Nadir
Ferruccio Sorlini
Bouquet d’Amour
Ferruccio Sorlini
25.04.1903 – 28.07.1945
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Profilo biografico
Premessa
Il presente contributo è parte integrante di una ricerca storica più ampia denominata Bouquet
d’Amour, avviata nel 2008 e mirata a ricostruire il Novecento sul territorio di Villa Carcina nella
prospettiva di valorizzare il “cammino della democrazia” nell’intera Valtrompia. Accanto allo
sviluppo di 21 profili di personaggi che hanno contribuito in maniera positiva a determinarne
l’evoluzione in tale direzione, è sorta la necessità di approfondire la conoscenza di una “Black List”
di altri personaggi che si sono loro contrapposti, a volte disumanamente, fino a rendersi responsabili
di omicidi e inenarrabili violenze contro sedi istituzionali e di partito. E’ in questa specifica
prospettiva che i due fascistissimi fratelli Sorlini (Mario e Ferruccio) sono stati indagati, perché di
casa a Villa in quanto amici del camerata Massimiliano Gusmeri (che parteciperà al alcune azioni
squadristiche e sarà a lungo segretario del fascio, nonché ufficiale della milizia) e del più giovane
fratello Tullio, squadrista della «Me ne frego», che si renderà responsabile di due mortali pestaggi
nell’allora comune di Villa Cogozzo. Parliamo di profilo dunque - non di biografia – perché 1) ciò
che primariamente è stato analizzato sono soprattutto i rapporti di questi personaggi con gli eventi
associati al territorio di Villa Carcina; 2) molti dei fatti accaduti esternamente sono stati solo
accennati o trascurati; 3) non tutte le fonti archivistiche e documentali (comunque scarse) sono state
consultate. Il presente elaborato è dunque da considerare solo una prima traccia di studio, aperto
all’arricchimento storico e culturale di chiunque voglia contribuire a una migliore conoscenza
oggettiva dei personaggi esplorati e alla comprensione di quello che realmente fu il fascismo in
Valtrompia e delle sue funeste conseguenze politiche e culturali, argomenti finora poco analizzati.
Considerati questi limiti, il presente «profilo biografico» è da considerarsi una versione
provvisoria.
Nb. Il paragrafo in premessa è ripreso dalla biografia del fratello Mario, allegata al Notiziario Rln n.
03 – 02/2013. Non è nota alcuna fotografia ufficiale di Ferruccio Sorlini. L’immagine di copertina
è estratta dalla fotografia degli squadristi della «Disperata» in cui Ferruccio appare in squadra con
l’elmetto in testa accanto al fratello Mario nell’ottobre 1922. Tutte le fotografie utilizzate sono
tratte dal libro di Pier Alfonso Vecchia Storia del fascismo bresciano. 1919.1922, Vannini editore.
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Fratello minore di Mario (11.03.1899-19.01.1927) – Ferruccio nasce a Brescia il 25 aprile 1903,
stesso mese e giorno di primavera che 42 anni dopo porranno fine al suo impossibile sogno di
dominio.
A 11 anni tenta per la prima volta il suicidio, sparandosi con una rivoltella Flobert una pallottola in
testa, che gli resterà conficcata per tutta la vita (altri due tentativi li compirà nel ’45, nell’attesa del
processo penale). Cupo personaggio (verrà soprannominato «iena di Brescia») entra giovanissimo a
fare il suo apprendistato di violenza nella squadraccia fascista «Disperata» di Brescia (il “più
pugnace e attivo nucleo di soldati della Rivoluzione della nostra terra” scriverà «Il Popolo di
Brescia» in un articolo commemorativo del 10.01.1941) capitanata a partire dal giugno del ’21 dal
fratello Mario – ma già gregario della stessa a partire dal 13.05.1920 - partecipando a numerosi
crimini compiuti dalla famosa banda di terroristi neri, in particolare nel luglio 1921 all’assalto della
camera del lavoro di Ghedi e di Brescia. La notte del 10 dicembre 1921 a porta Cremona,
riconosciuto da un gruppo di antifascisti mentre rientra a casa insieme al fratello e allo squadrista
Giuseppe Pogliaghi, viene insultato e percosso, riuscendo tuttavia a sottrarsi agli aggressori.
E’ in città, durante la sua bellicosa attività squadristica condotta insieme al fratello, che viene
probabilmente a conoscere il facoltoso notaio Giovanni Maria Cavadini (che nel ’23 diverrà capo
zona del fascismo triumplino e sindaco fascista di Villa), il futuro segretario del fascio di Villa
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Cogozzo nonché assessore Massimiliano Gusmeri e suo fratello minore Tullio, offrendosi di dare
loro man forte nei pestaggi contro i socialisti di Villa e della valle.
Divenuto centurione della milizia fascista, combatte nella guerra civile di Spagna nel battaglione
d'assalto legionario «Carroccio», partecipando anche alla famosa battaglia di Guadalajara (8 - 23
marzo 1937) dove rimane invalido per una grave ferita alla testa. Divenuto funzionario dell’Agip, il
15 luglio 1938 sottoscrive assieme a numerose alte personalità del regime il manifesto degli
scienziati razzisti, che darà origine alle leggi razziali fasciste, lette per la prima volta dal balcone
municipale di Trieste da Benito Mussolini il successivo 18 settembre. Tali discriminatori
provvedimenti legislativi e amministrativi, rivolti prevalentemente - ma non solo - contro le persone
di religione ebraica, saranno fatti propri dalla repubblica di Salò.
Dopo l’arresto del duce e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco Ferruccio Sorlini
rimane il più fascista di tutti e meno che mai si sente pensionato. Anzi, decide di fare il nazista ed è
esattamente a partire da questo momento che il terrorismo neo-fascista entra nella storia di Brescia.
Sullo sfondo d’una sfida finale tra alleanza delle nazioni democratiche e armate dittatoriali e d’una
diffusa rivolta resistenziale rigenerativa che si sta organizzando in forma armata; dinnanzi a un
generale crollo del consenso ed evidente calo di potere della vecchia struttura fascista, decide di
rimettersi in gioco in prima persona, alla sua maniera, perché lui rappresenta la storia del fascismo
bresciano e vuole continuare la guerra. Ritenendo necessario riconfigurare il partito in modo nuovo
e aggressivo, sul modello nazista, come richiedono gli occupanti, riprende la strada del potere
accompagnandosi ad alcuni squadristi rimastigli fedeli.
Il 12.09.1943 si presenta “stivaloni gialli, camicia nera, fasci rossi da squadrista” al comandante
militare tedesco Von Whutenau con i camerati Alfredo Becherini, Augusto Bastianon (console
generale della Milizia) e il capomanipolo Mario Colombini, mettendosi a loro completa
disposizione. Si concretizza così di fatto - a partire dal giorno 13 - un quadrunvirato di cui lui è
segretario politico, mentre il gen. Bastianon ha il compito di riorganizzare la milizia e Becherini
l’incarico di riallineare imprenditori e lavoratori) aprendo di fatto la via al ritorno del fascismo
squadrista a Brescia. E' il peggio del peggio. E' l’inizio della sua seconda fase emergente, quella
fuorilegge e sanguinaria, che lo porterà addirittura in contrasto con le gerarchie fasciste più prudenti
e moderate. “Fu presente a tutte le riunioni e decisioni. Lo scopo di Sorlini – scrive l’Enciclopedia
bresciana di Antonio Fappani - era soprattutto quello di ottenere armi per i fascisti dai tedeschi.
Riuscì infatti in pochi giorni a formare un primo nucleo di polizia che scatenò il terrore in tutto il
Bresciano, causando apprensioni e resistenze fra i più responsabili degli stessi fascisti”.
Sua la responsabilità della disfatta partigiana seguita alla prima battaglia scatenata il 9 novembre
1943 dai nazifascisti a Croce di Marone, dove si erano raccolti ribelli e militari sbandati provenienti
da più parti. Ferruccio Sorlini riesce a corrompere uno dei capi della resistenza, il tenente del 77°
reggimento di fanteria «Lupi di Toscana» di stanza a Brescia Armando Martini, che aveva
abbandonato l’esercito fascista dopo l’8 settembre. Il tenente e i suoi uomini si allontanano
insospettati dalla loro posizione proprio il giorno prima dell’attacco aereo-terrestre sferrato all’alba
del 9 novembre, salvandosi così dalla disfatta. Successivamente Armando Martini, divenuto spia
antipartigiana a tempo pieno, verrà catturato sopra Cesovo e ucciso il 22 maggio 1944 ai piedi del
monte Muffetto con un colpo di pistola sparatogli alla testa dal russo Nicola Pankov. Dopo la
sconfitta di Croce di Marone anche il capo partigiano Gianni Longhi, ex tenente di marina, passa al
soldo del Sorlini, rendendosi responsabile della denuncia contro diversi compagni di lotta ma
finendo tuttavia arrestato e fucilato dai tedeschi a Verona, il 29.02.1944, per aver a sua volta
fucilato sui monti tra Brione e Polaveno l’ex alpino Giuseppe Clementi di Villa Carcina, loro
fidatissima spia infiltrata tra le prime bande ribelli.
Questi fatti documentano in maniera significativa gli sporchi metodi allora usati per cercare di
contrastare il dilagare della protesta ribellistica tra i giovani militari sbandati e i primi gruppi della
resistenza armata in Valtrompia.
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Nonostante i successi conseguiti nella repressione ribellistica, ma probabilmente proprio per i suoi
metodi, l’11 novembre del ’43 il maggiore Ferruccio Sorlini viene esonerato dalla carica di
federale, con gravi accuse. Non si scoraggia per niente il quarantenne squadrista, divenuto
collaboratore del capitano delle Ss Priebke. Dopo la costituzione della Gnr (20.11.1943) ottiene la
nomina a comandante della sezione politica di questa nuova arma combattente e insieme forza di
“polizia interna e militare” dipendente dal partito, in cui vengono fatti confluire i carabinieri. Ma
anche questa carica gli verrà presto tolta. Sorlini non molla e appena destituito dal comando si
mette a servizio dell’Ufficio politico della questura. Tuttavia, seguendo le proprie pulsioni, chiede e
ottiene dalle Ss il comando di una «banda» tutta sua, completamente autonoma, totalmente dedita
alla repressione. Comincia subito, reclutando nuovi fidatissimi squadristi fra i questurini e i
comandanti periferici dei carabinieri, persino tra agenti dell’Ovra e i funzionari di partito, tutta
gente che ha conosciuto nell’esercizio delle sue funzioni di comando.
Bisogna evidenziare almeno due elementi distintivi di questa nuova formazione criminale.
Innanzitutto la natura come sempre non convenzionale delle sue azioni, stavolta non più subordinata
alle finalità pseudo rivoluzionarie del partito fascista, bensì concepita a sostegno dell’operatività
dell’occupante nazista e della sua crudelissima logica repressiva nei confronti dei “banditi”, dunque
totalmente svincolata dai controlli istituzionali del fascismo repubblicano. La sua qualità
fondamentale non è dunque quella di comportarsi da comandante estremista d’una squadra fascista,
come il fratello Mario, ma da militare al servizio dell’oppressione tedesca contro chiunque mostri
segni di ribellione, requisito indispensabile per avere l’approvazione del loro comando, che gli
permette di coprire misfatti connessi alla propria perversa logica dominatrice. Da notare che questo
comportamento anticipa lo stile e il metodo che saranno fatti propri dal neofascismo terrorista e
stragista dei successivi anni Sessanta e Settanta, guidato da Ordine nuovo, asservito ad apparati
militari e ai servizi segreti.
Bisogna in secondo luogo far presto e bene. La banda cioè deve essere ad effetto immediato, agendo
per lo più nell’ombra e con rapidi spostamenti. Per questo non utilizza giovani reclute da addestrare,
come era avvenuto ai tempi della prima guerra civile (1921-1922) bensì funzionari addentro
importanti uffici di partito (alla stessa federazione) o statali (questura, Gnr), militi già esperti
nell’uso delle armi e abituati allo spargimento del sangue, alla pratica della delazione e della tortura,
all’esercizio della violenza – anche omicida - contro vecchi e nuovi nemici, siano questi
giovanissimi ribelli o cittadini inermi, come avvenuto nella strage di Bovegno. Di questi nuovi
squadristi irregolari lui è il capo assoluto: è lui che fa da maestro, che insegna la ferocia, che dà le
direttive e impartisce gli ordini, che dispone blocchi e imboscate, che coordina e dirige i
rastrellamenti, che corrompe ribelli pentiti e compra nuove spie. E’ sempre lui che al centro tesse la
tela dei comprimari nell’operazione intenzionalmente diretta a smembrare ovunque il corpo
resistenziale bresciano. E’ dunque lui, direttamente o indirettamente, di tutti i crimini commessi il
mercenario senza scrupoli primariamente – non esclusivamente - responsabile.
Li unisce un unico patto: punire gravemente i sospettati o uccidere qualcuno identificato come
nemico non è reato: è sempre legittimo, pienamente giustificato, assolutamente impunito. A ciò è
finalizzata l’anomala pressione antiribellistica dei suoi uomini, condotta ovunque con un crescendo
intenso tramite fedeli esecutori, anche istituzionali, come i comandanti dei carabinieri (Gnr) – ad es.
di Gardone e Lumezzane – posti al suo servizio. Lo scopo è di far vivere ribelli e cittadini
permanentemente nella paura, di tenerli soggiogati con il terrore, intimorendoli con i cadaveri delle
vittime lasciati ai margini delle strade o nelle piazze. In questa luce acquista valore il gran rifiuto
del brigadiere Modestino Guaschino, dal ’39 al comando della stazione dei carabinieri di Villa
Carcina e membro del Cln comunale, che nel giugno del ’44 preferisce rassegnare le dimissioni
dall’Arma piuttosto che prestarsi a qualsiasi collaborazione, unica lodevole eccezione in
Valtrompia. Sarà proprio questa la causa remota e prima del suo atroce assassinio compiuto dalla
banda Sorlini nella notte fra l’11 e il 12 marzo 1945, preceduto la sera prima da quello del
partigiano solitario Francesco Scaletti di Cailina e seguito subito dopo dall’uccisione di Armando
Lottieri alla Stocchetta, anch’egli esponente del Cln cittadino.
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Il battesimo della banda assassina parte all’indomani del ferimento del legionario Paolo Tosoni e
dell’uccisione del caposquadra Luigi Bertazzoli, provocati dall’attentato gappista compiuto la sera
del 12 novembre contro il comando della milizia dislocato alla scuola agraria Pastori in località S.
Eufemia. Gli attentatori fanno parte del nucleo gappista diretto da Leonardo Speziale e sette di loro
saranno arrestati la sera del 17 novembre dietro delazione di un compagno di lotta, Fappani
Giuseppe, segreto confidente del questore. La banda Sorlini non attende l’esito delle indagini,
mettendo prontamente una crudele rappresaglia. All’alba del 13 novembre viene prelevato da casa e
ammazzato in località Crocevia di Sarezzo l’operaio antifascista Luigi Gatta, di 34 anni,
capocellula della locale rete clandestina comunista. Riescono fortunatamente a sfuggire alla cattura
Antonio Forini e Francesco Gamba. La criminale caccia all’uomo riparte la sera in città, dove
vengono uccisi tre altri innocenti: in via San Faustino il merciaio ambulante Rolando Pezzagno, di
57 anni, anarchico ed ex confinato all’isola di Ustica; in piazza Rovetta Arnaldo Dall’Angelo,
operaio comunista della Radiatori, ex confinato all’isola di Ponza e diffusore della stampa
clandestina; cercano Giuseppe Andrini, ma sbagliano casa e ammazzano il fresatore Guglielmo
Perinelli di 61 anni, comunista. Riesce a sopravvivere ai colpi del mitra il quarantenne Mario
Donegani, operaio della Togni, noto antifascista, che riparerà in montagna unendosi nel ’44 ai
garibaldini della 122a brigata. Questa di piazza Rovetta, preceduta dall’assassinio del Gatta di
Sarezzo, è la prima strage di antifascisti compiuta dalla criminale banda personalmente comandata
da Ferruccio Sorlini. Ne seguiranno altre, sempre caratterizzate da incredibile ferocia, sullo stile
nazista.
La banda Sorlini è di fatto una formazione paramilitare indipendente, con speciali compiti di
polizia politica, repressione, controspionaggio, caccia ai ribelli e agli ebrei, con la facoltà di
eseguire perquisizioni e confische, procedere ad arresti, condurre interrogatori anche con l’uso della
tortura, emettere condanne a morte ed eseguire sentenze, ma anche compiere uccisioni arbitrarie,
saccheggi, taglieggiamenti, incendi. “Tutto gli fu permesso. Riuscì perfino a disgustare le SS ed è
tutto dire”. In pratica il comando militare tedesco, seguendo una lucida strategia di attacco e
anticipando il futuro ruolo repressivo imposto alle brigate nere, gli concede piena licenza di
violentare e uccidere i civili in rivolta. Stessa libertà d’azione sarà nei fatti lasciata alla polizia
politica della diretta dal febbraio 1944 da Gaetano Quartararo, da considerare anch’essa una vera
e propria banda speciale antipartigiana impiegata in rastrellamenti, perquisizioni, arresti seguiti da
torture, vere e proprie uccisioni, come nel caso del comandante della 122a brigata Garibaldi
Giuseppe Verginella, che sarà ucciso alle primi luci dell’alba del 10.01.1945 a Lumezzane.
Ai primi di luglio del ‘44 – secondo l’enciclopedia citata - diviene “vicecomandante della Brigata
nera Tognù. Il 2 luglio 1944, per rappresaglia, trascinò a Salò cento uomini di Vestone compreso il
clero del luogo. Nel Ferragosto 1944 fu presente alla sanguinosa rappresaglia di Bovegno. Poi si
segnalò a Collio a caccia dei partigiani. Nel dicembre 1944 venne arrestato con Persavalli e
Paterlini dalla Guardia Nazionale Repubblicana per ordine di Alfredo Becherini, sembra per dare
un segno di distensione all’opinione pubblica e al movimento partigiano; venne poi liberato dalle
SS che lo assunsero a proprio servizio. Unitosi alla compagnia Cavagnis, ricostituì un suo gruppo
d’azione segnalandosi in decise azioni antipartigiane”.
Un suo efficace ritratto ci verrà fornito dal corrispondente del giornale di Brescia durante il
processo che si svolgerà a suo carico nel luglio 1945: “con la gobba che gli avanza da metà
schiena, l’abito grigio e anonimo, la nuca sottile, i capelli radi e sbiaditi: solo gli occhi grandi neri
accesi, hanno talvolta un che di allucinato e di perverso, di rabbrividente. Senza il mitra sotto il
braccio, senza i grappoli di bombe a mano, senza i feroci sgherri ai fianchi, Sorlini assomiglia a
un piccolo sofferente burocrate”.
Ma è un estremista da sempre nel fascismo bresciano e ottiene carta bianca nella repressione del
nascente movimento di resistenza, contro il quale progetta e realizza un duro regime di polizia,
attivando una vasta rete di spionaggio e sperimentando aggressioni terrorizzanti. Dai risultati della
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presente limitatissima ricerca possiamo nominare solo alcuni degli elementi della sua banda, emersi
dalle carte per qualche cruenta azione commessa in terra bresciana, per di più con dati incompleti,
pur se integrati da elementi tratti dal processo alla banda celebrato a Bologna tra il 9 novembre
1948 e il 12 gennaio 1949: capitano ing. Rizzi, addetto al servizio politico, Eugenio Castellini
(braccio destro del Sorlini), Mario Serioli (il boia), Carlo Bonometti (capitano della Gnr a
Gardone Valtrompia), Renato Cometto (capitano della Gnr), Umberto Brighenti (brigadiere della
Gnr a Lumezzane), Enrico Brignoli (brigadiere della Gnr), Giuseppe Glisenti, Giacomo Mensi e
Giacomo Quinzani (agenti dell’Ufficio politico della questura), Mario Pagani (furiere della
brigata nera, presente all’omicidio Guaschino e Lottieri), Aldo Frau (milite della brigata nera),
Mario Brunelli (interprete dei tedeschi e spia), Franco Persevalli (autista della banda, presente
all’eccidio di Bovegno), Lino Caprinali (della segreteria del partito), Giovanni Cavagnis
(comandante del 3° battaglione della brigata nera Tognù), Giovanni Tancredi (milite della brigata
nera), Mario Scarsella (milite della Gnr di Gardone), un certo Romano (probabilmente Paolo, vice
brigadiere di Ps, agente dell’Ovra).
Questa la testimonianza del Sorlini rilasciata alla corte di assise qualche giorno prima di essere
ucciso: “Dopo trattative, il 4 Novembre 1943 ebbi un abboccamento a Marone prima e a Zone poi,
con elementi del gruppo Martini; tutto era predisposto e 60 stranieri che appartenevano al gruppo
sarebbero andati per conto loro e 240 italiani si sarebbero presentati, sarebbe stata regolarizzata
la loro posizione e sarebbero tornati alle loro case. Il movimento doveva avvenire il martedì, se
non che il lunedì i tedeschi pressati dall’allora Prefetto Barbera, decisero di attaccare il gruppo
Martini proprio martedì. Martini mi mandò una staffetta, certo Delle Donne Giuseppe, che giunse
in Federazione alle 9 del mattino. Non curante della fucilazione che rischiavo mi informai delle
direttrici di attacco delle colonne tedesche e attraverso la stessa staffetta munita di lasciapassare
da me firmato e di una moto targata Federazione, rinvia il Delle Donne a Martini, comunicandogli
le vie che aveva libere per sganciarsi, col consiglio di non combattere. Questo avvenne il 9
Novembre”. Grazie al suo intervento, il tenente Martini si allontana insospettato il giorno prima
dell’attacco aereo-terrestre sferrato dai nazifascisti all’alba del 9 novembre, salvando se stesso e i
suoi uomini dalla disfatta, mentre 8 neopartigiani cadono vittime del rastrellamento e altri 8
vengono arrestati.
Così la sua vita viene ricordata sul «Giornale di Brescia» in data 25.06.1945.
“Dalla metà del settembre 1943, quando egli, con beneplacito e la fiducia dei capi della mostruosa
repubblica sociale, si insediava in triunvirato (con Becherini e Bastianon) al comando della
Federazione fascista di Brescia, il suo nome non cessò un giorno di essere la curiosità e l'incubo di
tutti i bresciani onesti. Poco più che quarantenne, questo uomo che cominciò ad essere "noto" fin
dai giorni di quella "Disperata" in cui trovava il suo posto, per temperamento e inclinazioni,
rimase tipico rappresentante dello squadrismo fascista con una coerenza che sarebbe da lodare se
non fosse stata tutta e soltanto rivolta al male. Tornato dalla Spagna col grado di capitano e con
gli allori di Guadalajara, ricomparve poi a galla tra coloro che non potevano rassegnarsi alla
scomparsa del fascismo, loro vita e difesa e raggiunse i posti e la relativa fama ben nota. Silurato
dagli stessi repubblicani alla fine di novembre 1943, come federale, costituiva quel triste servizio
politico speciale dal quale scaturirono la quindicina di accuse di reati comuni per cu veniva
successivamente arrestato. Fu anche, mentre era federale Melega, vicecomandante della brigata
nera "Tognù". Dopo la scarcerazione, si univa a quel comandante della compagnia alpina,
Cavagnis, per ordine del quale venivano uccisi Armando Lottieri e altri”.
Era stato il comandante della Gnr Valzelli a decretare l’arresto suo e di buona parte della sua banda,
tramutandolo in arresto dopo un mese. Il Sorlini viene infatti arrestato il 12.12.1944, ma dopo poco
tempo è di nuovo in libertà. Così scrive il periodico antifascista «Il ribelle», anno II, n. 1: “Sorlini il
vicecomandante della brigata Tognù, è stato arrestato, e, giorni or sono, passato alle carceri, dove
è tenuto separato dagli altri prigionieri per timore di accoglienze troppo calorose”.
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Contro di lui il 5 febbraio 1945 viene nuovamente spiccato mandato di cattura, che tuttavia non
viene eseguito a causa dell’opposizione di alcuni commilitoni. Ciò suscita le proteste del capo di
stato maggiore della Gnr Nicolò Nicchiarelli, che si lamenta con Alessandro Pavolini. Quel che
abbia fatto nel frattempo il Sorlini lo sappiamo bene: stazionava in Valtrompia, sovente in quel di
Villa, che era di fatto il suo regno.
Nella rappresaglia condotta a Villa Carcina tra il 10 e l’11 marzo 1945, è senz’altro determinante il
suo ruolo di capo che assoggetta i devoti camerati - guerrieri ormai perduti e perdenti - con la sua
dispotica psicocrazia. Schiacciati dalla sua posizione dominante, che lo rende un autentico padrone
d’anime, essi si sottomettono alle sue implacabili decisioni. Ma il Sorlini non è stato semplicemente
il burattinaio che ha mosso delle marionette, dal momento che l’omicidio del brigadiere era
pianificato da tempo, anche se non vi era una specifica richiesta locale in tal senso ma solo una
pesantissima denuncia sottoscritta da autorevoli mandanti. Né si può sostenere che i giovani
brigatisti locali si siano limitati a comportarsi come semplici terminali di morte, dal momento che
hanno partecipato con ferocia personale al disumano rituale di morte consumato nelle tenebre, pur
eccitati dalla travolgente attrazione di sangue esercitata dal capo. Sebbene condizionati, ognuno di
loro e tutti insieme conservano intatta la propria responsabilità civile e morale, anche se la giustizia
umana si è limitata a classificarli come “ignoti elementi delle b.n.”, senza mai volerli individuare e
indagare o fare piena luce su quelle terribili scene di morte.
Dopo la liberazione di Brescia, il Sorlini viene aiutato a fuggire proprio dai fascisti di Villa, che
gli predispongono un falso documento di identità, col quale raggiunge Milano per cercare di
espatriare. Per questo manifesto atto di collaborazione verranno incriminati il segretario comunale
Bornati Lorenzo e sua figlia Piera. Inoltre "risulta che il certificato di identificazione falso dal
Sorlini esibito a Parma al momento dell'arresto, figura rilasciato dal Comune di Villa Carcina
sotto il falso nome di Borloni Francesco (...) residente a Villa via Ripe n. 3 (...) che la compilatrice
del documento al Sorlini sia stata la stessa Gusmeri Cordelia".
Arrestato in un cinema di Parma il 24.06.1945 e incarcerato in un luogo segreto di Brescia per
essere sottoposto a processo, il giorno dopo tenta il suicidio tagliandosi le vene di un braccio con
una lametta. Salvato dalle guardie addette alla sua personale custodia e ottenuto così il rinvio del
processo, il detenuto trascorre il tempo scrivendo un memoriale difensivo, ritentando in forma più
grave il suicidio il mattino del 18 luglio. Il processo a suo carico presso la corte di assise
straordinaria ha inizio così solo venerdì 27 luglio, seguito da una folla enorme tanto che è
necessario allestire, nel cortile della corte di appello degli altoparlanti, per permettere alle centinaia
di bresciani accorsi di seguire le varie fasi del dibattito.
Queste
le accuse di carattere generale contro di lui mosse: di avere dall’8 settembre 1943
collaborato “con il tedesco invasore, prima come commissario federale poi come ufficiale superiore
con funzioni politico militari, assumendosi, in queste cariche le più gravi responsabilità,
procedendo a rastrellamenti di prigionieri di guerra liberati dal governo legittimo d’Italia, di
sbandati e di disertori, di patrioti che egli ha personalmente perseguitato, spesso torturato e , a
volte ucciso o fatto uccidere”.
Gli viene inoltre addebitata responsabilità diretta nell’arresto e nell’uccisione, nel marzo del 1944,
di Giuseppe Musatti di Ome; il 28 ottobre dello stesso anno, alla Sella dell’Oca, di Mario
Bernardelli e di Giuseppe Zatti; di aver consegnato alle Ss Mario Rossi, che verrà fucilato nel
forte di Verona; dell’arresto e nella deportazione a Mauthausen - dove morirà - di Angelo Marone,
da lui personalmente sottoposto a interrogatorio; dell’arresto e dell’uccisione dei partigiani
Bettinzoli, Perlasca e Giacomelli; di Francesco Scaletti il 10.03.1945; dell’ex brigadiere della
Gnr di Villa Carcina Modestino Guaschino e del dirigente comunista Armando Lottieri la notte
dell’11 marzo 1945; dell’arresto e delle torture personalmente inflitte agli studenti Giuseppe
Ercolani, Zappa e Mario Moscatelli, Antonioli e Schiamone. Viene pure accusato di reati contro
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il patrimonio per aver sottratto, a mano armata, con minacce beni preziosi quali mobili, argenteria
denaro e gioielli ai danni di numerosi cittadini bresciani.
La gravità delle imputazioni fa prevedere una sua sicura condanna a morte, ma il pomeriggio di
sabato 28 luglio, il processo ha un’improvvisa conclusione.
Così
il tragico epilogo della sua vita viene raccontato dal «Giornale di Brescia» in data
29.07.1945: “(…) Sorlini dà risposte confuse, negando la partecipazione ai fatti (…) S’inizia
quindi la serie delle contestazioni di reati comuni, le responsabilità dei quali egli tenta di far
risalire ai suoi giannizzeri (…) A mezzogiorno l’interrogatorio è sospeso. Sorlini è stanco,
nervoso, quasi senza voce. Anch’egli è un angioletto caduto per sbaglio in terra. Nel pomeriggio,
ad aula e cortile affollatissimi, nuove contestazioni vengono rivolte a Sorlini (…) La vedova del
brigadiere Guaschino riconosce nell’imputato uno degli uomini che prelevarono il marito e che la
minacciarono con il mitra, la percosse – ed essa era incinta di otto mesi – la fece rotolare sotto un
tavolo e la chiuse in una stanza, insensibile alle disperate grida della donna. Sfilano poi il padre di
Scaletti e la giovanissima vedova di Armando Lottieri che anch’essa porta in volto l’ombra
pesante di un dolore che non si cancella. Il sicario si agita nella gabbia. Le prove schiaccianti lo
hanno annientato. Segue il padre del garibaldino Bernardelli, che dimostra come Sorlini sia stato
l’assassino del figlio (…). La sorte del Sorlini processualmente sembra segnata. Ma alle ore 16,45
il processo ha una tragica, improvvisa conclusione. Mentre si stava terminando l’escussione degli
ultimi testi, un carabiniere di guardia alla gabbia in cui era rinchiuso l’imputato, impugna il mitra
uccidendo l’imputato. Responsabile della morte in diretta dell’imputato è il carabiniere Giuseppe
Barattieri, di 32 anni, che aveva comandato in provincia di Brescia una formazione partigiana
delle Fiamme Verdi, ferocemente braccata dal Sorlini, che proprio sul capo del Barattieri aveva
posto due taglie: una di 100 e l’altra di 500.000 lire (…)”.
Così quell’attimo tremendo verrà efficacemente immortalato sul settimanale «La Verità» in data 9
agosto 1945: “Quando la raffica partì dal mitra del carabiniere, e nel breve acro fumo dello sparo,
le mani strette al petto, Sorlini s’abbatté nella gabbia, non il sangue che dalla bocca contorta lento
spesso cupo segnava il volto verdegrigio del criminale, non la rossa macchia che s’allargava sulla
bianca camicia, nulla di tutto questo noi guardammo, ma gli occhi orrendamente sbarrati
dell’uomo morto ci attrassero, rovesciati all’indietro, invetriti, abbrividenti (…)” .
Morto il capo, contro i suoi più stretti collaboratori, spietati torturatori ed uccisori, ma anche
insospettabili estorsori, saranno avviate le indagini nel febbraio del ‘47 e finiranno anch’essi alla
sbarra tra il 9 di novembre 1948 e il 12 gennaio 1949 quando, dopo 27 udienze, sarà pronunciata la
sentenza definitiva.
Prima di finire la storia è utile precisare un’altra cosa. Molte delle sue vittime il Sorlini non le
conosceva nemmeno. Conosceva molto bene invece suoi fidatissimi informatori, sparsi in tutta la
provincia e rimasti per lo più sconosciuti e dunque totalmente impuniti, che costituivano
nell’insieme una rete potente di complicità ben pagate. Spie e confidenti potevano essere funzionari
di partito, ufficiali o sottufficiali della Gnr, carabinieri o elementi delle brigate nere, ma anche
semplici cittadini, come probabilmente è avvenuto per la strage di Bovegno. E’ un elenco che si
dovrebbe tentare di compilare, per dovere di chiarezza e di giustizia nei confronti delle vittime.
Nadir
Ferruccio Sorlini
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Note
a) La X brigata nera – che ha il distaccamento della 3ª compagnia Val Trompia insediato alla
Stocchetta - è titolata a “Enrico Tognù”, segretario politico del fascio di Edolo, ispettore per la
zona dei fasci dell’Alta Valcamonica, ucciso il 18.06.1944 da un commando partigiano. Sempre in
Valtrompia, a partire dal 14 gennaio 1945 e con personale distaccato dalla 3ª compagnia, comincia
ad operare la 5ª brigata nera alpina mobile "Enrico Quagliata", con distaccamenti in Valcamonica.
Il Quagliata, membro della brigata nera mobile con il grado di colonnello, era caduto in
combattimento contro i partigiani a Ceresole Reale (To) l’11.08.1944. Era stato iscritto al fascio dal
1920, svolgendo le funzioni di vicecomandante della squadra «Disperata» di Firenze e partecipando
alla marcia su Roma.
b) Con Ferruccio Sorlini viene eretta a struttura di sistema la prima formazione irregolare creata a
scopo terroristico. Nel bresciano essa farà da apripista ad altre organizzazioni neofasciste
organizzate nel dopoguerra in funzione antidemocratica, pronte a scatenate una guerra invisibile di
rivincita. Ricordiamo una per tutte, l’Ail (Armata Italiana di Liberazione) le cui vicende finiranno
sulla stampa e nelle aule giudiziarie tra l’agosto del 1948 e il novembre 1949, a partire dall’arresto
del brigadiere dei carabinieri di Villa Carcina Curzio Gerelli e di alcuni cittadini, notoriamente
fascisti o dal passato nazista. Un territorio non casuale, perché proprio in questo comune Ferruccio
Sorlini coltivava fin dagli anni Venti potenti amicizie, in particolare con la dinastia dei fascistissimi
Gusmeri, che nell’aprile del ’45 gli fornirà – tramite una figlia di Tullio Gusmeri (squadrista della
«Me ne frego») che si accaserà proprio con uno dei maggiori imputati dell’Ail, Federico
Bevilacqua – il falso documento di identità che gli permetterà in un primo tempo di sfuggire alle
ricerche. Così titolava «l’Unità» in data 24.11.1949: “Il traffico di armi di Villa Carcina alle Assise
di Brescia. Fascisti ed agrari si armavano per dare una mano alla polizia. Il locale maresciallo dei
carabinieri è il principale imputato. La testimonianza del segretario dell’A.I.L.”. Nell’articolo di
cronaca riferito all’udienza del giorno precedente si precisa quanto segue: “Questa mattina si è
iniziato alle Assise di Brescia il processo a carico dell’ex-maresciallo dei carabinieri di Villa
Carcina, Curzio Gerelli e di altri tre imputati, Federico Bevilacqua, Giuseppe Sabattoli e Marino
Nolli, arrestati il 1° agosto 1948 a Villa Carcina dalla squadra investigativa dei carabinieri di
Brescia e denunciati in seguito all’autorità giudiziaria per traffico di armi. Già nei mesi precedenti
all’arresto gli abitanti della Valle Trompia erano a conoscenza di un vasto traffico di armi che,
racimolate dai vari gruppi di fascisti organizzati nell’A.I.L.(Armata Italiana di Liberazione)
confluivano a Villa Carcina dove il maresciallo locale, grazie alla collaborazione del Bevilacqua,
s’incaricava del loro smistamento presso i richiedenti, in generale agrari e industriali. Una prova
di ciò è stata fornita dallo stesso Bevilacqua [ex sottufficiale dell’esercito, ndr] che, nella
deposizione di stamane, ha specificato dietro domanda del presidente della Corte, che il
quantitativo d’armi (9 mitra, 5 bombe a mano, un fucile mitragliatore Breda, moschetti e 100
cartucce) sequestrato il 1° agosto a lui ed agli altri tre imputati dai carabinieri finiti per
l’occasione acquirenti, erano destinati agli agrari della «Bassa», dove era allora in atto una
agitazione di salariati. I testi hanno pure asserito di essersi accordati con il Gerelli, fin dal 1947,
per la creazione a Villa Carcina di un gruppo armato che avrebbe dovuto fiancheggiare i
carabinieri locali qualora si fossero verificati movimenti di elementi «estremisti», in quanto Villa
Carcina è un forte centro operaio. Il segretario provinciale dell’A.I.L., Dell’Acqua, nella sua
testimonianza resa nel pomeriggio di oggi, ha specificato che gli imputati erano suoi dipendenti,
pronti in ogni evenienza a dare una mano alla polizia. «Queste – ha soggiunto il Dell’Acqua –
erano le direttive prese a Roma tra il gen. Messe e le forze dello Stato». La «collaborazione»
avrebbe dovuto quindi verificarsi in campo nazionale, non solo a Villa Carcina (…)”.
Nadir
Ferruccio Sorlini
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E’ ovvio che si pone il problema storico di indagare molto più approfonditamente sul Sorlini, sulle
sue relazioni politiche, economiche e militari, sulle coperture di cui ha goduto e sulla sua banda
di terroristi neri, alcuni dei quali resisi latitanti e assolti nonostante i gravissimi reati insieme a
lui compiuti, come ad es. il direttore tecnico della Beretta Gianni Cavagnis, comandante del
battaglione «Adamello» della brigata nera Tognù. Anche semplicemente per scoprire - o
escludere - risvolti che potrebbero portare a risultati sorprendenti, magari ad evidenziare
l’occulta connessione con altri personaggi del terrorismo neofascista, come Junio Valerio
Borghese, ai tempi rifugiatosi nel bresciano in qualità di capo della X Mas (Montisola era il
suo regno personale), golpista nel dopoguerra, risultato infine elemento attivo dell’ «Anello» o
«noto servizio» italiano, il superservizio segreto clandestino di carattere politico che per
decenni ha svolto la funzione di braccio operativo segreto dei vertici politici contro altri
esponenti politici e contro l’opposizione di sinistra. “La matrice repubblichina e fascista del
«noto servizio» non impedì la sua evoluzione in un servizio segreto di tipo politico,
strettamente dipendente non da organismi dell’intelligence ma direttamente dai vertici delle
istituzioni” (Stefania Limiti, L'Anello della Repubblica, Collana: principio attivo, Chiarelettere
editore, aprile 2009, p. 55).
Documenti / testi
In riferimento alle vicende di Sorlini Ferruccio riportiamo due documenti storici e alcuni testi in
parte tratti da libri di carattere storico e in parte dai giornali pubblicati dopo la liberazione.
1) 25.10.1943. Relazione di Ferruccio Sorlini inviata dalla federazione fascista al comandante
generale della Milizia“sulla situazione politica. Attività elementi ex militari sbandati”. Il documento
è riprodotto nel libretto Croce di Marone. La prima battaglia della Resistenza nella provincia di
Brescia. 9 novembre 1943, edito dalla Comunità Montana Sebino Bresciano e Comunità Montana
Valle Trompia nel 2003.
“Confermando quanto ebbe a riferire all’Ecc. Vostra, ieri il V. Commissario di questa
Federazione, Ing. Sorlini Renato, riepilogo la situazione che si verifica in questi giorni nella città
di Brescia, e in provincia, riguardo all’attività di ex militari sbandati, più o meno inquadrati da
elementi antifascisti. A seguito dell’occupazione germanica della provincia, e di quelle limitrofe, ,
circa dieci-docidi mila ex militari che sono quasi tutti armati, si sono dati alla macchi, sulle
montagne che circondano la città di Brescia; a questi sono da aggiungersi alcune centinaia di ex
prigionieri Britannici, (soldati e graduati) fuggiti dal campo di concentramento di Vestone, e serbi
(ufficiali) fuggiti da quello di Bogliaco in comune di Gargnano. Infine si sono uniti ai predetti,
molti degli elementi antifascisti, anti nazionali, fuggiti per paura di rappresaglie e di cattura da
parte di autorità germaniche. Attualmente questi gruppi sono dislocati nei monti che vanno da
Gargnano fin presso Gussago, passando per la Val Sabbia, Val Trompia, lago d’Iseo e colline
della città di Brescia. L’approvvigionamento è loro assicurato sia con taglie imposte ai Comuni e
agli abitanti delle zone, come attraverso il continuo defluire dai centri di produzione della bassa
bresciana, con tutti i mezzi di trasporto possibili (biciclette, carri, ferrovia) di ingenti quantitativi
di cereali. La macellazione clandestina ripresa in grandissima scala con il tacito consenso delle
forze d’ordine (carabinieri) assicura il fabbisogno di carne e di grassi. Per l’armamento, è
certamente noto all’ecc. Vostra, che gli sbandati si sono trattenuti sia le armi da guerra, che quelle
da caccia, oltre il notevole incremento dato dall’azione compiuta contro la Ditta Beretta di
Gardone V.T., asportando circa 1200 pistole cal. 9 e un centinaio di mitra oltre al munizionamento
relativo. Da segnalazioni precise avute, risulta che questi elementi sono muniti anche di cannoni
anticarro e di mortai. Attualmente il gruppo che risiede nella zona del Lago d’Iseo, e che è al
comando di un Tenente Colonnello degli Alpini ed è forte di 5/500 uomini, ha iniziato un corso
regolare di sabotatori. Da notizie attendibilissime, risulta che questi sbandati intendono effettuare
nei prossimi giorni, un’azione nell’abitato di Brescia. Al proposito sono stati presi accordi con
elementi operai dello stabilimento “Tempini”, pronti ad una insurrezione. L’operazione che
Nadir
Ferruccio Sorlini
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dovrebbe avere la durata di poche ore, sarebbe destinata ad eliminare gli esponenti fascisti più in
vista e oltre a compiere atti di sabotaggio, a intimidire la popolazione. Poiché le forze germaniche
risiedenti in Brescia sono oltre modo esigue, l’azione che sarebbe compiuta da alcune centinaia di
armati, avrebbe sicura riuscita. Questa federazione ha richiesto al locale Comando della Milizia
che sia provveduto ad un servizio di guardia, dato che nessun fascista è armato mentre lo sono
abbondantemente gli elementi antinazionali. Fin’ora non si è potuto ottenere nulla. In vista di tale
situazione, ritengo che sia opportuno richiamare l’attenzione dell’Ecc. Vostra al riguardo, al fine
di ottenere quel minimodi sicurezza che potrebbe essere anche in parte raggiuntose fosse possibile
armare i fascisti aderenti al P.F.R.. Il Commissario Federale – Cent. Ferruccio Sorlini”.
2)22.09.1943. Comunicazione inviata da Ferruccio Sorlini al prefetto di Brescia Leone Leoni e
per conoscenza al comando germanico della “Piazza” di Brescia. Il documento è tratto dal libro di
Ludovico Galli Documenti inediti. Repubblica Sociale Italiana. Brescia 1943-1945 , p. 15.
“Oggetto: Costituzione della reggenza della federazione dei fasci - Brescia –
Facendo seguito al colloquio avuto con l’Ecc. vostra ieri mi è grato sotto riportare i nominativi dei
fascisti che ho chiamato a far parte della reggenza della federazione dei Fasci di combattimento di
Brescia:
1°) Beccarini
- squadrista
2°) Balisti
Fulvio
- squadrista
3°) De Giuli
Sandro
- squadrista
4°) Colombini
Mario
- squadrista
5°) Dugnani
Innocente
- squadrista
6°) Pini
Luigi
- squadrista
Quanto sopra per l’opportuna conoscenza.
Partito Fascista Repubblicano
Il Reggente Ferruccio Sorlini”.
3) La prima narrazione che riguarda i metodi spionistici di Ferruccio Sorlini è ricavato dal libro
prodotto dalla sezione gardonese dell’Anpi nel 1988: Testimonianze sulla Resistenza alla Beretta e
alla Bernardelli di Gardone V.T.”, pag. 17.
“Era frequente l'apparizione di spie e più difficile superare i posti di blocco con viveri e materiale.
Ai primi di dicembre, nei pressi della cascina Calzoni, veniva fermato un individuo sospetto.
Portato in località Spiedo, veniva più volte interrogato dai commissari del gruppo Arturo (L.
Speziale) e Antonio Faini. Addosso nascosto nella cintura un cifrario, un blocchetto di assegni,
salvacondotti tedeschi e del denaro. Inoltre nei pochi giorni trascorsi al campo aveva provveduto
ad annotarsi i nomi di battaglia di numerosi partigiani. L'8 dicembre condannato a morte veniva
fucilato in località Spiedo. Ciò dava forse l'avvio ad un secondo pesante rastrellamento iniziato
alle prime luci del 13 dicembre, che interessò non solo Gardone V.T. ma anche Ponte Zanano.
I primi arresti
Sorlini ed i suoi uomini potevano contare anche sull'appoggio di una ventina di uomini della
banda Martini che si erano costituiti. Conoscevano indirizzi di collaboratori e le località ove
Cinelli si era acquartierato (il suo comando era alle porte di Gardone V.T. all'inizio della Valle in
casa Donati). Gli arresti sono numerosi: Gino Benetti, Attilio Zambonardi, Belleri (Bagolina) ed
in uno scontro a fuoco in località Calzoni, fu ferito anche il Cinelli che riusciva però a sfuggire
alla cattura. A Gardone intanto un gruppo di fascisti faceva irruzione in casa di Giulio Tanghetti,
in via Diaz, che da alcuni giorni ospitava quattro prigionieri inglesi in attesa di mandarli in
montagna. I fascisti giunsero a colpo sicuro e scoperto uno degli ex-prigionieri (Sint Shaw) non
eseguirono alcuna perquisizione: bloccarono la signora Tanghetti e la figlia Maria e lasciarono la
casa permettendo agli altri familiari di far uscire i tre inglesi e di metterli in salvo. Il capofamiglia
veniva arrestato alla Beretta ove lavorava. Anna Fumasini e la figlia Maria verranno poi
rilasciate, mentre Guido Tanghetti rimarrà in carcere per lunghi sette mesi. Condannato a morte
Nadir
Ferruccio Sorlini
p. 12
dal Tribunale Speciale di Parma si vedrà commutata la pena con destinazione Germania.
Fortunatamente interveniva il rag. Vincenzo Bernardelli che riusciva ad ottenere, per lui,
l'esonero dal servizio coattivo di lavoro in Germania e a farlo rimettere in libertà, assumendolo
come operaio specializzato nella sua fabbrica d'armi. Il Tanghetti raggiungerà poi i familiari in
montagna fra le file partigiane”.
4) Il primo episodio repressivo di massa attuato dal Sorlini è raccontato nel libro di Enzo Abeni “La
storia bresciana 6. La guerra, la lotta partigiana e la liberazione”, pag. 239.
“Sorlini imperversava. Il 30 giugno [1944] le fiamme verdi della Valsabbia progettarono l’assalto
alla caserma di Vestone. L’operazione fallì, perché, certamente in seguito a una delazione, nella
caserma furono inviati poco prima un centinaio di militi. Durante il tentativo i ribelli catturarono
per strada quattro militi. La rappresaglia di Sorlini non si fece attendere. Ordinò di arrestare un
centinaio di persone di Vestone, tra le più note del paese, compresi i sacerdoti, con l’assurda
accusa di convivenza con i ribelli, e le fece portare a Salò, minacciando di fucilarne venti se non
fossero stati liberati i militi prigionieri dei ribelli. Il vescovo intervenne presso il prefetto Dugnani.
Dugnani si appellò a Buffarini Guidi e a Mussolini e tutti furono rilasciati. Naturalmente i ribelli
rilasciarono i quattro fascisti. Dugnani definì pazzesca l’operazione di Sorlini”.
5) Il secondo brano narrativo è tratto dal libro “Bovegno per la libertà – 1943-1945 – fatti e
testimonianze della Resistenza”, edito nel 2004 a cura dell’Istituto Comprensivo “Caduti per la
libertà” di Bovegno, che racconta nei dettagli la strage di Bovegno.
“Il giorno 13 agosto [1944] ha luogo un incontro tra i comandanti dei gruppi partigiani con alcuni
capifamiglia di Bovegno e con la presenza di mons. Francesco Bertoli. Si ottiene da tutti i presenti
l’impegno che, da quel momento in poi, nessun partigiano venga in paese armato per non
provocare la rappresaglia tedesca nei confronti dei civili; tale impegno viene rispettato da tutti i
gruppi tranne che da quello dei fratelli Vivenzi. Il 15 agosto Arturo [Vivenzi] ed alcuni suoi
uomini scendono dalla Garotta e si trovano a Piano dove, per tradizione, si festeggia solennemente
il giorno della Madonna Assunta. Tra questi vi sono Rino Dusatti (Faro) che conosce
personalmente il generale Masini e Guido Vitale (Cicalone).verso sera, ad attendere il generale
per il previsto incontro, sulla strada provinciale vi è Leonida Tedoldi, mentre Faro e altri, tra cui i
fratelli Guerino e Meschino Facchini, si trovano all’ingresso di piazza Cimavilla. Racconta «Ci
era stato dato l’incarico di scendere a Bovegno con la disposizione di non farci vedere armati.
Sono circa le ore 20 e cinquanta quando arrivano due macchine a fari spenti. Dal primo veicolo
scende un tale con un giubbotto di pelle dal quale spunta un mitra e mi chiede dove si trovi
l’Albergo Brentana. Proprio in quei momenti uno dei partigiani, Topolino, si avvicina e gridando
che sono fascisti della banda Sorlini spara un colpo di rivoltella all’autista che sta per impugnare
un mitra. Io subito lancio una bomba a mano che esploderà in ritardo sotto l’automobile e balzo al
di là di un muricciolo. Colpito da una raffica a una gamba, cado e perdo i sensi. L’amico Vitale mi
vede a terra, pensa che sia morto e mi fa portare in salvo verso Castello a dorso di un mulo.
Intanto dalla seconda macchina viene lanciato un razzo bianco in cielo: è il segnale che mette in
moto la colonna motorizzata, appostata nei pressi di villa Sorlini [Antonio Sorlini, suo zio,
proprietario di uno stabilimento in Ghedi e morto di recente, ndr] e composta da tre autoblindo
tedesche, un semovente con mitragliatrice e camion con uomini armati. Sulla piazzetta di
Cimavilla, intanto, si sono radunate persone per vedere che cosa sta accadendo, ignare di essere
presto vittime dei tedeschi. La spedizione punitiva ha inizio. Dalle autoblindo scendono i tedeschi
che cominciano a sparare sulle persone inermi, in sosta fuori dal Circolo della Cooperativa per la
serata di festa. Risultano feriti Luigi Vivenzi, padre di Cecco e Arturo, che spira all’ospedale del
paese dopo alcune ore di agonia; Giovanni Facchini che muore a casa sua dopo alcuni giorni;
Battista Facchini, un ragazzo di 15 anni di Zigole spirato anch’egli dopo qualche ora. Arcangelo
Corsini, ferito lievemente, riesce a salvarsi. Nelle case prospicienti la piazzetta c’è ancora gente. I
nazifascisti impongono di aprire. Sulla porta della Cooperativa si affaccia Giovanni Valentini,
Nadir
Ferruccio Sorlini
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fidanzato di una delle ragazze dell’osteria con in braccio il piccolo Giambattista Facchini di un
anno. La madre, Santina Ettori, fa appena in tempo a toglierli dalle braccia il bimbo che un
manrovescio lo colpisce in pieno viso e una raffica di mitra a bruciapelo gli crivella il petto. Di
fronte abita il fornaio Ariodante Coffanetti, padre di cinque figli, che viene sorpreso in casa e
ucciso. Donne e bambini intanto sono caricati su un camion insieme a quattro uomini catturati
nella casa di Isacco Tanghetti. Più tardi, sulla strada provinciale, mentre donne e bambini sono
lasciati liberi, i quattro uomini sono fucilati. Solo uno, Arnaldo Bertella (Ginevra), si salva in
quanto, ferito alla testa, è caduto rimanendo casualmente riparato sotto il corpo di uno dei
compagni deceduti. Isacco Tanghetti, Giuseppe Gatta, Giovanni Mazzoldi trovano invece la
morte. Così Bertella, sfuggito miracolosamente alla strage, ricorda quel giorno: «Mi trovavo a
Bovegno con la moglie e i due figli. Sono quasi le nove, mi trovo per strada quando dalla curva in
fondo al paese vedo salire due macchine, una Augusta ed una Balilla. Due uomini si avvicinano
alla prima automobile e si comincia a sparare. Ci rifugiamo nella casa di Isacco Tanghetti, ma i
nazifascisti bussano alla porta, ci fanno uscire con le mani dietro la testa, ci fanno salire su un
autocarro e cominciano a perquisirci. Mi hanno ritirato tutto, anche il portafogli c on un po’ di
soldi e i documenti. Terminata la perquisizione non ci lasciano andare: evidentemente aspettano
ordini. Ad un tratto arriva un ufficiale tedesco su una macchina scoperta. Ho saputo poi dal dottor
Luigi Ajmone di Gardone V.T., al quale mi sono rivolto per farmi curare le ferite, che durante il
primo scontro è stato ferito un sergente maggiore tedesco. Trasportato a Gardone questi vi è
giunto cadavere e il medico non ha potuto far altro che constatarne il decesso. L’ufficiale che ha
provveduto al trasporto del ferito, è poi ripartito per Bovegno deciso a continuare la rappresaglia,
onde raggiungere il numero delle vittime prefissato dal comando tedesco per ogni ufficiale o
sottufficiale ucciso. L’ufficiale si mette a urlare ordini. Ci fanno scendere dal camion, le donne e i
bambini vengono fatti allontanare di una ventina di passi, noi quattro uomini ci schierano contro il
muro della località “Ra”, completamente avvolti nel buio. A pochi passi da noi un sottufficiale e un
soldato semplice alzano le pistole e ci sparano un colpo dopo l’altro, con calma. Sono stato ferito
alla testa, il sangue mi cola sulla faccia e io mi lascio cadere. Un istante dopo l’Isacco Taglietti mi
cade sopra. Sento i passi di uno dei due che si avvicina e spara alla nuca del Tanghetti. Io sono
sotto immobile e trattengo il fiato. Altri passi e poi raffiche di mitra a bruciapelo: il fuoco mi
brucia camicia e pantaloni. Finalmente risalgono sui camion e si allontanano cantando. Io mi
scrollo di dosso i compagni morti e scappo verso la montagna. Qualcuno deve aver parlato perché
al comando di Brescia hanno saputo che uno dei quattro si è salvato. Infatti il giorno dopo sono
tornati e hanno ucciso il primo che è capitato loro davanti». Non ancora paghi, i nazifascisti
saccheggiano le case di piazza Cimavilla compresa la Cooperativa e poi vi appiccano il fuoco. Un
momento di silenzio, non si spara più, mentre l’incendio divampa. Un gruppo di volonterosi che
accorre con secchi per prestare aiuto e spegnere le fiamme, viene circondato e trucidato. Le vittime
sono: Maffeo Omodei fu Angelo, Aldo Vezzoli, Giuliano Tanghetti e Gaetano La Paglia. Luigi
Vecchi, giornalista di Brescia Repubblicana e Maffeo Omodei di Amadio, trovati tra i cadaveri nei
pressi della Cooperativa, sono probabilmente vittime delle prime sparatorie. Verso mezzanotte i
fascisti lasciano il paese e ben presto giungono sul luogo dell’eccidio alcune persone generose tra
cui il podestà, don Bertoli e le donne che recuperano i cadaveri dei loro cari lasciati senza
orologio, portafogli e scarpe. All’alba del giorno 16 agosto Mons. Francesco Bertoli si reca a
Brescia al comando germanico, accompagnato dal Vescovo Sua Ecc. Giacinto Tredici e da mons.
Pasini per chiedere che non vengano effettuate altre rappresaglie contro la popolazione
bovegnese. Il colonnello tedesco, grazie alle preghiere del Vescovo e di mons. Bertoli, assicura che
il paese sarebbe stato risparmiato. A Bovegno intanto, i cadaveri sono composti nelle loro case, ad
eccezione di Luigi Vecchi, Gaetano La Paglia, Aldo Vezzoli e Luigi Vivenzi trasportati nella
camera mortuaria del cimitero. Nel pomeriggio, verso le ore 15, fascisti e tedeschi ritornano: una
colonna di otto autovetture e due autoblindo fa il suo ingresso a Bovegno: è un fuggi fuggi
generale. Dopo alcuni istanti i nazifascisti sparano, a Castello incendiano la casa di Silvio
Giacomelli, dopo aver svaligiato il negozio della Cooperativa che si trova al piano terra della
Nadir
Ferruccio Sorlini
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stessa ed intimano ai pochi presenti di non fare nulla per spegnere il fuoco minacciando di
bruciare l’intero paese. Fortunatamente nella casa non c’è nessuno poiché l’intera famiglia si è
allontanata la sera precedente. Nel suo diario Poli Maria moglie di Silvio così scrive «… Ai primi
spari, io (con l’intera famiglia) fuggii lontano dal paese. Il 16 agosto tenemmo chiuso il negozio e
per prudenza ci tenemmo lontani dall’abitato. Verso le ore 15 i criminali ritornarono sul luogo del
delitto, guidati da Ferruccio Sorlini, il quale, giunto in piazza di Castello, disse ai suoi compagni:
Questa è la casa di Silvio Giacomelli. Giacomo Gatta, che abitava vicino a noi, e piangeva davanti
alla salma di suo figlio ucciso la sera prima, venne condotto in piazza e piantonato … Dopo aver
svaligiato bottega e casa, i nazisti con bombe incendiarie appiccarono fuoco alla casa,
minacciando di bruciare l’intero paese se alcuno avesse tentato di spegnere l’incendio. La mia
abitazione, frutto di tanti anni di risparmio e di intenso lavoro, venne completamente distrutta …
Dovemmo abbandonare mia figlia ammalata e fuggire rifugiandoci nei boschi e nei fienili …
I contadini temevano dandoci alloggio che venissero incendiate anche le loro case e così, con mio
marito che deperiva ogni giorno di più per gli strapazzi (sarebbe morto per gli stenti l’11 gennaio
1945), dovetti non soltanto passare le giornate, ma anche la notte, nei boschi, inzuppati qualche
volta dalla pioggia e tremando dal freddo».
Nei pressi intanto viene ucciso Giovanni Gatta, probabilmente perché non si è fermato
all’intimazione dei fascisti in quanto non udente. Non ancora soddisfatti essi devono dimostrare
l’uccisione di quindici “banditi” come li definisce Sorlini nel notiziario della Guardia
Repubblicana conservato nell’Archivio Micheletti nel documentare l’incursione da lui voluta con
l’ausilio della gendarmeria tedesca. Recuperano pertanto nelle case i corpi di alcune delle vittime
tra cui quello di Ariodante Coffanetti che viene gettato dal balcone, nonché quelli portati nella
sala mortuaria del cimitero trascinando questi ultimi legati a un camion fino in piazza Cimavilla.
Li allineano per terra e fanno sdraiare, a fianco degli stessi, alcuni uomini presenti in luogo delle
salme che non hanno trovato, per poter immortalare la loro barbarie con delle fotografie”.
6) Come importante contributo documentale riferito alla banda Sorlini e al fortunoso arresto del suo
capo riproduciamo l’articolo del settimanale provinciale comunista «La Verità» pubblicato in data 2
luglio 1945.
“Il bandito Sorlini arrestato.
Da Parma, dove era stato arrestato lunedì 25 corrente, è stato tradotto a Brescia il famigerato
Ferruccio Sorlini. Si è così sciolto un grave incubo che opprimeva da tanto tempo l’anima di tutta
la città e la provincia. Il mito pauroso della «Banda Sorlini» cantava ormai le sue strofe tenebrose,
ed arrivava di contrada in contrada, di villaggio in villaggio! Il terrore panico di così gran
criminale (tanto vile quanto sadico nella sua ferocia) aveva forse creato il mito della «banda». Ad
ogni modo il più fervente collaboratore dei tedeschi, il più accanito persecutore degli antifascisti, il
più feroce aguzzino dei prigionieri politici, è così finalmente assicurato alla giustizia del popolo. Il
suo arresto non ha nulla di drammatico: i delinquenti non sanno cadere né con dignità né con
coraggio. Mentre gironzolava per le vie di Parma con le scarpe squarciate e in veste di manovale,
fu riconosciuto da un nostro compagno di Gottolengo, il quale lo indicò tosto a due Carabinieri
precisandolo come criminale fascista. Sembra che i due Carabinieri si rifiutassero di procedere
all’arresto. Allora il compagno di Gottolengo seguì alla lontana il Sorlini; e come lo vide entrare
in un cinematografo, espose il caso a due partigiani, invitandoli a provvedere con rapidità e
fermezza. Il Sorlini venne in tal modo arrestato. Non aveva armi addosso: unico viatico la somma
di 67.000 lire, e un documento falso col nome di Burlotti Francesco. Non oppose resistenza:
solamente disse che girava al largo del bresciano perché aveva paura (poverino!) di essere
picchiato , essendo stato iscritto al P.F.R.; ma che nulla aveva mai fatto di male, anzi fu sempre
dispensiere di bene, e infinite sono le persone da lui salvate! Tutti eguali questi fascisti! Hanno
vissuto vent’anni di prepotenza e di bluff, accampati fra noi come in terra di conquista, eroi dei
trenta contro uno, dei cento contro dieci, armatissimi contro gli inermi, liberissimi contro
gl’incatenati e gli imbavagliati; e ora, finalmente colti dalla giustizia, si fanno piagnoni e quasi
Nadir
Ferruccio Sorlini
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innocenti, negando e rinnegando tutto il loro criminale passato. Quanta viltà! Quanta
vigliaccheria!”.
7) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 10 luglio 1945.
“Chi fornì carte false al bandito Ferruccio Sorlini?
Come è noto, al momento del suo arresto, avvenuto a Parma, il famigerato bandito Ferruccio
Sorlini venne trovato in possesso di una carta d’identità intestata ad altra persona, naturalmente
inesistente, rilasciata dal comune di Villa Carcina. Poiché era necessario stabilire chi avesse
fornito il documento, i carabinieri ritennero opportuno mettere il naso nelle faccende di quel
comune e, a seguito delle indagini svolte, poterono accertare che il segretario comunale e due
impiegate non erano estranei alla faccenda. Molti indizi erano infatti sorti a testimoniare sulla
colpevolezza del segretario Lorenzo Bornati fu Angelo di anni 51, della di lui figlia Piera di anni
23, e dell’impiegata Delia Gusmeri di Tullio, di anni 18, tutti e tre - vedi combinazione – iscritti al
p.f.r. , per cui l’Arma procedette al loro arresto. Costoro – è logico … - negano l’addebito, ma la
Giustizia verrà certamente a scoprire la verità”.
8) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato giovedì 26 luglio 1945.
“Corte d’Assise Straordinaria – Ferruccio Sorlini verrà processato domani.
Domattina, alle 9,30, nel palazzo della Corte d’Appello, in via S. Martino della Battaglia, si
inizierà dinanzi alla Corte d’Assise Straordinaria, il processo contro Ferruccio Sorlini. Grande è
l’attesa per questo clamoroso procedimento penale; come è grande il desiderio di tutto il popolo
che il sanguinario sgherro nazifascista paghi al più presto per gli spaventosi delitti da lui compiuti
contro la tirannide repubblicana. Il bieco sicario dovrà rispondere di avere, dall’8 settembre in
poi, collaborato con il tedesco invasore (il 12, stivaloni gialli, camicia nera, fasci rossi da
squadrista, con Becherini, Bastianon e Mario Colombini si presentò a von Whutenau per
ricevere il governo della città) prima come commissario federale (e il cugino Renato, ingegnere e
fascistissimo, gli preparava i discorsi), poi come ufficiale superiore delle cc.nn con funzioni
politico militari, assumendo in queste cariche le più gravi responsabilità, entrando in
corrispondenza e in intelligenza con il nemico, per favorirlo, commettendo atti diretti ad aiutarlo
nelle operazioni militari, procedendo a rastrellamenti di prigionieri di guerra liberati dal governo
legittimo d’Italia, di sbandati, disertori e patrioti che egli ha spietatamente perseguitato e spesso
torturato o a volte ucciso o fatto uccidere, o inviato in Germania (già nel ’42, il maresciallo
Spinelli, in una sua nota informativa, scriveva: «elemento adattissimo per andare in Germania a
sorvegliare i lavoratori italiani», vecchio poliziotto, conosceva i suoi polli). Sorlini, che abbiamo
incontrato giorni fa nelle carceri, è pallido e dimagrito, dall’aspetto sofferente. Egli confida nei
suoi tredici testi da lui citati a difesa, che egli spera verranno a deporre su alcuni favori di cui
ebbero a godere, nonché al fatto che all’età di undici anni tentò di suicidarsi e che di quel gesto –
sventuratamente senza conseguenze mortali – gli è rimasto a ricordo (così pare) una pallottola
nella testa, minorandolo nelle sue facoltà mentali. Ma implacabili saliranno sul pretorio le decine
di testi d’accusa, i familiari dei patrioti da lui assassinati, degli antifascisti deportati in Germania,
da cui più non hanno fatto ritorno, e tutti coloro che per quasi due anni ebbero a patire delle sue
spietate persecuzioni. Testimonierà contro di lui anche l’ex ministro repubblicano Pisenti, ora
detenuto nelle carceri di Brescia. Sorlini dovrà particolarmente rispondere dell’orrendo delitto, al
cui ricordo ancora si stringe il cuore, compiuto nella persona del dirigente comunista Armando
Lottieri, membro del C.L.N. clandestino, del maresciallo dei Carabinieri Guaschino e di
Francesco Scaletti, prelevati di notte dalle loro case, trascinati sulla strada e massacrati a raffiche
di mitra; di quindici distinti reati di omicidio consumati durante la spaventosa strage di Bovegno, e
di avere infierito sul cadavere di uno degli uccisi, il Maffeo; dell’assassinio di Giuseppe Musatti;
di aver fatto fucilare due partigiani in Polaveno, e di altri due a Ome; di aver ucciso, con 25 colpi
di mitra Cirelli di Volta Bresciana; di aver fatto deportare in Germania il rag. Marone che morì di
stenti a Gusen; di aver consegnato ai tedeschi, dopo averlo torturato, il comandante Cinelli, che
Nadir
Ferruccio Sorlini
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venne fucilato; di essersi comportato in egual modo nei confronti di Mario Rossi, ucciso poi dalle
SS; e inoltre di un’infinità di altri reati , dai sequestri di persona, alle rapine a mano armata, alle
truffe e alle estorsioni (anche prima dell’otto settembre egli aveva riportato parecchie condanne,
amnistiate, per reati comuni. Domani l’ardito della «Disperata», l’uomo cher militò nella
«Carroccio» durante la reazionaria guerra fascista di Spagna, il ladro dell’Agip, il picchiatore, il
delatore, il nemico di tutto ciò che è dignità, onore, amor di patria, l’uomo che per venti mesi è
stato l’incubo di un’intera provincia e il cui nome era divenuto sinonimo di iena, chiuso fra i ferri
della gabbia degli imputati, si renderà finalmente conto che la giustizia non è morta. Al banco
della difesa, designato d’ufficio, siederà l’avv. Tino Caravaggi”.
9) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 28 luglio 1945.
“Alla corte d’assise straordinaria - Sorlini alla resa dei conti - L’imputato sotto il peso delle
accuse si abbatte e ammutolisce.
Una folla strabocchevole s’è ammassata ieri mattina dinanzi al palazzo della Corte d’Appello
molto tempo prima dell’ora fissata per il processo a carico della «iena di Brescia» Ferruccio
Sorlini; folla che si è adunata poi nel grande cortile – solo alcune centinaia di persona hanno
potuto entrare in aula – dove, a mezzo degli altoparlanti, ha seguito con estremo interesse le fasi
del dibattimento. Un fermo discorso è stato rivolto dal Presidente cons. Basile all’uditorio, per
invitarlo a mantenere ancora una volta un contegno corretto, a rispettare l’avvocato preposto
d’ufficio alla difesa, ad avere la massima fiducia nella giustizia della Corte composta da giudici
popolari.
“Tutti squadristi allora”
L’avv. Caravaggi avanza quindi un’istanza di perizia psichiatrica per il suo protetto,
richiamandosi ai due tentativi di suicidio compiuti e alla riforma dal servizio militare a cui fu
soggetto in gioventù. Il P. G. comm. Castellano chiede che l’istanza sia respinta, affermando che il
Sorlini, successivamente alla riforma, fu nominato ufficiale e che i due tentativi di suicidio sono
irrilevanti ai fini della richiesta, non essendo il primo provato, e provando a sua volta il secondo
che l’odierno imputato era sin troppo lucido volendo porre fine con un rapido gesto alla tortura
implacabile di attendere di ora in ora la morte. Il presidente dopo aver chiarito che la riforma fu
concessa per tubercolosi, dichiara che la Corte si riserva di provvedere nella fase del dibattimento,
quando emergeranno indizi di squilibrio mentale da parte del Sorlini tali da giustificare la
richiesta della difesa. Viene quindi fatto uscire dalla gabbia l’imputato, il quale con il suo
mucchietto d’ossa s’insacca nella sedia, dietro la quale si pongono due carabinieri con mitra.
L’uomo che ha terrorizzato per venti mesi un’intera provincia, non ha più nulla di terribile
nell’aspetto, con la gobba che gli avanza da metà schiena, l’abito grigio e anonimo, la nuca sottile,
i capelli radi e sbiaditi: solo gli occhi grandi neri accesi, hanno talvolta un che di allucinato e di
perverso, di rabbrividente. Senza il mitra sotto il braccio, senza i grappoli di bombe a mano, senza
i feroci sgherri ai fianchi, Sorlini assomiglia a un piccolo sofferente burocrate. Risponderà alle
domande con un senso di sufficienza, con l’aria di dire «tanto lo so che non mi credete», con una
voce semivelata, con le mani che giocano nervosamente l’una con l’altra. Uno strano tic, quello di
aprirsi la giacca a doppio petto e di riallacciarsela rapidamente con grandi gesti quasi a
scomparirvi dentro, lo perseguita. Il cons. Basile lo interroga con il suo tono all’apparenza
paterno e che ogni tanto agghiaccia. E Sorlini racconta la sua storia dagli anni giovanili. «Eravate
squadrista?» - «Tutti lo erano allora» - «perché foste cambiato all’Agip?» - «perché cambiò il
segretario del partito» - «E la vostra amante che parte aveva?» - «Non so che rispondere»
(offesissimo).
Poteva essere prefetto
Poi il Presidente legge alcune ammissioni rese a verbale dallo stesso Sorlini quando fu arrestato
per malefatte comuni dagli stessi repubblicani, verbale in cui l’odierno imputato faceva l’apologia
del suo passato fascista e del suo comportamento dopo il colpo di stato del 25 luglio. (Quel gran
politico che era il gen. Ricciuti comandò la milizia a prestar servizio d’ordine!). Sorlini parla
Nadir
Ferruccio Sorlini
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quindi del periodo in cui fu reggente la federazione fascista e comandante della famigerata polizia
federale, di come fu silurato, dell’offerta di Pavolini di scegliersi una prefettura («Accettaste?» «No» - «Avete fatto bene»), di quando passò all’U.P.I., discutendo quindi l’accusa di dipendere
dalla gendarmeria tedesca. («Da uomo d’onore, dite la verità», gli si rivolge con la sua tagliente
ironia il cons. Basile). Cominciano poi le prime specifiche contestazioni dalle quali egli cerca di
difendersi affermando che l’operazione contro Perlasca e Bettinzoli (poi fucilati), fu un’iniziativa
della guardia del duce, che in sei medi di guerra antipartigiana egli non sparò un colpo, che tutta
la serie di contatti che ebbe dopo il settembre con i tedeschi tendevano al bene della città. («Volevo
l’Italia libera» - «Ma da chi?» - l’inchioda il Presidente), che la sua non era una banda ma un
piccolo gruppo il quale andò con lui a rastrellare le montagne per evitare che vi andassero le SS
che sarebbero state ben più terribili, che credeva di compiere una buona azione quando persuase
buona parte degli uomini del ten. Martini a consegnarsi , che dell’eroica «Tognù» egli fu soltanto
il comandante interinale sostituito poi da Melega (a proposito: costui gira indisturbato, come
troppi altri), che il capo partigiano Giacomelli fu ucciso in seguito a un’azione diretta dal magg.
Brunelli (che comparirà oggi come teste).
Un’accusa a Melega
L'imputato dice che Bernardelli e Zatti furono fucilati per ordine di Melega e che lui, Sorlini,
giunse sul posto dell'esecuzione solo per salvare un partigiano (Torresani, che comparirà anche
egli oggi, proclama di essere stato lui l'angelo salvatore), nega di aver partecipato ad altri due
omicidi; sull’assassinio del dirigente comunista Armando Lottieri egli cerca di limitare le proprie
responsabilità, affermando che avendo sentito che, su segnalazione di Maderno, bisognava
prelevare come ostaggio anche l’indimenticabile Armando, si lasciò sfuggire il nome di un amico
comune il quale avrebbe potuto rintracciarlo, e così il maggiore Merlo caricato su una macchina
da cinque sgherri armati fu costretto a condurre i sicari sin sulla soglia di casa del Lottieri, che fu
trascinato in strada e barbaramente trucidato (Sorlini nell’ombra seguì l’operazione);
sull’uccisione del maresciallo Guaschino e di Scaletti avvenute quasi contemporaneamente a
quella di Lottieri, egli dà risposte confuse, negando la partecipazione ai fatti; per quanto si
riferisce all’eccidio di Bovegno, Sorlini sostiene di essersi recato in questa località con
un’autocolonna tedesca il giorno successivo alla strage.
Reati comuni
S’inizia quindi la serie delle contestazioni dei reati comuni, la responsabilità dei quali egli tenta di
far risalire ai suoi giannizzeri: dalla spoliazione sofferta dai coniugi Micchini che ospitavano
prigionieri alleati, durata tre giorni, all’estorsione di una ingente somma di denaro inferta con
minacce a mano armata a Primo Cavellini che il sicario minacciò di denunciare per assistenza a
partigiani e prigionieri alleati, ai furti in danno ai coniugi Diamanti, del Palmerini e di molte altre
persone. A mezzogiorno l’interrogatorio è sospeso. Sorlini è stanco, nervoso, quasi senza voce.
Anch’egli è un angioletto caduto per sbaglio in terra. Nel pomeriggio, ad aula e cortile
affollatissimi, nuove contestazioni vengono rivolte a Sorlini, il quale cerca ogni tanto di difendersi,
ma sempre più debolmente. Alla fine ammutolirà del tutto. Ancora i nomi di Perlasca, Cinelli,
Bettinsoli. Poi i drammatici confronto con i familiari delle vittime, tutti in lutto. La vedova del
maresciallo Guaschino riconosce nell’imputato uno degli uomini che prelevarono il marito e che
la minacciò con il mitra, la percosse – ed essa era incinta di otto mesi – la fece rotolare sotto un
tavolo e la chiuse in una stanza, insensibile alle disperate grida della donna. Sfilano poi il padre di
Scaletti e la giovanissima vedova di Armando Lottieri che anch’essa porta in volto l’ombra
pesante di un dolore che non si cancella. Il sicario si agita nella gabbia. Le prove schiaccianti lo
hanno annientato. Segue il padre del garibaldino Bernardelli, che dimostra come Sorlini sia stato
l’assassino del figlio.
Sfilata di seviziati
L’atmosfera in aula e fuori è tesissima. Qualche volta esplode irrefrenabile l’odio dei parenti delle
vittime. E’ la volta quindi degli studenti Ercolani e Zappa che con Magni furono ferocemente
perseguitati dalla iena e ancora portano i segni delle sevizie, Mario Moscatelli che a torture
Nadir
Ferruccio Sorlini
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iniziate riuscì ad evadere dalla tana di Sorlini, l’Antonioli, lo Schiavone, Annibale Marone che
racconta la tragica fine di Mario Rossi e le tragiche vicende sue e di un fratello deportato in un
campo d'annientamento in Germania, e che chiede, in un impeto di passione di poter assistere alla
fucilazione del suo persecutore. Chiude la sfilata il rag. Martinelli, anch’egli braccato da Sorlini,
che fornisce importanti particolari sulle attività delittuose di quest’ultimo. L’udienza è quindi
rinviata ad oggi. La folla accesa e imponente sosta a lungo nei cortili e nella via. Raggomitolato
nella gabbia dell’aula ormai semibuia, guardato a vista da una formidabile scorta armata, lo
scherano fascista attende che la folla si diradi, per poter rientrare in carcere”.
10) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato sabato 28 luglio 1945.
“Tragedia alla corte d’assise - Sorlini ucciso da un carabiniere di servizio.
Ieri alle 16,45, mentre si stava terminando l’escussione degli ultimi testi, il processo Sorlini ha
avuto una tragica improvvisa conclusione. Un carabiniere, di guardia alla gabbia dove era
rinchiuso Sorlini, impugnava il mitra e sparava un colpo, subito seguito da una nutrita raffica
contro l’imputato. Sorlini s’abbatteva sulla panca, senza un grido, mentre un fiotto di sangue
uscitogli con violenza dalla bocca formava grandi chiazze sull’impiantito della gabbia. Sorlini
rimaneva immobile, con l’abito sforacchiato, gli occhi orrendamente sbarrati, la bianca camicia
sempre più arrossantesi. Il primo colpo isolato e l’immediata raffica avevano data l’impressione di
un conflitto. Nell’alto clamore levatosi dalla folla che invadeva l’aula il carabiniere omicida
gridava frasi confuse che nessuno afferrava. Alcune pallottole avevano sfiorato leggermente il
maresciallo Viale comandante la squadra politica che sedeva al fianco dell’imputato.
Nel tumulto il Procuratore generale emozionato ed indignato ordinava l’arresto dell’uccisore. Gli
stessi carabinieri di servizio traducevano il commilitone al loro comando, mentre tutta la forza
pubblica, riavutasi dalla sorpresa e dominando il trambusto, faceva sgomberare l’aula e ristabilire
l’ordine. Il carabiniere, certo Giuseppe Barattieri, di anni 32, milanese, di corporatura erculea,
aveva comandato, in provincia di Brescia, nella guerra di liberazione, un raggruppamento di
partigiani, col grado di tenente delle «Fiamme verdi». Due taglie pesavano sul suo capo, una di
100 e l’altra di 500 mila lire, bandite dallo stesso Sorlini che lo braccava ferocemente. Curioso
particolare: quasi presentendo la sua fine, l’imputato ieri non voleva presentarsi all’udienza.
Qualcuno afferma che il carabiniere e l’imputato, prima della tragedia, si siano scambiate alcune
frasi sottovoce. Quali? E’ facile pensare che sia stata rievocata la lotta e morte fra i due. Una
estrema provocazione, arroventata dall’atmosfera eccitatissima del processo., offuscò la coscienza
del carabiniere? Ciò non è ancora chiarito. Certo l’uccisore che ebbe poi una crisi di pianto, ripeté
le sofferenze e le ansie patite nella lunga vigilia. Nessuno però sapeva dei rapporti di lotta
intercorsi tra lui e Sorlini. Sparsasi la notizia del fatto, una folla strabocchevole si riversava in
breve verso la Corte, ma le vie adiacenti erano subito bloccate dalla forza pubblica. Sul posto
accorrevano immediatamente il questore comm. Minervini, il colonnello dei carabinieri Frailick,
il dott. Fassari ed il perito dott. Scaroni. Mentre si procedeva alla costatazione della morte del
Sorlini avvenuta istantaneamente il carabiniere veniva accompagnato alla Caserma di P. Tebaldo
Brusato.
------Tristissimo episodio della passione che ci opprime, della vicenda di odio e di vendetta, della catena
di illegalità che una difficile e talvolta incerta giustizia ed i deboli suoi presidi non riescono a
spezzare. Nessuno può rimpiangere l’uomo carico di delitti come della desolazione di tante vittime
e del terrore di intiere popolazioni. La sua sorte era segnata: ma il giudizio doveva discendere
dalla onestà della giustizia in cui si trasfonde e si consacra anche la condanna popolare; non
salire, contro la legge, dal basso di una singola volontà di vendetta, anche se, travolto da una
passionalità che supera il rapporto personale ed è arbitrariamente interprete di una condanna
collettiva, può meritare nel subitaneo, tempestoso impulso, qualche indulgenza verso l’uomo che a
maggiore gravità del suo atto, ha dimenticato il sacrificio che gli imponeva la veste di tutore della
legge. Tristissimo episodio che al di sopra del rapporto tra gli attori della tragedia e delle
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Ferruccio Sorlini
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particolari circostanze di essa, denuncia uno stato pericoloso di animi a cui possono soccorrere
soltanto legge e giustizia illuminate e applicate con sicura soddisfazione delle esigenze che il
disordine stesso esprime. Questi fatti che ci percuotono frequenti, come fitte allarmanti in un corpo
malato, sono l’ammonimento a meditare che l’attesa sistematica ai valori fondamentali della vita,
anzi al valore stesso della vita, quale il fascismo l’aveva instaurata, è tale sconvolgimento da
richiedere da parte di tutti, con un prezzo di orrori e di sangue, lo sforzo primo e generoso per il
ritorno alla legalità”.
11) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato martedì 31 luglio 1945.
“Echi della tragedia in Corte d’Assise – L’eccidio di Bovegno nelle ultime battute del processo.
(…) Durante l’intera mattinata di sabato erano sfilati sul pretorio doloranti testi in granaglie,
familiari delle vittime dello spaventoso eccidio di Bovegno . La notte di tragedia riviveva tra le
lacrime e le esplosioni di esecrazione di chi raccontava, e il pubblico seguiva con passione la
drammatica ricostruzione della strage. Caddero una dopo l’altra le vittime innocenti, e aprì la
serie Maffeo Omodei, ucciso a rivoltellate dallo stesso Sorlini. Una donna, la Facchini, narra
come le fu assassinato il padre, come in preda al terrore uscisse di casa sua. Minacciata dalle
fiamme, e come, varcata la soglia, la cui porta era caduta crivellata dalle pallottole, inciampasse
nel cadavere straziato del giornalista Vecchi. Immobile, fra il bagliore degli incendi, in mezzo ai
cadaveri, il mitra sotto il braccio, Sorlini guardava con ghigno feroce la scena. A Valentini fu
strappato di braccio il figlioletto un istante prima di cadere ucciso. Sorlini, alle grida di pietà
delle donne, urlò come un forsennato: «li bruceremo tutti vivi!». Gli incendi continuavano a
divampare: gli assassini lanciarono falsi appelli d’aiuto, e i generosi che accorsero a spegnere le
fiamme, vennero abbattuti dalle raffiche di mitra degli uomini di Sorlini, sporchi di sangue,
carichi di bottino, ubriachi fradici. I cadaveri degli uccisi nelle loro case , furono buttati dalle
finestre, e trascinati in piazza, poi portati al cimitero, indi di nuovo, con delle funi al collo, nella
piazza dove furono ammonticchiati per le fotografie-ricordo delle belve in camicia nera. Sorlini
nega, nega talvolta a gran voce, ma tutti i testi venuti da Bovegno l’investono e lo smascherano,
qualcuno travolto dalla passione che lo anima. La jena ammutolisce: tutti lo riconoscono, lo
inchiodano alla gogna dei suoi spaventosi delitti. Pur invitata dal presidente, una delle testi non
vuole volgersi a guardare Sorlini, e grida: «non voglio più vedere i suoi occhi!». La tensione
nervosa del pubblico era all'estremo. E quando la vedova di Mario Rossi, fucilato dalle SS, a cui
era stato consegnato dopo una caccia spietata da Sorlini (che le disse mezz'ora prima
dell'esecuzione: in bocca al lupo!) terminata la sua deposizione, grida all'imputato: "ed ora in
bocca al lupo anche te!", la folla esplode in alti clamori. Nel pomeriggio alcune bieche figure
appartenenti alla banda del criminale, sfilano a deporre su varie circostanze. L’atmosfera è
arroventata: un urlo accoglie Torresani quando conferma che Sorlini, e non altri, comandò il
plotone di esecuzione che massacrò i patrioti catturati sulle montagne di Gussago. Una folla
sempre più numerosa e accesa si accalca nel grande cortile. Il commissario di servizio
predispone perché, alla fine del dibattimento, Sorlini sia tradotto alle carceri sotto scorta ancora
più potente, dopo averlo fatto uscire dalla Corte per una porticina secondaria e isolata: si teme
un assalto al detenuto. E’ in questa atmosfera che il carabiniere ha imbracciato il mitra”.
12) Da «Il Giornale di Brescia» pubblicato il 13 gennaio 1949.
“Il conto della banda Sorlini saldato alle Assise di Bologna - Le condanne: Castellini e Serioli 30
anni; Glisenti 25; Bonometti 22; Persevalli 16 – L’assoluzione di Caprinali e Cavagnis.
Bologna, 12 gennaio.
Il lungo, complicato processo contro la banda Sorlini, iniziato come si ricorderà , il 9 novembre
scorso dinanzi alla nostra Corte d’Assise per rispondere di collaborazionismo ed atti rilevanti,
reati commessi nel bresciano durante il periodo nazifascista è giunto questa notte al suo epilogo
giudiziario. L’ultima udienza, per la cronaca la ventisettesima, è stata aperta alle tredici e trenta
precise. Dopo una breve replica dell’avvocato Biagi, difensore dell’imputato Cavagnis, il
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Ferruccio Sorlini
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presidente dichiara chiusa la discussione e rivolge agli imputati la rituale domanda: «Avete nulla
da dire?». Il Castellini chiede di parlare . Si oppongono gli avvocati Parini in rappresentanza
dell’avv. Ercolani e Saladini. Il procuratore generale invece è favorevole alla richiesta che poco
dopo viene accolta anche dalla Corte. Castellini: «Confermo il memoriale difensivo rimesso al
giudice e dichiaro che le mie mani non grondano di sangue. Ho servito con onore la mia Patria».
Sarlo: «Ho difeso la mia, la vostra Patria. Ho 34 anni di cui 11 spesi al servizio del paese. Ho
perduto un braccio; ho tredici ferite e due medaglie al valore. Sono innocente». Sono le quindici
quando la Corte si ritira per deliberare. Al suo rientro, dopo quasi nove ore di permanenza in
camera di consiglio, alle 23,30, il presidente dà lettura della sentenza che condanna: Eugenio
Castellini e Mario Serioli ciascuno a 30 anni di reclusione. Glisenti a 25 anni di reclusione; Carlo
Bonometti a 22 anni e 6 mesi; Renato Cometto a 18 anni di reclusione con il condono di 12 anni;
Mario Pagani e Aldo Frau ciascuno a 17 anni di reclusione con il condono di 11 anni e 4 mesi;
Franco Persevalli a 16 anni e 4 mesi con il condono di 10 anni e 10 mesi; Sante Bellotti, Umberto
Brighenti, Mario Brunelli a 16 anni di reclusione con il condono di 10 anni e 8 mesi ciascuno;
Francesco Saverio Sarlo a 12 anni con il condono di 4; Giacomo Mensi per estorsione a 2 anni di
reclusione, 3 mila lire di multa, pena interamente coperta da condono. Assolve infine Giovanni
Beltracchi, Enrico Brignoli, Lino Caprinali, Giovanni Cavagnis, Giacomo Quinzani, Giovanni
Tancredi e Mario Scarsella”.
13) Dal settimanale socialista «Brescia Nuova» pubblicato il 30 gennaio 1949.
“A proposito del processo della banda Sorlini
Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco
Per quei pochi scherzucci da dozzina
E mi gabella per antifascista
Perché metto le birbe alla berlina
Ho voluto dedicare questi versi al processo della banda Sorlini che si è svolto presso la Corte
d’Assise di Bologna. Mi rivolgo alla coscienza degli uomini di legge che hanno diretto il processo
e, soprattutto, all’Illustrissimo sig. Presidente, per mettere bene in evidenza l’attività criminosa
del famigerato Brighenti durante la sua permanenza a Lumezzane. Ben 37 sono stati i Partigiani
caduti in detta valle durante il disgraziato periodo della sedicente Repubblica di Salò.
L’uccisione di detti valorosi Partigiani è stata preceduta da ogni sorta di sevizie, e gli stessi
cadaveri venivano abbandonati sul terreno in segno di disprezzo. Ancor oggi non si conosce la
sorte toccata al vice comandante Partigiano che accompagnava Giuseppe Verginella;
quest’ultimo barbaramente fucilato dopo aver subito ogni sorta di sevizie. Dove è andato a
finire? Eppure è stato accompagnato in caserma dalla combriccola Brighenti. Così pure, di chi
erano gli indumenti rinvenuti nel magazzino della stessa caserma ancora inzuppati di sangue la
mattina del 26 aprile 1945? Mistero!!! Diversi lumezzanesi hanno chiesto di essere sentiti quali
testi a carico, ma sono stati sistematicamente scartati, mentre sono stati ascoltati soltanto coloro
che deponevano in favore dei criminali. Comprendo che, per la pacificazione degli animi, è
necessario essere clementi con i giovani traviati dal fascismo: ma per coloro che con i loro
crimini hanno offeso l’umanità dolorante, affinché detti crimini non si ripetano, è necessario che
la giustizia dia una meritata pena. Purtroppo questa meritata pena non sarà mai applicata dai
tribunali odierni per il semplice fatto che gli stessi uomini che ieri giudicavano i banditi della
montagna oggi giudicano quest’ultimi alla stessa maniera di ieri mentre assolvono i criminali
repubblichini come difensori della Patria. E come tali li ha considerati la Corte d’Assise di
Bologna. Noi della Associazione Perseguitati Politici Antifascisti di Lumezzane, in nome dei morti
gloriosi caduti e di tutti coloro che ingiustamente languono nelle carceri dello Stato democratico,
protestiamo energicamente contro detti processi burletta. Giuseppe Balzarelli”.
14) Dal registro dei crimini di guerra nazifascisti rinvenuto nel maggio 1994 presso la sede della
procura generale militare di Roma.
Nadir
Ferruccio Sorlini
n°: 1791
Imputati:MENICATTI GIORGIO, SORLINI FERRUCCIO e ignoti elementi delle brigate
nere
Titolo del reato: Omicidio
Parte lesa: GUASCHINO MODESTINO
Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano
Tribunale di riferimento:
Data restituzione atti:
Note:Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 14/12/94.
n°: 1835
Imputati: SORLINI FERRUCCIO e altri 5 appartenenti alla sua banda con ignoti militari
tedeschi
Titolo del reato:Violenza con omicidio art. 211 c.p.m.g.
Parte lesa: GATTA GIOVANNI ed altri 15 - vedi fascicolo (strage di Bovegno)
Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano
Tribunale di riferimento: Sono stati abbinati gli atti del n° 1837.
Data restituzione atti:
Note: Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 19/12/94.
n°: 1837
Imputati: Ignoti componenti la banda Sorlini e militi tedeschi
Titolo del reato: Aiuto al nemico
Parte lesa: LA PAGLIA GAETANO
Ente denunziante: Leg. Terr. CC. di Milano
Tribunale di riferimento: Abbinato al fasc. n° 1835.
Data restituzione atti:
Note: Archiviato 14/1/1960. Trasmesso P.M. Verona 19/12/94. Abbinato al 1835.
n°: 2251
Imputati: SORLINI FERRUCCIO - maggiore fascista
Titolo del reato:Sevizie
Parte lesa: Ignoti partigiani
Ente denunziante: Q. G. Commissione alleata
Tribunale di riferimento:
Data restituzione atti:
Note:Trasmessi P.M. Verona 6/2/96.
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Nadir
Ferruccio Sorlini
p. 22
Corredo fotografico
Considerata l’importanza del personaggio, riteniamo utile allegare anche altre immagini tratte dalla
stessa fonte utilizzata per il volto di copertina
Mario Sorlini, 11/1922
Ferruccio Sorlini, 11/1921
Mario (sn) e Ferruccio Sorlini
(dx), 10/1922
Squadristi della «Disperata», novembre 1921.
Al centro della fotografia è posizionato il comandante Mario Sorlini.
Nel riquadro a lato una possibile raffigurazione del fratello Ferruccio.
Nadir
Ferruccio Sorlini
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Squadristi della «Disperata», ottobre 1922.
Nel riquadro i fratelli Mario (sn) e Ferruccio Sorlini.
Alla destra di Mario vi è Luigi Begnotti, in vari periodi comandante delle squadre bresciane.
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Ferruccio Sorlini - Centro sociale 28 Maggio