, e le farà piacere un libro che le dà sempre
ragione, a Zoe, e anche se non sa leggere io dico che lo capisce.
Avec le temps
lunedì 18 giugno 2007, 12.21.55 | molinaro
Non è vero. Non è vero quello che dice questa bellissima canzone di Léo Ferré. Credimi:
non è vero. Sono un uomo ostinato, sono un bambino ostinato, e te lo dico forte: non è vero.
Ma la canzone è davvero bellissima. È bellissima e perciò non ha bisogno che si creda che
dica qualcosa di vero. Tu credi a me: non è vero che con il tempo non si ama più.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
On oublie le visage et l'on oublie la voix
Le coeur, quand ça bat plus,
C'est pas la pein' d'aller chercher plus loin
Faut laisser faire et c'est très bien
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
L'autre qu'on adorait, qu'on cherchait sous la pluie
L'autre qu'on devinait au détour d'un regard
Entre les mots entre les lignes et sous le fard
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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D'un serment maquillé qui s'en va faire sa nuit
Avec le temps,
Tout s'évanouit.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
Mêm' les plus chouette's souv'nirs ça t'a un' de ces gueul's
À la Gal'rie j'farfouill'
Dans les rayons d'la mort
Le sam'di soir quand la tendresse s'en va tout' seule
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
L'autre à qui l'on croyait pour un rhum' pour un rien
L'autre à qui l'on donnait du vent et des bijoux
Pour qui l'on eût vendu son âme pour quelques sous
Devant quoi l'on s'traînait comme traînent les chiens
Avec le temps, va, tout va bien.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
On oublie les passions et l'on oublie les voix
Qui vous disaient tout bas
Les mots des pauvres gens
Ne rentre pas trop tard, surtout ne prends pas froid
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
Et l'on se sent blanchi comme un cheval fourbu
Et l'on se sent glacé dans le lit de hasard
Et l'on se sent tout seul peut-être mais peinard
Et l'on se sent floué par les années perdues
Alors vraiment
Avec le temps on n'aime plus.
Sabato 23 giugno a Pozzolo Formigaro
giovedì 21 giugno 2007, 9.21.59 | molinaro
Messaggio di servizio: sabato 23 giugno a Pozzolo Formigaro, provincia di
Alessandria, c'è il Festival della piccola editoria di poesia. Dibattiti, letture e cose
varie. Trovate il programma nella figurina. A proposito, lo sapete tutti che quelle
figurine nei messaggi si ingrandiscono cliccandoci sopra, neh? Certamente lo
sapete tutti, sono solo io che ci ho messo un po' a capirlo. Sul programma mi sono
permesso, egocentricamente, di segnare con una freccetta rossa lo spazio-lettura
in cui probabilmente leggo io. Non chiedetemi come si arriva a Pozzolo Formigaro, ammesso che
qualcuno voglia venirci, anch'io me lo dovrò cercare; si narra che sia più o meno fra Novi Ligure e Tortona,
o giù di lì. Dicono che ci sia un bel castello, però! Altra notizia: venerdì 22 giugno, cioè domani ormai, a
Genova al Festival della poesia legge Cesare Oddera, alle 18, alla loggia dei Mercanti in piazza Banchi, si
veda qui: http://www.festivalpoesia.org/programmi/22giugno.html
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Uccelli e scarpine
giovedì 21 giugno 2007, 14.18.39 | molinaro
Due poesie scaturite da un giro verso il vicino – molto vicino – Oriente. Così, al volo.
GABBIANI (SÌ, HAI SENTITO BENE: GABBIANI)
Tutte le regole a volte conviene
trasgredirle: anche quella che vieta
di mettere in versi i gabbiani e i puledri
(e – benché un po’ meno gravi – i ciclamini):
l’armamentario dei vecchi azzimati
che sbafano Carducci e carciofini.
Sì, però se i gabbiani alle sei del mattino
fanno bordello davanti alla finestra
aperta sulla calle in sestiere Castello
e ci rompono il sonno del dopo l’amore,
bisognerà citarli. Non è una colpa grave:
qualcuno deve pur dare la sveglia.
Qui a Venezia è difficile che passi
il camion della rumenta come a Genova
o il primo tram come a Torino. Qui
tocca ai gabbiani. Niente di male. Sto
sveglio disteso sul lenzuolo, nudo,
e penso: Sono un uomo fortunato.
Perché ho fatto l’amore con una donna
e ci siamo piaciuti di più che le altre volte;
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Carlo Molinaro
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perché c’è intorno una città che s’anima
e io la sento. È divino sentire la città,
sentirla per davvero! Fa quasi una vita
sentire e amare la città e la donna.
La donna amata può avere difetti,
scatti di malumore, rughe, pause,
distacchi: ma ogni cosa è dentro un quadro
meraviglioso. La città può avere
impunemente i camion, le serrande
scaraventate – persino i gabbiani.
DEL PARADISO NON C’IMPORTA NULLA
Romina toglie le scarpine rosse
e cammina nell’erba. Non è un prato
di montagna o collina, è solo il parco
davanti alla stazione. Le scarpine
le tiene in mano, sono rosse come
la maglietta scollata, gli orecchini
e la fettuccia che regge un pendente
di forma acuminata. Ci abbracciamo
e ci baciamo. Non è il paradiso,
è solo il parco davanti alla stazione
dove si rischia forse un vetro rotto
o una merda di cane. Sono baci,
normali baci di città, gli abbracci
che si danno i ragazzi nei quartieri
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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delle stazioni.
Noi siamo i ragazzi,
i baci sono baci, le scarpine
sono rosse, i piedi di Romina
sono i suoi piedi, l’erba è l’erba, qui
ci siamo noi che ci abbracciamo e crédimi
del paradiso non c’importa nulla.
Topless!
venerdì 22 giugno 2007, 8.33.08 | molinaro
Oggi mettiamo una cosa leggera, che devo finire dei lavori e poi partire per Genova. Dato
che faccio quasi tutte le cose a rovescio, nel tempo, a venticinqu’anni di sesso ne facevo
pochissimo e mi consolavo «guardando» – una situazione da pensionato della bocciofila,
insomma. Scrivevo anche poesie sul girl watching, e simili, come queste due qui sotto (da
La parola rinvenuta, Genesi Editrice). Che comunque anche oggi lo preferisco al bird
watching, s’intende. Ma insomma. In spiaggia ero sempre a passeggiare e tenevo la conta
dei topless, che poi riferivo in cifra e in percentuale all’amico Franco (più pazzo di me) con cartoline balneari
(scrivere cartoline era l’altra attività preferita delle noiose vacanze spiaggesche) – non esistevano né internet né sms
all’epoca. Bah, comunque. Anche oggi considero il topless lodevole, pure per ragioni sociopolitiche (scherzo? in
parte, in parte... io non scherzo mai del tutto!), in quanto opposto praticamente a tutte le religioni (che io tutte
appunto cordialmente detesto) e, naturalmente, a tutti gli stati confessionali o teocratici. Il topless politico, insomma.
Fossi una donna starei sempre in topless. Certo, a petto nudo ci sto anche da maschio, ma non è la stessa cosa. Un
tribunale statunitense, peraltro, ha assolto una donna in topless (negli USA c’è ancora chi le denuncia, e però c’è chi
le assolve: grande paese di grandi contraddizioni, l’Amerika!) proprio con la motivazione della parità: se a un uomo è
permesso stare a torso nudo, è anticostituzionale che non sia permesso a una donna. Fra le ragazze giovani il topless
non è sufficientemente diffuso, occorrerebbe una campagna pubblicitaria che lo promuovesse. Ma temo non
convenga all’industria, perché mediamente il reggiseno di un costume da bagno è molto più costoso delle mutandine.
Vabbè. Cazzeggiando in rete mi sono imbattuto in un sondaggio promosso da un giornaletto per teenagers (vedi
figura) che dà il topless al 12,37 per cento. Poco, ma su certe spiagge sembra pure di meno. Su, su, ragazze, più tette
al vento, per due validi motivi: il mio piacere e la lotta dura contro vescovi, rabbini e imam!
TEMPO D’UN POMERIGGIO AL MARE
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Sulla spiaggia, di pomeriggio, il vento
(tra moderato e forte)
sconsiglia il bagno ed invoglia al passeggio:
le onde s’arricciano fino all’orizzonte,
dritto davanti si vede Montecristo.
Seduto accanto all’ombrellone chiuso,
finito di leggere un capitolo
del Caballero de la Triste Figura,
grosso volume che un’amica mi ha prestato,
mi godo il transito delle ragazze
bianche, arrossate, abbronzate,
coi loro costumini vivaci, interi
o due pezzi (più rara chicca il topless);
sento lo scalpicciare nel risucchio
della battigia e qualche gaia sillaba.
E presto scrivo queste righe in margine
a una rivista che ho preso e che fingo
di guardare (guai a farsi scoprire
versificando...), e c’è la sabbia e il sole
e velocissime le tavole a vela
vanno e vengono a riva, e passa un tempo
che non sarà poi troppo differente
da quello che scorse gli sbarchi di Enea,
e altri suoni, altri costumi, altre cose
terribilmente vicine nella Storia.
AURE BALNEARI
La spiaggetta di Zoagli è breve:
dopo un bagnetto nell’acqua sporca,
l’unico passatempo passabile
è il girl watching.
Veramente
nemmeno lì c’è molto da scialare:
qualche ventenne ossuta e sospettosa,
vaste madame con bambini e sciampo,
una tedesca con le tette rosse,
tutti tipi così.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Ma io sono tenace nella scepsi,
e trovo, infine, un fiore selvatico
in uno sciame di ragazze tenere
portate in riva al mare da due suore.
È bionda come il grano: mi ricorda
un giovanile amore: quindici anni
potrebbe avere: uno sguardo che taglia
lo spesso del meriggio, e sente d’alba
immaginata su terre serene.
Non è in costume da bagno: veste
dei calzoncini rosa e un reggiseno
verde. Al lobo un orecchino
minuscolo sfavilla.
Su una piccola spugna bianca e rossa
prende il sole e ne rende,
parlando a bocca a bocca con l’immenso;
e fra i corpi mortali disseccati
e la luce infinita si pone
corda di passaggio,
riflesso (e tanto basta) di ciò
che vive dopo...
Esito sproporzionato
di una ricerca da guardone: ma
la grazia non si merita, si ha
quando e finché si ha.
Il caffè riscaldato
venerdì 22 giugno 2007, 11.02.19 | molinaro
Dato che comunque, volente o nolente, invecchio, a volte affiorano ricordi lontani, e ce n’è
qualcuno apparentemente insignificante che riaffiora più spesso, con un fastidio
ingiustificato, o apparentemente ingiustificato. Uno che salta su ogni tanto è quello del
pomeriggio del caffè riscaldato. Roba di quarant’anni fa: avevo tredici-quattordici anni e a
casa mia erano venute tre o quattro persone (amici? conoscenti? questo non lo ricordo –
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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c’erano almeno un maschio e una femmina, ma credo che fossero più di due in totale, e
avevano qualche anno più di me, forse una specie di delegazione di una scuola, o di un oratorio, o di chissà che
gruppo, una cosa quasi un po’ ufficiale, non ricordo). Ma ero contento perché i miei non c’erano ed era una delle
prime volte che accoglievo persone in casa mia – cioè, insomma, a casa dei miei, una casa mia non ce l’avevo,
ovviamente. Si fermarono forse un’ora, discorsi vari, doveva esserci qualcosa di «culturale» ma non ricordo, non ho
idea degli argomenti. Quello che ricordo è che, con grande sforzo (ero timidissimo e allergico, più di quanto lo sono
adesso, ai convenevoli, alle cerimonie, all’offrire il tè o quel che l’è), dissi se potevo offrire qualcosa. Loro risposero:
«Magari un caffè, grazie». Io a tredici-quattordici anni non avevo la minima idea del funzionamento di molte cose: le
donne, certo, ma anche le caffettiere. C’era in casa del caffè avanzato dalla colazione preparata da mia madre, e dissi:
«Ve lo riscaldo». Mettere il pentolino sul fornello era una cosa che sapevo già fare. Ed ecco che qui ho il ricordo
violentissimo: come avessi bestemmiato, risposero: «No, no, allora no, grazie, riscaldato no, fa niente, non prendiamo
niente, grazie lo stesso». Ci rimasi malissimo. Non dissi nulla, perché avevo esaurito la scorta (in me allora
ridottissima) dell’energia del dire. Ma ci rimasi malissimo. Certo era deplorevole che io a tredici-quattordici anni non
sapessi nulla del funzionamento di una caffettiera (di nessun tipo), ma c’è da precisare che, non prendendo all’epoca
personalmente caffè, non mi ero mai interessato al problema, e ciò non mi crucciava. Il funzionamento di una
caffettiera non era una mia priorità. Ma quella volta mi sentii proprio male.
Eppure ancora oggi penso che quelli là erano degli stronzi, tutto sommato. Io se vado ospite a casa di qualcuno,
anche adesso, prendo quello che mi danno, qualunque cosa purché non velenosa e non alcolica. In Romania ho
bevuto intrugli che ridire né sa né può chi di laggiù ritorna; in certe case ho mangiato ogni e qualsiasi cosa, persino il
riso latte e zucca che è un sapore dei peggiori mai creati dall’umanità; un caffè offerto lo prendo indifferentemente
nuovo o riscaldato, caldo o tiepido, macchiato o no, con uno o due o nessun cucchiaino di zucchero, insomma non me
ne frega niente: se m’importa della persona che me lo offre, non m’importa del caffè. Quindi quegli stronzi mi
avvilirono tantissimo e a distanza di quarant’anni ogni tanto me lo ricordo e mi dà fastidio. Forse dovrei raccontarlo a
uno psicanalista, ma con quello che costano!
Con ciò naturalmente non voglio offendere chi non sopporta il caffè riscaldato. Adesso la caffettiera la so usare e se
venite a trovarmi ve lo faccio sul momento, prometto.
Bella serata di poesia ieri a Savona
lunedì 25 giugno 2007, 18.59.11 | molinaro
Ieri sera a Savona al Raindogs c’è stata una grande serata di musica e di poesia. Grande,
perché è andata proprio bene. Tutti quelli che hanno letto o suonato hanno fatto bene. Gli
altri erano contenti di esserci e di ascoltare. Non succede spesso che vada bene così. Io nel
mio piccolo mi sono lanciato sull’inedito. Beh, sul molto inedito. Nel senso che la prima
poesia che ho letto, Sottoripa, l’ho scritta qualche giorno fa; e le altre tre che ho letto,
Invettiva contro una canzone di Mogolbattisti, Invettiva contro un’altra canzone di
Mogolbattisti e Profumo di lavanda, le ho scritte ieri pomeriggio stesso. Le ho lette che erano ancora scarabocchiate
a mano su un foglietto. Ma perché sì, sì, bisogna rischiare, buttar dentro del nuovo, no? Come se non bastasse, dopo
la serata ho scritto ancora un’altra poesia, Interpretazione e dialogo. Una giornata davvero fertile. Cioè, poi magari
sono cazzate, ma la giornata è stata fertile, su questo non ci piove. Vi sbatto tutte le suddette poesie qui sotto.
SOTTORIPA
C’è la freschezza buona della sera:
ho visto una finestra scintillare
in un lampo d’arancio. In queste stanze
abitano persone. Ti vorrei,
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Carlo Molinaro
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ragazza, qui: vorrei che usassi il mio
asciugamani: che tu fossi a casa.
Basterebbe scoprire il varco aperto
o il punto di contatto, dove l’anima
ritrova sé nell’altro: l’improvvisa
gioia di combinarsi, come quando
ha un odore di te l’ombra che sale
imprecisa da un angolo del porto.
INVETTIVA CONTRO UNA CANZONE DI MOGOLBATTISTI
In primo luogo se guidi a fari spenti nella notte
sei un pericolo pubblico e dovrebbero toglierti la patente.
E se prendi a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese
sei un grandissimo stronzo manesco prepotente.
Ma soprattutto: cosa stai a recitare la parte del grande intellettuale,
quello che le cose le capisci solo tu, che fai il sostenuto,
e alla ragazza le dici: capire tu non puoi,
tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Ma l’hai deciso tu che lei non può capire?
Ma ci hai mai provato a spiegare?
No, non ci hai provato, perché la prendi per una deficiente,
e invece mi sa che sei tu che non capisci una mazza
e stai lì a masturbarti con i tuoi concettini poetici
e fai tanto il grand’uomo e poi se andiamo a ben vedere
non sai neanche cosa vuol dire amare
e ti sfoghi della tua incapacità rovesciandola su di lei, dicendole:
capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Secondo me non sei capace neanche di trombare bene.
Di sicuro come giardiniere sei una frana,
se copri di terra la piantina verde sperando possa
nascere un giorno una rosa rossa. Coglione,
se la copri completamente di terra non nascerà un bel niente,
sei capace di distinguere una rosa da una patata?
Se vuoi andare in giro per ore e ore a fare il cretino,
a guardare il mondo come fosse roba tua che solo tu capisci,
cazzi tuoi, ma non credere, brutto stronzo,
che lei non possa capire.
Forse ne capisce più di te,
e quando crollerà il tuo castello di niente
(che dire di carte sarebbe già troppo)
e sarai nella merda fino al collo, senza sapere com’è successo,
magari allora verrà lei a dirti:
capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni.
E a te ti toccherà constatare e rispondere
che no, non sono emozioni, è merda.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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INVETTIVA CONTRO UN’ALTRA CANZONE DI MOGOLBATTISTI
Acqua azzurra acqua chiara un cazzo!
Come fai a scrivere un verso di una canzone
che dice a quest’ora, cosa vuoi,
mi va bene pure lei? Io, brutto stronzo,
la vorrei proprio conoscere
quella poveretta lei che ti va pure bene
ma solo a quest’ora – e scriverei per lei
la mia più bella poesia d’amore:
per lei che la prendi così, a quest’ora, cosa vuoi...
Cosa vuoi tu, pezzo di merda!
Ti sembra il modo di trattare una ragazza?
Che poi arriva quell’altra bella azzurra e
tutto questo non c’è più. Che gentile!
Ma vai a cagare, Mogolbattisti!
Non sopporto chi usa le persone in questo modo.
Falla conoscere a me la ragazza
che ti va bene ma solamente quando
son le quattro e mezza ormai
– perché, alle sei del pomeriggio cos’è,
una troietta stupida stronzetta? Vai a cagare,
Mogolbattisti, ti dico solo una cosa:
vai a cagare. Se incontro la ragazza
delle quattro e mezza ormai
scommetto che me ne innamoro e sto con lei
e forse la sposo e ci faccio dei figli
e tu la tua acqua azzurra
te la ficchi su per il culo, ti ci fai una pera,
che ti faccia venire la diarrea.
PROFUMO DI LAVANDA
Sulla strada da Mallare al santuario
un cespuglio di lavanda si sporge
da un muricciolo. È in piena fioritura.
Passo il braccio fra le spighe, le sento
un poco resistere e un poco piegarsi
al mio premere, al mio scivolare.
Quando riprendo il cammino mi annuso
l’odore di lavanda sulla pelle:
è buono, è mio, resta qualche minuto
poi svanirà – ma adesso c’è ed è mio.
È meglio prenderlo così, il profumo:
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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portarlo in palmo di mano
senza strappare il fiore, senza cedere
alla smania, all’omicida velleità
di possedere, di portare via.
INTERPRETAZIONE E DIALOGO
a Chiara e a Zibba
Dice: «Mi piace dove dice
La gente muore sola
perché non ha ardimento».
La mia piccola Panda verde ospedale
non ha lo stereo, non stiamo ascoltando
quella canzone. No: ma ne stiamo parlando.
Resto un poco in silenzio. Ho sbagliato
strada – sbaglio strada ogni volta
che sono con lei – dovrò prendere
l’autostrada a Tortona, allungando
di venti chilometri almeno. Dico:
«Ma secondo te cosa significa
che la gente muore sola
perché non ha ardimento?»
Si volta verso me. La luce del quasi tramonto
le fa il viso più limpido. «Non so,
veramente. Mi piace così,
non ci ho mica pensato a che cosa
significa. Adesso ci penso».
Interpretare due versi di una canzone
non sarà forse un esercizio utile,
ma è buono, è giusto, è per dirci qualcosa
di non banale, tornando a Savona.
«Forse è il coraggio di mettersi in gioco
in un amore». «Intendi: di impegnarsi?» «Non so,
non è la stessa cosa?» «Forse no».
«Il coraggio di prendere – o di lasciarsi prendere?»
«Questa sì è la stessa cosa». «Dovrebbe».
«E se hai ardimento non muori solo? Fabrizio
dice che quando si muore si muore soli,
e basta». «Ma qui Zibba intende una cosa diversa:
il contrario di morire soli non è morire in compagnia,
è vivere». «Sì, dev’essere così». «Tu vivi?»
Ho esagerato, non attendo risposta. Cambio
l’argomento, lo cambio di poco: «Pensi ancora
che o si calpesta o si è calpestati?» «Forse
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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non l’ho mai pensato veramente». «Tre mesi fa
mi hai scritto di sì, che lo pensavi». «Forse
non era vero». Congiunge le dita:
ha mani bellissime, ha mani sincere.
Spingo la Panda ai centotrenta all’ora
per non farla tardare troppo alla cena
con il suo fidanzato e con gli amici. Ma
siamo in ritardo di forse tre ore:
«Non correre. Minuto più minuto meno,
avranno ormai finito di mangiare.
Ma ci terranno almeno un piatto di ravioli».
Non è nervosa del ritardo. È linda.
Scivola liscia l’autostrada, tranquilla.
Penso ancora all’avere ardimento
e al morire da soli, e vedo morti e ardimenti
come zolle di terra, diverse, rovesciate,
friabili o compatte, rosse o nere, lavorate
o incolte: ma ciascuna ha la sua erba:
che sia verbena o sia gramigna, dà
il suo filo al telaio del grande disegno.
E sia così. L’ardimento di prendere
(ti ruberei, ti porterei con me
in luoghi che non sai), l’ardimento
di non prendere (ho il mio amore,
sono felice adesso), l’ardimento
di farsi uccidere dalla poesia
– o forse questa è vigliaccheria –
l’ardimento di lasciare, di scegliere;
l’ardimento di non scegliere,
di non lasciare mai. Chi sono io
per dir qualcosa? Arriviamo, scendiamo,
c’è ancora, sì, un piatto di ravioli.
Io non lo so se moriremo soli.
In decalcomania
mercoledì 27 giugno 2007, 15.59.25 | molinaro
Le poesie fanno strani giri. A volte possono arrivare a essere lette dagli «altri» poche ore
dopo essere state scritte, come tre delle poesie di domenica scorsa a Savona, o come una
poesia che scrivo di getto e magari metto subito, per esempio, in questo blog. Altre volte le
cose vanno molto diversamente. Questa poesia qui sotto, Evanescenza, la scrissi intorno al
1980. Dopo il 1980 ho pubblicato molti libri, ma non l’ho mai messa in nessun libro. Credo
di non averla mai fatta leggere nemmeno ad amici. E nemmeno alla ragazza di cui parla
(che non so se l’avrebbe gradita, con quell’epiteto del terzultimo verso). Poi nel 2003 mi è arrivata una proposta da
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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una rivista di New York, volevano una mia piccola sequenza di poesie inedite da pubblicare. Io avevo appena messo
il meglio di cui disponevo al momento in Entro incerti limiti, delle Edizioni Joker. Ero scarso di inediti. Ma una
rivista di New York è un’occasione da non perdere, no? Così ho preso i migliori (pochi) inediti recenti che avevo
ancora, e poi ho, come suol dirsi, frugato nei cassetti. E ho riesumato questa poesia di quasi un quarto di secolo
prima. Non so perché l’ho fatto. Non credo che all’improvviso mi sia sembrata più bella e più degna di
pubblicazione. No, dev’essere stata una cosa così, d’istinto, senza motivo. Forse un attimo di tenerezza per la ragazza
in questione, per quegli imbranati e smutandati giri in moto in cui lei... non mi si concedeva. Persa poi di vista presto,
magari sarà una grassa signora della buona borghesia vercellese, adesso. In sostanza, ho mandato quella poesia, con
altre, a New York nel 2003. Ma le riviste letterarie sono lente anche nei dinamici Stati Uniti, e così solo alla fine del
2006 la poesia è comparsa su una pagina della Italian Poetry Review della Columbia University. E solo pochi mesi fa
sono riuscito ad avere per posta una copia della rivista (si vede che la poesia viaggia ancora sui vecchi bastimenti, per
traversare l’oceano). Poi improvvisamente sabato scorso a Pozzolo Formigaro, al Festival della piccola editoria di
poesia, su un banchetto ne trovo un sacco di copie, della Italian Poetry Review: perché si sono «gemellati» per la
distribuzione con un editore italiano, la Casalini Libri. Buona idea. Allora ne ho comprate tre o quattro, e una l’ho
subito regalata a Chiara che era con me. Bene. E in sostanza tutta questa faccenda mi ha fatto venire voglia di farvi
leggere Evanescenza, poesia rimasta nel cassetto per un quarto di secolo e poi pubblicata, sì, ma solo a New York!
Lo trovo quasi divertente, tutto ciò. La poesia non è probabilmente delle mie migliori (se non mi decidevo mai a
pubblicarla ci sarà stato un motivo), ma ci volteggia un po’ di quell’ariosa minigonna estiva, in quelle gite lungo la
Sesia negli anni Settanta, a far l’amore più o meno libero (più meno che più) sui ghiaioni e nei pioppeti. Beh, lei non
con me, d’accordo, io contribuivo solo dandole un passaggio in moto. Era una bella bruna con gli occhi chiari, i
capelli morbidi, le cosce solidissime bene scolpite e quella curiosa abitudine di non mettere le mutande. Almeno
d’estate.
EVANESCENZA
Facciamo un giro? Bagnava la sella
dietro me sulla moto: la gonnella
si rimboccava e lei (con buona pace
degli igienisti) era senza mutande
nei calori di giugno in camporella.
L’impronta scura nella similpelle
evaporava al sole dopo un nulla,
ma prima era disegno di farfalla
che prometteva tante cose belle:
farfalla trasudata di magia.
E invece la dannata puttanella
non me la diede mai: me la mostrò
solo così, in decalcomania.
Clodia, Catullo e Cicerone
giovedì 28 giugno 2007, 8.52.15 | molinaro
Per le ragazze di costumi non rigorosamente allineati è sempre
stato difficile ottenere giustizia. Stanotte pensavo a Clodia, la
fidanzata di Catullo (lui nelle poesie la chiama Lesbia, per
necessaria discrezione), di sicuro un bel tipetto di donna. Era
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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sposata con un tal Quinto Cecilio Metello Celere, che fu anche
console, e ciononostante si faceva un sacco di altri uomini; d’altronde se il
quarto dei nomi del marito si riferiva anche alle prestazioni sessuali, c’è da
capirla. Ma, scherzi a parte, sembra che il Cecilio Metello la prendesse
abbastanza bene. Fu un altro dei suoi morosi, un certo Marco Celio Rufo, cha
dai dati biografici mi sembra un oscuro leccaculo arrampicatore sociale, che
invece tentò di avvelenarla per rubarle dei soldi e dei gioielli – e qui si dimostra
che fra certi uomini politici romani del I secolo avanti Cristo e certi marocchini
che a Porta Palazzo ti fregano il cellulare nel XXI secolo dopo Cristo non c’è
nessuna differenza sostanziale; anzi, i secondi sono migliori perché almeno non
ti avvelenano.
Il suddetto Celio era amico di Cicerone, posso immaginare che tipo di amico: gli
si era appiccicato per far carriera, certamente. Ma a Cicerone piaceva, e sul
come e perché gli piacesse non stiamo ad approfondire, saran ben cazzi loro.
Comunque, quando il perfido Celio, dopo essersi trombato l’ingenua Clodia
(almeno in questo caso ingenua), cercò di avvelenarla e derubarla, fu in qualche
modo beccato, perché finì sotto processo per veneficium, appunto. Ma qui salta
fuori il Cicerone, potente avvocato, che con un’arringa piena di stronzate riesce
a far assolvere l’amichetto. Va da sé che nell’arringa non parla di fatti concreti
ma getta fango su Clodia, di lei ricordando libidines, amores, adulteria, Baias,
actas, convivia, comissationes, cantus, symphonias (Cic., Pro Caelio, 35) e
sottolineando che lei le ammette pure, queste cose, non le nasconde (forse è
questo il peccato più grave per una donna, allora come ora: la sincerità). Clodia
era una che trombava, beveva con gli amici, andava in spiaggia e ascoltava
musica: come darle credito? Assolvete dunque il povero Celio. E così fu.
Oggi forse le cose vanno un po’ meglio (mi han sempre fatto ridere quelli che
lodano i buoni costumi antichi – la Roma di Cicerone era ben peggio della
Roma di Veltroni), però certo è ancora difficile per talune ragazze ottenere
giustizia se subiscono soprusi e violenze. Ma qui mi vengono in mente cose che
non posso dire, e concludo con il pensiero che comunque a Clodia/Lesbia,
maltrattata dalla «giustizia», sono rimasti almeno frammenti di grande poesia; e
a un’altra che so io, del XX secolo dopo Cristo, sono pure rimasti frammenti di
poesia, certo meno grande, ma si fa quel che si può. Però, ragazzi, quando
studiate Cicerone, ricordate che non era affatto un uomo onesto e integerrimo,
non più di quanto lo siano certi noti avvocati-politici di adesso, che non posso
neppur nominare perché il potere in tutti i secoli è feroce, e la libertà
d’espressione in tutti i secoli è relativa.
Sparare
giovedì 28 giugno 2007, 9.36.56 | molinaro
Ecco, scritta ieri sera, in treno. Stamattina c’è un
cielo bellissimo su Torino, così come ieri sera e anche
l’altro ieri sera, e l’aria sa di mare.
NON DI TUTTI I POETI IL COMPITO È SPARARE
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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a Cesare Oddera
Non di tutti i poeti il compito è sparare
– e non è detto che l’amore uccida:
la mancanza, sì, uccide. Quand’ero bambino
non c’era nulla che fosse intero: solo
brandelli presi per pietà e tenuti
nascosti con ringhiosa gelosia
come fa il cane con le ossa marce
– gli scarti della mensa.
Ho faticato
a trovare a cucire a rimarginare
una materia del vero – del vivo.
Non di tutti i poeti il compito è sparare:
tu spara se il tuo amore deve uccidere
per penetrare e trattenere. Io
tesso versi di lino per asciugare il sangue
uscito, perché nella cicatrice
bianca risplenda un amore superstite
un altro poco.
È questo il breve
mio ardimento: raccogliere, abbracciare
ciò che il colpo sparpaglia – sentire
che la vita mi scappa, sì, dalle dita
– però stringere il pugno ancora più forte.
Hina
venerdì 29 giugno 2007, 8.32.39 | molinaro
Sono qui stamattina che faccio la rassegna stampa sull’immigrazione, uno dei lavoretti con
cui campo (la faccio per una bella associazione, Fieri: www.fieri.it), e leggo che al processo
contro i massacratori di Hina Saleem, la ragazza uccisa nei dintorni di Brescia l’11 agosto
2006 perché voleva vivere normalmente, e dunque rifiutava le regole del suo clan e della
sua religione, non è stata ammessa la costituzione di parte civile da parte di un’associazione
di donne musulmane. Lo trovo sconcertante: oltre a non difenderle noi (la sinistra purtroppo
su questo ha molte ambiguità), non permettiamo neppure che si difendano da loro, le donne musulmane. Chi mi
conosce sa che detesto le religioni (le considero strumenti di potere e d’oppressione, tutte), ma, appunto, non faccio
distinzioni: oltre al cristianesimo e all’ebraismo, per dire, detesto cordialmente anche l’islam. La sinistra invece
sembra fare timorose distinzioni, che personalmente non sopporto. Quando fu uccisa Hina scrissi una specie di
poesia, che si trova a pag. 571 del mio libro La parola rinvenuta. Ce l’ho voluta mettere, allora, nel libro, pur
sapendo che non è una «vera» poesia, ma piuttosto un discorso civile. Ma mi sembrava necessario. E mi sembra
necessario anche adesso. E ve la faccio leggere, o rileggere, qui sotto.
HINA
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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alla memoria di Hina Saleem
Ma perché non sappiamo più difendere
i valori dell’ottantanove – e non mi riferisco
al 1989 ma a quelli più importanti
del 1789, liberté égalité fraternité?
Dal 1989 in poi abbiamo esportato
non libertà ma libero mercato,
e quello torna al mittente, sui denti,
come è naturale. Non sappiamo difendere
la libertà in cui pure viviamo. Intellettuali
di destra e di sinistra ci sputano sopra,
mossi da biechi interessi. Libertà
è dire ciò che vuoi, scriverlo, fare
ciò che vuoi senza doverti nascondere:
è un concetto assai limpido e semplice.
Con tutti i suoi difetti, l’Occidente,
il cosiddetto Occidente, essenzialmente
l’Europa, l’Europa occidentale,
questo concetto l’ha portato avanti.
Ci sono state malattie, il nazismo,
il comunismo, il consumismo, sì,
però il concetto rimaneva chiaro.
Sei libero se puoi stare o non stare
con tuo marito, se puoi credere o no
che esiste un qualche dio, se puoi andare
dove vuoi con chi vuoi, se puoi pensare
e dire idee d’ogni sorta, cominciare
qualsiasi avventura, e anche nel piccolo
vivere quotidiano puoi vestirti
come ti pare, non devi andare a messa
né a convegni obbligati né ossequiare
qualche padrone o eminenza. È semplice,
mi pare, definire libertà:
le grandi cose sono molto semplici.
(Anche il limite è semplice: non nuocere
all’altra gente, dare un contributo
alla collettività. Non è difficile,
davvero, definire libertà,
per noi, dal 1789 in qua.)
Quello che forse non è a tutti chiaro
è che questa libertà è un valore,
un vero valore in sé, una cosa per cui
c’è da lottare sempre, un valore da difendere.
Le religioni (che la libertà la odiano, tutte)
hanno i loro riti e i loro martiri.
La libertà ha i suoi semplici martiri,
come Hina Saleem, sacrificata
come un agnello su un altare perché
voleva lavorare per suo conto,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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vestire un top e una minigonna,
fare l’amore senza maritarsi,
seguire idee sue e non d’Allah.
Questo è successo in una città
d’Italia, e alla martire Hina darei
almeno la cittadinanza alla memoria,
farei di tutto perché sia ricordata
almeno come Franca Viola – già,
ma è ricordata Franca Viola che
ha difeso sulla sua pelle la libertà
d’amore in Sicilia quarant’anni fa?
Anche da noi ci sono maschi loschi,
che vogliono le donne prigioniere,
fidanzate mogli figlie sotto rigido
controllo, ce n’è ancora di maschi così,
perciò non si deve abbassare la guardia.
Se non vi ricordate Franca Viola,
fatevi una ricerca (e vergognatevi
almeno un po’) e per Hina Saleem
ci sia memoria e onore, quello che
è dovuto a chi dà (volendo o no)
la vita per la nostra civiltà,
questa splendida cosa che dobbiamo
tornare a coltivare, libertà:
che non abbia a insecchire, che non sia
calpestata dai barbari di dio.
Torino, 22 agosto 2006
L'amore ai tempi della telematica
sabato 30 giugno 2007, 8.14.14 | molinaro
Ieri una ragazza (da cui non me lo sarei mai aspettato perché mi sembrava che ci fosse
un’ottima intesa fra lei e me – ma posso sbagliare) mi ha detto di sentirsi invasa da me.
Tralascio i dettagli più intimi perché... sono fatti nostri, ma rifletto su quel concetto di
invasione. Certamente quando ho una piena di sentimenti sono portato a comunicare molto,
e comunico con una certa svagata leggerezza anche con – potenzialmente – il mondo intero
(qui in questo blog, per esempio – ma pure nei libri di poesie, che in fondo sono una cosa
intimissima data a tutti). Nei confronti del mondo, amen, è una scelta mia che il mondo può ben sopportare –
nessuno è obbligato a leggermi.
Ma nei rapporti da persona a persona, e forse soprattutto con le donne e ragazze, queste moderne tecnologie mi sa che
devo gestirle con più raziocinio e moderazione. Penso a mie storie di una decina di anni fa. Ragazze che magari
potevo vedere una volta alla settimana o anche meno, e si faceva l’amore in macchina o in alberghi a ore o su un
prato, perché non c’erano case disponibili. E come si comunicava? Il telefono era quello di casa, controllato quindi da
genitori o altri parenti e affini: da usare con molta cautela. Il sms non si sapeva ancora che cosa fosse. Internet non si
era ancora diffusa, non esisteva la mail. Ricordo telefonate fatte da cabine, nell’ora in cui si sperava di non beccare,
al posto della ragazza, il padre o la madre. E lettere, tante lettere di bella carta, sperando che in casa non ci fosse
nessuno così spione da aprirle e frugarle (anche se a volte c’era).
Ma, insomma, la comunicazione era molto più lenta, calma. Anche se D. e io, pure al tempo dei francobolli, eravamo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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capaci di scriverci tre lettere nello stesso giorno, e magari in un giorno in cui ci eravamo anche visti. L’amore è
sempre una piena impetuosa di voglia di comunicare. Ma con le moderne tecnologie c’è qualche rischio di eccedere.
Fino a pochi anni fa (il mio primo cellulare l’ho preso nel 2003) se ero in riva al fiume e vedevo qualcosa di bello e
volevo condividerlo con una ragazza (o con tre ragazze – che ci volete fare, sono fatto così!), perché è bello
condividere il bello con chi si ama, dovevo tenermi il pensiero, e poi dirlo quando ci vedevamo, oppure scriverlo in
una lettera che arrivava dopo giorni. Adesso invece le mando un sms, con l’ebbrezza (malata?) di condividere subito,
condividere l’immagine mentre la vedo, il pensiero mentre lo penso. Probabilmente è sbagliato. E può ingenerare
overdose e invasione. Sì, queste tecnologie moderne vanno gestite con attenzione.
A E., la ragazza che ieri mi ha detto di sentirsi invasa, scriverò su carta, e non troppo spesso. Non sono contrario al
progresso, ma va trattato nel modo giusto. Anche se comunque l’amore, per una ragazza o per dieci ragazze, è per sua
natura un eccesso, in ogni epoca. Se no, che cavolo di amore è? Sciacquetta?
Il muro oltre il cancello
domenica 1 luglio 2007, 1.30.13 | molinaro
Ieri la mia amica Clara mi ha scritto una frase folgorante. O, almeno,
folgorante per me. Eccola: «C’è un muro dietro il cancello che
scavalchiamo senza suonare, e vasti prati e sentieri e sorgenti se
aspettiamo che ci venga aperto». Mi sono accorto che questa frase è una
svolta – non «la» svolta, la vita è tutta uno svoltare – ma «una» svolta
importante nella (mia) maturazione umana. Non ci avevo mai pensato.
Una frase importante per me e forse addirittura per la pace nel mondo. Vabbè non
esageriamo.
Diciamo che da ragazzo pensavo l’esatto contrario: un giardino, uno spazio oltre un cancello,
poteva avere valore per me se e solo se ci entravo scavalcando, senza dover chiedere il
permesso a nessuno. Chiedere il permesso non solo mi umiliava profondamente, non solo
violentava la mia timidezza (anche oggi faccio fatica persino a telefonare all’idraulico per
chiedergli di venire ad aggiustare un rubinetto: io e chiedere non andiamo ancora d’accordo,
anche se mi sforzo di evolvermi), ma vanificava completamente lo spazio da esplorare: se
me lo permettono, pensavo, dev’essere già stato esplorato, già codificato, già precotto, già
con sentieri che mi toccherà seguire, e allora a che serve? Oltre a ciò, lo sforzo emotivo di
chiedere il permesso mi svuotava di ogni energia, per cui dopo averlo compiuto non avevo
più la forza di oltrepassare il cancello. Già avevo chiesto il permesso, basta: andavo a
dormire. Troppo stanco!
Forse ero un ragazzo strano, forse no. Tutti i ragazzi si ribellano al limite delle «cose
permesse» perché vogliono «tutto». I più baldanzosi si ribellano saltando protervi nel
proibito davanti al mondo, magari compiaciuti. Io ero timidissimo e la mia ribellione era la
clandestinità. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state solitarie e clandestine, fuori
dal mondo, nell’unico spazio dove non devi mai chiedere il permesso: quello che abiti solo tu.
Non è stato granché, ma è andata così.
Ecco, non so bene se c’è davvero un nesso, ma la frase di Clara mi illumina sui rapporti
umani. L’atteggiamento che avevo da ragazzo era forse inevitabile, ma davvero mi faceva
trovare davanti a un muro. E mi vietava vasti prati e sentieri e sorgenti. Nei rapporti umani
non va bene scavalcare il cancello. A volte bisogna chiedere il permesso. A volte neppure
chiedere il permesso, ma solo aspettare e sperare che il cancello venga aperto.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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La cosa in realtà non mi è chiarissima, ci sto pensando adesso, ore due della notte fra il 30
giugno e il 1° luglio. In diretta. Facciamo un esempio. Se una ragazza mi piace io prima di
tutto mi faccio dei giri di fantasie e fantasticherie su di lei. Poi cerco di sapere qualcosa di lei,
o comunque qualcosa di più di quello che già so. Questo d’altronde è normale, tutti fanno un
po’ così. Si cerca di acquisire dati per poi farsi avanti con qualche cognizione di causa,
migliorando le possibilità di successo. Ma dopo c’è uno snodo importante, il momento in cui
appunto ci si fa avanti. Lì c’è da stare attenti a non scavalcare il cancello, a non spingersi
chissà dove immaginando cose infondate, o rattoppando insieme minime confidenze
completandole con la propria interpretazione e magari costruendo un personaggio
immaginario che poi può scontrarsi con la ragazza reale. Lì bisogna avere pazienza, stare
sulla soglia, guardare bene, capire che cosa c’è davvero oltre il cancello, aspettare appunto
che venga spontaneamente aperto, in modo da vedere la realtà di lei, la realtà di lei da
amare, e non il muro delle proprie solipsistiche fantasie.
Lei magari il cancello lo apre subito, magari lo apre lentamente, magari non lo apre mai.
Adattarsi a questo è cosa molto aspra e dura (soprattutto se lo apre molto lentamente o,
ahimè, mai), è dura un po’ come da ragazzi chiedere – chiedere il permesso o qualsiasi cosa,
è durissimo chiedere, ma a voi non vi sembra difficilissimo? Succede solo a me? Per me lo è
sempre stato. Sì, per me è quasi patologico, lo so, ricordo di avere girato ore per città ignote
piuttosto che chiedere un’informazione a un passante. Volevo trovarla io quella via, da solo –
non so se è orgoglio o timidezza, forse è la stessa cosa? Il bello è che se poi riuscivo a farmi
forza e a chiedere dov’è la via tale, dopo ero contentissimo. Mah. Ci riuscivo rarissimamente.
Ora un po’ di più.
Insomma, non estremizziamo. Un certo grado di distorcimento della realtà,
nell’innamoramento, è inevitabile. Il fenomeno per cui lei fa un sorrisetto di circostanza (un
sorrisetto che farebbe quasi a chiunque) e lui, essendone innamorato, lo interpreta come un
«ti amo! ti sorrido perché ti amo!», è un fenomeno classico, da manuale. Però a una certa
età bisogna anche cominciare un po’ a capirlo. Anche se la tendenza rimane. Anche a
cent’anni credo che se una che mi piace mi farà un sorrisetto io penserò «sì sì mi ama!» –
posso arrivare ad aggiungerci un «forse». Che carattere di merda che ho, troppo
disperatamente ottimista.
Ho la sensazione di avere detto cose molto confuse. Eppure la frase di Clara è stata proprio
illuminante. Cercherò di sforzarmi di aspettare le aperture dei cancelli. Cioè, almeno nei
rapporti umani amichevoli amorosi, s’intende. In altri tipi di lotta invece i cancelli si devono
scavalcare eccome, su questo non c’è dubbio, per esempio se sono transenne della polizia
che vuole impedirti di manifestare, lì bisogna scavalcare. Ma in amore no. Credo di no. Ci sto
meditando.
Certo che nella conoscenza di una persona una minima dose di scavalcamento ci va anche,
magari per vincere una sua paura o per aiutarla a conoscersi meglio lei stessa. La frase
stessa di Clara ha scavalcato qualche mio cancello. Ma lì è in un senso diverso. Forse.
Comunque ci vuole molta delicatezza.
Intanto è il 1° luglio, il che significa che metà del 2007 è già passata. Piena di avvenimenti,
da un lato mi sembra un secolo (in senso positivo) e dall’altro, come sempre, il tempo vola e
fugge. Facciamo festa: è mezzo capodanno, o capodimezzanno. Cameriere, gazzosa per
tutti!
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Due cuscini di materiale sintetico
lunedì 2 luglio 2007, 21.11.43 | molinaro
Lavorare, lavorare, ma poi si crolla. Oggi alle quattro del
pomeriggio mi sono buttato sul letto per riposarmi un attimo. Mi
sono svegliato alle otto passate. Sembra che stia arrivando un
temporale. Ancora un poco assonnato mi sono messo a scrivere
una poesia, forse sedimentata da fatti e meditazioni di questi
giorni. Adesso sono le dieci, non ho cenato ma non ho molta fame.
Magari esco. Prima vi offro la poesia. Si sa ormai in giro che sono quello che offre le
poesie scritte da cinque minuti, invece di stare a meditare mesi o anni se vanno bene
o no. Ma che importa. E poi si può sempre buttarla via anche dopo.
IL MALINTESO
«Scusate» disse lei vestita nel lutto di una piccola città
e Humpty Dumpty chiuse un enorme occhio selvaggio.
Joyce Patricia Adès (sposata Mansour); traduzione di Verena Alò
Ciò che pensavo soprattutto era che avrei dovuto spolverare
bene la casa – non è lavoro da poco, adesso è piena
di polvere sui libri e batuffoli di polvere sotto il letto –
e inoltre comprare due cuscini di materiale sintetico
– i miei sono di piume, molto vecchi – per il giorno
in cui lei si sarebbe decisa a venirmi a trovare. Questo
perché so che è allergica alla polvere e agli acari.
Non dubitavo che un giorno sarebbe venuta a trovarmi,
probabilmente entro l’estate: avevo già adocchiato
alla Coop dei cuscini di gomma con un prezzo accettabile.
Questa della polvere e degli acari era la cosa fondamentale:
se no mi si soffocava, la ragazza. Ma pensavo
anche altri dettagli: quali tazze usare per colazione
(le più piccole, smaltate, con disegni di luna e di stelle
o le più grandi, sbarazzine, con oche mucche e maiali)
e quali lenzuola mettere nel letto, quelle sul rosa o quelle
sul verde, o addirittura cogliere l’occasione per comprare
un paio di lenzuola nuove. E altre cose ancora:
se togliere o no dal salvaschermo del computer
la foto di lei nuda; se portarla per cena al cinese
di corso Regina o piuttosto al ristorante popolare
di via Mantova nel quartiere di corso Regio Parco;
se andare o no a visitare il museo del cinema
– questo dipende anche da quanto si ferma,
da quanto tempo abbiamo da spendere per noi.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Così quando mi ha detto che non sarebbe venuta affatto,
dopo un brusco imprevisto discorso dalla distanza
della sua piccola città, ci sono stato male
come un bambino deluso e mi sono sentito
anche in difetto, perché mi sono accorto
all’improvviso che il mio sguardo aveva messo
colori miei nei suoi disegni – aveva aggiustato
qualche riga dei suoi gesti, forse persino inventato
qualche tratto che lei non aveva tracciato.
Non è che non fosse vero niente, dopo anni
di variegata conoscenza. È che si sbaglia
per la causa dei sogni, a rileggere una lettera,
ripensare un pensiero, ricordare una serata
che già è remota, trovare un breve messaggio
sul telefonino – si può perdere il tatto
del mutare dell’altra persona: come quando
ritorni dopo un tempo in un luogo che conosci
perfettamente – così credevi – e lo trovi diverso
e non sai se è cambiato il luogo o se sei tu
che sei cambiato o se forse non avevi
visto così bene, quando allora c’eri stato.
Un malinteso. Però non è detto, non è mai sicuro:
magari i cuscini di materiale sintetico alla Coop
li compro lo stesso, non si può mai sapere.
Potrei usarli intanto per la sedia e il divano
se ci metto una fodera d’un colore che resiste allo sporco.
¿Qué es poesía?
martedì 3 luglio 2007, 0.10.35 | molinaro
¿Qué es poesía?
dices mientras clavas
en mi pupila tu pupila azul.
¿Que es poesía?
¿Y tú me lo preguntas?
Poesía... eres tú.
Gustavo Adolfo Bécquer
¿Qué es poesía?
dices mientras clavas
en mi pupila tu pupila atroz.
¡Qué es poesía!
¿Y tú me lo preguntas?
Poesía... soy yo.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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José Agustín Goytisolo (facendo la parodia a Bécquer)
Leggendo per caso i versi di Bécquer, poeta dell’Ottocento, in un simpatico blog, ho
pensato a Chiara e ai suoi occhi azzurri puntati nei miei, e mi sono trovato subito
romanticamente d’accordo con Bécquer: che cos’è la poesia? – chiedi mentre
inchiodi nella mia pupilla la tua pupilla azzurra. Che cos’è la poesia? E tu me lo
domandi? La poesia... sei tu.
Poi in un altro sito ho trovato una parodia di Bécquer fatta da un poeta del
Novecento, Goytisolo: che cos’è la poesia? – chiedi mentre inchiodi nella mia pupilla
la tua pupilla atroce. Che cos’è la poesia! E tu me lo domandi? La poesia... sono io.
Al di là dell’intenzione dissacrante di Goytisolo (io avrei fatto la parodia cambiando
solo eres tú in soy yo, e lasciando azul la pupilla, senza renderla atroz – un contrasto
focalizzato su tu/io e basta), c’è da meditare su che cos’è la poesia e su chi fa la
poesia, in particolare la poesia d’amore. C’è dentro la verità della donna amata (tú) o
c’è quasi soltanto la personalità del poeta (yo)?
Oggi si propende forse per la seconda ipotesi, e infatti Goytisolo è del Novecento e
Bécquer dell’Ottocento. Ma non vuol dire. D’altronde non siamo nemmeno più nel
Novecento. La dialettica è eterna. Forse lo è anche al di fuori della poesia. Anche
nell’innamoramento, dico nell’innamoramento di chi non scrive neppure un verso:
quanto c’è davvero della persona amata? Non è tutta una costruzione della persona
amante, ripiegata in definitiva su sé stessa, con l’altra a fare solo da grazioso
specchio? Il dubbio insorge.
Però secondo me una vera poesia d’amore non esiste senza una vera persona
amata, amata nella sua realtà tutta intera. Magari si attraversano prima nebbie di
masturbazioni pseudoamorose, ma poi ci si arriva, all’essenza della persona amata,
a lei davvero, e solo in quel momento nasce la poesia d’amore.
Così la penso io, almeno. Che sono un po’ romantico, forse. Come canta Zibba: «La
nostra malattia / è quella d’esser romantici. / Di guardar bene nel cuore degli altri. / Di
fare a gara di sputi con gli angeli. / E le battaglie contrastano dentro, / tra le pareti del
petto e lo scroto, / e Margherita scappa lasciando solo / un terribile vuoto. / La gente
muore sola, / perché non ha ardimento. / E Margherita lascia l’amore. / Lascia che
non ha tempo».
No, non cambio idea, io a Chiara dedico i versi di Bécquer. Pur tenendo ben presenti
anche quelli di Goytisolo, perché essere romantici non vuol dire essere coglioni.
Freschi di stampa
martedì 3 luglio 2007, 17.01.07 | molinaro
Parliamo una volta di libri. Piccoli libri freschi di stampa, da piccoli bravi editori. Per i tipi delle Edizioni Graphe.it
di Perugia (già benemerite per aver pubblicato le Poesiole doppiosensuali di Clara Vajthò) è uscito un libretto di
brevissime poesie di Natale Fioretto, intitolato ...e sia!. Sembrano haiku, pur non avendone la struttura, e sono
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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accompagnate da ideogrammi giapponesi disegnati da Junko Fujita. Formano una piccola costellazione di immagini,
alcune suggestive. L’insieme però mi appare troppo vago, sfilacciato. Cito una delle composizioni: Basta parlare di
ricordi. / Si possono perdere e non voglio. / Un brivido. / Una scheggia di futuro / mi trafigge.
Le Edizioni Vitale di Sanremo hanno invece pubblicato Dentro una sospensione, raccolta di poesie di Felice Serino
in cui sembra dominare un problematico anelito verso una diffusione-fusione dell’io nel tutto. Con uno stile che si è
fatto più maturo (Serino pubblica poesia dal 1978, sette libri, questo è l’ottavo) l’autore percorre la strada necessaria
che per l’intreccio di vita e morte sfocia nel mistero di cui dobbiamo cercare l’impossibile senso, un senso che
nessuna tradizione culturale ci preconfeziona più. Riporto per intero la poesia intitolata L’essenziale: arrivare
all’essenziale: via / il superfluo (lo sa bene il poeta – un / sansebastiano trafitto / sul bianco della pagina) // così il
corpo: si giunge / col vento azzurro della morte / al nocciolo: all’Essenza: non altro / della vita / che avanzi in
pasto al suo vuoto / famelico – / quando nella curva / del silenzio / essa avrà ingoiato la sua ombra.
Le Edizioni Joker di Novi Ligure hanno partorito proprio ora, in carne e ossa (in carta e inchiostro) il libro di
Chiara Borghi Il tempo è scaduto, corredato di mia nota che già misi in questo blog, qui:
http://blog.libero.it/molinaro/2799254.html – dove parlo anche di Clara Vajthò, nonché di Izet Sarajlić. Ne è uscito
un bel libretto, un racconto snello sospeso tra sogno e filosofia. Citare un pezzetto di un racconto non ha molto senso,
e allora di Chiara cito invece una poesia inedita, che sta qui appoggiata sul mio tavolo, e si intitola Ancora no.
Perché ho alzato la tavoletta? / Ancora non mi fido del tuo ambiente. / Ho ascoltato lo scroscio, in piedi. / Ancora
asciugo le mani nella carta. / Lascio lì i tuoi asciugamani, / ancora io non mi sento a casa.
Un mese di blog
mercoledì 4 luglio 2007, 3.13.11 | molinaro
Ecco, oggi è un mese che ho aperto questo blog. Nel complesso sono soddisfatto:
ho scritto una specie di diario pubblico, offerto a chiunque voglia leggerlo, ci ho
messo pensieri, poesie, osservazioni, qualche notizia, qualche fatto. Mi sembra
questa la strada da seguire. Ho avuto alcuni riscontri, ho anche ricontattato qualche
persona che avevo perso di vista. L'unico neo è stato un malinteso "comunicativo"
con una ragazza marchigiana che conosco da tanto tempo e che a causa di questo
"incidente" sembra ora essersi allontanata da me. Ma spero che ci ripensi: in realtà non è successo nulla,
solo uno screzio partito oltretutto da un commento malevolo di un'estranea sul suo blog. La
comunicazione astratta, virtuale, ha i suoi rischi. Per questo preferisco sempre che si accompagni
a contatti reali, di presenza fisica (no, non necessariamente in quel senso!). Ma, ripeto, complessivamente
sono soddisfatto. Adesso sono le quattro di notte, sono stato alzato finora a lavorare su un testo con note
complicatissime e sterminata bibliografia, che tratta della raffigurazione delle città: un testo da lavorare
come redattore per una "grande opera" di una nota casa editrice torinese. E non è male, dopo il lavoro
anche notturno, scrivere due righe nel blog, e, nell'occasione del primo mesiversario, o complimese,
ringraziare tutti quelli che hanno letto, leggono o leggeranno. E buona notte!
(il Paperino nella foto è opera di Clara)
Con il tempo
giovedì 5 luglio 2007, 12.13.30 | molinaro
Mi è entrata dentro ieri sera mentre in tram andavo a cena da Claudia (le poesie a volte
«entrano dentro» e poi aspettano). Mi è uscita scritta oggi a mezzogiorno (le poesie non
sopportano di stare dentro a lungo, escono presto in parole, o muoiono – così accade in me,
almeno). Eccola.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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CON IL TEMPO
a Léo Ferré e
a tutte le Chiare le Claudie le Dilette
le Grazie le Romine le Federiche le Clare
le Francesche le Marine le Moniche e
a tutte le altre a tutti gli altri a tutto l’altro
in fondo al tram numero dieci
in corso Duca degli Abruzzi
il tram non è né vuoto né affollato
tutti i posti a sedere sono occupati
e cinque o sei passeggeri in piedi
si fa sera ancora una volta si fa sera
parte un allarme d’auto in lontananza
è luglio ma potrebbe non essere
un uomo con la camicia stropicciata
due ragazze truccatissime
al di là del vetro del finestrino
passano strade alberi muri persone
è il 2007 ma potrebbe non essere
al di qua del vetro del finestrino
un uomo è immerso in tutta questa vita
è un cinquantenne ma potrebbe non essere
forse sta tornando da scuola
forse dall’università
forse da un’azienda dove lavora
da una settimana o da tantissimi anni
forse da un circolo ricreativo per vecchi
forse da un ospedale con una brutta diagnosi
ha gli occhi persi come non vedesse
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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o vedesse insieme così tante cose
da quasi non vedere
ha gli occhi che brillano in un modo
che non sai se sorride o sta per piangere
è forse preso dal suo primo amore
è forse preso dal suo nuovo amore
o da un amore perso o mai trovato
o da nessun amore
scende dal tram alla fermata di corso Einaudi
ma potrebbe essere un’altra fermata
va da qualcuno ma potrebbe essere
qualcun altro
si fa sera ancora una volta si fa sera
è di questo che s’è accorto all’improvviso
solo di questo nient’altro che questo
7/7/7 e 7/7/77
sabato 7 luglio 2007, 12.35.36 | molinaro
Pensando stamattina che è il 7/7/7 (mi piacciono i numeri e le date, e non pongo
neppure la limitazione della lontananza, che poneva Guido Gozzano: Adoro le date.
Le date: incanto che non so dire, / ma pur che da molto passate o molto di là da
venire) mi sono ricordato di avere commentato con i colleghi in ufficio una data
simile: Ehi, gente, oggi è il 7/7/77, festeggiamo! Beh, non è un ricordo di grande
significanza, l'unica significanza che ha è che esattamente trent'anni fa ero in un
ufficio a lavorare e dunque probabilmente non sono più un ragazzino. Boh. Forse.
Preso da questa cosa delle date, stamattina rientrando a casa (ho dormito da un'amica, sono un po'
girovago) mi sono messo a frugare in uno scatolone di cose vecchie e ho trovato una lettera del 1994 in
cui una ragazza di 18 anni mi dava del maniaco per «averci provato» con lei. E dire che avevo solo 41
anni, allora. Che tipa malmostosa! Per fortuna non tutte sono così succube di queste considerazioni
anagrafiche. Bah, probabilmente non le piacevo, semplicemente. Dato che comunque un po' maniaco lo
sono, non ho resistito alla tentazione di scriverle oggi. Adesso di anni ne avrà ben 31, magari ha cambiato
indirizzo e la lettera non le arriva, magari è sposata, ha figli, eccetera. Ma è un bel gioco ritrovare una
lettera e riscrivere 13 anni dopo. A me piace giocare.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Bah. L'amica da cui ho dormito stanotte di anni ne ha 21 e non mi ha mai dato del maniaco, stiamo molto
bene insieme. Ma il mondo è bello perché è vario e ognuno ha la sua Weltanschauung.
E sono importanti le amiche, le morose, le donne vicine, le fidanzate, insomma chiamatele come volete.
Una mi ha mandato un sms in questo preciso istante per dirmi che ha scoperto di riuscire a toccarsi con la
punta della lingua la base del collo. Uhm, adesso provo. Ma sì, forse ci riesco anch'io. Bisogna capire che
cosa si intende con «base del collo». Voi ci riuscite? Provate, dai.
È una bella giornata e viviamo intensamente perché nulla e nessuno garantisce a nessuno di esserci
ancora l'8/8/8 - e neppure l'8/7/7 - siamo appesi a un filo, non sprechiamo gli attimi.
Vedo sul calendario che oggi inoltre il computo dei giorni passati e da passare dell'anno è 188-177, numeri
curiosi anche quelli. Ma secondo voi perché sui calendari a blocchetto con i foglietti da strappare (che
prendo sempre perché mi piacciono tantissimo, sono fisici, cartacei, e il giorno lo strappi via) mettono su
ogni foglietto giornaliero anche il numero dei giorni passati e da passare nell'anno?
Sullo stesso calendario vedo pure che è san Claudio. Auguri a tutti i Claudi (e anche alle Claudie, se non
c'è una specifica santa Claudia - c'è?), ne conosco fondamentalmente due: un mio compagno di scuola
dalle elementari al liceo, e il fidanzato di una mia amica, insomma di una ragazza che mi piace molto, che
se potessi gliela porterei via, ma tanto non posso e gli auguri comunque glieli faccio. Anche di Claudie ne
conosco fondamentalmente due. Con una facevo l'amore nel 1994, 1995, 1996 (una storia intermittente;
comunque aveva 19 anni e non mi dava del maniaco come la tipa della lettera ritrovata), con l'altra mi
vedo spesso adesso, parliamo, stiamo bene, a volte dormo da lei. Buon onomastico!
Ma quasi quasi quella poesia di Gozzano dove parla anche delle date ve la metto tutta qui sotto, è una
poesia suggestiva. Gozzano per decenni è stato considerato un poeta da salotto per brave signorine, ma
secondo me è un'interpretazione sbagliatissima e finalmente qualcuno se ne sta accorgendo.
Più che una poesia è un vero poemetto, s'intitola L'ipotesi. Buon 7/7/7 a tutti.
L'ipotesi
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...
E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt'altra Signora non già s'affacciasse alle soglie.
II.
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
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Carlo Molinaro
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in un'antichissima villa remota del Canavese...
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...
III.
Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...
la figlia: «...l'evento s'avanza, sarete nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...»
il figlio: «...la Ditta ha riprese le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la vita
è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.
IV.
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Carlo Molinaro
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Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...
Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica
amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!
VI.
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla
si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare s'arresta
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tra i primi guizzi selvaggi dei pipistrelli all'assalto
e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:
«Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.»
«Peccato!» - «Che splendide sere!» - «E pur che domani si possa...»
«Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
«Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d'un dolce pericolante...»
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l'opera delle sua mani.
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,
l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)
Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggerebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»
«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...»
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
- «Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»
Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta...
Guido Gozzano
L'insidioso pericolo dell'unico vero amore
domenica 8 luglio 2007, 9.46.13 | molinaro
Prendo lo spunto da un commento in questo blog di Viperovip, che dice: ma ogni amore
non dovrebbe, per essere amore, risultare come il primo e l'ultimo? sennò che amore è? tra
le tante baggianate che ho ascoltato, una m'è parsa giusta: “si ama o non si ama. non si
ama un pò, poco, tantissimo, moltissimo, ogni tanto etc...”. è un pò come vivere: non si può
vivere un pò, o vivere tanto, morire un pochino, morire tantissimo etc... o no?
Questa faccenda a me sembra pericolosa. Come l’utopia è pericolosa per la democrazia (le dittature sono sempre
debitrici di qualcosa ai grandi utopisti come Tommaso Moro, che pure erano probabilmente mossi da ottime
intenzioni), così la visione assoluta dell’amore totale è pericolosa per l’amore vissuto, per l’amore che sta nella carne,
nei giorni, nelle emozioni provate – e non sulla carta, nelle costruzioni mentali, negli ideali astratti.
Ho avuto un certo numero di amori veri e concreti (e secondo me eterni, nel senso che nulla li cancella). In qualche
caso anche più d’uno contemporaneamente. Ecco. Qualcuno potrebbe dirmi: «Significa che non hai mai amato
veramente». Già questa è dittatura semantica sul senso della parola amare, ma facciamo finta di dargli retta, e
mettiamo che io stasera stessa incontri un amore immenso, mai provato prima, travolgente, mai immaginato.
Insomma, sì, ho una certa età, ma può sempre succedere!
Bene. In tal caso dovrei dire che tutti gli altri non erano veri amori?
E se fra un anno incontrassi un amore ancora più immenso e più travolgente e più inimmaginabile? Allora anche
l’immenso di stasera passerebbe nella categoria dei «non veri amori»?
E così via: nessuno può ragionevolmente fissare un limite all’intensità dei sentimenti. Nel nostro piccolo, nel nostro
umano, abbiamo una capacità di sentimento infinita, o almeno indefinita (che è all’incirca lo stesso).
Quindi ogni nuovo amore, definendosi come vero (primo, ultimo, unico), provocherebbe la svalutazione di tutti gli
amori precedenti (o contemporanei). Incontrando la ragazza che amavo e con cui facevo l’amore ieri o tre o dieci o
venti o trent’anni fa le dovrei dire: Sai, ho scoperto che non ti amavo davvero, era una robetta così. E lo dovrei dire a
tutte!
Non so se vi rendete conto della pericolosità di questa catena di svalutazioni. Posso concedere che nella follìa di un
amore intensissimo uno pensi: questo è il vero grande unico amore. Ma è un attimo di follìa, appunto, magari
sublime, ma è un attimo, ed è follìa. Farci su una teoria di vita (o, peggio, proprio una vita) è come applicare alla
realtà l’utopia di Tommaso Moro: è subito Orwell, è subito Lager, è subito Gulag.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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È una svalutazione pericolosa perché coinvolge appunto sentimenti e persone, non cose materiali. Io la capisco poco
anche con le cose materiali: non è che se trovi un ristorante che ti piace di più devi dire che quello in cui hai cenato
per anni con soddisfazione adesso hai scoperto che era una merda. Ecchecazzo! Ogni cosa è preziosa nella sua
diversità.
Secondo me (ma non voglio offendere nessuno, è solo una mia discutibile opinione) a non essere capace di amare
non è chi ha tanti svariati amori, ma chi tende all’unico amore sublime ideale. L’ideale è spesso un paravento, una
maschera. Quanti poeti di amori sublimi e ideali, messi davanti alla ragazza vera, in carne e ossa e difetti, hanno
avuto una smorfia di disgusto... Stronzi! Innamorati solo di sé stessi, del loro bell’edificio letterario, freddo e morto.
Io non sono un grande poeta, ma, nel mio piccolo, posso confessarvi di non avere mai scritto versi su una ragazza che
non esistesse in carne e ossa, viva. Oh, sì, certo, l’innamoramento può dare una luce diversa, può forse far vedere
qualche dettaglio in modo meno oggettivo – ma che cos’è, nel vedere una persona, l’oggettività? e se la verità di una
persona fosse quella che vede l’innamorato, e si sbagliassero tutti gli altri?
A ispirarmi le poesie – e l’amore – sono sempre state ragazze di cui potrei darvi una precisa descrizione, un nome,
cognome, località, codice fiscale... Vabbè adesso non esageriamo.
Amare una persona significa soprattutto vederne l’umana meraviglia, e desiderarne la vicinanza, il contatto,
l’abbraccio, la mescolanza d’anime e corpi. [Scusate, ho messo un amare significa, roba da Love Story e/o Baci
Perugina, ma fa lo stesso. Posso esprimere la mia idea anche in questo modo.]
Dopo che hai scoperto la meraviglia che c’è in una donna, e te ne sei innamorato, questo amore nulla lo cancellerà e
nulla lo svaluterà. Tantomeno lo svaluteranno gli altri amori per altre donne. Perché, grazie a Dio (o a chi per lui), al
mondo non c’è «una sola» donna meravigliosa. Ce ne sono tante. Diverse. Splendide. Amabili.
Insomma, secondo me l’assolutismo in amore è pericoloso come in ogni altro campo, come lo è in politica, in
filosofia, nella scienza. Magari stasera incontro una donna più meravigliosa di tutte quelle che ho conosciuto, mi
innamoro ancora di più di come mi sono mai innamorato, ma non dirò mai a quelle che ho amato fino a oggi: sai, con
te non era vero amore. Non lo dirò: perché non lo penso.
Il passato svalutato dal futuro è un concetto terribile, non per nulla lo usano i religiosi: «figliuolo, quando avrai
scoperto la vera Fede, la vera Verità, il vero Dio, tutto il resto, tutto quello che vedevi prima, ti parrà scialbo e
insensato». Con tutti quei vero e con tutte quelle maiuscole, te lo ficcano dritto nel culo, i maledetti! L’amore è
adesso, ed è sempre – questa è la sua meraviglia. Secondo me. Nella mia umile opinione. S’intende.
Monogamia, poligamia...
martedì 10 luglio 2007, 9.46.55 | molinaro
Parlano di monogamia, poligamia, fedeltà, infedeltà... Queste storie che
s’intrecciano e si strecciano, s’imbrogliano e si sbrogliano, si sfilacciano,
si riannodano, si tramano, si tramandano, si perdono, si perdonano, si
donano, si prendono. Questi vuoti che si riempiono, questi pieni che si
svuotano, il bicchiere a metà, l’assenza del bicchiere, bere alla canna,
bere alla fontana, l’acqua c’è quando c’è, è un flusso, non è una
quantità. Le cose da fare, le cose da non fare, lavorare, pensare. Stare insieme, non stare
insieme, ti amerò per sempre, non voglio vederti mai più, amo soltanto te, voglio dimenticare,
voglio ricordare. Cucire, tagliare. Fare, disfare. Dicono che un grande amore possa durare
un solo giorno, ma se mi sei piaciuta ti cercherò anche il giorno dopo e quello dopo ancora.
Se mi sei piaciuta ti aiuterò a lavare i piatti e ti massaggerò la schiena, vorrò bene ai tuoi
bottoni, ai tuoi cani e ai tuoi fidanzati. Non andare via. Ritorna, se vai. Stiamo andando via
tutti, lo sai. Scegliere, non scegliere. Sciogliere, non sciogliere. Condensare. Cagliare.
L’essenza. Il succo. Il contorno. Progettare è pure necessario. Vivere alla giornata. La vita
stessa è una giornata. La condizione per la pace è non avere nulla da difendere, nulla da
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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conquistare, solo spazio da abitare. Vivere, convivere. Dividere, condividere. Strano verbo
condividere, vorrebbe dire unire e usa invece dividere. Effettivamente ogni unione è una
divisione: se mi unisco a te, ci dividiamo dal resto del mondo. La condivisione ci distingue,
quindi sì, è divisione. Io non ho soluzione, non sono un filosofo e sono più sognatore che
pensatore. Non divento saggio perché non faccio meditazioni ma fantasticherie, e ho letto su
qualche libro religioso che c’è una bella differenza, così pare. Nel nido o capanna a due
cuori ® ho fatto anche due figli ma mi sono sentito spesso solitario; fuori, in piazza, mi sono
sentito spesso in comunione. Non c’è storia: c’è stamattina che mi sono alzato alle cinque a
lavorare e fra un po’ vado dal barbiere a farmi tosare. Non ho mai lasciato nessuna, non ho
mai troncato di netto – vengo molto criticato per questo, ricordo che già Diletta si stupiva:
come sarebbe che non hai mai lasciato una ragazza? Così, non so, non è accaduto,
semplicemente; forse potrebbe accadere, forse no. Mi hanno lasciato loro, direi, se no
adesso avrei quaranta ragazze e potrebbe essere difficile gestire la cosa anche se nel
profondo non credo che sarebbe poi così difficile. Ciascuna di loro avrebbe magari anche lei
quaranta ragazzi e sarebbe un altro bel gruppo di 1.600 persone ma poi no perché ognuno
dei loro ragazzi avrebbe quaranta ragazze quindi altre 64.000 persone ma ognuna di queste
a sua volta quaranta ragazzi dunque altre 2.560.000 persone e poi ci sono pure le lesbiche e
i gay e si arriva in fretta a collegare tutto il mondo in un amore. Non credo che ci sarebbero
poi tutti quei problemi organizzativi, si vede caso per caso, non è lì la vita, non è
nell’organizzazione. Mah, non so, comunque, boh, non voglio disegnare utopie adesso,
dicevo ieri o l’altro ieri che sono pericolose le utopie, meglio stare sul personale, io
personalmente ho quaranta ragazze perché così le sento dentro di me, quelle che non vedo
più le considero in sospeso. La fine di qualcosa è un concetto che la mia mente non
comprende. Potrei anche sposarmi domani, ho sognato di farlo al municipio di Quiliano, o
potrebbe essere altrove, un bell’abito bianco per la sposa, e poi si vede come va, se ci si
ama in qualche modo va, anzi di certo va in ottimo modo. Sono l’uomo più fedele del mondo,
su questo ho pochi dubbi. Monogamia, poligamia, strani discorsi, discorsi non d’amore. Vado
dal barbiere.
La fata inodore e insapore
martedì 10 luglio 2007, 10.29.06 | molinaro
Una fiaba con cui ho partecipato a un premio letterario nel
Canavese («Una fiaba per la montagna», dell’Associazione Culturale ‘L
Péilacän), che aveva per tema obbligato il treno – a me piace il treno,
quindi nessun problema. Che poi il treno c’entra fino a un certo punto. È
pubblicata nell’antologia del premio, ma credo che ciò non vieti di
metterla qui.
LA FATA INODORE E INSAPORE
La fata Acidula era una fata pendolare: prendeva il treno a Pont Canavese e raggiungeva
Torino, mischiandosi a operaie, impiegate e studentesse, stava qualche ora o qualche giorno a Torino e
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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poi tornava a Pont. Lo faceva da cento anni (le fate non invecchiano), cambiando spesso
travestimenti per non dare nell’occhio, e adeguandosi ai tempi delle ragazze umane e alle loro mode.
Nel 1906 per il primo viaggio si era messa una camiciona con qualche pizzo e una gonna lunga alla
caviglia; nel 2006 portava un esile corpettino stretto sotto il seno e una minigonna a mezza coscia.
Perché la fata Acidula faceva la pendolare? Un po’ perché non sapeva rinunciare ai boschi del
Canavese, benché ormai radi e assai poco magici, e quindi non voleva trasferirsi definitivamente in
città come avevano fatto da tempo diverse sue amiche; e un po’ perché viaggiare in treno le piaceva.
Non si imponeva però dei ritmi fissi: a volte faceva quattro viaggi nello stesso giorno, altre volte si
fermava a Torino tutta una settimana. Di notte per dormire si rifugiava fra i cespugli sulla riva del Po:
diventava piccolissima (per le fate è un gioco facile cambiare dimensioni e aspetto o anche rendersi
invisibili) e chiacchierava con gli insetti prima di addormentarsi.
La fata Acidula faceva quello che fanno tutte le fate monelle: girava, osservava, giocava,
svolazzava, faceva innamorare ragazzi. Aveva però un problema: era inodore e insapore. Tutte le fate,
fin da quando Madre Terra le scodella in un bosco (nascono sempre lì), hanno il loro odore e il loro
sapore. Spesso sono odori e sapori di frutti e di fiori, di erbe, di resine; qualcuna, un poco più lasciva,
sa di muschio o di riva di fosso. Acidula non sapeva di nulla. Glielo avevano fatto notare i primi elfi
con cui si era azzuffata sotto i funghi: “Sei una delle fate più belle, ma non hai odore e non hai sapore:
come faremo a ricordarci di te?”. Gli elfi, infatti, riescono a ricordare solo le cose che colpiscono tutti
e sette i loro sensi (i cinque che hanno anche gli umani, il sesto che qualche umano ha e qualcuno no, e
il settimo che hanno soltanto gli elfi, le fate, i fauni, le ninfe, i poeti e poche altre strane creature).
Anche quando faceva invaghire un ragazzo sul treno o a Torino, Acidula era tormentata da
questo problema. I ragazzi le dicevano sempre: “Sei la ragazza più bella che io abbia mai baciato,
sembri una fata – e qui sempre Acidula si strizzava un occhio da sola – però quando ti bacio non sento
nessun sapore e quando ti annuso il collo non sento nessun odore: forse sei finta, non posso
innamorarmi di te”.
Acidula, che non era finta e che in fondo era una brava fatina, si affliggeva molto. Qualche
volta si diceva che era meglio così: era meglio se i ragazzi non si innamoravano, perché le fate restano
qualche giorno e poi volano via, non fanno coppia e tantomeno famiglia, e lasciano cuori infranti –
anche se poi, diciamolo, gli uomini si consolano in fretta. Però alla fine si stizziva e s’arrabbiava:
perché proprio lei doveva essere priva di odore e sapore, a differenza di tutte le altre fate?
Una notte andò a consulto da una vecchia strega che abitava in una grotta vicino a Ivrea, una
che si diceva girasse per il mondo da diecimila anni e avesse conosciuto gli antenati dei faraoni
d’Egitto, all’epoca in cui uomini e divinità discorrevano ancora tranquillamente, come fosse normale.
La strega prese mazzetti di erbe che solo lei conosceva, li strofinò sulla pelle della fatina, ed emise il
suo responso: “Il tuo odore e il tuo sapore sono più forti di quelli delle tue amiche, ma sono nascosti
da una pellicola invisibile che ti avvolge tutta. Madre Terra fa così: quando le succede di creare una
fata dal sapore troppo forte e inebriante, la avvolge in una pellicola che la fa sembrare inodore e
insapore; il tuo odore non lo puoi sentire neppure tu. Ma quando incontrerai il maschio giusto (elfo,
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fauno o umano che sia), quello che saprà annusare oltre la pellicola, e si innamorerà di te,
allora la pellicola si squarcerà e svanirà, e tutti sentiranno fortissimo il tuo sapore”.
Acidula si rallegrò e da allora visse nell’attesa di incontrare quel maschio. Ma elfi e fauni con
cui si appartava continuavano a dichiararla inodore, e anche i ragazzi non sentivano sapori. Fu una
sera sul treno da Pont che la cosa accadde. Un uomo salì a Torino Stura, e andava solo a Torino Porta
Susa, pochi minuti di viaggio. Il treno era pieno di odori, non tutti gradevoli, eppure l’uomo, appena si
sedette nel posto di fronte alla fata Acidula, sgranò gli occhi e le rivolse uno sguardo come fulminato
d’amore. Forse quell’uomo non avrebbe osato dire nulla, perché era timido; le fate però timide non
sono e fu Acidula ad attaccar discorso:
“Perché mi guardi così? Che hai?”
L’uomo si fece coraggio e disse:
“Hai un profumo meraviglioso”.
Nell’attimo successivo, Acidula sentì il proprio odore. Era davvero forte e particolare, sapeva
di susina e di basilico ma anche di terra bagnata e di creolina, di notte alla stazione, di mattina nel
bosco. Improvvisamente tutti gli uomini lo sentirono. Un ferroviere restò lì come incantato.
L’uomo che inconsapevolmente aveva rotto il sortilegio scese a Porta Susa con Acidula e se
ne innamorò perdutamente. Si chiamava Felice e di fatto era felice, come ogni innamorato del mondo.
Acidula stava con lui poche ore e poi scappava, perché era una fata, e le fate non si fermano a lungo da
nessuna parte. Ma si accorse di essere innamorata dell’uomo, e tornò dalla strega di Ivrea, che le
spiegò:
“Se vuoi posso farti bere una pozione magica che ti trasformerà in ragazza umana. Attenta
però: perderai ogni potere magico, e poi invecchierai, probabilmente ingrasserai (gli umani mangiano
certe schifezze...) e diventerai brutta e infine morrai”.
L’amore è l’amore, e Acidula accettò. La strega le disse che, diventando ragazza umana,
doveva anche cambiare nome. Prese le lettere del suo nome, A, C, I, D, U, L, A, le mise in un calice e
le rimescolò, disponendole così: C, L, A, U, D, I, A. Fu molto soddisfatta di questo anagramma:
“Sai di susina, oltre che di tante altre cose, e ci sono da noi profumatissime susine che si
chiamano così, claudie, e che un poeta vissuto in questa terra ha ricordato: E l’uve moscate più bionde
dell’oro vecchio; le fresche / susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde, / l’enormi pere
mostruose, le bianche amandorle, i fichi / incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose /
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore / ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici. I
poeti sono gli unici, fra gli umani, che a volte vedono noi creature magiche. Ma tu ora sarai una
ragazza e una donna, per tutti. Così hai voluto, vai per la tua strada”.
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Non fu facile per Claudia. Già quella notte dovette scarpinare nel bosco (non poteva più
volare) per raggiungere la strada statale. Attese il mattino, poi con l’autostop riuscì ad arrivare a
Torino e trovò Felice. Claudia possedeva solo i succinti vestiti che portava addosso, non aveva un
cognome, non aveva documenti, non aveva casa. Lo spiegò a Felice che, essendo innamorato, capì
tutto. Le inventò un cognome e la prese ad abitare a casa sua; dichiararono che era profuga dalla
Cecenia, da un piccolo paese dove tutto era andato a fuoco, anagrafe compresa; certo non fu facile,
con la legge sull’immigrazione, ma pagando qualche mancia alla fine saltò fuori un documento, con
un permesso di soggiorno. E Claudia cominciò la sua vita da ragazza umana, col suo odore di susina e
basilico e terra bagnata e creolina e notte alla stazione e mattina nel bosco, e ci furono problemi, e
dovette trovare lavoro, e ormai il suo odore lo sentivano in molti e si innamoravano di lei, ed ebbe
molti uomini, e qualcuno la maltrattò, e certi giorni era stanca e meno bella, eppure lei si sentì tante
volte così piena di gioia da scoppiare, e visse (non sempre ma spesso) felice e contenta, perché alla fin
fine, checché ne dicano, vivere davvero è un pochino meglio che soltanto sognare.
Reality show
giovedì 12 luglio 2007, 16.04.15 | molinaro
Una poesia o qualcosa del genere che m’è scappato di scrivere oggi. Si
sta di nuovo alzando un vento forte, vado a cena da mia madre a
Vercelli, c’è molto lavoro e un po’ di stanchezza, ma sono belle giornate.
REALITY SHOW
Dietro ogni più piccola bugia si nasconde una guerra grande, una guerra contro la realtà.
Chiara Borghi, Il tempo è scaduto, Edizioni Joker, Novi Ligure 2007, p. 7
Li carezzi che nun se potono sgravà
s’addeventano stiticanza custipata,
s’addeventano veleno.
Tiziano Scarpa, Groppi d’amore nella scuraglia, Einaudi, Torino 2005, p. 38
«Lo ami?» «Questo è fuori discussione».
«Sei felice?» «Ma sì, adesso va
bene, ma sì, va bene». Si distende
sulla sdraio. «Avranno del caffè
qui?» «Vado su a vedere». Ritorno
col caffè, la guardo berlo: «Ti porterei
via, via con me, lo so che non dovrei
dirlo». «Lascia perdere» – sorride
imbarazzata o infastidita o compiaciuta
(o non sorride affatto, forse) – prende,
da una borsa, del fumo e le cartine
e si rolla una canna. Me ne offre
un tiro – è una festa, l’offrirebbe
a chiunque – però per me è qualcosa
succhiare l’umido delle sue labbra
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Carlo Molinaro
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così impresso sul filtro. No, già questo
è rubare, è invadere, è stravolgere
il senso dei suoi gesti. Non c’è nulla
per me. Devo farmi in disparte. Però
non riesco a non sentire il suo sapore
(immaginato) – e non riuscirò
a non riascoltarmi nella mente
le sue parole (poche) – studierò
ogni tono e ogni sillaba, cercando
non ciò che c’è ma ciò che io vorrei
ci fosse: non lo ama per davvero,
non è così felice, lo sarebbe
di più con me – lo esprime la sua voce.
No, non lo esprime affatto, non è vero
niente, è mia fantasia, è una bugia
che mi dico da solo. È così dura
la guerra contro la realtà. E dove
metterò le carezze che non vuole,
i baci che non posso darle in bocca?
Oh, non si muore di questo, via, non siamo
ridicoli. «Andiamo a fare un giro
fino al fiume». «Andiamo: c’è un bel sole:
sono contenta di essere tua amica».
Concrete filosofie
sabato 14 luglio 2007, 8.50.37 | molinaro
Ecco un sabato mattina di luglio, anniversario della presa della Bastiglia. In Francia
è festa nazionale, qui no, e anzi ho molto da lavorare per tutto il finesettimana,
però ieri sera mi sono fatto un viaggio deciso al volo, all’ultimo momento, e ci ho
scritto anche una poesia-filosofia, e sia come sia.
CONCRETE FILOSOFIE D’UNA NOTTE DI PRIMA ESTATE
L’amico che ha prestato all’altro amico
un videogioco dove puoi dar fuoco
alle ragazze e mentre muoiono bruciate
pisciarci sopra mi rimprovera perché
faccio trecento chilometri in una sera
fra l’andata e il ritorno per vedere
una ragazza che sta col suo ragazzo
e a me può dedicare solamente
qualche sguardo parola sorriso
nelle brevi fessure del tempo.
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Carlo Molinaro
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Come puoi farti prendere per il culo,
farti umiliare così? – è la sua tesi.
Ma la ragazza non mi umilia affatto,
non mi dice bugie, è stata chiara
fin dal primo momento, non m’ha illuso
in alcun modo ed è una scelta mia
fare quanti chilometri mi pare
per ritrovarla e poterci parlare:
vederla mi fa bene e non mi nego,
se posso, questo bene.
Ma la ragazza è una bella persona
e certamente ci farei l’amore
se lei volesse se mi amasse se
non avesse il ragazzo o se anche avendolo
non gli fosse fedele insomma se
in un modo qualsiasi ci stesse
per una notte o per un matrimonio
(non limito il futuro con programmi).
Ma la ragazza è una bella persona
e averla amica sempre un po’ più amica
e leggerla e ascoltarla e penetrare
nella sua timidezza e ritrosia
guardandola negli occhi o di profilo
mentre indossa un golfino, perché qui
la notte è fresca e si cena all’aperto,
è un dono alla mia vita e non mi nego,
se posso, questo dono.
Se volessimo usare il gergo in auge
di questi tempi digitali categorici
(ma l’anima è analogica!) diremmo
che il mio è un approccio su vari livelli
flexible targets, flexible goals approach
ma più semplicemente io direi
che lei mi piace e dunque amo vederla
in un modo o nell’altro.
Se il videogioco prestato all’altro amico
serve a sfogare istinti di dominio
sadismo o frustrazione in modo innocuo
mi sa che non funziona. È molto meglio
lasciarsi innamorare, inebriare
dalla giostra dei giorni, riconoscere
che non c’è alcun potere contro il tempo
che ci divora ma stasera è buono
stare a parlare col bicchiere in mano.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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C’è chi se non ha tutto butta via
pure quello che ha. Io preferisco
vivere quel che c’è, senza con ciò
vietarmi di sognare tutto il resto
– c’è sempre un resto perché il desiderio
la fantasia il pensiero il sentimento
sono infiniti. E la vita no.
M’ha invitato a una festa a casa sua
e penso che ci andrò: conoscerò
la via dove cammina la mattina,
la stanza dove ha pensato parole,
il suo paese, il suo cortile, il cane.
La cassazione
domenica 15 luglio 2007, 9.26.38 | molinaro
Una mia amica (una delle migliori, una persona che stimo davvero molto) ieri
sera, venuta a sapere, privatamente chiacchierando, fortunatamente per viali
passeggiando (non viviamo sempre davanti a un computer), i nomi dei due
amici miei a cui si accenna nella poesia che ho messo qui ieri, nei primi versi,
quelli che si scambiano videogiochi sadici (o almeno l’hanno fatto in un paio di
occasioni), essendo che conosce anche lei i due soggetti, mi ha detto: «Basta,
quei due sono tagliati via per sempre dalle mie frequentazioni» (non so se fossero queste le parole
esatte, non le ricordo testualmente, ma il concetto è chiaro).
Lei è una tipa esigente in tutto, che si tratti di persone o di gelati. Questo da un lato mi rende «più
orgoglioso» di essere nella cerchia dei suoi amici, ma dall’altro mi dà una qualche ansietà: quella
sensazione che devi stare attento (e dunque un po’ innaturale) perché al minimo errore vieni espulso,
non so se rendo l’idea; e, anche, la sensazione che l’amicizia sia sottoposta a precise condizioni.
Forse è naturale che l’amicizia sia sottoposta a precise condizioni. Forse no. Per me che non la
distinguo molto dall’amore (sono varianti dello stesso sentimento e me ne accorgo soprattutto nei tristi
casi di perdita: il vuoto lasciato da un amico che ti molla o da una «fidanzata» che ti molla brucia di
fiamme quantomeno simili) non è tanto naturale, probabilmente, che l’amicizia sia sottoposta a
precise condizioni. L’amore di sicuro non lo è. Non per me, almeno.
Certo mi sembra strano che sia rifiutata una persona, prima amica o amante e amata, per un episodio
o per un dettaglio. Ho sempre pensato che probabilmente l’episodio o dettaglio è una scusa, la punta
di un iceberg non percepito prima, o la goccia che fa traboccare un vaso. L’improvvisa cassazione di
un amico o di un moroso dovrebbe avere radici più profonde e lontane. O forse davvero si può
troncare una relazione (d’amicizia, d’amore) per un dettaglio, per un episodio, per un singolo tratto del
carattere, venuto alla luce da un momento all’altro?
Anni fa un amico, un certo Guido, uno con cui chiacchieravo bene e giocavo a biliardo, troncò
l’amicizia così all’improvviso in un giorno, per cause imprecisate. Federica e, più recentemente, Elisa,
le ho «perse», all’improvviso, per un dettaglio forse, per un gesto, per una parola – così parrebbe – e
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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oltretutto senza capire neppure quale fosse il dettaglio, quale il gesto. Sono vuoti dolorosi. A essere
sincero fino in fondo, devo dire che li percepisco addirittura come violenze, come stupri in negativo,
non so spiegare bene (*). Sei amico, sei amante, sei moroso, fidanzato, e da un giorno all’altro non lo
sei più, sei tagliato via – è un taglio che sanguina – e spesso, appunto, per un dettaglio emerso, per
un gesto, per una parola (così pare, ma non so se crederci del tutto).
Boh! Forse è naturale, sono strano io che non ho mai cassato una persona in questo modo, è un
discorso già fatto anche in questo blog, che non lascio mai le ragazze, che per me tutto continua, nel
pensiero come nella realtà. Mah! Forse sono inutili farneticazioni. La realtà è che è domenica e che
prima di scrivere questo pezzettino ho già lavorato quattro ore a bozze che devo consegnare lunedì,
domani, e ne ho ancora un sacco, e non ho neppure fatto colazione. In casa sono rimasto senza
niente, vado al bar a prendere cappuccino e brioscia (nel bar dove ciò costa € 1,50 naturalmente, non
in quello dove costa € 2,05!).
(*) Ci provo, a spiegare un po’. Se una azione X, nella fattispecie un rapporto amoroso-sessuale, può anche
essere una violenza (il caso dello stupro o del plagio o delle molestie), allora analogamente una azione non-X,
nella fattispecie la cessazione di un rapporto amoroso-sessuale, può anche essere una violenza – certo non
punibile dalla legge, ma percepita tuttavia come violenza. Sia la azione X sia la azione non-X alterano uno stato
emotivo precedente nella persona che subisce l’azione stessa; è questa alterazione che può anche essere
violenta; quindi dire che lasciare una persona può essere una violenza non mi sembra improprio. Per arrivare a
fare l’amore con qualcuno ci vuole un percorso delicato di corteggiamento, contatto, intesa, comunione (può
durare minuti o mesi ma comunque ci vuole). Smettere di fare l’amore presuppone un processo altrettanto
delicato. In sua mancanza (il taglio netto), può esserci violenza. Boh? Non sono mica uno psicologo, l’ho buttata lì
come m’è venuta!
Né il bene né il male né niente: pensieri d'un caldo versosera
martedì 17 luglio 2007, 19.28.50 | molinaro
Tumori. Il mio barbiere ha riaperto bottega, sono andato adesso a farmi tosare. Dopo due
mesi che era chiuso per malattia. Operato di un tumore che di norma non lascia speranze e
uccide in fretta (forse il peggiore di tutti, stando alla statistica). Mi è sembrato in forma,
allegro. Certo, il male può riattaccare, ma a quel punto potremmo dire che tutti possiamo
ammalarci in qualsiasi momento di qualsiasi cosa. Lui deve avere una sessantina d’anni,
forse tra i sessanta e i sessantacinque, diciamo. Sinceramente pensavo che non avrebbe
riaperto più. E invece.
Tumori. Una mia amica aspetta l’esito di una biopsia. In un punto delicato e pericoloso (non uno dei tumori
«femminili», no, è un’altra cosa). Lei di anni ne ha ventuno. Sono preoccupato. Naturalmente lo è anche lei. Ci si fa
coraggio. Speriamo in bene.
Orrori. È la seconda volta che lo incontro su un autobus. È un uomo di età imprecisabile e ha una malattia che non
so che cosa sia, è tutto coperto di protuberanze carnose grosse come ciliegie, dappertutto, il viso le mani il collo, tutto
quello che il vestito lascia vedere. Emette anche un odore insopportabile, molte persone scendono dall’autobus.
Sembra uscito da un film dell’orrore, è ripugnante. Lo so che mi sto esprimendo in modo violento e «politicamente
scorretto», ma è così, le parole non possono (non devono) coprire la realtà. Penso alla sua infelicità di intoccabile,
inavvicinabile. Accanto a lui ragazze fresche, appetitose (quelle che resistono e non scendono dal bus, almeno). Dura
la vita.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Bruttezza. Anche senza arrivare alla malattia ripugnante di cui al paragrafo precedente, ci sono persone la cui
bruttezza è devastante. Certo, è bello ciò che piace. Certo, si può essere brutti e simpatici. Certo, non idolatriamo
l’apparenza. Si vive per altri valori. Certo. Ma oltre un certo limite la bruttezza non è un’opinione: deformità
evidenti, obesità anneganti, figure prive di ogni forma. A quel livello la bruttezza mi sembra un handicap, non
diverso dalla mancanza di una mano o da una difficoltà di deambulazione o dalla sordità o altro. Compromette la vita
di relazione, rende più difficile l’equilibrio emotivo: è un handicap. Osservando certe persone, di entrambi i sessi, mi
è successo di pensare: preferirei essere mutilato di una mano che essere così brutto. Mi creerebbe meno difficoltà.
Non so se è un vizio mio di «troppo esteta», ma non credo. Oltre un certo limite la bruttezza è un handicap, solo che
riconoscerlo socialmente peggiorerebbe la situazione: «sei così brutto che ti diamo una pensione di invalidità» è una
frase che non credo faccia piacere. Dunque non c’è niente da fare.
Pudore. Guardavo una panchina vuota in piazza Statuto e immaginavo, così camminando nel caldo meridiano (fa
questi scherzi) due che ci facessero l’amore, nudi, o anche non nudi: la gente avrebbe guardato curiosa ma anche
scandalizzata, qualcuno avrebbe gridato commenti anche non gentili, poi qualcun altro avrebbe chiamato la polizia o
i vigili e ci sarebbe stata la denuncia per avere offeso il pudore, nel suo comune senso. Pensavo alla costruzione
culturale secolare che ha prodotto questo: astraendo e astraendo (e mentre camminavo e pensavo «astraendo e
astraendo» muovevo le braccia, me ne sono accorto, le ruotavo per sottolineare l’intensità dell’astrazione: spesso,
quando cammino da solo e penso, mi sa che mi prendono per pazzo) non c’è nulla di oggettivamente brutto o
condannabile in due che fanno l’amore su una panchina in piazza Statuto. Magari anzi sono molto belli da vedere
mentre lo fanno. Eppure è una vista insopportabile, da punire; mentre si sopporta (sia pure con sforzo) la vista
dell’uomo sull’autobus uscito da un film dell’orrore (e la si sopporta giustamente: ci manca solo che, con la sfiga che
già ha, gli si vieti l’autobus). Ma perché i due che trombano invece no, non sono sopportabili? Ce ne siamo costruiti
di garbugli in testa sulla sessualità, in questi dieci o quindicimila anni di storia. Forse è impossibile liberarsene.
Amen.
Pudore. Una sera da mia madre (io non ho televisore e va bene così) guardavo un reality show – o forse non era un
reality show, è una terminologia che conosco poco: comunque, uno spettacolo in cui della gente andava a raccontare i
suoi sentimenti e a litigare con altri con cui invece forse doveva riconciliarsi, c’era una ragazza che aveva tradito il
ragazzo e gli chiedeva perdono in televisione e lui non la perdonava, e interveniva tutta la famiglia, la madre a dire
che fa bene mio figlio a non perdonare quella troia (no, non credo sia stata pronunciata la parola troia, ma tante volte
l’eufemismo è più tagliente di ciò che eufemizza). Non potevo spegnere perché non volevo interferire con la visione
di mia madre (anche se credo stesse sonnecchiando), e allora mi sono alzato e sono andato in cucina per non sentire
più, perché mi veniva da vomitare, perché ciò che passava sullo schermo era avvilente, volgare, insopportabile.
Dunque anch’io ho il mio pudore; è solo un pudore diverso. Non trovo nulla di volgare od offensivo in due che
trombano su una panchina di piazza Statuto, ma in due che si dicono cattiverie davanti a un pubblico voglioso e
feroce, prostituendo i sentimenti, lì sì, trovo la quintessenza della volgarità e dell’offesa. Però lo trasmettono in prima
serata. Farebbero meglio a trasmettere film di Moana Pozzi buonanima, dove c’è assai più finezza e rispetto.
La vecchia autoradio. Ho portato l’auto nella mia officina di fiducia, il cui titolare mi prende sempre per il culo
perché di auto non capisco una mazza, ma è simpatico. C’è da aggiustare la lucina che illumina il cruscotto (in realtà
non funziona da quando l’ho comprata, ma prima o poi dovevo decidermi, se viaggio di notte non vedo neanche a che
velocità sto andando) e poi secondo me anche la spia della benzina. Almeno: se ne accende una piccolina in alto a
destra, tutta nascosta, ma secondo me è di emergenza, la riserva della riserva, e dovrebbe accendersene una grande
vicino alla lancetta del serbatoio, in mezzo, non è così nella Panda? Mi era sembrato... Ma il titolare dell’officina, un
tipo molto paterno con i capelli grigi, mi fa bonariamente: «Guardi, io le credo anche, ma è sicuro che ci sia una spia
della benzina qui? E perché poi dovrebbero essercene due?». Mi sono sentito un po’ scemo, però a me sembrava che
ci fosse, e poi quell’altra è tutta defilata, però chissà, forse mi confondo con la Uno che avevo prima. Bah! Fa lo
stesso. E poi gli ho dato da montare anche la vecchia autoradio che mi ha regalato Cesare venerdì. Su quella Panda
usata c’erano già le casse, e allora ho pensato di metterci l’autoradio, così le sfrutto. È vecchia e mangia le cassette,
non legge i ciddì, ma insomma, io poi un po’ di cassette le ho ancora, ho i Canti picareschi di David Riondino su
cassetta, che mi piacciono molto: Maracaíbo, balla al Barracuda, sì ma balla nuda, Zazà, e l’impiegatino asburgico
che beve Gewürztraminer e ama l’imperatore, e la grande aragosta e le suore di Vigevano che correvano sui trampoli,
era l’estate del cinquantatré. Insomma, quello dell’officina ha guardato l’autoradio con una faccia che subito gli ho
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Carlo Molinaro
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detto, come per scusarmi: «Non è nuovissima». «Dire che non è nuovissima è un eufemismo, comunque proviamo a
montarla, a volte i miracoli succedono», ha risposto.
La luna di Chiara. E poi ho pensato che Beethoven ha composto il Chiaro di Luna (anche se forse non è stato lui a
chiamarla così, la sonata per pianoforte in do diesis minore n. 14 op. 27 n. 2) e allora ho scritto la Luna di Chiara,
così, tanto per scrivere, perché ne avevo voglia. Non è una poesia, è il testo per una canzone da musicare. Che
differenza c’è? Non lo so, forse nessuna, molte poesie sarebbero musicabili, ma questa qui l’ho scritta con
l’intenzione di fare un testo per una canzone. Avrei anche un abbozzo di musica in testa, ma dato che non so suonare
quasi neanche il citofono e tantomeno so scrivere musica, basta così. E quello nella foto è un motocarro che ho
fotografato a Lisbona nel 2004.
LUNA DI CHIARA
Luna di gesso, luna di cartone,
luna di vetro in posa su un bancone,
luna tolta da un cielo sempre caldo,
luna venduta nei negozi in saldo.
Luna rinfusa, luna paccottiglia,
luna che non ce n’è che ti somiglia,
luna-Taiwan spacciata come rara
– no, non è questa la luna di Chiara.
Luna di Chiara non l’avete vista:
da troppi inverni la tiene nascosta:
non è di plastica né cartapesta:
è viva, cresce, lo spazio non basta.
Luna di Chiara è luna sottile:
può lacerarsi fra il ponte e le vele:
ruba lo specchio all’orgoglio del sole:
c’è chi s’inquieta, chi imbraccia il fucile.
Luna di Chiara è vergine cauta:
non la calpesta nessun astronauta.
Luna di Chiara è astuta bagascia:
non fa capire se prende o se lascia.
Luna di Chiara non è una conquista:
io l’ho incontrata senza farlo apposta
– un attimo negli occhi m’è rimasta:
credimi, è stato un attimo di festa.
Habeas Corpus
giovedì 19 luglio 2007, 7.59.27 | molinaro
Per un’opera a cui collaboro, ho dovuto lavorare redazionalmente alcuni pezzi dell’Habeas
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Carlo Molinaro
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Corpus Act, fondamentale (mi dicono) documento del diritto inglese, del 1679. Non siamo
riusciti a trovarne una versione italiana «ufficiale», preesistente, e ci siamo lanciati in una traduzione a più mani che
si è rivelata complicatissima, snervante. Incuriosito, sono andato allora in giro per varie fonti a cercare di capire che
cos’è l’Habeas Corpus in generale, che evidentemente precede, come concetto, l’atto inglese del 1679: mi sa di
diritto romano, o giù di lì. Beh, insomma, è in latino, no? E d’altra parte se ne parla spesso in discussioni
contemporanee sul diritto, sulla democrazia, sulla trasparenza, sulla libertà. Sembrerebbe una cosa importante.
Ora, lo so che dicendolo pubblicamente mi espongo a una figura di merda, ma io, dopo avere letto decine di pagine
sull’argomento, non ho capito assolutamente di che cosa si tratti. Forse sono allergico al giuridichese. Ma non lo
capisco proprio, che cos’è l’Habeas Corpus. In genere trovo, come spiegazione, che è «un qualcosa» contro la
detenzione preventiva, «un qualcosa» sul diritto a essere giudicati presto da un’autorità competente. Però non capisco
i termini in sé. Non capisco neanche a quale corpus ci si riferisca, né chi sia il destinatario dell’esortativo habeas.
Abbi il corpo del detenuto? O di chi? Ma poi chi lo deve avere? O abbi tu il tuo corpo, cioè la disponibilità di te
stesso? O abbi il corpo... del reato? O forse corpus in qualche altro senso ancora? Forse la chiave è proprio capire chi
è il tu dell’habeas. E questo non lo trovo spiegato da nessuna parte, ho fatto dei lunghi giri su vari siti... Insomma,
dichiaro la mia ignoranza: pur avendo lavorato redazionalmente parte del testo dell’Habeas Corpus Act (che significa
poi metterlo in un italiano decente, o almeno provarci – quando il concetto è garbuglioso, non è facile illimpidirlo), io
a tutt’oggi non so rispondere alla domanda: «che cos’è l’Habeas Corpus?» Certo, colpa mia, sicuramente, che sono
allergico alla terminologia dei diritti (nulla, nulla, nulla capisco di leggi, decreti, atti processuali e roba del genere, è
proprio una lingua a me aliena – e questo mi preoccupa un po’, perché la legge, per essere uguale per tutti, dovrebbe
essere comprensibile a tutti, o quantomeno provarci), ma colpa anche di un mondo delle leggi, appunto, che forse da
sempre è stato lontano dalla gente. D’altronde, in Inghilterra nel 1679 credo che poca gente parlasse latino, e quindi
per i sudditi di Sua Maestà l’habeas corpus poteva anche essere una minestra di verdure. Insomma, qualcuno mi dice
in modo semplice che cos’è l’Habeas Corpus? A questo punto sono curioso davvero, accidenti! Sembra una cosa
importante anche per il diritto di oggi! Quindi andrebbe un po’ spiegata... I due nella foto sanno certamente di che
cosa si tratta, se hanno scritto quello striscione, però va spiegato! Insomma!
Savona e dintorni
venerdì 20 luglio 2007, 8.48.38 | molinaro
Stasera vado a una festa in un paese alle spalle di Savona. Si prevede una cena a base di
cozze o, come si dice in Liguria, muscoli. Prendo l’auto, mi caccio nel traffico dei
vacanzieri, e ci vado. Poi tornerò a Torino nella notte. Una sfacchinata, sì, ma sono
affezionato a quella zona, appena nell’entroterra, dietro Savona. Ci ho trovato paesaggi,
tensioni, emozioni, amici, musica, poesia, lunghe notti chiare, un amore ricambiato con una
ragazza sfavillante (poi finito perché pare che tutto abbia a finire, in questa fragile vita
mortale) e un amore non ricambiato con una ragazza più sfavillante ancora ma vagamente fidanzata con un altro
(beh, nessuno è perfetto!). Mi sembra che tutto ciò sia moltissimo, per una zona così piccola, un raggio di una ventina
di chilometri, e allora ci sono affezionato, e stasera vado a mangiare le cozze.
Intanto vi offro una poesia scritta nel 2003 appena un po’ più in là, dove comincia Genova. Che fra Savona e Genova,
è tutta una fascia di terra amabile, anche se io, come dice la poesia, vagamente straniero lo sono ovunque.
PASSAGGIO A V.
Spiaggia di Vesima, buttato sui sassi
a torso nudo coi miei vecchi jeans,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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con le scarpe da profugo romeno,
la faccia di randagio fuori età.
Mi chiede una bambina: «Sei straniero?»
Sento le pietre calde sulla schiena.
Socchiudo gli occhi. Le rispondo: «Sì».
LA STRANIERA
domenica 22 luglio 2007, 13.27.55 | molinaro
Sarà che collaboro a una rassegna stampa sull’immigrazione per
una lodevole associazione (www.fieri.it). Sarà che faccio
volontariato in un gruppo che offre alcuni servizi agli immigrati.
Sarà che Torino è una città multietnica e mi accade di partecipare
in occasioni multietniche. Sarà, più semplicemente, che sono un
vagabondo. Fatto sta che oggi mi è venuta una poesia
sull’immigrazione. Non so se è una poesia «civile». Tutta la poesia è civile. E
comunque la cosa non ha importanza. Forse è una poesia d’amore. Insomma è una
poesia, per quel che vale, ed eccola qua.
LA STRANIERA
Si è integrata – o così sembra. Parla
la loro lingua, con qualche esitazione.
Cucina le verdure; ha preparato
una festa stasera.
Loro arrivano
un po’ per volta.
Io ero già lì
ad aspettare, apparecchiando il tavolo
con lei, nel mio silenzio.
Sono uomini, tutti uomini: se hanno
una donna, non l’hanno portata.
Uno di loro è il suo fidanzato,
il fidanzato della donna straniera:
lo riconosco perché lei gli dà un bacio.
Mangiano, bevono. Dicono battute
sulle solite cose: le serate
al mare, le automobili, le moto,
le case da comprare – e poi le donne.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Lei, la straniera, cerca di rispondere
a tono – oppure invece si ritrae
aggrottandosi – oppure nasconde
un disappunto in un gesto qualsiasi.
Questo nuovo paese non è il suo
ma un’immigrata si deve adattare.
Il fidanzato è un poco più gentile
e le offre un riparo. Gli altri ruttano
e vagamente forse compatiscono
l’amico che s’è preso questa donna
kosovara o macedone o boema,
non lo sanno neppure di preciso.
Il fidanzato è un poco più gentile
ma neppure lui sa. Le lontananze
non s’imparano parlando o promettendo:
devi averle percorse.
Sto in silenzio
e mangio la verdura. La straniera
ha negli occhi altri cieli e altri ragazzi
lasciati. Ma non c’era sicurezza
laggiù, non c’era pane e anche l’amore
era un bene di lusso che trovavi
un giorno sì e troppi giorni no.
Qui invece pane e amore hanno una certa
garanzia, norma CE, quality control,
benché ci scappi a volte qualche frode
di mafia. Hanno una certa garanzia:
pazienza se il sapore non è forte
né dolce come là nelle pianure
tra la Vltava e il Labe.
Sto in silenzio,
vedo le bianche nubi velocissime
nell’azzurro degli occhi: mi son perso
nei paesi più ostili e seducenti,
dove nessuno sapeva chi ero. Neanche oggi
sanno chi sono. Io sono qui per sbaglio.
L’immigrata concede sguardi brevi
ai miei sguardi. Diffida del mio essere
diverso: teme io voglia riportarla
subdolamente ai suoi sogni precari,
quei sogni senza casa e senza parte
in cui soffrire ancora. Cosa voglio?
Perché non sto al mio posto? Ho parenti
dell’Est? O sto giocando con un poco
d’imparaticcio nel volontariato?
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Le direi: Vieni via perché ti amo
e ti conosco, perché sarà bello
restare insieme. Non le dico nulla.
Sono lontano da lei e dagli altri
che ormai, più brilli, scoreggiano pure.
Ripongo i piatti lavati nel vecchio
mobile in legno e vetro.
Sto in silenzio.
Saluto e torno verso casa, nella
notte ormai fonda. Vado. Ho il privilegio
di non avere patria – ma non basta. Lei
si è integrata – o così sembra. Parla
la loro lingua, con qualche esitazione.
L'ombelico del poeta e l'autogrill di Guccini
martedì 24 luglio 2007, 9.34.17 | molinaro
In un messaggio di questo blog ho messo due poesie-invettive contro due canzoni di MogolBattisti. Invettive perché? Perché trovo che siano testi maschilisti, egocentrici ed egolatrici,
canzoni di pseudamore dove lei viene ridotta a una cosa anche un po’ stupida.
Contro due testi vagamente commerciali (benché Battisti abbia cantato pure canzoni
emozionanti, colonne sonore di feste d’adolescenza) è forse fin troppo facile scagliare
invettive di quel tipo. Ma stamattina ho pensato che un certo maschilismo, un certo
egocentrismo e una certa egolatria si trovano spesso anche in ben più «nobili» canzoni e poesie.
Stavo canticchiando una canzone di Francesco Guccini che mi piace molto (e che continuerà a piacermi molto),
Autogrill, e notavo alcune cose. Sì, qui c’è una ragazza più vera, più delineata, presa in un gesto concreto (la ragazza
dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up), descritta con più cura (il sorriso da fossette e denti era da
pubblicità... bella d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria, quasi triste come i fiori e l' erba di scarpata
ferroviaria... specchiò alla soda-fountain quel suo viso da bambina), insomma c’è lo sguardo rivolto a lei. Lei esiste,
possiamo pensare che esista. E meno male, Guccini è Guccini, non è Mogol-Battisti.
Eppure. Eppure anche qui subito ci si ripiega al proprio interno: i sogni miei segreti li rombavano via i TIR... il
silenzio era scalfito solo dalle mie chimere, che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere... e io sentivo
un’infelicità vicina. Beh, è inevitabile, si dirà: la poesia è interiorità. Sì, certo. Ma la ragazza sembra pian piano
ridursi a una componente della scena, a un’immagine (come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill), a una
componente non tanto diversa da quella del paesaggio fisico (basso il sole all'orizzonte colorava la vetrina, e
stampava lampi e impronte sulla pompa da benzina).
Alla scena il soggetto narrante (poetante, cantante?) imprime un tocco proprio, fa un gesto, non si limita alla
contemplazione: misi un disco nel juke-box per sentirmi quasi in una scena di un film vecchio della Fox. Però ecco, è
ancora una scena letteraria, è un film vecchio della Fox, e sembra quasi una scusante la frase successiva: per non
gettarle in faccia qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè. Fra l’altro sull’efficacia decliscettizzante di tale picchiettamento mi
permetto di nutrire qualche ragionevole dubbio.
La sensazione è che a questo punto sia già tutto finito, tutto ridotto a un gioco di pensiero. E infatti c’è quella che
secondo me è una frase chiave della canzone: Ma nel gioco avrei dovuto dirle... Ecco: «ma» (perché «ma»? che cosa
si oppone?), «nel gioco» (gioco: dunque è pre-scritta l’impossibilità che sia realtà), «avrei dovuto» – come, avresti
dovuto? e perché non lo fai? che cosa o chi te lo impedisce?
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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I due versi successivi, contenenti ciò che «avrebbe dovuto» dirle, sono bellissimi: non la vedi, non la tocchi oggi la
malinconia? Non lasciamo che trabocchi: vieni, andiamo, andiamo via. Può essere significativo il fatto che, non
molto tempo fa, questi versi io li abbia scritti su un biglietto che ho dato a una ragazza, che vedevo in una luce simile,
in una malinconia simile, e ho voluto (non «avrei voluto») dirglielo, e gliel’ho detto. Non è venuta via con me, ma ci
ho provato. Non rinuncio mai senza provare.
Poi nella canzone l’atmosfera si rompe, come è naturale, entra gente nell’autogrill, tutto torna a essere qualsiasi
(anche la ragazza?) e lui si alza e se ne va per la sua strada (mi chiamò la strada bianca) dove non c’è sicuramente
posto per la barista dell’autogrill – avrà ben altro da fare. A conferma della ribanalizzazione della ragazza (chissà,
forse ormai non è più nemmeno bionda senza averne l’aria), il nostro le lascia addirittura un nichel di mancia – cazzo,
almeno questo poteva risparmiarcelo però, è davvero brutto.
Ora, non so neppure cosa voglio dimostrare, probabilmente nulla, parlo così per parlare, e la canzone è comunque
bella. Però... Però mi è successo di osservare una ragazza dietro il bancone di un autogrill – o in qualsiasi altro luogo
del pianeta. Mi è successo di trovarla bella, bella di una sua bellezza. Di cominciare a desiderarla, di cominciare,
massì, a innamorarmene. Se tante volte non ho detto vieni, andiamo, andiamo via è stato solo per timidezza. Non
perché pensassi che era solo un gioco. Non perché la vedessi solo come una tessera di un mosaico. Non perché mi
servisse solo per farci pensieri, fantasticherie, poesie o canzoni. Chi se ne frega delle poesie e delle canzoni. Vieni,
andiamo, andiamo via davvero. Qualche volta mi è riuscito di dirlo. Qualche (rara) volta siamo andati via. Amare
(una donna, ma anche la realtà, il mondo, insomma tutto) è slanciarsi, muoversi, avanzare, agire. È non poter stare
fermo, cazzo! Non è chinarsi su un foglio o su una chitarra. Quello viene dopo, quello viene per raccontare, per
riprendere, per forse (presuntuosamente) eternare un qualcosa – ma prima lo devi vivere, vivere tutto, rischiare,
rischiare anche di conoscerla, di vedere com’è diversa, di prenderla con te, la ragazza che mescola birra e gazzosa,
forse sposarla, farci tre figli, andare ad abitare al suo paese, conoscere sua madre e il suo cane. Forse: non è detto che
accada, ma forse. Se no, se già in partenza lei è solo un pezzo della scena di un film vecchio della Fox, beh, allora è
una cazzata, un’egolatrica masturbatoria solipsistica cazzata. Ed è anche, ora esagero ma chi se ne frega, una
vigliaccheria. Se i poeti sono questi inconcludenti coglioni innamorati solo del loro naso e della loro penna, fanno
bene le ragazze a fidanzarsi con gli agenti immobiliari. E vaffanculo. Scusate, ho trasceso ma mi bruciava un po’
dentro.
L’amore vero non è tanto quello che strappa i capelli, ma quello che ti strappa da te stesso, dalla contemplazione
compiaciuta del tuo ombelico del cazzo. Le poesie vengono dopo. E soltanto quelle che vengono dopo sono le più
belle. Le altre sono letteratura, solo letteratura, e ne ho le palle piene. E scusatemi ancora, e la canzone di Guccini è
comunque bella e la canticchierò ancora, e stasera vado a Venezia a trovare una donna e non un mio sogno, e di ciò
sono felice, e buona giornata a tutti voi.
Al mare!
venerdì 27 luglio 2007, 11.13.38 | molinaro
Oggi pomeriggio vado al mare, e ci resto per qualche giorno. Una breve vacanza. Mi sento
pieno e vuoto, meravigliato e stanco, entusiasta e malinconico. Una lucente ghirlanda
aggrovigliata. Al mare festeggerò anche il mio LIV compleanno. Scritto alla romana suona
bene, insomma, ai uònt tu liv. E andiamo avanti, finché ce n’è.
D’altronde è così da sempre. Anche nella Bibbia c’è un po’ tutto e il contrario di tutto. Se
da un lato Qohelet dice:
Vanità delle vanità, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che
sostiene sotto il sole? Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per
ricominciare gli stessi giri. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo
dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto
l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire. Ciò
che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei
secoli che ci hanno preceduto. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto
succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi. Io sono stato re
d'Israele a Gerusalemme, e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò
che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si
affatichino. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al
vento. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato. Io ho
detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno
regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta
scienza». Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho
riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti, dove c'è molta saggezza c'è
molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
Dall’altro lato la ragazza innamorata del Cantico dei Cantici dice:
Baciami dei baci della tua bocca, poiché le tue carezze sono migliori del vino. I tuoi profumi hanno
un odore soave; il tuo nome è un profumo che si spande; perciò ti amano le fanciulle! Attirami a
te! Sono scura ma bella: è il sole che mi ha abbronzata. I figli di mia madre si sono adirati contro
di me; mi hanno fatta guardiana delle vigne, ma io, la mia vigna, non l'ho custodita. Il mio amico è
per me come un sacchetto di mirra, che passa la notte sul mio seno. Il mio amico è per me come
un grappolo di cipro delle vigne d'En-Ghedi. Come sei bello, amico mio, come sei amabile! Anche il
nostro letto è verdeggiante. Le travi delle nostre case sono di cedro, i nostri soffitti sono di
cipresso. Qual è un melo tra gli alberi del bosco, tal è l'amico mio fra i giovani. Io desidero
sedermi alla sua ombra, il suo frutto è dolce al mio palato. Egli mi ha condotta nella casa del
convito, l'insegna che stende su di me è amore. Fortificatemi con schiacciate d'uva passa,
sostentatemi con mele, perché sono malata d'amore. La sua sinistra sia sotto il mio capo, la sua
destra mi abbracci! Ecco la voce del mio amico! Eccolo che viene, saltando per i monti, balzando
per i colli. L'amico mio è simile a una gazzella, o a un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro
muro e guarda per la finestra, lancia occhiate attraverso le persiane. Il mio amico parla e mi dice:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, poiché, ecco, l'inverno è passato, il tempo delle piogge è
finito, se n'è andato; i fiori spuntano sulla terra, il tempo del canto è giunto, e la voce della tortora
si fa udire nella nostra campagna. Il fico ha messo i suoi frutti, le viti fiorite esalano il loro profumo.
Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni». Il mio amico è mio, e io sono sua: di lui, che pastura il
gregge fra i gigli. Sorgi, vento del nord, e vieni, vento del sud! Soffiate sul mio giardino, perché se
ne spandano gli aromi! Venga l'amico mio nel giardino e ne mangi i frutti deliziosi! Io dormivo, ma
il mio cuore vegliava. Sento la voce del mio amico che bussa e dice: «Aprimi, sorella mia, amica
mia, colomba mia, o mia perfetta! Poiché il mio capo è coperto di rugiada e le mie chiome sono
piene di gocce della notte». Io mi sono tolta la gonna; come me la rimetterei ancora? Mi sono
lavata i piedi; come li sporcherei ancora? L'amico mio è bianco e vermiglio, e si distingue fra
diecimila. Il suo capo è oro finissimo, le sue chiome sono crespe, nere come il corvo. I suoi occhi
paiono colombe in riva a ruscelli, che si lavano nel latte, montati nei castoni di un anello. Le sue
gote sono come un'aia d'aromi, come aiuole di fiori odorosi; le sue labbra sono gigli, e stillano
mirra liquida. Le sue mani sono anelli d'oro, incastonati di berilli; il suo corpo è d'avorio lucente,
coperto di zaffiri. Le sue gambe sono colonne di marmo, fondate su basi d'oro puro. Il suo aspetto
è come il Libano, superbo come i cedri. Il suo palato è tutto dolcezza, tutta la sua persona è un
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Carlo Molinaro
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incanto. Tal è l'amore mio, tal è l'amico mio. Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo
sul tuo braccio; perché l'amore è forte come la morte, la gelosia è dura come il soggiorno dei
morti. I suoi ardori sono ardori di fuoco, fiamma potente. Le grandi acque non potrebbero spegnere
l'amore, i fiumi non potrebbero sommergerlo. Se uno desse tutti i beni di casa sua in cambio
dell'amore, sarebbe del tutto disprezzato.
E io dico che è tutto vero, tutto è vanità e tutto è amore, e vado al mare. Però... mi sento più innamorato che vano.
Nonostante i LIV anni, mi sento più la ragazza dalla pelle bruna che il re investigatore di saggezze. Basta, vado
qualche giorno al mare, ho lavorato tantissimo, mi riposerò un po’, guarderò l’azzurro, dormirò. Domani è un altro
giorno. Passate buone giornate, voi. Il mio coetaneo David Riondino, anche lui LIV quest’anno, non avrà l’autorità
della Bibbia, ma il ritornello della sua canzone Crepuscolo del Novecento mi sembra una delle cose più sensate che
siano mai state scritte: «Tu prendi il tempo buono, perché presto finirà, e gòditi il tempo cattivo, perché non durerà».
Zoagli
domenica 29 luglio 2007, 15.43.37 | molinaro
La tentazione di scrivere due righe anche dal mare è forte, pure con un modem lentissimo e un portatile
IBM già antico, pagato 150 euro al mercatino dell'usato, con la tastiera inglese che ho impostato come
italiana e trovo i tasti a memoria. D'altronde un redattore purista non può sopportare di mettere gli
apostrofini al posto delle accentate, c'è un limite a tutto... Un giro in spiaggia, un concerto a Genova ieri
sera, e poi molto riposo, molto dormire. Zoagli è un posto tranquillo, nonostante la stagione di punta. Il
vizio di scrivere permane (ho scritto a un amico una lettera di otto pagine a mano, domani gliela spedisco),
ma si fa anche dell'altro. L'amica che è meco cucina ottimo pesce, io ho fatto il bucato e steso le magliette
al sole dietro casa, ed è un bell'effetto di colori. Lascio scorrere le immagini e i pensieri, passeggio,
discorro, e ogni volta che mi viene sonno dormo. Non è male, in sostanza. Guardo le scritte sui muri e
sulle scogliere, ci sono lunghe storie d'amore con botta e risposta, slanci e abbandoni raccontati con spray
o pennarelli. Prevalgono quelle cattivelle, ma forse è solo perché chi è felice non sta tanto a scriverlo sui
muri. Una cattivella ma fantasiosa è sulla passeggiata a mare a levante e dice: "Gaia troia: [segue una
lista di una ventina di nomi maschili alcuni dei quali con accanto la cifra "2", credo a significare che per
esempio di Alessandri o Roberti nella vita di Gaia ce ne sono stati due], totale 25, troia". Va da sé che mi
piacerebbe immediatamente conoscerla questa Gaia dai venticinque uomini attestati su muro. Che poi
magari non è vero niente, e comunque venticinque non sono mica tanti. Beh, certo dipende anche dall'età,
se Gaia ha poniamo quindici anni sono un buon numero, ma... Vabbè. Stasera andiamo a sentire un coro
nella chiesa del paese. Cosette così, e via, là. Passatevi buone giornate.
Geografia
domenica 29 luglio 2007, 18.48.40 | molinaro
Poi mi è venuta una poesia, questa qui sotto. E adesso una doccia, una cena, e fuori, nella serata in riva
al domestico mar Ligure. Domestico non è un insulto per un mare, e forse neppure per diverse altre cose.
GEOGRAFIA
non voglio sapere dove vai
voglio sapere che torni
Guido Catalano
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 74 di 200
Tornato da Venezia e da un amore
amato bene, senza riposarmi vado
dall’amica a Torino, che mi parla
di gioie e di dolori e penso a un’altra
che manda baci da Vicenza e a una
che baci non ne manda, da Savona.
Non c’è nessuna dispersione, c’è
soltanto un senso di tempo che passa
o spazio (dicono che sia la stessa
cosa, io non saprei), c’è uno squagliarsi
di vita e tutto ciò non ha rimedio
né in un amore né in molti né in nessuno.
È come è, non c’è nulla da aggiungere
né da togliere, la vita è stata aggiunta
e sarà tolta, non c’è un senso, ma
lasciate che io corra qualche giorno
ancora per Venezia, per Vicenza
e Torino e Savona e ogni altro luogo.
Zoagli, 29 luglio 2007
Tre cosette oggi
lunedì 30 luglio 2007, 21.15.41 | molinaro
Oggi ho scritto tre cosette in versi. Sarà il mare che mi fertilizza. Peggio per voi! Non faccio
vita balneare, ma per fortuna questa parte di Liguria è affascinante e piena di risorse, con i
monti che cadono direttamente nelle acque. La spiaggia è solo una delle tante possibilità per
chi ha qualche ora libera qui. Poi si può salire in alto, passeggiare, mangiare un’ottima
granita di mandorla, e scrivere.
GIORNO DI VACANZA
Mi piace lavare a mano le magliette di diversi colori
e stenderle sul filo dietro casa.
Metto quella azzurra accanto a quella arancione.
L’aria di mare qui le asciuga in fretta.
I calzini neri danno meno soddisfazione
ma fanno pure la loro figura, ciascuno
con la sua molletta. Le mollette sono alcune
di legno e altre di plastica, alcune bianche
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 75 di 200
e altre gialle. Antonella prepara
il pesce con gli aromi e le melanzane ripiene.
PESCE
Il sole è tramontato già da qualche minuto
ma le cicale fanno gli straordinari
sui pini arrampicati alla scogliera.
Io penso al pesce. Lo so che non c’entra,
ma penso al pesce che mi ha dato Chiara
quando sono stato a casa sua.
Pesce già sventrato e sviscerato
con le sue belle mani. Una ragazza
che sa sventrare e sviscerare i pesci
a me fa sangue, m’eccita. Sei anni
or sono m’ero innamorato d’una
pescivendola del mercato di Porta Palazzo:
aveva anche lei belle mani, i capelli
mossi, ondulati – e anche con lei
non c’era stato niente proprio niente da fare.
COLOR PARADISO
«Il cielo è porcellana trasparente,
ha quel colore come del paradiso»
– dice Antonella ed è vero e lo scrivo
non per rubarle l’idea ma perché
lei non lo scrive e qualcuno deve farlo.
È vero, ho visto anch’io, la trasparenza
del cielo in questo minuto è porcellana
sottile: è evidente. Sì però è evidente
ora che lei l’ha detto, non lo era
prima che lo dicesse. Allora credo
che lei davvero sappia pure che
colore ha il paradiso, ma su questo
non posso dare una conferma mia,
io non arrivo a tanto. Io trascrivo.
Due cosette anche oggi
martedì 31 luglio 2007, 20.52.38 | molinaro
Oggi, alla vigilia del mio compleanno, sono stato a fare
una gita alle Cinque Terre, e a Riomaggiore ho scritto due
poesie. La prima si intitola appunto Riomaggiore, perché
non sapevo come intitolarla diversamente. La seconda si
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15/11/2007
Carlo Molinaro
intensa.
Pagina 76 di 200
intitola Scena. È stata una giornata emotivamente molto
RIOMAGGIORE
Non sono in riva al mare:
il mare è in riva a me
e mi osserva. Le mie onde
sono le stesse da milioni di anni.
Lui le vede ogni attimo diverse.
Non sto guardando il cielo:
il cielo sta guardando me.
Le mie nuvole sono soltanto vapore.
Per lui hanno forme ogni attimo diverse.
Nella mia eternità lui lo guardo morire
invidiando il suo tempo che finisce.
SCENA
È meglio piangere d’un pianto colorato
che far l’amore d’un amore sbiadito.
Il mio caffè, il vino nel bicchiere.
Issa la vita agli alberi le vele:
il vento di morte la fa navigare.
Scendiamo piano per le scale al mare.
Svelta lei toglie la blusa e la gonna,
a torso nudo s’immerge nell’acqua.
Resto seduto sui sassi a guardare.
Digital
venerdì 3 agosto 2007, 0.17.54 | molinaro
Oggi tra un viaggio e l’altro, per di qua e per di là, ho scritto queste due
cose. Forse c’entrano l’una con l’altra. L’innamoramento non è digitale, è
analogico. Quando si fa l’amore non ci sono punti staccati da contare,
non ci sono valori numerici. E l’innamoramento è connaturato alla
persona come la carica elettrica alla particella, e, come della carica
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 77 di 200
elettrica, non se ne capisce granché, è così e basta. Forse è meglio
andare a dormire.
LASCIAMO STARE LE COSE COSÌ
Se si potesse travasare l’innamoramento
da una persona all’altra come un liquido
(ho in mente cinque o sei donne, facciamo sette)
disporrei diversamente
sia il mio verso di loro sia il loro verso di me.
Il mio verso di loro è già meno squilibrato
(ha meno deviazione standard, credo si dica in statistica,
ma non sono sicuro, forse è meno scarto dalla norma)
perché di tutte sono innamorato almeno un po’:
non ce n’è nessuna che ne abbia proprio zero.
Il loro verso di me è peggio distribuito
perché qualcuna con lo zero credo ci sia.
Sì, lo travaserei da una all’altra, dosando diversamente.
Per far coincidere il massimo innamoramento mio
con il massimo innamoramento suo, dico di una di loro?
Potrei travasare il loro o il mio o entrambi. Uhm. Sì. Boh.
Ma forse è meglio che non si possa travasare,
mi sa che combinerei solo dei casini.
Lo concentrerei tutto in una
o lo livellerei equamente come nei vasi comunicanti?
No, mi sa che è una stronzata.
Lasciamo stare le cose così.
Certo che però...
No, lasciamo stare le cose così.
PUNTI DISCRETI
In un mondo digitale la circonferenza non esiste.
Se sono punti staccati, discreti, per quanto piccoli e numerosi,
è un qualcosìgono (un tantissimìgono) ma non una circonferenza.
Quindi quel problema della quadratura del cerchio
è roba superata, non pensateci più. Cancellato.
Il nostro tempo è il tempo dei problemi cancellati,
e d’altronde mica si potevano risolvere, è più pratico così.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Digitale, digitale, l’analogico è superato,
tutto è fatto di punti staccati. Staccati, staccati!
L'insalatona
venerdì 3 agosto 2007, 9.30.04 | molinaro
Ieri sono stato in giro tutto il giorno e sono tornato a Zoagli verso le nove di sera, in treno.
Non avevo mangiato nulla per tutto il giorno; ho pensato di concedermi un’insalatona nel
meno caro dei ristoranti della piazzetta (che non è economicissimo, ma gli altri tre sono
inabbordabili, almeno per me, sono assurdi). Avevo la mia maglietta azzurra da tre per
cinque euro al mercato, forse un po’ sbrindellata, una borsa a tracolla e un sacchetto di
plastica in mano: normale corredo da viaggio. La barba non fatta, vabbè. C’era un casino di
tavolini liberi, anche defilati, anche neppure apparecchiati. Chiedo a un ragazzuolo se c’è posto per cenare. Ah non so
devo chiedere ma credo di no, mi fa. Arriva una tipa un po’ meno ragazza e mi dice: Ah no, adesso no, come minimo
ci vuole un’ora, è tutto occupato.
Va bene, mettiamo che fosse tutto prenotato (occupato no: era vuoto!), la gente cena tardi, mettiamo che fossero
prenotatissimi anche i tavolini piccoli defilati, quelli dove si sta comodi da soli, che in due già ci si ingombra.
Mettiamo che proprio non ci fosse posto. Non facciamo le solite dietrologie da intellettuale di sinistra.
Però cazzo a me è proprio sembrato che mi abbiano mandato via perché non gli piacevo. Non si sono neppure scusati,
no, bruschi. Affanculo, sono andato a dormire senza cena, che in Occidente si mangia sempre e comunque troppo e
un giorno di digiuno non fa male a nessuno.
Poi stamattina ho scritto questa specie di poesia, che non c’entra assolutamente nulla. Buona giornata!
SMS
Quando mi scrive un messaggino arrabbiato
(o che sembra arrabbiato: i messaggi sms
non hanno voce né tono e sono brevi,
spesso si fraintendono) a me viene
subito il batticuore
e potrei dire che la causa è l’amore
e sarebbe romantico e andrebbe bene,
come causa, potrei fermarmi lì
mentre cerco di rimediare o non rimediare
con miei messaggi a lei.
Invece vado avanti a pensare
se forse non è l’amore ma un orgoglio,
o se è il timore di perderla, una cosa che,
mi hanno spiegato da sempre,
è ben diversa dall’amore. Credi di amare una
solo perché hai paura di perderla? Quello
è solo egoismo! Discorsi così mi rintronano
le orecchie fin da quand’ero bambino
o quasi. Pensandoci, venivano
tutti da adulti che non è che amassero tanto.
Forse dicevano pure stupidaggini.
So badare alla mia casa, so fare il bucato,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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so anche passeggiare da solo fantasticando
e so cenare da solo al ristorante cinese senza grandi
malinconie. Dunque se ho paura di perdere
qualcuna, non sarà che la amo?
Certo, poi ci sono tutte quelle altre faccende,
quelle sere che ho voglia e scoperei
non dico chiunque ma una ventina di nomi
li ho subito in mente, anche di più, d’accordo,
ma intanto magari le amo davvero e poi insomma
questa è la conferma che i discorsi sull’amore
sono tutti un po’ delle cazzate
anche se non potremo mai smettere di farne
perché è logico parlare delle cose importanti
vuoi mica parlare solo di Juve e Toro
e la nuova Fiat Cinquecento e com’è quel vestitino
nella vetrina in via Garibaldi o della fame nel mondo
che, messa nel contesto, è come il vestitino,
e poi vedete che quando si parte
con questi discorsi non si finisce più, si sbrodola,
e va bene che parlare è pure naturale
però l’amore alla fine è meglio farlo,
il vestitino se si può tu fa’ che indossarlo
e la fame nel mondo tu riduci i consumi
e basta, ora rispondo al messaggino
e l’arrabbiatura passa e forse ci ameremo noi
alla faccia di tutto e di tutti e vado in paese
a prendere un caffè e alla Posta a spedire
un libro a un amico che è da un po’ che devo mandarglielo.
In riva alla riviera
venerdì 3 agosto 2007, 12.48.31 | molinaro
Oggi la questione pranzo l’ho risolta con tre yogurt (frutta e cereali) presi
dal panettiere. Prima però sono stato su una panchina e ho quasi
inevitabilmente scritto la cosa che metto qui sotto, In riva alla riviera.
Andrebbe dedicata, oltre che al De Andrè in epigrafe, anche alla
Szymborska che mi ha stimolato sul concetto di «partecipare» (si veda
Conversazione con una pietra, in Vista con granello di sabbia, Adelphi,
Milano 1998, nona edizione maggio 2007, pagg. 49-51), e a Clara che mi
ha regalato per il mio compleanno il libro della Szymborska, ma si rischia
di diventare pedanti: in sostanza, tutto alla lunga è dedicabile a tutto,
perché tutto influenza tutto, come sappiamo da sempre.
IN RIVA ALLA RIVIERA
Passan le villeggianti
con gli occhi di vetro scuro
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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passan sotto le reti
che asciugano sul muro.
Fabrizio De Andrè
Estraneo alle villeggianti
ma estraneo anche ai pescatori
osserva le une e gli altri
con occhi quasi uguali.
Le villeggianti il petto e le cosce,
i pescatori le squame e i calzoni:
ma non può partecipare.
Lo guardano con diffidenza perché
si è seduto su una panchina neppure lato mare
anzi con le spalle al mare
e scrive su un quadernetto.
Una volta che scriveva su un taccuino stando in piedi
in un posto qualsiasi che poi per caso
era un posteggio di automobili,
uno gli si è avvicinato e gli ha detto allarmato:
Scusi ma qui la sosta è permessa, no?
Eppure non era vestito da vigile urbano,
era piuttosto malvestito; e questa cosa
non è un’invenzione, è successa davvero:
lui racconta le cose successe davvero
ma non può partecipare.
Rientro a Torino
lunedì 6 agosto 2007, 15.51.22 | molinaro
Finita la settimana di giri al mare, rieccomi a Torino con un
lunedì che non vuole ingranare, mille cose da fare. Ieri sera
a Savona ho sentito il concerto di Zibba alla festa di
Rifondazione Comunista, ed è stato emozionante, coinvolgente.
Forse ad aumentare l’emozione è stata la persona che avevo
accanto, ma comunque Zibba e il suo complesso sono molto
bravi. Se nel disco solo una canzone o due mi avevano preso veramente, dal
vivo ho percepito che tutte o quasi trasmettevano qualcosa di molto intenso.
Il sito zibbiano lo trovate qui a sinistra nelle «pagine amiche» (Zibba e
Almalibre).
E adesso sono di nuovo a Torino, tento di lavorare, e prima ho scritto una
poesia su un abbraccio.
UN ABBRACCIO
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 81 di 200
Abbracciarti è stato abbracciare una nuvola
– anzi: diventare una nuvola con te:
così fresco e leggero non m’ero sentito
mai – neppure da bambino – come ieri quando
ho immerso il viso nei tuoi capelli ricci:
m’han bene accolto, avevano l’odore
che non è odore: è la cosa che senti
se respiri all’aperto dopo caduto il vento,
dopo riapparso il sole.
È stata
la danza di due corpi senza peso
né ingombro, o d’uno solo mescolato:
e vuol dire, vuol dire, per me lungo e goffo:
è stato un minuto – no che dico molto meno
di un minuto – non importa – le nuvole
non hanno un tempo per le loro forme.
Ignara – o no – tu sei tornata a casa.
Ho imboccato l’autostrada di notte:
nel buio tumultuava la battaglia
di sogno e nostalgia, di meraviglia
e sbaglio, di lottare e rinunciare.
Bar Corallo
martedì 7 agosto 2007, 14.43.42 | molinaro
Il solito bar è chiuso per ferie e allora ho preso il caffè nel bar accanto. Ho letto sullo
scontrino che si chiama bar Corallo. Forse ci sarà scritto anche sull’insegna ma non l’avevo
mai notato. Si chiamava bar Corallo anche quello di una frazioncina di Vercelli dove
andavamo a bere da ragazzi. Non c’è più da molti anni quel bar. A bere lì, intorno al 1970,
eravamo sovente l’amico Vispo, che è morto un anno e mezzo fa proprio di troppo bere,
l’amico Denis, che si è perso per meandri psichiatrici, l’amico Livio, il più sano di tutti, che
aggiusta le mietitrebbie, e io, che poi sono diventato astemio in tempo utile. A volte giocavamo a biliardo, stecca
all’italiana, cinque pirolini, ma con le buche, come si usava allora. Non fu mai chiarito se il pirolino centrale, quello
rosso, buttato giù da solo valesse otto punti, come il filotto, o cinque. Buttato giù con altri ne valeva quattro, su
questo non ci pioveva. A proposito, sta piovendo su Torino oggi. «Il pleure dans mon coeur comme il pleut sur la
ville. Quanto ha ragione Verlaine! Anche se ogni stagione è buona per piangere», cita e scrive Chiara a pagina 40 del
suo libro. Mi piacerebbe offrirle stagioni buone per ridere, ma pare che non tocchi a me farlo - pure, credo che ne
sarei capace - presuntuoso, certo.
Il bar Corallo, oltre gli amici dispersi, mi ha fatto venire in mente Rosa, che abitava lì a due passi. Una delle ragazze
che ho corteggiato invano nella mia adolescenza. Scrivevo per lei ingenue poesie. Non mi ha mai cagato neppure di
striscio. Rifiuto su tutta la linea. La mia principale attività fra i 15 e i 21 anni è stata quella di ricevitore di rifiuti
(praticamente, un cassonetto). Poi ci sono stati periodi migliori, per fortuna.
I rifiuti erano formulati nei modi più svariati, bruschi o gentili, ma l’effetto era lo stesso. Me ne viene in mente uno,
quello di Rita, sarà stato il 1971, che alle mie timide profferte ribatté un «per carità, parliamo d’altro». Sì, me li
ricordo tutti a memoria, certo che me li ricordo, è logico.
Giusto stamattina, 36 anni dopo, da una ragazza a cui timidamente riprofferivo l’amor mio sincero mi sono beccato
uno «spero non ricomincerai con il solito discorso». Che assomiglia molto al «per carità, parliamo d’altro».
Ah, mi sono sentito come a vent’anni! Cioè malissimo. Un po’ il timore che invecchiando la percentuale di rifiuti
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 82 di 200
torni ad avvicinarsi a quella dei vent’anni ce l’ho. Dovrei mettere la testa a posto, stare con una donna, una sola e
basta, forse – la cosa che non mi è mai riuscita. Bah! Se non mi riesce non mi riesce. Anche se quella di stamattina
magari la sposerei, perché poi le cose folli vanno fatte e rifatte (se no che vita è?), ma certo se lei mi dice «spero non
ricomincerai con il solito discorso», ho idea che questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai.
Ora non voglio lamentarmi. Qualcuna a cui piace fare l’amore con me c’è, e lo si fa, e sono stato ben più fortunato
dei due amici del bar Corallo, uno morto e l’altro impazzito. Il terzo, quello delle mietitrebbie, invece magari è
contento, ma è da un po’ che non lo sento. Livio, se leggi questo blog, fatti vivo. La stagione del taglio del riso non è
ancora cominciata, qualche momento libero dovresti averlo.
Ma sì, va abbastanza bene. È solo che io vorrei tutto, naturalmente, e non ho il senso del tempo. Rosa adesso sarà una
signora cinquantenne, ma io la vedo sempre come in questa poesia, che trovate a pagina 148 del solito libro:
AI CAPPUCCINI NEL 1972
Che sole giallo! L’orecchino brilla
nell’aria d’oro. Rosa è in paradiso
seduta sul gradino. Che favilla
d’argento è il suo sorriso
di bimba buona! Il tramonto odoroso
di legno e foglie
chiude tutto in un cerchio prezioso.
Devo solo ricordarmi che, anche se Antonella dice che ne dimostro al massimo 42 (chissà perché poi proprio 42 e
non 41 o 43) e so che è sincera (se ne dimostrassi 65 me lo direbbe senza alcuna pietà, con il suo meraviglioso
trasparente disarmante candore), di anni ne ho 54. Questo cacchio di dettaglio a me non viene mai in mente, quando
ci provo con una ventenne, a me sembra di essere come lei, proprio non mi ricordo, non mi accorgo, mi sembra tutto
così normale. Però il bar Corallo di quella frazioncina di Vercelli è chiuso da tanti, tanti anni, al suo posto dev’esserci
un’agenzia immobiliare o qualcosa del genere. E questo è un fatto. Però... Però succede ancora tante volte che il
tramonto odoroso di legno e foglie chiude tutto in un cerchio prezioso. E in quel cerchio mi sento sempre uguale, con
la stessa voglia di baci.
Ma va bene. Stasera probabilmente avrò baci, e baci buoni. E non sposerò quella che stamattina mi ha detto «spero
non ricomincerai con il solito discorso». Tutto non si può. Forse.
Ed è subito sera
martedì 7 agosto 2007, 15.15.38 | molinaro
È in treno, sta venendo a Torino da me. Arriverà fra meno di tre ore. Volevo mettere la casa un po’ a posto e non l’ho
fatto. Ho perso tempo a pensare a mille cose. Anche a lei, sì. Forse faremo l’amore, è abbastanza probabile ma non
certo, perché l’amore non è mai certo. Ho pensato a lei e ad altre 999 cose. Stamattina ho dialogato con quella che mi
ha detto lo «spero non ricomincerai con il solito discorso» di cui al messaggio precedente. Poi ho pensato che oggi è
il compleanno di D., una delle ragazze che ho amato di più, e il suo compleanno è curioso, perché lei è nata
esattamente mentre io facevo l’amore per la prima volta: è nata quel giorno di quell’anno. Ho pensato che domani
operano C. di una cosa non benigna, ma speriamo guaribile guaribilissima. Ora telefono a C. che è agitata – è
naturale. Poi mi faccio una doccia e mi concentro sulla splendida donna che è in treno e sta arrivando da me. Devo
anche cambiare le lenzuola, non ricordo da quanto tempo non le cambio. Ho mandato ad A. un pacco con un albero
fatto di fil di ferro, ho prenotato la cena stasera al Pastis, telefono anche a mia figlia adesso, e poi... Poi ho un sacco
di lavoro. Io non capirò mai quelli che se non hanno lavoro si annoiano. Ci sono milioni e milioni di altre cose
importantissime da fare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, e si perde beatamente un sacco di tempo, ed è subito sera
come dice Quasimodo che comunque non è poi quel grande poeta.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Incrociamo le dita
mercoledì 8 agosto 2007, 10.07.36 | molinaro
Per una mia grande amica che oggi è sotto i ferri del chirurgo, per una cosa non proprio benigna. Forza.
Andrà tutto bene. Sei fortissima e bellissima. Ti voglio bene. Guarirai perfettamente.
Foto libre (libre da privacy?)
mercoledì 8 agosto 2007, 17.41.19 | molinaro
Tolta la tetta di D. dal messaggio n. 59 (anche se non è detto che a D. spiacesse!).
A S. invece avevo chiesto espressamente se potevo usare foto come questa qui
del messaggio n. 61 per pubblicizzare il mio romanzo (è quello che nella foto lei sta
leggendo, distesa sul mio letto), e lei mi aveva detto di sì, e infatti avevo mandato in
giro mail pubblicitarie con foto di lei leggente, così. Quindi ecco un esempio di foto
che non dovrebbe violare la privacy. A ogni buon conto, per maggior sicurezza, ne
prendo una dove il suo viso è dietro il libro. A proposito, il libro «Io sto come mi pare» è esaurito (è andato
bene...) ma forse lo ristamperanno.
La felicità
mercoledì 8 agosto 2007, 18.43.34 | molinaro
Non è inedita, è dal libro, ma oggi ho voglia di proporla qui, in questo giorno
piovoso d'agosto a Torino. La felicità, così come il suo opposto, è un tema che vale
in qualsiasi giorno.
LA FELICITÀ
a Erica Pampararo
La felicità è una merce rara e deperibile
va consumata fresca
non contiene coloranti né conservanti
non si può surgelare né inscatolare
arriva su strani banchetti
i banchetti di felicità
lontani dai soliti mercati
non arriva frequentemente
non si sa quando arriva
e se arriva non viene venduta
perché non ha prezzo ma
la prende il primo che passa
e se nessuno la prende
non va in magazzino
non si ritrova nei saldi
resta persa sprecata gettata via
neppure riciclabile
proprio sprecata buttata via e anzi
i residui non consumati
sono inquinanti
possono danneggiare l’ambiente
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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perciò se vedi un banchetto di felicità
affretta il passo e prendila
non disperderla
consumala tutta presto fino all’ultima briciola.
(da La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006, pag. 543)
Cardi e soffioni
giovedì 9 agosto 2007, 8.53.43 | molinaro
Una poesia scritta al volo stamattina.
CARDI E SOFFIONI
a Clara Vajthò
Nel prato ci sono cardi e soffioni, hai visto.
I cardi sono più aspri e meno amabili.
I soffioni sono più morbidi e invitanti,
ma ogni colpo di vento ne porta via un pezzo.
Considerato peraltro che anche i cardi
a fine stagione marciscono,
scelgo i soffioni. Anzi no:
scelgo un po’ tutto. Prendo tutto. Tutto. E tu?
Profili
giovedì 9 agosto 2007, 9.39.00 | molinaro
Guardavo un po' di questi profili che ci sono negli "spazi" di Libero.it, e notavo che
nelle "tre cose odiate" molto spesso compaiono la falsità e l'ipocrisia. C'è un sacco
di gente che odia la falsità e l'ipocrisia. Certo, anch'io le odio. Ma mi sorge
spontanea una domanda. Se così tanta gente odia la falsità e l'ipocrisia, come mai
al mondo ce n'è una valanga? Non sarà che anche a noi che diciamo di odiarle,
ogni tanto un pizzico di falsità e di ipocrisia fa comodo? E quello che a noi sembra
un pizzico a un altro sembra una trave, e viceversa? Non è una provocazione, è una domanda che pongo
a me stesso, e ci penso su. A volte anche la limpidezza è qualcosa che si recita. C'è tanta strada da fare.
Buona giornata!
Poesia recuperata
giovedì 9 agosto 2007, 22.40.27 | molinaro
Questa poesia avrebbe fatto comodamente in tempo a entrare nel librone uscito lo scorso
novembre. Ma la scartai. A dire il vero non la trascrissi neanche sul computer. Fino a pochi
minuti fa era scarabocchiata su un foglietto e basta, con il suo luogo e la sua data, Pesaro 18
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 85 di 200
luglio 2006. Probabilmente non mi era parsa riuscita, forse mi era sembrata ambigua. Anche
adesso, rileggendola, non riesco a capire se è ironica o no (a conferma che gli autori non necessariamente sanno
quello che scrivono). Ho sempre un po’ di paura a recuperare una poesia che avevo scartato, perché penso che se
l’avevo scartata ci doveva essere un motivo, forse pensavo proprio che era brutta e avevo ragione, e mi sbaglio
adesso a recuperarla. Eppure ritrovandola ora, a più di un anno di distanza, mi sembra che un suo senso ce l’abbia. E
allora eccola qui. Bella o brutta che sia.
LA FEDELTÀ DELLA PANCHINA
Questa panchina di via Collenuccio
mi è molto più fedele di casa mia.
Casa mia mi è fedele fino a un certo punto.
Può lasciarmi, se non pago l’affitto.
Può diventare lercia, se non faccio le pulizie.
Mi pone un sacco di condizioni,
quasi quasi mi ricatta.
Questa panchina no. È mia
quando mi ci siedo.
Non devo né pagare affitto né fare pulizie:
è mia per sempre senza condizioni.
(Salvo che il comune di Pesaro decida
di toglierla, ma ciò starebbe fra gli eventi
imponderabili, come i terremoti.)
Questa panchina di via Collenuccio
mi è fedele in modo perfetto.
Mia per sempre, finché vivrò e saprò camminare.
Questa è la fedeltà senza difetto.
POESIA SCRITTA DIRETTAMENTE SUL BLOG
venerdì 10 agosto 2007, 15.01.06 | molinaro
Ecco, voglio fare una specie di poesia direttamente sul blog. Da
adesso a fra un’ora al massimo, perché poi devo partire per Mallare.
Una poesia «de l’art», nel senso della commedia. Improvvisata. Senza
pretese. Senza neanche la pretesa di essere una poesia. Ma scritta
così, di getto, direttamente sul blog. Ecco, adesso la comincio.
POESIA SCRITTA DIRETTAMENTE SUL BLOG
Il pomeriggio del dieci agosto giorno pascoliano
in cui stanotte forse vedremo cadere le stelle
(me nessuna stella cadrà nella mia rete)
(no, l’idea di rete non mi piace, diciamo che
nessuna stella cadrà accanto a me)
sono qui nella mia casa a Torino
ho in bocca ancora il sapore di una donna bionda
che dopo l’amore mi ha scritto una poesia
una poesia bella, l’ha scritta lei per me,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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per una volta s’è invertito il ruolo consueto,
e io con lei ho scritto cose sulle panchine
per la prima volta in vita mia, ho scoperto
che il pennarello bianco da panchine
si chiama uniposca, poi ho comprato delle scarpe
con un tipo di laccio che non avevo mai visto
e lei invece non aveva mai mangiato
la farinata di ceci fatta nella teglia,
e dunque ogni giorno nella vita
c’è qualcosa di nuovo, ma adesso
parto per andare a una festa sui monti liguri
in campeggio, e ci vado soprattutto per vedere
una che non è che mi voglia poi tanto vedere,
e che non mi concederà di conoscere
il suo sapore e tantomeno scriverà poesie per me.
Non è che la cosa mi sembri ingiusta, è così,
è come è. La donna con cui ho fatto
l’amore ieri, oltre al sapore e alla poesia,
mi ha lasciato cinque cassette, forse sei,
dovrei alzarmi e andare a vedere,
sono di là sparpagliate sul letto, me le ha date
perché Cesare mi ha regalato per la mia Panda
una vecchia autoradio presa da una sua
vecchia auto, che non mangia i CD ma le cassette,
e allora mi va di avere cassette, e fra quelle
che mi ha lasciato lei ieri ce n’è una di De Andrè
che si intitola Mi innamoravo di tutto,
ecco, appunto, ci siamo capiti.
E c’è anche Anime salve cassetta originale,
dico cassetta originale non copiata,
secondo me è una rarità, è un oggetto
molto prezioso e molto particolare.
La donna con cui ho fatto l’amore ieri
e quella con cui non lo farò stasera
hanno quasi lo stesso nome, due varianti
dello stesso nome, la donna con più anni
ha la versione più arcaica-latina,
la più giovane la versione più italo-moderna,
ma poteva anche essere il contrario
perché alla fine i nomi girano come girano.
Arsenio mica ci verrebbe a una festa in campeggio
perché ha mal di schiena, io ci vado
anche se sono ben più vecchio,
per vedere quella che non mi vuole poi tanto,
e poi per vedere gli altri amici, davvero,
anche per questo, non è che lo scrivo
per divagare o per dare un contentino,
insomma. Dopo le piogge di ieri
è venuto fuori un sole limpidissimo,
se resta così ed è così anche in Val Bormida
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 87 di 200
le stelle cadenti mi sa che si possono
vedere davvero, io però alla storia
del desiderio non è che ci credo molto,
ne ho viste cadere non molte ma cinque o sei sì
e un paio di volte ho fatto in tempo a esprimere
il desiderio ma col cazzo che s’è avverato.
Poi il desiderio di stasera sarebbe fin troppo
evidente, e peraltro c’è da dire che è uno
dei due desideri che neanche i geni delle lampade
degli aladini possono realizzare (l’ho imparato
in un film di Walt Disney), pare che i geni
lampadicoli non possano fare le seguenti
due cose: resuscitare un morto o far innamorare
qualcuno. La prima andrebbe contro l’ordine
dell’universo, che anche i geni devono
rispettare, e la seconda sarebbe contro
il libero arbitrio, e posso anche capirlo, mettiamo
che una vecchia orrenda racchia trovasse
una lampada-di-aladino, magari dal rigattiere,
e saltasse fuori il genio e quella esprimesse
il desiderio che io mi innamori di lei,
voglio dire, potrebbero girarmi le palle, no?
Quindi far innamorare non lo può proprio nessuno,
o succede o non succede. Io sì dicevo
m’innamoro un po’ di tutto, ma non di tutto
nella stessa misura, comunque insomma
vada come vada, oggi sembra davvero
una bella giornata. Sì, ragazzi, è il dieci agosto,
un giorno che fa pensare alle svariate estati
passate, io per la cronaca ho fatto l’amore
per la prima volta il 7 agosto 1972,
avevo diciannove anni appena compiuti,
non precocissimo, non lo sono stato in nulla,
tranne forse in una sorta di malinconia
per la quale dicevano, quando avevo dieci anni,
che ero un «bambino vecchio» (gentili!),
in paga ora diventerò un «vecchio bambino»
così chiuderò il cerchio, o forse è come
dice mia madre, che io non sono mai cambiato,
mai in tutta la mia esistenza,
dice che a sette anni avevo la maturità
di un quindicenne – e adesso anche.
In realtà non è proprio così, certe cose
sono anche cambiate. Oggi ho pranzato
con mio figlio (il secondo) che è tornato
dal campeggio in Spagna, a proposito,
per stasera io non ce l’ho mica la tenda,
ma mi arrangio, c’è posto in una tenda
di Cesare, poi ci sarebbe posto anche in quella
dove dorme da sola chi-so-io ma lì temo
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Carlo Molinaro
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che non dormirò, neanche se le prometto
che si dorme bravini bravini da fratellini.
È arrivato adesso un sms di Franco,
uno di quei suoi sms un po’ pazzi dove dice
che il mondo sta finendo, o parla del pelo
di Paola, ma finché c’è il pelo di Paola
forse il mondo non finisce. Forse.
Mah, insomma, sarà meglio che io concluda
e che mi faccia una doccia. Va ben che nel viaggio
in macchina, con questo sole, suderò
di nuovo come una capra (sudano le capre?)
ma una doccia prima di partire la faccio,
capitasse davvero di dormire con qualcuna,
benché sia un’eventualità del tutto improbabile.
No, non è che mi lavo solo per le donne,
però diciamo è un incentivo, ecco.
Intanto non sono riuscito a sentire l’altra amica
che hanno operato ieri, no ormai l’altro ieri
(il tempo, il tempo!), è andata bene pare,
ma è un male insidioso, guarirà ma non è
una cosa da niente, proverò a richiamarla,
magari non può rispondere perché ha intorno
quei rompiballe dei suoi genitori
che credono che io sia il suo amante,
vecchio amante corruttore, ma si sbagliano
(magari avrei preferito che non si sbagliassero,
ma invece si sbagliano, siamo diventati
amicissimi e basta, anche se ci vediamo
spessissimo, anche se a volte dormiamo insieme,
capisco che è difficile crederci, certo,
ma è proprio così), insomma basta,
speriamo che tutto vada bene per tutti,
noi speriamo che ce la caviamo come diceva
un best seller di anni fa ormai obliato
(giustamente), mi faccio la doccia,
e anche la barba, mi vesto e vado a Mallare.
Ho scritto per circa quaranta minuti
e non ho nessuna intenzione di rileggere.
Non è questione di fare della spontaneità,
la spontaneità può essere anche nelle poesie
molto elaborate, non è quello, è che oggi
mi andava di fare così, adesso, qui.
Un paio di poesie anche in questa domenica preferragostana
domenica 12 agosto 2007, 13.03.31 | molinaro
Un paio di poesie scritte in questa mattina di domenica d’agosto. Fra un lavoro e l’altro,
perché in questi giorni devo lavorare molto, anche se è domenica, anche se è d’agosto. C’est
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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la vie! Guadagnassi almeno bene – invece non guadagno granché. Sui giornali è tutto pieno
di discorsi su cose di soldi che sembrano importanti per il mondo, ma io non ci capisco un accidente, e neppure
m’importa, non ho idea di che cosa siano un bond, un prime rate o un subprime (quest’ultimo è nuovo, lo trovo per la
prima volta sul giornale di oggi – la prima volta per me, s’intende), e lo spread per me è soltanto una parola che sui
siti porno statunitensi indica quando le modelle hanno le gambe disunite. Che può essere un bel vedere.
GIOCARE CON LE PAROLE
Giocare con le parole, giocare con la realtà.
La realtà non è accondiscendente, fa a modo suo,
scompiglia sempre ogni tattica. Le parole
sembrano più docili, più disponibili, però
neppure loro si piegano al tuo gioco:
spesso si rivoltano, s’impennano,
dicono di meno o di più o d’altro e non puoi
dominarle, ti devi adattare. Sono loro
che giocano con te. Sei tu il principiante,
quello che perde sempre. Puoi tentare
di perdere un po’ meglio, d’impegnarti
fino all’ultima mossa. Di perfezionarti,
capire qual è la loro strategia, costringerle
a svelarti qualcosa – qualcosa di te.
CRONACA D’UNA FESTA IN MONTAGNA LA NOTTE DI SAN LORENZO
Ho avuto freddo da solo nella tenda
dopo la festa alla Colla di San Giacomo,
796 metri sul livello del mare,
accampati nel prato, ma potevo
prevederlo, dovevo portarmi
qualche coperta in più, era chiara
la prospettiva: di notte fa freddo
anche il dieci d’agosto. Da lì
si vede il mare in lontananza, con le navi,
Finale Ligure e un cielo stellato
profondo, come fossero più strati
di stelle a varie distanze, le sfere
del paradiso di Dante.
Noi di sotto
abbiamo cantato e suonato (anche
mangiato e bevuto, certo) alla luce
d’un fuoco di legna e di poche candele:
il rito che da secoli propizia
il miracolo della comunione.
Ci siamo divertiti (per usare
più semplici parole) ed è bastato
un aggancio, una strofa conosciuta
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Carlo Molinaro
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a memoria per essere più amici,
per ridere e giocare. Chi poteva
ha poi fatto l’amore, ma d’amore
ce n’è per tutti dappertutto in queste
notti magiche ancora, intatte notti
quando il tempo dà un turno di riposo
al suo eterno mestiere.
La mattina
(complici il freddo e la mia imprevidenza)
mi sono alzato assai prima degli altri
e sono sceso a piedi giù in paese
a comprare un giornale e la focaccia
per tutti, e l’ho portata su e s’è fatta
colazione e ci si è lavato il viso
nella fontana fresca. Poi ciascuno
è tornato pian piano alla sua vita.
Ebbene sì, altre quattro
lunedì 13 agosto 2007, 0.06.21 | molinaro
Lo so che rischio l’overdose, ma non è un flusso che si possa regolare.
Poi magari sto un sacco di giorni senza scriverne. Ma oggi ne ho scritte
altre quattro. È vero che potrei non metterle qui. Ma mi piace metterle
qui. Troppo male in fondo non faranno. Ho fatto una passeggiata al
Valentino, era pieno al novanta per cento di stranieri, si vede che i
torinesi o sono andati in ferie o sono chiusi in casa o frequentano altre
zone del capoluogo subalpino. La città m’è sembrata quieta e un poco imbambolata. Poi nella
sera s’è fatta più dolce. E queste sono le quattro poesie.
PICCOLE ONDE
Il Po è increspato di piccole onde
che assomigliano a certi intonaci smaltati
che non usano più. Il Po è verde carciofo
qui a Torino fra la sponda del Valentino
e l’altra sponda sotto la collina.
Le piccole onde è il vento che le fa
e fa sbattere la finestra dell’Imbarchino
e non ci sono altre onde perché
anche i canottieri sono andati in vacanza,
c’è solo qualche kayak sotto riva.
Fra la pergola e l’acqua alcune rose
hanno già il frutto che dalle mie parti
chiamano gratacǜl, altre sono ancora in fiore:
qui non stanno a potarle. È Ferragosto.
Una ragazza discute sui colori
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Carlo Molinaro
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dei fenicotteri; l’ultimo sole dà ai mattoni
quel colore che hanno solo i mattoni di sera
con l’ultimo sole. Un ragazzo gesticola.
Il cielo viaggia su toni discreti:
tramonta piano piano con un bianco
che non è proprio bianco ed un azzurro
che non è proprio azzurro. Questa
tranquillità mi traversa e m’abbraccia
in un panico quieto, sorridente.
Il vento svolta e rovescia un bicchiere
di plastica che rotola sul tavolo.
PICCOLA FILASTROCCA PER CLAUDIA
Claudia bambina che litiga a scuola,
Claudia che le compagne la lasciano sola.
Claudia così strana da diventar qualunque,
Claudia che non si arriva mai al dunque.
Claudia che disegna facciate di chiese,
Claudia lo stesso disegno per un mese.
Claudia che nello specchio vede niente,
Claudia che il suo profumo non lo sente.
Claudia che studia economia in facoltà,
Claudia architettura il lavoro non lo dà.
Claudia che intona barattoli a tovaglie,
Claudia combina mutandine e maglie.
Claudia che ride e nessuno la vede,
Claudia che piange e nessuno ci crede.
Claudia accende passione e desiderio,
Claudia nessuno la prende sul serio.
Claudia che sposa l’estate con l’inverno,
Claudia la storia una riga di quaderno.
Claudia che tutti han qualcosa da dire,
Claudia non c’è chi s’impegni a capire.
Claudia ci fosse uno che rinuncia a qualcosa!
Claudia licenziata con tre versi e una rosa.
Claudia innalzata, esaltata, travisata,
Claudia imprigionata. Claudia non amata.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Claudia l’iperbole, il sole, la stella,
Claudia non vedono che è appena bella.
Claudia che è mia figlia e mia sorella.
Claudia tante cose da scoprire e da inventare.
Claudia ora basta con questo incasinare.
Claudia non c’è troppo tempo da sprecare.
Claudia tu e io ci daremo da fare.
LINGUE
Due romenelle alla fermata aspettano
un autobus sbagliato. Dico loro:
Duminica nu trece cinzeci doi
aici. Trebuie să luaţi şaizeci patru! (*)
Mi guardano stupite e diffidenti.
Conosco lingue che forse non dovrei;
non ne conosco che forse dovrei.
[(*) La domenica qui non passa il cinquantadue, dovete prendere il sessantaquattro.]
FIORI BLU E SPACCHETTI
La piccola cameriera del ristorante cinese
di via Gioia quasi angolo corso Vittorio
ha un semplice vestitino corto a fiori blu
con gli spacchetti ai fianchi, semplici anche loro,
con gli spacchetti ai fianchi che le arrivano
ben sopra la retta immaginaria che prolunga
la base del triangolo rovesciato a punta in giù
che i poeti del Seicento chiamavano boschetto
o prato dell’amore, o qualcosa del genere.
Ha gambe bianche e sode, gambe semplici
come il vestito e come gli spacchetti;
è tutto semplice, sì, ma congegnato
bene per catturare un desiderio:
con il viso, le braccia e il portamento
mette una voglia davvero non da poco
di cingerla, cercare sotto i fiori
blu cosa c’è, portarla a far l’amore in una stanza
o al fiume. Non si può. Prendo un caffè.
Poesia per la vigilia di Ferragosto
martedì 14 agosto 2007, 5.59.57 | molinaro
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Vigilia di Ferragosto, città deserta (ma poi neanche tanto), tutti in ferie
(ma poi neanche tutti), e io per fare il bastian contrario ci metto una
poesia sul lavoro e sulla merce, scritta ieri in treno passando per Milano
(Milano è sempre la sede più giusta per scrivere di merce e di lavoro,
no?). Buon Ferragosto a chicchessia, comunque!
MERCE E LAVORO
Il lavoro è mercificato – si lamenta
qualche anima bella in sinistra apparente.
Il lavoro è mercificato? Non direi.
Alla merce si presta una certa attenzione.
Si cerca di venderla al prezzo più alto.
La merce è ben protetta. Sulla merce
si fanno studi amorevoli. Ci si cura
che la merce sia libera, senza frontiere.
La sua patria è il mondo intero! Della merce, dico.
La sua legge è la libertà! Della merce, dico.
I sacerdoti del tempio del mercato
(nessuno scaccia i mercanti dal tempio – in realtà
nessuno mai li ha scacciati – in realtà
sono loro, da sempre, a costruire i templi
– in realtà da sempre è un mercato il tempio)
officiano i riti dell’adorazione della merce,
recitando le nuove formule eucaristiche:
«È da merce che deriva la parola mercato.
In principio era la merce. La merce è il verbo.
La merce è il padre, il mercato è il figlio,
la multinazionale è lo spirito santo
che procede dalla merce e dal mercato:
con la merce e il mercato è glorificata».
La merce è grande e il mercato è il suo profeta.
Chiesa moschea e sinagoga sono
la stessa merce in tre distinte ipostasi,
sono la stessa sostanza della merce.
Nel contesto di questa nuova religione
(forse neppure così nuova, in fondo)
la moderna religione della merce e del mercato,
mercificare è sinonimo di santificare.
Il lavoro no, non è mercificato.
Il lavoro è merdificato – e così sia.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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La tenda a ore
martedì 14 agosto 2007, 10.05.33 | molinaro
Altra piccola poesia derivata da una buona idea osservata ieri in riva a un lago con
l’amica.
LA TENDA A ORE
Su una panchina in riva al lago, fra
bambini in bicicletta e pescatori
si fa quel che si può: la lingua in bocca,
la mano sotto il reggiseno, i corpi
abbracciati in diverse posizioni
più o meno scomode.
È bello qui
passare un pomeriggio dopo un viaggio
per incontrarci, raccontarci cose
e stare a lungo in silenzio a guardare
noi stessi e il mondo.
Però un’altra volta
ci procuriamo anche noi una tenda
piccola da campeggio, che si monta
in tre minuti, come abbiamo visto
che han fatto una ragazza e il suo ragazzo
a pochi metri da noi sotto gli alberi.
La tenda a ore, piantata e spiantata
nel tempo giusto d’un fare l’amore.
Sembra una buona idea. Però non ditelo
ai sindaci, se no poi quelli prendono
provvedimenti. I sindaci, oramai
persino quelli di sinistra, odiano
i vagabondi amanti sognatori:
odiano chi non lascia giù denaro,
odiano chi non si fa registrare
nelle strutture alberghiere. Malvagi
sindaci, che vi venga un accidente.
Sul lungolago o nel giardino, sulla
panchina o nel prato o nell’aiuola
fiorita o nella più spoglia piazzuola
o nel vicolo o dietro la stazione
delle corriere o nel sottopassaggio
ci baceremo sempre con la stessa
gioia. E voi dovreste ringraziarci:
una città senza baci sarebbe
un livido fantasma di città.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Sì, la prossima volta ci prendiamo
una piccola tenda e la mettiamo
in riva al lago per una o due ore:
e ci facciamo per bene l’amore.
Da un phone center di via del Campo
mercoledì 15 agosto 2007, 11.01.20 | molinaro
Sono a Genova di Ferragosto, Genova deserta, Genova dove tutto è chiuso. Quasi tutto. In via del Campo
c'è questo phone center aperto. Il gestore sembra indiano, così a occhio, o pachistano, o cingalese... da
quelle parti, insomma. Chissà perché sono entrato qui e mi sono messo al computer. Forse perché fuori
c'è un caldo un po' afoso. Ieri ho portato al mare mia madre, a Levante. Ora sono in viaggio verso
Ponente e dunque passo da Genova. Genova è sempre un posto che mi affascina. È come quelle donne
non bellissime ma che ti colpiscono per un non so che, e non smettono mai più di colpirti, e il non so che
rimane per sempre un non so che. Un amore che non passa. Come quasi tutti i veri amori.
Adesso poi mangio qualcosa e proseguo verso Ponente. Forse mi fermo a Varazze da un'amica che è in
vacanza lì e forse - ma è meno probabile - anche da un'altra amica che lavora lì e oggi è a una festa al
Nautilus. L'amica che è in vacanza lì mi ha spiegato che il Nautilus è un grande stabilimento balneare,
probabilmente di quelli con annessi e connessi. Vedrò. Forse. E di sera vado a Savona a sentire Cesare e
Mac che leggono poesie in una sorta di spettacolo alla Festa provinciale di Rifondazione Comunista, nel
quartiere di Zinola.
E poi nella notte torno a Torino che ho molto lavoro da fare. Genova deserta ferragostana. Cammino in
questi vicoli e penso ancora a Marì. Poi penso a Clara, poi penso a Romina. Poi penso a Malvina. Poi
penso a Claudia, a Chiara, a Elisa, a Federica. Forse ci vuol poco ad agganciare un mio pensiero. O forse
è così che ha da essere, è normale, l'umanità è una rete cerebrale, noi siamo i suoi neuroni e io ho molte
sinapsi. Penso alla festa della scorsa settimana alla Colla di San Giacomo. Ad Anita che dice che uso
parole desuete. È dolce anche Anita. Per essere un mondo che fa schifo, di cose dolci ne ha tante. Sarà
per quello che scrivo poche poesie politiche (anche se Cesare le preferisce) e scrivo tante poesie d'amore.
Ma in fondo cantare l'amore è un gesto politico. Il libero mercato, le multinazionali, lo sfruttamento, la
devastazione ambientale e la guerra sono frutto della pulsione di morte, come osserva giustamente il mio
amico Franco di Torino. Allora scrivere d'amore, dare spazio alla pulsione di vita, è anche una lotta
politica. E d'altronde lo dicevamo, nel 1968, che il personale è politico (e viceversa). Ora non lo si dice
più? Mi preoccupa il fatto che ci sia chi scinde la sua vita emotiva dalla sua vita sociolavorativa. Fare una
cosa del genere vuol dire o essere schizofrenici o dichiararsi schiavi. Io no, io mi emoziono sempre, e mi
innamoro di tutto.
Non sarò un grande lavoratore, non sarò un grande niente, ma mi sento un uomo. E adesso la pianto che
mi scade il tempo che ho noleggiato in questo phone center. Che è anch'esso un posto affascinante. Nella
Genova chiusa, è un posto aperto. Un ragazzo sta comprando un dvd, forse per un pomeriggio in casa
con gli amici, altri stanno telefonando forse in paesi lontani, un altro osserva un poster, io scrivo nel blog, e
siamo tutti qui insieme, con tutte le lingue diverse che parliamo, e con i nostri desideri, forse meno diversi
fra loro di quanto lo siano le lingue.
Buon Ferragosto!
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Favoreggiamento di strage
giovedì 16 agosto 2007, 11.02.34 | molinaro
Per un lavoro di rassegna stampa che faccio per avere il pur poco panem che non mi danno
certo i carmina, devo comprare spesso Il Sole 24 Ore, giornale economico e di cose varie
gestito, a quanto mi dicono, dalla Confindustria. Ho notato che spesso il suddetto quotidiano
pubblica intere pagine con la mappatura degli autovelox e, più in generale, dei controlli
della polizia stradale in giro per l’Italia. La stessa cosa fanno altri giornali, radio private, siti
internet, eccetera. Tutta una strategia per sfuggire ai controlli, insomma. Esistono anche
navigatori satellitari con l’indicazione degli autovelox, e pare che si stia diffondendo una vernice spray che, spruzzata
sulla targa, impedisce alle telecamere di leggerla – e più o meno tutti ne sono entusiasti e vorrebbero provarla (e
dicendo tutti non parlo di ragazzacci, ma di seri professionisti, lavoratori, padri di famiglia).
Io questa cosa non riesco a digerirla. M’indigna, mi scandalizza, non so che farci ma m’indigna. Già trovo abbastanza
assurdo che gli autovelox siano segnalati in loco. A Torino ce n’è uno, in un importante corso non lontano da casa
mia, che è annunciato da pannelli luminosi, cartelloni, segnaletica orizzontale, avvisi di ogni tipo. Il messaggio che
ne ricavo io è che lì, e soltanto lì, bisogna rispettare il limite di velocità. Un chilometro più avanti, passato il
«pericolo», puoi riprendere tranquillamente a guidare come un pazzo.
Pare che, in Italia, se l’autovelox non è segnalato l’automobilista pirata possa farsi annullare la multa invocando la
privacy o qualcosa del genere. Assolutamente ridicolo. E ho sentito buoni cittadini piemontesi lamentarsi perché i
vigili stavano dentro una zona pedonale a dare la multa a chi ci era abusivamente entrato: secondo loro, sarebbero
dovuti stare all’inizio della zona, a deviare il traffico. Vigili ridotti a segnali stradali, insomma. Perché i segnali
stradali sono ridotti a nulla: chi li guarda più? Tranne forse quelli che segnalano la presenza dell’autovelox...
In Italia la privacy è quella cosa che serve a evitare le multe e a non pagar le tasse (contro ogni controllo fiscale
invocano la privacy!). Nessuno vuole mai essere sanzionato se sbaglia. Nessuno vuole mai pagare niente. Le leggi
valgono solo per gli altri.
Io, se non fosse che non ho potere e sarei travolto e ucciso da una mandria di avvocati prezzolati, denuncerei Il Sole
24 Ore (e tutti gli altri giornali e radio e siti internet che fanno la stessa cosa) per apologia di reato e favoreggiamento
di strage. Ipocriti di merda, piangono sui ragazzi morti sulle strade e poi insegnano a evitare i controlli. Ipocriti di
merda.
Mondo cane. Che poi già mi girano le palle a dover comprare Il Sole 24 Ore, e lo si può ben capire leggendo il mio
Recitativo contro i treni rapidi, a pag. 453-455 de La parola rinvenuta, il libro che potreste anche farmi il favore di
comprare (vedi riquadro in alto a sinistra nel blog!). La poesia ve la metto qui sotto, evidenziando in colore la strofa
che spiega perché soffro a comprare Il Sole 24 Ore. Questo in fondo è un blog di poesie, il resto è accessorio. Baci, e
buon day after di Ferragosto.
RECITATIVO CONTRO I TRENI RAPIDI
I treni rapidi
hanno i finestrini che non si aprono
quindi non sono veri treni
ma capsule o supposte
come gli abominevoli aeroplani
e le automobili climatizzate.
I treni rapidi
hanno il supplemento rapido
a volte Intercity a volte Eurostar
e sono tutti soldi buttati,
un insulto a chi ha bisogno per mangiare.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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I treni rapidi
arrivano troppo rapidi
e questo toglie tutto il gusto
del quieto paesaggio, dell’odore di piscio
o rosmarino delle stazioncine.
I treni rapidi
sono come mangiare al fast food,
sono una sveltina con una puttana
frettolosa e costosa,
sono la macchina fotografica
di un turista giapponese.
I treni rapidi
a volte poi non sono in perfetto orario
e intralciano il traffico
facendo ritardare i diretti
e i regionali che devono attendere
che sfrecci la loro prepotenza:
è sopruso di classe.
I treni rapidi
hanno dentro una cattiva compagnia,
gente che legge stampa di destra
o peggio ancora stampa finanziaria
e dà ordini e appuntamenti col cellulare
allargandosi come una piovra.
I treni rapidi
sono una sventura ambientale,
sono correre troppo che fa male,
sono perdere tutte le occasioni
passando oltre da veri coglioni.
I treni rapidi sono una trappola!
Questo mondo è pieno di trappole!
E tutta la gente ci cade peggio dei topi!
Come fanno a non vedere
i finestrini bloccati?
I finestrini piombati vuol dire
che il treno è per Auschwitz!
È talmente evidente! Idioti!
I treni rapidi
sono celle frigorifere d’obitorio,
sono la follia che separa la via
dal suo contorno, sono la non andata
e il non ritorno e non vedere
né l’inizio né la fine del giorno.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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I treni rapidi
sono la perdita del senso del viaggio
dunque del senso del tempo della vita,
sono una cosa che prima di cominciare
è già finita.
Basterebbe non prenderli.
Ma ho visto ahimè in una stazione
un treno regionale coi finestrini ermetici,
un treno regionale a due piani,
truccato da rapido sigillato
con l’aria condizionata che spacca le ossa.
Un treno regionale moderno
perché nessuno, per povero che sia,
riesca mai più a fuggire dall’inferno.
Uno spettacolo andato non benissimo
giovedì 16 agosto 2007, 14.21.03 | molinaro
Ieri a Savona c’è stato, alla festa di Rifondazione Comunista, uno spettacolo di musica e
poesia. A leggere le loro poesie erano Cesare Oddera e Francesco «Mac» Vico,
accompagnati da un gruppo di musici fra cui l’ottimo Zibba. Si tratta di tre miei amici,
Cesare, Mac e Zibba, e quindi adesso avrò qualche difficoltà a «recensire» lo spettacolo.
Perché, ecco, non mi è piaciuto, non tantissimo.
Non è per le poesie, che in maggioranza già conoscevo, e delle quali alcune mi piacciono
molto, altre abbastanza e altre meno, come è naturale. Ma è lo spettacolo in sé che non è riuscito a imporsi. La scelta
di leggere in mutande e accappatoio non aveva alcun collegamento con le poesie lette né con le cose dette fra una
poesia e l’altra. Restava una trovata isolata, così, scoordinata, e aveva pure una sfumatura di «vorrei ma non posso»
rispetto all’eventuale leggere nudi (che, almeno in riferimento a uno dei soggetti, sarebbe stato assai più gradito a una
ragazza che avevo accanto e che me l’ha detto – eh no, non vi rivelerò mai chi è!).
La musica restava un sottofondo poco avvolgente e poco fruibile, quasi anonimo: non riusciva a farsi ricordare. Ma,
soprattutto, lo spettacolo finiva con l’essere costituito «soltanto» da una sequenza alternata di letture di poesie da
parte dei due autori, con poche parole di introduzione per ognuna, e con una musica sacrificata alle spalle. Non c’è
stato nessun episodio, diverso dalla lettura, a intercalare o a integrare. Anche il finale è stato costituito «solo» da una
lettura di un’altra poesia, sia pure a due voci, sia pure una poesia di Ernesto «Che» Guevara.
E la trovata di mettere sul palco anche un uomo in giacca e cravatta che per tutto il tempo è rimasto semplicemente
seduto a leggere un giornale, idea che di per sé poteva avere un senso, restava però come le mutande e l’accappatoio,
qualcosa di slegato, isolato.
Insomma, alla fine rimaneva un po’ un’impressione di cose a caso messe insieme con il fil di ferro, senza un progetto
efficace. E il pubblico, direi giustamente, è rimasto un po’ distaccato, freddo, con pochi applausi di cortesia, e un
paio di applausi veri solo alle poesie in sé più forti.
Mi rendo conto che non è una «recensione» positiva e spero di non mettere in crisi l’amicizia, adesso! Sono abituato
a essere sincero, lo sono stato anche sul lavoro di altri, ho recentemente vagliato con una certa severità modi e stili
pure di una ragazza che avrei voluto (e vorrei) in ogni modo «conquistare» (e questa è davvero la prova del fuoco per
un’onestà critica e intellettuale!). Credo che la vera amicizia non sia incrinata dalla sincerità, anzi. E ogni critica è
uno stimolo a far meglio. E d’altronde Cesare e Mac hanno non di rado liberamente criticato mie poesie, giustamente,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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e non per questo li ho mandati a quel paese. E dunque, così sia, sullo spettacolo di ieri a Savona ho detto la mia.
La serata ferragostana alla festa savonese di Rifondazione nel complesso è stata bella. Ci sono arrivato verso sera
dopo aver pranzato a Varazze con un’altra mia amica; il tempo era incerto e la pioggia è stata una continua minaccia
che però ha risparmiato cena e spettacolo (a parte una spruzzatina nel finale). Ho rivisto persone che non vedevo da
un po’, ho conosciuto un paio di ragazze nuove, ho chiacchierato e riso alla tavolata di amici, ho fumato il narghilè
con Fabio e con le suddette ragazze nuove, ho discusso di politica (embè, era la festa di Rifondazione Comunista:
non sia solo cotechino, come già si obiettava alle feste dell’Unità). E poi ho ripreso la mia ormai quasi solita
autostrada, che adesso chiamano la Verdemare, e me ne sono tornato a Torino a lavorare.
(Nella foto, Cesare e «Mac» – regolarmente vestiti! – in una lettura di poesie a Genova il 20
maggio 2006)
A.
venerdì 17 agosto 2007, 7.15.06 | molinaro
Oggi, 17 agosto, sono 14 anni da quando ho fatto l’amore la prima volta con A. (e
curiosamente ieri è stato un anno dalla prima volta con C. e dopodomani saranno 16 anni da
quando ho conosciuto M. e si vede che i giorni intorno a Ferragosto sono propizi a nuovi
amori; anche la prima volta assoluta mia fu un 7 agosto – da quella gli anni passati sono
35). La storia con A. è attualmente sospesa, distaccata – anche se abbiamo passato insieme
l’unica settimana di vacanza al mare di quest’anno, tra fine luglio e inizio agosto. È una
storia che a tutti può sembrare strana, la storia «libera», la storia che, senza bugie né nascondimenti, «coabita» con
altri amori. Ma non resta in ombra, non fa da sottofondo, non è una relazione di comodo, anzi ha la sua meravigliosa
importanza. Io (lo si sarà capito) non sono molto portato per l’amore esclusivo ed escludente, per l’amore unico. A
differenza di altri uomini, però, neppure lo pretendo: vedo l’amore germogliare bene in una certa libertà generale,
bilaterale (o multilaterale), spontanea. Il mio modo di trepidare in amore è bene riassunto da due versi di Guido
Catalano che già ho messo in epigrafe a una mia poesia qui imblogata nel messaggio n. 51 del 29 luglio scorso: non
voglio sapere dove vai / voglio sapere che torni. So che è difficile crederlo, ma è così. Non me ne faccio un
programma ideologico, potrei in qualsiasi momento incappare in un amore esclusivo e geloso, benché mi paia
improbabile; ci sono andato vicino un paio di volte, ma non era mai una promessa o un impegno, era un dato di fatto
(pensare a una sola donna spontaneamente), durato in entrambi i casi qualche mese. Quanto al matrimonio, fu una
storia a parte, forse un lungo malinteso (che pure ha dato i suoi frutti). Insomma, A. è stata la donna che per oltre un
decennio meglio si è armonizzata alla mia vita, e io alla sua. Ora, da poco più di un anno, c’è un distacco, un
allontanamento. Che curiosamente (?) si è verificato all’inizio del 2006, in un periodo in cui non avevo altre storie in
corso, prima del bacio a R. del 10 aprile 2006, e dopo un biennio 2004-2005 sostanzialmente monogamico (anche se
non per scelta determinata). Va bene, a parte tutte queste faccende, la sostanza è che oggi è l’anniversario di una
storia importante e lunga e adesso sospesa, distaccata – ci vediamo di tanto in tanto, passiamo qualche ora insieme,
amichevolmente, ma non si fa più l’amore, ci si fa solo un po’ di compagnia, e abbastanza di rado. Le darò un colpo
di telefono, ma forse non gradirà neppure il ricordo di questo quattordicesimo anniversario. E allora io lo ricordo qui,
con tre poesie fra le tante dedicate a lei (molte sono nel libro, altre inedite). Ne scelgo tre, dal libro, e le metto qui. E
poi mi metto al lavoro. Buona giornata.
CAMERA CON RIVERBERI
ad Antonella
«Non mi dispiace
di avere fatto
con te l’amore»
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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dice la piccola magra monella
con le tettine a goccia
bianche appena di un bianco di bichini
portato per un giorno o due di sole.
Pare uscita da un film di Truffaut,
da banlieue parigina:
mi guarda gli occhi
con la franchezza larga di chi sa
i tuoi stessi crocicchi, le panchine…
«Neanche a me dispiace» le rispondo.
Sembra un dialogo idiota
mentre l’ultima luce della sera
accenna i nostri corpi sul lenzuolo
stropicciato e sudato.
Invece, è la sua dichiarazione
a me – e a lei la mia – di rispetto
e d’amicizia: la complicità
seria dei bimbi che giocano insieme.
(Volendo, lo si può chiamare amore,
ma senza enfasi, come si chiama
un bicchiere bicchiere e un tetto tetto.)
ANTONELLA
È un quieto sabato mattina. Qualcuno
chiacchiera sotto la finestra aperta
nell’estate già presa.
Andrò a comprare un giornale fragrante
e passerò nelle strade che vivono
di voci, sguardi, passi, rumori…
È un quieto sabato mattina. Sarebbe
triste – forse angoscioso – se non fossi
tu qui con me a leggere il tuo libro.
GLI ESOTICI FRUTTI
Ho mangiato un platano fritto con lo zenzero
servito su un piatto dipinto a fiori azzurri
da Antonella, mentre fuori sul mare
infuria il vento nella notte nera.
Il frutto più pregiato è l’Antonella:
la fidanzata meno appariscente
che governa discreta il mio harem di passioni
e guarda entrare e uscire le fanciulle
che sempre curiosano e mai s’innamorano,
che vengono e vanno e si portano via
un souvenir di versi e mi lasciano in cambio
libri di nostalgia che Antonella riordina
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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con amore gentile agli scaffali:
poi qualche sera li leggiamo insieme
bevendo un caffè fatto nel pentolino
con la cannella e i chiodi di garofano.
Poesia per me
venerdì 17 agosto 2007, 7.37.14 | molinaro
Una mia amica ha scritto una poesia per me e me l’ha mandata
ieri sul telefonino: poesia via sms. Mi sembra molto bella. Ci ho
pensato su 24 ore prima di decidere di metterla qui – ho pensato
che forse doveva essere solo per me – o forse no, è una poesia, la
poesia è sempre per tutti coloro che sanno leggerla – chissà – poi
a decidermi è stato un verso della poesia stessa, quello delle
ghirlande da appendere fuori – allora appendo qui, qui fuori, la poesia, la poesia di
una poetessa brava che mi ama. Sapete, io scrivo tanto, forse troppo, ma è raro per
me essere oggetto di una poesia, essere io il muso (nel senso del maschile della
musa) ispiratore. Ed è bello esserlo, ogni tanto.
PER TE
Vorrei offrirti un ballo di ragazza
che volteggiando in tondo su se stessa
ti porti in dono un po’ di giovinezza
che tu possa intrecciare coi tuoi versi
e far ghirlande da appendere fuori
che la gente che passa può vedere
mentre alza la testa un po’ per caso
e sapere che è questo che sai fare
sai afferrare le frange del tempo
e trasformare l’amore in amore.
C.
Son troppi i colori del mondo
sabato 18 agosto 2007, 18.54.22 | molinaro
A Torino, dopo una mattinata con un’amica e un pomeriggio di lavoro,
qui da solo nella casa verso sera, con un senso di deserto e di viaggio, di
mancanza e d’attrazione, ho fatto quello che faccio di solito, ho scritto
una poesia, ed è questa.
SON TROPPI I COLORI DEL MONDO
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Intorno al fuoco di fine maggio
cantammo insieme una dolce preghiera:
son troppi i colori del mondo,
non li puoi chiudere in una bandiera.
Mercanti di liquore, Santa Sara
Ebbene così sia. Non ho una chiara
geografia, non radici, non borghi
natii selvaggi, non itache né
zacinti – no: ho strade, strade, strade
e nostalgie di strade, ho l’andatura
quasi impaziente di chi sta partendo.
E tuttavia ho nello zaino case,
ho le impronte e i dettagli delle case:
la mossa degli scuri nelle ore,
il combaciare dei suoni, l’odore.
E tuttavia mi posso ancora perdere
nel sogno strano d’abitare qui
dove stai tu – d’abitarci davvero,
in questa striscia fra la strada e il bosco
sospeso sulla valle – quasi fosse
una cosa possibile o normale.
No. Riparto. Come sempre riparto.
Porto con me lo strepito del treno
inaspettato sul binario che
sembrava morto, sotto il tuo cortile.
Porto le gocce d’azzurro degli occhi,
il gioco della ghiaia, il sentimento
dell’erba, della blusa, il retrogusto
della brace e del pesce. Lascio te
al tuo signore, a chi saprà difendere
la tua camera, l’orto, la cucina.
Non c'è più un buon posto dove andare
domenica 19 agosto 2007, 13.12.56 | molinaro
Ultimamente leggere i giornali mi mette di cattivo umore, ed è successo anche oggi. Un po’
per le notizie, un po’ per il modo in cui vengono date. I giornali sono diventati, quasi tutti,
un vero tormento. E un vero tormento è il mondo «sociopolitico», con la sua regressione
liberticida. Non c’è più un buon posto dove andare! Così oggi dopo averli letti, i giornali, ho
scritto questa non poesia. Buona domenica.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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NOTIZIE DI OGGI
Notizie di oggi: l’islam rompe le palle anche in Malesia,
ad Albenga multano le puttane perché in abiti succinti,
a Torino chi accusa i preti pedofili resta senza avvocati.
Ora: io ho una lista di paesi teocratici e/o forcaioli e/o dittatoriali
e/o bigotti dove evito di viaggiare (per fare alcuni esempi,
il Texas, l’Iran, l’Irlanda, l’Egitto, il Vaticano, la Tunisia,
la California, la Russia, la Cina, la Nigeria, l’Arabia e così via)
e credo che la Malesia fosse già compresa per altri motivi
(pena di morte in vigore), però che palle davvero questo rigurgito
d’oscura religione che sopprime libertà e ragione.
Ora io dico, posso inserire anche Albenga fra i luoghi da evitare
(per la festa di Erli posso passare da dietro, da Ormea)
ma con Torino come faccio, che ci abito? [Quanto sia difficile
mettersi contro i preti l’ho già sperimentato di persona,
del resto, e con molto dolore.] Mi sa che dovrò lasciar perdere
la lista nera, viaggiare un po’ dove càpita: al massimo, uscendo
da certi postacci, mi scuoterò via la loro polvere dai piedi
(per chiudere, guarda te, con una citazione evangelica, Matteo 10, 14,
che già aveva in sé tutto un germe d’intolleranza ab ovo).
Le porte dei cessi
lunedì 20 agosto 2007, 22.51.13 | molinaro
Oggi sono andato a Milano per un lavoro, e sul treno Torino-Milano ho scritto due poesie.
Una risposta preventiva a una domanda che molti si faranno sulla prima: no, non sono
rimasto chiuso nel cesso del treno. Quella sulle porte dei cessi è una meditazione che porto
avanti da molti decenni, e che finalmente, oggi, fra Novara e Magenta, ha trovato modo di
esprimersi in versi. Buone cose a tutti voi.
LE PORTE DEI CESSI E ALTRE COSE COSÌ (TROVAR CLUS)
Le chiusure migliori per le porte dei cessi
sono quelle esterne al corpo della porta,
quelle visibili e maneggiabili nella loro interezza.
Per intenderci: un gancetto o qualcosa del genere,
per esempio un ferretto che ruotando di 180 gradi
va a inserirsi dietro un fermo, dal quale
si può facilmente rimuovere con le mani.
Le chiusure interne al corpo della porta, invece,
se si rompono sei fottuto, resti chiuso nel cesso.
Forse questo discorso è legato alla mia claustrofobia,
però mi sembra che sarebbe un vantaggio per chiunque
la certezza di non restare mai chiuso in un cesso;
e dunque non capisco perché non facciano
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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tutte le chiusure così, esterne all’uscio e maneggevoli.
L’umanità è stupida. Creare difficoltà
inutili e paure inutili è proprio stupido, eppure
lo fanno regolarmente, non capisco perché.
Lo fanno un po’ in tutti i campi dell’esistenza.
Per esempio il gioco di parlare per sottintesi,
di dire non dicendo, di lasciare all’intuito, discorrendo,
io lo odio perché non ci capisco mai un cazzo,
talvolta con gravi conseguenze per me e per gli altri,
e comunque con un senso d’ansietà persistente.
Si obietterà che sono io che sono scemo,
che non ho intuito, che non so leggere fra le sillabe,
insomma un’obiezione come quella della claustrofobia
per i cessi, già, ma anche qui direi che sarebbe utile
per tutti, e non danneggerebbe neppure i bravi intuitori,
se si parlasse chiaro, che comunque è più sicuro,
più garantito, più tranquillo, più leale e più semplice.
Quindi, rivolgendo il discorso all’intera umanità,
e all’Onu, a Human Rights Watch, ad Amnesty eccetera,
propongo solennemente che si mettano alle porte dei cessi
chiusure a vista, sempre maneggiabili, e che si dica
ciò che si pensa con dettagliata chiarezza.
Ma so che non mi ascolteranno, continuerò a trovare
nei cessi quelle inquietanti precarie chiavette
e nei discorsi la voglia di non farsi capire.
IN-CITAZIONE A GIOCO (DAMMI CINQUE VERSI)
C’è chi ne dubita, ma questa mia poesia
dichiara leali le ali di Chiara:
certifica che Chiara sa volare
– e pazienza se fra le corde dell’altalena
non la prenderò come fa il vento alla schiena.
Anniversario con vetri
martedì 21 agosto 2007, 15.13.27 | molinaro
Dopo quella prima volta che facemmo l’amore, passò quasi un anno prima che io ci
scrivessi su una poesia. La poesia non ha tempi fissi, come tutti sanno. Può arrivare dopo un
attimo o mai. Naturalmente. Dopo questo quattordicesimo anniversario passato alla finestra
(in senso molto proprio) ci sono voluti solo quattro giorni prima di scrivere questa poesia
qui. Ah, quella nella foto non è la finestra della casa di allora né quella della casa di adesso,
è la finestra di una casa intermedia, dove ho abitato per tre anni fra il 1997 e il 2000. Era
piccola, al pianterreno, nel cucinino dovevano starci tutti i libri con quei tre piatti e quelle due casseruole, ma era
bella anche lei. Tutte le case dove si è amato sono belle. Il letto era stretto e non tanto comodo, ma ha conosciuto il
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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profumo di Federica, di Grazia, di Kerstin, di Tiziana, di Sandra, di Anna e d'altre che il mio canto qua e là appella.
ANNIVERSARIO CON VETRI
È venuta a casa mia come 14 anni fa
casa mia non è la stessa casa di allora
anche noi siamo un poco diversi – ma non tanto –
mi ha detto: «Laviamo i vetri che se no tu
non ti entra neanche più la luce in casa, pigro
come sei a fare i lavori» e dato che faceva caldo
si è tolta la camicia e aveva un reggiseno grazioso
come quello che le ho slacciato 14 anni fa
quando abbiamo fatto l’amore la prima volta
e anche lei era molto graziosa e perciò le ho messo
le mani sulle spalle e l’ho scossa un po’ e ha detto:
«Lascia stare, mi sono tolta la camicia solo perché
fa caldo a lavare i vetri» e abbiamo lavato i vetri
che effettivamente ce n’era bisogno e adesso vedo
meglio i tetti di fronte e il campanile. Non so
perché l’amore non lo facciamo più, forse qualcosa
intuisco, ma non sono sicuro, di fatto
devo dire che di preciso non lo so. È bello
anche lavare i vetri insieme, è molto meglio
che non vedersi mai, questo è certo, ma l’amore
perché non lo facciamo più
io di preciso non è che lo so.
Corpi, colline, tutto
mercoledì 22 agosto 2007, 9.56.51 | molinaro
Mi sono alzato alle sei e trenta, ho lavorato tre ore filate, poi ho
scritto questa poesia un po’ malinconica, ora bevo un caffè e
riprendo a lavorare, mentre il vento muove la tenda verde sul
terrazzo e la mancanza di senso urla dalle strade. La mancanza
di senso c’è sempre, ovunque e da sempre e per tutti e per
ogni cosa. È solo che talvolta non urla, talvolta ci dà tregua. E a
volte invece urla. Ma adesso basta, adesso torno al lavoro.
PASSANDO PER IL COLLE DI CADIBONA
Può essere che il profilo di queste colline
o mezze montagne, fra il Piemonte e la Liguria,
resti più a lungo del profilo del corpo di lei,
e che la piega accogliente della gora ombrosa
duri oltre la piega accogliente delle cosce,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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e che l’azzurro umido del cielo sopra i boschi
permanga un tempo dopo l’azzurro degli occhi.
Ma questi paragoni cronologici, usati
spesso in discorsi retorici d’equivoca morale
per stabilire improprie gerarchie nel creato,
non mi riguardano: io sono mortale e già un po’ vecchio,
il mio punto di vista non è quello di Dio
ma quello d’un passante che s’allontana e lascia
il corpo, le colline, le cosce, il bosco, gli occhi.
La foto del messaggio precedente
mercoledì 22 agosto 2007, 15.01.20 | molinaro
La foto del messaggio precedente, il messaggio n. 80 di questo blog, con le tre
ragazze che si mangiano lo yogurt, è simpatica, è carina. Mi piace. L’ho presa da
un fotoservizio su internet, ma non credo che mi faranno storie per i diritti. È
roba d’oltreoceano, probabilmente. Non credo che mi faranno storie perché è un
fotoservizio di quelli dove le modelle sono molto anonime. Foto qualsiasi, che
girano così. Insomma: è la prima foto di un fotoservizio porno di bassa lega. Ci
avran speso trecento dollari a dir tanto. Nelle foto successive le tre ragazze si
spogliano, si toccano e fanno varie cose che non staremo qui a elencare,
ovviamente. Perché ho messo quella foto nel messaggio n. 80, accanto a una
poesia un po’ malinconica? Non lo so di preciso (non sono di quegli uomini che
sanno sempre quello che fanno, vorrà dire che magari il Padre mi perdonerà,
Luca 23, 34), ma forse è perché mi dà un’idea da un lato della fuggevolezza delle
cose (di quando sarà la foto? saranno ancora ragazze quelle ragazze? in ogni
caso, poi non lo saranno più) e dall’altro della relatività di certe valutazioni. Le
ragazze sono carine e fresche anche nelle foto successive del servizio, quelle foto
che se le mettessi qui verrei censurato e bandito. Per me, le altre foto di quel
servizio sono fresche e simpatiche quanto la prima: le ragazze anziché lo yogurt
leccano qualcos’altro, che non è mica peggio di uno yogurt, alla fin fine. Non so
bene cosa voglio dire, ma non importa. Vado a braccio. Forse è che la bellezza, il
tempo, i sensi, i pensieri, l’amore, la natura, lo spirito, il desiderio, l’affanno, la
meraviglia, la perdita, la trepidazione, la vita, è tutta una cosa unica, tutto un
turbinare, dentro il quale cerchiamo di fare puerili classificazioni per orientarci. E
non ci orientiamo lo stesso, perché non esiste una direzione da seguire. Siamo
soli e siamo liberi, che ci piaccia o no, e quel che possiamo fare è solo tenerci per
mano, quando e finché ci riusciamo. Buon pomeriggio.
(Ora mi aspetto pure che il solito saputello dica: oh, ingenuo d’un Molinaro, si
vede benissimo anche in quella prima foto che quelle tre sono garçonnes da
pornoservizi. Beh, caro il mio saputello, io non ci credo, lo dici adesso e dici una
scemenza, anche perché le garçonnes da pornoservizi non esistono – così come,
in senso sartriano, non esistono i camerieri – il famoso aneddoto di Sartre e il
cameriere lo sapete tutti, no?)
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Confidenza e fiducia (e valigie)
mercoledì 22 agosto 2007, 17.14.57 | molinaro
Mi dice un amico oggi pomeriggio, in una lunga telefonata con
argomenti misti (donne, rapporti umani, amicizie), che non è
bene credere incondizionatamente alle parole che ci vengono
dette, neppure se ci vengono dette da un amico, da una
persona che stimiamo, da una persona che consideriamo
onesta e sincera. Tantomeno da una fidanzata. Dice che tutti
possiamo mentire o almeno “aggiustare” la verità. E che quindi le parole di
chiunque vanno soppesate, valutate, interpretate. Mi fa un esempio, volutamente
leggero e banale:
– Un ragazzo della compagnia ti racconta che gli hanno rigato l’auto mentre era
posteggiata. Tu gli credi, Carlo?
– Mah... Ovviamente sì, gli credo, perché non dovrei?
– Ecco, mettiamo che invece se la sia rigata da solo contro un muretto,
prendendo male una svolta. Poi non ha voglia di essere preso per il culo, di
sentirsi dire che è pirla, che non sa guidare, eccetera. E allora racconta che
gliel’hanno rigata mentre era posteggiata.
Devo ammettere che in qualche misura l’amico ha ragione. Una cosa così può
succedere, anzi mi è proprio successa quando avevo vent’anni, al ritorno da un
viaggio in Romania. Mi ero fatto fregare la valigia in un modo talmente idiota,
talmente da scemo, intortato da uno furbo a Bucarest (ah, questi romeni! spero
di non fomentare razzismi contro i nostri fratelli neocomunitari, adesso, eh! non
fate di tutte le erbe un fascio!), che mi ero vergognato di raccontarlo ai miei
genitori e agli amici, e l’avevo raccontato in un modo un po’ diverso, anzi proprio
in un modo di fantasia.
Roba di 34 anni fa, ma è la dimostrazione, sulla mia pelle, che l’amico può avere
ragione. Allora bisogna sempre soppesare, valutare, considerare, non credere
mai al cento per cento?
Non so. Lui sicuramente esagera nella... soppesazione, e secondo me si complica
la vita, con una dietrologia continua su ogni discorso. Io preferisco,
fondamentalmente, credere a ciò che mi viene detto. Anche se le sue ragioni
sono valide, non lo nego. Forse ci vuole una via di mezzo. Ma io preferisco
credere, soprattutto se chi mi sta parlando è un amico (o una fidanzata). Del
resto, fra persone mature, il fenomeno del mentire-per-non-sembrare-pirla
dovrebbe, dico dovrebbe, diminuire. Oggi la faccenda della Romania la
racconterei giusta, magari facendoci su una risata.
Anzi, mi sa che adesso ve la devo raccontare, ormai. Solo che è un inganno
complicato. Proverò a condensare. Io già allora parlavo romeno, discretamente,
anche se lo studiavo solo da un anno. Chiacchierando a Bucarest con gente del
posto, feci la conoscenza di qualche ragazza (tutto bene). E anche di un tipo che
parlava un poco l’italiano e che mi avanzò una strana richiesta, una cosa così:
senti, potrei venire un po’ in giro con te e far credere di essere italiano, così
riesco a rimorchiare? In effetti le fanciulle erano più disponibili con gli stranieri
(su questo c’è tutto un discorso da fare ma non ora). Non che l’idea mi piacesse
molto, ma da timido accettai, pensando fra l’altro che, tanto, le ragazze si
sarebbero accorte che non era poi troppo italiano, lui. Così girammo un po’. Nei
“peggiori quartieri” di Bucarest (i più affascinanti, del resto: ci sarei andato
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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comunque). Era l’ultimo o il penultimo anno in cui era permesso ai romeni
ospitare in casa stranieri: molto turismo funzionava così, un turismo economico,
stroncato appunto un anno o due dopo da Ceauşescu che vietò l’ospitalità nelle
case private. Quindi avevo trovato una camera a casa di una famiglia. E qui
scatta il giochino. L’amico pseudo-italiano viene con me nella casa della famiglia
che mi ospitava, e io, un po’ a malincuore (e un po’ da coglione) lo presento
come “mio amico italiano, che ha fatto il viaggio con me”. Lui tranquillo,
baccaglia la figlia del padrone di casa e le amiche, fa il dandy, e io pensavo
davvero che il suo scopo fosse solo quello. E poi? E poi si va in giro, si visitano
posti, si beve. E poi lui se ne va per i fatti suoi, forse con una ragazza. Fin qui,
che dire? Un furbastro romeno che si accompagna a un italiano per fingersi
straniero e rimorchiare.
Già. Ma quando torno dalla famiglia che mi ospitava, la mia valigia non c’è più.
Spiegazione del padrone di casa: «È venuto il tuo amico e mi ha detto che avete
trovato una camera migliore, e che portava la valigia... Mi spiace! Dov’è che
avete trovato una camera migliore?»
Ora: se il padrone di casa sia stato davvero intortato dal furbastro pseudoitaliano, o se fossero tutti d’accordo, non lo sapremo mai. Ma la cosa certa è che
io fui un vero coglione. E non osai raccontarlo, allora, agli amici e ai miei.
Inventai una balla. Adesso invece lo racconto con la massima serenità. Non è più
un problema.
Il problema è che, forse, ci cascherei ancora. Ma a vivere diffidando non ci
riesco, è troppo faticoso. Perciò poco fa, alla fine della telefonata, ho
semplicemente detto al mio amico che abbiamo un modo diverso di intendere
queste cose, e che il mondo è bello perché è vario. Certo a lui a Bucarest la
valigia non l’avrebbero fregata. Ma non si vive di sole valigie.
Strani meccanici
giovedì 23 agosto 2007, 11.01.31 | molinaro
Ieri sera non mi funzionavano gli anabbaglianti della Panda. Mi era già
successo una settimana fa, e dopo qualche ora avevano ripreso a funzionare.
Ieri sera di nuovo non si accendevano. Stamattina si accendono, ma,
consapevole del fatto che non è saggio girare con fanali che un po’ si
accendono e un po’ no, vado da un elettrauto. Lo trovo dopo un’ora buona,
perché è ancora agosto. Gli spiego il problema, lui prova e dice: «Ma si
accendono». Grazie, lo so che adesso si accendono, però ogni tanto non si accendono, ed è un
problema, no? «Eh, ma se si accendono, non posso farci niente, non so dove mettere le mani». Ma ci
sarà qualche contatto che non tiene bene, un fusibile, un qualcosa... io non me ne intendo, ma ci sarà
un qualcosa da fare. «Eh, ma se si accendono, se adesso funzionano, io non posso mica sapere dove
mettere le mani».
Insomma, niente da fare, me ne sono andato via con il problema non risolto. Sabato sera devo andare
sull’Appennino, anzi sulle Alpi, insomma lì al confine fra le due catene montuose, e se a un certo
punto mi si spengono gli anabbaglianti, che faccio? Guido a fari spenti nella notte alla mogolbattisti o
tengo fissi gli abbaglianti fregandomene d’accecare chi m’incrocia?
E sono qui a pormi alcune domande sulla professionalità delle persone, e anche sul bisogno che
hanno di lavorare. Da me tutti i lavori li vogliono presto e bene, di solito molto presto e bene, e io
cerco di farli, e in genere ci riesco. Quando ho bisogno io di un lavoro fatto, invece, mi sembra sempre
di essere un questuante e un imbecille, uno che chiede una cosa strana, un rompiballe. Non so, sarà
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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il mio karma. Forse non sono adatto a questa società. E forse sono anche l’unico che ha bisogno di
lavorare per mangiare. Strano, però. Non c’è la crisi?
Il barattolo chiuso
venerdì 24 agosto 2007, 11.47.16 | molinaro
Stamattina sono pieno di sonno, perché sono tornato alle quattro
di notte da Finale Ligure, dove ho passato alcune ore con una
persona importante: deciso così all’improvviso, va bene così, via
(e gli anabbaglianti della Panda sono rimasti accesi). Fra un
tentativo di lavorare e un colpo di stanchezza, fra un pensiero e un
altro pensiero, ho scritto questa poesia qui. Il primo verso
naturalmente è davvero una frase di un’amica, una frase di oggi – io parto sempre da
qualcosa che c’è, non so inventare nulla. C’è già così tanto!
IL BARATTOLO CHIUSO
«Li sto lasciando appassire in un barattolo chiuso»
– dice: parla dei suoi anni, pochi, ventitré
se non sbaglio; poi attenua la frase con un «forse»
– un forse aiuta a non restare annichiliti,
gli occhi serrati contro il muro della vita.
Vorrei dirle – e le dico – «rompi quel barattolo»
ma lo so che non c’è una via d’uscita: le lucciole
o le lasci disperdere nel prato vive e libere
o con la mano le catturi e in mano muoiono:
in un modo o nell’altro tu resti a mani buie.
No. C’è. Qualcosa c’è. C’è andare, correre,
fermarsi, rimanere, ripartire, ritornare
finché c’è fiato – e nelle mani vuote
sarà il sole che ci metterà la luce o un chiaro
di luna o stelle o fuoco o lampadina.
Non è facile. È proprio avere niente
stare così con tutto in giro e non sapere mai
se lo trovi o non lo trovi. Ma in qualsiasi vita
anche nella più bene amministrata
finisce prima la mano che la luce.
Vento
venerdì 24 agosto 2007, 20.59.43 | molinaro
Ma sì, vado a letto presto stasera, scrivo questo messaggio e poi spengo la baracca e vado a
dormire. Se ci riesco, perché sono un po’ inquieto. Sento dell’autunno nell’aria, ho sentito
per un attimo odore di stoppie bruciate e di castagne, e dato che non è proprio possibile, qui
nel quasi centro di Torino, vuol dire che anche gli odori possono essere immaginari, e
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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sembrare veri. E poi sono indietro con il lavoro, ma domani alla festa in Val Bormida ci
vado lo stesso.
Pareva che si facesse a casa di Chiara, per il rischio del maltempo. Poi invece è prevalsa la fiducia (speriamo,
speriamo!) e si farà alla Colla di San Giacomo, accampandosi lì. Chiara e Mac vanno su prima, a cominciare a
preparare. Spero che vengano almeno tutte le persone che c’erano alla festa di San Lorenzo, quella delle stelle cadenti
(cfr. la seconda poesia del messaggio n. 67 – divertente fare rimandi interni come fosse quasi un trattato scientifico!).
E che vengano altre persone. Tu se vuoi venire vieni. Non c'è il numero chiuso.
Da ragazzo non amavo molto le feste in compagnia. Ero un orso scontroso. Adesso invece mi piace far festa, se è una
bella compagnia, e quella di domani lo è.
Certo che la percorro spesso in questo periodo la Torino-Savona. L’ho fatta, avanti e indietro, la notte scorsa, e la
rifaccio la notte prossima. D’altronde alla Colla di San Giacomo (ma anche a Cadibona e a Mallare) in treno è
difficile arrivarci. Tantopiù di sera! Il treno lo uso per Milano, Vicenza, Venezia e Vercelli, le mie mete ferroviarie
più frequenti. Anche per Genova, naturalmente, quando ci vado.
La frase dell’amica, da cui ho tratto la poesia del messaggio scorso (n. 84), mi ha un po’ scosso. Mi vien da dire,
parafrasando il titolo di un film che vidi con Malvina: non sottovalutate le conseguenze della mancanza d’amore. Si
può far finta per anni che tutto vada bene. Ma poi viene al pettine, la mancanza d’amore. Fra persone a me care fra di
loro, e fra persone a me care e me, c’è come un fermento, in questo periodo, di amori e non amori. Tutto un fermento.
Che non sai bene se si ride perché amor risponde, o se si piange forte perché non sente. Cambia come il cielo quando
soffia un vento forte. Resta spesso indecifrabile.
Sì, sta soffiando un vento forte. Qualcosa porterà, lo sento.
(Nella foto, il cielo sopra Torino, uno di questi giorni, visto dal mio balcone.)
Bambini, verità, poesia
sabato 25 agosto 2007, 8.36.55 | molinaro
La frase della figlia quattrenne di Romina, da lei riportata in un commento al messaggio
precedente (Oggi il vento è di tanti colori, come noi, mamma), mi fa riflettere sulla poesia e
sulla verità. Mia figlia Lucia, all’età di tre anni scarsi, dopo un’allegra giornata di gioco e
scoperte a un tratto si rabbuiò. Pensai che le fosse accaduto qualcosa e le domandai che cosa
avesse. Mi rispose, scuotendo il capo: «È già passato tutto un giorno».
I bambini spesso ricavano la verità dalle cose, senza piegarla a preconcetti. Vedono il colore
del vento e il passare del giorno. Le loro non sono metafore, sono osservazioni della realtà.
Credo che la poesia, quando funziona, faccia la stessa cosa. Mette nei versi la verità della realtà, quella verità intima
della realtà che l’occhio adulto nasconde sotto schemi e abitudini, non accorgendosi più della nudità del re – perché
ormai gli disegna gli abiti addosso senza guardare.
Nei momenti di grazia il poeta e l’innamorato non sono dei visionari fantastici inventori che plasmano un mondo che
non c’è: al contrario, sono gli unici che hanno il privilegio di vedere – per un attimo – ciò che veramente c’è. Come il
bambino.
E io, quali verità enuncio? La mia è una maieutica della natura oltre che dell’umanità: solo parlando con le persone e
con le cose riesco a far dire a loro certe verità che poi metto nei versi. E le metto nei versi perché in nessun altro
luogo saprei metterle. Poi mentre scrivo già forse le altero, perché non ho più la purezza del bambino, sono solo un
imperfetto scribacchino. Ma questo è un altro discorso.
Una poesia che non sono riuscito a scrivere e un po' di racconto di festa
domenica 26 agosto 2007, 15.08.58 | molinaro
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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La ragazza con gli occhi finalmente azzurri
tiene la vita in mano. Quando arriva
il braccio grigio del vento
decide lei se farsene abbracciare.
La sua imprendibile complessità...
No, non funziona. Quando una poesia non funziona è meglio smettere. Senza sprecare energia
inutilmente. Il pensiero comincia a ritorcersi all’indietro, la mente si fa troppo affollata, scattano
censure, correzioni, i se e i ma, il possibile lettore entra in campo troppo presto, vede la sposa mentre
si veste, così non va, così non va. Già sul finalmente del primo verso c’era troppa ressa, troppo da
spiegare, che la prima volta l’ho vista di sera e non ero sicuro del colore dei suoi occhi, ci avevo visto
sì un raggio azzurro però, e poi era venuto il discorso con due suoi amici che entrambi mi avevano
detto: «Azzurri? Ma no che non sono azzurri. Ma non li ha scuri?». E io da poeta incerto a dubitare di
averli visti azzurri solo io, dubitare ma in un certo senso anche compiacermene, la vanità del vedere
più dentro. Poi ci sono stati incontri di giorno, al sole, nel chiaro, ed erano azzurrissimi, e c’erano
anche gli amici, e uno di loro ha convenuto: «Sono azzurri, indiscutibilmente azzurri». Finalmente. Ma
quando su un avverbio pesa tutto questo pensiero, non riesci più a scrivere la poesia. La poesia è una
fettina d’orizzonte che se ne frega, devi scrivere finalmente con leggerezza, non importa cosa vuol
dire.
E poi, tiene la vita in mano – anche qui troppo casino, che non è mica tanto vero, lei non è una
ragazza così sicura di sé, o meglio, è sicura come lo è la natura, che non sa quel che fa ma lo fa con
la massima sicurezza (se la interpretiamo darwinianamente, almeno: l’evoluzione è del tutto casuale,
nella sua perfezione). E allora dico troppo o troppo poco, non c’è misura.
Ho agganciato l’immagine successiva a due citazioni (niente di male, la poesia si nutre di poesia, io
spero sempre di essere plagiato, vorrebbe dire che servo a qualcosa): il braccio grigio del vento che è
per la bimba dal bel musetto di García Lorca, e il decide lei se farsene abbracciare che echeggia un
verso di una canzone di Max Manfredi: «Volevo una canzone come una donna di malaffare, / di tutti e
di nessuno, come una lingua, come un altare. / Tutti in fila al lavatoio, quando all’alba si va a lavare, /
tutti in fila sul portone, lei solo sceglie chi deve entrare». Questa è meno evidente, ma, dato che
l’avevo in testa, «è».
La sicurezza che la poesia era ormai abortita l’ho avuta scrivendo la sua imprendibile complessità.
Versicolo astratto. Concettino che sarebbe discutibile anche in un trattato filosofico, figuriamoci in una
poesia. Questo non significa che in lei non ci sia un’imprendibile complessità. Significa solo che io non
sono capace di scriverla. Non sono capace di dire la sua semplice complessità (il contrario della
complessa semplicità gucciniana: «maturo o meno io ne ho abbastanza della complessa tua
semplicità»), non sono abbastanza bravo per raccontare come lei, senza far nulla, mi regala New
York a Cadibona, varcando con noncuranza la siepe che divide il viaggiato dal non viaggiato: o quasi,
se fosse – ma non lo è – possibile, vincendo la partita a scacchi contro la nera signora del limite.
Non sono capace, appunto, e allora è meglio raccontare semplicemente la festa di ieri sera alla Colla
di San Giacomo, sopra Mallare. Il prato, il bosco, il monte, il mare in lontananza, la luna quasi piena,
la fontana, il silenzio: non è uno sfondo da cartolina. In realtà gli sfondi da cartolina esistono solo per
coloro che hanno perso la naturale capacità di essere davvero nei posti, di dimorare in un luogo
(foss’anche per pochi minuti) anziché solo passarci, e di partecipare al luogo (se cammini su un prato,
quel prato non è più soltanto un prato: è un prato con te che ci cammini, è tuo e sei suo: muoversi nel
mondo è un continuo sposalizio, se non sei un imbecille).
Non si era in tanti. C’erano solo tre persone conosciute da me nel profondo (mi sono fermato due o tre
minuti per trovare questa cazzo di espressione conosciute da me nel profondo: quanto ciarpame ho
addosso, quanti fronzoli, quante paure – perché non ho potuto scrivere la parola che mi era venuta in
mente per prima, tre persone amate?): Cesare, Mac e Chiara. Non che gli altri fossero estranei, quasi
tutti li avevo già visti. Nel complesso si era forse una dozzina, o una quindicina.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Ciò che s’è portato per la festa era birra, vino e mezza porchetta, cotta lì sul fuoco con uno spiedo
costruito con legno del bosco, un falò da giovani marmotte (abbiamo poi lasciato tutto pulito e intatto,
niente rumenta in giro e tutta la sicurezza necessaria a non rischiare incendi o altri danni: siamo brave
giovani marmotte); e nel capanno in muratura un altro fuoco, per scaldare un po’ la notte. Il fuoco
dentro il capanno l’ho curato più io, che non prendeva, ci si davan da fare con poco costrutto, ed è
divampato solo quando ci ho soffiato sopra in un modo delicato e vigoroso che so – ma sarebbe
impudico narrare i sogni che ho agganciato a questo fatto, in sé banale e scarsamente significante.
Ciò che s’è portato per la festa era necessario perché ci vuole un nucleo intorno al quale aggregare le
cose importanti, le persone – non si può fare una festa astratta – ma non è la cosa importante. Io
sono astemio e pochissimo carnivoro, ho bevuto acqua della fontana e mangiato quasi nulla, ma sono
stato molto felice. Probabilmente la felicità è calorica, perché non ho avuto fame ieri, e neppure oggi a
pranzo ho mangiato.
Peraltro il rito della mezza porchetta cotta sul fuoco ha avuto qualcosa d’affascinante, bagliori di
sacrifici antichi, ho ancora nella maglietta l’odore di legno, fumo e carne (sì, l’ho rimessa stamattina, la
stessa – mi laverò più tardi – mi piace tenermi le cose addosso). Naturalmente è venuta per un terzo
cruda, per un terzo giusta e per un terzo bruciata, ma non è un cattivo risultato per gente inesperta.
C’è stato da mangiare abbastanza per tutti.
Un momento più magico è stato quando abbiamo cantato, un po’ in disparte, noi quattro, Cesare,
Mac, Chiara e io. Per la prima volta ho sentito Chiara cantare – e perdonatemi, questo ho sentito
Chiara cantare non riesco a non dirmelo in testa che sulla musica di ho visto Nina volare di De Andrè,
la vita è una ghirlanda, c’è il braccio grigio del vento che da García Lorca è passato nella poesia
abortita qui sopra e c’era già in cinque versi miei di qualche giorno fa l’idea che non la prenderò come
fa il vento alla schiena, e il vento alla schiena di De Andrè è probabile che passi per García Lorca –
ieri c’erano coltelli (per la porchetta) ma non maschere di gelso. Ho sentito anche per la prima volta
me stesso cantare, almeno in un paio di canzoni, con gli attacchi giusti, le parole a memoria e non
troppa stonatura: Dio, dammi ancora mille anni, mi servono tante ripetizioni, sono così indietro con il
programma, ne ho da masticare e sputare!
Va bene, la pianto. Comunque abbiamo cantato bene insieme. Cesare ha detto di essere felice e
innamorato e Mac e io gli abbiamo prontamente rimbeccato che sapremo ricordargli che la felicità
esiste – e lui l’ha ammesso davanti a testimoni, ormai – appena riprenderà a lamentarsi dell’infinito
male di vivere. Chiara è dovuta andare via un po’ prima. L’ho accompagnata alla fontana a riempire
sei bottiglie d’acqua da portare a casa, acqua buona, e le ho detto ciao sulla sua vecchia auto che sta
per portare a rottamare.
Poi nella notte è arrivato anche un gruppo di sciamannati che, lì accanto, ha montato una specie di
rave party (moderato) con generatore, casse, musica techno e cose così. Secondo me quella musica
techno e il generatore a benzina e le casse ad alto volume violentavano il genius loci di quello scorcio
lunare, meglio rispettato da noi con il fuoco, le candele e la chitarra acustica. Ma chissà se ho il diritto
di sentenziare così.
Eppure nel gruppo dei ravisti c’è stato uno che, appena saputo che sono «un poeta» (colpa di Cesare,
che mi presenta a tutti così), ha tirato fuori da una borsona alcuni foglietti e mi ha preso in disparte per
leggermi i suoi versi, chiedendomi un giudizio. Sono stato alquanto evasivo, ehm.
Siamo un popolo di santi, navigatori e poeti (milioni di poeti!) che raramente si fermano dopo cinque
versi se la poesia abortisce: non hanno i miei blocchi più o meno severi. Non importa. Sono tornato a
Torino nella notte, i fanali della Panda accesi (fortunatamente – ma devo farli vedere ancora da un
elettrauto) sull’autostrada quasi deserta, la luna tramontata. Sono arrivato a casa. Ho buttato sul letto
le mie mani vuote e mi sono addormentato.
1000 sulla Carretera
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 113 di 200
martedì 28 agosto 2007, 15.34.16 | molinaro
Poco fa ho fatto ho avuto l'onore di essere il millesimo a passare sulla Carretera
Boreal. La cosa mi ha riempito di gioia e l'ho immortalata (vedi immagine). O forse
è che ogni scusa è buona per fare una piccola pausa dal lavoro. Il lavoro è assai, la
paga è poca, le altre cose da vivere sono assai, ma piantiamola di lagnarci, che,
come scrissi in una poesia del 1993, esserci è già tanto. Anzi, ve la metto qui (la
poesia, intendo). Il correttore di bozze della casa editrice milanese che la pubblicò
continuava a correggermi interro in interno. E invece è interro, ovviamente. Ah, i correttori di bozze,
razza malnata. Oh, ehm, veramente è parte del mio lavoro. Già. Il redattore è anche un correttore di
bozze. Amen.
ORRORE DI NULLA
Non è vero che il peggio
è per quelli che restano.
Io piango per chi parte,
non per il curvo crocchio
che fa cerchio all’interro.
La vita ha le punture,
soffoca, stringe, torce;
ma respiri e riprese
sono altra gioia fresca.
Oh, esserci è già tanto!
Dio mio, riannusare
altre terre di marzo,
altri aromi di fuochi.
Ma di chi è partito
non sappiamo più nulla.
Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč?
mercoledì 29 agosto 2007, 18.55.09 | molinaro
È una cosa che mi raccontò mia madre un po’ di anni fa, e adesso mi è venuta in
mente, intanto che al telefono parlavo con un’amica che si sente abbandonata da
tutti, che dice che non è mai stata amata, che di lei non importa a nessuno. È
scoppiata a piangere.
Da bambino, sui tre-quattro anni, ero scontroso, riottoso, mi rivoltavo come una
biscia a ogni contatto fisico. Veniva di tanto in tanto a trovarci una parente, non importa chi, credo una
parente alla lontana, e provava a volte a farmi una carezza, o qualcosa del genere. Io reagivo appunto
come una biscia, con uno scatto brusco e una pronta fuga. La parente un giorno commentò: Ma me
c’as fa a vulèj ben a ün pareč? Che nel dialetto del contado vercellese esprime: Ma come si fa a voler
bene a uno così?
Non voglio assolutamente prendermela con i miei genitori, adesso; siamo tutti (anche loro!) portatori
di altri genitori, in una catena che si perde nella notte del tempo. Indubbiamente oggi (forse anche ieri)
la psicologia e la pedagogia si porrebbero una domanda preliminare a quella della parente che veniva a
trovarci, una domanda quasi ovvia: Ma perché un bambino di tre-quattro anni reagisce come una
biscia a una carezza? C’è però da dire che all’epoca il comportamento non era visto in modo così
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 114 di 200
negativo. Probabilmente il vero uomo doveva essere una biscia scontrosa. Sui bavaglini scrivevano
non baciatemi (ma perché cazzo?) e c’erano autorevoli signori che dicevano che prendere in braccio
un bambino significava viziarlo. Certo, alcuni zingari romeni (lo so da fonte certa e diretta) tengono i
bambini lontani dal fuoco perché non si abituino a stare al tepore, per il loro bene. Ma è una cosa
diversa.
Ecco, mi è venuta in mente questa cosa della mia infanzia e ho provato una grande tenerezza verso la
mia amica, che è una ragazza sui vent’anni. Non è detto che la sua storia sia simile, magari lei non
reagiva come una biscia alle carezze. Non è questo il punto. È che spesso abbiamo dentro qualcosa che
ci fa allontanare dagli altri, che fa sì che gli altri dicano Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč? Non lo
facciamo apposta; eppure è una specie di «colpa», e alla fine risultiamo antipatici, sdegnosi,
presuntuosi, egocentrici, insensibili e altezzosi – e chi vuoi mai che ci voglia bene?
Col tempo passa, però. Un pochino passa, e come diceva Stefano Benni in quella poesia di cui ho la
cassetta recitata da Diletta, che adesso l’ho risentita che ho il mangiacassette che prima non l’avevo
più, prima o poi l’amore arriva. È un lavoro di gruppo. Un po’ siamo noi che a poco a poco ci
accorgiamo che si può non scattare come bisce contro una carezza. Un po’ è qualcun altro che
finalmente, anziché domandarsi Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč?, semplicemente ci prova.
Amica mia di cui non voglio mettere il nome qui, ma tu lo sai se leggi, io ti voglio bene, qualcosa
capisco del tarlo che hai dentro da sempre (o da quel punto remoto d’infanzia che resta infinitamente
insondabile: quando uno comincia a essere biscia?), non tutto capisco ma qualcosa sì, e tu lo sai: non
ti abbandonerò mai, finché vivo. Ci sarà felicità, ci sarà.
Il ciondolo
giovedì 30 agosto 2007, 9.38.22 | molinaro
Per la prima volta, una poesia con riferimento al blog (blog related
direbbero gli yankees, forse). Era naturale che accadesse, la poesia
nasce da tutte le cose della vita, e visto che adesso c’è anche il blog...
Inoltre domani è l’anniversario del bacio di cui al quintultimo verso. E
dunque.
IL CIONDOLO CHE HO MESSO IN CIMA AL BLOG
Il ciondolo che ho messo in cima al blog
non è più in mio possesso. Me l’avevi
solo prestato – l’avevi precisato – e così
quando ci siamo lasciati te l’ho restituito,
conservandone la fotografia. Quando
ci siamo lasciati: non so bene quando è stato,
ma dato che non ti vedo da quattro anni
e mi dicono che vivi con un altro, suppongo
che ci siamo lasciati. Sono cose
che non capisco mai bene, lo sai,
succedono così, capisco sempre dopo.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 115 di 200
Il ciondolo starà lì in cima al blog
finché ci sarà il blog: a me non piacciono
quei bar che cambiano aspetto ogni anno,
preferisco Mescita vini dal 1912,
fratelli Pautasso & succ. Amo la permanenza.
Il ciondolo è una margherita dorata
girevole, che simula quel gioco
del m’ama non m’ama, con più varietà:
ogni petalo ha una risposta diversa.
A me è venuto appassionatamente
e l’ho lasciato così. Tu poi l’hai usato
altre volte, con altri? Che risposte
t’avrà mai dato? È stato un bell’amore
fra te e me – io lo farei ancora,
scendere a Principe e trovarti lì
e andare al parco di Nervi – che vuoi mai,
amo la permanenza, te l’ho detto.
Era bello quel ciondolo, comunque;
e il tuo bacio ha fatto di San Giuseppe di Cairo
uno dei luoghi migliori del mondo
– con Altare Cadibona e Mallare
e poi Genova naturalmente – almeno
hai migliorato la mia geografia.
Alleanza
venerdì 31 agosto 2007, 13.23.06 | molinaro
Una trasferta dal pomeriggio alla mattina, in una città in riva al lago, una
sera e una notte con un’amica, la pioggia alla stazione, il Cisalpino (treni
regionali compatibili non ce n’erano!) pieno di gente molto
mitteleuropea, Milano di corsa, poi sono di nuovo qui. Rimettiamoci al
lavoro.
ALLEANZA
Parto dalla stazione di Como San Giovanni.
Il treno, benché svizzero, è in ritardo. Dico:
– Sono contento di queste ore passate con te,
però adesso mi sento malinconico, disperso.
– Anch’io mi sento nello stesso modo.
– Potremmo essere più alleati.
– Come si fa per essere alleati?
Provo a spiegare alleati e m’ingarbuglio
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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come sempre m’accade se provo a spiegare
le varie pertinenze dell’amore.
Lei giustamente tace. Allora dico:
– Nelle risaie il riso è biondo, quasi
maturo. – Non si vede l’acqua, allora.
– No, non si vede. Forse stanno già vuotandole
per la mietitura. Il mio amico Livio
(da tanto non so di lui) sarà impegnato:
cura, prepara e aggiusta le mietitrebbie,
le grandi macchine che tagliano, tirano su
e separano i chicchi dalla paglia.
Dopo un silenzio lei dice:
– Questa è alleanza: sapersi raccontare
la poesia della vita che scorre. Tu
me l’hai portata in dono.
(Sì, è qualcosa. Non basta a colmare
l’incolmabile. Certo. Ma è qualcosa.)
Amor che a nullo amato amar perdona
sabato 1 settembre 2007, 19.03.35 | molinaro
Stavo pensando che quel famoso verso di Dante, amor che a nullo amato
amar perdona, variamente interpretato, invocato e contestato, su di me
un po’ funziona. Però a senso unico. Sì. Entro incerti limiti, con incerte
eccezioni, essere amato mi fa innamorare. A vari livelli forse (ma in
amore a parlare di livelli bisogna stare attenti, non è il pubblico impiego,
le acque si confondono facilmente), in vari modi forse, ma direi che è
così. Adesso come adesso, faccio l’amore con due donne che hanno cominciato loro ad
amarmi, e mi hanno preso pian piano, e io al principio non ero preso per niente, e poi invece
sì, e ho la sensazione che sia stato proprio il loro amore a farmele amare. O almeno,
soprattutto quello, come detonatore, unito certo ad altre affascinanti qualità.
Invece però nell’altro senso non funziona affatto. Le volte che mi sono innamorato io
violentemente e ho trovato un «no», riversare amore su amore non ha per nulla modificato
la situazione. Altrimenti «chi so io» mi cadrebbe fra le braccia. Eh! Ma sì, diciamolo con un
sorriso, a livello di battuta. In fondo Dante l’ha espresso in forma chiara: amor che a nullo
amato amar perdona. Non ha mica scritto amor che a nulla amata amar perdona!
Settembre
domenica 2 settembre 2007, 9.25.24 | molinaro
Oggi devo lavorare disperatamente tutto il giorno (che sia domenica è irrilevante) altrimenti
resto davvero troppo indietro. Ma dato che è cominciato un altro settembre, metto qui una
poesia del 1984 che si intitola appunto Di settembre. È già stata pubblicata in tre libri,
pensate: prima nell’antologia del Premio Montale (Scheiwiller, Milano, 1986), poi nella
raccolta Il gioco che vale la candela (Genesi, Torino, 1988), e infine nel librone
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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«onnicomprensivo» La parola rinvenuta (Genesi, Torino, 2006). Settembre è un mese che
mi è sempre piaciuto, benché sia stato anche il mese della morte di mio nonno (10 settembre 1960) e di mio padre (23
settembre 1976), nonché il mese in cui sono finito con il motorino sotto un’autocisterna (11 settembre 1969); ma dato
che mi sono salvato quest’ultimo evento non è del tutto negativo. Basta, vado a lavorare.
DI SETTEMBRE
Ogni tanto, di settembre, può quasi sembrare
che tutto giri bene.
Con quei primi vapori che riavvivano
la pelle e scendono nei polmoni come una bevanda
che mussi appena e abbia corpo, con quel sole
più domestico, meno incandescente, meno superbo,
come se finalmente avesse capito,
con l’imbrunire che torna a prendere il suo posto
e sgombra in fretta i prati dove i bimbi
hanno sgranato le spighe sottili della piantaggine,
con quell’aria tranquilla che consola le foglie
sul limitare della passione d’oro antico
e del mistero, con quel cielo di un blu non intenso
ma pingue, ma vicino, con l’acqua che preme
e si prepara a rimescolare le carte,
può sembrare davvero che tutto giri bene
e che l’insetto rovesciato, già irrigidito,
che spinge d’ali con sempre meno forza
brulicando di zampe verso la sua vita che svanisce,
sia uno come noi, uno che non ha saputo ancora
la storia ulteriore, il dopo, il di più.
L'amore, la mancanza, i bagnini, che so io!
lunedì 3 settembre 2007, 12.55.40 | molinaro
Se ne parli tanto è perché ne hai mancanza, dice lei – può essere:
io d’amore parlo tanto, in tanti modi, sotto tanti aspetti. Forse la
mancanza è incolmabile. Ma mentre penso questo, penso anche
all’antica, triturata, millenaria domanda: che cos’è l’amore? Per
sentire la mancanza di qualcosa bisognerebbe almeno sapere di
che cosa, no? O forse neppur questo è detto, spesso si sentono
mancanze imprecisate.
Stamattina lo svegliarmi con un desiderio forte e preciso dentro il basso ventre (là
dove Guccini dice che c’è o c’era l’incoscienza – con l’incoscienza dentro al basso
ventre e alcuni audaci in tasca «l’Unità» – ma nel mio ho idea che ci sia sempre stata
troppo poca incoscienza: immenso desiderio sì ma troppo poca incoscienza) mi ha
fatto immaginare un dialogo con un amico, che qualche giorno fa mi aveva detto,
rimbeccando un mio discorso che era riuscito forse (al di là della mia intenzione,
credo) troppo idealistico: non mi dirai che non hai mai scopato con qualcuna senza
esserne innamorato!
A volte io penso immaginando di dialogare con qualcuno, non so se è una cosa
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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patologica, comunque mi succede e amen. Ho pensato-dialogato così:
– Stamattina mi sono svegliato con una voglia tale, che scoperei qualsiasi ragazza
appena carina che ci stesse; e invece sono a casa da solo e mi metto a lavorare.
– Ah, lo vedi? Dunque scoperesti eccome con qualcuna senza esserne innamorato,
per la scopata e basta.
– Sì. Il desiderio stamattina spazia su tutte le femmine ragionevolmente desiderabili.
Me ne sono già venute in mente una cinquantina, conosciute o solo viste, per
esempio due ieri sera a Porta Susa splendide. E potrei andare avanti a pensarci e
trovarne altre centinaia. Eppure continuo a negare che esista la «scopata e basta».
– Ti contraddici, allora! Oh, immagino che adesso tirerai fuori la solita vecchia
citazione: Mi contraddico, forse? / Ebbene, allora mi contraddico / (sono vasto,
contengo moltitudini), di Walt Whitman, Song of Myself, 51-53. Citazione abusata! Do
I contradict myself? / Very well then I contradict myself / (I am large, I contain
multitudes).
– No. Cioè sì, quello è vero comunque, che mi contraddico e sono vasto, ma adesso
no. Adesso non mi contraddico. Anche se in questo momento vedo le ragazze a cui
penso quasi come in una vignetta satirica sul bagnino romagnolo, non mi
contraddico lo stesso.
– Vignetta? Com’era?
– C’era il bagnino che sognava e nel fumetto-sogno il suo universo femminile
costituito da una miriade di donne stese a cosce aperte, disegnate in modo
stilizzatissimo, praticamente una sequenza di wwwww. Tutte assolutamente uguali.
– E dunque! Tutte uguali, tutte buone per una scopata e basta. Ti contraddici
eccome!
– No. A proposito, lo sai che finalmente ho convinto un elettrauto a prendersi cura
degli anabbaglianti della mia Panda? Dice che forse è l’interruttore, ma verificherà
tutti i contatti.
– Non divagare. Spiegami come pretendi di non contraddirti, visto che desideri una
donna qualsiasi per sfogarti il basso ventre eppure sostieni che non esiste la
«scopata e basta».
– Oh, guarda che anche la Anto e la Cla dicono che comunque una scopata è
importante, e quindi già è riduttivo sempre e comunque svilirla con un «e basta».
– Non svicolare.
– Non svicolo e ti spiego. Oggi sarò da solo e lavorerò e, se proprio non ce la farò a
resistere, al basso ventre provvederò da solo (oh, mica ce ne vergogniamo, eh!) [Per
la grafìa vergogniamo cfr. qui.] Ma facciamo l’ipotesi follemente ottimistica che invece
una delle trecento ragazze qualsiasi fra dieci minuti, per un motivo qualsiasi, suoni
alla mia porta e mi dica: Ehi, Carlo, passavo di qui e m’è venuta un’ispirazione, che
ne dici, ci facciamo una scopata?
– Ipotesi davvero ottimistica.
– Sì, diciamo impossibile; ma facciamo finta che. Allora io la bacio e la abbraccio, la
accarezzo, ci sono tutti i preliminari, poi ci buttiamo sul mio letto (magari prima tolgo i
libri, la borsa, le cartelline, le biro, i fogli, l’ombrello, la felpa, il caricabatterie, gli
occhiali di riserva e quell’appendiabiti – sai, di giorno ho sempre carenza di piani
orizzontali su cui appoggiare qualsiasi cosa e uso anche il letto, una volta esauriti i
tavoli e le sedie) e una volta sul letto ci spogliamo e proviamo a farci questa
benedetta scopata. Dico proviamo perché non è mai detto che riesca, non è mai
sicuro, no?
– Beh, certo, proprio sicuri al cento per cento non si può mai essere.
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Carlo Molinaro
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– Appunto. Quindi se riesce bene è già una gran cosa. Continuiamo con l’ottimismo
e diciamo che riesce bene, sì. A quel punto la scopata è fatta.
– E tu ti sei tolto la voglia, con una ragazza qualsiasi. Proprio una «scopata e basta»,
vedi?
– Già, apparentemente hai ragione. Ma c’è un ma. La ragazza qualsiasi è una
ragazza qualsiasi prima. Ma dopo che ci siamo baciati, accarezzati, coccolati,
spogliati pian piano sul mio letto, e soprattutto dopo che la scopata è riuscita bene, ti
posso garantire che quella ragazza io non potrei più dimenticarla neanche se
campassi mille anni. Dunque, come potrei ancora definirla qualsiasi? E come potrei
parlare di una «scopata e basta»? Vedi che non può proprio esistere una cosa del
genere. E non esiste neppure far l’amore senza essere in qualche modo innamorati,
perché, se una non la dimentico mai più, vuol dire che me ne sono un po’
innamorato, no? Ma qui naturalmente si sconfina nel campo delle infinite definizioni
dell’amore.
– Beh, se la metti così...
Visto che il dialogo me lo sono inventato io, l’amico finisce con il darmi più o meno
ragione (anche se mai del tutto!). Lo scopo del messaggio comunque non era dire
che stamattina mi sono svegliato con più voglia di scopare che di lavorare (questo
non è molto originale!), ma disquisire un poco sull’amore, sulla sua mancanza, su
che cosa è. L’inutil disquisizione! È amore voler far l’amore, è amore essere contenti
se l’altro sta bene, è amore aiutare qualcuno senza contropartite, è amore
contemplare con stupore la vita di qualcuno, è amore un’infinità di altre cose, alcune
collegate al sesso e altre no (se non nel senso generale – freudiano? non vorrei dir
cazzate, m’intendo poco di psicanalisi – per cui tutto è collegato al sesso).
E allora? E allora niente, sarà meglio rimettermi a correggere bozze, che di tempo ne
ho già perso abbastanza. Con oggi, primo lunedì di settembre, ricomincia davvero in
pieno il tran tran della città. Buone cose a tutti.
Gatti, corvi, sindaci e puttane
mercoledì 5 settembre 2007, 11.31.28 | molinaro
Certi provvedimenti di tolleranza zero che vengono proposti in questi giorni in Italia,
da sindaci, da parlamentari e da altri uomini politici e non, mi hanno fatto tornare in
mente una storia a fumetti che lessi sulla rivista Linus tanti anni fa. Erano quelle
storie che stanno in una pagina, una dozzina di vignette o forse meno. Era quel
fumetto con quel pigro corvo (credo fosse un corvo) che nel frigo aveva sempre
cibo vecchio, e con altri vari suoi amici uccelli, una città di uccelli su alberi-case.
Non ricordo proprio come si chiamassero, che fumetto fosse; se qualcuno lo sa lo metta in un commento!
Nella storia a cui mi riferisco, un tale di questa comunità di uccelli lanciava una campagna contro i gatti: si
sa che i gatti sono naturali nemici degli uccelli (se ci riescono se li mangiano). Ma per non essere
politicamente scorretto contro i «poveri» gatti, il manifesto della campagna faceva un discorso più o meno
così: Noi non abbiamo niente contro i gatti. La colpa non è dei gatti. I veri colpevoli sono i padroni dei gatti,
questi ignobili cittadini che prendono i gatti in casa: è colpa loro se qui è pieno di gatti. Quindi noi vogliamo
colpire i padroni dei gatti, sono i padroni dei gatti il nostro obiettivo. Ma come possiamo agire contro i
padroni di gatti? È ovvio: colpendoli in ciò che hanno di più caro. Cioè colpendo i gatti!
Ecco, la tolleranza zero che invocano lorsignori va a colpire una marea di poveracci: accattoni, lavavetri,
venditori di rose o di occhiali, suonatori di fisarmonica, puttane a buon mercato. Però si ripara dietro il
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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discorso che bisogna colpire chi li sfrutta. Sono gli sfruttatori delle puttane il nostro obiettivo. Ma come
possiamo colpire gli sfruttatori? È ovvio: colpendoli in ciò che hanno di più caro (o quantomeno di più utile
e redditizio). Cioè colpendo le puttane!
Ora, io non voglio fare lo snob di sinistra. Capisco che il lavavetri al semaforo, se insiste troppo, è
fastidioso. Capisco che forse un venditore di rose va bene ma se mentre ceni in trattoria ne passano
cinque o sei rompono già un po’ le palle. Capisco che un viavai di auto che contrattano con le puttane
sotto la tua finestra è un panorama che alla lunga forse stanca. Anche se francamente non sono questi i
problemi che affliggono la mia vita. Proprio no. E anzi per esempio i venditori cinesi di occhiali a tre euro
sono la mia salvezza perché così quelli buoni li tengo in casa per scrivere, leggere e lavorare, ma in giro,
per brevi necessità vaganti, mi porto quelli da tre euro, che ne rompo o perdo un paio al mese. E i
suonatori ambulanti (se non sono proprio bambinetti) mi rallegrano, danno un po’ di vita alla città: ce ne
sono alcuni bravissimi. Ecco.
Comunque non è con le retate di accattoni e puttane che si risolvono i problemi. E poi questa «crociata
contro l’illegalità» è pelosissima, è di un ipocrita che fa schifo. Come scrive oggi don Vinicio Albanesi sul
Manifesto in una lettera aperta ai sindaci: «Il lato debole delle vostre recenti iniziative è il doppio passo
che usate costantemente nei confronti dei cittadini che amministrate. Voi non invocate sempre legalità, ma
sopportate molte illegalità sul vostro territorio, quando esse sono a beneficio degli abitanti “doc”:
abusivismo nell’edilizia, nel commercio, nella pubblicità, nell’uso dei beni pubblici, nell’accoglienza etc.
Non controllate, come dite, il vostro territorio, ma sopportate (e alimentate) una diffusa legale illegalità.
Siete molto prudenti o assenti nei confronti dei ceti che contano: diventate severi se i livelli di illegalità
“disturbano” l’equilibrio dell’illegalità nostrana».
Già. È giusto ieri che mi sono sentito rivolgere un ammiccante non le faccio la fattura, così risparmia dieci
euro di IVA. La legalità piace solo se applicata agli altri. Se arriva il vigile a contestarti che hai
parcheggiato in tripla fila bloccando il traffico, è un rompicoglioni: vada piuttosto a caccia di venditori di
rose (fra i quali, detto per inciso, ci sono molti laureati).
Sia come sia, Veltroni dichiarando testualmente che bisogna essere più severi contro le prostitute mi sa
che si è giocato il mio voto alle primarie. Anche se non è che ci siano grandi alternative. Ma votare uno
che finisce a prendersela con le puttane è troppo. Voglio votare la Sinistra, non l'Inquisizione.
La piega sulla Mesopotamia
mercoledì 5 settembre 2007, 14.22.38 | molinaro
Sarà che ho recentemente lavorato (sempre da redattore, mica da autore o studioso,
s’intende) a opere sul cristianesimo e a opere su religioni orientali e cose simili, ma oggi mi
è venuta un’idea, un’immagine sulla religione, su come si è sviluppata. Oh, è un’immagine
da poeta, non da scienziato o da storico, quindi non state a confutarmela su quei piani. Tanto
non capirei!
Pensate a un quaderno aperto con la piega sulla Mesopotamia, o da quelle parti, e con una
pagina appoggiata sull’Occidente e l’altra appoggiata sull’Oriente. Giù nella piega mesopotamica ci sono le prime
religioni, le religioni della Madre Terra. La terra genera, nutre, riaccoglie in sé, genera di nuovo, e così via. Di fatto, è
più o meno quello che ci succede davanti agli occhi, appunto, e quei primi uomini ci hanno costruito la loro
(semplice?) religione. Ma a un certo momento, nell’evoluzione della nostra capatosta, questo essere generati, nutriti e
ritrasformati in terra deve aver cominciato a lasciarci vagamente insoddisfatti. E che senso ha, e a che cosa serve, e
allora ma io che ci sto a fare, e tutto è vano, e che palle! Allora gli uomini sono usciti dalla piega (la piega, il solco, la
rima vulvare) e sono andati a scrivere religioni più gratificanti sulle due pagine. Quelli che sono andati a scrivere
sulla pagina d’Oriente, si sono ingegnati di sottrarsi alla Madre Terra e alle sue precarie rigenerazioni puntando decisi
sul nulla, chiamato in vari modi (il più popolare è nirvana, credo). Un grande impegno spirituale per riuscire a
smettere di vivere e rivivere in immemori innumerevoli altre vite, e per conquistare finalmente il vuoto, l’estinzione
di tutto. E vabbè. Contenti loro. Quelli che sono andati a scrivere sulla pagina d’Occidente invece si sono inventati
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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teorie per vivere eternamente loro stessi, proprio ciascuno di loro, Anselmo Pautasso for ever, con un dio unico,
molto personale, maschio (per non confondersi con la Madre Terra, quella femmina lubrica bagascia ingoiatrice!), un
dio-io, anche lui con il suo preciso nome, per sempre. E vabbè. Se sentivano questa necessità, come biasimarli? Non
fosse che con le varie religioni hanno fatto sfracelli, non mi sentirei di biasimarli. L’angoscia della mortalità è dura, è
dura non sapere un cazzo e non avere nessuna soluzione. Ma tant’è, io non so un cazzo e non ho soluzione, e ci scrivo
pure una poesia e la metto qui sotto. Quanto alla mia idea-immagine su come si è sviluppata la religione, ribadisco
che è solo una fantasticheria poetica, insomma una cazzata, non state a filosofarci tanto su, che non vale la pena!
VERSO SERA
No io non è che ho una soluzione
non dico universale non ce l’ho
neppure personale quando il sole
comincia – te ne accorgi – a tramontare
ho accettato il mio essere triste
dietro tutti i sorrisi di carta
fa quasi bene accettare la tristezza
capire che non c’è la soluzione
che questa è la realtà e che potrà
abbracciarmi la malinconia
– e con gli anni potrà venirmi incontro
una minima dose di schizofrenia
quanto basterà per potermi guardare
da fuori – guardare l’uomo vecchio
che piangerà quel suo essere vecchio
piangerà perché non saprà fare altro
naturalmente non saprà – e ridere
di nascosto di lui, come fanno i ragazzini.
La mosca nella tastiera
giovedì 6 settembre 2007, 0.31.38 | molinaro
Nella scuraglia (citazione scarpiana) di questa fresca notte che precede un viaggio
verso affascinanti lidi, resto ancora sveglio un poco e penso che in amore (o
insomma in quella cosa fra donna e uomo che siamo soliti chiamare amore) quasi
sempre si raccoglie qualcosa dove non si è seminato, e non si raccoglie nulla dove si
è seminato. D’altronde una cosa così la dice anche il Vangelo da qualche parte.
Qualche giorno fa una piccola mosca s’è infilata nella tastiera qui dell’elaboratore
elettronico, fra la T e la Y e il 6, e non è più uscita. Sarà morta e le sue secche spoglie resteranno lì per
sempre. Ma la morte di un insetto non ci turba, lo dice anche Wisława Szymborska.
Tornando all’amore, spesso si dà ciò che mai si chiederebbe, e si chiede ciò che mai si darebbe. Ho visto
talvolta uomini spaccarsi le ossa per andare incontro a opinabili capricci di fanciulle, e ho visto più spesso
uomini inguaribilmente infedeli pretendere fedeltà. Ma perché scrivo queste inutili parole? M’attende una
donna che nega di essere bionda, ma io affermo che lo è: ha qualcosa di dorato non solo nei capelli. E
nell’abbraccio infine non c’è né seminare né raccogliere: c’è un’erba spontanea da accarezzare, perché
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Carlo Molinaro
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cresca meglio. Non c’è dare né prendere, c’è meravigliarsi di qualcosa che accade. C’è un piccolo miracolo
che non potrà mai essere garantito – forse avverrà ma forse no – e non potrà mai essere negato – forse non
avverrà ma forse sì.
Non c’è da fare nessun giuramento, come in questa poesia di Guido Gozzano, nella quale fra l’altro non
sono mai riuscito a capire in modo proprio definitivo che cos’è il redo.
IL GIURAMENTO
Ritorna col redo,
mi guarda sott’occhi;
un bacio le chiedo:
mi fissa nelli occhi
con occhi sicuri e vuole
che giuri.
- O molle trifoglio,
o mani di gelo!
Che bene ti voglio!
Ti giuro sul cielo! Solleva una mano,
mi dice:
"è lontano!".
- Che sete di baci!
Morire mi pare.
Ah! Come mi piaci!
Ti giuro sul mare! Riflette un secondo,
mi dice:
"è profondo!".
Biancheggia sospesa
in fondo al tratturo
la Chiesa. - Ti giuro
fin sopra la Chiesa! Sorride bambina,
mi dice:
"è calcina!".
- Il fieno ci copra.
Ah! T’amo di fiamma!
Ti giuro fin sopra
la testa di mamma: Mi guarda supino,
mi dice:
"assassino!".
M’irride, ma poi
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Carlo Molinaro
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si piega "...m’inganni?"
- Ti giuro, se vuoi,
pei belli vent’anni! Solleva lo sguardo,
mi dice:
"bugiardo!".
Guido Gozzano
Stamattina l'aria è limpida
sabato 8 settembre 2007, 9.45.29 | molinaro
Stamattina l’aria è limpida, sono tornato ieri da un breve viaggio e
stasera riparto per un altro breve viaggio, e nel frattempo devo portare
avanti del lavoro e fare qualche commissione, però prima ho scritto tre
poesie, che sono anch’esse poesie di viaggio, forse, o forse tutto è
viaggio, più semplicemente.
IL MIO PAESE
Mi accorgo ora di aver perso una poesia
e visi
e voci
e quegli alberi tutti scritti sono tutti stati tagliati
non c’è quasi più il mio bosco
non c’è quasi più il mio mondo.
Chiara Borghi
Ho impiegato molto tempo a ritrovare
la strada. Tutto è cambiato o forse sono io
che non ricordo. Quanto torni al paese
dopo una vita da migrante e non hai
neppure fatto fortuna, ti guardano
da straniero. Infatti sono straniero
– e non lo sono: conosco la lingua:
per me è tutto vecchio e tutto nuovo
contemporaneamente. Questo è
un vantaggio nel decifrare gli alberi
e i muri e le panchine mescolando
la memoria svagata all’entusiasmo
dello scoprire per la prima volta.
Così da qualche parte c’è il tuo mondo,
il bosco non è mai stato tagliato.
Su sentieri dove non ho camminato
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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saprei condurti come guida esperta
a ritrovare i tronchi incisi e anche
quelli che non avevi mai inciso
– e la poesia che credi d’aver perso.
Non si perdono, sai, le poesie:
lasciano un seme che attende nel secco
le nuove piogge per rigermogliare.
La poesia non è le parole
ma ciò che le fa scrivere: il gonfiarsi
d’una ferita, lo sbocco di sangue
dal labbro della terra, la perenne
inquieta trepida urgenza del vivere.
Ho impiegato molto tempo a ritrovare
la strada. E ora infine, a dire il vero,
non sono neanche sicuro che sia
il mio paese. Eppure ne conosco
la lingua e ne ritrovo i tronchi incisi.
E tanto basta.
LA DONNA CHE MI PORTA PER LE CALLI
La donna che mi porta per le calli
a volte ci si perde pure lei:
troviamo un ramo chiuso o che s’affaccia
su un canale – e si deve tornare
indietro, ma c’è tempo per un bacio.
La donna che mi porta per le calli
è a casa sua per tutta la città:
così restiamo intimi fra noi
senza bisogno di chiudere porte
né mettere gli scuri alle finestre.
GIOCO D’ACQUE
Quest’anno l’acqua ha una parte importante
negli amori e nel resto: Romina per mano
sul lago di Fimon, Grazia a parlare
sottovoce sul lago di Como, la laguna
che accompagna i pensieri di Clara,
Claudia sul lungomare di Finale,
Chiara sui sassi del torrente Neva.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Quest’anno l’acqua ha una parte importante.
D'altronde fu così anche in passato:
Francesca sulla Sesia, Rosalena
al torrente Rantiva, Diletta sul Po,
Antonella alle rive del Ticino,
Federica con la pioggia nei capelli
sull'erba presso il Tevere, Marina
camminando nel porto di Genova.
L'acqua ha una parte importante in amore.
Odiare la vita
sabato 8 settembre 2007, 12.04.15 | molinaro
Tornavo poco fa a casa dopo essere stato alla Farmacia della Consolata a comprare una
medicina naturale per mia madre, che la trovo solo lì, e passando davanti a una chiesa leggo
un grosso manifesto che dice: «Chi non odia la propria vita non può essere mio discepolo».
Una frase orribile, una frase che contiene in sé tutto il fanatismo di tutte le religioni. Sì, lo
so che è una frase attribuita a Gesù Cristo (ma i Vangeli sono stati compilati, elaborati e
selezionati dal potere della Chiesa); sì, lo so che bisogna «contestualizzare» (verbo caro a
un mio caro amico!); ma è una frase orribile lo stesso. Chi odia la propria vita è pronto, certo, a essere discepolo,
perinde ac cadaver, di qualsiasi potere che riesca a catturare la sua disperazione. Chi odia la propria vita, secondo la
mia umile opinione, non può amare neppure la vita degli altri e tanto meno aiutare il prossimo suo. Chi odia la
propria vita, in compenso, può schiantarsi con un aereo carico di gente contro un palazzo pieno di gente (New York,
sei anni fa), così come può sgozzare la propria figlia perché indossa la minigonna (Brescia, l’anno scorso), così come
può affogare nel grasso fra un televisore e un hamburger applaudendo la guerra. Tutto in nome di Dio. Sempre in
nome di Dio.
[Forse odiano la vita perché non sopportano l'idea di amare qualcosa che cambia, che è in bilico, che finisce. E non si
accorgono che la loro è un'atroce professione di non fede.]
Festa d'una notte di fine estate
domenica 9 settembre 2007, 15.15.06 | molinaro
Stamattina il barista mi ha fatto sul cappuccino una graziosa foglia disegnata versando il
latte, davvero graziosa, e questo mi ha fatto pensare a Monica, per via della cosa detta a
pagina 311 del grosso libro. Poi adesso scrivendo di una foglia graziosa mi sono venuti in
mente gli occhi grandi color di foglia della graziosa-bambina-puttana di via del Campo.
Così mi disperdo in mille pensieri e concentrarmi è difficile.
Hanno ragione a non fidarsi di me le fanciulle: la mia fragile geografia di donne e campagne
s’appunta a dettagli trascurabili. Sulla mia scheda carburante, ora che devo usare di nuovo un po’ di più l’auto per
raggiungere posti non ferroviabili, otto timbri su nove sono dell’area di servizio Lidora Ovest. Già il fatto che io
continui a usare la scheda carburante anche se non detraggo più niente di spesa (le leggi sono cambiate e poi
comunque onestamente l’auto la uso «per lavoro» forse nel 5% dei casi, un po’ poco!) è vagamente maniacale: è che
mi piace farmi fare il timbro: finché non la trasformeranno anch’essa in qualche fredda vaccata elettronica è bella, la
scheda – guardate l’immagine – con tutti quei timbri su carta che ricordano un viaggio. Quand’ero bambino mi
piaceva se mi mandavano a pagare le bollette alla Posta perché sulla ricevuta del versamento mettevano il bollo
lineare dell’ufficio accettante, il bollo frazionario, il bollo circolare con data, il cartellino gommato del bollettario di
accettazione, ritagliato con le forbici, maestose forbici da ufficio, e la firma dell’impiegato rigorosamente con
inchiostro nero o nero bluastro. Opere d’arte di cui s’è persa la memoria.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Ma perché mi fermo a Lidora Ovest? Per tre motivi. Uno, è l’ultima area prima di Altare, venendo da Torino, e
spesso esco dall’autostrada ad Altare. Due, è situata nel comune di Cosseria, dove abita Cristina, una ragazza
deliziosa con la quale non sono riuscito ad approfondire molto, ma per la quale comunque c’è una poesia a pagina
507. Tre, ci lavora Alessandra, che conosco solo a livello di ciao come va salutami Cesare e gli altri, ma che ha un
bel musetto, e spero sempre di trovare lei di turno, perché mi piace vederla, e poi anche per scambiare davvero, alla
faccia di Guccini, qualche parola con la ragazza che dietro al banco mescolava birra chiara e Seven Up, e il sorriso
da fossette e denti era da pubblicità. Ora sapete in che modo seleziono le aree di servizio in cui fermarmi. Seleziono
così anche quasi tutto il resto del mondo, a dire il vero.
Ma volevo raccontare qualcosa della festa di ieri. Ieri insomma, dopo essermi fermato a Lidora Ovest a mettere venti
euro di benzina, farmi controllare la pressione delle gomme (l’anteriore sinistra era ben sgonfia) e salutare
Alessandra, sono arrivato a Mallare per la festa-cena a base di formaggi (e frutta) detta appunto formaggiata, che sta
diventando una tradizione di fine estate fra noi amici.
Sono arrivato che c’era già qualcuno, poi la compagnia s’è completata. Una tavolata di formaggi, salumi, frutta e
vino. Una decina di amiche e amici – qualcuno che si conosce dall’infanzia, qualcuno da anni, qualcuno da mesi. Mi
sono innamorato anche di queste feste (ma, si sa, io m’innamoro di tutto!) perché c’è armonia, c’è vicinanza, c’è
gioia, e si crea un mondo che, per tre o quattro o cinque ore, è tutto lì, non è disperso. È quasi leggibile, è quasi vero.
Scopro stamattina che ieri sera c’è stata un’importante partita di calcio, ma nessuno di noi l’ha vista e nessuno ne ha
parlato; c’è stato anche il V-day di Beppe Grillo e nessuno di noi se n’è accorto – ma non è disimpegno, è ricaricarsi,
è ritrovare sé stessi, è il necessario silenzio (anche se si parla, si canta e si fa musica) dove cessa l’assedio assordante
del mondo «globalizzato».
Quest’anno ho partecipato di più, a queste feste tra Savona e la Val Bormida, e ho partecipato di più per via di
Chiara, lo ammetto con la massima serenità – la ragazza che non avrò mai se non come amica e che anzi non dovrei
neppure corteggiare – ma ci metto il mio tempo a rassegnarmi. La ragazza con la quale, come ha osservato
giustamente Mac, non c’è verso, anche se scrivo per lei molti versi. Ma in fondo, se questo mio ostinarmi in una
missione impossibile ha avuto l’effetto collaterale di avvicinarmi di più ad altri amici (oltre che a Chiara stessa,
infine: ora almeno «la conosco» un po’ di più – amore non è solo far l’amore), non sarà poi stato male. Mi ha
profondamente emozionato questa bella estate (in senso vagamente pavesiano) savonese (e, su un altro mio versante,
veneta). Viaggi di un giorno o due che hanno rappresentato le mie «ferie» (non ho fatto altre vacanze chissà dove,
non ho denaro, e forse non ne avevo poi neppure voglia: ci sono infiniti misteri in cui immergersi a pochi chilometri
da casa), viaggi fra amiche e amici e amori ricambiati e non ricambiati, viaggi in paesaggi sempre più domestici,
sempre più miei, a incontrare le pietre, le strade, gli usci / e i ciuffi di parietaria attaccati ai muri, / le strisce delle
lumache nei loro gusci, / capire tutti gli sguardi dietro agli scuri, come dice ancora il nostro Guccini.
Scusatemi se è una frase retorica, ma solo l’amore fa conoscere i luoghi. Una settimana a Sharm el Sheik è una
cartolina che si dimentica presto in un cassetto; Venezia Vicenza Savona Cadibona Mallare e la Val Bormida da un
anno in qua sono terra mia, la terra che non perdi mai più. Questo è il viaggio che amo viaggiare.
L’amore è irrazionale ma spesso gioca a rivelare affinità percettibili: alla festa di ieri sera Chiara e io ci
assomigliavamo, eravamo quelli che facevano più fatica a togliere la maschera dei giorni usati, e forse quelli che lo
desideravano di più. Quelli che facevano più fatica a intonare la voce al canto. Quelli che ogni tanto dubitavano di far
davvero parte del gruppo. Quando una banda di ragazzini in campagna deve saltare un ruscello per andare nell’altro
prato, ci sono i primi, i più svegli, che zompano di là senza quasi accorgersene. Poi ci sono quelli un po’ più
circospetti che misurano la distanza e dopo un attimo si decidono a spiccare il balzo. Poi ci sono quelli imbranati,
impauriti, quant’è lungo il salto da fare, la tentazione di dire «ma che mi frega di andare sull’altro prato» e di
restarsene isolati, la paura di finire con un piede in acqua e gli altri che ridono, che vergogna, e poi infine, magari il
secondo o il terzo giorno che la compagnia va su quel prato, la decisione di provarci, sia come sia, la corsa, il piede
sull’ultima pietra, lo slancio, tutto quello che puoi, il cuore che batte a mille, l’altro piede sull’erba di là, lo sforzo del
ginocchio, ci sei! Hai fatto niente, hai fatto ciò che gli altri della compagnia non si sono neanche accorti di fare, un
piccolo salto su un ruscelletto, non te ne potrai certo vantare, però dentro di te è un oro olimpico, e sorridi, con il
cuore che stenta a rallentare, mentre raggiungi il gruppo a giocare.
Mi dirai che non è vero, Chiara, ma io ieri ho visto te e me così, ed è anche per questo che ti voglio bene. Ora la
pianto se no dici che ti corteggio e non devo e mi mandi a cagare e va bene basta.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 127 di 200
Le tre ragazze che conosco da più tempo ieri sera erano bellissime, alla formaggiata. Anita s’è tagliata i suoi lunghi
capelli e sta bene così, arruffata, è un passerotto con una voce limpida come l’anima, una faccia da schiaffi e da baci,
che solo a guardarla tu già sorridi e stai meglio. Ha nello sguardo stupore e disincanto ma il disincanto buono, quello
che serve a fare spazio per altri stupori. Sonia, vestita elegante con qualche saggia scopertura, rivela una figurina
aggraziata, incisa decisa precisa eppure sinuosa, invitante come un sentiero fra le colline, gioco di luce e d’ombra, di
pietra dura e più morbida terra. Chiara anche lei elegante, gli occhi mutevoli come certe giornate di vento, le spalle
solide e fragili, un corpo che è fiero così senza sembrarlo, le gambe selvatiche, le belle mani che si muovono a scatti.
Quando fuma una sigaretta, anche se credo che fumi da molto (e smetti, che fa male alla pelle e a tutto!), il gesto del
braccio e delle labbra è quello di chi fuma la sua prima sigaretta, senza molta convinzione, più per farlo che per
sentirlo, e anche questo è un segno che... No, niente. Niente. Mie fantasie, credo. La fantasia può fare male se non sai
bene come domarla, tanto per insistere nelle citazioni gucciniane.
Cesare, Mac e Alessio erano in buona forma esistenziale e musicale, e anche Luca e Balla erano a loro agio, e anche
Lella, l'amica di Sonia. La cagnetta di Chiara, Zoe, correva di qua e di là attaccandosi un po’ a tutto. È cucciola, ha
solo cinque mesi. Quando l’ho presa in braccio io s’è quietata e quasi addormentata: forse le mie mani sono calmanti
per gli esseri viventi di sesso femminile, non solo della specie umana. Le donne della mia vita ricordano, quasi tutte,
le mie mani, perché sono belle (così dicono) e perché al contatto tolgono dolori e tensioni (così dicono). Forse potevo
fare il pranoterapeuta, occasione sprecata. Ma forse funziona solo con le donne che amo (ed eventualmente i loro
cani?), e allora no, non potevo fare il pranoterapeuta.
Alessio alla fisarmonica, Cesare e Mac e anche Luca e Anita alle chitarre, alle voci un po’ tutti: la musica è stata
buona. E, più tardi, sono stati buoni i discorsi sulla vita. Quando la compagnia è giusta, non si parla di sport e motori:
il discorso, dopo l’opportuno cazzeggio d’allegria iniziale, si indirizza spontaneamente verso cose importanti.
Del vino non so dire, essendo astemio (l’acqua di quelle montagne comunque è ottima); tra i formaggi ce n’erano
alcuni davvero deliziosi, e poi anche semplicemente il grana con le pere è un gran bel mangiare. C’era dell’uva dolce
e croccante, nera, bianca e dorata, moscatella. E i fichi secchi. E le noci. Non ci vuole poi molto, non c’è neanche da
cucinare, solo preparare le cose, disporle. Ed essere amici.
Sono ripartito verso Torino che erano le quattro passate, non avevo sonno, ho guidato con calma nella notte, sono
arrivato a casa con le prime luci del mattino e una falce sottile di luna calante che sorgeva piano all’orizzonte. Ho
voglia di raccontare la festa a Claudia e di massaggiarle un po’ la schiena. Ho voglia di tutto. Stasera mangio il
risotto da mia madre.
La password
lunedì 10 settembre 2007, 22.35.44 | molinaro
L’altra sera chiacchierando con un amico gli dicevo che una mia (e sua) amica mi aveva
dato la password della propria casella di posta, perché io gliela controllassi e leggessi e le
riferissi i messaggi, di persona o al telefono, essendo lei senza computer per lunghi periodi.
E gli spiegavo che la cosa mi provocava quasi un qualche disagio, forse perché io invece la
mia password tendenzialmente non l’avrei mai data a nessuno. Lui un po’ si scandalizzava
della mia malfidenza, e sosteneva che se la dai a un amico, la password, non hai di che
preoccuparti, perché un amico non ti spierà e non ti farà danni, e la userà solo per lo scopo che gli hai richiesto.
Ora, a criticare la mia malfidenza era lo stesso amico che sostiene che in determinate circostanze tutti possiamo
mentire (fa l’esempio del ragazzo che ha rigato l’auto facendo una manovra imbranata contro un muretto ma per non
essere preso in giro racconta agli amici che gliel’hanno rigata mentre era posteggiata); e che quindi nessun discorso,
neppure del migliore amico o della fidanzata, va preso per oro colato: bisogna sempre interpretarlo e vagliarlo.
Ecco un esempio di punti di vista diversi, forse derivati da esperienze personali diverse. A me non viene in mente che
le persone che mi parlano, specie se amiche, possano mentire. In compenso mi viene in mente che esistono
circostanze in cui io stesso potrei fare una spiata nella casella di posta di una persona, avendo la password, e non
resisterei. Magari con motivazioni «d’amore», ma sarebbe sbagliato lo stesso – epperò non resisterei.
Federica quasi due anni fa è sparita dalla mia vita senza farsi mai più trovare, senza dirmi più una sola parola. Ma
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 128 di 200
fino a un attimo prima eravamo in una confidenza piena e totale (e infatti la sua sparizione mi addolora
immensamente – un taglio così improvviso – ne ho già parlato in questo blog). Eravamo in una confidenza tale che,
se necessario, credo che lei mi avrebbe dato la sua password perché io le leggessi e riferissi la posta. Ecco. Mettiamo
che me l’avesse data e che successivamente non l’avesse mai cambiata. Ebbene, io nei mesi successivi, persa ogni
traccia di lei, e ancora oggi, stasera, non resisterei affatto, e andrei ad aprire la sua casella, per cercare di scoprire che
cosa fa, a chi scrive, chi le scrive, insomma qualcosa della sua vita che tanto mi manca. Lo farei «per amore e per
nostalgia», certo non per danneggiarla, ma non è una buona scusa: spiare la posta altrui è comunque una pessima
azione. Però so che lo farei.
Ecco: forse le cose su cui non ci fidiamo degli altri sono le medesime su cui non ci fidiamo neanche di noi stessi. Io
la password della mia casella la darei solo in caso proprio di estremissima necessità. E mi sa che, finita la necessità,
la cambierei. E forse l’amico si sentirebbe offeso dalla mia malfidenza, ma d’altronde io potrei sentirmi offeso dal
suo «interpretare e vagliare» le parole mie o di persone a me care, e così sarebbe un’offesa continua. Meglio capire
che abbiamo tutti i nostri punti deboli, e non offenderci affatto. Siamo tutti diversi e imperfetti. E buona notte.
Il tempo è il tempo; e il nonno, e il cucchiaino
lunedì 10 settembre 2007, 22.57.00 | molinaro
Stasera c’è un po’ di malinconia, non credo sia l’autunno che viene, l’autunno è una
stagione dolce, e poi oggi a Torino la giornata è stata ancora pienamente estiva. No, è
qualcosa che si percepisce ogni tanto: il tempo che passa, le cose che sfuggono. Il tempo
passa sempre e le cose sfuggono sempre, certo; ma è come un treno ben molleggiato che fila
sui binari, è abbastanza silenzioso e non lo senti – solo in certi momenti sobbalza su uno
scambio all’entrata di una stazione, o frena a un segnale, o rimbomba su un ponte di ferro, e
allora ti accorgi che sta andando, per un istante o per qualche minuto – e ci pensi; poi torna il quasi silenzio – e di
nuovo non ci pensi più.
Quarantasette anni fa moriva mio nonno (oggi è l’anniversario) e io ero con lui sotto il fico in cortile, dove si sentì
male per l’infarto; e ventisei anni fa nasceva Chiara (oggi è il suo compleanno) e io ero già un uomo sposato e
impiegato (salvo poi, molto dopo, cessare di essere entrambe le cose!). La mia vita dunque in questo 10 settembre si
estende oltre tutti quegli anni, e il tempo è il tempo, e se io mi sento un ragazzo è una cosa mia d’anima, ma il tempo
è il tempo.
Poi il treno torna silenzioso e non ci penso più. Mio nonno era simpatico e mi dava retta anche se ero un bambino, era
uno dei pochi: gli adulti di norma trattano i bambini come deficienti. Mi insegnò a scrivere, prima in stampatello poi
in corsivo. Oggi direbbero che fece male, perché poi in prima elementare mi annoiavo, già sapendo. Ma all'epoca non
sottilizzavano su questo, prima sapevi una cosa meglio era. Una volta gli domandai se per sciogliere lo zucchero
nell'acqua bisogna proprio girarla con il cucchiaino, o se invece, aspettando molto tempo, lo zucchero si scioglie da
solo. Non mi rispose male, anzi facemmo l'esperimento: mettemmo lo zucchero in un bicchier d'acqua, senza girare
con il cucchiaino, e aspettammo il giorno dopo. Lo zucchero non si sciolse. È solo grazie a mio nonno, e non agli
adulti saccenti che non spiegano niente, se oggi so davvero che lo zucchero non si scioglie senza girare con il
cucchiaino. Altrimenti avrei il dubbio ancora adesso, come su tante altre cose.
Work, coffee & valium
giovedì 13 settembre 2007, 7.58.58 | molinaro
Stamattina, fra un’oretta, vado in un’azienda (una nota casa editrice). Di solito
lavoro in casa, ma ogni tanto ci vuole un po’ di contatto diretto, e allora vado in
azienda. Ci ho lavorato, dentro quell’azienda, per più di un quarto di secolo, mi
hanno dato anche la medaglia e il diploma (vedi immagine), poi... sono diventato
precario. Collaboro dall’esterno. Libero professionista! Succede, nulla di strano, un
po’ è stata una mia scelta e un po’ no. D’altronde, se in amore ho la testa di un
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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ragazzo (così mi dicono spesso), è giusto che anche la posizione lavorativa sia coerente: i ragazzi sono
tutti precari nel lavoro, no? E dunque!
Le aziende sono strane. Chi ci lavora prende un sacco di caffè. Il lavoro è strano. Forse io sono strano. A
me per lavorare non serve il caffè, anzi. Cerco di non prendere niente, ma nelle giornate in cui proprio non
riesco a lavorare, quando il culo mi balza via dalla sedia e ogni pensiero fugge in tutte le direzioni, per
riuscire a lavorare prendo dieci gocce di un blando tranquillante, o almeno mi faccio una tisana, tipo
camomilla. L’esatto opposto del caffè. Devo essere un po’ anormale. Sarà che la stanchezza riesco a
vincerla con la voglia, di solito, non c’è bisogno di caffè. È la non voglia che non so mai come vincerla, mi
manda fuori di testa, mi fa impazzire, il mondo è meraviglioso e io butto via la vita davanti a un computer,
è follia, è sacrilegio... Allora, per lavorare, prendo dieci gocce di tranquillante. Altro che caffè!
Oggi è il cinquantacinquesimo anniversario del matrimonio dei miei genitori. Cioè, lo sarebbe, perché mio
padre è morto trentun anni fa, all’età di cinquantuno. Lavorava tutto il giorno... Ci dev’essere qualcosa di
sbagliato.
La carte postale
giovedì 13 settembre 2007, 16.46.58 | molinaro
Tornando dal lavoro in quell’azienda di cui al messaggio
precedente, ho trovato una cartolina. Così, prima di rimettermi al
lavoro in casa, ho scritto una poesia. Non che fosse obbligatorio.
Ma è successo. D’altronde ogni scusa è buona per ritardare il
momento di rimettersi a lavorare, no? Solo che poi si deve andare
avanti fino a notte fonda, perché il lavoro è quello che è, e resta lì,
non si fa mica da solo.
LA CARTE POSTALE
I fuochi artificiali su Montmartre
dentro la carte postale da Parigi
non sono veri, li hanno disegnati
dopo: sono davvero artificiali.
Anche la chiesa pare una statuina
dentro una bolla con la neve finta.
Ci sono stato, credo, sette volte
a Parigi: da solo, con gli amici,
con una donna, con un’altra donna,
pure in viaggio di nozze. Sono andato
a puttane, a Parigi, sono andato
al Musée Marmottan dove ci sono
soleil levant e l’arrivée d’un train,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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due dipinti che amo; ho visitato
periferie lontane col metrò.
E ci ho mangiato anche il primo kebab
della mia vita e ho visto una vetrina
piena di topi morti, era una ditta
di derattizzazione, certi topi
impagliati più grossi d’una volpe.
La carte postale però non mi ricorda
niente di tutto questo, non è cosa
di nostalgie: mi ricorda la mano
che me l’ha scritta nove giorni fa
(ed è arrivata stamani: la Posta
non è stata veloce), mi ricorda
che qualcuno a Parigi s’è fermato
un minuto a pensare di mandarmi
la cartolina, e l’ha fatto, ci ha messo
un francobollo azzurro, l’indirizzo
ricordato a memoria oppure preso
da un’agendina, ha cercato una buca
e ha imbucato. È per questo che salgo
più svelto e più felice i quattro piani
di scale verso casa e sorridendo
apro la porta e mi verso dell’acqua
che bevo avidamente, poi mi metto
di buona lena al tavolo, al lavoro.
Poesia chiama musica (sul lago d'Orta)
venerdì 14 settembre 2007, 12.33.50 | molinaro
Con la consueta mia tempestività (succede domani!) vi dico della
manifestazione POESIA CHIAMA MUSICA: sabato 15 settembre 2007,
ore 16, Spazio Verde della Fondazione Calderara, Vacciago di Ameno
(Lago d’Orta): lettura di poesie intercalata da intermezzi musicali per
flauto, clarinetto, violino e violoncello, in prima esecuzione assoluta.
Voce recitante: Maria Pilar Perez Aspa. Progetto di Davide Anzaghi. La
cosa interessante è che sono pezzi di musica classica nuovi, composti ispirandosi a poesie. E
io cosa c’entro? C’entro, perché di Pippo Molino sarà eseguito (da Andrea Favalessa) il brano
Rami 1, per violoncello solo, ispirato alla mia poesia Numeri, che sta nel libro a pagina 528 e
che comunque, per l’occasione, vi ripropongo qui sotto. Se qualcuno vuole venire... Se
qualcuno vuole venire da Torino, anzi, gli do un passaggio in macchina, a condizione che
dopo venga con me anche a Carcare (SV) alla cena di compleanno di un’amica, che mi ha
detto «porta chi vuoi». Se qualcuno è qualcuna, è meglio. Ma insomma, vediamo!
NUMERI
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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a Giulia Vay e a Mauro Ferrari
Chissà perché un poeta a Marcarolo
si rattristava scoprendo che i suoi
versi migliori, quando ne contava
compiaciuto le sillabe, svelavano
d’essere endecasillabi. Che male
c’è? Mi sa che parlava per parlare,
pavoneggiando la sua disperata
sete di sconvolgenti novità
di lessico e di ritmo per vestire
con l’ultima fantastica trovata
la vecchia amante sempre più appassita.
Intanto una ragazza ci serviva
al tavolo la pasta e l’insalata:
un bel viso, due mani, cinque dita
per ogni mano, due fragili seni,
due occhi azzurri e una testa biondina.
Su una panchina
venerdì 14 settembre 2007, 19.56.21 | molinaro
Oggi ho scritto su una panchina di corso Cairoli (no, non direttamente sulla panchina: su un
quadernetto, stando seduto sulla panchina) questa strana poesia. Strana poi perché? Non lo
so, mi è venuto da dire così. È sera, è autunno, ho ancora del lavoro da fare.
BILOBA MATRIS
Oggi, quattordici settembre del duemila e sette,
su una panchina di un corso verso le sei di sera
ho chiuso gli occhi e ho sentito il rumore
del traffico e l’odore sia del traffico
sia dell’autunno. Mi è sembrato tutto uguale
a un’altra volta che avevo fatto lo stesso gesto
– sedermi su una panchina e chiudere gli occhi –
più di trent’anni fa.
Dunque sono rimasto un minuto
a pensare al mondo che avrei visto aprendo gli occhi:
mi è parso di arrivarci come sempre da molto lontano,
di sperare vagamente qualcosa di strano,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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e nel rumore e nell’odore della città e dell’autunno
nulla di diverso da trent’anni fa
nulla di diverso nelle mie narici o nelle orecchie
nulla di diverso nel mio cuore
sono stanco ma sono sempre stato stanco
ho voglia ma ho sempre avuto voglia
ho nostalgia ma ho sempre avuto nostalgia.
Mi sono alzato e ho fatto mente locale
per sincronizzarmi alla sera di oggi,
quattordici settembre del duemila e sette:
posso essere figlio padre nonno fidanzato sposo
– più probabilmente nulla di tutto ciò –
ho camminato verso casa con il passo
del forestiero guardingo e curioso, di quello
che tutti lo conoscono ma nessuno gli parla
perché non sai che cosa raccontargli,
perché non sembra mai uno dei nostri.
Una poesia scritta nel 1983 per il 1968 e una ieri per ieri
domenica 16 settembre 2007, 17.03.56 | molinaro
Oggi è il 16 settembre e mi è venuta in mente una poesia che scrissi all’inizio degli anni
Ottanta, riferita a un 16 settembre già allora un po’ lontano, il 16 settembre 1968 (la poesia
è a pagina 110 del librone, chi l’avesse – boh, un duecento copie sono state vendute,
qualcuno dovrà ben avercelo!). Non è una data storica per il mondo, è un ricordo solo mio.
Ero andato a una cena con amici in riva a un lago. C’ero andato per stare con gli amici, ma
forse soprattutto per corteggiare Chiara, una mia compagna di scuola che mi piaceva
tantissimo. Lei però stava con un altro (il cui nome precede il suo nel verso della poesia), quindi era un po’ idiota il
mio corteggiarla. Bah, roba di quasi quarant’anni fa, ero un quindicenne stupidello, oggi non lo rifarei... forse. Però
mi era rimasto il ricordo di una bellissima serata, c’erano gli amici e forse all’epoca «guardare» l’amata già mi
bastava: così una dozzina d’anni dopo ce l’avevo ancora molto bene in mente e scrissi la poesia. Dopo la poesia è
passato un altro quarto di secolo. Uff! Il tempo, il tempo, che palle! Insomma, rimane solo una poesia in un libro.
Oppure rimangono infinite indicibili altre cose, è impossibile saperlo davvero. Lingua mortal non dice. La poesia si
intitola Leopardiana perché lo è.
Ma ieri sono stato di nuovo in riva a un lago (e poi la sera a cena con amici, per un compleanno); in riva al lago c’era
una manifestazione di musica e poesia che è stata abbastanza bella. Mentre ascoltavo la musica e le poesie, e poi
ancora un po’ dopo, ho preso dalla tasca un quadernetto e una biro e ho scritto un’altra poesia. La poesia scritta ieri si
intitola Il percorso. Mi permetto di offrirvi qui sotto prima la poesia scritta ieri per una cosa sentita dentro di me ieri,
e poi la poesia scritta venticinque anni fa per una cosa sentita dentro di me quarant’anni fa. Tutto un po’ resta, un po’
cambia, un po’ si evolve. Le cose possono anche migliorare, forse. No? Forse sì.
IL PERCORSO
Il cielo, il cielo! Si fa presto a dire.
Lui prima lo guardò per darsi un tono.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 133 di 200
Dopo s’accorse che è meraviglioso.
La ruggine sul riccio di ringhiera,
un topo grigio sbuca da un chiusino.
Un’ortensia sfiorita, una lampada liberty
dai colori scrostati, la siepe ritagliata.
L’ombra del ghirigoro alla parete.
E sulla ruggine il dito di Clara.
Parti da cose piccole, poi torna
alle piccole cose, dopo il volo.
Il volo dove? – chiede – Il volo dentro
te stesso, il volo che non prevedevi:
l’unico che ti può portare fuori.
Vacciago di Ameno, 15 settembre 2007
LEOPARDIANA
Il sedici settembre sessantotto
(era proprio quel giorno, non è un gioco
cretino di assonanze) passeggiavo
sotto la pioggia (pioveva davvero,
non è un’invenzione letteraria)
col Roberto e col Claudio, con la Chiara,
con la Paola e con la Paoletta
lungo la riva del lago, a Baveno,
e lingua mortal non dice
quel ch’io sentivo in seno.
Torino, settembre 1983
Puttane e analisi psicopoetiche
mercoledì 19 settembre 2007, 9.07.43 | molinaro
Nell’escalation di insulti che c’è stata per tre giorni su questo
blog contro una mia amica (nella sequenza di commenti che ieri
ho necessariamente cancellato) ho notato che si è arrivati, nel
finale, ai termini soliti: zoccola, baldracca, insomma puttana.
Spesso, anche partendo da critiche a comportamenti che non
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 134 di 200
hanno nessun legame con la sfera sessuale (mi pare che
all’inizio si criticasse l’egocentrismo, egoismo, insensibilità, orgoglio attribuito alla
persona in questione), si arriva lì, alla parola magica, puttana. Sì, se l’insultato è
femmina in genere si arriva lì, sia che l’insultante sia maschio sia che l’insultante
sia femmina. Puttana è l’insulto per eccellenza, il padre di tutti gli insulti per una
donna. Non esiste l’equivalente per un uomo, non esiste un insulto padre di tutti
gli insulti al maschile, e anche questo è significativo. E dire che, quando non
indica un preciso mestiere (e raramente lo indica), puttana significa
semplicemente un comportamento sessuale femminile libero e disponibile: con
un pizzico di provocazione, potrei dire che indica un comportamento normale,
non represso. Allo specchio della morale borghese degli anni Cinquanta, il
decennio in cui sono nato, tutte le donne con cui sono stato in vita mia sono
puttane, senza eccezione alcuna. Oggi molti (non tutti) la pensano un po’
diversamente, per fortuna, ma puttana è rimasta una parola magica nel bene e
nel male. Attira tantissimo. Se questo messaggio fosse stato intitolato Cavolfiori
e analisi psicopoetiche, avrebbe destato molto meno l’attenzione.
Quando un uomo dice puttana la sua voce cambia, succede anche al più
emancipato degli uomini. Ascoltate Via del Campo cantata da De Andrè, meglio
se in una delle prime versioni: Via del Campo c’è una graziosa... Via del Campo
c’è una bambina... Via del campo c’è una puttana... Vi accorgerete che su
puttana la voce cambia, prende un’enfasi diversa, diventa più spessa, s’incrina
leggermente, tradisce qualcosa di indicibile.
La puttana nel senso più profondo del termine è una creatura mitologica; io ne
ho dichiarato esplicitamente l’inesistenza nella poesia Le sgualdrine non esistono
(pag. 163 de La parola rinvenuta). La puttana è il miraggio e il timore di ogni
uomo, è la creatura più desiderata e più odiata, la donna che è libera e
disponibile e dunque inafferrabile, incontrollabile, non catturabile, la donna che
sa farti far bene l’amore, quella che dà realtà al sogno più intimo e
inconfessabile, te lo esplicita e te lo mette in discussione, mescolandosi a esso
con naturalezza. La puttana è il sogno che, uscendo dal cerchio della fantasia
onanista, diventa verità vissuta, ti apre i cassetti dove non hai mai voluto
guardare, scompiglia le carte, ti fa scoprire che il piacere è una cosa che puoi
toccare davvero, fuori dagli ermi meandri del tuo chiuso cervello impaurito –
epperò non ti appartiene, non è un oggetto di tua proprietà. La puttana è la fata,
la creatura phantasy che a un tratto s’incarna, ti dice di essere persona fisica,
libera, reale e indipendente come te, ti dice: Bien, et alors? Che cosa sai fare,
ragazzo? E tu fuggi e la insulti, normalmente.
Vengo all’analisi psicopoetica. Ci sono due mie poesie, scritte entrambe circa
venticinque anni fa, che, messe una accanto all’altra, mi hanno fatto capire
(adesso: non quando le scrissi) alcune cose di me stesso. Una è la già citata Le
sgualdrine non esistono; l’altra è Parabola (pag. 144). Anche se dovreste
comprarvelo, quel cazzo di libro, ve le metterò qui sotto, per comodità.
Poesia come autopsicanalisi un quarto di secolo dopo. Ci ho molto riflettuto
stanotte. In Le sgualdrine non esistono c’è sotto sotto la ricerca (ma già
dichiarata impossibile in partenza, fin dal titolo) di una che mi faccia star bene
sessualmente. Totalmente bene, bene davvero. Questo è il concetto, fra le righe
del testo poetico: la puttanella entusiasta, giovinetta / che si butta in braccio a
cento con allegra / spensierata fiducia, per prurigine schietta / della carne e del
sangue. Ci sono un sacco di aggettivi (e io sono noto per l’avarizia di aggettivi,
pare che ci siano mie intere pagine senza aggettivi – non l’ho mai fatto apposta,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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giuro): entusiasta, giovinetta, allegra, spensierata, schietta. Il sesso contento, il
sesso vero e contento: eccolo lì il miraggio.
L’altra poesia, Parabola, apparentemente ha un altro argomento, eppure nel
profondo parla della stessa cosa: trovare una realtà di cui innamorarsi, trovarla
fuori da sé stessi, nella vita vera. Ma anche lì si dichiara un’impotente
impossibilità: l’esiliato disperatamente s’innamora (per inciso: è l’unico punto di
tutta la mia produzione poetica e letteraria in cui compare l’avverbio
disperatamente) ma di che cosa? Di un nome di sua lingua su una prora. Ha
aperto gli occhi, è uscito dal guscio, ha trovato un mondo ostile in cui nulla gli
era domestico, ha viaggiato, è giunto in un porto straniero, ma «per
innamorarsi» cerca qualcosa che appartiene ancora al luogo della partenza, che è
irreale (l’anima dipinta altrove, dunque fuori dalla vita vissuta, dallo spazio e dal
tempo).
Quindi, nella mia auto-psicanalisi, vedo che con quelle due poesie un quarto di
secolo fa dichiaravo, nel profondo, che non esiste la donna e non esiste l’amore.
E adesso, oggi, come la vedo la questione? In divenire, in divenire! Ma ne
parleremo un’altra volta forse.
Dopodiché, le poesie sono poesie, sono testi letterari che hanno il loro valore in
sé (Parabola è anche nella breve silloge che mi valse il Premio Montale che
l’amico Cesare cita continuamente!), e lasciamole stare, sono arte e non
psicanalisi. Però credo di aver cominciato a star meglio quando ho cominciato a
capire che la donna esiste nella realtà e non solo nel sogno (affanculo gli
stilnovisti!), e che ci si può innamorare anche di qualcosa/qualcuna che non sta
nella tela dipinta dalla mia fantasia. Anzi, è solo così che è davvero un
innamorarsi – e non un narcisistico triste solitario specchiarsi. Buona giornata,
gente, e non scrivetemi più insulti fra di voi sul blog, tanto più adesso che avete
capito che nella mia Weltanschauung «puttana» è una sublime qualità!
LE SGUALDRINE NON ESISTONO
Se qualcuno conosce una sgualdrina,
una puttanella,
me la presenti! Ma che sia vera e bella.
Ho cercato per anni. Ho creduto alla gente:
«Quella! La sgualdrinella!» – e sono andato
ogni volta a vedere, ma ho trovato solo
qualche ragazza un po’ nervosa, non facile
nemmeno da discorrere o abbracciare,
reduce da pochi amori complicati.
Ho cercato per anni. Ho creduto ai libri:
e ho rastrellato gli ambienti e le categorie
ivi raccomandate: cameriere, postine,
damigelle annoiate, ragazzette cresciute
a strada e osteria, segretarie scosciate.
Non ho trovato niente: normalissime donne
che s’arrangiano gli interessi loro
come tutte, con i progetti e pochi maschi.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Ma la puttanella entusiasta, giovinetta
che si butta in braccio a cento con allegra
spensierata fiducia, per prurigine schietta
della carne e del sangue, non esiste.
È un’invenzione popolare e letteraria.
(Che peccato, però! Che squallore!)
PARABOLA
L’anima mia è un quadro che dipinsi
ad occhi chiusi in un tempo che non so,
e il soffio della terra ne ha fissato
piano piano i colori.
Il bimbo tenne il braccio
ripiegato sul volto, perché i bimbi
hanno paura. Ma l’uomo, più forte,
osò aprire le mani e guardare.
Allora quasi nulla che domestico
mi fosse io vidi. Solamente, a volte,
un suono un volo un arco una fanciulla
trovo che già conobbi
alla mia tela, forse
quando ancora ero altrove.
E disperatamente m’innamoro:
come l’esiliato quando legge
all’improvviso nel porto straniero
dove cammina pensoso fra gli odori
un nome di sua lingua su una prora.
URLARE
giovedì 20 settembre 2007, 10.22.15 | molinaro
Mi è venuto in mente all’improvviso stamattina. Ero al secondo anno d’università, poteva
essere l’autunno-inverno del 1973. Uscivo dall’aula di un corso affollato – ma non ricordo
che materia fosse. In corridoio una mia compagna di corso, una ragazza alta, un po’
«cavallona», di cui non ricordo il nome (forse Carla, ma non sono sicuro), mi disse
all’improvviso: «Ma a te non viene mai voglia di urlare?». All’epoca la mia risposta, timido
e chiuso com’ero, fu un mezzo sorriso d’incerto assenso, forse del tutto invisibile. Ma le
rispondo adesso, in leggero ritardo, e la risposta è «sì». Ho voglia di urlare.
Sono rimasto seduto nel prato, mentre gli altri che lodavano la libertà dei prati hanno fatto vite ben diverse e lontane,
mi hanno lasciato lì scusandosi con il dire «scherzavamo» (vedi la poesia qui sotto, scritta nel 1984, a pag. 137 del
solito libro); ho trovato altre compagnie, altre vie, altre donne; ho fatto esperienze così belle che non le avrei sperate
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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a vent’anni. Non è che la mia vita faccia schifo. Devo lavorare molte ore al giorno per un pugno di euro, ma non sarò
certo l’unico. Abito da solo, ma è stata una mia scelta che non rinnego. Scrivo, vivo, conosco, talvolta amo, talvolta
persino sono amato. Ho 54 anni e quasi tutte dicono che potrei dichiararne almeno una decina in meno. Toccando
ferro, finora ho goduto di discreta salute, in casa non ho nessun medicinale (cosa che stupisce molti, quasi quanto
l’assenza del televisore e del forno). Frequento amiche e amici giovani e simpatici, che vedo abbastanza spesso.
Pubblico poesie qua e là, partecipo a varie cose di letteratura. Ho due splendidi figli e due nipotini. I miei rapporti
umani sono infinitamente migliori oggi che quando avevo venti o trent’anni.
Eppure. Eppure. Ho una voglia tremenda di urlare. E non urlo.
LA CELIA
All’uomo seduto nel prato tornarono poi,
una sera, i vecchi compagni dell’adolescenza,
e fra i bicchieri gli fecero un discorso, dicendo:
«Noi si celiava. Credevamo che tu lo sapessi.
Non si può vivere tutta la vita da randagi.
Tutti noi già da tempo ci siamo trovati un lavoro
e abbiamo case decenti e buone mogli e figlioli».
L’uomo guardò l’erba fervida d’insetti
che il sole bagnato del tramonto lustrava di rosa morente,
rispose: «Venite pure a trovarmi, qualche volta»
I marinai se ne innamoreranno
sabato 22 settembre 2007, 11.18.07 | molinaro
Mi fa male il braccio destro, specie il gomito. Forse saranno le
dodici ore al giorno passate ultimamente a zompettare fra topo
e tastiera, forse ho trasportato borse un po’ troppo pesanti,
forse il nipotino tenuto sull’avambraccio, forse le due ore di
massaggi a C. a scioglierle i nodini dei muscoletti, forse qualche
telefonata troppo lunga con il cellulare tenuto all’orecchio, forse
le seghe, forse che ho provato a sollevarmi attaccato alla sbarra di un’altalena,
forse i primi acciacchi dell’età, forse qualche orrenda malattia all’articolazione,
forse uno strappo che non me ne sono accorto, forse niente, comunque mi fa
male il braccio destro e devo pur comunicare questa strabiliante notizia
all’universo. Ciò non mi ha impedito di scrivere stamattina questa specie di
poesia sottostante. Buon sabato.
I MARINAI SE NE INNAMORERANNO
Daresti la vita per le cose a cui tieni. Ne sei certa? E per la vita
che cosa daresti? Cosa sono le cose? Le cose t’hanno fatto
del male, lo sai. Resti come Felicita in un verso di Gozzano
in campagna, ma la villa non è più ridente o mai lo è stata
(s’inventano i poeti tante cose): c’è un angolo ambiguo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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in ogni casa, c’è un orco che passa vicino al paradiso:
non ti mangia, soltanto ti sussurra: non è vero, non è vero.
Gli orchi non sono gli stupidi bestioni delle fiabe popolari:
ci sanno fare, gli orchi. Tu impaurita da naufragi immaginari
ti domandi se t’ama davvero il marinaio reduce da traversate
negli oceani che tu non solcherai. Passerà la nottata. Ma tu
guarda bene dentro la luce del mattino, che è sincera e disegna
un paesaggio diverso da quello dei tuoi sogni notturni.
Un paesaggio più bello – tu ora, lo so, non ci credi – più bello
di quelli dei sogni. Il sogno è come una mamma
premurosa e apprensiva: ti svezza, ti prepara, t’insegna
a conoscere le forme elementari – ma poi è gelosa
e non vuole che tu parta, si fa triste se tu parti. Se tu parti
ti sentirai cattiva per un giorno. Se non parti
diventerai ogni giorno più cupa e cattiva. Non c’è
peggior naufragio che il naufragio immaginario.
Daresti la vita per le cose a cui tieni: a vivere non tieni?
Io non sono nessuno per sputare consigli ma vorrei
consigliarti lo stesso: non sognare di dare la vita
per qualcosa o qualcuno: mettiti bene sveglia e dai la vita
per la tua vita: sarà la tua vita qualcosa e lo sarà
per te e per qualcuno. I marinai se ne innamoreranno.
Senza titolo
sabato 22 settembre 2007, 16.19.49 | molinaro
Oggi mi è arrivata nella mente e nella penna un’altra poesia. Così metto
anche questa nel blog. Non che sia obbligatorio mettere nel blog una
poesia appena la scrivo. Infatti non sempre lo faccio. Ma adesso sono
qui, al computer, ci devo lavorare ancora, mentre fuori è un così bel
pomeriggio, e allora mi viene voglia, e ce la metto. Perché poi è questo,
è la voglia, no? Che altro?
DUE PASSI
Non penso che i giovani d'oggi non abbiano valori. Semplicemente penso
che noi siamo troppo affezionati ai nostri, di valori, per capire quelli dei
giovani. Che avranno a loro volta modo di farsi valere.
(Fabrizio De Andrè, intervistato dopo un concerto a Roma nel 1998)
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Che accade, infine? Ti prendo una mano
o neppur questo: ti guardo e capiamo
che è molto più lunga la muraglia
di quel che si può andare in una vita:
nessuno può abbracciare con lo sguardo
un orizzonte completo; le tracce
dei sentieri cercavano qualcosa
che s’è perso come si perderà
ciò che cerchiamo noi. Però la terra
è benevola al nostro balbettare
parole nuove, al nostro entusiasmarci
d’una scoperta piccola, al brillare
così breve degli occhi che s’incontrano
nel chiaro dolce, prima che sia sera.
Fedeli estremisti
lunedì 24 settembre 2007, 11.15.11 | molinaro
Tranquilli, non sto per parlare dei soliti estremisti islamici (o cattolici). No, restiamo nel
campo delle cose d’amore, insomma di quella cosa fra donne e uomini. Una mia giovane
amica, o fidanzata, insomma una mia giovane amica con cui talvolta si fa l’amore, qualche
tempo fa ha conosciuto un ragazzo su internet (proprio qui, in questo ambito di blog e di
Libero Community). Dopo un po’ di messaggi hanno deciso di vedersi e si sono visti. E si
sono anche trovati bene. Ottima cosa! È sempre un’ottima cosa quando un po’ di questo
virtuale in cui sguazziamo diventa reale. Io spero sempre che mi succeda. Sennonché, il ragazzo in questione, fin dal
primo giorno ha cominciato a smaniare e protestare, appena venuto a conoscenza del fatto che lei ha un altro, anzi
alcuni altri. Le ha detto bruscamente: «Devi scegliere. Non voglio solo le briciole di te».
Io questa faccenda che bisogna scegliere (e dunque escludere, recidere, amputare, mutilare la propria - e in fondo
anche l’altrui - vita) non l’ho mai bene accettata, neppure in un matrimonio; e so di essere poco capito e molto
criticato perciò, ma non so che farci. Però insomma, in un fidanzamento ufficiale, in un matrimonio, sono abituato a
che il problema venga posto (che io lo accetti o no).
Ma è mai possibile che una cosa del genere avvenga pure al primo incontro con una ragazza conosciuta su internet?
Cioè, succede che trovo una che può piacermi, e io piacere a lei, così sembra da qualche messaggio scambiato; ci si
manda qualche mail; poi ci si telefona; poi le propongo di vederci e lei accetta; poi la vedo e ci si piace. Accidenti, ma
quando succede una cosa del genere io sono al settimo cielo, e l’ultima, ma proprio l’ultimissima cosa che mi
verrebbe in mente sarebbe imporre dei limiti, pretendere scelte, cominciare fin da subito a creare problemi! Ma siamo
pazzi?
Se una ragazza mi piace, se addirittura sono innamorato di lei, subito (ma anche dopo) ciò che desidero è che si stia
bene insieme, che ci si dia qualcosa di buono, abbracci carezze sesso sensazioni affetto piacere vicinanza comunione
conforto intreccio d’anima e corpo, tutte le cose belle fra una donna e un uomo. Che lei dia le stesse cose anche a un
altro, o ad altri, non rientra fra le mie preoccupazioni. Ciò che conta è quello che scambia con me; se lo scambia
anche con altri, vuol dire che ne è capace, che ha spazio libero, che forse ama la vita e le persone. Accidenti, se dico
di me stesso che «sono vasto, contengo moltitudini», non sarò così egocentrico da non poter pensare che anche lei «è
vasta, contiene moltitudini».
Per me è così. Ora, lo so bene che il mio discorso è poco condiviso in tanti rapporti «di coppia», fidanzamenti,
matrimoni e simili. Ci sono abituato. Ma che l’estremismo del possesso fedele esclusivo salti fuori già al primo
incontro, questo sinceramente mi stupisce. Non ci vedo nessun germe d’amore. Ci vedo un egoismo invadente che
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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travolge tutto fin dall’inizio.
Bah! Poi, più conosco gente, più mi rendo conto che gli uomini sono peggio delle donne. Qualche ragazza capace di
condividere serenamente un uomo con altre donne l’ho trovata. Non una moltitudine, ma ne ho trovate. Uomini
capaci di condividere serenamente una donna con altri uomini, uhm, fatemi pensare... ecco... no, beh, sembrava...
però... oh, sì, insomma, qualcuno ce ne sarà, ma non me ne viene in mente nessuno.
Detto poi per inciso: l’amore che mi dà l’amica-fidanzata di cui sopra, quella che il tal ragazzo non vuol condividere,
io non lo definirei mai «briciole». Accade di rado fisicamente, anche per ragioni pratico-logistiche, ma nel pensiero è
una presenza quotidiana, ed è importante. Per me è importante.
Strane cose. L’ultimo amore fulminante-passionale ricambiato che ho avuto (ormai qualche anno fa) era pure quello
condiviso (lei aveva qualcun altro) ma è stato assolutamente meraviglioso e lo colloco fra le cose migliori della mia
esistenza. Oggi c’è un amore più pacato e profondo (ma non privo di passione) che mi sta prendendo via via di più, e
anche lì ci sono condivisioni. E poi c’è tutto il resto. E poi si vedrà, domani è un altro giorno. Il braccio mi fa un po’
meno male, devo finire diversi lavori. Buona settimana a tutti!
Le «famose» mie lettere ai giornali
lunedì 24 settembre 2007, 21.39.43 | molinaro
Una volta scrivevo molte lettere ai giornali. E me ne pubblicavano molte, anche più di
cinquanta all’anno. Soprattutto su Stampa, Repubblica e Manifesto, e poi su Cuore e sul
Vernacoliere, e occasionalmente altrove. Nell’immagine ne vedete una pubblicata su Cuore
che creò un po’ di scompiglio, eufemisticamente parlando. [Molto dolorosa per me.] Sì, per
una ventina d’anni (anche di più) almeno cinquanta lettere pubblicate all’anno, fa... mille
lettere pubblicate? Sì, si potrebbe fare un libro, ma non so se sarebbe poi così interessante.
Io non potrei curarlo, comunque, perché quasi tutte quelle lettere le ho perse: sono un pessimo conservatore delle mie
cose, così come Avellaneda è una pessima incitatrice di vita (questa è una frase criptata che credo possa capire solo
una persona al mondo, una persona che purtroppo non vedo da tanto). Bisognerebbe andare a spulciare negli archivi
dei giornali o nelle biblioteche, con pazienza, giornale per giornale, una ventina di annate e più, e raccogliere le
lettere. Se io fossi molto famoso, lo potrebbe fare un volenteroso studente per una tesi di laurea: «La componente
grafomaniaca in Carlo Molinaro: una vita di lettere ai giornali. Consonanze e dissonanze con la produzione poetica.
Alcuni appunti» (alcuni appunti fa sempre figo in fondo a un titolo, agli accademici fa venire un orgasmo). Ma non
sono famoso, e niente tesi! Però è stato divertente scrivere quelle centinaia e centinaia di lettere su di tutto un po’.
Una sul Vernacoliere, mi ricordo, era intitolata Viva le troie; una su La Stampa proponeva l’abolizione del sistema
contributivo per le pensioni e l’assegnazione di mille euro al mese a chiunque avesse compiuto sessant’anni,
indipendentemente da che cosa avesse fatto o versato nella vita: égalité almeno nella vecchiaia. E via farneticando!
Oh, ma ogni tanto ne scrivo ancora, eh! Di meno, ma ne scrivo ancora.
Calipso
giovedì 27 settembre 2007, 1.17.12 | molinaro
Che cosa si può fare quando ci si è alzati alle sei del mattino, si è
lavorato tutto il giorno, e si è smesso di lavorare verso mezzanotte? Si
potrebbe per esempio andare a dormire. Ma invece a me stanotte è
venuta questa poesia, e non potevo non scriverla. E già che l’ho scritta,
ve la metto qui. E poi, per le due e mezzo, a dormire ci vado davvero.
DISCORSO DI CALIPSO
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Mi parli ancora d’Itaca, vorresti
prendere il mare per tornare a casa
– ma quale casa, Ulisse? Non rimane
intatto ciò che tu lasciasti, giovane,
su quella striscia di terra scoscesa:
e se l’isola pure, per miracolo
fosse la stessa, non ritroveresti
nulla del paesaggio che ha dipinto
l’inquieta fantasia per le stagioni
del lungo viaggio fra le meraviglie:
la tua Itaca è il sogno che hai sognato,
è la tua creatura, il desiderio.
Racconteranno ch’io volessi offrirti,
per trattenerti, l’immortalità.
Fandonie di giullari che non sanno.
T’offro solo un amore, vedi: sono
fatta di carne che tu puoi toccare,
di cuore che alle tue carezze balza,
d’anima che s’affaccia agli occhi e ride
se tu sorridi, di vulva che s’apre
umida quando tu vuoi penetrare.
Io sono vera, Ulisse: tu mi temi
per questo: tu non sai fare battaglie
d’amore o d’altro nella realtà:
ti muovi bene solo nel tuo mito.
Itaca è il tuo pretesto, navigare
è la tua fuga. La sposa fedele
è la tua maschera: copre di bronzo
sonante la tua angoscia e la paura
di vivere e rischiare. Sei un vile,
re di tempeste, astuto giocoliere
che ti nascondi in un trucco di scena!
Ma io ti amo. Se tu partirai
verrò con te, che piaccia o no agli dei:
ti seguirò discreta, sarò l’ombra
delle tue ombre, sarò l’improvviso
dubbio, sarò la mano che per sbaglio
tu toccherai e sentirai toccare
fuori dal cerchio: dove vita è vita
e morte è morte e l’amore è amore.
Allora baceremo la petrosa
Itaca, e belli sì, belli da piangere.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 142 di 200
Secondo discorso di Calipso
venerdì 28 settembre 2007, 17.20.04 | molinaro
Al discorso di Calipso, Ulisse ha risposto. Non possiamo trascrivere qui tutta la risposta di
Ulisse, un monologo lungo e intenso: avremmo bisogno del suo permesso scritto e non
sappiamo come fare; le procedure della Siae per i testi provenienti dai Campi Elisi (o Isole
dei Beati) e più in generale dai Regni dell’Oltre non sono ancora ben definite (ma ci stanno
lavorando: non vogliono mica rinunciare a spremere diritti anche da lì, oltre che dalle letture
di poesie benché inedite e dai balli al palchetto!) e quindi soprassediamo. Ma di come ha
risposto Ulisse ci sono tracce comprensibili nella replica di Calipso; e questo secondo discorso di Calipso invece lo
possiamo mettere qui tranquillamente.
SECONDO DISCORSO DI CALIPSO
Navigatore bambino! Ti spaventa
trovarmi bella subito in quest’isola
troppo bella – e dici che nessuna
(delle tue donne avute, innumerevoli)
s’è mai offerta d’esserti compagna
nel viaggio – e ti ripari col propormi,
in vece tua, l’equipaggio intero
della tua nave, uomini valenti
per le mie bramosie – quasi io fossi
una puttana da sbarco. In compenso
ti chiedi come io possa volere
un povero guerriero come te – e dici:
«Niente in me è delicato, niente è degno
d’amore sconsiderato». Bambino!
Bambino! Hai navigato mille mari
e non hai visto mai l’amore in faccia.
Non ha padroni il cuore, non c’è siepe
a limitare l’anima. Nessuno
può comprare né zefiro né ostro:
la dolce brezza soffia quando soffia
e cessa quando cessa. Se io t’amo
ti posso accompagnare in ogni luogo.
Oh quanto grande è l’infinito e quanto
è grande il vuoto dentro l’infinito!
Per questo ci si lega a qualche bitta
d’un qualsiasi molo, a un sagomarsi
claudicante, al bagliore smerigliato
d’un calore possibile in un uscio.
Non sono una vestale, marinaio,
non la vergine sacra a qualche altare:
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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potrei davvero prendere lussuria
da tutta la tua nave questa notte.
Ma domattina ancora ti direi
che se tu parti io parto, perché t’amo.
Bambino immortalato nel poema,
uomo grande, di te non sanno nulla
gli aedi né i compagni né le donne
né tu stesso. Deponi lo scudo,
non difendere il tuo ruvido petto
dall’abbraccio della fragile mia spalla,
dal tepore della mammella candida.
Sarà la prima volta d’una gioia
non recitata a mente – non dovrai
vergognarti se come un ragazzino
imberbe sentirai i tuoi occhi piangere.
Musica genovese
sabato 29 settembre 2007, 2.30.06 | molinaro
Un premio! Ho vinto un premio organizzato a Genova dal Teatro della Tosse per un testo da
musicare. Raccoglievano la scorsa estate in giro per la Liguria testi poetici musicabili, e poi
ne sceglievano uno. E hanno scelto il mio! Poffarbacco! Domenica 30 sulle pagine genovesi
di Repubblica ci dovrebbe essere un articolo a riguardo. Il mio testo sarà stampato sul
programma della nuova stagione del Teatro, e poi avrò la possibilità di lavorare con qualche
valente musicista per musicarlo, o per imparolare una musica loro, o insomma per provare a
fare una o più canzoni, si vedrà. Sono contento! È la prima volta che Genova ricambia il mio amore letterario con un
premio o qualcosa del genere. [Il mio amore-amore l’aveva già ricambiato con i baci di Marì, che valgono più di un
Nobel, anche se stanno ormai nel passato, e da allora il Polcevera e il Bisagno, e anche il Leiro, e pure il Letimbro, ne
hanno buttata d’acqua a mare, e con l'acqua qualche sogno, ma non tutti.] Sono contento e ringrazio chicchessia, gli
organizzatori, la tosse, la repubblica, gli amici che mi hanno fatto avere il bando, il chebabaro di via del Campo e
anche le due ispiratrici del testo, cioè la Luna e la Chiara. Il testo insomma è questo qui sotto. Se poi alla Luna di
Chiara preferite il Chiaro di Luna, fate voi!
LUNA DI CHIARA
Luna di gesso, luna di cartone,
luna di vetro in posa su un bancone,
luna tolta da un cielo sempre caldo,
luna venduta nei negozi in saldo.
Luna rinfusa, luna paccottiglia,
luna che non ce n’è che ti somiglia,
luna-Taiwan spacciata come rara
– no, non è questa la luna di Chiara.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Luna di Chiara non l’avete vista:
da troppi inverni la tiene nascosta:
non è di plastica né cartapesta:
è viva, cresce, lo spazio non basta.
Luna di Chiara è luna sottile:
può lacerarsi fra il ponte e le vele:
ruba lo specchio all’orgoglio del sole:
c’è chi s’inquieta, chi imbraccia il fucile.
Luna di Chiara è vergine cauta:
non la calpesta nessun astronauta.
Luna di Chiara è astuta bagascia:
non fa capire se prende o se lascia.
[Lo so che quella nell'immagine non è Genova, è Savona. Embè?]
L'articolo sul concorso di Genova
domenica 30 settembre 2007, 8.07.13 | molinaro
Oggi è apparso sulle pagine genovesi di «Repubblica» l'articolo sul concorso poeticantautori, lo potete vedere (spero) cliccando qui. Un bell'articolo, c'è il testo della
poesia, c'è la storia del concorso, ci sono le motivazioni della giuria. Secondo
Giorgio Calabrese, membro della giuria e decano della scuola dei cantautori
genovesi, mi sono meritato il podio anche perché ho osato parlare in termini nuovi
di «Selene, giovane e bella come la raffigurano gli artisti» (vedi nell'articolo). Nel
mondo ci sono strane misteriose corrispondenze di senso, a volte penso che tutti noi, anche quando
perfetti sconosciuti, siamo collegati da un destino, per quanto capriccioso e dispettoso esso sia. Buona
domenica!
Cosette belle
lunedì 1 ottobre 2007, 12.43.39 | molinaro
Sabato scorso ho visto un bello spettacolo, fatto da un gruppo che si chiama Officina 04 e
agisce in campo teatrale e più in generale artistico. Lo spettacolo si intitola Ercole
Saviniano signore di Bergerac ed è liberamente tratto da Cyrano de Bergerac di Edmond
Rostand. Lo allestiscono nei posti più svariati, e il pubblico segue gli attori in diversi
ambienti. Sabato sera la cosa è avvenuta sulle scalinate della basilica di Superga. Molto
emozionante. Bravo Cyrano (Saulo Lucci) e bravi tutti. Guardate chi sono, quello che fanno
e quello che hanno in programma, sul loro sito. E poi in tema di cose belle ascoltatevi anche questo Guccini. E poi
stanotte ho dormito tre ore scarse, per finire un lavoro, e adesso esco un po’ all’aria, che se no divento muffa da
computer, e la muffa non mi piace. Fosse almeno la mussa!
L'arte e la fica
lunedì 1 ottobre 2007, 17.57.15 | molinaro
Quando sono uscito di casa, sarà stato un’ora fa, ho fatto due passi, ho comprato tre cachi e
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Carlo Molinaro
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due pere (sia i cachi sia le pere di provenienza romagnola), poi mi sono seduto al tavolino di
un bar, ho preso un caffè d’orzo (cioè un orzo: cosa c’entra il caffè?) in tazza grande, ho scritto il mio nome e la data
di nascita sull’abbonamento mensile del tram di ottobre (bisogna farlo!) e ho scritto anche una poesia. La poesia
adesso è su un foglietto, e penso che la trascriverò qui. Così, tanto per fare qualcosa. Direi che si ricollega al grande
ciclo delle mie poesie sulla fica, la saga vulvocentrica presente soprattutto nei libri jokeriani, da Allo sbocco del
vortice fino a Entro incerti limiti (ma adesso è tutto raccolto nel famoso librone La parola rinvenuta). La fica a volte
è una sineddoche, a volte è un’aura, a volte è un soffio, a volte è Demetra, a volte è terra, è odore animale – a volte è
semplicemente fica.
L’ARTE E LA FICA
Distinguere l’arte dalla fica,
Cesare, non lo so se è cosa d’arte
né cosa fica. Già il verbo distinguere
si distingue per ambiguità: il distinto
signore è quasi sempre un indistinto
puttaniere che ha i soldi per pagare
e disprezzare. So che qualche fica
è artefatta – e forse qualche arte
è ficafatta. Se scrivo una poesia
d’amore, sì, d’amore in senso semplice,
l’amore che intendiamo noi giullari
– non dico Cristo o Gandhi o i santi màrtiri
e non dico nemmeno Che Guevara –
dico per una donna: la cosa che fa scrivere
è che vorrei la fica di colei.
Poi certo, certo, certo, si capisce,
non solo quella: c’è l’anima, lo sguardo,
c’è viaggiare una sera, c’è stupirsi
d’un suo passo o d’un gesto. Ma la fica
comunque la vorrei ogniqualvolta
scrivo versi d’amore con arte
per una donna. Distinguere dunque
non è poi così facile – direi:
non è poi necessario. L’arte c’è
quando c’è. La fica uguale:
c’è quando c’è. Sia l’arte sia la fica
si possono cercare ma sia l’una
sia l’altra non si lasciano trovare
quando vuoi tu, ma solo quando accade.
E così me ne sto con la mia luna
adolescente e non distinguo niente.
Bloganotte
lunedì 1 ottobre 2007, 22.46.28 | molinaro
Stasera voglio andare a letto presto, insomma prima di mezzanotte. Ma ho ancora voglia di
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 146 di 200
scrivere due righe. Scriverle qui. Sono quasi quattro mesi che questo blog esiste. È nato per
caso, un pomeriggio, mi pare, senza nessuna premeditazione. Non ho neppure esagerato nel domandarmi a che cosa
serve. Adesso ho visto che ci sono blog molto specialistici, che trattano un determinato argomento; blog di immagini,
blog letterari, blog che scelgono una linea, un tono. Poi ci sono i blog di puro cazzeggio, ciao buona notte, oggi ho
fatto questo e quello, sono triste sono allegro, un saluto a te, uno anche a te.
Il mio blog è un po’ tutti quei blog e un po’ nessuno. Forse è un po’ originale (se mi consentite di dirlo): già dal modo
di porsi, intitolato Carlo Molinaro, che sono io e non uno pseudonimo, e con i collegamenti al sito letterario e a
quello di lavoro dove trovate pure l’indirizzo di casa e il telefono: ne esisteranno sicuramente (non ho vagato per tutta
la rete), ma fino a oggi non ho trovato nessun blog così diretto, così aperto. Non dico che sia un pregio, e neppure un
difetto: è come è: a me è venuto di farlo così.
Nei messaggi di questo blog ci può essere una mia poesia (questo è un caso abbastanza frequente), magari appena
scritta, o più raramente presa da un mio libro di anni fa. Qualche volta, una poesia altrui, una segnalazione, il
racconto di uno spettacolo visto (come il Cyrano di sabato scorso), la cronaca di un episodio, la storia di una giornata
fra amici o di una festa.
Certo, non c’è omogeneità: c’è di tutto un po’. È un salottino dove racconto qualcosa a caso a chi passa per caso (un
salottino aperto, si entra anche senza bussare, senza doversi vestire in un certo modo e senza portare i cioccolatini) e
dove, anche se non frequentissimamente, qualcuno racconta qualcosa a me, lasciando un commento. Non offro
pasticcini, al massimo qualche verso che talvolta a qualcuno può piacere, e allora sono contento se è un regalo.
E così si va avanti. Stasera mi sento di andare sul personale – come sempre, si dirà – ma ancora un po’ di più. Sono
giornate in cui lavoro molto e arrivo a sera stanco, e sono lavori tirati, ingarbugliati. L’editoria. Molti quasi me la
invidiano: eh, tu lavori nell’editoria. Sì, ragazzi, ma faccio il redattore, l’editor, mica il direttore editoriale. Pasticcio,
preparo, rimescolo e rattoppo testi altrui. Trovate che sia poi così una meraviglia? A me piace scrivere in proprio, ma
per quello non mi paga nessuno. La paga dell’editor è scarsa, io per fortuna non sono un consumista, compro
pochissime cose, quasi niente, eppure spesso mi trovo in difficoltà.
Se qualcuno ha sottomano un lavoro da offrirmi, un lavoro qualsiasi, sì insomma non dodici ore in miniera, ma che
ne so, stare mezza giornata a dare informazioni a uno sportello (non proprio a lui: alle persone che vi si affacciano,
intendo), consegnare pacchi, lucidare maniglie, vendere biglietti, o una portineria con un orario ragionevole, o aiutare
in un negozio, insomma come dicono negli annunci qualsiasi lavoro purché serio (anche non serio, ma un po’
regolare: contratto, contributi), me lo proponga che lo valutiamo. Mica voglio l’oro e i diamanti, a me 999 euro al
mese netti sarebbero manna, quanto cazzo credete che si guadagni con l’editoria? Non sto scherzando. Libero a
partire dal 1° dicembre, diciamo, perché i lavori editoriali che ho in corso li devo finire, mantengo sempre gli
impegni presi.
A proposito di lavoro: domani una mia carissima amica, una a cui voglio molto bene, comincia una supplenza in una
scuola media. So che è il lavoro che le piace, e le auguro che miracolosamente duri tutto l’anno, anche se è difficile.
E adesso vado a dormire, e auguro la buona notte a tutti: a mia figlia con la sua famiglia, a mio figlio, alla mia ex
moglie che fra un mese si risposa, a mia madre che è vecchia (ma poi in fondo ha solo 23 anni più di me), a mia
sorella, agli amici, Cesare, Mac, Marco, Livio, Fabio, Franco quello di Torino e poi chi non mi viene in mente
adesso, alle amiche, Malvina, Claudia, Chiara la Vecchia (in senso pliniano), Alice, Gabriella e poi chi non mi viene
in mente adesso, a quelle che un po’ sono amiche e un po’ le amo e un po’ mi amano (alcune) oppure no, ci sono
situazioni variegate, Clara, Romina, Chiara la Giovane (sempre in senso pliniano), Antonella, alle desaparecidas,
Federica, Elisa, alle ex fidanzate ancora amiche, Grazia, Diletta, Sandra, Claudia la prima, Francesca, alle ex
fidanzate non più amiche, Marì, Valentina, Chiara quella di mezzo (variante pliniana aggiuntiva), Anna, Angelica,
Tiziana, a quelle con cui si è fatta solo una scopata una volta, Silvana, Assunta, Paola, a quelle con cui ci ho solo
provato (qui i nomi sono troppi) e via dicendo, sarebbe molto complesso dare ogni sera a tutti la buona notte. E se
arriva anche di là, buona notte a mio padre, alla zia Rina, a Monica, a Franco quello di Celle Ligure e al Vispo.
Se vado avanti così finisce che faccio tardi anche stasera, meglio concludere. Che sia una buona notte per tutti.
Mi sa che stavolta ho fatto del blog un uso proprio scemo. Ma chi se ne frega. Buona notte.
Le bolle e l'acciaio
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 147 di 200
mercoledì 3 ottobre 2007, 13.46.42 | molinaro
Oggi nella breve pausa dal lavoro che mi sono concesso per l’ora
di pranzo ho mangiato mozzarella e pomodoro e ho scritto una
poesia. La mozzarella e pomodoro non posso condividerla
vobiscum, la poesia sì. Il medico dice che forse dovrei prendere un
quarto di compressa al giorno di Atenololo, per la pressione alta.
Però io ho un’altra teoria: non sarà che ho la pressione alta (non
drammaticamente, però un po’ alta sì) perché faccio cose sotto pressione per circa
20 ore al giorno? Forse è lì che devo agire, più che farmacologicamente. Vabbè.
Oltre tutto Atenololo è un nome così cretino, sembra un alcol derivato dalla scuola
minore di Atene. Vabbè. La poesia la metto qui sotto.
[Un amico mi dice che sono sempre al centro della scena, che sono egocentrico,
sempre lì in prima persona, nelle mie poesie e forse anche altrove. Sarà. Ma ci sono
tanti modi di entrare in scena. Io, è vero, di solito ci entro direttamente, con la mia
faccia e il mio corpo, e sono lì, proprio io, davanti alla platea. Lui di solito, nelle sue
poesie e forse anche altrove, preferisce creare personaggi che fa entrare in scena e
che muove da dietro le quinte, tirandone i fili. Scelta rispettabile, stile valido, il suo
come il mio. Ma non credo faccia differenza a livello di presenza: chi tira i fili impronta
di sé la scena non meno di chi vi entra in carne e ossa, attore e regista nudo.]
LE BOLLE E L’ACCIAIO
Non si sa mai: l’amore rutilante,
splendente di colori arcobaleno,
fiero nel sole, leggero, volante,
può essere una bolla di sapone
e scoppiare e diventare niente.
L’amore un po’ più grigio, più nascosto,
magari ambiguo, con qualche sospetto
di carenza d’affetto da colmare,
di convenienza pratica, di patto
freddo, può durare come acciaio.
Però queste metafore da poeti
sono aria fritta anzi sono stronzate.
L’amore-bolla, finché vola al vento,
è amore-amore ed è meraviglioso.
E infine anche l’acciaio non è eterno.
Anche se va a capo ogni tanto, non è una poesia: è un semplice pensierino
della sera
mercoledì 3 ottobre 2007, 22.39.22 | molinaro
Scorre rapido il tempo.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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È già sera. Di lavoro ho prodotto
molto meno di quel che avrei voluto
– mi tireranno un po’ il culo –
eppure sono stanco.
Sul diario della allora ragazzina
che mi ha regalato la ora ragazza
leggo Oggi 23 settembre
mi sono innamorata di [segue nome
e cognome]. Che freschezza
innamorarsi tutta in un giorno
e scriverlo sul diario.
Vorrei che lo riscrivesse oggi
e fosse mio quel nome e cognome
ma ora è laureata e io sono vecchio
– dunque è soltanto una farneticazione
da evitare. Sono stanco.
Scorre rapido il tempo.
Ma quanto, quanto se ne butta via!
Non dovrei cenare così spesso al cinese,
probabilmente, ma la cameriera
è carina e il menù costa sei euro
caffè compreso.
Del resto il pollo con mandorle
non è un cibo cattivo. A me piace.
Del resto è un privilegio non da poco
ricevere in regalo un diario segreto
che nessuno, nessuno, nessuno ha mai letto
prima di me. Basta non ricamarci
troppo sopra: prenderlo come un regalo
di confidenza preziosa – ciò che è.
Scorre rapido il tempo.
L’amico romeno a cui ho dato qualche aiuto
(traduzioni, annunci, referenze, recapito
presso di me) mi ha regalato uno scaffale.
Così ho aperto scatole di cose
per sistemarle nel nuovo scaffale
e sono saltate fuori lettere di tanti anni fa:
lettere di ragazze, di donne
con dentro dell’amore così vero
che io escludo possa essere finito.
No, c’è ancora tutto. Scorre il tempo
e sono stanco sì però ho voglia
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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di progettare e fare. Domattina
lavorerò in modo più razionale
per portarmi più avanti. Cercherò,
finito questo, lavori diversi.
Prenderò le cose con forza e calma.
C’è da cambiare. Forse anche abitare
con qualcuno. C’è da fare.
Andiamo avanti. Nell’immediato
domani sera vedo Claudia se tutto va bene,
venerdì sera c’è la presentazione del libro
di Luisa e giovedì della prossima settimana
quello di Chiara alla libreria Massena.
Ma domani devo fare assolutamente
cento pagine di editing, non una di meno.
Con serietà, avanti, andiamo avanti.
Scorre rapido il tempo, non lasciamo
che scorra invano.
Ancora si lavora, ancora si sogna, ancora
ci s’innamora. Ci sono
grandi progetti per questo presente.
Scorre rapido il tempo, sono già
le 23.39 e ora clicco e vado a dormire.
Tossendo a Genova la mia "canzone"
giovedì 4 ottobre 2007, 16.07.52 | molinaro
Giovedì 11 ottobre a Genova, alle sei del pomeriggio, alla Fondazione Luzzati
- Teatro della Tosse, in piazza Renato Negri 6/2, sarà presentata la stagione
2007-2008 del Teatro della Tosse. Ci sarà musica dal vivo in Lengua
Serpentina (vedi immagine) e sarà anche letta, da un attore della Tosse, la
mia poesia-canzone Luna di Chiara, vincitrice del concorso dei poeticantautori (vedi il messaggio n. 116).
Io non ci sarò, perché ho un concomitante impegno la sera a Torino, la presentazione del libro di
Chiara - curiosa coincidenza di nomi, anche un po' affascinante, no?
Ma se tu ci vuoi andare, la mia poesia-canzone ci sarà!
Se invece sei dalle parti di Torino, la sera dell'11 ottobre, vieni alla libreria Massena 28 (in via
Massena 28, ça va sans dire) alle 21.15 e mi ci trovi a presentare il libro di Chiara, con Chiara
stessa e (spero) tanta bella gente simpatica.
Tutte queste parole, questi versi
venerdì 5 ottobre 2007, 14.54.38 | molinaro
Tutte queste parole, questi versi.
Un castello di carte di cristallo.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Luccica sì. Però basta un voltarsi
d’una bava di brezza inavvertibile
o un gesto goffo, una mossa sbagliata
e cade giù. Non solo si sparpaglia
ma si frantuma. Tutto quel lavoro.
Che m’importa. In un refolo d’aria
c’è più vivere che nei castelli.
Starò disteso con gli occhi socchiusi
ad aspettare. Qualcuno verrà.
Non sentirò i suoi passi. Sarà aprendo
gli occhi – per uno scatto involontario
d’un nervo – che lo troverò vicino.
[nell'immagine, la pagina del mio diario del 3 giugno 1969 - il numero 5786 in verde accanto alla data è il
conteggio dei giorni della mia vita fino a quel giorno, compreso - ho smesso di contarli quando ho smesso
di tenere un diario - mica tanto tempo fa, a dire il vero]
[la poesia invece l'ho scritta pochi minuti fa]
Canzonetta dei te
sabato 6 ottobre 2007, 11.24.49 | molinaro
Ecco, una canzonetta scritta stamattina, fra una pagina e l’altra del
lavoro. Poi viene a trovarmi un’amica e pranziamo sul terrazzo, adesso
che è tutto pulito e liberato dal ciarpame! Ho comprato persino una
tovaglietta su una bancarella. Il cielo è velato ma direi che sul terrazzo
c’è un buon clima.
[Nell'immagine, foto presa sul mio terrazzo, con amica che ha voluto posare
in posizione secondo me pericolosissima - siamo al quarto piano - io non volevo, avevo paura!]
CANZONETTA DEI TE
ad A., C., C., R., C., G. e F.
(I te. Giusto così senza accento: non voglio parlare
d’infusi diffusi fra gli indiani o gli inglesi.)
(No: penso a tutti i te che ci sono nella mia vita
e in particolare – certo, certo! – negli amori.)
Te che ti vedo e parliamo ancora ma da un anno
anzi ormai più di un anno non facciamo più l’amore
e dici che si stanno sciogliendo dei nodi
– e ne sciogliamo uno ogni tre o quattro mesi:
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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se sono tanti, come pare, non basterà la vita.
Te che ho cominciato ad amarti dopo averti vista nuda
e ho faticato a vederti nuda non perché tu non volessi
ma perché il mio sguardo esitava a guardarti:
aveva paura di trovarti troppo vecchia
anche se in fondo sei più giovane di me
– ma sai lo sguardo lui è fatto così.
Te che ti sposerei senza prima vederti nuda
(e conosco tanta gente che nuda t’ha vista)
così, verrei a stare al tuo paese,
a incontrare le pietre le strade gli usci
se tu volessi – giocherei questo azzardo
fingendo tutta la vita in una canzone
e scommettendo che diventa realtà.
Te che t’ho ritrovata dieci anni dopo
e ci diamo baci rari ma freschi come mattine
e non facciamo nessun progetto particolare
se non continuare a vederci ogni tanto e baciarci
e far l’amore le poche volte che possiamo.
Te che ci parliamo per ore e poi se non parliamo
dopo tre giorni sento già la tua mancanza
e a volte dormiamo pure nello stesso letto
senza toccarci come fratellino e sorellina
salvo un poco di massaggi sulla schiena
e fatico a pensare i miei mesi senza te.
Te che ci siamo guardati negli occhi alla stazione
e abbiamo capito che siamo ancora buoni amici
e c’è forse anche dell’altro ma la notte a casa tua
non abbiamo osato, non ci sembrava il caso,
siamo rimasti lentamente a raccontare
il complesso dipanarsi delle vite.
Te che sei sparita e non mi rispondi
e ormai ho quasi rinunciato a cercarti,
forse non saprò mai che cosa è andato storto
dopo anni così lunghi d’amicizia e d’amore:
non riesco a pensare che non durino ancora
ma devo rassegnarmi che invece così sia.
Credo di avere fatto sette strofe
con sette te ma potrei continuare:
la diagnosi, secondo la dottrina tradizionale,
è che non sono innamorato di nessuna
– però quante dottrine tradizionali già
sono state superate o smascherate
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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da nuove scoperte, da nuovi orizzonti.
Così io te io credo te di amarti te proprio
e scrivo questa piccola canzonetta dei te
e dichiaro che è una canzonetta d’amore
poi la concludo ti bacio e ritorno a lavorare.
La torta, la metro, l'assenza, il terrazzo, le cosce, l'incredula disperazione, la
bellezza
domenica 7 ottobre 2007, 12.59.29 | molinaro
Mi telefona mia madre: «Ho fatto la torta Duchessa, stasera devi venire
assolutamente». In realtà vado a cena da lei a Vercelli quasi tutte le
domeniche, ma oggi è proprio obbligatorio. Erano anni che le chiedevo di
rifare la torta Duchessa: la faceva tanto tempo fa, poi non più – è un
dolce di cioccolato, burro, noci e panna, una bomba calorica. Chissà
perché ha deciso proprio adesso di accontentarmi. Forse le ultime volte
mi ha visto un po’ deperito o depresso.
Sono uscito e ho preso la metropolitana, il nuovo pezzo di metropolitana che hanno
inaugurato ieri o l’altro ieri. Adesso arriva a Porta Nuova ed è comoda. E c’è una stazione
proprio all’imbocco di via Massena, così all’invito per la presentazione del libro di Chiara ho
appena aggiunto: «metropolitana Re Umberto». Mica roba da niente. Invece la stazione della
metro più vicina a casa mia è Principi d’Acaja. Qui a Torino la toponomastica è molto
sabauda.
Ho riletto la canzonetta dei te, quella scritta ieri, e ho constatato che fra le sette «te» non è
inclusa Marì, uno dei miei amori più forti del XXI secolo. Vorrà dir qualcosa? Vorrà dir che
non era poi così forte? Secondo me no, assolutamente no. Vuol solo dire che le cose vengono
in mente così come vengono, a volte alcune a volte altre. Se l’avessi scritta oggi forse sarei
partito proprio da Marì, ma l’ho scritta ieri ed è andata diversamente. D’altronde è dichiarato
che le magnifiche sette sono solo una rappresentanza di un gruppo più esteso, per fortuna
mia. È assente anche Diletta, grandissimo amore. Quella della canzonetta non è una top
seven, è un pensiero buttato giù a caso in un qualsiasi mattino.
Ora che il terrazzino di casa mia è pulito, pensavo di organizzare una lettura di poesia sul
terrazzo. Non è enorme ma neppure piccolo. In dieci ci si sta. Per le sedie... aspetta che
guardo quante ne ho in casa. Un attimo.
Ecco, ho sette sedie propriamente definibili come tali, ma si possono adattare al ruolo di
sedia altre entità compatibili. Che ne dite? Lettura di poesia sul terrazzo, suona bene, certo
adesso si va verso l’inverno, però può essere un’idea. Ha qualcosa di romano, ma soprattutto
qualcosa di dolce. Ci pensiamo.
Stamattina rifacendo il letto... cioè, non esageriamo: ributtando sul letto la coperta alla bell’e
meglio, mi sono venute in mente, precise, le cosce di Federica. Federica aveva (non so se ha
tuttora) un modo speciale di lasciarsi andare sul letto dischiudendo le cosce, e anche un
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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modo speciale di premermele sui lombi mentre io entravo in lei. Mi metteva particolarmente
a mio agio e dimostrava sé stessa particolarmente a suo agio, con benèfici effetti sull’umore,
sul piacere e anche su un’altra cosa. Pure il pensiero di stamattina credo che sia del tutto
casuale, magari derivato da un sogno notturno, o da qualche inconscio coincidere
d’immagini. I pensieri si concatenano in modi incontrollabili.
Clara mi ha raccontato di aver raccolto un gatto morente, vittima della strada, e di avere
visto nei suoi occhi una disperazione incredula, nell’andare incontro alla morte – e di essere
stata colpita profondamente dallo sguardo di quel gatto. Clara è una delle donne più sensibili
che io conosca. Forse, con tutte le nostre presunzioni e religioni e filosofie, nell’ultimo istante
moriamo anche noi umani come i gatti, con negli occhi una disperazione incredula: ma
possibile, ma possibile che sia così, ma possibile che io muoia? Come se non lo avessimo mai
saputo. Forse qualcosa dentro di noi è gatto, e non sa.
Cesare dice che l’uomo è allo stesso tempo amico e nemico della bellezza. Credo che abbia
ragione, anche se tutto è ancora più ingarbugliato, anche se la bellezza forse certe volte è un
qualcosa che, alle persone e alle cose, gliela decidiamo noi, come decidiamo il sorriso alla
passante di quella canzone: quella quasi da immaginare / tanto di fretta l'hai vista passare /
dal balcone a un segreto più in là / e ti piace ricordarne il sorriso / che non ti ha fatto e che
tu le hai deciso / in un vuoto di felicità.
Ecco che è lunedì mattina
lunedì 8 ottobre 2007, 9.00.04 | molinaro
Altra settimana, ma avendo lavorato anche il sabato e la domenica non mi accorgo tanto del
cambio. Il superlavoro che faccio è indubbiamente molto fruttuoso (nell’immagine, il saldo
del mio conto stamattina), però tante volte vorrei fare qualcosa di manuale e tranquillo, con
orari ben delimitati, non so, il magazziniere, qualcosa del genere.
Questa settimana è poi densa di occasioni poetiche. Domani pomeriggio, martedì, sarò
impegnato al Circolo dei Lettori in una presentazione reciproca con Guido Catalano
nell’ambito del festival Torino Poesia (il programma completo delle manifestazioni di Torino Poesia, con un sacco
di cose interessanti, è qui). E giovedì sera alla libreria Massena presento il libro di Chiara: venite, che vale la pena:
chi non c’è mai stato scoprirà anche uno spazio culturale molto interessante.
E vabbè. Rimettiamoci al lavoro. Buon lunedì, ragazze e ragazzi.
Da un abbiocco
martedì 9 ottobre 2007, 7.11.39 | molinaro
Dormo poco in queste notti, poi succede che in mezzo al
pomeriggio, in un improvviso senso di quiete, m’addormento ma
non del tutto, un po’ sì e un po’ no, e un po’ penso e un po’ dormo,
e un po’ guardo e un po’ sogno, e ieri è andata così, e ci ho scritto
una poesia. Adesso ho da lavorare poi dopo pranzo c’è la
presentazione incrociata con Guido Catalano, come dicevo nel
messaggio di ieri. Buondì.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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DA UN ABBIOCCO
Un filo d’aria spinge una tendina
a sporgersi da un taglio di finestra
nel pomeriggio fermo. M’addormento
a tratti e a brevi tratti mi risveglio
mischiando il sogno in sonno al quasi sogno
dello sguardo che fruga nella luce
sparpagliata nello spazio fra i muri
cercando scene al proprio immaginare
o soprattutto impreviste comparse
fuori tema, persone che rivelino
la novità: questo è un altro teatro,
il programma di sala era sbagliato:
alla finestra s’affaccia qualcuno
che non conosco e non è storia mia:
merita dunque muovermi, scoprire.
Poesie incrociate
mercoledì 10 ottobre 2007, 8.40.22 | molinaro
Ieri il pomeriggio di «presentazioni incrociate» al Circolo dei Lettori è andato bene. Guido
Catalano e io ci siamo letti vicendevolmente (cioè io ho letto poesie sue e lui poesie mie),
ma soprattutto abbiamo dialogato e detto e fatto cose varie. Mi sembra che l’effetto sia stato
buono. A me è piaciuto il modo in cui Guido mi ha letto, e penso che a lui sia piaciuto
abbastanza come l’ho letto io. Il filo tematico che abbiamo seguito è stato, più o meno,
quello dell’amore e della solitudine. Le poesie che abbiamo letto come gran finale sono
state la mia Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare (pag. 567-568 del mio librone) e la sua I sombi
(che è sul suo blog). Comunque ve le metto tutte e due qui sotto.
Poi io mi sono lanciato anche in una sperimentazione, cioè lipperlì ho «detto» una poesia di ispirazione catalaniana.
Cioè ho inventato, improvvisato una poesia (d’amore) assumendo uno stile catalaniano. Voleva essere un omaggio e,
anche, voleva mostrare che la contaminazione, la fusione, la vicinanza di esperienze poetiche può essere fertile, utile,
positiva. Credo che i gruppi, le «scuole», le correnti, o qualcosa del genere, nascano così, scoprendo affinità: non le
puoi creare a comando, e recenti esperienze lo dimostrano. Il rischio era quello della parodia, o addirittura della presa
per il culo, lo so, ma credo/spero di averlo evitato: ho scelto di «fare» una poesia d’amore, che emotivamente dentro
di me era troppo forte per poter scadere in parodia. Ne è uscita una poesia d’amore per una donna, con dentro una
enclave d’amore per un’altra donna, sostenuta anche da una componente visiva (un gesto d’amore di una delle due
donne manifestato nel fatto che lei mi aveva rivoltato il colletto della camicia, della camicia che avevo addosso
proprio lì durante la lettura: una vecchia camicia consunta ma a cui sono affezionato, e lei mesi fa mi ha rivoltato il
colletto, per renderlo un po’ meno liso, un lavoro di cucito, e a me questo è sembrato un gesto d’amore): poesia, arte
visiva-gestuale, improvvisazione vera (decisa sul momento), contaminazione di stili in praesentia: questa è
sperimentazione di livello, a noi le avanguardie milanesi ci fanno un baffo!
Il titolo della poesia è Il verso lapsus, e deriva dal fatto che una delle due donne (l’altra, non quella del colletto) mi ha
scritto alcune poesie «di diniego» (anche questo potrebbe essere un genere letterario nuovo), cioè poesie per dare un
due di picche, però piuttosto belle, e dove l’innamorato alla fine cerca sempre uno spiraglio di non diniego (l’anello
che non tiene, il filo da sbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità, come scrive Montale) e in questo
caso il verso di lei, della fanciulla, è scioglierò la tua fantasia con il mio ghiaccio, che è certo un diniego,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 155 di 200
l’intenzione di gelare le fantasiose avances dell’altro, però quel verbo sciogliere è un po’ un lapsus, più o meno
freudiano, perché non è adatto, ci sarebbe voluto appunto un gelerò o qualcosa del genere, perché nella sequenza
sintagmatica sciogliere+fantasia+ghiaccio la struttura profonda (si vedano gli studi di Saussure e dello strutturalismo
linguistico, la grammatica generativa, con intersezioni alla psicanalisi e alla teoria antropologica dei modelli
ancestrali nel subconscio collettivo) indica che ciò che può sciogliersi è casomai il ghiaccio, e a scioglierlo è la
fantasia, e dunque! Più semplicemente, tutto questo indica quanto un innamorato può arrampicarsi sugli specchi per
vedere un non diniego in un diniego.
Ma questa poesia non la leggerete mai (al massimo ne emergeranno tracce in poesie che scriverò, ma diverse), perché
non è mai stata scritta, è stata solo detta, e non c’erano (credo) registratori, e chi era là l’ha ascoltata (se è stato
attento), e nessun altro mai la ascolterà né leggerà. L’arte in un solo attimo, come le statue di ghiaccio e i castelli di
sabbia, ecco.
Sì, Guido e io abbiamo fatto della sperimentazione di livello, lasciatemelo dire! Insomma, si fa qualcosa, quel che si
può, finché siamo qui, facciamo cose di livello, finché non arriva la livella, quella di Totò. Da bambino mi piaceva un
sacco stare al passaggio a livello a veder passare i treni, dopo che si erano abbassate le sbarre facendo dlin dlon dlin
dlon, ma adesso li hanno sostituiti quasi tutti con sottopassaggi, perché la gente non ha più voglia di soffermarsi,
hanno tutti fretta. Sì, che vita di corsa. Adesso corro dalla commercialista ma al ritorno devo ricordarmi di comprare
almeno la carta igienica se no finisce che devo pulirmelo con le Pagine gialle, come facevo ai tempi dell'università.
I SOMBI
vampiri?
no
lupi mannari?
no no
spettri?
nemmanco
mostri spaziali?
neanche
demoni?
ma figurati
ciò che più io temo
che mi fan tanto ma tanto spavento
ma tanto
son: i sombi
i sombi son i morti che tornano
essi camminano morti purulenti
lenti camminano gli cadono i pezzi
ma non si fermano e sono tanti
che uno pensa tanto io scappo
ma loro sono anche più di cento
e non si fermano
mai
tu se hai un fucile devi sparargli la testa
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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l’unico modo e sparargli la testa
allora cadono
ma ce ne son altri dietro
e altri ancora dietro
e dietro ancora
e altri
escono di dappertutto
da sotto la terra
da dietro le porte
dalle botole
dalle finestre
dal soffitto
scardinano rompono piano piano
e ti trovi circondato
voglion mangiarci le nostre carni
e se ti mordono poi
ti viene il male
e diventi anche tu un sombo
essi basta loro di graffiarti
con l’unghìolo sombico
basta giuro un piccolo graffio
e tu ti sombifichi
diventi un sombo
allora se tu vedi anche fosse tua sorella amata
che è stata anche solo un po’ ma poco graffiata
allora tu mi dispiace
devi ammazzarla
spararle in testa subito
prima che diventi un sombo femmina
e se tu invece a te capita
che un sombo ti graffia o anche solo ti da un morsichino
allora tu devi avere coraggio
essere sincero con te stesso
e spararti una palla nella testa
se non c’è soprattutto nessuno che ti aiuta farlo
fallo
qualcuno ha detto che pena i sombi
che pena poverini i sombi
sono metafora sociale i sombi
ma che metafora e metafora sociale stupidone!
trovati circondato da trenta sombi
dentro una casa di legno
o nella tua macchina in panne
o in un bosco buio senza luna
allora lì poi ti voglio vedere la metafora sociale
quando ti mordono la chiappa
allora lì
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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ti voglio
la metafora
mamma mia speriamo mai di no
Guido Catalano
QUESTA SOLITUDINE NON È POI COSÌ AGEVOLE DA SOPPORTARE
Premessa. Non voglio fare discorsi da artista maledetto,
tantomeno discorsi retorici sulla solitudine del poeta. Metto le mani avanti.
Pensavo solo che Cesare Pavese all’incirca alla mia età
(qualche anno di meno se non sbaglio)
si è ucciso. Non ci risulta che avesse il cancro né altri gravi problemi;
aveva un certo successo,
pubblicava dai migliori editori o comunque da buoni editori;
non aveva grane economiche, era in crescita;
credo potesse permettersi di «vivere dello scrivere», cosa che io non potrò mai.
Eppure si è ucciso.
Forse c’è qualcosa che isola, demarca, disadatta l’artista – qualcosa così.
Prendiamo questo mio vivere libero
che a me pare l’unico possibile
e che soprattutto mi pare aperto, amorevole, disponibile,
rivolto agli altri con un sorriso complice.
Questo mio vivere viene perlopiù respinto al mittente
come una lettera non desiderata,
come se fosse mostruoso, egoista, odioso, inaccettabile.
Certo, non so se tutto ciò sia in qualche modo legato all’essere poeti.
Forse sarebbe stata questa la mia visione (e passione) del mondo
anche se non avessi mai scritto un solo verso.
O forse invece un legame c’è. Chi potrà mai dirlo.
Questo avere una vita direi meravigliosa da offrire e gli altri
te la risputano in faccia come fosse merda fresca.
Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare.
Mah.
Queste sono parole così, parole che forse non servono a nulla.
Magari Cesare Pavese aveva tutt’altri motivi per uccidersi, non lo sapremo mai.
Io del resto non ho alcuna intenzione di uccidermi:
sono troppo pigro per mettermi a fare una cosa che col tempo viene da sé.
E comunque la mia vita è meravigliosa e amorevole
– e andate a farvi fottere.
Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare, ecco tutto.
Ma ci sono altre solitudini e altre difficoltà e ognuno ha la sua croce e amen.
Basta. Non voglio fare discorsi da artista maledetto;
se (poniamo) sono un artista è perché sono benedetto;
prendo un caffè e faccio ancora due passi sul lungomare di Pesaro.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Carlo Molinaro
Il contatore
giovedì 11 ottobre 2007, 0.00.13 | molinaro
Il contatore del blog gira molto più in fretta di quello del sito. Mentre scrivo, il sito conta
17.469 visitatori dal 5 dicembre 2000: cioè in quasi sette anni. Il blog conta 17.367 visitatori
dal 4 giugno 2007: cioè in poco più di quattro mesi: è il momento del sorpasso. In quattro
mesi il blog ha contato visitatori come il sito in sette anni. Povero sito, andate a vederlo
ogni tanto. Capisco che è più statico, lo aggiorno raramente, però insomma!
Va bene. Le città sono donne, Venezia è Clara, Vicenza è Romina, Savona è Chiara,
Genova è Marì, Parma è Federica, Como è Grazia, Monopoli è Sandra, Friburgo è Francesca, Villastellone è Diletta,
Vigevano è Antonella, Oleggio è Valentina, Ivrea è Claudia, Cosseria è Cristina, Bucarest è Rita, Vercelli è nulla,
Torino è un’altra Claudia, Pesaro è Elisa, Borgo d’Ale è Alice, Milano è Angelica, Torino è anche Tiziana, Mazara
del Vallo è Titty, Montevarchi è Serena, Napoli è Isabella e così via. Rimane vero anche se alcune di queste donne
non le vedo da anni, così come alcune di queste città. La geografia amorosa è per sempre. Si può arricchire di nuovi
luoghi, ma non può perderne.
Giornate di lavoro intenso, di poca resa, di un qualche affanno, questo precipitoso ottobre. Ma prendiamo le pause
giuste per le cose buone. Non facciamoci travolgere. Stasera, giovedì, c’è la presentazione del libro di Chiara, e lo so
che l’ho già detto alcune volte, ma come non dirlo ancora nel giorno giusto? Nell’immagine, Chiara alla cena del suo
compleanno, un mese fa. Foto fatta col telefonino, al volo.
La sera dopo, venerdì, domani insomma, nello stesso luogo presenta le sue poesie Guido Catalano: un’altra serata che
merita. La libreria Massena secondo me può diventare a Torino un punto d’incontro importante (no, non ho nessuna
partecipazione agli utili, è un parere disinteressato). Fra l’altro, è anche una libreria che vi fa arrivare i libri, se li
chiedete, per esempio anche il mio (ecco, qua sono già un po’ meno disinteressato), ma comunque tutti quelli dei
«piccoli», che se li chiedete in altre librerie magari vi mandano gentilmente a quel paese. Ci sono ancora copie
disponibili delle Poesiole doppiosensuali di Clara Vajthò, e da domani ce ne saranno di Il tempo è scaduto di Chiara
Borghi, e c’è anche Izet Sarajlić, per completare la trilogia che misi nel secondo messaggio di questo blog, agli
albori. Sicché!
La serata di Chiara
venerdì 12 ottobre 2007, 1.04.15 | molinaro
La presentazione del libro di Chiara è andata bene. C’era abbastanza
gente, considerando che a presentarsi era un’esordiente che, non
essendo di Torino, non poteva contare nemmeno sulla cerchia degli amici
che vanno alle presentazioni per amicizia appunto, si sa com’è!
Gente che ha partecipato, anche, con domande, osservazioni, discorsi.
Una serata viva. Chiara ha raccontato sé stessa e io ho raccontato
Chiara e tutti e due abbiamo raccontato il libro e ne abbiamo letto qualche pagina (poche,
perché le pagine stralciate da un racconto possono facilmente annoiare). Ho letto fra l’altro la
descrizione di Genova che riporto qui sotto. Poi si è tirato tardi a mangiare qualcosa e a
bere, anche se a quel punto Chiara è dovuta andare via perché è venuto a prenderla il suo
fidanzato che poi stamattina lei deve essere a scuola alle otto meno un quarto. Se no poteva
fermarsi a dormire da me, da me c’è posto, la mia casa è ospitale. Bene. Adesso a dormire ci
vado io, contento che la serata alla libreria Massena sia andata bene, bene per tutti. La
libreria Massena è proprio un bel posto che fa delle belle cose (c’è il collegamento al suo sito
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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nelle pagine amiche di questo blog).
A Genova le scale si intersecano le une con le altre e si sovrappongono in geometrici giochi di vicoli stretti
e gallerie di ciottoli.
La giornata prende vita su quelle scale, nel salirle e nello scenderle prudente, con le ginocchia che
tremano un poco e l’occhio buttato a terra, lanciato su ogni gradino come una mano tesa a fare
conoscenza.
Le ore che Genova ti concede sono un saliscendi di emozioni e parole a raffica, come uscite da una radio
impazzita, che alla fine diventano scontate – e allora si tace e ci si ferma immobili, ci si mette alla finestra
a guardare le luci delle case sulla collina che disegnano un presepe. Mi accorgo che solo pochi sanno
immaginarlo.
Quando imbrunisce, Genova accende i neon, gialli, rossi ma soprattutto verdi, delle osterie dove si va a
bere e si tira tardi.
Genova accende i riflettori e diventa teatro, palcoscenico di una rappresentazione grottesca: si mette a
brillare con il trucco pesante sugli occhi, come una prostituta del centro storico. L’insegna della Campari
s’improvvisa stella cometa se la fissi un po’ stringendo le palpebre dalla piazza della stazione Principe.
C’è una Genova distinta sulla circonvallazione a monte, una Genova che sta zitta quando ti vede e non ti
saluta, ma ti guarda.
Genova non m’assomiglia se non per il buio del mare che confonde e infonde una nostalgia sottile.
Genova ti conquista, ora dopo ora, mentre la percorri e ripercorri per fermate e numeri di bus. Genova ti
seduce come un amante che si nega al telefono quando lo chiami e che ti rifiuta ogni invito, ma che ti
richiama sempre il mattino dopo per sapere che cosa hai fatto la sera senza di lui.
Le case a Genova si arrampicano le une sulle altre, sono peluche su un armadio minuscolo, sono cozze
nere su uno scoglio scosceso, sono la creazione di un bimbo con le costruzioni a mattoncini.
Genova è ardesia, asfalto e mare in successione, dalla spianata di Castelletto. Genova è una maga che
non regala niente, ti fa sudare ogni cosa e ti tende tranelli, ti costruisce labirinti per farti perdere, perché
non vuole essere scoperta.
Genova è una ricca signora, legnosa e magra, che si cambia d’abito più volte durante il giorno, bara
quando gioca a carte in salotto, circuisce i suoi amanti e poi li inganna e li abbandona.
(da Il tempo è scaduto, di Chiara Borghi, Edizioni Joker, Novi Ligure 2007, pp. 47-48)
Poesia scritta testé
venerdì 12 ottobre 2007, 14.24.56 | molinaro
LA TAZZA DI ANTONELLA
L’ha comprata che ci conoscevamo
da poco, ed è sempre rimasta
in casa mia. È una tazza rotonda
senza manico, color terracotta,
d’una misura strana: troppo grande
per il caffè, però troppo piccola
per il tè o la tisana. Io la uso
per il caffè, che mi piace allungato.
Saranno dieci anni che la uso.
Ha un’incrinatura. Da due o tre anni
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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ha un’incrinatura che, come fanno
le incrinature, nel tempo va avanti:
parte dal bordo, s’incurva e prosegue
più o meno orizzontale: ha ormai percorso
quasi metà della circonferenza.
Penso ogni volta: devo buttarla via
prima che mi si rompa nelle mani.
Poi penso: no, perché buttarla via?
– finché dura la uso, ma devo prepararmi
all’idea che si rompa, devo essere
pronto, per non restarci troppo male.
Ma veramente non c’è nessun metodo
per non restarci male. Non c’è modo
di prepararsi. Si può solo scegliere
se buttare la tazza al primo allarme
(il male adesso, dare un pugno e via
nascondendo nel colpo l’amarezza)
o tenerla, tenerla finché dura
(il male un giorno, un qualsiasi giorno
incredulo e improvviso tradimento).
Io scelgo la seconda. Sia perché
ogni caffè è un caffè guadagnato
nella bella tazzina color terracotta
– e sia perché l’anno scorso una tazza
gialla, solida, intatta, di quelle
da colazione, mentre la sciacquavo
così d’un tratto mi s’è rotta in mano
e m’ha tagliato malamente, ho perso
sangue nel lavandino – e non aveva,
all’apparenza, alcuna incrinatura.
Torino, 12 ottobre 2007, all’ora di pranzo
[anche l'immagine, raffigurante la tazza in questione, è di pochi istanti fa, «in diretta»: scattata con il
telefonino e mandata sul computer via mail - a volte ancora mi sconcertano queste moderne tecnologie.
Eh? come? ma sì, certo che la tazza esiste, eccola lì: non sono capace di inventare le cose, sono un
semplice descrittore del mondo, del mondo che c'è]
Terzo discorso di Calipso
venerdì 12 ottobre 2007, 19.24.43 | molinaro
Al secondo discorso di Calipso, dopo che al primo, Ulisse ha risposto ancora (si vedano i
messaggi 114 e 115). Come al solito la Siae, sezione Campi Elisi, impedisce la
pubblicazione qui del discorso di Ulisse (ma prima o poi si troverà un accordo: sentiremo
anche il parere di Al Gore, adesso che gli hanno dato il Nobel per la pace). Quindi mettiamo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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solo il discorso di Calipso, con la quale abbiamo un rapporto privilegiato di concessione
copy free. Il dialogo fra quei due comunque ha un certo interesse, io trovo. Dai tempi di Omero certe sfere interiori
non sono poi cambiate granché.
TERZO DISCORSO DI CALIPSO
Non c’è amore che non generi dolore
o invidia o gelosia. Per me ti voglio:
non è un capriccio il mio. Se tu tornassi
a Itaca, la tua fedele sposa
la tratteresti come le altre donne:
tappe del tuo viaggio. Dopo un mese
o un anno ti riavrebbe la tua smania
del folle volo: la tua smania, la sola
che non tradisci. Tu viaggerai per sempre:
solo la nera morte fermerà
il pellegrino in cerca di stupore.
L’hai detto tu: nessuna mai s’è offerta
d’accompagnarti in viaggio – ed è l’unico modo
per esserti compagna. Io sì, mi offro,
e non per sete d’avventura: so
ben viaggiare da sola, cosa credi? Ma
è che ti amo, non capisci questo?
Ti è così nuovo un amore disposto
a condividere la navigazione
nei flutti dell’ardire e del conoscere?
Sì, vedo dai tuoi occhi che ti è nuovo.
Ora mi dici che vuoi accettare
per questa notte di stringerti a me:
che vuoi sentire calore e speranza
dentro di me (sarà la mia speranza
che vuoi sentire – tu crudele – o non
sarà la tua speranza, che rinneghi?)
e ripartire all’alba – e affermi altero:
«Scioglierò la tua fantasia con il mio ghiaccio».
Che stramba frase: di natura è il ghiaccio
che si scioglie, non è la fantasia.
La lingua può tradire qualche volta
segreti di cui l’anima ha timore,
prode che tutto credi di sapere!
Ma vieni dunque: facciamo l’amore
come tu vuoi, nella mia grotta, e all’alba
ripartirai da solo, se vorrai,
ancora solo per l’inquieto mare.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Io spero certo di scioglierti il ghiaccio
e di partire insieme a te, ma se
troppo duro sarà il tuo non volere
tu partirai, non te lo impedirò.
Sai dove avrai rimpianto del mio amore,
Ulisse? Non nei luoghi dove andrai,
non fra i palazzi regali o le tende
o i villaggi o le isole incantate
dove le donne non ti mancheranno
e ti si apriranno e colmeranno
le voglie al corpo e allo spirito i vuoti
per qualche dolce amplesso intorpidito.
No: io non ti mancherò nelle tue isole.
Ti mancherò da morire fra isola e isola,
ti mancherò nel viaggio, sì, nel viaggio:
nella tua patria vera, quando tu
sei tu, quando il tuo sogno è realtà
ma non trova uno sguardo in cui conoscersi.
Allora tu rimpiangerai Calipso.
Sarò, per sempre, la sola che s’è offerta
d’accompagnarti, sarò l’unica nomade
capace di seguirti, la tua sposa
vera: quella che sa sciogliere i nodi
nelle burrasche del tuo strazio, altro
che i nodi d’un domestico telaio
nella casa serena in cui – lo sai –
non troveresti la quiete che non cerchi.
Uomo, conosci te stesso! Ma ora
facciamo l’amore, vieni qui nella mia grotta:
forse l’abbraccio potrà ciò che non possono
milioni di parole in versi o in prosa.
Un errore di lettura
sabato 13 ottobre 2007, 18.31.15 | molinaro
Oggi a Genova mi ha colpito una scritta su un muro. L’ho letta e l’ho fotografata (vedi
immagine). Però al primo colpo non l’ho mica letta giusta. Sapete, quelle scritte in spagnolo
sui muri di solito parlano di carceri (da bruciare) e di ribellione alla repressione. Scritte
politiche, anche se di una politica molto «esistenziale» (giustamente). Influenzato da ciò,
dopo a travez de al posto di lágrima ho letto un qualcosa di indistinto e confuso che ho
interpretato come «griglia» (lagrija, lagrilla, boh? qualche fantasiosa cazzata così), ovvero
«inferriata». Non sapendo bene lo spagnolo, nella fretta e nella luce un po’ così, ho letto ciò che mi aspettavo di
leggere, anziché quello che c’era scritto. È un fenomeno noto: l’interpretazione precede la percezione e la adatta. Lo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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sanno bene i correttori di bozze, che devono esercitare l’occhio a controllare carattere per carattere, perché a una
lettura veloce normale, in genere, se al posto, che ne so, di deposito c’è scritto deposiro, non te ne accorgi, perché
«sai» che ci va deposito e deposito leggi automaticamente. Beh, io sono andato un po’ oltre, nel malintendere, ma ero
pure un po’ appannato, e insomma ho interpretato la scritta così: «Qualsiasi stella guardata attraverso un’inferriata è
una croce». Che poi un suo senso ce l’aveva. E ho cominciato a elucubrare un embrione di poesia sul fatto che
l’immensa distanza di una stella può equivalere a un’inferriata, e se la distanza fra me e la stella è incolmabile, se non
ho speranza di raggiungerla, anche da libero, da non prigioniero, è come se ne fossi separato da un’inferriata. Poi
però ho riguardato la scritta nella foto che avevo scattato e mi sono accorto che non c’era, dopo a travez de, una
misteriosa parola a me sconosciuta che potesse voler dire «griglia, inferriata», ma c’era la più facilmente traducibile
parola lágrima. Quindi: Toda estrella mirada a travez de una lágrima es una cruz. E dunque: «Qualsiasi stella
guardata attraverso una lacrima è una croce». Meno politico forse, ma più «poetico» e intenso, partecipe anche di una
concreta fisicità, a rafforzare la metafora: un punto luminoso visto attraverso una goccia di liquido – o un velo di
pianto – prende a volte davvero la forma di croce. Ecco dunque, non ci ho fatto su nessuna poesia, la scritta in sé lo è
già. Una poesia sul muro. Non l’avevo letta giusta. A volte succede di non leggere bene le scritte. A volte succede di
non leggere bene neanche le persone, ma questo è un altro discorso.
Coraggio, amore, tempo, parole e così via
lunedì 15 ottobre 2007, 11.08.15 | molinaro
Vicino, lontano. Amore, non amore. Reciproco, non reciproco.
Parole. Coraggio. Stamattina pensavo che a morire d’un colpo di
pistola facendo i rivoluzionari ci vuole coraggio, ma a morire di
cancro in un ospedale dopo mesi di inutile degenza fra tubicini e
fialette ce ne vuole forse di più. Qualcosa si può decidere e
qualcosa no. Parole, parole. Forse le poesie d’amore, benché
anch’esse non servano poi a nulla infine, sono le parole meno inutili. Muovono da un
sentimento verso un sentimento. È qualcosa. Ne metto qui una che ho scritto l’altro
giorno in treno. L’amore. Il coraggio. Le svolte. Passare la giornata a lavorare non so
se è coraggio o vigliaccheria, o niente di tutto questo. So solo che lo sto facendo.
CLARA
Ha gli occhi chiari e io la trovo bionda
nei capelli ribelli, nella pelle,
anche nel pelo rado fra le cosce:
benché lei neghi la sua bionditudine.
Scrive per me le poesie d’amore
più belle che nessuna abbia mai scritto.
Siamo curiosi delle nostre cose:
sovente ci parliamo fitto fitto.
Altre volte però stiamo in silenzio
e ci esploriamo come una campagna
dove forse uno è stato, forse no:
trova insieme ricordi e roba nuova.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Uno sfogo inconsulto non è un insulto
lunedì 15 ottobre 2007, 17.12.50 | molinaro
Di solito non indulgo a sfoghi inconsulti, anche perché lo sfogo inconsulto è solo una
piccola parte di verità. Però in fondo anche tutto il resto è solo una piccola parte di verità.
Allora adesso ho deciso di indulgere a questa non poesia che è uno sfogo inconsulto. Scritta
(giuro) in venti minuti, non uno di più, e va la beccate com’è. Tenendo presente che mi sta
già passando, sono già di nuovo più ottimista, ma ogni tanto c’è qualche momento di sfogo
inconsulto e allora perché reprimerlo?
[Nell'immagine, ciò che avrei voluto vedere, nei miei sogni, sulla strada fra Mallare e San Giacomo quest'estate! Che
c'entra? Niente! Perché?]
LA LETTERA DI CONSUELO
(che in realtà non c’entra nulla)
Enfin. Senza ritmo, così, buttiamo fuori
una specie di non poesia. Oggi m’ha scritto
improvvisamente
Consuelo dicendo di sicuro non ti ricorderai di me.
Invece mi ricordo benissimo, Consuelo, di Genova,
con tutto il suo cognome un po’ sardo e l’indirizzo
ben su nell’entroterra, lungo il Bisagno, oltre l’autostrada:
perché non mi sarei dovuto ricordare?
Saranno passati dieci anni, forse dodici, un’inezia.
La gente si dimentica.
Devo rivedere quella poesia che piaceva a Diletta,
quella dell’autobus del cuore,
che dicevo che il mio cuore è un autobus pieno
di persone e ricordi. I ricordi vabbè.
Ma le persone, mi sa che sono scese.
La stessa Diletta chi l’ha vista più o sentita?
Qualche mese fa le ho mandato un sms e la risposta è stata:
Non mandarmi sms a quest’ora che dormo.
Federica è quella che è scomparsa più bruscamente,
lei ha il record della scomparsa brusca, sparita.
Però di gente scomparsa ce n’è tanta.
Sì, parlo soprattutto di donne ma non solo.
Quell’amico, amico si fa per dire, che mi ha usato
(ma sì diciamolo: basta buonismo: mi ha usato)
per un suo progetto culturale del cazzo
e poi finito quello chi l’ha più visto?
E quell’altro, con tutte le sue analisi
sulla mia psicologia, forse alla fine
voleva trombarmi la moglie, che poi
stavamo ormai separandoci quindi non è
che fosse tutto quel problema senonché
a lei non piaceva proprio per niente,
e dopo diecimila discorsi e critiche varie
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 165 di 200
e proclami di amicizia quella vera, minchia,
s’è dileguato da un giorno all’altro?
Questo per dire che non sono solo le ragazze,
non solo le donne. Voglio dire, cazzo,
tutti abbiamo tante cose da fare,
io questa non poesia la scrivo in mezz’ora di respiro
fra un lavoro e l’altro, però il tempo lo trovo.
Cioè non so, voglio dire, ma come si fa
a staccarsi così? Dicono che eh cosa vuoi
la vita separa. Sticazzi! La vita separa
chi vuol farsi separare. Gente via da tanti anni,
o anche da molto meno, cioè anche la Claudia,
avrà da fare, va bene, ma cagarmi un attimo,
io l’ho ascoltata per un anno di fila
a qualsiasi ora per qualsiasi suo problema
ed ero felice di farlo, ora va bene
che in queste cose non c’è compensazione
è deprimente anche solo pensarci, a una compensazione,
però possibile che non le venga voglia
più di dirmi una parola, così d’un tratto, stop!
Ecchecazzo, ecchecazzo, ecchecazzo!
Va bene, ci sono le fasi, le situazioni,
le realtà che cambiano – anche quelle, poi,
non è mica che cambino tutte da sole,
un po’ forse sì, succedono, ma un po’ tanto
le facciamo succedere noi, se no che viviamo
a fare? non decidiamo niente?
Belin di Giuda, mi sento un po’ solo e agitato,
e non fatemi la morale che dovevo stare sposato
in bella coppia fissa che neanche quella
era la soluzione, no, qui è un’altra faccenda,
Monica di Roma s’incazzava perché per rispondere
al telefono lasciavo raffreddare gli spaghetti,
ma cazzo a me sembra normale anteporre
chi mi vuol parlare alla temperatura degli spaghetti
che cazzo mi frega della temperatura degli spaghetti!
sono sempre stato troppo disponibile
però mi è sempre sembrato giusto così
cazzo cazzo cazzo
forse è una questione di priorità
è vero io non ci ho mai tenuto a mangiar bene
e non ci ho mai tenuto al lavoro
così non ho fatto molta carriera anzi nessuna
non ho mai messo il lavoro al primo posto
questo è verissimo
neanche l’università l’ho mai messa al primo posto
anzi diciamolo che non me ne fregava un cazzo
ho fatto Lettere tanto per leggere qualche libro
e poi bon, un lavoro l’avevo trovato
ma mica c’entrava con la vita
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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e che palle, la priorità è un’altra
non il lavoro gli studi e neppure in un certo senso
la famiglia, perché la famiglia è compresa
nelle persone, quindi basta dire che contano
le persone ed è detto tutto,
ma insomma, poi precisamente
la priorità è un’altra cosa
io non dimentico ma vengo sempre dimenticato
non mi caga nessuno in nessun ambiente diciamolo
perché non rompo le palle a nessuno
neanche rompere le palle è mai stata una priorità per me
scrivo le mie poesie mica vado a sleccazzar intellettuali
ecchecazzo
ma poi no questi sono dettagli
non è questo
la priorità è un’altra
e qui mi avvalgo di una cosa di cui si sono avvalse con me
molte donne incazzate e qualche uomo,
cioè la famosa terribile frase
hai capito benissimo (e io non capivo, è crudele)
oppure è inutile spiegartelo (ma prova!)
per una volta me ne avvalgo io e dico
che se la priorità non avete capito qual è
è inutile spiegarvela
affanculo
sono qui da solo a lavorare
cazzo state facendo
affanculo
affanculo
affanculo.
(Consuelo, guarda che tu non c’entri nulla, è stato solo un involontario spunto la tua lettera, sono sicuro che lo
capisci, questo sì, eh! Sono felicissimo che tu mi abbia riscritto dopo dieci anni, anzi! Andiamo avanti! Spero!)
Riflessione più calma sullo sfogo inconsulto di ieri
martedì 16 ottobre 2007, 10.49.45 | molinaro
Lo sfogo di ieri è stato trovato divertente dalla maggior parte di quelli che l’hanno letto e
sono contento che sia così. Era appunto uno sfogo, scritto in versi (se versi si possono
chiamare). Oggi prendiamo la cosa con più calma. In realtà un po’ preoccupato lo sono, più
seriamente parlando. C’è una sottile linea rossa che divide il prendere le cose con sorridente
ironia, con uno sguardo positivo sulla vita e sull’essere, dall’altra versione, la versione
dell’angoscia. Da giovane quella sottile linea la varcavo spesso e quindi so bene quel che
dico. Da più (ehm) maturo, sono riuscito quasi sempre a far prevalere la versione sorridente, nei meandri delle
giornate, anche davanti agli inevitabili dolori, drammi e delusioni che di ogni vita sono parte. Però la linea rossa è lì,
non è distante, la strada è stretta e non puoi allontanartene troppo, è un po’ come la muraglia di montaliana memoria.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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E adesso percepisco un periodo di rischio, a volte mi sento barcollare. Camminiamo tutti lungo un precipizio, questo
è certo; la differenza è il passo, diritto e sicuro o più incerto. A farti cadere può essere un sasso sconnesso, una buca,
una frana, ma più probabilmente una vertigine in un punto qualsiasi, dove il sentiero magari non presenta difficoltà
particolari. A volte, in questo periodo, provo sintomi di quella vertigine.
Ci posso scherzare sulla nostalgia di una Claudia che non mi cerca più, di una Federica scomparsa, di una Chiara che
non mi dà speranze d’amore, sulla dispersione, sulla lontananza; posso cercare di sorridere nelle mie giornate di
lavoro solitario al computer; posso prendermi in giro da solo perché m’innamoro di ragazze troppo giovani per me;
posso pensare che c’è chi mi ama, e anche se sta a tanti chilometri di distanza mi ama lo stesso e ci si vede quando si
può, e ci si scrive; posso guardare ai lati positivi, fra cui il principale oggettivamente sono i miei figli, però i figli
giustamente sono e devono essere persone autonome con la loro vita (ormai non ho più figli sotto i vent’anni); posso
concentrarmi sulle poche amicizie solide, sulle cose che bene o male so fare, sui valori in cui credo, insomma su tutto
ciò che è il bene di vivere, in contrapposizione al male.
Ma non posso nascondere che non è un grandissimo momento. La maggior parte delle poesie che ho scritto
quest’anno potrebbero formare un libro-canzoniere per qualcuna che fin dall’inizio mi ha detto (in tutta onestà):
«Toglitelo dalla testa». Cinque anni fa c’era stata una simile concentrazione di poesie, anche allora un piccolo
canzoniere per una singola donna (pure pubblicato in un libretto: Sospeso sogno), con una piccola differenza: lei
c’era stata, l’amore si faceva.
A chi legge le poesie non gliene può fregare di meno, lo so; lo dice giustamente Vecchioni: tanto che importa / a chi
le ascolta / se lei c’è stata o non c’è stata e lei chi è (da Luci a San Siro).
Ma io ho deciso di fare di questo blog non solo un luogo letterario (scelta discutibile, ma è la mia) bensì anche una
specie di diario personale, e allora queste cose le racconto, e sia come sia.
Va bene, torno al lavoro. Segnalo ancora un po’ meglio che alcune mie poesie sono state pubblicate qui. Dato che
sono stati così gentili da pubblicarle, almeno segnalarlo. Oltre tutto alcune non sono state messe finora da
nessun’altra parte, neppure in questo blog, dunque sono ineditissime e le trovate solo lì!
Su, dai, Carlo, lavora, il tempo passa per tutti, e domani viene a trovarti una che ti vuole bene, smettila di lamentarti,
che sei noioso. Con tanta gente che sta ben peggio, eh! Noioso!
[Nell'immagine: quello che i miei occhi penetranti vedevano quando la mia compagna di corso Nadia
andava alla lavagna durante un seminario a Palazzo Nuovo, Facoltà di Lettere, nel 1974. Infatti non ho la
minima idea di quale fosse l'argomento del seminario, ma chi se ne frega. Sono sicuro che non era poi
così importante.]
Un inedito di tre anni fa
mercoledì 17 ottobre 2007, 12.56.14 | molinaro
Non è che, tutte le poesie che ho scritto, le ho pubblicate. Certo
che no. Ma non ho molta roba nei cassetti perché spesso ciò che
non pubblico poi lo butto rapidamente via. Se mi piace, lo tengo e
alla prima occasione lo pubblico. Se non mi piace, perché tenerlo?
Lo butto via. Con qualche eccezione. Qualche poesia infilata qua e
là in qualche cassetto rimane. Stamattina ne ho trovata, per puro
caso, una del 12 dicembre 2004. Che avevo scartato. Rimasta dunque ineditissima:
forse anzi nessuno mai l’ha letta, neppure un amico in confidenza. Ritrovandola oggi,
mi pare che un suo senso ce l’abbia. Fra l’altro parla a un certo punto di tempi già
scaduti prima che e più oltre dice che non scade il tempo. Un nesso con il discorso di
Chiara sul tempo scaduto: solo che nel 2004 non conoscevo Chiara e forse lei non
aveva neppure ancora cominciato a pensare o scrivere Il tempo è scaduto. Mi piace
immaginare (anche se mi è sempre difficile crederci veramente) che possano
esistere delle pre-corrispondenze, dei percorsi che annunciano futuri incontri. Ma
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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così, senza pretese, intendiamoci. Probabilmente questa poesia l’avevo scartata
perché troppo «mentale», troppo «di testa». E in effetti sì, un po’ lo è. Però c’è dentro
qualcosa che oggi mi fa pensare, e mi vien voglia di metterla almeno qui sul blog. E
visto che è una voglia facile da togliermi, me la tolgo.
REVANCHE D’ENFANT
Ecco: un odore di pesci lontani
forse visti ma forse immaginati
tra fogne e fossi, tra quartieri e laghi
per mute passeggiate e frutta giù
nell’erba, le formiche nere grosse
su ceppi marci d’alberi tagliati:
è l’odore di legno e d’acqua ferma
nell’aria corta all’argine del fiume:
lo scintillare d’un coccio di vetro,
voci dopo il canneto, il macinare
della pietra alla cava – l’improvviso
umido della sera – un disoriente
di tempi già scaduti prima che.
Ecco: un’immobile corsa all’impronta
di nessun passo, l’indecifrata mappa
di sentieri allusivi, senza cigli:
vuoi o non vuoi, è l’inganno iniziatico
preteso come prova per entrare
dove non ami entrare – è la risata
di moribonde vite inconosciute
che t’inseguono fino dentro casa.
È tutto falso.
Ecco: un pugno di nulla l’ho tenuto
con cura nel mio angolo e so che
ho fatto bene – mi lascio a me stesso:
così mi prenda un flusso d’incoscienza
che redima le scorie, digerisca
i colpi a vuoto sul fumo che pare
nascondere misteri e non è che
fiato d’un drago banale, fantoccio
per disviare, per assimilare
il tagliente bambino all’uomo innocuo,
docile secchio di calcina spenta.
Nel mio pugno di nulla ho conservato
gli odori deboli, i persi colori
di cui voci ridicole volevano
privarmi: ho ricomposto un paesaggio
e ho visto che è buono e che non scade
il tempo: tra le spume e i sotterranei
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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guizzano i pesci come sempre, come
avevo già intuito – ho buone mani
per afferrare, naso per fiutare
e occhi per guardare e appena qualche
cicatrice, ma vecchia: stringo forte
il mio coltello, credevate e invece
non m’avete fregato e io non sono
uno dei vostri.
Torino, 12 dicembre 2004
Storie che finiscono
giovedì 18 ottobre 2007, 17.35.23 | molinaro
Parlavo stamattina, con un’amica, di storie che finiscono o non finiscono.
E adesso mi è venuta in mente una poesia che in un certo senso tratta
dell’argomento. Una poesia di «dopo un amore». È a pag. 341-342 di La
parola rinvenuta, e l’ha scelta e letta, fra altre, Guido Catalano al Circolo
dei Lettori quando abbiamo fatto la «presentazione incrociata» martedì 9
ottobre scorso (vedi messaggio n. 129). Eccola qui sotto.
RIMEMBRANZA IN GENNAIO
1.
Così scintillante. Così
come t’ho vista non sarai mai più,
perché la cifra della tua bellezza
è custodita nella mia pupilla.
2.
Ci vuole un verso aspro, che non ceda
alla tentazione del ritmo
per dire il tuo bacio, un sapore
di ferro e di geranio: ne parlo
con cognizione di causa
perché ti ho baciata e perché
da bambino mangiavo i gerani
e facevo capanne di lamiera.
So che potevi essermi compagna.
3.
Quel saputello che ti bacia adesso
scommetto che non sa fare disegni
sui tovaglioli. Scommetto che ride
nei momenti sbagliati, e non ti ascolta.
Sei l’unica, la sola
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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sua fidanzata? E con ciò? Sapessi
quante ridicole coppie qualsiasi
in fedeltà perenne inacidiscono!
4.
Però ti auguro giorni sereni.
La mia tristezza non è gelosia.
È il fauno malinconico che vede
partire ninfe verso la stazione
che per tunnel di plexiglas le porta
alla caserma del tinello buono.
5.
Al Gerbido con l’auto di tuo padre
fare l’amore al vuoto suburbano
per riempirlo di noi. Era importante.
Dove ti porta l’altro? A Tenerife
o al bar delle Colonne dov’è pieno
di stronzi e non c’è niente da riempire?
6.
E se l’auto non c’era, a Porta Nuova
l’ultimo treno per Villastellone
partiva a mezzanotte meno un quarto
e il tempo ci bastava per giocare
con l’arco luminoso della notte.
7.
Inutile tentare di recuperare.
Ma la fine dell’amore
ha bisogno di un poco di rituale
come la fine della vita, un laico
saluto con valore apotropaico.
8.
Neanche più una sera in pizzeria.
Come cigola il carro che allontana
vita da vita, che strazio di ruote
a sfangare nei solchi.
9.
Basta. Non ci riprovo più. È patetico.
Insomma, è storia andata. Chiuso. Stop.
Se ci vediamo lunedì mattina
alle undici in corso Raffaello
angolo via Giuria?
Altri libri, e altro
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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venerdì 19 ottobre 2007, 0.48.01 | molinaro
Stasera sono stato di nuovo alla libreria Massena, c’era la
presentazione di un libro di Paolo Bonesso, scrittore torinese: Le
felicità nascoste. Mentre aspettavo che cominciasse la
presentazione, ho visto su uno scaffale la traduzione italiana del
libro dell’uruguaiano Mario Benedetti La tregua (da non
confondersi con quella del nostro Primo Levi, non c’entra nulla).
Non sapevo che fosse uscita una traduzione italiana, vedo che è del settembre 2006.
Io l’avevo letto qualche anno prima in spagnolo, me lo aveva prestato Federica. L’ho
comprata, stasera, questa traduzione. Non perché mi servisse: ho nel cuore il testo
spagnolo (non sono un grande ispanista, ma con calma, e magari con un vocabolario
da consultare ogni tanto, un libro in spagnolo lo leggo fluentemente). L’ho comprata
pensando a Federica. Faccio le cose per strani insensati motivi. È un libro bello e
crudele, forse come la ragazza che me lo aveva prestato. Il finale mi aveva fatto
piangere (lo dico senza alcun pudore!): non lo svelo, casomai qualcuno volesse
leggere il libro (Mario Benedetti, La tregua, traduzione di Francesco Saba Sardi,
Edizioni Nottetempo, Roma 2006, pp. 256, euro 12). Par buono anche il libro di
Paolo Bonesso, e ho comprato pure quello (andrò in rovina); l’autore in libreria ha
letto alcuni brani, fra cui quello che trascrivo qui sotto, e che in qualche modo si
collega, si collega alla Tregua di Benedetti, si collega a Federica sparita nel nulla, si
collega ai discorsi sul distacco, insomma si collega. Si collega. Non è male, come
scrittura, anche se qua e là c’è qualche luogo comune tipo «il profumo della sua
camicia indaco, le sue labbra che sapevano di sesamo, le sue ciglia tremanti sulla
mia guancia» oppure «se fosse pioggia o lacrime ciò che avevamo sopra e intorno
agli occhi» (Rain and tears are the same, but in the sun you’ve got to play the game,
cantava il bambino di Afrodite nel maggio del 1968, Parigi bruciava e io ballavo con
le prime ragazzine timide che non sapevo come prendere – anche adesso non so
bene come prenderle, è una vita che vado per tentativi così, ogni tanto ci azzecco,
ma non imparo mai come, credo che succeda per caso).
Sì, c’è qualche luogo comune (se voi me li trovate giustamente nella Chiara io poi li
trovo giustamente dappertutto, garde à vous, so essere una vera merda! ma
scherzo, dai!) e c'è qualche stonatura di sintassi, però ci sono pure emozioni vivaci,
sì, qualcuna persino vera, e gradevoli atmosfere, nelle prime pagine che ho letto
stasera. Se volete anche questo libro, noi qui non siamo avari di segnalazioni (e
senza niente in cambio, mai): Paolo Bonesso, Le felicità nascoste, Edizioni di
LucidaMente (www.lucidamente.com), inEdition editrice, Bologna 2007, pp. 210, euro
14. Intanto ecco il brano qui di seguito (è a pag. 65).
Estela prese qualche giorno di vacanza e venne con me alla Reserva Esteros del Iberà. Non osavo
chiederle perché era tornata indietro, senza luce, con il fanalino penzolante e mi avesse chiesto
perché ero tanto triste.
Le risposi che, forse, era per il suo stesso motivo. Si limitò a ribattere, seccamente: «Non credo».
Poi scese nel silenzio e, in quel momento, Estela assomigliò come una goccia d’acqua
all’Argentina: stessa bellezza, stessa disperazione, stessi occhi da infinito addio, stesse barche che
andavano e tornavano, stesso mare, stesse carezze di vento, stessa meravigliosa aria di perdizione
e di santità. Estela era uguale al suo paese e non avrebbe mai potuto abbandonarlo.
Trascorremmo quattro giorni su una barca, in mezzo al pantano, fra caimani, lontre e scimmie.
Estela sorrideva e nei suoi occhi chiari si raccoglievano altre nubi, nuove tempeste.
Non riuscii a sapere niente di lei, se non che le piacevano le sere d’estate e le rose. Per quattro
giorni fummo ciò che è la corrente per il condor, ciò che è il deserto per le creature che in esso
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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abitano, un bacio per chi ha bisogno di un bacio.
Le domandai se potevo rimanere a Corrientes ancora un po’: l’avrei aspettata all’uscita dal lavoro
e saremmo andati a cena a La Cueva del Pescador, il suo ristorante preferito. Probabilmente, con
questa richiesta, scatenai i suoi ricordi e si rabbuiò. Quando finisce un amore, tutto è un campo
minato: qualunque parola, foglia che cade, profumo d’incenso, città, ricetta di pesce, romanzo o
canzone, solleva memorie vivissime e brucianti.
Mi disse che me ne sarei dovuto andare subito, che era stato un errore tornare indietro con la
bicicletta. L’abbraccio con cui mi cinse prima di entrare nel mio passato non sono riuscito a
dimenticarlo. In esso c’erano tutte le rovine che sono contenute in un distacco. Ricordo il
profumo della sua camicia indaco, le sue labbra che sapevano di sesamo, le sue ciglia tremanti
sulla mia guancia e i suoi pensieri che non sapevano dove andare, che non riconoscevano se fosse
pioggia o lacrime ciò che avevamo sopra e intorno agli occhi, che non riuscivano a distinguere se
quell’addio fosse giusto o sbagliato, ma soltanto deciso.
Poche ore dopo ero diretto a Buenos Aires. Avevo anticipato il rientro. Attraversai la città, la mia
città preferita, a occhi chiusi, e giunsi in aeroporto.
Quando salii sull’aereo sapevo che quella era l’ultima volta che vedevo la mia terra, la mia amata
terra d’Argentina. Era l’ultima volta: troppi ricordi, memorie di dolore, struggimenti, amori
appena sbocciati e già morti, figli mai nati, rimasti dentro la Pampa e nel sole.
Ho continuato ad amare quella terra come se sulla stessa avessi combattuto una guerra e perso
tutte le battaglie, anche se dall’addio di Estela non ci sono ritornato mai più.
Pressioni e dispersioni
venerdì 19 ottobre 2007, 13.10.08 | molinaro
Mi sono comprato il coso per misurarmi da me la pressione arteriosa, visto che il medico mi
ha detto di tenerla sotto controllo. Adesso, cinque minuti fa, è 132-89. Spero che non sia un
reato dirlo qui nel blog, perché nel libretto delle istruzioni c’è scritto fra l’altro di
conservare l’apparecchio «in luoghi a cui non abbiano accesso persone che non sono in
grado di esprimere il proprio consenso». La privacy sta diventando un fenomeno isterico, un
segno dell’isolamento della persona nella nostra società. Forse la privacy fa salire la
pressione.
Saranno più di due settimane che non vedo né sento Claudia. Avrà altro da fare, avrà molti impegni, o per sue ragioni
psicologiche non vorrà sentirmi. Al telefono non risponde, ora non la chiamo più perché non sono un rompicoglioni.
O avrà qualche risentimento per qualcosa? Tempo fa mi aveva accusato di una cosa che non ho mai fatto, non una
cosa importante, ma comunque non l’ho mai fatta, sono innocente, vostro onore. Vorrei vederla una sera, almeno. Ci
siamo visti quasi tutti i giorni per un anno e certo, certo, non poteva durare così, però l’improvviso brusco silenzio mi
addolora. In una relazione d’amicizia. Diceva che ero il suo migliore amico. Forse non lo sono più. O forse è normale
un silenzio di qualche settimana, forse sono io troppo ansioso.
Forse c’è qualcosa di sbagliato in me. Persone vicinissime, in rapporti di forte amicizia o d’amore, mi scompaiono
così da un giorno all’altro, troncano dal mattino alla sera oppure semplicemente smettono di rispondermi, si
dissolvono nel nulla. A me sembra una cosa terribile, peggio che prendere un pugno o uno schiaffo o una coltellata,
ma forse sono solo io a percepire la cosa in questo modo, e invece per loro è normalissimo. Tutto regolare.
Certo che quando Claudia era agitata o triste io schizzavo fuori di casa e andavo da lei, ogni volta che ha avuto
bisogno di ascolto o di conforto, non le ho mai detto «non posso». Un pomeriggio per esempio mi ha chiamato
mentre stavo andando in un’azienda per un lavoro importante. Ho telefonato all’azienda inventandomi che avevo
avuto un incidente e non potevo raggiungerli, e sono andato da lei. Altre volte mi ha tenuto sveglio fino all’alba e io
all’alba poi dovevo lavorare ed ero uno straccio, altro che pressione arteriosa: ma ero felice che lo facesse! Mi sa che
sono io che sbaglio. Gli altri dicono molto spesso «non posso», «ho da fare», «sentiamoci più tardi» o «domani» o
«la prossima settimana». Io, agli amici e alle fidanzate, quasi mai. Praticamente mai. Sono io che sono sbagliato.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Bisogna farsi desiderare. Bisogna essere un po’ stronzi, diciamola tutta. Ma mentre lo scrivo non ci credo. Non può
essere così.
Conservare l’apparecchio «in luoghi a cui non abbiano accesso persone che non sono in grado di esprimere il proprio
consenso». Privacy, privacy! Perché, nell’era della comunicazione, aneliamo sbavanti al suo esatto opposto,
l’isolamento, i fatti miei sono solo miei e guai a chi si avvicina. E quando uno non mi serve più, vada per la sua
strada che io vado per la mia.
Forse devo uscire dall’adolescenza e scoprire che è così, è proprio così. Ma no, è troppo una merda. Scusatemi, allora
resto nell’adolescenza, dove comunque mi sono sempre preso tutte le mie responsabilità in modo assai maturo.
Cazzo.
Nel racconto Stand by me di uno Stephen King ancora giovane, c’è uno che a un certo punto dice qualcosa così (cito
a memoria, non ho il libro, me l’aveva prestato Cesare e dopo averlo letto gliel’ho restituito, naturalmente): «Gli
amici ti tirano a fondo, ti fanno annegare con loro, devi scrollarteli di dosso se vuoi fare la tua strada».
Cazzate. A vent’anni ho rinunciato all’Università di Firenze per non allontanarmi da una ragazza che neppure mi
cagava. Lo rifarei. La strada che ti fa buttar via le persone è la strada della competizione, dell'esclusione, della
sopraffazione, delle lotte a coltello per il successo, alla fine è la strada del capitalismo, del liberismo, di questa
trionfante economia di giungla. Non per nulla King è statunitense (ed è diventato poi autore di best seller). Andateci
voi su quella strada se vi piace. Io prendo un altro sentiero, che attraversa semplici paesi e qualche amore rubato ogni
tanto.
Ho rimisurato la pressione (bisogna pure giocare con un giocattolo nuovo) adesso, finito di scrivere, ed è 148-94. Per
forza, se mi fate incazzare!
In paga metto qui sotto una poesia dedicata a Claudia. Buona giornata a tutti.
[nell’immagine, il cielo dalla mia finestra stamattina poco prima delle otto: è bello, no?]
GLI STRACCETTI
Chi è che non vorrebbe toglierteli
gli straccetti di cui ti sei vestita
stasera – lo farei anch’io qui adesso
nella luce di miele di questo caffè
– lo farei volentieri anche se
sono ben preso da un’altra maestosa
ragazza azzurra, da una bianca mandorla
acerba, da una bruna montanara
e da altre donne superbe e festose
di svariati colori e svariati profumi
– quegli straccetti te li toglierei
senza pensare ad altro, in solo omaggio
alla gioia, alla vita, alla fuggente
felicità – ma soprattutto a noi,
a noi qui ora, qui adesso, qui a bere
una tisana d’erbe, in questa sera che non è
mai stata prima e non sarà mai più.
Sogni da buttare
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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domenica 21 ottobre 2007, 0.36.38 | molinaro
Vigilia del battesimo del nipotino. Ma stanotte leggo e scrivo di sogni. Penso che i sogni
non sono quella cosa che certa gente pensa che siano. I sogni sono una molla dentro, una
tensione, un motore. Che a volte gira a vuoto, ma non vuole girare a vuoto, non è il suo
destino quello di girare a vuoto: è solo una disgrazia che a volte gli succede. E allora ho
scritto questa cosa, ispirata un po’ dai versi che ho messo in epigrafe. Ma adesso vado a
dormire davvero perché domani mattina cerimonia, e mi dovrò mettere la camicia e la
giacca, l’unica che ho ma dovrebbe andar bene.
SOGNI DA BUTTARE
Se ho sonno
è perché mi hai tenuto sveglio
tutta la notte
a scriverti una lettera
che come tante
non ti ho spedito.
Perché lo so, non avevi voglia di riceverla.
E allora mi fai scrivere
pensare e comporre sogni
da buttare.
Francesco Molinaro
Un sogno è un sogno e dicono: «Beati
i sognatori, quegli acchiappanuvole,
hanno sempre di che pagarsi, inventano
un mondo tutto loro». Chi dice così
è un po’ invidioso e un po’ ironico, forse
non sa sognare o non vuole. E si prende
la stoccata ciranesca di Guccini:
io sono solo un misero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Sì ma secondo me c’è un malinteso.
Non è così di nuvole, non è
di rose e fiori questo bel sognare,
non è da poetucoli svenevoli.
Cazzo, chiariamo!
Il sogno è una cosa molto seria,
molto importante, che quando ti prende
ti mette spalle al muro e ti costringe
a vivere le cose più reali
con la forza del sogno, una forza tremenda
che cambia il mondo e cambia te, una voglia
che ti fa teso come corda tesa,
non puoi star fermo, sei pronto a scattare
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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come una bestia selvatica, corri
fino all’ultimo fiato. Citerei
un’altra canzone di un più grande
artista genovese che mi pare
inquadri meglio la cosa: Sognai
talmente forte che mi uscì il sangue dal naso.
(Sono i notai che arrivano a cent’anni
tranquilli e ben pasciuti,
raramente i poeti.)
Rapporti d'ansia
lunedì 22 ottobre 2007, 12.09.08 | molinaro
Con tutto il lavoro che ho da fare oggi, già non dovrei neppure
scrivere questo, dovrei lavorare e basta. Eppure, eppure. Non si
può mettere la vita in un ripostiglio, come robaccia, e correre
solo su e giù per le scale mobili del lavoro. O forse si può ma è
un delitto. Così credo. Così mi pare.
Ho addosso una specie di ansia. Legata a tante cose (anche al lavoro stesso, sì,
anche al tempo che scorre, all’età, ad altre cose), ma oggi legata soprattutto ai
rapporti umani.
Venerdì scorso un’amica mi ha criticato per un commento troppo sbrigativo sul
suo blog, e poi ha aggiunto che deve elaborare un discorso sul valore del tempo
dedicato agli amici, in un’ottica di rispetto e dignità. E io già sono in ansia, temo
di avere sbagliato, sì ho fatto un commento sbrigativo ma è che lei me l’aveva
chiesto e forse io invece non mi veniva niente da dire e ho voluto commentare lo
stesso perché lei me lo aveva chiesto, era una roba su una città in cui anch’io
sono stato. E avevo fretta, e forse dovevo aspettare un altro momento, o dire che
non avevo nulla da dire, ma aspettare poi magari passa troppo tempo, ho voluto
fare così per fare, perché me lo aveva chiesto, quando mi chiedono le cose cerco
di farle subito, non so se è lo stesso motivo per cui uscivo a imbucare le lettere
per Diletta alle due di notte, no forse no, non lo so, e poi in quel caso lo faceva
anche lei, eravamo pari. L’ansia dell’impegno quella ce l’ho, lo so; come lavoro
vorrei tanti piccoli lavori che cominciano il mattino e finiscono in giornata,
compiuti, che non stai la notte che dopo devi ancora finire, magari per mesi,
magari è per quello che faccio il poeta e non il romanziere, magari è per quello
anche altre cose. Se mi chiedi una cosa io comincio a farla nel minuto in cui me
la chiedi, se no entro in ansia. Il 99% delle volte va così, l’1% è che proprio
oggettivamente non posso. Ah, Dio mio.
Mi rendo conto che quella del commento sul blog può essere una cazzata, non
perderò, spero, un’amicizia ultradecennale per un commento sbrigativo, eppure
l’ansia ce l’ho.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 176 di 200
Sarà che a volte mi sembra di avere perso rapporti umani per ancor meno, ossia
per nessun motivo (nessun motivo a me noto, s’intende).
L’ansia la dà qualsiasi rapporto umano a cui tieni, un po’ è naturale, anzi credo
che sia un termometro dell’importanza del rapporto. Clara mi scrive che non sa
se ha senso un rapporto con uno come me con tutti i miei fantasmi e mi viene
l’ansia. Un’ora dopo mi scrive che mi vuole bene e mi passa l’ansia. E così via.
Sfido che ho la tachicardia. È perché non vorrei mai perderla. Clara, non la
tachicardia.
E le scomparse esistono, non dico la morte, quella è un altro discorso, dico le
scomparse in vita. Federica l’ho quasi metabolizzata, Elisa forse anche, ogni
tanto ne parlo perché comunque le cicatrici restano per sempre però credo di
averle metabolizzate anche se ovviamente spero che mi telefonino fra un minuto
ma quello è ovvio che io lo speri (o no? io spero sempre tutto). Però Claudia?
Claudia mi sta facendo soffrire in un modo che forse non prevedevo neppure, mi
manca da morire, dopo un anno a vedersi e/o sentirsi quasi tutti i giorni adesso
un muro di silenzio. Tre settimane, non è che sia un secolo, ma è il modo che mi
ferisce. Non una parola. Se telefono non risponde. Ovvio che adesso non
telefono neanche più, uno si sente un rompipalle. Può avere mille impegni, ma
una parola... Perché fa così? Non è successo nulla che giustifichi una rottura.
Magari domani mi telefona e mi dice: «Ma perché te la sei presa? Avevo molto
da fare, non avevo tempo. Non è successo nulla». Magari invece non mi telefona
mai più. Come Federica. Ho un’ansia addosso. Che cosa c’è di così sbagliato in
me?
Poi la domanda diventa: sono fatto sbagliato perché le persone mi scompaiono,
o le persone scompaiono a tutti e sono fatto sbagliato perché patisco che le
persone mi scompaiano?
Una mi rimprovera per un commento affrettato, in pratica credo che mi
rimproveri distrazione e poco tempo dedicato. Credo, non lo so, me lo dirà,
penso che me lo dirà. Un’altra invece, a cui ho dedicato attenzione totale (se mi
chiamasse in questo istante andrei da lei e in culo ogni lavoro urgentissimo,
uscirei senza neanche spegnere il computer), mi ricambia con un improvviso
silenzio. Lo chiamerei silenzio assordante se non fosse ormai diventato un luogo
comune, per colpa di certi giornalisti incapaci che quando ci si inventa
un’espressione nuova poi la usano settecento milioni di volte a sproposito e la
fan diventare vuota come una pubblicità commerciale. Più propriamente lo
chiamo silenzio crudele. E sarò sbagliato io, e mi sarà presto spiegato, dal
saggio di turno, che ha ragione lei, e che io non capisco un cazzo; ma io lo sento
crudele e avrò almeno il diritto di dirlo, come lo sento. Senza pretese. Lo dico.
Va bene che non esistono rapporti equilibrati, va bene che la disponibilità è
variabile (a me viceversa – viceversa? – l’altra amica rimprovera appunto poca
disponibilità quantomeno a commentare un blog, credo), ma anche nei periodi di
«stanca», un minimo, una parola. Io non mi ricordo di avere mai inflitto a
nessuno la tortura di un silenzio così. Se sbaglio, se ricordo sbagliato, la persona
a cui l’ho inflitto me lo faccia notare. Ma non credo proprio.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Che poi anche nel caso del commento sbrigativo sul blog dell’altra amica gioca
l’ansia di comunque fare, di comunque rispondere. Mi chiedi un commento e te
lo faccio anche se non mi viene. Forse, patendo così tanto il silenzio, patendo
così tanto la non risposta altrui, mi ripugna fare io la stessa cosa, e invece in
quel caso avrei dovuto: non mi viene niente da dire su quell’argomento del tuo
blog, taccio. Magari spiegandolo, perché il silenzio assoluto, il muro vuoto, la
barriera incomprensibile, quella mai, no, mai, neanche a un criminale,
figuriamoci a un amico.
Sono ansioso e sbagliato. Comunque Claudia potresti darmi un colpo di
telefono, porca puttana (è un’interiezione, non è al vocativo). Quell’esame l’hai
fatto? Ma la laurea triennale la prendi a novembre o no? Ma come va con quel
nuovo tipo? Ma come stai? Ma non pensi mai che uno che ti vuole bene a non
saper più nulla di te sta male? Ma sono io così anormale? La mia vita senza te è
minestra senza sale (questa è una citazione molto dotta –eh!– che solo tu puoi
capire), si vede che io per te invece sono stato un giocattolo da buttare via. E lo
dico e me ne frego se sono patetico, so essere patetico e persino ridicolo quando
ci vuole. Perché sì, a volte ci vuole: lo stile obbligato uccide. Noblesse tue.
Cazzo!
Un epitalamio (grosso modo)
martedì 23 ottobre 2007, 13.48.01 | molinaro
Insomma, epitalamio. L’epitalamio dovrebbe essere una
composizione bene elaborata, con versi regolarissimi
(distici elegiaci? un esametro e un pentametro? tutti ben
messi i dattili e i trochei? mah, non ricordo più bene la
metrica antica), e questa invece è una cosa buttata giù
alla svelta, di getto, senza pensarci. Ma forse c’è un
senso. I miei auguri in ogni caso sono sinceri, adesso sì.
EPITALAMIO
(per un matrimonio che si celebra ai primi di novembre)
Sono contento che adesso ti risposi
con uno che ti ama e ti rispetta.
Anch’io t’ho rispettata a modo mio
– ma è stato un modo forse troppo mio –
e amata non lo so, mancava sempre
qualche cosa all’amore, ci è mancato
fin dall’inizio e per vent’anni e due figli
abbiamo fatto senza – e sì, sì, in fondo
è stata anche quella un’impresa, diciamo:
un’impresa minore, di quelle che nei libri
le scrivono in piccolo e all’esame non le chiedono.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Nei primi tempi c’era del buono.
Ricordo che sul Gargano facevamo l’amore
anche tre volte al giorno.
Però la sera io bevevo lo stesso
e mi sognavo le ragazze di Mattinata,
sette brune e una bionda.
C’era del buono ma era già malato
con quel sempre troppo vino sopra il tavolo,
con il mio rifugiarmi nel minuto d’ombra
fra ora e ora, con le idee ritirate
e mai discusse, miscredente che leggevo
con bella voce l’epistola in Valsesia
per la gioia dei bravi montanari
– no, bravi no, ora non esageriamo.
Ce n’è anche di stronzi la sua parte.
C’era del buono ma forse era possibile solo
avendo messo l’anima da parte
e posto in campo una viceanima docile,
adattabile a prezzo di fughe
più o meno disperate,
più o meno tollerate.
Per vent’anni non ho sentito musica
che mi piacesse. Ho scoperto Guccini
dopo averti lasciata. Da un lato
è stato divertente, dopo: mi sembrava tutto nuovo
ed era di vent’anni prima solo che
io non c’ero mai stato in quei vent’anni.
Devo ancora capire che cazzo è successo
nel «fatidico 1977» di cui parlano pure adesso
su riviste e giornali. Io non ricordo
nulla di particolare in quell’anno. Proprio nulla.
Ero entrato in un tuo mondo separato
fatto di camicette romene e musica d’organo
e passeggiate e far la spesa al PAM.
Non ricordo nient’altro. Non ti faccio
nessuna colpa di questo, ero io
che non ero capace di alzare la testa.
E andava bene così, per vent’anni
è andata bene così. Bene si fa per dire.
Mi sono sentito ogni giorno in difetto,
questo è quanto. Non ero io la domenica al parco
a sentire alla radio la partita.
Era qualcuno che io fingevo d’essere,
un marito (quasi) normale. Forse me la studiavo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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addirittura, quella normalità.
Con quali risultati, è da discutere.
Infatti dopo non l’ho più sentita,
la partita alla radio.
Bisognava pur fare qualcosa.
Anche tu sapevi! Ricordo che mi dicesti
che temevi che un giorno mi sarei innamorato
davvero di qualcuna.
Sembra quasi un discorso dell’assurdo.
Molte vite lo sono.
Mi dispiace le volte che t’ho fatta piangere
(ricordo tutto molto bene, non credere),
una volta persino uno schiaffo
(ma dato piano, con valore simbolico,
quasi a implorarti di farla finita con me,
che io non ne avevo il coraggio)
e gli oggetti distrutti, quel candelabro d’argento,
orribile dono di nozze di non so chi,
che feci a pezzi e tu volevi ricomporre:
ma erano troppo diverse le vite
che volevamo ricomporre, troppo diverse.
Diverse anche se poi non avevamo idea
di come fossero, di come le volessimo.
Però diverse, sicuramente diverse.
Ricordo le delusioni, le insufficienze
d’uno scenario messo su alla bell’e meglio
e recitato senza grande convinzione:
credevamo che la vita fosse quella,
che non potesse dare molto di più.
Questo ci accomunava. Era ben poco.
C’era sì tenerezza, c’era gioco a volte,
ma non complicità, quella mai: restavamo guardinghi,
sempre in difesa: perché il vero tesoro
era celato e non era condiviso.
Celato anche a noi stessi.
Ho sempre voluto far l’amore con altre;
è stato quello il mio più grande desiderio
pure nell’anno in cui ci siamo sposati!
Quando ho smesso di bere ho cominciato
poi persino a riuscirci. Ma non credo che questo
sia stato una mancanza di rispetto
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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verso di te. Stavo solo scoprendo
qualcosa che avrei dovuto scoprire
comunque: amare ed essere amato io davvero,
non la parte monca di me che avevo messo
in scena fin da piccolo, credo
per paura o viltà.
Doveva succedere. Ma non credo
di averti mancato di rispetto. T’ho fatta
soffrire, questo sì, ma rispettata
ti ho sempre rispettata, a modo mio
– se anche è stato un modo troppo mio.
È perché non andava il modo mio
in tutte le tue cose, che tutto è finito
quando ho imparato – molto tardi – a vivere
senza più svicolare: a modo mio.
Che è la cosa giusta da fare per tutti, suppongo.
Ricordo tuttavia momenti teneri,
un cammeo preso a Firenze, il gioco
di muovere le dita dei piedi,
i tre giornali che tu mi compravi
quando giacevo a letto il giorno dopo la sbronza.
So che nemmeno questa poesia è granché.
Non sono mai riuscito a fare granché per te.
Sono contento che adesso ti risposi
con uno che ti ama e ti rispetta.
(Io resto scapolo, credo che sia meglio.)
(Però non si sa mai, magari trovo
una pazza furiosa, da vivere insieme
liberamente! No, non credo che esista.)
Avec le temps
mercoledì 24 ottobre 2007, 22.31.32 | molinaro
Oggi ho scritto diverse inconcludenti e anche lagnose stronzate. Poi per fortuna ho avuto la buona
ispirazione di cancellare tutto. E preferisco mettere qui soltanto questa bella tristissima canzone di Léo
Ferré. Domani è un altro giorno.
Per lei che cresce
venerdì 26 ottobre 2007, 8.47.31 | molinaro
Continua a piovere con un certo impegno stamattina su Torino.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Devo uscire, passare in un’azienda e alla Posta. Meglio, così
non sto tutto il tempo a lavorare al computer, come è successo ieri dall’alba a
mezzanotte. Devo anche mangiare un po’ più decentemente: ieri ho pranzato
con un chebab e cenato con una scatoletta di tonno e una bustina di grissini. No,
non ho usato i grissini per tagliare il tonno, anche perché quello del discount si
sfascia da solo appena aperta la scatoletta. Fra tonno e grissini ho scritto anche
questa piccola poesia. Ma ora adelante, sotto con il lavoro. In qualche autogrill
qualche giovane cameriera starà forse specchiando alla soda fountain la sua
faccia da bambina, per qualche piazza starà correndo una lepre pazza. Io sto con
le mie vecchie bozze da correggere.
PER LEI CHE CRESCE
La niña del bello rostro
sigue cogiendo aceituna
con el brazo gris del viento
ceñido por la cintura.
Federico García Lorca
Adesso impari quasi ad atteggiarti,
ad avere uno stile, a costruire
le frasi, i modi giusti per l’intreccio.
Fai bene, è necessario. Però è quando
te ne dimentichi e scrivi alla svelta
una riga sul foglio come viene
che sento nella gola grigia battere
la consapevolezza puntigliosa
dell’abbraccio di vento che ci sposa.
Sciopero dei treni
sabato 27 ottobre 2007, 23.58.01 | molinaro
Si prepara una domenica a Milano: la presentazione di Clara e un
pranzo fra amici. Ma c’è sciopero dei treni piemontesi e ci tocca
andare con la Panda. Che sfiga. Proprio adesso dovevano
scioperare e proprio in Piemonte! Certo avranno le loro ragioni. Ma
io, in paga, metto qui una poesia, presa dal mio libro, con l’arrivo
di un treno a Milano. A pag. 401 de La parola rinvenuta. Ecco!
FRA VENTI MINUTI
Fra venti minuti arriveremo a Milano.
Forse meno, sfilano le luci rade di Rho.
La ragazza si dipinge le unghie di verde chiaro,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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verde smeraldo, blu turchese, azzurro,
e lascia il mignolo rosa, non dipinto.
L’uomo ritira il walkman e il telefono.
Un’altra donna toglie delle foto
dalla busta gialla e bianca del laboratorio
e le mostra a un’amica che si affaccia
alla spalliera del sedile, dietro.
Fra un quarto d’ora saremo a Milano.
L’anziana un poco secca si mette la sciarpa
e l’odore della città s’infila nel vagone.
L'amore ha vent'anni
martedì 30 ottobre 2007, 13.37.57 | molinaro
Oggi ho scritto una breve poesia, ispirata da una discussione (se
discussione si può chiamare) che si è dipanata sulla Posta del
fegato. Discorsi più o meno vani sulle età dell’amore, sugli squilibri
nei rapporti, cose del genere, per carità magari anche sensate, ma
in definitiva (secondo me) inutili. Ho pensato, in un lampo, che
l’amore ha vent’anni. Questo non significa che non ci siano
meravigliose amanti (e meravigliosi amanti) di cinquant’anni e più. Certo che no. Ma
l’amore, lui, proprio lui in persona, ha vent’anni, da sempre e per sempre.
Nell’antichità veniva raffigurato giovane, e così in tutti i secoli, e Romeo e Giulietta
non sono certo cinquantenni, come neppure Paolo e Francesca. E Vittorio Sereni, in
una delle poesie più grandi di tutto il Novecento non solo italiano (secondo me), Mille
miglia, scrive in chiusura: Ma nulla senza amore è l’aria pura / l’amore è nulla senza
la gioventù. E per Guccini nella famosa Locomotiva gli eroi (e quindi gli amanti, che
sono sempre eroi – e viceversa!) sono tutti giovani e belli. È così naturale! Così
evidente! Questo non deve deprimerci, dico soprattutto noi che abbiamo già una
certa età, no, non deve deprimerci. È la vita, è tutto regolare, è tutto come è. Ma
negare che l’amore abbia vent’anni, come si fa? Buona giornata a tutti, di tutte le età.
L’AMORE HA VENT'ANNI
L'amore ha sempre vent'anni. Noi no:
noi ci disfà l'alterna indifferenza
delle stagioni, noi ci prende il grigio
del cielo e dei capelli – ma restiamo
innamorati del ventenne amore
e ne teniamo un poco in una tasca
ben custodito, da poter guardarlo
di tanto in tanto per saperci ancora
vivi, perché la verità è che
la vita senza amore non esiste
e l'amore, per sempre, ha vent'anni.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Ho visto vecchi piangere d'amore
martedì 30 ottobre 2007, 16.48.15 | molinaro
Un po’ c’entra e un po’ non c’entra, con la poesia del messaggio precedente. Non ha
importanza che c’entri o non c’entri. Mi è venuta così, in un pomeriggio grigio pensando
che forse ora faccio una pausa dal lavoro ed esco a mangiare un panino. In casa ho quattro
cachi e uno yogurt, ma forse esco a mangiare un panino. Ha aperto un nuovo
chebabivendolo nel primo tratto di via San Donato, vicino al bar che fa ancora cappuccino e
brioscia e un euro e cinquanta totale, magari lo provo. Intanto questa qui sotto è la poesia.
HO VISTO VECCHI PIANGERE D’AMORE
L’amore che hai vissuto
non è tempo perduto
l’amore che hai sognato
è tempo anticipato
Clara Vajthò
Io sento solo freddo. Abbiamo giocato
a fare i grandi e poi lo siamo diventati.
Chiara Borghi
Ho visto vecchi piangere
nel semibuio d’un monolocale
o nel salotto d’un ospizio o anche
nell’indifferenza affettuosa
d’una famiglia.
Ho visto ragazzini piangere
nell’angolo d’un cortile
cinti dal braccio d’ombra d’un’assenza
traditi da un amico o lasciati
da una ragazza.
La differenza è
un tempo avanti tutto ancora
da vivere e una forza nelle gambe
– o invece gambe stanche
e tempo ormai scaduto.
Ma il ragazzino in lacrime non pensa
alla vita davanti – pensa solo
a chi gli manca – il vecchio non pensa
alla morte vicina – pensa solo
a qualcuno lontano.
Quando non c’è più abbraccio la ferita
sanguina uguale a quindici o a cent’anni
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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un abbandono è un abbandono sempre
ciò che si perde rimane perduto
ho visto vecchi piangere d’amore.
Senza titolo
mercoledì 31 ottobre 2007, 14.51.23 | molinaro
NOMPOESIA DI VARIE COSE FATUE
Che poi la Petarda mi dice che
potevo anche non andare a capo
perché si legge bene tutta di seguito
e quindi è prosa, ma a me
gira di andare a capo.
Cioè pensavo all’innamoramento e amore
– cosa nuova, eh? –
e subito allora penso Alberoni
ma Alberoni penso Lido
e Lido penso Clara
così ci allontaniamo subito da quel libro
di Alberoni Francesco
che secondo me è abbastanza pessimo.
Che poi l’Alberoni del libro
mi ricorda Gargiulo
o Gargiullo
o Margiullo
o qualcosa del genere, adesso non mi viene.
Ecco pensavo: se non sono innamorato
non riesco a fare un cazzo
parlo anche di lavoro
e questo mi provoca guai
una volta uno me l’ha proprio detto:
«Se fai quella faccia
non mi vien voglia
di darti il lavoro».
Era un lavoro che faceva cagare
come il 99,9% dei lavori
ma ne avevo bisogno
avrei dovuto stamparmi
un bel sorriso entusiasta sul muso
ma non ci riesco, non ci riesco mai.
E pensavo: ma quello lì nel caso del lavoro
è innamoramento o amore?
Io a naso direi innamoramento
perché se non sono entusiasta
proprio entusiasta al culmine
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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roba da innamoramento
non riesco a far niente di buono. È un casino.
Va ben che a volte non ce n’è bisogno,
basta produrre una roba così, passabile.
Però poi magari ti fanno il culo.
Il mondo del lavoro è bastardo bastardissimo.
Fra uomo e donna
se non c’è l’innamoramento è grigia.
Quell’amico della Val Bormida
dice che m’innamoro delle immagini
più che delle persone, ma io contesto:
dentro le immagini ci sono le persone
e ogni persona, come la vedi, è un’immagine.
E poi mi va di studiare le persone
guardarle bene
sono capace di andare a una cena
dove non sono neanche tanto a mio agio
solo per guardare una
anche fidanzata con un altro che è lì con lei
sì per guardarla
perché va bene, immagine, sì,
ma l’immagine dev’essere reale,
non frutto dei miei voli di fantasia.
Insomma, insomma, insomma.
Certo l’entusiasmo è tutto:
anche nel mio periodo alcolico
che fu una brutta faccenda
nelle (rare) giornate in cui avevo
qualcosa che m’entusiasmava davvero
manco ci pensavo a bere
infatti ho smesso quando mi sono innamorato
(perché innamoramento è uguale a entusiasmo,
su questo non ci piove)
poi l’amore è passato
ma ormai avevo smesso
e certe cose tragiche per fortuna
quando uno ha smesso ha smesso.
L’immagine, certo, conta una luce, un gesto,
e forse in un anno di...
di non so che con una giovane amica
questo ha generato non dico malintesi
ma differenti interpretazioni
lei mi offriva frutta del suo giardino
e se restava un pezzo solo
lo spezzava coi denti e mi offriva la metà
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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e mentre parlavamo le massaggiavo la schiena
o le carezzavo una coscia
o l’aiutavo a mettersi un orecchino
e a volte lei mi telefonava
mentre era al cesso e sentivo la pipì
e qualche sera siamo stati in collina
con uno sfolgorare di città ai nostri piedi
e un profumo di fiori da svenire
e il cielo con la sua brava luna
e tutto questo
ma forse soprattutto il pezzetto di frutta
spezzato coi denti e offerto con le dita
alle mie labbra, per me
vale più di cento scopate
(quello non l’abbiamo mai fatto, dico scopare)
e allora è chiaro che adesso mi manca
come la più fidanzata delle fidanzate
e allora forse ha ragione
adesso a eclissarsi
anche se insomma secondo me
se ne poteva parlare.
Ma sì ma sì che l’entusiasmo è tutto
e l’innamoramento fa sognare, questo
non lo nego, ma sono sogni molto concreti
– i poeti sono uomini concreti, ho scritto
in una poesia ispirata da una di cui
ero certamente molto innamorato –
poi a me l’innamoramento mica passa
così facilmente
mi dura un sacco di tempo
la maggior parte anzi degli innamoramenti
della mia vita non mi sono mai passati
li ho ancora adesso
forse è per questo che non li distinguo
dall’amore, oh, quell’Alberoni,
che sì Alberoni penso Lido e quindi Clara
ma poi andando più indietro nel tempo
agli Alberoni di preciso stava Francesca
che nel 1970 il Vispo e io
siamo stati a casa sua per quindici giorni
e ci siamo visti tutta la Mostra del Cinema
e suo zio ci pagava tutti i biglietti
e a mezzanotte nella grande casa
ci offriva da bere e chiacchierava con noi,
e ragazzi cazzo era importante anche lo zio
perché è vero che nel 1970
non avevo una ragazza
ma non avevo neppure un adulto che parlasse
erano un sacco le cose che non avevo
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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anche se cercavo lo stesso di entusiasmarmi
a varie cose come per esempio
la rivoluzione e spaccare un po’ tutto.
Insomma, così. Il Vispo poi è morto,
credo perché non è riuscito a entusiasmarsi.
Ma che cazzo stavo dicendo? Ah sì,
l’innamoramento, che se dicono che deve evolversi
in amore perché da solo non dura,
mah, dovessi dire io personalmente
ho visto finire più amori che innamoramenti.
Ma sarà che vedo le cose a modo mio,
magari non è che faccio testo,
anzi di sicuro non faccio testo.
Io se m’innamoro secco adesso mi sa che mi sposo,
se trovo una che mi vuole io la sposo anche.
Se la amo non so se la sposo,
amarsi va bene anche convivere o vedersi così,
ma se m’innamoro e lei ci sta a sposarmi
io la sposo: sono in un momento così, sposabile.
Un po’ rischioso forse, non so se per me
o per l’eventuale candidata;
al momento il problema non si pone,
non ho avuto disponibilità al matrimonio
da parte di donne che mi ci sono innamorato.
Eh beh vorrei vedere. Non sono un gran partito
né un gran tornato (sì, questa è una battuta
che fa cagare, ma dato che lo è un po’ tutta
la poesia, questa poesia, a far cagare,
ce la lascio, che si abbina bene
come gli oggetti in casa di quell’amica
quella della frutta del suo giardino dico:
ha la manìa del fare pandàn).
Bah, poi mi sa che m’è passato l’entusiasmo
di scrivere questa stronzata.
Dunque smetto.
Però decido di inventare una nuova parola
per definire queste leggiadre composizioni:
la non poesia, però scritto tutto attaccato
che diventa nompoesia,
e perché perché perché,
perché la n prima della p diventa m,
lo sapete benissimo, non rompete i coglioni.
Le regole fonetiche bisogna rispettarle.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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[nell'immagine, una mia fotopoesia, faccio anche quelle cose lì]
[perché nessuno mai in vita mia mi ha pagato per fare qualcosa che mi piacesse? il lavoro è così, deve
non piacere, è la sua legge]
Primo novembre
giovedì 1 novembre 2007, 7.00.25 | molinaro
Novembre. Giornata piena di lavoro come tutte in questo periodo.
Ma voglio mettere qui una poesia di un bel po’ di anni fa, dedicata
a un primo novembre a Vercelli. E alla solitudine, credo. Dovrebbe
essere del 1986, anno più anno meno. Pubblicata prima nel libro Il
gioco che vale la candela, del 1988, poi in La parola rinvenuta,
dell’anno scorso, a pag. 176. Buon novembre a tutti. Mi sembra
bene festeggiare i capidimese, e non solo i capidanno.
PRIMO NOVEMBRE
Il pomeriggio d’Ognissanti a Vercelli
le case sono il posto più triste.
Si sente il ronzio di un piccolo aereo,
deietta paracadutisti in un cielo grigio
che non lascia alzare nemmeno lo scampanio
delle chiese per le messe vespertine
dove un poco di gente per annoiarsi va.
Ed è davvero la festa dei morti,
o forse della Morte: qui il buio fa paura
scendendo piano nelle stanze vuote,
così vuote che nemmeno se un bimbo parla
le può riempire, queste case inutili.
Qui le persone sono un accessorio
o un soprammobile. Il cimitero è una discarica.
L’occhio non ha riposo, si brucia
come falena sulla prima luce,
corre a cercare il fumo delle stoppie,
la vecchia nebbia che l’aveva illuso.
Qui non c’è stato niente, mai niente, mai niente;
guai se il fumo e la nebbia si dissolvono.
È la festa dei morti, quelli veri
che la terra discioglie e che non risorgeranno.
[nell'immagine, ricordo di un viaggio a trovare Federica, con offerta speciale Le notti di Trenitalia,
viaggiando di notte seduti, solo 15 euro da Torino a Roma]
Quattro poesie al volo stamattina. Mi correggo: cinque
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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giovedì 1 novembre 2007, 11.28.45 | molinaro
Stamattina mi sono venute quattro piccole poesie. Sono ispirate da quattro donne diverse e
lo so, lo so, che questa è una pessima strategia. Non dovrei metterle qui insieme! Ma al
diavolo le strategie, al diavolo le tattiche – sono tutte falsificazioni. Sia come sia. Non ci
metto le dediche, così non facciamo casini. Oltre tutto, se mettessi la dedica con la sola
iniziale del nome, servirebbe ben poco a distinguere: tre su quattro cominciano con la stessa
lettera! Confusione! Va ben, dai, fra un abbraccio e una mancanza, continua la danza... Anzi
mi sta venendo una quinta poesia, appunto, su abbraccio e mancanza e danza, vedete, vengono così, mica si fa
apposta, due parole ronzano nell’orecchio e patatràc; l’ultima la metto per prima.
LA DANZA
Fra un abbraccio e la sua mancanza
c’è un tempo così breve, così breve,
che quasi già la senti, la mancanza,
mentre stai nell’abbraccio: sì però
già speri un altro abbraccio, ancora uno:
così la vita, puttana ballerina
di bassifondi che non dà puntelli,
se la trovi la trovi, certo in qualche
localaccio del porto: ti prende ti lascia:
con te o senza, continua la danza.
BUTTERÒ LE CASSETTE
Butterò le cassette con la musica
che ascoltavamo in macchina io e te.
Non voglio riascoltarle io da solo
o con un’altra. Vedi com’è strano:
non è mai stata una storia d’amore
– noi l’abbiamo chiamata un’amicizia,
parola vasta – fosse quel che fosse,
adesso è una vertigine d’assenza.
FISARMONICA DI STRADA
Questa mattina è ripassato l’uomo
con la fisarmonica, accompagnato
da una ragazza bionda
che mi ha salutato quando mi sono sporto
dal balcone a vedere e ascoltare.
Saluta tutti quelli che s’affacciano,
naturalmente, ma questo nulla toglie
al saluto, così fresco e gentile
nel grigio impallidito del novembre.
Ho pensato a te, a come hai confezionato,
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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l’altro giorno, le monete da lanciare.
Non sono bravo nel confezionare:
io le ho messe semplicemente dentro
una busta di cellophane di fazzolettini di carta
(ce n’erano ancora tre, li ho tolti e li ho appoggiati
sullo scaffale dove c’è di tutto, hai presente,
e ho messo le monete e ho chiuso
con il lembo adesivo) – e ho lanciato,
badando di non beccare qualcuno in testa.
Ma non c’era molta gente per strada stamattina.
Anche la vicina di pianerottolo
si è sporta e ha gettato qualcosa, e anche
una ragazza dalla casa di fronte,
da un alloggio che mi sembra di studenti.
Quindi va tutto abbastanza bene e io
ti voglio bene anche oggi ora che
mi rimetto al lavoro sui testi da correggere.
LA BAMBINA IN TE
La vedo bene la bambina in te,
la vedo certe volte proprio bene,
quando fai il muso perché sul tuo blog
non ci va mai nessuno tranne me
e raramente il tuo ragazzo, oppure
stringi le spalle e fai l’indifferente
se lui non ti risponde, o quando dici
che sei riuscita a vendere tre libri,
o quando stai con una compagnia
che non ti fila e sei indispettita
ma non lo fai capire. Certe volte
s’affaccia proprio agli occhi la bambina
e t’illumina tutta. E non importa
se la nascondi, le dici stai brava
e fai la grande e la saggia: lei c’è,
lei per fortuna non ti lascia mai.
QUESTI BACI VIA SMS
Questi baci via sms
non sono mai a sufficienza
ma è meglio che star senza
almeno dicono che ci siamo ancora
almeno richiamano i baci quelli veri
sulla panchina vicino alla stazione
o in riva al piccolo lago che tu sai
o meglio ancora a casa mia sul letto
dove tolto l’ingombro dei vestiti
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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i baci sono buoni e tutto il resto
questi baci via sms
sono qualcosa però i baci veri
cerchiamo di ridarceli un po’ presto.
Fuori i poveri!
venerdì 2 novembre 2007, 12.03.07 | molinaro
Dal «Corriere della sera» di oggi:
rrrrrrrrr
Il dispositivo è attivato già da ieri: questa mattina cominceranno le procedure di
espulsione. Il decreto legge del governo sarà reso operativo subito, come ha
stabilito il capo della polizia Antonio Manganelli che ha allertato questure e prefetture sul monitoraggio dei
romeni e dei rom presenti nel nostro paese. Sono migliaia quelli che rischiano di dover lasciare l'Italia
entro qualche giorno. Perché, come sottolinea lo stesso prefetto, “l'elemento determinante sarà la
pericolosità sociale degli individui che verrà stabilita non solo esaminando i precedenti penali di
ognuno, ma anche il tenore di vita e dunque la capacità di sostentamento che fornisce la percentuale
di rischio per la commissione di eventuali reati”.
rrrrrrrrrrrr
Traduzione: adesso abbiamo il potere di cacciar via tutti quelli che non hanno soldi. Uhm. La mia capacità
di sostentamento è sempre al limite, con il lavoro precario e malpagato... Mi cacceranno? Ah già, ma sono
cittadino italiano, dove possono cacciarmi? Mah, non si sa mai. Non si sa mai. [Immagino che mafiosi e
magnaccia non saranno cacciati: quelli si sostentano benissimo!]
Quarto discorso di Calipso
sabato 3 novembre 2007, 15.44.58 | molinaro
Ora non stiamo a ripetere ogni volta tutto lo spiegone. Per capire i discorsi di Calipso,
andate a vedere i primi tre, nei messaggi n. 114, 115 e 133. Questo qui sotto è,
naturalmente, il quarto, di un dialogo che continua.
QUARTO DISCORSO DI CALIPSO
Dici che non mi porti sulla nave
perché volgare è la ciurma: una donna
della mia classe non può sopportarla.
Ma che scusa puerile! Accanto a te
sarei lieta: chi è lieto non s’angustia
nel sopportare: di certo saprei
ridere d’una mandria d’ubriachi
che rutta e peta divorando pesce.
Dici che non prometti fedeltà:
non la chiedo. Desidero viaggiare
con te. Non voglio legarti le mani,
né legare le mie. Sono libera.
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Studierò le tue stelle, per seguirti:
forse già le conosco più di te.
Ulisse, il tormentoso lungo viaggio
ha confuso i tuoi sogni con le ombre
della notte e i fantasmi: non sai più
che cosa è vero, non sai più che cosa
credere, ti nascondi sotto il manto
d’un’illusione. La mia strada invece
è chiara: a mostrarmela è l’amore,
un dio che non si sbaglia. Tu non vuoi
prestare orecchio al suono della voce
che senti in te: eppure parla forte,
bene distinta dalle tue chimere:
è voce nuova, mai udita prima.
Se non mi vuoi sulla nave non posso
costringerti – e se anche lo potessi
non lo farei: l’amore è libertà.
Non c’è bisogno d’accampare scuse
di compagni volgari o dell’azzardo
del rude viaggio: pensi che una ninfa
abbia timore del mare o degli uomini?
Mi sono innamorata e so chi sei
perché ti vedo meglio di te stesso.
Osserva il sole basso all’orizzonte:
sembra colmare di fuoco la terra
e il cielo. Ma fra un’ora sarà buio,
sarà del fuoco ricordo e rimpianto.
Breve è la corsa della vita, uomo:
quando l’amore ti passa vicino
conóscilo e sii pronto ad afferrarlo.
Stirpe d'artisti?
lunedì 5 novembre 2007, 11.15.28 | molinaro
Stirpe d’artisti. Chissà. Non so. Credo che ogni individuo sia una persona a sé stante, nuova.
Però è vero che nella mia famiglia un ramo d’arte e follìa (le due cose raramente vanno
disgiunte) c’è, almeno dal lato materno. Il padre di mia madre suonava il pianoforte a un
buon livello, suo fratello faceva l’inventore, e pare abbia inventato l’euritmoforo, che
sarebbe il padre di tutti gli stabilizzatori di corrente, da quello che si metteva una volta sotto
il televisore fino alle moderne «unità di continuità» (UPS). Gli diedero un diplomino e gli
rubarono l’idea, naturalmente. Ecco, l’arte non so, ma farsi fregare, nella mia famiglia, quello sì, da sempre. Il
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 193 di 200
bisnonno con i lavori nelle risaie era riuscito a mettere insieme un gruzzolo, ma lo versò in una banca che
prontamente fallì, e perse tutto. All’epoca non esistevano quelle robe interbancarie che adesso dovrebbero (forse)
tutelare in casi del genere. Credo che nella mia famiglia nessuno abbia mai capito come funzionano le cose nel
mondo del lavoro e degli affari. E questo pur avendo lavorato duramente (almeno alcuni). Io stesso lavoro molto ma
non ho la minima idea di come funzioni il mondo del lavoro. A volte ho la sensazione che dovrei conoscere delle
cose, o delle persone, o dei meccanismi; invece lavoro ma non conosco nulla, non ricordo le persone delle aziende,
non so mai bene che cosa sto facendo. Comunque lo faccio, il lavoro, e finora in qualche modo sono sopravvissuto
nella misteriosa giungla economica in cui nulla mi è domestico né chiaro. E va bene. Forse mi è già andata bene.
Tornando all’arte di famiglia, mia madre dipinge. Non è una maestra dell’arte, ma è una buona disegnatrice e sa usare
i colori, fa quadri perlopiù realistico-fotografici, a volte onirici, di un onirico un po’ freddo, controllato. Che poi
l’arte moderna, e lo dico tranquillamente non essendo vincolato da nessun interesse o conventicola (qualche
vantaggio c’è, a essere un tagliato fuori!), è al 99,9% un bluff. Per esempio: si prende un giocattolo di plastica,
prodotto industriale, lo si mette al centro di una stanza bianca, si fa dire qualcosa a un critico prezzolato dal sistema,
si chiama il tutto «installazione», si dà un titolo (che ne so, Oltre la roggia, oppure Il sogno di Agnese: è
assolutamente lo stesso) e lo si vende per un milione di dollari. Chi vende merda per un milione di dollari è
ovviamente uno schiavo del potere, ma si presenta spesso come «innovativo» e «indipendente». Siamo qui tutti ad
aspettare il bambino che griderà all’arte moderna: «Il re è nudo!», ma temo che ormai anche i bambini siano
embedded. Ci hanno fregati. Tornando alla modesta arte di mia madre, probabilmente anche i suoi quadri potrebbero
essere studiati e ci si potrebbero leggere dentro un sacco di cose, volendo. Ne metto uno, il più recente che ha dipinto,
finito un mese fa, nell’immagine di questo messaggio. Rappresenta i tavolini all’aperto di un bar di Torino, il Pastis
in piazza Emanuele Filiberto (...se il titolare del Pastis è in ascolto e vuole comprare il quadro, per 2000 euro è suo.
Facciamo 1800. Beh, ci provo anch’io, no? Qui i soldi mancano!). Ecco, per esempio il cuore rosso, molto rosso
(guardate come spicca) messo fra i capelli della ragazza a destra ha un suo senso ben preciso. Forse l’ha perso la
ragazza al centro, quella con le gambe accavallate che mettono un sacco di voglia: le è volato via e si è impigliato nei
capelli dell’altra. E si potrebbe fare una bella pagina di indagine psico-iconografica sul senso del cuore volato via, sul
collegamento fra le due donne, sulla femminilità in genere, sui trapianti di cuore e sui viaggi spaziali. E il tipo a
sinistra? È pensieroso e furbo nello stesso tempo. Rappresenta forse il trentenne rampante e cinico, pronto a tuffarsi
nella giostra della post new economy? Probabile! Ma se fosse invece uno sfigato travestito? E qui tre pagine
sull’ambiguità del tratto disegnato. E la ruota della bicicletta? Forse simboleggia un anelito ecologico, oppure è da
collegarsi al mito del vigore della giovinezza? E il fatto che le sedie siano verdi? E il paletto in primo piano a destra è
un simbolo fallico? Ha, sulla punta, del rosso simile a quello del cuore, ed ecco pronto tutto il discorso fra sesso e
sentimenti, altre due pagine almeno. Basta chiacchierarci su un po’, trovare un critico prezzolato dal regime
mondiale, e poi anche questo quadro di mia madre lo si può vendere per un milione di dollari, come la merda in
mezzo alla stanza bianca. Solo che mia madre, nella saggezza dei suoi 77 anni suonati, direbbe: «Tutte cazzate, ho
solo dipinto quello che c’era lì» (si esprime sempre in modo colorito). E così rovinerebbe tutto. Eh, bisogna saperci
fare, per essere artisti milionari. Soprattutto (in cauda venenum) è molto importante non essere artisti, ma faccendieri.
Le due cose insieme non vanno quasi mai. Loro fanno i soldi ma ci odiano perché noi siamo più felici.
I frutti delle rose
mercoledì 7 novembre 2007, 14.24.41 | molinaro
C’è un bel sole limpido chiaro, e una poesia così al volo, sui frutti delle
rose, e poi davvero scendo giù a mangiare dal cinese che in frigo non
m’è rimasto niente. Tanto fino alle tre dovrebbe essere aperto. Buon
pomeriggio.
I FRUTTI DELLE ROSE
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Le rose all’angolo di corso Duca e corso Einaudi
sono appassite però han fatto il loro frutto,
quella peretta colorata rosso ruggine
che in italiano non so come si chiama;
in piemontese è gratacùl, in romeno credo măceşi
ma in nessun’altra lingua lo so.
Da molto tempo non scendevo dal tram
a questo incrocio, penso più di un mese.
Solitamente scendevo qui per andare da lei;
oggi soltanto per consegnare una lettera.
C’è un bellissimo sole. Devo farmi
aprire il portone da qualcuno per raggiungere
le buche della posta. Suono il primo
campanello in basso a sinistra. Non risponde
nessuno. Suono il primo in basso a destra.
Nessuno. Allora il secondo dal basso
a destra. Risponde un anziano, dico «Scusi
dovrei consegnare una lettera in buca».
«Eh? Come?» risponde. «Dovrei consegnare
una lettera in buca», ripeto più forte.
Non so se ha capito – ma apre il portone.
Meno male. Infilo la lettera in buca,
la lascio cadere dentro lentamente,
penso «è inutile» ma la lascio cadere
lo stesso nella buca, lentamente.
Riattraverso l’aiuola delle rose.
È bello che a Torino agli incroci dei corsi
mettano rose rosse, e secondo me è bello
pure lasciarle appassire d’autunno,
lasciare che mostrino il frutto – chissà
com’è il nome italiano – anche se
qualche buon cittadino del quartiere
immagino dica che andrebbero potate
prima, che così fanno disordine.
I buoni cittadini del quartiere
si fottano. Ripassa il tram, ritorno
a casa mia, c’è ancora un bellissimo sole
e ho fame, guardo in frigo cosa c’è,
se no scendo a mangiare un piatto di pasta
dal cinese qui sotto, che sono simpatici
e danno un buon pranzo completo a cinque euro.
Lavorare o raccogliere foglie
giovedì 8 novembre 2007, 8.19.27 | molinaro
Un bel mattino sereno, vorrei uscire a correre nei prati, vorrei fare l’amore, vorrei colorare
dei fogli, vorrei camminare per la città a guardare le persone, vorrei scrivere lettere ad
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 195 di 200
amiche, vorrei raccogliere foglie secche al parco, invece mi accingo al lavoro. Sarà sensato
tutto ciò? Magari è da questo che nascono le stragi inspiegabili, come rispondevo a Chiara qui (commento al
messaggio intitolato De[motiva]). Ma cerchiamo di mediare, barcamenarci, adattare la realtà e noi stessi a una vita
possibile. Però nel mondo c’è qualcosa che non va! Buona giornata a tutti.
Ah, una cosa: stasera alla libreria Massena, in via Massena 28 a Torino, verso le nove e mezzo presento un libro di
Luisa Rinaldi, Come l’acqua che scorre (A&B Editrice, Acireale-Roma 2006). È un’autobiografia soprattutto
artistica e mentale (lei è pittrice oltre che scrittrice) dove si parla anche dell’esperienza negativa e traumatizzante in
una setta religiosa. Se passate di lì...
Forte e chiaro
venerdì 9 novembre 2007, 12.10.04 | molinaro
Stamattina su Torino soffia un vento forte e chiaro, e neppure freddo: c’è una luce
d’autunnale primavera, c’è tutto un vortice di cose leggere, e qui al quarto piano vibrano i
vetri e ronza la tettoia del terrazzo. E mi è venuta questa poesia. Buona giornata, ragazze e
ragazzi. Non buttiamole via le giornate, non buttiamole via.
FORTE E CHIARO
Il vento soffia forte e chiaro
stamattina su Torino, forte e chiaro
come un discorso fra amici: pulisce
il blu del cielo e scuote le finestre.
Così se qualche amico si nasconde
dietro discorsi oscuri, se un’amica
incerta fra l’amore e l’amicizia
sceglie il nulla – e se il nulla s’insinua
fra le povere nostre cose umane
non diamo colpe al vento: il vento soffia
chiaro e forte: lui sa cosa dice
e cosa vuole: pulisce il blu del cielo
e scuote le finestre.
Il vento scuote tutte le finestre,
non sceglie questa sì e questa no.
È che noi, allarmati dalla luce,
spesso tiriamo giù le tapparelle
perdendoci lagnosi dentro il piccolo
stupido buio della nostra stanza.
Quei bambini che giocano
venerdì 9 novembre 2007, 22.15.30 | molinaro
Un mio amico mi ribadiva pochi giorni fa di non amare la poesia di Vittorio Sereni. I gusti
sono gusti, ma ci sono due poesie almeno di Sereni che per me sono capolavori. Una è Mille
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 196 di 200
miglia, di cui forse ho già parlato in questo blog (non ne sono sicuro: forse). L’altra è Quei
bambini che giocano. È una poesia che parla del tradimento: il tradimento della storia, il tradimento del futuro, il
tradimento della vita, il tradimento di un’amicizia o di un amore. Il tradimento fa male. Il tradimento non è (secondo
me) quando in una cosiddetta coppia uno dei due va a letto con un altro. Quella è una baggianata: almeno, a me non
importa nulla se la mia amica, fidanzata, compagna o moglie fa l’amore con altri, non credo all’amore embedded,
credo solo all’amore libero. Ma questo non mi mette al riparo dal tradimento, perché il tradimento è ben altro. Il
tradimento è quando un’amicizia detta e creduta eterna viene spezzata come un ramo secco. È quando un amore che
ti ha illuso si rivela finto. È quando ti hanno fatto credere che – e invece. Il tradimento è rabbia e dolore, è un colpo di
frusta sui muscoli delle gambe: dopo camminerai ancora, perché il sentiero continua. Ma camminerai meno bene,
meno spedito, meno ottimista, meno sicuro, con meno desiderio e meno entusiasmo. Sì. Poi passa. Tutto passa. Ma
intanto.
Quei bambini che giocano
un giorno perdoneranno
se presto ci togliamo di mezzo.
Perdoneranno. Un giorno.
Ma la distorsione del tempo
il corso della vita deviato su false piste
l'emorragia dei giorni
dal varco del corrotto intendimento:
questo no, non lo perdoneranno.
Non si perdona a una donna un amore bugiardo,
l'ameno paesaggio d'acque e foglie
che si squarcia svelando
radici putrefatte, melma nera.
"D'amore non esistono peccati",
s'infuriava un poeta ai tardi anni,
"esistono soltanto peccati contro l'amore".
E questi no, non li perdoneranno.
Vittorio Sereni
(da Gli strumenti umani, Milano 1965)
Hombre al borde de un ataque de nervios
domenica 11 novembre 2007, 9.42.15 | molinaro
Una ha dormito qui da me, però sulla brandina in cucina. Una si è arrabbiata perché non ho
risposto al suo sms di buona notte ieri sera (probabilmente è arrivato molto più tardi di
quando l’ha spedito, succede, non fidatevi dei sms). Una mi sollecita perché le scriva delle
cose, e basta. Una dopo un anno di «amicizia amorosa» assolutamente splendida mi ha
buttato nella pattumiera da un giorno all’altro. Una dopo anni d’amore si è dissolta nel
nulla. Una dopo promesse d’amore mi ha respinto stizzita. Ieri sera stavo a sentire Guccini e
mi veniva da piangere, poi mi son rotto il cazzo e ho cercato, al posto di Guccini, una canzone che è un’assoluta
cagata, di un certo Adán «Chalino» Sánchez, messicano, improponibile. Però il profondissimo testo (ehm) rispecchia
il mio stato d’animo. Ma solo per un minuto, poi passa. Perché poi ci ricasco e preferisco morir por amor che morir
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15/11/2007
Carlo Molinaro
Pagina 197 di 200
sin amor. Tanto se muere comunque. E allora! Buona «estate di san Martino» a tutti.
ME CANSÉ DE MORIR POR TU AMOR
me cansé de seguirte los pasos
de servir de tu ángel guardian
me cansé de entregartelo todo
me cansé de amar por amar
me cansé de robarte un te quiero
de vivir de tu amor limosnero
me cansé de morir por tu amor
de sentir decepción sin un te quiero
me cansé de querer por querer
a una estatua de sal a una estatua de hielo
me cansé de morir por tu amor
Della bicicletta e dell'inutilità del prevedere
domenica 11 novembre 2007, 13.44.13 | molinaro
Massì, va! Amore, sogno, vita. La mia bicicletta è proprio un rottame, devo decidermi a
toglierla dal cortile se no mi sa che cominceranno a protestare per il «decoro». Magari la
porto in periferia e la abbandono, forse qualcuno la adotta (anche se è veramente scassata).
Non guardatemi così male, non è un cane! Le biciclette non soffrono (forse). E poi così le
do una possibilità: se la consegnassi agli appositi servizi della raccolta rifiuti differenziata,
la farebbero a pezzi subito. Invece abbandonandola in periferia magari qualcuno, più
ingegnoso e meccanico di me, riesce a recuperarla a un qualche funzionamento. Poi in primavera me ne prendo una
nuova, se ci riesco. Certo che un po’ anche a una bicicletta ci si può affezionare. Ho portato due ragazze ancora
abbastanza recentemente (insomma, cinque o sei anni fa) sulla canna di quella bici. Che è una cosa che non fa quasi
più nessuno. Una volta si usava molto. Ma insomma, una bicicletta è solo una bicicletta. Tutto passa.
L’impermanenza!
Ho sempre avuto paura della vecchiaia. Ci ho pensato poco fa osservando una vegliarda scheletrica su una sedia a
rotelle. Sì, lo so che ogni età ha qualcosa di buono, che a ogni cosa ci si abitua, che tutto è relativo. Però la vecchiaia
non mi entusiasma granché lo stesso. Non ho soluzioni per la vecchiaia. E l’ho sempre saputo, lo sapevo già a
vent’anni, che non ero il tipo da avere soluzioni per la vecchiaia, e che ci avrei patito forse più che altri. Amo troppo
la giovinezza. Non so che farci. Lo so.
Non sono sprovveduto come sembro. Ci sono un sacco di cose che so benissimo, e che so benissimo anche da tanto
tempo. Il problema è che, con uno scatto ulteriore di saggezza che diventa antisaggezza, so anche che saperle non mi
serve a un cazzo. Figuriamoci (per fare un esempio a caso) se non lo sapevo che la meravigliosa quotidiana vicinanza
con una fanciulla che so io non poteva durare. Lo sapevo benissimo. È già durata tanto (quello che speravo è che
finisse in modo meno brusco, salvando dell’amicizia, ma tant’è, e poi chissà, questo lo spero ancora, in fondo, diamo
tempo, già, tempo, sempre lui, il tempo). Ecco: ma il fatto di saperlo benissimo da prima, rende l’evento meno
doloroso? Secondo me no, neanche un cicinìn. Lo lascia doloroso uguale. Quindi è una sapienza perfettamente
inutile, se non dannosa.
Per la vecchiaia è lo stesso, per la morte pure, e così per altre cose ancora: prevederle è inutile. Ci sono faccende che
prevedere è utile: per esempio se prevedi che un cornicione stia crollando, magari ti sposti e ti salvi. Ma se il
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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cornicione che crolla è la fine di un amore o è la vecchiaia o è la morte, non c’è proprio nulla da fare: dove cazzo ti
sposti? Te lo becchi lo stesso sul cranio, previsto o imprevisto è uguale.
Comunque oggi a Torino c’è il sole; di che tempo farà domani non me ne frega niente; ho sempre odiato le previsioni
meteorologiche. Una volta almeno erano quasi tutte sbagliate; ma adesso, con quelle minchie di satelliti che
inquinano la stratosfera, ci azzeccano pure, ed è un fastidio.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
[l'immagine è tratta da un simpatico sito naturista - ho fatto per quattro o cinque anni le vacanze in luoghi naturisti e
non è stato niente male]
Quinto discorso di Calipso
martedì 13 novembre 2007, 0.30.32 | molinaro
Questa volta, sfidando le ire della Sezione Campi Elisi della SIAE, penso
occorra citare almeno qualche verso della parte di Ulisse. Ulisse ha detto
fra l’altro: «A me pare tu voglia seguirmi più per il viaggio / che per
l’amore. / Il tuo non è amore. / La tua è disperazione per una vita / che
ti sei tenuta stretta ma che ora ti è sfuggita». È un tema forte per gli
uomini, questo. Lo sarà anche per le ninfe? Sentiamo che cosa ha
risposto Calipso. Le puntate precedenti sono nei messaggi n. 114, 115, 133 e 154.
QUINTO DISCORSO DI CALIPSO
Mi vedi dunque vecchia. Certo è l’occhio
che t’inganna, per qualche sortilegio:
il corpo delle ninfe non invecchia.
Forse un dio t’ha concesso di vedere
figurato nel corpo il tedio antico
dell’anima? Il tedio non risparmia
uomini, satiri, naiadi, dei:
forse è per noia che anche Zeus va a caccia
di fanciulle mortali da trombare.
Ma per vincere il tedio mille modi
avrei, Ulisse – se volessi un viaggio
avventuroso, partirei da sola:
credi che non potrei? Sono capace
di andare ovunque, nelle pure selve
come nei porti odorosi di piscio,
popolati di troie e malfattori.
Il mio tedio, se c’è, non è diverso
dal tuo – perché noi siamo tutti uguali
in questo, dall’Olimpo fino all’ultima
bettola di Corinto o Mitilene.
La differenza che non vuoi capire
è che ti amo. Se tu vuoi viaggiare
viaggio con te – se preferisci stare
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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in una breve striscia di montagna,
resto con te. Già conosco abbastanza
il mistero del mondo: so che un piccolo
paese me contiene tanto quanto
l’immenso impero di Mesopotamia.
Tu cerchi l’arte, la τέχνη, la casa,
la domestica pax, la sposa, i lari:
e intanto navighi e navighi. Ma
è l’amore – il suo guizzo – che ci fa
trovar noi stessi. Se non m’ami vai,
vattene solo per il tuo cammino,
non cercare più scuse e non negare
l’amore mio. Noi vivremo le vite
che il destino darà – rimpiangeremo
questa gioia sprecata, ma faremo
come tutti: dimenticheremo.
Trash blog
martedì 13 novembre 2007, 22.49.22 | molinaro
Ho sempre odiato quei programmi televisivi dove la gente va a sputtanare i propri
sentimenti, i reality show credo che si chiamino, il trash, o qualcosa del genere. Non ne ho
visti molti, anzi per intero non ne ho visto nessuno, ma i pezzetti colti qua e là nelle varie
case telemunite che mi è capitato di frequentare (io come è noto non ho il televisore) mi
sono bastati.
Vedo però che qualcosa di simile può accadere anche sui blog; benché a un livello
leggermente più dignitoso, perché comunque più personale e sentito, e meno spettacolarizzato. Tempo fa c’era stata
una tipa che era venuta qui sul mio blog a insultare di brutto una mia amata amica. Adesso, in questi giorni, c’è una
certa Pandora che, sul blog di Chiara, copre di insulti me, Chiara stessa e altre persone. Alcuni epiteti simpatici che
mi ha rivolto: bavoso, viscido, senza coglioni, perdente, stronzo, nato morto, coglione, ridicolo, meschino, frustrato.
Ma il problema non è questo. L’insulto è un gesto non verbale, persino quando è scritto. Se anche usa parole dotate di
un significato, glielo toglie, riducendosi sempre a una specie di rutto o scoreggia. Lo sanno bene i guitti, che usano
insulti e rutti e scoregge allo stesso modo, da Plauto in qua.
La cosa che rattrista è che talvolta, prima che si sprofondi nell’ingiuria, ci sono idee, concetti che potrebbero essere
discussi: la stessa Pandora (che invito a insultarmi qui e non sul blog dell’innocente Chiara) l’altro giorno mi aveva
rivolto messaggi taglienti sì ma «su cui si poteva parlare». Solo che la mia pacata risposta ha provocato il naufragio
nella melma dell’insulto. E allora vuol dire che non era vero che Pandora voleva parlare, discutere. Peccato, perché
quando non insulta riesce a esprimersi con una certa efficacia di linguaggio, e anche a centrare talune questioni
importanti. Ma poi improvvisamente è dominata da una volontà di offendere che non so da dove scaturisca.
Comunque, se il mondo è bello perché è vario, anche il piccolo mondo virtuale del blog forse è bello perché è vario.
Quella dell’insulto è una varietà malinconica, perché chiude la comunicazione, e ogni comunicazione chiusa è
un’occasione perduta. Ma esiste, e ne prendiamo atto.
[nell’immagine: quando avevo un anno di età, le ragazze a Torino erano così - dunque non venite a dirmi che il
mondo non è migliorato - è migliorato parecchio, per fortuna]
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15/11/2007
Carlo Molinaro
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Desiderio semplice
Ieri 14 novembre 2007, 17.26.08 | molinaro
Gli scontri, pettegolezzi, qua e là insulti, che ruotano spesso intorno a
una delle cose più belle del mondo, mi hanno ispirato una piccola,
piccolissima poesia, proprio piccola e semplice, fatta per dire come è
piccola e semplice, eppure grande e meravigliosa, la cosa bella intorno
alla quale purtroppo ci siamo abituati da sempre a sollevare tanto
torbido, forse per paura della vita, forse per paura di noi stessi. Non è la
critica rivolta all’umanità impura da parte del purissimo poeta, per carità! Tutt’altro! Nel
torbido ci sono anch’io, è così radicato che a toglierlo tutto non riuscirò mai, però almeno ci
provo, provo a illimpidirmi, come, quando e quanto posso. So – da qualche anno so – che è
fatica spesa bene.
DESIDERIO SEMPLICE
Vorrei semplicemente
il mio sguardo nel tuo sguardo
un sorriso
la mia mano nella tua mano
le mie labbra sulle tue labbra
la mia lingua nella tua bocca
la mia anima nella tua anima
il mio liṅgaṃ nel tuo yoni
la tua anima nella mia anima
la tua lingua nella mia bocca
le tue labbra sulle mie labbra
la tua mano nella mia mano
un sorriso
il tuo sguardo nel mio sguardo
semplicemente vorrei.
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15/11/2007
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