Nadir Ferruccio Sorlini Bouquet d’Amour Ferruccio Sorlini 25.04.1903 – 28.07.1945 p. 1 Nadir Ferruccio Sorlini p. 2 Profilo biografico Premessa Il presente contributo è parte integrante di una ricerca storica più ampia denominata Bouquet d’Amour, avviata nel 2008 e mirata a ricostruire il Novecento sul territorio di Villa Carcina nella prospettiva di valorizzare il “cammino della democrazia” nell’intera Valtrompia. Accanto allo sviluppo di 21 profili di personaggi che hanno contribuito in maniera positiva a determinarne l’evoluzione in tale direzione, è sorta la necessità di approfondire la conoscenza di una “Black List” di altri personaggi che si sono loro contrapposti, a volte disumanamente, fino a rendersi responsabili di omicidi e inenarrabili violenze contro sedi istituzionali e di partito. E’ in questa specifica prospettiva che i due fascistissimi fratelli Sorlini (Mario e Ferruccio) sono stati indagati, perché di casa a Villa in quanto amici del camerata Massimiliano Gusmeri (che parteciperà al alcune azioni squadristiche e sarà a lungo segretario del fascio, nonché ufficiale della milizia) e del più giovane fratello Tullio, squadrista della «Me ne frego», che si renderà responsabile di due mortali pestaggi nell’allora comune di Villa Cogozzo. Parliamo di profilo dunque - non di biografia – perché 1) ciò che primariamente è stato analizzato sono soprattutto i rapporti di questi personaggi con gli eventi associati al territorio di Villa Carcina; 2) molti dei fatti accaduti esternamente sono stati solo accennati o trascurati; 3) non tutte le fonti archivistiche e documentali (comunque scarse) sono state consultate. Il presente elaborato è dunque da considerare solo una prima traccia di studio, aperto all’arricchimento storico e culturale di chiunque voglia contribuire a una migliore conoscenza oggettiva dei personaggi esplorati e alla comprensione di quello che realmente fu il fascismo in Valtrompia e delle sue funeste conseguenze politiche e culturali, argomenti finora poco analizzati. Considerati questi limiti, il presente «profilo biografico» è da considerarsi una versione provvisoria. Nb. Il paragrafo in premessa è ripreso dalla biografia del fratello Mario, allegata al Notiziario Rln n. 03 – 02/2013. Non è nota alcuna fotografia ufficiale di Ferruccio Sorlini. L’immagine di copertina è estratta dalla fotografia degli squadristi della «Disperata» in cui Ferruccio appare in squadra con l’elmetto in testa accanto al fratello Mario nell’ottobre 1922. Tutte le fotografie utilizzate sono tratte dal libro di Pier Alfonso Vecchia Storia del fascismo bresciano. 1919.1922, Vannini editore. * Fratello minore di Mario (11.03.1899-19.01.1927) – Ferruccio nasce a Brescia il 25 aprile 1903, stesso mese e giorno di primavera che 42 anni dopo porranno fine al suo impossibile sogno di dominio. A 11 anni tenta per la prima volta il suicidio, sparandosi con una rivoltella Flobert una pallottola in testa, che gli resterà conficcata per tutta la vita (altri due tentativi li compirà nel ’45, nell’attesa del processo penale). Cupo personaggio (verrà soprannominato «iena di Brescia») entra giovanissimo a fare il suo apprendistato di violenza nella squadraccia fascista «Disperata» di Brescia (il “più pugnace e attivo nucleo di soldati della Rivoluzione della nostra terra” scriverà «Il Popolo di Brescia» in un articolo commemorativo del 10.01.1941) capitanata a partire dal giugno del ’21 dal fratello Mario – ma già gregario della stessa a partire dal 13.05.1920 - partecipando a numerosi crimini compiuti dalla famosa banda di terroristi neri, in particolare nel luglio 1921 all’assalto della camera del lavoro di Ghedi e di Brescia. La notte del 10 dicembre 1921 a porta Cremona, riconosciuto da un gruppo di antifascisti mentre rientra a casa insieme al fratello e allo squadrista Giuseppe Pogliaghi, viene insultato e percosso, riuscendo tuttavia a sottrarsi agli aggressori. E’ in città, durante la sua bellicosa attività squadristica condotta insieme al fratello, che viene probabilmente a conoscere il facoltoso notaio Giovanni Maria Cavadini (che nel ’23 diverrà capo zona del fascismo triumplino e sindaco fascista di Villa), il futuro segretario del fascio di Villa Nadir Ferruccio Sorlini p. 3 Cogozzo nonché assessore Massimiliano Gusmeri e suo fratello minore Tullio, offrendosi di dare loro man forte nei pestaggi contro i socialisti di Villa e della valle. Divenuto centurione della milizia fascista, combatte nella guerra civile di Spagna nel battaglione d'assalto legionario «Carroccio», partecipando anche alla famosa battaglia di Guadalajara (8 - 23 marzo 1937) dove rimane invalido per una grave ferita alla testa. Divenuto funzionario dell’Agip, il 15 luglio 1938 sottoscrive assieme a numerose alte personalità del regime il manifesto degli scienziati razzisti, che darà origine alle leggi razziali fasciste, lette per la prima volta dal balcone municipale di Trieste da Benito Mussolini il successivo 18 settembre. Tali discriminatori provvedimenti legislativi e amministrativi, rivolti prevalentemente - ma non solo - contro le persone di religione ebraica, saranno fatti propri dalla repubblica di Salò. Dopo l’arresto del duce e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco Ferruccio Sorlini rimane il più fascista di tutti e meno che mai si sente pensionato. Anzi, decide di fare il nazista ed è esattamente a partire da questo momento che il terrorismo neo-fascista entra nella storia di Brescia. Sullo sfondo d’una sfida finale tra alleanza delle nazioni democratiche e armate dittatoriali e d’una diffusa rivolta resistenziale rigenerativa che si sta organizzando in forma armata; dinnanzi a un generale crollo del consenso ed evidente calo di potere della vecchia struttura fascista, decide di rimettersi in gioco in prima persona, alla sua maniera, perché lui rappresenta la storia del fascismo bresciano e vuole continuare la guerra. Ritenendo necessario riconfigurare il partito in modo nuovo e aggressivo, sul modello nazista, come richiedono gli occupanti, riprende la strada del potere accompagnandosi ad alcuni squadristi rimastigli fedeli. Il 12.09.1943 si presenta “stivaloni gialli, camicia nera, fasci rossi da squadrista” al comandante militare tedesco Von Whutenau con i camerati Alfredo Becherini, Augusto Bastianon (console generale della Milizia) e il capomanipolo Mario Colombini, mettendosi a loro completa disposizione. Si concretizza così di fatto - a partire dal giorno 13 - un quadrunvirato di cui lui è segretario politico, mentre il gen. Bastianon ha il compito di riorganizzare la milizia e Becherini l’incarico di riallineare imprenditori e lavoratori) aprendo di fatto la via al ritorno del fascismo squadrista a Brescia. E' il peggio del peggio. E' l’inizio della sua seconda fase emergente, quella fuorilegge e sanguinaria, che lo porterà addirittura in contrasto con le gerarchie fasciste più prudenti e moderate. “Fu presente a tutte le riunioni e decisioni. Lo scopo di Sorlini – scrive l’Enciclopedia bresciana di Antonio Fappani - era soprattutto quello di ottenere armi per i fascisti dai tedeschi. Riuscì infatti in pochi giorni a formare un primo nucleo di polizia che scatenò il terrore in tutto il Bresciano, causando apprensioni e resistenze fra i più responsabili degli stessi fascisti”. Sua la responsabilità della disfatta partigiana seguita alla prima battaglia scatenata il 9 novembre 1943 dai nazifascisti a Croce di Marone, dove si erano raccolti ribelli e militari sbandati provenienti da più parti. Ferruccio Sorlini riesce a corrompere uno dei capi della resistenza, il tenente del 77° reggimento di fanteria «Lupi di Toscana» di stanza a Brescia Armando Martini, che aveva abbandonato l’esercito fascista dopo l’8 settembre. Il tenente e i suoi uomini si allontanano insospettati dalla loro posizione proprio il giorno prima dell’attacco aereo-terrestre sferrato all’alba del 9 novembre, salvandosi così dalla disfatta. Successivamente Armando Martini, divenuto spia antipartigiana a tempo pieno, verrà catturato sopra Cesovo e ucciso il 22 maggio 1944 ai piedi del monte Muffetto con un colpo di pistola sparatogli alla testa dal russo Nicola Pankov. Dopo la sconfitta di Croce di Marone anche il capo partigiano Gianni Longhi, ex tenente di marina, passa al soldo del Sorlini, rendendosi responsabile della denuncia contro diversi compagni di lotta ma finendo tuttavia arrestato e fucilato dai tedeschi a Verona, il 29.02.1944, per aver a sua volta fucilato sui monti tra Brione e Polaveno l’ex alpino Giuseppe Clementi di Villa Carcina, loro fidatissima spia infiltrata tra le prime bande ribelli. Questi fatti documentano in maniera significativa gli sporchi metodi allora usati per cercare di contrastare il dilagare della protesta ribellistica tra i giovani militari sbandati e i primi gruppi della resistenza armata in Valtrompia. Nadir Ferruccio Sorlini p. 4 Nonostante i successi conseguiti nella repressione ribellistica, ma probabilmente proprio per i suoi metodi, l’11 novembre del ’43 il maggiore Ferruccio Sorlini viene esonerato dalla carica di federale, con gravi accuse. Non si scoraggia per niente il quarantenne squadrista, divenuto collaboratore del capitano delle Ss Priebke. Dopo la costituzione della Gnr (20.11.1943) ottiene la nomina a comandante della sezione politica di questa nuova arma combattente e insieme forza di “polizia interna e militare” dipendente dal partito, in cui vengono fatti confluire i carabinieri. Ma anche questa carica gli verrà presto tolta. Sorlini non molla e appena destituito dal comando si mette a servizio dell’Ufficio politico della questura. Tuttavia, seguendo le proprie pulsioni, chiede e ottiene dalle Ss il comando di una «banda» tutta sua, completamente autonoma, totalmente dedita alla repressione. Comincia subito, reclutando nuovi fidatissimi squadristi fra i questurini e i comandanti periferici dei carabinieri, persino tra agenti dell’Ovra e i funzionari di partito, tutta gente che ha conosciuto nell’esercizio delle sue funzioni di comando. Bisogna evidenziare almeno due elementi distintivi di questa nuova formazione criminale. Innanzitutto la natura come sempre non convenzionale delle sue azioni, stavolta non più subordinata alle finalità pseudo rivoluzionarie del partito fascista, bensì concepita a sostegno dell’operatività dell’occupante nazista e della sua crudelissima logica repressiva nei confronti dei “banditi”, dunque totalmente svincolata dai controlli istituzionali del fascismo repubblicano. La sua qualità fondamentale non è dunque quella di comportarsi da comandante estremista d’una squadra fascista, come il fratello Mario, ma da militare al servizio dell’oppressione tedesca contro chiunque mostri segni di ribellione, requisito indispensabile per avere l’approvazione del loro comando, che gli permette di coprire misfatti connessi alla propria perversa logica dominatrice. Da notare che questo comportamento anticipa lo stile e il metodo che saranno fatti propri dal neofascismo terrorista e stragista dei successivi anni Sessanta e Settanta, guidato da Ordine nuovo, asservito ad apparati militari e ai servizi segreti. Bisogna in secondo luogo far presto e bene. La banda cioè deve essere ad effetto immediato, agendo per lo più nell’ombra e con rapidi spostamenti. Per questo non utilizza giovani reclute da addestrare, come era avvenuto ai tempi della prima guerra civile (1921-1922) bensì funzionari addentro importanti uffici di partito (alla stessa federazione) o statali (questura, Gnr), militi già esperti nell’uso delle armi e abituati allo spargimento del sangue, alla pratica della delazione e della tortura, all’esercizio della violenza – anche omicida - contro vecchi e nuovi nemici, siano questi giovanissimi ribelli o cittadini inermi, come avvenuto nella strage di Bovegno. Di questi nuovi squadristi irregolari lui è il capo assoluto: è lui che fa da maestro, che insegna la ferocia, che dà le direttive e impartisce gli ordini, che dispone blocchi e imboscate, che coordina e dirige i rastrellamenti, che corrompe ribelli pentiti e compra nuove spie. E’ sempre lui che al centro tesse la tela dei comprimari nell’operazione intenzionalmente diretta a smembrare ovunque il corpo resistenziale bresciano. E’ dunque lui, direttamente o indirettamente, di tutti i crimini commessi il mercenario senza scrupoli primariamente – non esclusivamente - responsabile. Li unisce un unico patto: punire gravemente i sospettati o uccidere qualcuno identificato come nemico non è reato: è sempre legittimo, pienamente giustificato, assolutamente impunito. A ciò è finalizzata l’anomala pressione antiribellistica dei suoi uomini, condotta ovunque con un crescendo intenso tramite fedeli esecutori, anche istituzionali, come i comandanti dei carabinieri (Gnr) – ad es. di Gardone e Lumezzane – posti al suo servizio. Lo scopo è di far vivere ribelli e cittadini permanentemente nella paura, di tenerli soggiogati con il terrore, intimorendoli con i cadaveri delle vittime lasciati ai margini delle strade o nelle piazze. In questa luce acquista valore il gran rifiuto del brigadiere Modestino Guaschino, dal ’39 al comando della stazione dei carabinieri di Villa Carcina e membro del Cln comunale, che nel giugno del ’44 preferisce rassegnare le dimissioni dall’Arma piuttosto che prestarsi a qualsiasi collaborazione, unica lodevole eccezione in Valtrompia. Sarà proprio questa la causa remota e prima del suo atroce assassinio compiuto dalla banda Sorlini nella notte fra l’11 e il 12 marzo 1945, preceduto la sera prima da quello del partigiano solitario Francesco Scaletti di Cailina e seguito subito dopo dall’uccisione di Armando Lottieri alla Stocchetta, anch’egli esponente del Cln cittadino. Nadir Ferruccio Sorlini p. 5 Il battesimo della banda assassina parte all’indomani del ferimento del legionario Paolo Tosoni e dell’uccisione del caposquadra Luigi Bertazzoli, provocati dall’attentato gappista compiuto la sera del 12 novembre contro il comando della milizia dislocato alla scuola agraria Pastori in località S. Eufemia. Gli attentatori fanno parte del nucleo gappista diretto da Leonardo Speziale e sette di loro saranno arrestati la sera del 17 novembre dietro delazione di un compagno di lotta, Fappani Giuseppe, segreto confidente del questore. La banda Sorlini non attende l’esito delle indagini, mettendo prontamente una crudele rappresaglia. All’alba del 13 novembre viene prelevato da casa e ammazzato in località Crocevia di Sarezzo l’operaio antifascista Luigi Gatta, di 34 anni, capocellula della locale rete clandestina comunista. Riescono fortunatamente a sfuggire alla cattura Antonio Forini e Francesco Gamba. La criminale caccia all’uomo riparte la sera in città, dove vengono uccisi tre altri innocenti: in via San Faustino il merciaio ambulante Rolando Pezzagno, di 57 anni, anarchico ed ex confinato all’isola di Ustica; in piazza Rovetta Arnaldo Dall’Angelo, operaio comunista della Radiatori, ex confinato all’isola di Ponza e diffusore della stampa clandestina; cercano Giuseppe Andrini, ma sbagliano casa e ammazzano il fresatore Guglielmo Perinelli di 61 anni, comunista. Riesce a sopravvivere ai colpi del mitra il quarantenne Mario Donegani, operaio della Togni, noto antifascista, che riparerà in montagna unendosi nel ’44 ai garibaldini della 122a brigata. Questa di piazza Rovetta, preceduta dall’assassinio del Gatta di Sarezzo, è la prima strage di antifascisti compiuta dalla criminale banda personalmente comandata da Ferruccio Sorlini. Ne seguiranno altre, sempre caratterizzate da incredibile ferocia, sullo stile nazista. La banda Sorlini è di fatto una formazione paramilitare indipendente, con speciali compiti di polizia politica, repressione, controspionaggio, caccia ai ribelli e agli ebrei, con la facoltà di eseguire perquisizioni e confische, procedere ad arresti, condurre interrogatori anche con l’uso della tortura, emettere condanne a morte ed eseguire sentenze, ma anche compiere uccisioni arbitrarie, saccheggi, taglieggiamenti, incendi. “Tutto gli fu permesso. Riuscì perfino a disgustare le SS ed è tutto dire”. In pratica il comando militare tedesco, seguendo una lucida strategia di attacco e anticipando il futuro ruolo repressivo imposto alle brigate nere, gli concede piena licenza di violentare e uccidere i civili in rivolta. Stessa libertà d’azione sarà nei fatti lasciata alla polizia politica della diretta dal febbraio 1944 da Gaetano Quartararo, da considerare anch’essa una vera e propria banda speciale antipartigiana impiegata in rastrellamenti, perquisizioni, arresti seguiti da torture, vere e proprie uccisioni, come nel caso del comandante della 122a brigata Garibaldi Giuseppe Verginella, che sarà ucciso alle primi luci dell’alba del 10.01.1945 a Lumezzane. Ai primi di luglio del ‘44 – secondo l’enciclopedia citata - diviene “vicecomandante della Brigata nera Tognù. Il 2 luglio 1944, per rappresaglia, trascinò a Salò cento uomini di Vestone compreso il clero del luogo. Nel Ferragosto 1944 fu presente alla sanguinosa rappresaglia di Bovegno. Poi si segnalò a Collio a caccia dei partigiani. Nel dicembre 1944 venne arrestato con Persavalli e Paterlini dalla Guardia Nazionale Repubblicana per ordine di Alfredo Becherini, sembra per dare un segno di distensione all’opinione pubblica e al movimento partigiano; venne poi liberato dalle SS che lo assunsero a proprio servizio. Unitosi alla compagnia Cavagnis, ricostituì un suo gruppo d’azione segnalandosi in decise azioni antipartigiane”. Un suo efficace ritratto ci verrà fornito dal corrispondente del giornale di Brescia durante il processo che si svolgerà a suo carico nel luglio 1945: “con la gobba che gli avanza da metà schiena, l’abito grigio e anonimo, la nuca sottile, i capelli radi e sbiaditi: solo gli occhi grandi neri accesi, hanno talvolta un che di allucinato e di perverso, di rabbrividente. Senza il mitra sotto il braccio, senza i grappoli di bombe a mano, senza i feroci sgherri ai fianchi, Sorlini assomiglia a un piccolo sofferente burocrate”. Ma è un estremista da sempre nel fascismo bresciano e ottiene carta bianca nella repressione del nascente movimento di resistenza, contro il quale progetta e realizza un duro regime di polizia, attivando una vasta rete di spionaggio e sperimentando aggressioni terrorizzanti. Dai risultati della Nadir Ferruccio Sorlini p. 6 presente limitatissima ricerca possiamo nominare solo alcuni degli elementi della sua banda, emersi dalle carte per qualche cruenta azione commessa in terra bresciana, per di più con dati incompleti, pur se integrati da elementi tratti dal processo alla banda celebrato a Bologna tra il 9 novembre 1948 e il 12 gennaio 1949: capitano ing. Rizzi, addetto al servizio politico, Eugenio Castellini (braccio destro del Sorlini), Mario Serioli (il boia), Carlo Bonometti (capitano della Gnr a Gardone Valtrompia), Renato Cometto (capitano della Gnr), Umberto Brighenti (brigadiere della Gnr a Lumezzane), Enrico Brignoli (brigadiere della Gnr), Giuseppe Glisenti, Giacomo Mensi e Giacomo Quinzani (agenti dell’Ufficio politico della questura), Mario Pagani (furiere della brigata nera, presente all’omicidio Guaschino e Lottieri), Aldo Frau (milite della brigata nera), Mario Brunelli (interprete dei tedeschi e spia), Franco Persevalli (autista della banda, presente all’eccidio di Bovegno), Lino Caprinali (della segreteria del partito), Giovanni Cavagnis (comandante del 3° battaglione della brigata nera Tognù), Giovanni Tancredi (milite della brigata nera), Mario Scarsella (milite della Gnr di Gardone), un certo Romano (probabilmente Paolo, vice brigadiere di Ps, agente dell’Ovra). Questa la testimonianza del Sorlini rilasciata alla corte di assise qualche giorno prima di essere ucciso: “Dopo trattative, il 4 Novembre 1943 ebbi un abboccamento a Marone prima e a Zone poi, con elementi del gruppo Martini; tutto era predisposto e 60 stranieri che appartenevano al gruppo sarebbero andati per conto loro e 240 italiani si sarebbero presentati, sarebbe stata regolarizzata la loro posizione e sarebbero tornati alle loro case. Il movimento doveva avvenire il martedì, se non che il lunedì i tedeschi pressati dall’allora Prefetto Barbera, decisero di attaccare il gruppo Martini proprio martedì. Martini mi mandò una staffetta, certo Delle Donne Giuseppe, che giunse in Federazione alle 9 del mattino. Non curante della fucilazione che rischiavo mi informai delle direttrici di attacco delle colonne tedesche e attraverso la stessa staffetta munita di lasciapassare da me firmato e di una moto targata Federazione, rinvia il Delle Donne a Martini, comunicandogli le vie che aveva libere per sganciarsi, col consiglio di non combattere. Questo avvenne il 9 Novembre”. Grazie al suo intervento, il tenente Martini si allontana insospettato il giorno prima dell’attacco aereo-terrestre sferrato dai nazifascisti all’alba del 9 novembre, salvando se stesso e i suoi uomini dalla disfatta, mentre 8 neopartigiani cadono vittime del rastrellamento e altri 8 vengono arrestati. Così la sua vita viene ricordata sul «Giornale di Brescia» in data 25.06.1945. “Dalla metà del settembre 1943, quando egli, con beneplacito e la fiducia dei capi della mostruosa repubblica sociale, si insediava in triunvirato (con Becherini e Bastianon) al comando della Federazione fascista di Brescia, il suo nome non cessò un giorno di essere la curiosità e l'incubo di tutti i bresciani onesti. Poco più che quarantenne, questo uomo che cominciò ad essere "noto" fin dai giorni di quella "Disperata" in cui trovava il suo posto, per temperamento e inclinazioni, rimase tipico rappresentante dello squadrismo fascista con una coerenza che sarebbe da lodare se non fosse stata tutta e soltanto rivolta al male. Tornato dalla Spagna col grado di capitano e con gli allori di Guadalajara, ricomparve poi a galla tra coloro che non potevano rassegnarsi alla scomparsa del fascismo, loro vita e difesa e raggiunse i posti e la relativa fama ben nota. Silurato dagli stessi repubblicani alla fine di novembre 1943, come federale, costituiva quel triste servizio politico speciale dal quale scaturirono la quindicina di accuse di reati comuni per cu veniva successivamente arrestato. Fu anche, mentre era federale Melega, vicecomandante della brigata nera "Tognù". Dopo la scarcerazione, si univa a quel comandante della compagnia alpina, Cavagnis, per ordine del quale venivano uccisi Armando Lottieri e altri”. Era stato il comandante della Gnr Valzelli a decretare l’arresto suo e di buona parte della sua banda, tramutandolo in arresto dopo un mese. Il Sorlini viene infatti arrestato il 12.12.1944, ma dopo poco tempo è di nuovo in libertà. Così scrive il periodico antifascista «Il ribelle», anno II, n. 1: “Sorlini il vicecomandante della brigata Tognù, è stato arrestato, e, giorni or sono, passato alle carceri, dove è tenuto separato dagli altri prigionieri per timore di accoglienze troppo calorose”. Nadir Ferruccio Sorlini p. 7 Contro di lui il 5 febbraio 1945 viene nuovamente spiccato mandato di cattura, che tuttavia non viene eseguito a causa dell’opposizione di alcuni commilitoni. Ciò suscita le proteste del capo di stato maggiore della Gnr Nicolò Nicchiarelli, che si lamenta con Alessandro Pavolini. Quel che abbia fatto nel frattempo il Sorlini lo sappiamo bene: stazionava in Valtrompia, sovente in quel di Villa, che era di fatto il suo regno. Nella rappresaglia condotta a Villa Carcina tra il 10 e l’11 marzo 1945, è senz’altro determinante il suo ruolo di capo che assoggetta i devoti camerati - guerrieri ormai perduti e perdenti - con la sua dispotica psicocrazia. Schiacciati dalla sua posizione dominante, che lo rende un autentico padrone d’anime, essi si sottomettono alle sue implacabili decisioni. Ma il Sorlini non è stato semplicemente il burattinaio che ha mosso delle marionette, dal momento che l’omicidio del brigadiere era pianificato da tempo, anche se non vi era una specifica richiesta locale in tal senso ma solo una pesantissima denuncia sottoscritta da autorevoli mandanti. Né si può sostenere che i giovani brigatisti locali si siano limitati a comportarsi come semplici terminali di morte, dal momento che hanno partecipato con ferocia personale al disumano rituale di morte consumato nelle tenebre, pur eccitati dalla travolgente attrazione di sangue esercitata dal capo. Sebbene condizionati, ognuno di loro e tutti insieme conservano intatta la propria responsabilità civile e morale, anche se la giustizia umana si è limitata a classificarli come “ignoti elementi delle b.n.”, senza mai volerli individuare e indagare o fare piena luce su quelle terribili scene di morte. Dopo la liberazione di Brescia, il Sorlini viene aiutato a fuggire proprio dai fascisti di Villa, che gli predispongono un falso documento di identità, col quale raggiunge Milano per cercare di espatriare. Per questo manifesto atto di collaborazione verranno incriminati il segretario comunale Bornati Lorenzo e sua figlia Piera. Inoltre "risulta che il certificato di identificazione falso dal Sorlini esibito a Parma al momento dell'arresto, figura rilasciato dal Comune di Villa Carcina sotto il falso nome di Borloni Francesco (...) residente a Villa via Ripe n. 3 (...) che la compilatrice del documento al Sorlini sia stata la stessa Gusmeri Cordelia". Arrestato in un cinema di Parma il 24.06.1945 e incarcerato in un luogo segreto di Brescia per essere sottoposto a processo, il giorno dopo tenta il suicidio tagliandosi le vene di un braccio con una lametta. Salvato dalle guardie addette alla sua personale custodia e ottenuto così il rinvio del processo, il detenuto trascorre il tempo scrivendo un memoriale difensivo, ritentando in forma più grave il suicidio il mattino del 18 luglio. Il processo a suo carico presso la corte di assise straordinaria ha inizio così solo venerdì 27 luglio, seguito da una folla enorme tanto che è necessario allestire, nel cortile della corte di appello degli altoparlanti, per permettere alle centinaia di bresciani accorsi di seguire le varie fasi del dibattito. Queste le accuse di carattere generale contro di lui mosse: di avere dall’8 settembre 1943 collaborato “con il tedesco invasore, prima come commissario federale poi come ufficiale superiore con funzioni politico militari, assumendosi, in queste cariche le più gravi responsabilità, procedendo a rastrellamenti di prigionieri di guerra liberati dal governo legittimo d’Italia, di sbandati e di disertori, di patrioti che egli ha personalmente perseguitato, spesso torturato e , a volte ucciso o fatto uccidere”. Gli viene inoltre addebitata responsabilità diretta nell’arresto e nell’uccisione, nel marzo del 1944, di Giuseppe Musatti di Ome; il 28 ottobre dello stesso anno, alla Sella dell’Oca, di Mario Bernardelli e di Giuseppe Zatti; di aver consegnato alle Ss Mario Rossi, che verrà fucilato nel forte di Verona; dell’arresto e nella deportazione a Mauthausen - dove morirà - di Angelo Marone, da lui personalmente sottoposto a interrogatorio; dell’arresto e dell’uccisione dei partigiani Bettinzoli, Perlasca e Giacomelli; di Francesco Scaletti il 10.03.1945; dell’ex brigadiere della Gnr di Villa Carcina Modestino Guaschino e del dirigente comunista Armando Lottieri la notte dell’11 marzo 1945; dell’arresto e delle torture personalmente inflitte agli studenti Giuseppe Ercolani, Zappa e Mario Moscatelli, Antonioli e Schiamone. Viene pure accusato di reati contro Nadir Ferruccio Sorlini p. 8 il patrimonio per aver sottratto, a mano armata, con minacce beni preziosi quali mobili, argenteria denaro e gioielli ai danni di numerosi cittadini bresciani. La gravità delle imputazioni fa prevedere una sua sicura condanna a morte, ma il pomeriggio di sabato 28 luglio, il processo ha un’improvvisa conclusione. Così il tragico epilogo della sua vita viene raccontato dal «Giornale di Brescia» in data 29.07.1945: “(…) Sorlini dà risposte confuse, negando la partecipazione ai fatti (…) S’inizia quindi la serie delle contestazioni di reati comuni, le responsabilità dei quali egli tenta di far risalire ai suoi giannizzeri (…) A mezzogiorno l’interrogatorio è sospeso. Sorlini è stanco, nervoso, quasi senza voce. Anch’egli è un angioletto caduto per sbaglio in terra. Nel pomeriggio, ad aula e cortile affollatissimi, nuove contestazioni vengono rivolte a Sorlini (…) La vedova del brigadiere Guaschino riconosce nell’imputato uno degli uomini che prelevarono il marito e che la minacciarono con il mitra, la percosse – ed essa era incinta di otto mesi – la fece rotolare sotto un tavolo e la chiuse in una stanza, insensibile alle disperate grida della donna. Sfilano poi il padre di Scaletti e la giovanissima vedova di Armando Lottieri che anch’essa porta in volto l’ombra pesante di un dolore che non si cancella. Il sicario si agita nella gabbia. Le prove schiaccianti lo hanno annientato. Segue il padre del garibaldino Bernardelli, che dimostra come Sorlini sia stato l’assassino del figlio (…). La sorte del Sorlini processualmente sembra segnata. Ma alle ore 16,45 il processo ha una tragica, improvvisa conclusione. Mentre si stava terminando l’escussione degli ultimi testi, un carabiniere di guardia alla gabbia in cui era rinchiuso l’imputato, impugna il mitra uccidendo l’imputato. Responsabile della morte in diretta dell’imputato è il carabiniere Giuseppe Barattieri, di 32 anni, che aveva comandato in provincia di Brescia una formazione partigiana delle Fiamme Verdi, ferocemente braccata dal Sorlini, che proprio sul capo del Barattieri aveva posto due taglie: una di 100 e l’altra di 500.000 lire (…)”. Così quell’attimo tremendo verrà efficacemente immortalato sul settimanale «La Verità» in data 9 agosto 1945: “Quando la raffica partì dal mitra del carabiniere, e nel breve acro fumo dello sparo, le mani strette al petto, Sorlini s’abbatté nella gabbia, non il sangue che dalla bocca contorta lento spesso cupo segnava il volto verdegrigio del criminale, non la rossa macchia che s’allargava sulla bianca camicia, nulla di tutto questo noi guardammo, ma gli occhi orrendamente sbarrati dell’uomo morto ci attrassero, rovesciati all’indietro, invetriti, abbrividenti (…)” . Morto il capo, contro i suoi più stretti collaboratori, spietati torturatori ed uccisori, ma anche insospettabili estorsori, saranno avviate le indagini nel febbraio del ‘47 e finiranno anch’essi alla sbarra tra il 9 di novembre 1948 e il 12 gennaio 1949 quando, dopo 27 udienze, sarà pronunciata la sentenza definitiva. Prima di finire la storia è utile precisare un’altra cosa. Molte delle sue vittime il Sorlini non le conosceva nemmeno. Conosceva molto bene invece suoi fidatissimi informatori, sparsi in tutta la provincia e rimasti per lo più sconosciuti e dunque totalmente impuniti, che costituivano nell’insieme una rete potente di complicità ben pagate. Spie e confidenti potevano essere funzionari di partito, ufficiali o sottufficiali della Gnr, carabinieri o elementi delle brigate nere, ma anche semplici cittadini, come probabilmente è avvenuto per la strage di Bovegno. E’ un elenco che si dovrebbe tentare di compilare, per dovere di chiarezza e di giustizia nei confronti delle vittime. Nadir Ferruccio Sorlini p. 9 Note a) La X brigata nera – che ha il distaccamento della 3ª compagnia Val Trompia insediato alla Stocchetta - è titolata a “Enrico Tognù”, segretario politico del fascio di Edolo, ispettore per la zona dei fasci dell’Alta Valcamonica, ucciso il 18.06.1944 da un commando partigiano. Sempre in Valtrompia, a partire dal 14 gennaio 1945 e con personale distaccato dalla 3ª compagnia, comincia ad operare la 5ª brigata nera alpina mobile "Enrico Quagliata", con distaccamenti in Valcamonica. Il Quagliata, membro della brigata nera mobile con il grado di colonnello, era caduto in combattimento contro i partigiani a Ceresole Reale (To) l’11.08.1944. Era stato iscritto al fascio dal 1920, svolgendo le funzioni di vicecomandante della squadra «Disperata» di Firenze e partecipando alla marcia su Roma. b) Con Ferruccio Sorlini viene eretta a struttura di sistema la prima formazione irregolare creata a scopo terroristico. Nel bresciano essa farà da apripista ad altre organizzazioni neofasciste organizzate nel dopoguerra in funzione antidemocratica, pronte a scatenate una guerra invisibile di rivincita. Ricordiamo una per tutte, l’Ail (Armata Italiana di Liberazione) le cui vicende finiranno sulla stampa e nelle aule giudiziarie tra l’agosto del 1948 e il novembre 1949, a partire dall’arresto del brigadiere dei carabinieri di Villa Carcina Curzio Gerelli e di alcuni cittadini, notoriamente fascisti o dal passato nazista. Un territorio non casuale, perché proprio in questo comune Ferruccio Sorlini coltivava fin dagli anni Venti potenti amicizie, in particolare con la dinastia dei fascistissimi Gusmeri, che nell’aprile del ’45 gli fornirà – tramite una figlia di Tullio Gusmeri (squadrista della «Me ne frego») che si accaserà proprio con uno dei maggiori imputati dell’Ail, Federico Bevilacqua – il falso documento di identità che gli permetterà in un primo tempo di sfuggire alle ricerche. Così titolava «l’Unità» in data 24.11.1949: “Il traffico di armi di Villa Carcina alle Assise di Brescia. Fascisti ed agrari si armavano per dare una mano alla polizia. Il locale maresciallo dei carabinieri è il principale imputato. La testimonianza del segretario dell’A.I.L.”. Nell’articolo di cronaca riferito all’udienza del giorno precedente si precisa quanto segue: “Questa mattina si è iniziato alle Assise di Brescia il processo a carico dell’ex-maresciallo dei carabinieri di Villa Carcina, Curzio Gerelli e di altri tre imputati, Federico Bevilacqua, Giuseppe Sabattoli e Marino Nolli, arrestati il 1° agosto 1948 a Villa Carcina dalla squadra investigativa dei carabinieri di Brescia e denunciati in seguito all’autorità giudiziaria per traffico di armi. Già nei mesi precedenti all’arresto gli abitanti della Valle Trompia erano a conoscenza di un vasto traffico di armi che, racimolate dai vari gruppi di fascisti organizzati nell’A.I.L.(Armata Italiana di Liberazione) confluivano a Villa Carcina dove il maresciallo locale, grazie alla collaborazione del Bevilacqua, s’incaricava del loro smistamento presso i richiedenti, in generale agrari e industriali. Una prova di ciò è stata fornita dallo stesso Bevilacqua [ex sottufficiale dell’esercito, ndr] che, nella deposizione di stamane, ha specificato dietro domanda del presidente della Corte, che il quantitativo d’armi (9 mitra, 5 bombe a mano, un fucile mitragliatore Breda, moschetti e 100 cartucce) sequestrato il 1° agosto a lui ed agli altri tre imputati dai carabinieri finiti per l’occasione acquirenti, erano destinati agli agrari della «Bassa», dove era allora in atto una agitazione di salariati. I testi hanno pure asserito di essersi accordati con il Gerelli, fin dal 1947, per la creazione a Villa Carcina di un gruppo armato che avrebbe dovuto fiancheggiare i carabinieri locali qualora si fossero verificati movimenti di elementi «estremisti», in quanto Villa Carcina è un forte centro operaio. Il segretario provinciale dell’A.I.L., Dell’Acqua, nella sua testimonianza resa nel pomeriggio di oggi, ha specificato che gli imputati erano suoi dipendenti, pronti in ogni evenienza a dare una mano alla polizia. «Queste – ha soggiunto il Dell’Acqua – erano le direttive prese a Roma tra il gen. Messe e le forze dello Stato». La «collaborazione» avrebbe dovuto quindi verificarsi in campo nazionale, non solo a Villa Carcina (…)”. Nadir Ferruccio Sorlini p. 10 E’ ovvio che si pone il problema storico di indagare molto più approfonditamente sul Sorlini, sulle sue relazioni politiche, economiche e militari, sulle coperture di cui ha goduto e sulla sua banda di terroristi neri, alcuni dei quali resisi latitanti e assolti nonostante i gravissimi reati insieme a lui compiuti, come ad es. il direttore tecnico della Beretta Gianni Cavagnis, comandante del battaglione «Adamello» della brigata nera Tognù. Anche semplicemente per scoprire - o escludere - risvolti che potrebbero portare a risultati sorprendenti, magari ad evidenziare l’occulta connessione con altri personaggi del terrorismo neofascista, come Junio Valerio Borghese, ai tempi rifugiatosi nel bresciano in qualità di capo della X Mas (Montisola era il suo regno personale), golpista nel dopoguerra, risultato infine elemento attivo dell’ «Anello» o «noto servizio» italiano, il superservizio segreto clandestino di carattere politico che per decenni ha svolto la funzione di braccio operativo segreto dei vertici politici contro altri esponenti politici e contro l’opposizione di sinistra. “La matrice repubblichina e fascista del «noto servizio» non impedì la sua evoluzione in un servizio segreto di tipo politico, strettamente dipendente non da organismi dell’intelligence ma direttamente dai vertici delle istituzioni” (Stefania Limiti, L'Anello della Repubblica, Collana: principio attivo, Chiarelettere editore, aprile 2009, p. 55). Documenti / testi In riferimento alle vicende di Sorlini Ferruccio riportiamo due documenti storici e alcuni testi in parte tratti da libri di carattere storico e in parte dai giornali pubblicati dopo la liberazione. 1) 25.10.1943. Relazione di Ferruccio Sorlini inviata dalla federazione fascista al comandante generale della Milizia“sulla situazione politica. Attività elementi ex militari sbandati”. Il documento è riprodotto nel libretto Croce di Marone. La prima battaglia della Resistenza nella provincia di Brescia. 9 novembre 1943, edito dalla Comunità Montana Sebino Bresciano e Comunità Montana Valle Trompia nel 2003. “Confermando quanto ebbe a riferire all’Ecc. Vostra, ieri il V. Commissario di questa Federazione, Ing. Sorlini Renato, riepilogo la situazione che si verifica in questi giorni nella città di Brescia, e in provincia, riguardo all’attività di ex militari sbandati, più o meno inquadrati da elementi antifascisti. A seguito dell’occupazione germanica della provincia, e di quelle limitrofe, , circa dieci-docidi mila ex militari che sono quasi tutti armati, si sono dati alla macchi, sulle montagne che circondano la città di Brescia; a questi sono da aggiungersi alcune centinaia di ex prigionieri Britannici, (soldati e graduati) fuggiti dal campo di concentramento di Vestone, e serbi (ufficiali) fuggiti da quello di Bogliaco in comune di Gargnano. Infine si sono uniti ai predetti, molti degli elementi antifascisti, anti nazionali, fuggiti per paura di rappresaglie e di cattura da parte di autorità germaniche. Attualmente questi gruppi sono dislocati nei monti che vanno da Gargnano fin presso Gussago, passando per la Val Sabbia, Val Trompia, lago d’Iseo e colline della città di Brescia. L’approvvigionamento è loro assicurato sia con taglie imposte ai Comuni e agli abitanti delle zone, come attraverso il continuo defluire dai centri di produzione della bassa bresciana, con tutti i mezzi di trasporto possibili (biciclette, carri, ferrovia) di ingenti quantitativi di cereali. La macellazione clandestina ripresa in grandissima scala con il tacito consenso delle forze d’ordine (carabinieri) assicura il fabbisogno di carne e di grassi. Per l’armamento, è certamente noto all’ecc. Vostra, che gli sbandati si sono trattenuti sia le armi da guerra, che quelle da caccia, oltre il notevole incremento dato dall’azione compiuta contro la Ditta Beretta di Gardone V.T., asportando circa 1200 pistole cal. 9 e un centinaio di mitra oltre al munizionamento relativo. Da segnalazioni precise avute, risulta che questi elementi sono muniti anche di cannoni anticarro e di mortai. Attualmente il gruppo che risiede nella zona del Lago d’Iseo, e che è al comando di un Tenente Colonnello degli Alpini ed è forte di 5/500 uomini, ha iniziato un corso regolare di sabotatori. Da notizie attendibilissime, risulta che questi sbandati intendono effettuare nei prossimi giorni, un’azione nell’abitato di Brescia. Al proposito sono stati presi accordi con elementi operai dello stabilimento “Tempini”, pronti ad una insurrezione. L’operazione che Nadir Ferruccio Sorlini p. 11 dovrebbe avere la durata di poche ore, sarebbe destinata ad eliminare gli esponenti fascisti più in vista e oltre a compiere atti di sabotaggio, a intimidire la popolazione. Poiché le forze germaniche risiedenti in Brescia sono oltre modo esigue, l’azione che sarebbe compiuta da alcune centinaia di armati, avrebbe sicura riuscita. Questa federazione ha richiesto al locale Comando della Milizia che sia provveduto ad un servizio di guardia, dato che nessun fascista è armato mentre lo sono abbondantemente gli elementi antinazionali. Fin’ora non si è potuto ottenere nulla. In vista di tale situazione, ritengo che sia opportuno richiamare l’attenzione dell’Ecc. Vostra al riguardo, al fine di ottenere quel minimodi sicurezza che potrebbe essere anche in parte raggiuntose fosse possibile armare i fascisti aderenti al P.F.R.. Il Commissario Federale – Cent. Ferruccio Sorlini”. 2)22.09.1943. Comunicazione inviata da Ferruccio Sorlini al prefetto di Brescia Leone Leoni e per conoscenza al comando germanico della “Piazza” di Brescia. Il documento è tratto dal libro di Ludovico Galli Documenti inediti. Repubblica Sociale Italiana. Brescia 1943-1945 , p. 15. “Oggetto: Costituzione della reggenza della federazione dei fasci - Brescia – Facendo seguito al colloquio avuto con l’Ecc. vostra ieri mi è grato sotto riportare i nominativi dei fascisti che ho chiamato a far parte della reggenza della federazione dei Fasci di combattimento di Brescia: 1°) Beccarini - squadrista 2°) Balisti Fulvio - squadrista 3°) De Giuli Sandro - squadrista 4°) Colombini Mario - squadrista 5°) Dugnani Innocente - squadrista 6°) Pini Luigi - squadrista Quanto sopra per l’opportuna conoscenza. Partito Fascista Repubblicano Il Reggente Ferruccio Sorlini”. 3) La prima narrazione che riguarda i metodi spionistici di Ferruccio Sorlini è ricavato dal libro prodotto dalla sezione gardonese dell’Anpi nel 1988: Testimonianze sulla Resistenza alla Beretta e alla Bernardelli di Gardone V.T.”, pag. 17. “Era frequente l'apparizione di spie e più difficile superare i posti di blocco con viveri e materiale. Ai primi di dicembre, nei pressi della cascina Calzoni, veniva fermato un individuo sospetto. Portato in località Spiedo, veniva più volte interrogato dai commissari del gruppo Arturo (L. Speziale) e Antonio Faini. Addosso nascosto nella cintura un cifrario, un blocchetto di assegni, salvacondotti tedeschi e del denaro. Inoltre nei pochi giorni trascorsi al campo aveva provveduto ad annotarsi i nomi di battaglia di numerosi partigiani. L'8 dicembre condannato a morte veniva fucilato in località Spiedo. Ciò dava forse l'avvio ad un secondo pesante rastrellamento iniziato alle prime luci del 13 dicembre, che interessò non solo Gardone V.T. ma anche Ponte Zanano. I primi arresti Sorlini ed i suoi uomini potevano contare anche sull'appoggio di una ventina di uomini della banda Martini che si erano costituiti. Conoscevano indirizzi di collaboratori e le località ove Cinelli si era acquartierato (il suo comando era alle porte di Gardone V.T. all'inizio della Valle in casa Donati). Gli arresti sono numerosi: Gino Benetti, Attilio Zambonardi, Belleri (Bagolina) ed in uno scontro a fuoco in località Calzoni, fu ferito anche il Cinelli che riusciva però a sfuggire alla cattura. A Gardone intanto un gruppo di fascisti faceva irruzione in casa di Giulio Tanghetti, in via Diaz, che da alcuni giorni ospitava quattro prigionieri inglesi in attesa di mandarli in montagna. I fascisti giunsero a colpo sicuro e scoperto uno degli ex-prigionieri (Sint Shaw) non eseguirono alcuna perquisizione: bloccarono la signora Tanghetti e la figlia Maria e lasciarono la casa permettendo agli altri familiari di far uscire i tre inglesi e di metterli in salvo. Il capofamiglia veniva arrestato alla Beretta ove lavorava. Anna Fumasini e la figlia Maria verranno poi rilasciate, mentre Guido Tanghetti rimarrà in carcere per lunghi sette mesi. Condannato a morte Nadir Ferruccio Sorlini p. 12 dal Tribunale Speciale di Parma si vedrà commutata la pena con destinazione Germania. Fortunatamente interveniva il rag. Vincenzo Bernardelli che riusciva ad ottenere, per lui, l'esonero dal servizio coattivo di lavoro in Germania e a farlo rimettere in libertà, assumendolo come operaio specializzato nella sua fabbrica d'armi. Il Tanghetti raggiungerà poi i familiari in montagna fra le file partigiane”. 4) Il primo episodio repressivo di massa attuato dal Sorlini è raccontato nel libro di Enzo Abeni “La storia bresciana 6. La guerra, la lotta partigiana e la liberazione”, pag. 239. “Sorlini imperversava. Il 30 giugno [1944] le fiamme verdi della Valsabbia progettarono l’assalto alla caserma di Vestone. L’operazione fallì, perché, certamente in seguito a una delazione, nella caserma furono inviati poco prima un centinaio di militi. Durante il tentativo i ribelli catturarono per strada quattro militi. La rappresaglia di Sorlini non si fece attendere. Ordinò di arrestare un centinaio di persone di Vestone, tra le più note del paese, compresi i sacerdoti, con l’assurda accusa di convivenza con i ribelli, e le fece portare a Salò, minacciando di fucilarne venti se non fossero stati liberati i militi prigionieri dei ribelli. Il vescovo intervenne presso il prefetto Dugnani. Dugnani si appellò a Buffarini Guidi e a Mussolini e tutti furono rilasciati. Naturalmente i ribelli rilasciarono i quattro fascisti. Dugnani definì pazzesca l’operazione di Sorlini”. 5) Il secondo brano narrativo è tratto dal libro “Bovegno per la libertà – 1943-1945 – fatti e testimonianze della Resistenza”, edito nel 2004 a cura dell’Istituto Comprensivo “Caduti per la libertà” di Bovegno, che racconta nei dettagli la strage di Bovegno. “Il giorno 13 agosto [1944] ha luogo un incontro tra i comandanti dei gruppi partigiani con alcuni capifamiglia di Bovegno e con la presenza di mons. Francesco Bertoli. Si ottiene da tutti i presenti l’impegno che, da quel momento in poi, nessun partigiano venga in paese armato per non provocare la rappresaglia tedesca nei confronti dei civili; tale impegno viene rispettato da tutti i gruppi tranne che da quello dei fratelli Vivenzi. Il 15 agosto Arturo [Vivenzi] ed alcuni suoi uomini scendono dalla Garotta e si trovano a Piano dove, per tradizione, si festeggia solennemente il giorno della Madonna Assunta. Tra questi vi sono Rino Dusatti (Faro) che conosce personalmente il generale Masini e Guido Vitale (Cicalone).verso sera, ad attendere il generale per il previsto incontro, sulla strada provinciale vi è Leonida Tedoldi, mentre Faro e altri, tra cui i fratelli Guerino e Meschino Facchini, si trovano all’ingresso di piazza Cimavilla. Racconta «Ci era stato dato l’incarico di scendere a Bovegno con la disposizione di non farci vedere armati. Sono circa le ore 20 e cinquanta quando arrivano due macchine a fari spenti. Dal primo veicolo scende un tale con un giubbotto di pelle dal quale spunta un mitra e mi chiede dove si trovi l’Albergo Brentana. Proprio in quei momenti uno dei partigiani, Topolino, si avvicina e gridando che sono fascisti della banda Sorlini spara un colpo di rivoltella all’autista che sta per impugnare un mitra. Io subito lancio una bomba a mano che esploderà in ritardo sotto l’automobile e balzo al di là di un muricciolo. Colpito da una raffica a una gamba, cado e perdo i sensi. L’amico Vitale mi vede a terra, pensa che sia morto e mi fa portare in salvo verso Castello a dorso di un mulo. Intanto dalla seconda macchina viene lanciato un razzo bianco in cielo: è il segnale che mette in moto la colonna motorizzata, appostata nei pressi di villa Sorlini [Antonio Sorlini, suo zio, proprietario di uno stabilimento in Ghedi e morto di recente, ndr] e composta da tre autoblindo tedesche, un semovente con mitragliatrice e camion con uomini armati. Sulla piazzetta di Cimavilla, intanto, si sono radunate persone per vedere che cosa sta accadendo, ignare di essere presto vittime dei tedeschi. La spedizione punitiva ha inizio. Dalle autoblindo scendono i tedeschi che cominciano a sparare sulle persone inermi, in sosta fuori dal Circolo della Cooperativa per la serata di festa. Risultano feriti Luigi Vivenzi, padre di Cecco e Arturo, che spira all’ospedale del paese dopo alcune ore di agonia; Giovanni Facchini che muore a casa sua dopo alcuni giorni; Battista Facchini, un ragazzo di 15 anni di Zigole spirato anch’egli dopo qualche ora. Arcangelo Corsini, ferito lievemente, riesce a salvarsi. Nelle case prospicienti la piazzetta c’è ancora gente. I nazifascisti impongono di aprire. Sulla porta della Cooperativa si affaccia Giovanni Valentini, Nadir Ferruccio Sorlini p. 13 fidanzato di una delle ragazze dell’osteria con in braccio il piccolo Giambattista Facchini di un anno. La madre, Santina Ettori, fa appena in tempo a toglierli dalle braccia il bimbo che un manrovescio lo colpisce in pieno viso e una raffica di mitra a bruciapelo gli crivella il petto. Di fronte abita il fornaio Ariodante Coffanetti, padre di cinque figli, che viene sorpreso in casa e ucciso. Donne e bambini intanto sono caricati su un camion insieme a quattro uomini catturati nella casa di Isacco Tanghetti. Più tardi, sulla strada provinciale, mentre donne e bambini sono lasciati liberi, i quattro uomini sono fucilati. Solo uno, Arnaldo Bertella (Ginevra), si salva in quanto, ferito alla testa, è caduto rimanendo casualmente riparato sotto il corpo di uno dei compagni deceduti. Isacco Tanghetti, Giuseppe Gatta, Giovanni Mazzoldi trovano invece la morte. Così Bertella, sfuggito miracolosamente alla strage, ricorda quel giorno: «Mi trovavo a Bovegno con la moglie e i due figli. Sono quasi le nove, mi trovo per strada quando dalla curva in fondo al paese vedo salire due macchine, una Augusta ed una Balilla. Due uomini si avvicinano alla prima automobile e si comincia a sparare. Ci rifugiamo nella casa di Isacco Tanghetti, ma i nazifascisti bussano alla porta, ci fanno uscire con le mani dietro la testa, ci fanno salire su un autocarro e cominciano a perquisirci. Mi hanno ritirato tutto, anche il portafogli c on un po’ di soldi e i documenti. Terminata la perquisizione non ci lasciano andare: evidentemente aspettano ordini. Ad un tratto arriva un ufficiale tedesco su una macchina scoperta. Ho saputo poi dal dottor Luigi Ajmone di Gardone V.T., al quale mi sono rivolto per farmi curare le ferite, che durante il primo scontro è stato ferito un sergente maggiore tedesco. Trasportato a Gardone questi vi è giunto cadavere e il medico non ha potuto far altro che constatarne il decesso. L’ufficiale che ha provveduto al trasporto del ferito, è poi ripartito per Bovegno deciso a continuare la rappresaglia, onde raggiungere il numero delle vittime prefissato dal comando tedesco per ogni ufficiale o sottufficiale ucciso. L’ufficiale si mette a urlare ordini. Ci fanno scendere dal camion, le donne e i bambini vengono fatti allontanare di una ventina di passi, noi quattro uomini ci schierano contro il muro della località “Ra”, completamente avvolti nel buio. A pochi passi da noi un sottufficiale e un soldato semplice alzano le pistole e ci sparano un colpo dopo l’altro, con calma. Sono stato ferito alla testa, il sangue mi cola sulla faccia e io mi lascio cadere. Un istante dopo l’Isacco Taglietti mi cade sopra. Sento i passi di uno dei due che si avvicina e spara alla nuca del Tanghetti. Io sono sotto immobile e trattengo il fiato. Altri passi e poi raffiche di mitra a bruciapelo: il fuoco mi brucia camicia e pantaloni. Finalmente risalgono sui camion e si allontanano cantando. Io mi scrollo di dosso i compagni morti e scappo verso la montagna. Qualcuno deve aver parlato perché al comando di Brescia hanno saputo che uno dei quattro si è salvato. Infatti il giorno dopo sono tornati e hanno ucciso il primo che è capitato loro davanti». Non ancora paghi, i nazifascisti saccheggiano le case di piazza Cimavilla compresa la Cooperativa e poi vi appiccano il fuoco. Un momento di silenzio, non si spara più, mentre l’incendio divampa. Un gruppo di volonterosi che accorre con secchi per prestare aiuto e spegnere le fiamme, viene circondato e trucidato. Le vittime sono: Maffeo Omodei fu Angelo, Aldo Vezzoli, Giuliano Tanghetti e Gaetano La Paglia. Luigi Vecchi, giornalista di Brescia Repubblicana e Maffeo Omodei di Amadio, trovati tra i cadaveri nei pressi della Cooperativa, sono probabilmente vittime delle prime sparatorie. Verso mezzanotte i fascisti lasciano il paese e ben presto giungono sul luogo dell’eccidio alcune persone generose tra cui il podestà, don Bertoli e le donne che recuperano i cadaveri dei loro cari lasciati senza orologio, portafogli e scarpe. All’alba del giorno 16 agosto Mons. Francesco Bertoli si reca a Brescia al comando germanico, accompagnato dal Vescovo Sua Ecc. Giacinto Tredici e da mons. Pasini per chiedere che non vengano effettuate altre rappresaglie contro la popolazione bovegnese. Il colonnello tedesco, grazie alle preghiere del Vescovo e di mons. Bertoli, assicura che il paese sarebbe stato risparmiato. A Bovegno intanto, i cadaveri sono composti nelle loro case, ad eccezione di Luigi Vecchi, Gaetano La Paglia, Aldo Vezzoli e Luigi Vivenzi trasportati nella camera mortuaria del cimitero. Nel pomeriggio, verso le ore 15, fascisti e tedeschi ritornano: una colonna di otto autovetture e due autoblindo fa il suo ingresso a Bovegno: è un fuggi fuggi generale. Dopo alcuni istanti i nazifascisti sparano, a Castello incendiano la casa di Silvio Giacomelli, dopo aver svaligiato il negozio della Cooperativa che si trova al piano terra della Nadir Ferruccio Sorlini p. 14 stessa ed intimano ai pochi presenti di non fare nulla per spegnere il fuoco minacciando di bruciare l’intero paese. Fortunatamente nella casa non c’è nessuno poiché l’intera famiglia si è allontanata la sera precedente. Nel suo diario Poli Maria moglie di Silvio così scrive «… Ai primi spari, io (con l’intera famiglia) fuggii lontano dal paese. Il 16 agosto tenemmo chiuso il negozio e per prudenza ci tenemmo lontani dall’abitato. Verso le ore 15 i criminali ritornarono sul luogo del delitto, guidati da Ferruccio Sorlini, il quale, giunto in piazza di Castello, disse ai suoi compagni: Questa è la casa di Silvio Giacomelli. Giacomo Gatta, che abitava vicino a noi, e piangeva davanti alla salma di suo figlio ucciso la sera prima, venne condotto in piazza e piantonato … Dopo aver svaligiato bottega e casa, i nazisti con bombe incendiarie appiccarono fuoco alla casa, minacciando di bruciare l’intero paese se alcuno avesse tentato di spegnere l’incendio. La mia abitazione, frutto di tanti anni di risparmio e di intenso lavoro, venne completamente distrutta … Dovemmo abbandonare mia figlia ammalata e fuggire rifugiandoci nei boschi e nei fienili … I contadini temevano dandoci alloggio che venissero incendiate anche le loro case e così, con mio marito che deperiva ogni giorno di più per gli strapazzi (sarebbe morto per gli stenti l’11 gennaio 1945), dovetti non soltanto passare le giornate, ma anche la notte, nei boschi, inzuppati qualche volta dalla pioggia e tremando dal freddo». Nei pressi intanto viene ucciso Giovanni Gatta, probabilmente perché non si è fermato all’intimazione dei fascisti in quanto non udente. Non ancora soddisfatti essi devono dimostrare l’uccisione di quindici “banditi” come li definisce Sorlini nel notiziario della Guardia Repubblicana conservato nell’Archivio Micheletti nel documentare l’incursione da lui voluta con l’ausilio della gendarmeria tedesca. Recuperano pertanto nelle case i corpi di alcune delle vittime tra cui quello di Ariodante Coffanetti che viene gettato dal balcone, nonché quelli portati nella sala mortuaria del cimitero trascinando questi ultimi legati a un camion fino in piazza Cimavilla. Li allineano per terra e fanno sdraiare, a fianco degli stessi, alcuni uomini presenti in luogo delle salme che non hanno trovato, per poter immortalare la loro barbarie con delle fotografie”. 6) Come importante contributo documentale riferito alla banda Sorlini e al fortunoso arresto del suo capo riproduciamo l’articolo del settimanale provinciale comunista «La Verità» pubblicato in data 2 luglio 1945. “Il bandito Sorlini arrestato. Da Parma, dove era stato arrestato lunedì 25 corrente, è stato tradotto a Brescia il famigerato Ferruccio Sorlini. Si è così sciolto un grave incubo che opprimeva da tanto tempo l’anima di tutta la città e la provincia. Il mito pauroso della «Banda Sorlini» cantava ormai le sue strofe tenebrose, ed arrivava di contrada in contrada, di villaggio in villaggio! Il terrore panico di così gran criminale (tanto vile quanto sadico nella sua ferocia) aveva forse creato il mito della «banda». Ad ogni modo il più fervente collaboratore dei tedeschi, il più accanito persecutore degli antifascisti, il più feroce aguzzino dei prigionieri politici, è così finalmente assicurato alla giustizia del popolo. Il suo arresto non ha nulla di drammatico: i delinquenti non sanno cadere né con dignità né con coraggio. Mentre gironzolava per le vie di Parma con le scarpe squarciate e in veste di manovale, fu riconosciuto da un nostro compagno di Gottolengo, il quale lo indicò tosto a due Carabinieri precisandolo come criminale fascista. Sembra che i due Carabinieri si rifiutassero di procedere all’arresto. Allora il compagno di Gottolengo seguì alla lontana il Sorlini; e come lo vide entrare in un cinematografo, espose il caso a due partigiani, invitandoli a provvedere con rapidità e fermezza. Il Sorlini venne in tal modo arrestato. Non aveva armi addosso: unico viatico la somma di 67.000 lire, e un documento falso col nome di Burlotti Francesco. Non oppose resistenza: solamente disse che girava al largo del bresciano perché aveva paura (poverino!) di essere picchiato , essendo stato iscritto al P.F.R.; ma che nulla aveva mai fatto di male, anzi fu sempre dispensiere di bene, e infinite sono le persone da lui salvate! Tutti eguali questi fascisti! Hanno vissuto vent’anni di prepotenza e di bluff, accampati fra noi come in terra di conquista, eroi dei trenta contro uno, dei cento contro dieci, armatissimi contro gli inermi, liberissimi contro gl’incatenati e gli imbavagliati; e ora, finalmente colti dalla giustizia, si fanno piagnoni e quasi Nadir Ferruccio Sorlini p. 15 innocenti, negando e rinnegando tutto il loro criminale passato. Quanta viltà! Quanta vigliaccheria!”. 7) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 10 luglio 1945. “Chi fornì carte false al bandito Ferruccio Sorlini? Come è noto, al momento del suo arresto, avvenuto a Parma, il famigerato bandito Ferruccio Sorlini venne trovato in possesso di una carta d’identità intestata ad altra persona, naturalmente inesistente, rilasciata dal comune di Villa Carcina. Poiché era necessario stabilire chi avesse fornito il documento, i carabinieri ritennero opportuno mettere il naso nelle faccende di quel comune e, a seguito delle indagini svolte, poterono accertare che il segretario comunale e due impiegate non erano estranei alla faccenda. Molti indizi erano infatti sorti a testimoniare sulla colpevolezza del segretario Lorenzo Bornati fu Angelo di anni 51, della di lui figlia Piera di anni 23, e dell’impiegata Delia Gusmeri di Tullio, di anni 18, tutti e tre - vedi combinazione – iscritti al p.f.r. , per cui l’Arma procedette al loro arresto. Costoro – è logico … - negano l’addebito, ma la Giustizia verrà certamente a scoprire la verità”. 8) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato giovedì 26 luglio 1945. “Corte d’Assise Straordinaria – Ferruccio Sorlini verrà processato domani. Domattina, alle 9,30, nel palazzo della Corte d’Appello, in via S. Martino della Battaglia, si inizierà dinanzi alla Corte d’Assise Straordinaria, il processo contro Ferruccio Sorlini. Grande è l’attesa per questo clamoroso procedimento penale; come è grande il desiderio di tutto il popolo che il sanguinario sgherro nazifascista paghi al più presto per gli spaventosi delitti da lui compiuti contro la tirannide repubblicana. Il bieco sicario dovrà rispondere di avere, dall’8 settembre in poi, collaborato con il tedesco invasore (il 12, stivaloni gialli, camicia nera, fasci rossi da squadrista, con Becherini, Bastianon e Mario Colombini si presentò a von Whutenau per ricevere il governo della città) prima come commissario federale (e il cugino Renato, ingegnere e fascistissimo, gli preparava i discorsi), poi come ufficiale superiore delle cc.nn con funzioni politico militari, assumendo in queste cariche le più gravi responsabilità, entrando in corrispondenza e in intelligenza con il nemico, per favorirlo, commettendo atti diretti ad aiutarlo nelle operazioni militari, procedendo a rastrellamenti di prigionieri di guerra liberati dal governo legittimo d’Italia, di sbandati, disertori e patrioti che egli ha spietatamente perseguitato e spesso torturato o a volte ucciso o fatto uccidere, o inviato in Germania (già nel ’42, il maresciallo Spinelli, in una sua nota informativa, scriveva: «elemento adattissimo per andare in Germania a sorvegliare i lavoratori italiani», vecchio poliziotto, conosceva i suoi polli). Sorlini, che abbiamo incontrato giorni fa nelle carceri, è pallido e dimagrito, dall’aspetto sofferente. Egli confida nei suoi tredici testi da lui citati a difesa, che egli spera verranno a deporre su alcuni favori di cui ebbero a godere, nonché al fatto che all’età di undici anni tentò di suicidarsi e che di quel gesto – sventuratamente senza conseguenze mortali – gli è rimasto a ricordo (così pare) una pallottola nella testa, minorandolo nelle sue facoltà mentali. Ma implacabili saliranno sul pretorio le decine di testi d’accusa, i familiari dei patrioti da lui assassinati, degli antifascisti deportati in Germania, da cui più non hanno fatto ritorno, e tutti coloro che per quasi due anni ebbero a patire delle sue spietate persecuzioni. Testimonierà contro di lui anche l’ex ministro repubblicano Pisenti, ora detenuto nelle carceri di Brescia. Sorlini dovrà particolarmente rispondere dell’orrendo delitto, al cui ricordo ancora si stringe il cuore, compiuto nella persona del dirigente comunista Armando Lottieri, membro del C.L.N. clandestino, del maresciallo dei Carabinieri Guaschino e di Francesco Scaletti, prelevati di notte dalle loro case, trascinati sulla strada e massacrati a raffiche di mitra; di quindici distinti reati di omicidio consumati durante la spaventosa strage di Bovegno, e di avere infierito sul cadavere di uno degli uccisi, il Maffeo; dell’assassinio di Giuseppe Musatti; di aver fatto fucilare due partigiani in Polaveno, e di altri due a Ome; di aver ucciso, con 25 colpi di mitra Cirelli di Volta Bresciana; di aver fatto deportare in Germania il rag. Marone che morì di stenti a Gusen; di aver consegnato ai tedeschi, dopo averlo torturato, il comandante Cinelli, che Nadir Ferruccio Sorlini p. 16 venne fucilato; di essersi comportato in egual modo nei confronti di Mario Rossi, ucciso poi dalle SS; e inoltre di un’infinità di altri reati , dai sequestri di persona, alle rapine a mano armata, alle truffe e alle estorsioni (anche prima dell’otto settembre egli aveva riportato parecchie condanne, amnistiate, per reati comuni. Domani l’ardito della «Disperata», l’uomo cher militò nella «Carroccio» durante la reazionaria guerra fascista di Spagna, il ladro dell’Agip, il picchiatore, il delatore, il nemico di tutto ciò che è dignità, onore, amor di patria, l’uomo che per venti mesi è stato l’incubo di un’intera provincia e il cui nome era divenuto sinonimo di iena, chiuso fra i ferri della gabbia degli imputati, si renderà finalmente conto che la giustizia non è morta. Al banco della difesa, designato d’ufficio, siederà l’avv. Tino Caravaggi”. 9) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 28 luglio 1945. “Alla corte d’assise straordinaria - Sorlini alla resa dei conti - L’imputato sotto il peso delle accuse si abbatte e ammutolisce. Una folla strabocchevole s’è ammassata ieri mattina dinanzi al palazzo della Corte d’Appello molto tempo prima dell’ora fissata per il processo a carico della «iena di Brescia» Ferruccio Sorlini; folla che si è adunata poi nel grande cortile – solo alcune centinaia di persona hanno potuto entrare in aula – dove, a mezzo degli altoparlanti, ha seguito con estremo interesse le fasi del dibattimento. Un fermo discorso è stato rivolto dal Presidente cons. Basile all’uditorio, per invitarlo a mantenere ancora una volta un contegno corretto, a rispettare l’avvocato preposto d’ufficio alla difesa, ad avere la massima fiducia nella giustizia della Corte composta da giudici popolari. “Tutti squadristi allora” L’avv. Caravaggi avanza quindi un’istanza di perizia psichiatrica per il suo protetto, richiamandosi ai due tentativi di suicidio compiuti e alla riforma dal servizio militare a cui fu soggetto in gioventù. Il P. G. comm. Castellano chiede che l’istanza sia respinta, affermando che il Sorlini, successivamente alla riforma, fu nominato ufficiale e che i due tentativi di suicidio sono irrilevanti ai fini della richiesta, non essendo il primo provato, e provando a sua volta il secondo che l’odierno imputato era sin troppo lucido volendo porre fine con un rapido gesto alla tortura implacabile di attendere di ora in ora la morte. Il presidente dopo aver chiarito che la riforma fu concessa per tubercolosi, dichiara che la Corte si riserva di provvedere nella fase del dibattimento, quando emergeranno indizi di squilibrio mentale da parte del Sorlini tali da giustificare la richiesta della difesa. Viene quindi fatto uscire dalla gabbia l’imputato, il quale con il suo mucchietto d’ossa s’insacca nella sedia, dietro la quale si pongono due carabinieri con mitra. L’uomo che ha terrorizzato per venti mesi un’intera provincia, non ha più nulla di terribile nell’aspetto, con la gobba che gli avanza da metà schiena, l’abito grigio e anonimo, la nuca sottile, i capelli radi e sbiaditi: solo gli occhi grandi neri accesi, hanno talvolta un che di allucinato e di perverso, di rabbrividente. Senza il mitra sotto il braccio, senza i grappoli di bombe a mano, senza i feroci sgherri ai fianchi, Sorlini assomiglia a un piccolo sofferente burocrate. Risponderà alle domande con un senso di sufficienza, con l’aria di dire «tanto lo so che non mi credete», con una voce semivelata, con le mani che giocano nervosamente l’una con l’altra. Uno strano tic, quello di aprirsi la giacca a doppio petto e di riallacciarsela rapidamente con grandi gesti quasi a scomparirvi dentro, lo perseguita. Il cons. Basile lo interroga con il suo tono all’apparenza paterno e che ogni tanto agghiaccia. E Sorlini racconta la sua storia dagli anni giovanili. «Eravate squadrista?» - «Tutti lo erano allora» - «perché foste cambiato all’Agip?» - «perché cambiò il segretario del partito» - «E la vostra amante che parte aveva?» - «Non so che rispondere» (offesissimo). Poteva essere prefetto Poi il Presidente legge alcune ammissioni rese a verbale dallo stesso Sorlini quando fu arrestato per malefatte comuni dagli stessi repubblicani, verbale in cui l’odierno imputato faceva l’apologia del suo passato fascista e del suo comportamento dopo il colpo di stato del 25 luglio. (Quel gran politico che era il gen. Ricciuti comandò la milizia a prestar servizio d’ordine!). Sorlini parla Nadir Ferruccio Sorlini p. 17 quindi del periodo in cui fu reggente la federazione fascista e comandante della famigerata polizia federale, di come fu silurato, dell’offerta di Pavolini di scegliersi una prefettura («Accettaste?» «No» - «Avete fatto bene»), di quando passò all’U.P.I., discutendo quindi l’accusa di dipendere dalla gendarmeria tedesca. («Da uomo d’onore, dite la verità», gli si rivolge con la sua tagliente ironia il cons. Basile). Cominciano poi le prime specifiche contestazioni dalle quali egli cerca di difendersi affermando che l’operazione contro Perlasca e Bettinzoli (poi fucilati), fu un’iniziativa della guardia del duce, che in sei medi di guerra antipartigiana egli non sparò un colpo, che tutta la serie di contatti che ebbe dopo il settembre con i tedeschi tendevano al bene della città. («Volevo l’Italia libera» - «Ma da chi?» - l’inchioda il Presidente), che la sua non era una banda ma un piccolo gruppo il quale andò con lui a rastrellare le montagne per evitare che vi andassero le SS che sarebbero state ben più terribili, che credeva di compiere una buona azione quando persuase buona parte degli uomini del ten. Martini a consegnarsi , che dell’eroica «Tognù» egli fu soltanto il comandante interinale sostituito poi da Melega (a proposito: costui gira indisturbato, come troppi altri), che il capo partigiano Giacomelli fu ucciso in seguito a un’azione diretta dal magg. Brunelli (che comparirà oggi come teste). Un’accusa a Melega L'imputato dice che Bernardelli e Zatti furono fucilati per ordine di Melega e che lui, Sorlini, giunse sul posto dell'esecuzione solo per salvare un partigiano (Torresani, che comparirà anche egli oggi, proclama di essere stato lui l'angelo salvatore), nega di aver partecipato ad altri due omicidi; sull’assassinio del dirigente comunista Armando Lottieri egli cerca di limitare le proprie responsabilità, affermando che avendo sentito che, su segnalazione di Maderno, bisognava prelevare come ostaggio anche l’indimenticabile Armando, si lasciò sfuggire il nome di un amico comune il quale avrebbe potuto rintracciarlo, e così il maggiore Merlo caricato su una macchina da cinque sgherri armati fu costretto a condurre i sicari sin sulla soglia di casa del Lottieri, che fu trascinato in strada e barbaramente trucidato (Sorlini nell’ombra seguì l’operazione); sull’uccisione del maresciallo Guaschino e di Scaletti avvenute quasi contemporaneamente a quella di Lottieri, egli dà risposte confuse, negando la partecipazione ai fatti; per quanto si riferisce all’eccidio di Bovegno, Sorlini sostiene di essersi recato in questa località con un’autocolonna tedesca il giorno successivo alla strage. Reati comuni S’inizia quindi la serie delle contestazioni dei reati comuni, la responsabilità dei quali egli tenta di far risalire ai suoi giannizzeri: dalla spoliazione sofferta dai coniugi Micchini che ospitavano prigionieri alleati, durata tre giorni, all’estorsione di una ingente somma di denaro inferta con minacce a mano armata a Primo Cavellini che il sicario minacciò di denunciare per assistenza a partigiani e prigionieri alleati, ai furti in danno ai coniugi Diamanti, del Palmerini e di molte altre persone. A mezzogiorno l’interrogatorio è sospeso. Sorlini è stanco, nervoso, quasi senza voce. Anch’egli è un angioletto caduto per sbaglio in terra. Nel pomeriggio, ad aula e cortile affollatissimi, nuove contestazioni vengono rivolte a Sorlini, il quale cerca ogni tanto di difendersi, ma sempre più debolmente. Alla fine ammutolirà del tutto. Ancora i nomi di Perlasca, Cinelli, Bettinsoli. Poi i drammatici confronto con i familiari delle vittime, tutti in lutto. La vedova del maresciallo Guaschino riconosce nell’imputato uno degli uomini che prelevarono il marito e che la minacciò con il mitra, la percosse – ed essa era incinta di otto mesi – la fece rotolare sotto un tavolo e la chiuse in una stanza, insensibile alle disperate grida della donna. Sfilano poi il padre di Scaletti e la giovanissima vedova di Armando Lottieri che anch’essa porta in volto l’ombra pesante di un dolore che non si cancella. Il sicario si agita nella gabbia. Le prove schiaccianti lo hanno annientato. Segue il padre del garibaldino Bernardelli, che dimostra come Sorlini sia stato l’assassino del figlio. Sfilata di seviziati L’atmosfera in aula e fuori è tesissima. Qualche volta esplode irrefrenabile l’odio dei parenti delle vittime. E’ la volta quindi degli studenti Ercolani e Zappa che con Magni furono ferocemente perseguitati dalla iena e ancora portano i segni delle sevizie, Mario Moscatelli che a torture Nadir Ferruccio Sorlini p. 18 iniziate riuscì ad evadere dalla tana di Sorlini, l’Antonioli, lo Schiavone, Annibale Marone che racconta la tragica fine di Mario Rossi e le tragiche vicende sue e di un fratello deportato in un campo d'annientamento in Germania, e che chiede, in un impeto di passione di poter assistere alla fucilazione del suo persecutore. Chiude la sfilata il rag. Martinelli, anch’egli braccato da Sorlini, che fornisce importanti particolari sulle attività delittuose di quest’ultimo. L’udienza è quindi rinviata ad oggi. La folla accesa e imponente sosta a lungo nei cortili e nella via. Raggomitolato nella gabbia dell’aula ormai semibuia, guardato a vista da una formidabile scorta armata, lo scherano fascista attende che la folla si diradi, per poter rientrare in carcere”. 10) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 28 luglio 1945. “Tragedia alla corte d’assise - Sorlini ucciso da un carabiniere di servizio. Ieri alle 16,45, mentre si stava terminando l’escussione degli ultimi testi, il processo Sorlini ha avuto una tragica improvvisa conclusione. Un carabiniere, di guardia alla gabbia dove era rinchiuso Sorlini, impugnava il mitra e sparava un colpo, subito seguito da una nutrita raffica contro l’imputato. Sorlini s’abbatteva sulla panca, senza un grido, mentre un fiotto di sangue uscitogli con violenza dalla bocca formava grandi chiazze sull’impiantito della gabbia. Sorlini rimaneva immobile, con l’abito sforacchiato, gli occhi orrendamente sbarrati, la bianca camicia sempre più arrossantesi. Il primo colpo isolato e l’immediata raffica avevano data l’impressione di un conflitto. Nell’alto clamore levatosi dalla folla che invadeva l’aula il carabiniere omicida gridava frasi confuse che nessuno afferrava. Alcune pallottole avevano sfiorato leggermente il maresciallo Viale comandante la squadra politica che sedeva al fianco dell’imputato. Nel tumulto il Procuratore generale emozionato ed indignato ordinava l’arresto dell’uccisore. Gli stessi carabinieri di servizio traducevano il commilitone al loro comando, mentre tutta la forza pubblica, riavutasi dalla sorpresa e dominando il trambusto, faceva sgomberare l’aula e ristabilire l’ordine. Il carabiniere, certo Giuseppe Barattieri, di anni 32, milanese, di corporatura erculea, aveva comandato, in provincia di Brescia, nella guerra di liberazione, un raggruppamento di partigiani, col grado di tenente delle «Fiamme verdi». Due taglie pesavano sul suo capo, una di 100 e l’altra di 500 mila lire, bandite dallo stesso Sorlini che lo braccava ferocemente. Curioso particolare: quasi presentendo la sua fine, l’imputato ieri non voleva presentarsi all’udienza. Qualcuno afferma che il carabiniere e l’imputato, prima della tragedia, si siano scambiate alcune frasi sottovoce. Quali? E’ facile pensare che sia stata rievocata la lotta e morte fra i due. Una estrema provocazione, arroventata dall’atmosfera eccitatissima del processo., offuscò la coscienza del carabiniere? Ciò non è ancora chiarito. Certo l’uccisore che ebbe poi una crisi di pianto, ripeté le sofferenze e le ansie patite nella lunga vigilia. Nessuno però sapeva dei rapporti di lotta intercorsi tra lui e Sorlini. Sparsasi la notizia del fatto, una folla strabocchevole si riversava in breve verso la Corte, ma le vie adiacenti erano subito bloccate dalla forza pubblica. Sul posto accorrevano immediatamente il questore comm. Minervini, il colonnello dei carabinieri Frailick, il dott. Fassari ed il perito dott. Scaroni. Mentre si procedeva alla costatazione della morte del Sorlini avvenuta istantaneamente il carabiniere veniva accompagnato alla Caserma di P. Tebaldo Brusato. ------Tristissimo episodio della passione che ci opprime, della vicenda di odio e di vendetta, della catena di illegalità che una difficile e talvolta incerta giustizia ed i deboli suoi presidi non riescono a spezzare. Nessuno può rimpiangere l’uomo carico di delitti come della desolazione di tante vittime e del terrore di intiere popolazioni. La sua sorte era segnata: ma il giudizio doveva discendere dalla onestà della giustizia in cui si trasfonde e si consacra anche la condanna popolare; non salire, contro la legge, dal basso di una singola volontà di vendetta, anche se, travolto da una passionalità che supera il rapporto personale ed è arbitrariamente interprete di una condanna collettiva, può meritare nel subitaneo, tempestoso impulso, qualche indulgenza verso l’uomo che a maggiore gravità del suo atto, ha dimenticato il sacrificio che gli imponeva la veste di tutore della legge. Tristissimo episodio che al di sopra del rapporto tra gli attori della tragedia e delle Nadir Ferruccio Sorlini p. 19 particolari circostanze di essa, denuncia uno stato pericoloso di animi a cui possono soccorrere soltanto legge e giustizia illuminate e applicate con sicura soddisfazione delle esigenze che il disordine stesso esprime. Questi fatti che ci percuotono frequenti, come fitte allarmanti in un corpo malato, sono l’ammonimento a meditare che l’attesa sistematica ai valori fondamentali della vita, anzi al valore stesso della vita, quale il fascismo l’aveva instaurata, è tale sconvolgimento da richiedere da parte di tutti, con un prezzo di orrori e di sangue, lo sforzo primo e generoso per il ritorno alla legalità”. 11) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato martedì 31 luglio 1945. “Echi della tragedia in Corte d’Assise – L’eccidio di Bovegno nelle ultime battute del processo. (…) Durante l’intera mattinata di sabato erano sfilati sul pretorio doloranti testi in granaglie, familiari delle vittime dello spaventoso eccidio di Bovegno . La notte di tragedia riviveva tra le lacrime e le esplosioni di esecrazione di chi raccontava, e il pubblico seguiva con passione la drammatica ricostruzione della strage. Caddero una dopo l’altra le vittime innocenti, e aprì la serie Maffeo Omodei, ucciso a rivoltellate dallo stesso Sorlini. Una donna, la Facchini, narra come le fu assassinato il padre, come in preda al terrore uscisse di casa sua. Minacciata dalle fiamme, e come, varcata la soglia, la cui porta era caduta crivellata dalle pallottole, inciampasse nel cadavere straziato del giornalista Vecchi. Immobile, fra il bagliore degli incendi, in mezzo ai cadaveri, il mitra sotto il braccio, Sorlini guardava con ghigno feroce la scena. A Valentini fu strappato di braccio il figlioletto un istante prima di cadere ucciso. Sorlini, alle grida di pietà delle donne, urlò come un forsennato: «li bruceremo tutti vivi!». Gli incendi continuavano a divampare: gli assassini lanciarono falsi appelli d’aiuto, e i generosi che accorsero a spegnere le fiamme, vennero abbattuti dalle raffiche di mitra degli uomini di Sorlini, sporchi di sangue, carichi di bottino, ubriachi fradici. I cadaveri degli uccisi nelle loro case , furono buttati dalle finestre, e trascinati in piazza, poi portati al cimitero, indi di nuovo, con delle funi al collo, nella piazza dove furono ammonticchiati per le fotografie-ricordo delle belve in camicia nera. Sorlini nega, nega talvolta a gran voce, ma tutti i testi venuti da Bovegno l’investono e lo smascherano, qualcuno travolto dalla passione che lo anima. La jena ammutolisce: tutti lo riconoscono, lo inchiodano alla gogna dei suoi spaventosi delitti. Pur invitata dal presidente, una delle testi non vuole volgersi a guardare Sorlini, e grida: «non voglio più vedere i suoi occhi!». La tensione nervosa del pubblico era all'estremo. E quando la vedova di Mario Rossi, fucilato dalle SS, a cui era stato consegnato dopo una caccia spietata da Sorlini (che le disse mezz'ora prima dell'esecuzione: in bocca al lupo!) terminata la sua deposizione, grida all'imputato: "ed ora in bocca al lupo anche te!", la folla esplode in alti clamori. Nel pomeriggio alcune bieche figure appartenenti alla banda del criminale, sfilano a deporre su varie circostanze. L’atmosfera è arroventata: un urlo accoglie Torresani quando conferma che Sorlini, e non altri, comandò il plotone di esecuzione che massacrò i patrioti catturati sulle montagne di Gussago. Una folla sempre più numerosa e accesa si accalca nel grande cortile. Il commissario di servizio predispone perché, alla fine del dibattimento, Sorlini sia tradotto alle carceri sotto scorta ancora più potente, dopo averlo fatto uscire dalla Corte per una porticina secondaria e isolata: si teme un assalto al detenuto. E’ in questa atmosfera che il carabiniere ha imbracciato il mitra”. 12) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato il 13 gennaio 1949. “Il conto della banda Sorlini saldato alle Assise di Bologna - Le condanne: Castellini e Serioli 30 anni; Glisenti 25; Bonometti 22; Persevalli 16 – L’assoluzione di Caprinali e Cavagnis. Bologna, 12 gennaio. Il lungo, complicato processo contro la banda Sorlini, iniziato come si ricorderà , il 9 novembre scorso dinanzi alla nostra Corte d’Assise per rispondere di collaborazionismo ed atti rilevanti, reati commessi nel bresciano durante il periodo nazifascista è giunto questa notte al suo epilogo giudiziario. L’ultima udienza, per la cronaca la ventisettesima, è stata aperta alle tredici e trenta precise. Dopo una breve replica dell’avvocato Biagi, difensore dell’imputato Cavagnis, il Nadir Ferruccio Sorlini p. 20 presidente dichiara chiusa la discussione e rivolge agli imputati la rituale domanda: «Avete nulla da dire?». Il Castellini chiede di parlare . Si oppongono gli avvocati Parini in rappresentanza dell’avv. Ercolani e Saladini. Il procuratore generale invece è favorevole alla richiesta che poco dopo viene accolta anche dalla Corte. Castellini: «Confermo il memoriale difensivo rimesso al giudice e dichiaro che le mie mani non grondano di sangue. Ho servito con onore la mia Patria». Sarlo: «Ho difeso la mia, la vostra Patria. Ho 34 anni di cui 11 spesi al servizio del paese. Ho perduto un braccio; ho tredici ferite e due medaglie al valore. Sono innocente». Sono le quindici quando la Corte si ritira per deliberare. Al suo rientro, dopo quasi nove ore di permanenza in camera di consiglio, alle 23,30, il presidente dà lettura della sentenza che condanna: Eugenio Castellini e Mario Serioli ciascuno a 30 anni di reclusione. Glisenti a 25 anni di reclusione; Carlo Bonometti a 22 anni e 6 mesi; Renato Cometto a 18 anni di reclusione con il condono di 12 anni; Mario Pagani e Aldo Frau ciascuno a 17 anni di reclusione con il condono di 11 anni e 4 mesi; Franco Persevalli a 16 anni e 4 mesi con il condono di 10 anni e 10 mesi; Sante Bellotti, Umberto Brighenti, Mario Brunelli a 16 anni di reclusione con il condono di 10 anni e 8 mesi ciascuno; Francesco Saverio Sarlo a 12 anni con il condono di 4; Giacomo Mensi per estorsione a 2 anni di reclusione, 3 mila lire di multa, pena interamente coperta da condono. Assolve infine Giovanni Beltracchi, Enrico Brignoli, Lino Caprinali, Giovanni Cavagnis, Giacomo Quinzani, Giovanni Tancredi e Mario Scarsella”. 13) Dal settimanale socialista «Brescia Nuova» pubblicato il 30 gennaio 1949. “A proposito del processo della banda Sorlini Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco Per quei pochi scherzucci da dozzina E mi gabella per antifascista Perché metto le birbe alla berlina Ho voluto dedicare questi versi al processo della banda Sorlini che si è svolto presso la Corte d’Assise di Bologna. Mi rivolgo alla coscienza degli uomini di legge che hanno diretto il processo e, soprattutto, all’Illustrissimo sig. Presidente, per mettere bene in evidenza l’attività criminosa del famigerato Brighenti durante la sua permanenza a Lumezzane. Ben 37 sono stati i Partigiani caduti in detta valle durante il disgraziato periodo della sedicente Repubblica di Salò. L’uccisione di detti valorosi Partigiani è stata preceduta da ogni sorta di sevizie, e gli stessi cadaveri venivano abbandonati sul terreno in segno di disprezzo. Ancor oggi non si conosce la sorte toccata al vice comandante Partigiano che accompagnava Giuseppe Verginella; quest’ultimo barbaramente fucilato dopo aver subito ogni sorta di sevizie. Dove è andato a finire? Eppure è stato accompagnato in caserma dalla combriccola Brighenti. Così pure, di chi erano gli indumenti rinvenuti nel magazzino della stessa caserma ancora inzuppati di sangue la mattina del 26 aprile 1945? Mistero!!! Diversi lumezzanesi hanno chiesto di essere sentiti quali testi a carico, ma sono stati sistematicamente scartati, mentre sono stati ascoltati soltanto coloro che deponevano in favore dei criminali. Comprendo che, per la pacificazione degli animi, è necessario essere clementi con i giovani traviati dal fascismo: ma per coloro che con i loro crimini hanno offeso l’umanità dolorante, affinché detti crimini non si ripetano, è necessario che la giustizia dia una meritata pena. Purtroppo questa meritata pena non sarà mai applicata dai tribunali odierni per il semplice fatto che gli stessi uomini che ieri giudicavano i banditi della montagna oggi giudicano quest’ultimi alla stessa maniera di ieri mentre assolvono i criminali repubblichini come difensori della Patria. E come tali li ha considerati la Corte d’Assise di Bologna. Noi della Associazione Perseguitati Politici Antifascisti di Lumezzane, in nome dei morti gloriosi caduti e di tutti coloro che ingiustamente languono nelle carceri dello Stato democratico, protestiamo energicamente contro detti processi burletta. Giuseppe Balzarelli”. 14) Dal registro dei crimini di guerra nazifascisti rinvenuto nel maggio 1994 presso la sede della procura generale militare di Roma. Nadir Ferruccio Sorlini n°: 1791 Imputati:MENICATTI GIORGIO, SORLINI FERRUCCIO e ignoti elementi delle brigate nere Titolo del reato: Omicidio Parte lesa: GUASCHINO MODESTINO Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano Tribunale di riferimento: Data restituzione atti: Note:Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 14/12/94. n°: 1835 Imputati: SORLINI FERRUCCIO e altri 5 appartenenti alla sua banda con ignoti militari tedeschi Titolo del reato:Violenza con omicidio art. 211 c.p.m.g. Parte lesa: GATTA GIOVANNI ed altri 15 - vedi fascicolo (strage di Bovegno) Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano Tribunale di riferimento: Sono stati abbinati gli atti del n° 1837. Data restituzione atti: Note: Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 19/12/94. n°: 1837 Imputati: Ignoti componenti la banda Sorlini e militi tedeschi Titolo del reato: Aiuto al nemico Parte lesa: LA PAGLIA GAETANO Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano Tribunale di riferimento: Abbinato al fasc. n° 1835. Data restituzione atti: Note: Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 19/12/94. Abbinato al 1835. n°: 2251 Imputati: SORLINI FERRUCCIO - maggiore fascista Titolo del reato:Sevizie Parte lesa: Ignoti partigiani Ente denunziante: Q. G. Commissione alleata Tribunale di riferimento: Data restituzione atti: Note:Trasmessi P.M. Verona 6/2/96. p. 21 Nadir Ferruccio Sorlini p. 22 Corredo fotografico Considerata l’importanza del personaggio, riteniamo utile allegare anche altre immagini tratte dalla stessa fonte utilizzata per il volto di copertina Mario Sorlini, 11/1922 Ferruccio Sorlini, 11/1921 Mario (sn) e Ferruccio Sorlini (dx), 10/1922 Squadristi della «Disperata», novembre 1921. Al centro della fotografia è posizionato il comandante Mario Sorlini. Nel riquadro a lato una possibile raffigurazione del fratello Ferruccio. Nadir Ferruccio Sorlini p. 23 Squadristi della «Disperata», ottobre 1922. Nel riquadro i fratelli Mario (sn) e Ferruccio Sorlini. Alla destra di Mario vi è Luigi Begnotti, in vari periodi comandante delle squadre bresciane.