NUMERO SPECIALE DEDICATO AL FESTIVAL DI CANNES
ESTATE 2010
NOTIZIARIO PERIODICO DEL CIRCOLO DEL CINEMA / ASSOCIAZIONE DI CULTURA CINEMATOGRAFICA NON PROFIT FONDATA A VERONA NEL 1947
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Testi a cura di Lorenzo Reggiani
Più Cannes di così........
C
annes è il Festival. Anche se qualcuno vorrebbe
suonare le campane a morto, anche se la manifestazione non nasconde più le proprie rughe, l’appuntamento sulla Croisette resta il più importante del
mondo per il cinema. E nell’anno della grande crisi, il
Festival, che ha celebrato la sua 63° edizione, ha cercato di cogliere lo spirito dei tempi, offrendo una competizione attenta ai valori umani, alla promozione di
principi fondamentali come l’irrinunciabile dignità dell’essere umano, come il peso del tempo che passa,
degli affetti che cambiano e si rinnovano.
Con un programma che più Cannes di così non si
poteva. Quegli Autori maiuscoli che avevano un film
pronto c’erano tutti: da Beat Takeshi a de Oliveira (che
ci stupisce non tanto perché riesce a girare a 102 anni,
quanto perché ancora non si è stufato dei festival), fino
ad un redivivo Godard, ottantenne, che in nome della
coerenza è tornato con un novecentesco Film Socialisme, dandoci il meglio ed il peggio di sé, orchestrando una sinfonia in tre movimenti, una nave nel
Mediterraneo, conversazioni in lingue diverse, un filosofo francese, una cantante americana, un ambasciatore palestinese, verità e falsi miti. E un lancio affidato
in anticipo alle parole di Cohn-Bendit. Più Cannes di
così...
E poi parterre des rois: Michalkov, Kiarostami, Iñárritu (tutti un po’ deludenti), Mike Leigh (convincente,
ma non per la giuria), l’impronunciabile e geniale tailandese Apichatpong Weerasethakul, che se n’è andato con la Palma d’oro.
Più (fuori concorso) l’ennesimo immancabile
Woody Allen, Stephen Frears, Iosseliani, Assayas. A
sorpresa è arrivato Ken Loach, in gara, subito scortato
da fauste previsioni, e invece rimasto a bocca asciutta,
giustamente. Come sempre i pronostici della vigilia si
rivelano fallaci, perché un festival, come il budino, si
può dire buono solo il giorno dopo.
Fare pronostici era quest’anno ancora più difficile
2
con una giuria dove a dirigere le danze era quel cappellaio matto di Tim Burton, al quale non poteva non
piacere il visionario e fantastico Zio Boonmee (Uncle
Boonmee Who Can Recall His Past Lives) del regista
tailandese, che non cede al facile spettacolo per regalare cinema mistico, che racconta della vita e della
morte, che strappa i confini tra l’essere umano, i suoi
fantasmi e la natura.
Noi avremmo preferito che trionfasse Des hommes
et des dieux di Xavier Beauvois, intensa storia del martirio di una piccola comunità di monaci francesi assediati dai fondamentalisti islamici in Algeria, che
contiene tutto il necessario: terrorismo e trappismo, tolleranza e violenza, fede cristiana e pacifica convivenza
con i musulmani, fragore di elicotteri e cori angelici, ricordando una tragedia vera e non ancora del tutto
chiarita di una quindicina d’anni fa. Il film s’è preso il
Grand Prix della giuria, che è poi come una Palma
d’argento, e non è poco.
Come non è poco - anzi è fin troppo - il premio per
la miglior interpretazione assegnato (ex aequo con
Bardem) a Elio Germano, protagonista dell’unico film
italiano in concorso, La nostra vita di Daniele Luchetti.
Non ci ha convinto questa pellicola così “romanesca”
del regista del Portaborse, anche se i temi che agita
sono di scottante attualità, tantomeno ci ha convinto
Germano, vedovo inconsolabile (mica tanto) che urla
piangendo la canzone che lo legava all’amata moglie
morta di parto, Anima fragile di Vasco Rossi (e Vasco
ha chiamato il suo bimbo).
Le disperazioni e le lacrime per un attore sono una
manna, anche per Javier Bardem, che ha diviso il premio con l’italiano, ma con più merito, calandosi nei
panni del protagonista di Biutiful di Iñárritu: un padre
che sta per morire e deve sistemare gli amatissimi figli,
mentre non gli viene risparmiata nessuna disgrazia.
Sul fronte femminile, premio “singolo”, senza condivisioni, a Juliette Binoche, già protagonista dell’im-
Il regista Kiarostami con Juliette Binoche, icona del Festival.
Sul red carpet la gioia festosa dell’équipe di Tournée.
La stretta di mano fra Javier Bardem ed Elio Germano.
magine ufficiale del Festival su manifesti e cataloghi.
La sua interpretazione in Copia conforme di Kiarostami
non è magari la migliore della sua carriera, ma è la
cosa migliore del film dell’iraniano, non a suo agio in
una vicenda “alla Antonioni” ambientata in Toscana.
Niente fiction ma autentica commozione per il pianto
dell’attrice durante la conferenza stampa del film, all’annuncio dello sciopero della fame iniziato dal regista
iraniano Jafar Panahi detenuto nelle carceri di Teheran.
Grazie alla Binoche, un momento irrituale nello stanco
rito degli incontri con la stampa, ed un altro durante la
premiazione, quando ha ricordato Panahi con un cartello in mano.
La cerimonia di premiazione ha visto altre, magari in
parte non previste, emozioni. Come quelle del francese
Mathieu Amalric, vincitore della Palma quale miglior
regia per Tournée, attorniato dalle sue meravigliose attrici, tutte “vere” interpreti di burlesque, che è anche il
tema del film. Mahamat-Saleh Haroun, regista del Ciad, ha ritirato il Premio della giuria per Un homme qui crie dichiarando
felice: «Per me è un sogno. Vengo da un
paese dove non abbiamo niente. In quel deserto un film lo si prepara con lo stesso impegno con cui si cucinano delle tenere
verdure per le persone più care». Momento
politico, questo premio.
Altri momenti politici con Hors la loi, il film
in concorso di Rachid Bouchareb sul Fronte
di liberazione algerina e l’indipendenza
della nazione africana del ’62, che ha scatenato le polemiche dei nazionalisti e dell’estrema destra. Per il suo arrivo a Cannes,
“gendarmerie” schierata in assetto antisommossa sulla Croisette, controlli di sicurezza
raddoppiati all’ingresso del Palais, ed un migliaio di dimostranti, anziani reduci della
guerra d’Algeria con vecchie divise d’epoca e bandiere
francesi, intenzionati a contestare il regista e gli interpreti. Poi tutto è filato liscio, la manifestazione si è
svolta pacificamente, col solo risultato di bloccare il
traffico nella cittadina. L’Algeria è un nervo scoperto per
la Francia, ancora oggi, ed il film non poteva ovviamente ambire ad alcun premio, anche se è fatto bene,
con tre attori all’altezza, che si ricordano.
Chi poteva, e giustamente, ottenere un riconoscimento era l’inglese Another Year di Mike Leigh, per la
stragrande maggioranza della stampa accreditata il più
bel film visto in concorso. L’averlo ignorato nel Palmarès è uno di quegli errori che Cannes si porterà dietro.
Ma non è certo il primo né sarà sicuramente l’ultimo.
«La giuria ha sempre ragione», ha detto Asia Argento in apertura delle premiazioni. Parole certamente
approvate dalla direzione della manifestazione, e che
vogliono semplicemente dire, senza polemiche né
obiezioni: «È il Festival, bellezza».
3
CINEMA ITALIANO
Arrivano i nostri
sulla Croisette
B
en articolata la presenza italiana sulla Croisette. fare una bella figura. È stato Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, presentato alla Quinzaine des
Eravamo pochi, ma dappertutto. Un film in conRéalisateurs, film girato in Calabria che tra l’altro segue
corso, un documentario in proiezione speciale, una pelle fatiche quotidiane di un allevatore di capre che cura
licola alla Semaine de la Critique e due alla Quinzaine,
i suoi malanni secondo antiche credenze popolari.
nonché ben due compatrioti in giuria, Giovanna MezUn’affascinante e magica riflessione sul ciclo della Nazogiorno e Alberto Barbera.
tura frutto di un lavoro di regia che ha entusiasmato il
L’opera en compétition, La nostra vita di Luchetti, si
pubblico di Cannes. Certo, un cinema così chiede allo
è portata a casa la palma per la migliore interpretazione
spettatore uno sforzo di attenzione e di purificazione
assegnata (ex aequo) a Elio Germano. Il regista romano
(dalle sceneggiature che spiegano troppo) non facilisera stato ospite altre due volte al Festival con Il portasimo, a cui troppi film (e fiction) hanno disabituato. Ma
borse e con Domani accadrà, due film - a nostro avviso
la sua visione può essere una salutare rigenerazione
- migliori di quest’ultimo, che però gli ha valso un ricovisiva per chi non s’acnoscimento indiretto.
contenta di un cinema
«L’incontro con Gerche pretende di momano - afferma Lustrare tutto e poi non
chetti - ha cambiato il
dice niente. Invece,
mio modo di dirigere
senza pronunciare una
gli attori. È stato come
parola, Le quattro volte
trovare uno strumento
ci dice davvero molto.
nuovo che ha camAlla Quinzaine c’ebiato il colore della
ra anche Annarita
mia musica. Credo
Zambrano con Tre ore,
che tra noi ci sia un’inuna storia ambientata
tesa molto forte che
nella Roma d’oggi che
scatena una libertà
vede un padre conche si ripercuote suldannato per omicidio
l’intero cast».
ed una figlia molto
L’attore, premiato,
franca. Il Tevere separa
saluta con parole non
Riccardo Scamarcio, Daniele Luchetti ed Elio Germano.
la città e unisce le loro
di circostanza: «Visto
vite... nello spazio di un pomeriggio.
che i nostri governanti hanno rimproverato il cinema di
parlar male del nostro Paese, voglio dedicare questo
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono gli autori
premio all’Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendi Rita, un corto proiettato alla Semaine. Rita è una
dere migliore il nostro Paese nonostante questa classe
bambina di dieci anni, cieca dalla nascita, che vive in
dirigente». Grande applauso della sala. Qualche proun quartiere costiero di Palermo. Testarda e curiosa, si
blema per le edizioni del Tg1 e del Tg5 che non riporsente respinta dalla madre protettrice e dittatoriale.
tano le sue parole. E per il ministro Bondi che le giudica
La presenza italiana, insomma, s’è avvertita, ma a
legittime ma inopportune.
Berlino quest’anno non c’era nessun film italiano in conBondi è stato in un certo senso un protagonista del
corso, e a Cannes solo uno. Cosa significa? Secondo
Festival, fin dall’inizio, con il rifiuto ad intervenire motiLuchetti,
l’unico appunto in gara, significa «che in Italia
vato dalla presentazione di Draquila di Sabina Guzsi producono troppi pochi film».
zanti, il tosto docu-film sul terremoto dell’Aquila,
«Oggi - dice - produciamo tra 40 e 80 film. Negli altri
applaudito calorosamente dal pubblico, benché passato
Paesi lo Stato interviene a sostegno del cinema in
come scéance spéciale. La polemica naturalmente ha
modo molto più serio. E alla fine andiamo ai festival a feingigantito il peso del lavoro della Guzzanti e ha fatto
steggiare le politiche culturali dei paesi più avveduti del
fare una ennesima piccola brutta figura all’Italia.
Fortuna che un piccolo-grande film invece ha fatto
nostro».
4
NUOVI AUTORI
Novità e talenti
nelle sezioni minori
È
nelle sezioni minori che mai come quest’anno a
Cannes si sono viste novità e talenti. A fronte di
una selezione ufficiale a detta dei più piuttosto depressa, i veri, grandi successi della 63° edizione li
hanno mietuti alcuni film a margine dei riflettori: presi
d’assalto da interminabili code di giovani spettatori
entusiasti, gonfiati dal passaparola; al punto da obbligare l’organizzazione a proiezioni supplementari.
Il caso più clamoroso è quello di Kaboom di Gregg
Araki (Palma Gay), presentato fuori concorso come
scéance di mezzanotte: un film molto “acido” con un
cast di giovani attori che mescola thriller, fantascienza, sesso in un inno al godimento diametralmente opposto alla mestizia della categoria
“concorso”.
Gli si può accostare Chatroom di Iodeo Nakata,
presentato a Un certain regard e realizzato in Inghilterra dal regista di Ring. Utilizzando anche lui interpreti giovanissimi, il cineasta giapponese racconta la
storia di un diciassettenne perturbato, che manipola i
coetanei spingendo via Internet uno di essi al suicidio.
La giuria di Un certain regard, presieduta da
Claire Denis, ha premiato la Corea del Sud con Hahaha (Estate) di Hong Sang-soo.
Ma se Araki e Nakata sono già noti al pubblico giovane, che ne ha fatto oggetti di culto per i film precedenti, era presente un numero molto alto di
debuttanti: più della metà dei ventidue film di cui era
composta la Quinzaine, tutti e sette quelli della Semaine, da sempre ansiosa di scoperte.
È un “primo film” anche Benda Bilili! documentario
intorno a un gruppo musicale congolese nella degradata realtà sociale della megalopoli Kinshasa. Diretto
a due mani da Renaud Barret e Florent de la Tullaye,
il film conferma la crescente importanza assunta dal
documentario, tendenza che Cannes ha registrato
puntualmente.
Rientra nei confini del “cinema di realtà” anche Armadillo del danese Janus Metz, una delle opere più
interessanti nel programma della Semaine (che non
accoglieva più documentari dal 1990).
Girato in Afghanistan, il film esplora le psicologie di
due militari impegnati in una “missione di pace”: con
il crescere dell’adrenalina e del cinismo.
A sinistra: Il manifesto del film di Hong Sang-soo Hahaha.
Qui sopra: lo Staff Benda Bilili dell’omonimo documentario.
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COSTUME
Festivalieri, divi, ragazze
e presenzialisti
I
l popolo del Festival invade Cannes per una decina di
giorni, occupando ogni camera disponibile, dalla più
spartana e in coabitazione alla più lussuosa.Tutto esaurito, dovunque: appartamenti, pensioni, residence, hotel.
E così bar, pizzerie, chioschi, trattorie, ristoranti. È un’invasione pacifica, e largamente positiva per la cittadina
della Costa Azzurra che beneficia del massiccio indotto
del Festival.
Mondi diversi, e solo in minima parte comunicanti,
convivono qui. C’è il mondo dei festivalieri veri e propri, migliaia di persone accreditate per le testate più
varie (dalla free press al periodico specializzato, dalla
piccola radio all’emittente internazionale) che si nutrono di cinema, in senso letterale, perché mangiano
solo frettolosamente panini tra una proiezione e l’altra;
scrivono (dovunque, anche al bar o seduti per terra) e
guardano film, senza soluzione di continuità. E dormono
pochissimo: prima proiezione alle 8,30, ultima a mezzanotte.
C’è poi il mondo di quelli che «il cinema non gliene
può fregare di meno»; non entrano mai in sala; vivono
all’esterno, tutti presi dall’apparire, dal farsi vedere e dal
vedere; vivono del “contorno” del festival, si mettono in
mostra, anche inconsciamente, preoccupati di vedere
gente, soprattutto i protagonisti, maggiori o minori, ma
anche le comparse, della kermesse.
Ma a Cannes esistono i divi, quelli veri in carne e
ossa, o ci sono soltanto i loro cloni e la loro sola immagine televisiva? Dove sono finiti i protagonisti della
cineindustria, produttori, finanziatori, distributori, un
tempo in giro tutta la notte tra principesche ville in affitto e favolose barche, a contrattare e a intrecciare autentiche passioni con le donne più belle del mondo, ed
ora fantasmi che si aggirano scravattati e sudati nei sotterranei del Palais, a cercar fortuna al mercato dei film,
ormai pericoloso come la borsa?
Il Festival di Cannes, al di là del valore dei suoi film,
ha perso l’antica magia che ne faceva un momento e un
luogo d’incanto mondano. Per quanto si accavallino
feste promozionali frequentate dai soliti presenzialisti
girovaghi ormai sdruciti, pochissime notti richiamano
quelle dei tempi belli, quando c’erano e si divertivano
Grace Kelly o Brigitte Bardot, Marcello Mastroianni o
Alain Delon.
Nei grandi alberghi dove un tempo sostava splendente la gente del cinema, e si potevano incontrare star
cinesi di meravigliosa perlacea eleganza e signore di
classe, profumate di antica ricchezza, oggi sosta un
mondo alieno anche per il cinema, una moltitudine itinerante che si sposta in cerca di sopravvivenza e fortuna, la stessa che si incontra nei nuovi ambigui luoghi
di divertimento di Roma o di Shangai.
Nei bar un tempo silenziosi e raffinati sostano a
mucchi ragazze impressionanti per altezza ed esotismo,
anche con minigonne inguinali, gambe lunghissime e seni
debordanti, più o meno tutte uguali, in attesa di provvisori amici, sorvegliate da omoni baffuti e scuri; i menu
sono scritti anche in russo, le risate sono fracassone,
ogni tanto arriva una famiglia mediorientale piena di figli
bambini e figlie velate. Nella baia rosata non c’è ressa di
grandi barche di emiri.
Gli appassionati di cinema (qualche migliaio) che disdegnano il tappeto rosso, coi loro badge (guai chiamarli cartellini) di diverso colore al collo, controllati
centinaia di volte, corrono tra le sei sale del Palais più
tutte le altre, alzandosi all’alba e facendo code lunghissime. Sarà per questo che a metà Festival, con tanti film
già visti, molti hanno il muso. Brontolano, quel che a uno
sembra un capolavoro, all’altro sembra orribile. Purtroppo anche i cinefili più appassionati non sono indomiti come un tempo, e tendono a non resistere oltre un
certo livello di noia.
LA STORIA
Sessantatré anni
fra le palme
Sessantatré e non li dimostra. Tanti sono gli anni del Festival di Cannes (come quelli del Circolo del Cinema di Verona, singolare e beneaugurante coincidenza), anche se la
sua idea è stata partorita ben prima. Fu infatti alla fine degli
Anni ’30 che il ministro francese Jean Zay propose la creazione di un festival nella cittadina della Costa Azzurra, perché indignato per le ingerenze del governo fascista e di
quello nazista alla Mostra del cinema di Venezia. Nel giugno 1939, Louis Lumière accettò di presiedere la prima edizione che avrebbe dovuto svolgersi in settembre, ma venne
troncata dallo scoppio della II Guerra Mondiale. La prima
vera edizione si svolse quindi solo nel 1946. Da allora il Festival si è tenuto con cadenza annuale se si eccettuano gli
anni 1948 e 1950, in cui non si svolse per problemi di bilancio.
La manifestazione riflette la doppia natura del cinema,
arte e industria: infatti accanto al concorso ed alle altre sezioni, fin dal 1959 è stato creato il Mercato del Film, che lo
contraddistingue da tutti gli altri Festival del mondo. Altra
sua caratteristica è la Montée des Marches, quella scalinata,
rivestita dal tappeto rosso, che porta fino al Grand Theatre
Lumière, la maggiore delle sale del Palais du Festival, altro
simbolo di Cannes perché da qui passano tutte le stelle del cinema del momento.
Non sono mancate le contestazioni. La più celebre fu
quella del ’68, in pieno maggio francese. Louis Malle, membro dimissionario della giuria, Truffaut, Berri, Albicocco,
Lelouch, Polanski e Godard, entrando nel salone del Palais,
chiesero l’interruzione della proiezione in solidarietà con gli
operai e gli studenti in sciopero. Il giorno successivo il Festival venne interrotto.
Anche i premi sono stati contestati, molte volte. I due episodi più vivaci sono avvenuti nel 1987, quando Maurice Pialat vinse per Sous le soleil de Satan violentemente fischiato
dalla platea, e nel 1994, quando invece venne fischiato Quentin Tarantino vincitore per Pulp fiction.
Il premio più prestigioso - e simbolo del Festival - è senza
dubbio la Palma d’oro per il miglior film, introdotta nel
1955. Gli italiani l’hanno vinta dodici volte, quasi tutte negli
anni d’oro del nostro cinema.
Il primo è stato Rossellini nel ’47 con Roma città aperta,
poi nel ’51 De Sica con Miracolo a Milano; nel ’52 Renato
Castellani con Due soldi di speranza; nel ’60 Fellini con La
dolce vita; nel ’63 Visconti con Il gattopardo festeggiato
quest’anno con l’edizione restaurata; nel ’66 Germi con Signore e signori; nel ’67 Antonioni con Blow up. L’anno
trionfale è stato il 1972 per l’ex aequo tutto italiano con Il
caso Mattei di Francesco Rosi e La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.
Nell’albo d’oro da segnalare ancora, nel ’77, Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani, nel ’78 L’albero degli zoc-
coli di Ermanno Olmi e infine nel 2002 La stanza del figlio
di Nanni Moretti.
Due anni fa l’Italia mancò la Palma d’oro (andata e Entre
les murs) ma Gomorra di Matteo Garrone ebbe il Grand Prix
e Il divo di Paolo Sorrentino il premio della giuria.
(Note tratte da “La Stampa - Rubrica Domande & Risposte”
a cura di Raffaella Silipo, 24.5.2010)
Una radiosa ed elegantissima Kate Blanchett,
protagonista del film di apertura di Cannes 2010,
Robin Hood, posa per i fotografi sul red carpet.
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IL “RED CARPET” DELL’ASSOCIAZIONE
UNA SCELTA VINCENTE PER CHI VUOLE INVESTIRE IN CULTURA
GLI INCONTRI CON GLI AUTORI
OSPITI DEL CIRCOLO DEL CINEMA
Il regista teatrale e cinematografico Maurizio Scaparro, autore del film L’ultimo Pulcinella, Roberto
Bechis, moderatore del dibattito, Carla Rezza Gianini, curatrice del patrimonio dei film di animazione di Gianini-Luzzati e Sergio Noberini,
direttore del Museo Luzzati di Genova, nel corso
di una serata speciale dedicata alla maschera di
“Pulcinella” (17 dicembre 2009).
Il regista teatrale e cinematografico Gianfranco De Bosio, affiancato da Magè Avanzini, commenta il film di Carlos Saura Io, Don
Giovanni, tratteggiando la figura di Don Giovanni nella storia del
teatro, nel passaggio dal libretto di Lorenzo Da Ponte all’opera di
Mozart fino alle varie trasposizioni sullo schermo (sera del 25
febbraio 2010).
La regista-scrittrice Silvana Maja (al centro), con
Carlo Vita Fedeli e Magè Avanzini, presenta la sua
opera prima Ossidiana, applaudita la sera del 13
maggio 2010.
A destra, Marco Simon Puccioni, autore di Riparo,
risponde alle domande dei soci nel dibattito moderato da Roberto Bechis il 5 marzo 2010.
FILMESE-SCHERMI D’AUTORE
Registrazione presso il Tribunale di Verona n. 68 del 4.10.1954
Responsabile: Pietro Barzisa - Editore: Circolo del Cinema
Stampa: Tipografia Roma - Vicolo Calcirelli - Verona
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