Corso di Laurea magistrale in Filologia e
letteratura italiana
Tesi di Laurea
«Veder chiaro è sempre stato il
mio difetto»:
Paola Masino, scrittrice e giornalista del
Novecento.
Relatore
prof.ssa Ilaria Crotti
Correlatori
prof.ssa Monica Giachino
dott.ssa Marialuigia Sipione
Laureanda
Arianna Ceschin
Matricola 817565
Anno Accademico
2012 / 2013
INDICE
CAPITOLO PRIMO
UNA SCRITTRICE «AFFACCIATA “A UN BALCONE DEL
SECOLO SCORSO”» ......................................................................................................... 1 I.1. «Io sono nata l’anno del terremoto di Messina» ...........................................1
I.2. «Venezia […] appena l’ho vista non mi ha fatto nessuna impressione»: un
tormentato soggiorno veneziano .....................................................................33
I.3. «Ho collaborato e collaboro a quotidiani e riviste»: la pagina di giornale
come palestra di scrittura ................................................................................56
I.4. «io mi sono trovata disoccupata nel mondo»: un doloroso cammino verso
l’oblio ..............................................................................................................67
CAPITOLO SECONDO
LA NARRATIVA DEGLI ANNI TRENTA DI PAOLA MASINO
........................................................................................................................................................ 77 II.1. «Il cielo era a volte verde come l’edera o rosso come un tulipano»: le
suggestive immagini di Decadenza della morte .............................................77
II.2. «Ecco comincio a soffrire […]. È il destino di ogni madre»: la
degradazione familiare nel romanzo Monte Ignoso ........................................87
II.2.1. «La signora Emma»: un profilo ambiguo di madre ...........................94
II.2.2. «Giovanni […] aveva bisogno di sentirsi protetto»: l’immagine
dell’inettitudine paterna in Monte Ignoso ...................................................123
II.2.3. «Il pensiero dominante era quello di fuggire da mia madre»:
confronto tra Monte Ignoso e il romanzo Poco di buono di Enrico Alfredo
Masino ........................................................................................................131
II.3. «C’è chi ama i figli e chi li odia»: i bimbi di Periferia si raccontano .....141
II.3.1. «Noi […] non avremo riposo alla nostra paura»: la violenza adulta sul
mondo infantile .......................................................................................... 143
II.3.2. «E… e io? Dich? Anche io sono così?»: Romana, modello positivo di
madre .......................................................................................................... 157
II.3.3. «Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più
bello»: somiglianze di Periferia con Il mare non bagna Napoli di Anna
Maria Ortese e Enrico IV di Luigi Pirandello ............................................ 160
PER UNA CONCLUSIONE
«LE INTUIZIONI DEI SEMPLICI SONO SEMPRE PIENE DI
PRODIGIO E DI PAURA» ......................................................................... 165
APPENDICE .................................................................................................. 175
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................... 191
Bibliografia generale ........................................................................................................ 193 Opere di riferimento ......................................................................................................... 204 Opere di Paola Masino prese in esame ....................................................................... 206 Articoli di Paola Masino conservati presso il Fondo Paola Masino
dell’Archivio del Novecento dell’Università La Sapienza di Roma (serie
Scritti, Pubblicistica) ..................................................................................................... 207 Bibliografia critica su Paola Masino ........................................................................... 210 In volume .......................................................................................................................... 210 In periodico ...................................................................................................................... 211 Articoli critici del Fondo Paola Masino presso l’Archivio del Novecento
dell’Università La Sapienza di Roma (serie Ritagli Stampa, Recensioni) .... 216 CAPITOLO PRIMO
UNA SCRITTRICE «AFFACCIATA “A UN BALCONE DEL
SECOLO SCORSO”».1
I.1. «Io sono nata l’anno del terremoto di Messina».2
Sono nata a Pisa il 20 maggio 1908. È l’avvenimento della mia vita che confesso
con maggior piacere, direi anzi con tracotanza non essendo mai riuscita a capire
perché gli uomini in generale e le donne in particolare non amino dichiarare la
propria età.3
È il 20 maggio del 1908 quando in casa Masino a Pisa vede la luce la piccola
Paola, secondogenita di Enrico Alfredo Masino e Luisa Sforza.4 Dopo la nascita la
famiglia Masino si trasferirà a Roma in un villino situato presso via degli
Appennini, per poi trasferirsi in viale Liegi nel 1922.
1
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri. Autobiografia di una figlia del secolo, Milano, Rusconi,
1995, p. 5.
2
Ivi, p. 15.
3
EAD., Autobiografia, in «Pesci rossi», n. 1, gennaio 1947 (in Archivio di Paola Masino, serie
Scritti, Pubblicistica).
L’Archivio di Paola Masino (indicato nelle pagine seguenti con la sigla APM) fa parte
dell’Archivio del Novecento dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ringrazio la prof.ssa
Francesca Bernardini Napoletano, direttrice dell’Archivio citato, per avermi concesso
l’opportunità di consultare l’Archivio e vivere un’esperienza molto ricca a livello accademico e
personale. Rivolgo un sentito ringraziamento anche alla prof.ssa Marinella Mascia Galateria per le
indicazioni bibliografiche fornitemi, al dott. Alessandro Taddei per i consigli e l’estrema
disponibilità dimostratami e alla dott.ssa Teresa Scala per l’accoglienza ricevuta nel mio primo
giorno in Archivio.
4
LAURA PISANO (a cura di), Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a
Ilaria Alpi. Dizionario storico bio-bibliografico. Secoli XVIII-XX, Milano, FrancoAngeli, 2004, p.
247.
1 La coppia aveva già una figlia, la piccola Valeria di due anni. L’autrice
instaurerà un rapporto speciale e di complicità con la sorella maggiore e ciò
emerge dalle lettere a quest’ultima indirizzate e da alcuni passi dei quaderni
d’appunti masiniani, autentici diari a cui la scrittrice affida ricordi e riflessioni.
Nel quaderno di Appunti 6, scritto approssimativamente tra il 1958 e il
1959,5 Paola ricorda un grembiule indossato da piccola rivelando tutto l’affetto
nutrito per Valeria:
Anche quel grembiule mi piaceva in modo particolare e mi piaceva soprattutto
perché mia sorella ne aveva uno identico, e io da quella identità, quand’ero fuori
con lei, mi sentivo protetta, come camminassimo tenendoci per mano. Mi sorella,
invece, ha sempre aborrito dall’essere vestita come me e quando finalmente poté
emanciparsi fu un giorno assai importante della sua vita.6
Valeria trasmette un senso di protezione a Paola, la quale si dimostra
profondamente affascinata da tanta forza di volontà nella ricerca della propria
emancipazione. Non nutre nessuna invidia per lei, ma, al contrario, le parole citate
rivelano tutta la sua ammirazione e il suo affetto. In relazione al ricordo di una
mascherata in Appunti 6 dichiara: «Valeria quella volta ebbe più successo di me.
Ma non ricordo di averne provato invidia. Ero da tempo abituata a considerare
mia sorella, alta, slanciata e sempre ridente, il non plus ultra della grazia
femminile».7
Le parole della scrittrice esprimono la stima nutrita per la sorella e per il suo
carattere determinato. Tale aspetto emerge in maniera netta dai ricordi d’infanzia
disseminati nei quaderni di appunti e la descrizione di una fotografia raffigurante
5
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours: i quaderni d’appunti di Paola Masino,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, p. 175.
6
PAOLA MASINO, Appunti 6, pp. 154-155 (in APM, serie Scritti, Appunti).
7
Ivi, p. 194.
2 le due sorelle è il pretesto ideale per rimarcare le caratteristiche caratteriali di
Valeria:
Una fotografia, di me e Valeria sotto quella cuffia, ci mostra due bambine di un
languore dolente, quale immagino possa essere quello di una principessa reale che
va sposa a un aborrito monarca, per ragioni di stato. A me, forse, tal parte non
dispiaceva e – in quella fotografia – il mio languore mi fa da corona: mentre
Valeria, che è stata sempre più pronta a reagire e a trarre a sé gli immediati piaceri
della vita, tenta un vanescente sorriso, quasi a farsi forza, a convincere se stessa e
gli altri che porta quella cuffia solo per scherzo: una maschera.8
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta ella continuerà a ricordare
la sorella maggiore come «molto ambiziosa: ambiziosa in modo mondano, con
desideri e gusti mondani, sia pure d’alta mondanità».9
La madre, Luisa Sforza, è originaria di Montignoso, in Toscana, e la sua
famiglia d’origine vanta un buon numero di storici e diplomatici. Luisa è
imparentata con la famiglia Giorgini tra i quali Giovan Battista aveva sposato
Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni.10
Papà Enrico è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura a Roma11 e nel
1921 diventa capo gabinetto del ministro Abbiati.12 Uomo di cultura e vero
appassionato di teatro e letteratura, nel 1942 pubblica presso l’editore Vallecchi il
suo primo e unico romanzo intitolato Poco di buono con lo pseudonimo di Enrico
Sìnoma, anagramma di Masino. Il romanzo non ebbe una grande diffusione
all’epoca e, nonostante sia stato ripubblicato presso Feltrinelli nel 1962, oggi è
pressoché sconosciuto. Secondo Beatrice Manetti la scrittrice avrebbe, così,
8
Ivi, pp. 194-195.
EAD., Appunti 7, pp. 97-98 (in ivi).
10
GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», in «Avanguardia», n. 10, 1999, p.
104.
11
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001, p. 38.
12
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 17.
9
3 iniziato «la propria carriera letteraria per risarcire il padre del suo scarso successo
come drammaturgo e romanziere».13
Enrico si rivelerà un padre molto attento all’educazione delle figlie e Paola
si sentirà sempre unita a lui da un legame profondo. Nel 1984, in occasione di
un’intervista rilasciata a Sandra Petrignani, l’autrice parlerà proprio di questo
rapporto speciale avuto con il padre, lasciando trapelare tutto il suo affetto per lui
e una certa nostalgia nel ricordarlo:
Era una persona fuori dal comune. […] Mi portarono precocemente a teatro, nei
musei, e se, per problemi economici, si doveva scegliere fra il loggione e le scarpe
nuove, sceglievano il loggione. Mio padre è stato il mio grande ispiratore. Gli altri
uomini che sono stati importanti nella mia esistenza avevano più o meno la sua età
quando li ho conosciuti: Massimo Bontempelli, che fu il compagno della mia vita,
e Luigi Pirandello, il mio grande amico. Non mi trovavo molto a mio agio con i
coetanei.14
La preoccupazione maggiore di Enrico Masino è da sempre la necessità di educare
al meglio le proprie figlie: indica loro le letture da affrontare, si preoccupa del loro
stile di abbigliamento, fin da piccole le porta con sé a teatro per condividere con
loro interessi e passioni:
Fin da piccine nostro padre ci aveva abituate ad andare all’opera. […] Babbo
prediligeva Wagner, Debussy, Strauss, Mozart e, in genere, gli operisti stranieri
agli italiani.
Credo che la prima opera che io ho ascoltata sia stata, nell’undici, il Pelléas et
Mélisande con la Bianca Stagno Bellincioni. Avevo dunque 3 anni e me n’è
rimasta come una visione d’una nebbia colore di viola. La prima volta che udii un
italiano, avevo dieci anni. Fu il Rigoletto e, come ho già detto, ne risi. Mio padre
faceva qualche riserva su Verdi, eccettuati il Falstaff e l’Otello. Il Falstaff – forse
anche perché era un personaggio shakespeariano – divenne presto una presenza
viva, in casa nostra. Lo cantava mia madre, lo cantava il padre, lo cantavo e
recitavo io da sola avendone imparato tutto il libretto a memoria, lo storpiava
Ferminia quando, mentre lavava i piatti, berciava […].
13
14
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 14.
SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura. Interviste, Milano, la Tartaruga, 1984, p. 28.
4 Ma chi non sarebbe mai entrato a far parte delle nostre conoscenze […] era
Puccini. Per Puccini mio padre nutriva un’avversione più fisiologica che
intellettuale (come per De Amicis cui ogni tanto aveva il rovello di sentirsi dire che
gli somigliava. Cuore è stato uno dei pochissimi libri che egli proibì, a noi
bambine, di leggere).15
Enrico stabilisce, così, con Paola e Valeria un rapporto dallo «spessore
intellettuale oltreché affettivo»,16 diventando il loro punto di riferimento. Sarà
proprio lui ad accompagnare Paola fin da piccola in lunghe passeggiate
archeologiche sulla via Appia e nei circoli letterari dell’epoca.17 Sarà sempre
Enrico Masino ad indicare a Paola le letture da affrontare: non c’è tempo per
opere della narrativa per l’infanzia come Cuore di De Amicis, ma tra i nove e i
sedici anni dovrà concentrarsi nella lettura della Bibbia, per poi passare a
Shakespeare, i favolisti del calibro di Andersen, dei fratelli Grimm, di Perrault e ai
grandi romanzieri ottocenteschi come Flaubert, Stendhal, Maupassant, Gogol,
Tolstoi, Dostoevskij e Dickens. Successivamente il padre indicherà a Paola la
necessità della lettura di testi sacri e occidentali e così l’autrice si dedicherà al
Corano e al Talmud, all’Upanishad e al Tao Te King, a Platone e a
Sant’Agostino.18
Paola segue i consigli di Enrico perché «Quello che diceva <il suo> babbo
era sempre la cosa più bella e più eccitante da fare».19 A volte, però, prende un po’
troppo alla lettera ciò che il padre rileva: negli anni sessanta Paola ricorda
l’incontro particolare avvenuto a teatro nel 1921 con la soprano Emma Carelli:
15
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 16-17.
LUISA ACCATI, MARINA CATTARUZZA, MONIKA VERZAR BASS (a cura di), Padre e figlia,
Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, p. 9.
17
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 38.
18
Ibid.
19
PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 187.
16
5 si avvicina Emma Carelli, grassissima e ammantata in un abito di lustrini blu notte
come un’astrifiammante obesa. Era con lei un signore per contro assai magro,
distinto, un abito grigio perla e grigi capelli. […] subito la signora disse: «[…]
Questo signore è Giacomo Puccini».
Appena udito quel nome, indietreggiai di un passo e ripiombando sulla mia
poltrona esclamai: «Allora il posto non glielo do, perché mio babbo dice che la sua
musica è tutta schifosa».
Mio padre intervenne: «ma è un signore anziano e tu sei piccola. Devi cedere il
posto a un signore anziano e tanto famoso».
E io, imbronciata, alzandomi di nuovo: «E va bene: ma soltanto perché è un
vecchio».
[…] fu mio padre a tenermi sulle ginocchia con gran sollievo mio e della signora
Carelli che avrebbe avuto paura di stringersi una tal vipera al seno.
[…] Mio padre non mi smentì, non mi parlò più dell’accaduto se non forse per
dirmi soltanto che non sempre è opportuno ripetere quel che si sente, anche se è la
verità. Anzi, soprattutto se è la verità.20
Fin da bambina Paola esterna la necessità e la volontà di esprimere ciò che vede,
anche se non sempre, come il papà le ha fatto notare nell’episodio citato, si rivela
una scelta opportuna. È necessaria una certa cultura per raggiungere i propri
obiettivi, ma è importante non tralasciare la cura dell’aspetto e una certa eleganza
nei modi. Enrico è profondamente convinto di questo e si impegna affinché le sue
figlie non lo dimentichino mai:
A quel tempo le nostre calzature erano sempre bianche o marroni, tanto era il
terrore di mio padre di vederci con quelle scarpette […] con cinturino, che
portavano allora tutti i bambini. La fobia di mamma e babbo per quel comun
denominatore dei fanciulli il giorno di festa, sia che fossero figli del portinaio o del
re, era tale che noi avevamo assunto le scarpette nere a simbolo d’ineleganza.21
Paola ricorda inoltre:
Mio padre mi ripeteva spesso che non era elegante pettinarsi, pulirsi le scarpe col
fazzoletto, frugarsi nell’orecchio e simili quando si era fuori casa. Sicché io
20
21
EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 18-19.
EAD., Appunti 6, cit., p. 181.
6 vedendo a un tratto Ferminia chinarsi a passarmi il suo fazzoletto sulle scarpine,
ebbi un moto di rabbia e le urlai: – Stupida! Non si fa.22
Non è sempre facile per le sorelle Masino accettare i gusti del padre in fatto di
abbigliamento e, di conseguenza, soprattutto in età adolescenziale, non mancano
le loro prime proteste a riguardo:
è ovvio che, entrate nell’adolescenza, mia sorella ed io volessimo emanciparci dal
gusto imparato dal padre e dalla madre e, sicure di aver ormai in nostro potere i
canoni infallibili della vera eleganza, facemmo una vera e propria sommossa.23
Paola si dimostra sin dalla tenera età più matura di tutti i suoi coetanei, dai quali si
distingue in età scolare. È inevitabile, quindi, che «I compagni <la> ammir<ino>,
le compagne <la> odi<no>, i professori <la> toller<ino>, perplessi».24 Al liceo
classico Tasso di Roma la scrittrice incontra insegnanti in grado di comprendere il
suo carattere e di riconoscere il suo talento precoce, come il professore di latino
Giovanni Staderini. Non tutti, però, condividono lo stesso entusiasmo di
quest’ultimo, ma, al contrario, leggono nell’atteggiamento di Paola una certa
sfacciataggine. È questa l’interpretazione di Luigi Volpicelli, docente di filosofia
e di economia politica, e per tal motivo deciderà di sfidare la giovane Masino
assegnandole il compito di preparare per la lezione successiva un’esposizione
riguardante la figura di Shakespeare. L’autrice non si lascerà intimorire dalla
richiesta e analizzerà i personaggi femminili dei drammi shakespeariani: nessuna
di loro è malvagia per natura, ma la passione incontrollabile e l’amore profondo le
22
Ivi, p. 212.
EAD., Appunti 7, cit., p. 97.
24
EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 20.
23
7 spinge ad essere tali. Una tesi brillante per una studentessa della sua età, in grado
di confrontarsi con il proprio insegnante. Lei stessa ricorderà negli anni sessanta:
Andammo avanti per un pezzo. Alla fine per difendermi dai sarcasmi (troppo facili,
professor Volpicelli, contro una ragazzina di 15 anni, ammettiamolo!) tirai in ballo
Taine. Allora il professore si arrese ma conservò sempre per me, finché fui sua
allieva, un certo ironico disprezzo. Poi – nella vita – siamo diventati amici.25
La giovane Masino si stancherà presto dell’ambiente scolastico e per questo
deciderà di non presentarsi agli esami di riparazione in fisica e matematica,
materie in cui è stata rimandata. Sa bene ciò che vuole e per questo interrompe
bruscamente gli studi al secondo anno per dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
Il padre è consapevole delle doti della figlia e la incoraggia a sottoporre il
proprio lavoro ai grandi professionisti:
Avevo 16 anni. Avevo scritto un dramma intitolato Le tre Marie i cui personaggi
sono soltanto tre donne Maria, Marta e Maddalena. Maria la madre, Marta la
sorella e Maddalena la moglie di un grand’uomo, diciamo pure un «genio» che non
appare mai in scena ma che riempie continuamente di sé la scena e determina
l’azione traverso i discorsi delle tre Marie variamente innamorate e soggiogate e
condizionate da lui.
[…] andai al Valle dove recitava la compagnia Ruggeri.26
[…] Al mio apparire, tutti tacquero. Poi Ruggeri si mosse e venne, assai titubante,
verso di me. […] E così, scrutandomi, fra divertito sorpreso e perplesso, egli mi si
fermò davanti. E […] io […] gli […] Dissi: «Maestro, ho scritto un dramma su un
grande personaggio. Come lei. Tutto s’impernia su un genio. Non v’è che lui,
attorno a cui girano tre donne amanti […]. È un dramma dedicato a lei. Lo legga».
[…] debbo pensare che io fossi stata mossa a cercare Ruggero Ruggeri più per una
curiosità di conoscere e parlare a tu per tu con quel grande attore, che per la
speranza che egli accettasse mai d’interpretare o far interpretare dalla sua
compagnia un dramma dove non c’era parte alcuna per lui. […] Era forse il mio
invincibile desiderio del palcoscenico a trarmi dietro miraggi, e a costo d’ogni
beffa, su quelle tavole, ove poi passai, non per mia personale conquista, ma al
seguito di Pirandello e di Bontempelli, i più felici anni della mia vita.27
25
Ivi, pp. 20-21.
Ruggero Ruggeri fu il più famoso interprete dei drammi di Luigi Pirandello. Recitò nel Piacere
dell’onestà, nel Gioco delle parti, in Tutto per bene e in Enrico IV. Ivi, p. 21.
27
Ivi, pp. 21-22.
26
8 Ruggeri non metterà in scena il dramma masiniano: per quell’anno il suo
«repertorio è già fissato» e non avrebbe avuto «neppure il tempo di leggere il suo
dramma».28 Paola non demorde e il giorno successivo «torn<a> all’attacco»,
recandosi da Alda Borelli, altra interprete delle opere pirandelliane, come ad
esempio La vita che ti diedi nel 1923.29 La reazione della Borelli è identica a
quella avuta da Ruggeri e la risposta data alla giovane Masino la medesima. Il
padre si accorge della delusione della figlia e per questo le suggerisce di
incontrare Luigi Pirandello. È una domenica pomeriggio del 192430 quando papà
Enrico accompagna Paola al teatro Argentina. Pirandello sta passeggiando con
l’amico Lucio D’Ambra (pseudonimo di Eduardo Manganella), narratore e
commediografo. Enrico Masino avvicina Pirandello esprimendo il desiderio della
figlia di parlare con lui. Dopo aver ascoltato attentamente la trama e le
caratteristiche del dramma esposte da Paola, Luigi osserverà:
Se tu avessi saputo scrivere quello che mi hai raccontato saresti un genio. Ma son
sicuro che non hai saputo scriverlo. È già molto che tu l’abbia pensato. E io voglio
dimostrati di essere coraggioso almeno quanto te. Lo leggo e, se non ci sono troppi
errori teatrali, te lo faccio rappresentare.31
Negli anni sessanta la Masino ricorderà ancora l’emozione provata dinanzi alle
parole di Pirandello, il quale, a differenza di Ruggeri e della Borelli, non si è
arrestato dinanzi alla giovane età dell’autrice, ma si è preoccupato di analizzare
quanto da lei scritto: «Ho visto la gioia. E mai più ho provato una sensazione
28
Ivi, p. 22.
Ivi, p. 23.
30
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 40.
31
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 24-25.
29
9 fisica così trasumanata dalla felicità».32 Enrico Masino, d’altro canto, ha
incoraggiato la figlia nel suo sogno di affermazione letteraria, dandole l’occasione
di conoscere un artista destinato a diventare una delle figure più importanti nella
vita di Paola. Il destino, infatti, le farà incontrare di nuovo Luigi a Parigi nel
1929:33 «Appena mi vide, puntandomi contro l’indice, esclamò: “Tu sei quella
delle Tre Marie!” e, [...] senza darmi tempo di rispondere, me ne fece tutta la
critica atto per atto, a memoria. Da allora fummo amici».34
Da quel momento i due intellettuali si frequenteranno assiduamente fino alla
morte di Pirandello, avvenuta nel 1936. Non la legherà a lui solo la stima per il
suo lavoro, ma anche un profondo affetto destinato a non venir meno. Come
dimenticare le incursioni mattutine fatte da Luigi nella camera da letto della
scrittrice e del suo compagno, Massimo Bontempelli:
veniva da noi al mattino presto. Eravamo appena svegli e ci trovava ancora a letto.
Allora si sedeva con noi, sul letto anche lui, e si faceva colazione tutti e tre insieme
parlando di letteratura. Stavamo sempre a parlare di letteratura, di arte. Certe volte
non ne potevo più e per farmi passare il mal di testa prendevo il tram sola soletta e
arrivavo fino al capolinea. Mi mettevo ad ascoltare i discorsi della gente, la moglie
che diceva al marito: stasera ti va la frittata di cipolle? E così me ne tornavo a casa
dopo un tuffo nella vita, pronta a riprendere i discorsi sulla letteratura, la filosofia,
l’arte, la musica.35
Non sarà facile per la Masino apprendere la notizia della morte del suo migliore
amico, giunta il 10 dicembre 1936 mentre è ospite dei Volterra a Firenze.36 È
come se si sentisse responsabile di quella morte, colpevole di non aver potuto
32
Ivi, p. 25.
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 43.
34
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 36.
35
SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., pp. 30-31.
36
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 48.
33
10 assistere Luigi nei suoi ultimi attimi di vita: «Sono così infelice di essere lontana
da Roma e mi pare tutta colpa mia e che se ero lì questo non poteva avvenire.»37
Quell’anno Pirandello era stato impegnato a seguire le riprese del film Il fu
Mattia Pascal, girato dal regista Pierre Chenal a Cinecittà. Il gelo degli studi gli
aveva provocato una febbre improvvisa e violenta e una polmonite che in pochi
giorni ne provocherà la morte.38
Il dolore per la perdita induce la scrittrice ad accusare il medico di Luigi, il
dottor Trenti, di aver sottovalutato la gravità delle condizioni di salute dell’artista.
Lo sdegno e l’ira verso il medico emerge da una lettera indirizzata al padre nel
1936:
Caro babbo […] Dì a mamma che non mi parli mai più di quello schifoso di Trenti.
Il quale, chiamato il mercoledì per vedere Pirandello, invece di preoccuparsi
com’era suo dovere sapendo chi era Pirandello e che aveva 70 anni ed era malato
di cuore, ha fatto la diagnosi di una lieve influenza […]. Basta. […] se lo sento
ancora nominare metto la dinamite sotto la casa.39
È evidente il profondo dolore della scrittrice nelle parole forti del passo citato. La
scrittura diventa per la Masino l’unico strumento per esprimere la sua intima
sofferenza. Ad Appunti 1, redatto approssimativamente tra il settembre del 1933 e
il dicembre del 1936,40 l’autrice affida tutta l’amarezza per la perdita dell’amico:
Amavo Pirandello non come un uomo o come un parente o un amico, ma come un
elemento del mondo che a me è palese. Quando mi hanno detto che è morto è stato
come se all’improvviso mi avessero annunciato che l’erba o le nubi o le greggi
sono scomparse da questo pianeta.41
37
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 53.
Ivi, pp. 54-55.
39
Ibid.
40
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 174.
41
PAOLA MASINO, Appunti 1, p. 102 (in serie Scritti, Appunti), ora in FRANCESCA BERNARDINI
NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 48.
38
11 Il mondo di Paola si è sgretolato di fronte alla notizia della perdita di Luigi. Nulla
sarà più come prima per lei e d’ora in avanti avrà sempre la sensazione di aver
subito una mutilazione:
Ripenso al mondo di un’ora fa, quando lui era ancora vivo, e mi pare un mondo
completo, non zoppo come questo, non con questo buco vuoto nel fianco; e tuttavia
so che camminando fino alla mia morte in questo nuovo mondo mutilato, niente
potrà non farmelo ancora apparire completo d’erba e di greggi e tempeste, tanto
quelle immagini sono abbeverate della mia sostanza. E così è di Pirandello.42
La scrittura è l’unico strumento indispensabile per sopportare una condizione
esistenziale improvvisamente mutata:
Scrivo queste cose qualunque per rispetto di lui che amava tutti gli sforzi contro la
nostra pochezza. […] Tanto scoramento mi dà questa morte che vivo da qualche
giorno sempre in una gran voglia di sonno. Dormire per non ascoltare il rumore di
una vita che mi sembra ormai senza speranza […]. Scrivere è un inutile tentativo di
rammendo.43
Il dolore e la nostalgia dell’amico rimarranno immutati negli anni, come non
muterà la concezione della scrittura intesa come valvola di sfogo per la propria
sofferenza. In occasione del decimo anniversario della scomparsa dell’amico,
Paola lo ricorderà con una profonda malinconia in un articolo dal titolo L’estremo
linguaggio. Colloquio con Luigi Pirandello pubblicato sulla rivista «Foemina» il
12 dicembre del 1946. La pagina di giornale diventa il luogo dove poter esprimere
le proprie emozioni e dare al lettore la possibilità di conoscere i lati più intimi e
nascosti dei personaggi di rilievo della letteratura italiana:
42
43
Ivi, p. 103, ora in ibid.
Ibid.
12 Luigi Pirandello è morto dicendo: – Che peccato – e pensava a quanto lasciava
d’incompiuto; non a sé, non ai figli. Lui che ogni volta si trasportava tutto intero
dentro ognuna delle sue maschere non poteva accettare di concludersi solo, in se
stesso, con tutte quelle sue creature rimaste a mezzo un gesto. […] Non poteva
placarsi, gli sembrava un abbandono, un tradimento davvero.44
L’articolo esprime le emozioni provate nel ricordare Pirandello, fino ad arrivare
alla conclusione:
E così, se ognuno guardasse in se stesso, saprebbe che ogni morte regala a ogni
vivo una sua particolare mutilazione e quella mutilazione non è se non il più alto
volto, la traduzione, in un linguaggio in cui le parole non sono più necessarie,
dell’essenza vera delle sue ragioni di vita.45
In Appunti 7, scritto tra il 1959 e il 1963, la scrittrice racconta di aver sognato di
incontrare Pirandello, il quale affronta con Paola il tema della morte:
Cominciò subito: «Tu l’hai sempre detto che io non sono morto. Ed è vero. Muore
chi vuole morire, ma io non volevo, non ho mai voluto morire. Ho ancora tante
cose da dire, e voglio dirle io, con il mio nome e cognome. […] Il mio pensiero, io
solo lo conosco, io solo posso foggiarlo nella sua incandescenza, a mio piacimento.
Quelli che sfruttano qualche scintilla sfuggita alla mia fucina, cosa vuoi che
facciano? Sono epigoni, gente che non ha midollo spinale, non son vivi per se
stessi, vivono una vita d’accatto, posticcia, portano abiti smessi da altri. E son
sempre abiti smessi».46
L’autore attraverso le sue opere è destinato a non perire, perché la sua voce è
destinata a risuonare sempre nitida nella letteratura, senza che nessuno possa
impedirlo. Chi cercherà di sfruttare il suo pensiero non rappresenta una minaccia:
sono autori sprovvisti di una propria originalità letteraria, ridotti a creare brutte
copie di capolavori letterari. Lui stesso puntualizza:
44
EAD., L’estremo linguaggio. Colloquio con Luigi Pirandello, in «Foemina», n. 7, 12 dicembre
1946, p. 7 (in APM, serie Scritti, Pubblicistica).
45
Ibid.
46
L’uso del corsivo è originale. EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 62.
13 E vuoi un’altra prova che io sono vivo? Ma che tu mi capisci! Se io fossi morto,
come questi che ci ronzano attorno, tu sentiresti il brusio delle mie parole ma non
potresti afferrarle […]. Con i vivi devo parlare. Ho ancora tante cose da dire. E
allora tu vieni qui, con me. Io dico a te le cose che poi tu riporterai agli altri, di là.47
Non è possibile verificare con certezza la veridicità di quanto raccontato da Paola
in merito al sogno, o capire se tale visione abbia avuto realmente luogo. È
interessante notare, però, come la Masino percepisca un legame costante con la
figura di Pirandello, tanto da sentirsi in dovere di farsi portavoce delle idee
inespresse dello scrittore. La scrittrice stessa riflette molto sul significato dei suoi
sogni e, a proposito di tale aspetto, in un articolo intitolato Autobiografia uscito su
«Pesci rossi» nel gennaio del 1947, osserva:
Sono sempre stata annoiata di me stessa, tranne che in sogno. I sogni sono la parte
più vera e fattiva della mia esistenza. In sogno io non ci sono mai, e quell’io che va
per gli astrali panorami […] è sempre tanto vario e ricco di possibilità, che riesce a
darmi per il giorno seguente […] qualche speranza e tenacia.48
È grazie al padre che Paola ha avuto la possibilità di conoscere il significato di
un’amicizia sincera, autentica e così profonda. Nonostante il rapporto speciale tra
Enrico e la figlia, non sono mancati i contrasti e le tensioni. Un esempio è il
distacco temporaneo causato dalla relazione tra la scrittrice e Massimo
Bontempelli. La coppia si incontrerà per la prima volta nel marzo del 1927 a casa
di un’amica comune.49 Paola non è ancora ventenne, mentre Massimo ha
trent’anni in più di lei, è sposato e padre di un figlio, Massimo detto Mino, quasi
coetaneo dell’autrice. La moglie di Bontempelli è la scrittrice Amelia Della
Pergola, detta Meletta, sposata da Massimo nel 1909 e collabora alla rivista
47
Ibid.
EAD., Autobiografia, cit.
49
EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 23.
48
14 bontempelliana «900»50 ricorrendo allo pseudonimo di “Diotima”.51 In Appunti 11
Paola parlerà di lei servendosi di termini poco lusinghieri:
Che Meletta Bontempelli sia una bigotta […] non c’è dubbio. È d’un’ignoranza
assoluta in materia di religione e si tiene rintanata nelle sue superstizioni con un
astio, un livore, un continuo digrignare di denti contro tutto ciò le scompone un po’
la cuccia e tenta di farle vedere un po’ di luce. […] Egocentrica e vanitosa fino alla
mania gliene deriva un egoismo molto difficile a sceverare a prima vista. In parole
povere: è una di quelle persone che fa la carità non per pietà del povero ma perché
nel farla si sente migliore, e il sentirsi migliore le dà piacere.
Allo stesso modo crede in Dio per scaricarsi la coscienza d’ogni rimorso. Ma se si
parla delle cause dei suoi rimorsi (trascorsi sessuali, carenze di affetto materno,
indifferenza all’altrui sofferenza) subito incolpa Dio di averci dati il sesso […], il
marito di averle dato dei figli perché lei non era fatta per avere figli […]. Le colpe
dei suoi tradimenti son tutte di Massimo che la tradiva […]. Se lei ha sposato
Massimo, essendo contraria al matrimonio, e non amandolo […] è unicamente
perché aspettava un figlio. E il figlio come l’ha fatto? «L’ho fatto perché non
sapevo nulla del sesso. La colpa è tutta di D’Angelantonio che mi ha portato da
Massimo. A me quella cosa ripugnava eccetera». Io: «Ma poi l’ha fatto di nuovo,
con altri, quando sapeva di che si trattava. Allora?». «A me non piaceva mai, era
sempre colpa degli uomini che si approfittavano di me perché ero debole.»
Inutile insistere, non se ne viene mai fuori.52
Inizialmente Massimo sembra ignorare Paola.53 Successivamente nel 1928 sarà
proprio lui a pubblicare per la prima volta un racconto masiniano, Ricostruzione,
su «900», rivista fondata assieme a Curzio Malaparte.54 Inizierà, così, la
collaborazione tra i due e successivamente nascerà il loro legame:
Traverso amici comuni un mio racconto arrivò a Bontempelli […] e Bontempelli si
offerse di pubblicarlo in ‘900’. Cominciò così la mia collaborazione a quella rivista
e, con essa, anche una collaborazione con Bontempelli. (Era il solo modo che
avessimo per poterci incontrare. Scrivemmo un dramma intitolato Il naufragio del
50
La rivista «900» venne fondata nel 1926 da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte con lo
scopo di promuovere un profondo rinnovamento della letteratura italiana, attraverso un confronto
con le avanguardie culturali europee. Malaparte abbandonerà il giornale. La prima serie della
rivista era composta da quattro fascicoli trimestrali in francese e il comitato redazionale vantava
personaggi di spicco del panorama culturale europeo. Successivamente «900» divenne un mensile,
per poi essere chiuso definitivamente nel giugno del 1929 (ivi, p. 26).
51
Ivi, p. 27.
52
Ivi, pp. 181-182.
53
GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 107.
54
Ibid.
15 Titanic, manoscritto andato disperso e di cui solo alcune pagine, a firma del solo
Bontempelli, furono più tardi pubblicate sulla rivista “Prospettive”). Collaborando
ci accorgemmo di dover vivere insieme.55
L’amore paterno non può ignorare lo scandalo alimentato da questa relazione,
considerata peccaminosa all’epoca. Già nel novembre del 1927 la famiglia aveva
mandato Paola in un «blando esilio» a Firenze,56 durante il quale la Masino aveva
frequentato il gruppo di “Solaria”.57
Nel luglio del 1929 la scrittrice verrà mandata dalla famiglia a Parigi,58 con
la speranza e l’illusione che le malelingue possano dimenticare la sua scandalosa
relazione con Massimo. Motivi di lavoro giustificheranno la sua permanenza a
Parigi: grazie ad un’amica di famiglia59 le viene trovato un impiego come
segretaria di redazione presso la rivista politica «L’Europe Nouvelle».60
Contemporaneamente
lavora
al
Bureau
International
de
Coopération
Intellectuelle.61 La voce sulla sua relazione peccaminosa è già giunta a «L’Europe
Nouvelle», dove lavorerà fino al luglio del 193062: «Arrivai a Parigi,
accompagnata da babbo, una mattina di luglio e mi avrebbe atteso alla stazione
un’impiegata del giornale […]. […] già tutti, al giornale, conoscevano il mio
dramma e perché me ne andavo a vivere a Parigi».63 Una volta arrivata al giornale
osserva:
55
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 42.
56
Ivi, p. 41.
57
Ibid.
58
Ivi, p. 43.
59
GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 104.
60
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 43.
61
Ibid.
62
PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., p. 356.
63
Ivi, pp. 357-358.
16 Al giornale mi aspettavano come si aspetta la nuova puntata di un romanzo
avvincente. Non so che cosa di preciso avessero raccontato della mia vicenda
personale, ma di certo tutti sapevano che io amavo un uomo sposato; il che, per
l’Italia era gran misfatto.64
Non è facile per Paola ignorare le critiche ricevute e l’opposizione della sua
famiglia, da sempre per lei il principale punto di riferimento. Il suo forte carattere
e la gioia per il nuovo amore non le impediscono di avvertire la pesantezza della
sua condizione e la malignità di quanti la giudicano:
Quando me ne andai di casa con le poche cose che poterono darmi […] c’era in me
una saggezza che nasceva dalla scelta più ardua che ero stata chiamata a fare in
così giovane età. Abbandonare la casa paterna dove tutto era stato […] reciproco
affetto, per una vita irregolare, con un uomo sposato, contro la volontà e il giudizio
di tutti, in una incomprensione ostile, nutrita solo da una fede cieca nel «nostro»
amore. Non mi sono sbagliata. Non potevo sbagliare. Ma era ugualmente molto
difficile resistere imperterrita alla massiccia opposizione degli altri. […] spesso
lacrime miste di felicità e di dolore mi rigavano il volto. Sempre tesa contro
l’agguato che poteva il mondo esteriore portare alla mia passione […] (non ebbi
mai un confidente e risposi sempre da sola, secondo il mio criterio, agli attacchi
che mi furono mossi).65
La famiglia non l’appoggia in questa sua scelta e per lei è difficile accettarlo. È
consapevole, tuttavia, di vivere un amore sincero e autentico e tale sicurezza le
permette di difendere Massimo dagli attacchi mossi dai genitori. Bontempelli,
d’altro canto, non riuscirà a stare a lungo lontano da Paola e perciò la raggiungerà
nella capitale francese nel 1930. Nel giugno dello stesso anno l’autrice deciderà di
abbandonare definitivamente l’impiego presso «L’Europe Nouvelle»,66 un lavoro
«ingrato e inutile», come lei stessa lo definirà in una lettera al padre del 13 giugno
1930.67 Non nutre più nessun interesse per ciò che fin dall’inizio non è stato altro
64
Ivi, p. 359.
EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 31-32.
66
GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 108.
67
Ibid.
65
17 che una «facciata di apparenze necessaria a salvaguardare la reputazione di una
giovane di buona famiglia improvvisamente allontanatasi da casa per vivere una
travolgente ed inaccettabile unione».68
I contrasti familiari continueranno ad inasprirsi in maniera crescente fino al
1933, anno del definitivo ritorno in Italia di Paola e Massimo.69 Sarà merito dello
stesso Bontempelli se a poco a poco i rapporti si ristabiliranno ritrovando la forza
di un tempo.70
Durante gli anni parigini la scrittrice s’impegnerà sempre a mantenere una
corrispondenza epistolare con i genitori, in ragione della quale si ritrova a
difendere spesso il compagno. Un esempio è la lettera indirizzata al padre il 13
giugno 1930:
Caro babbo, ho avuto la tua lettera. Questa lettera veramente mi ha fatto molto
dolore. […] Quello che tu dici di B. e che mamma dice, è talmente cattivo che non
riesco neppure a vedere come si possa pensarlo. Se io ho lavorato con tutte le mie
forze, se io ho intenzione ancora di lavorare […] è perché credevamo che questo
facesse piacere a voi, perché così mamma era abbastanza tranquilla avendo una
scusa da dire alla gente; perché se io mi fossi lasciata completamente mantenere da
Massimo, voi avreste trovato che: quell’individuo ti ha ridotto una mantenuta. Così
per non darvi dolore più grande ci siamo privati di una grande gioia. Per lui quella
di assumersi ogni responsabilità della mia vita; per me quella di essere veramente e
completamente cosa sua. Questo non solo noi saremmo felici di far
immediatamente […] ma ne saremmo orgogliosi essendo la cosa che ci è più cara e
alla quale cerchiamo di giungere.71
Nelle righe successive precisa: «Io e B. siamo disposti a fare tutto il possibile per
rendervi calmi e contenti. Noi credevamo appunto che il trovare io un lavoro […]
vi fosse cosa gradevole».72
68
Ivi, p. 109.
Ibid.
70
MARIA VITTORIA VITTORI, Case. Ritratto di Paola Masino, in «Idra», n. 12, 1995, p. 12.
71
GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 109.
72
Ivi, p. 110.
69
18 Paola non considera nemmeno per un istante l’idea di rinunciare a
quell’amore, di conseguenza, per poter proseguire la sua vita con Massimo, è ben
cosciente della necessità di dover trovare un giusto compromesso con la propria
famiglia. I toni diventano più concilianti nelle righe conclusive:
Caro babbo, ora rispondimi subito. Ti ringrazio tanto della tua lettera così sincera.
Non pensare che mi ha fatto dolore. Anche io ve ne ho fatto tanto. Pure so che è per
una causa molto bella. Bisogna essere sempre così sinceri e ci aiuteremo molto di
più vicendevolmente. Tutti i miei baci e ancora di più. Paola73
La Masino non si sbaglierà a giudicare l’amore e il legame con Massimo. Il 7
marzo del 1931 in una lettera al padre esprime chiaramente le sue sensazioni a
riguardo:
Caro babbo […] Io mi sento sicura di arrivare e di arrivare proprio per la via che
ho scelto, e che non solo mi pare buona per me, ma anzi l’ottima. Perché questa
gioia che ora è nella mia vita tutti i minuti […] non può venirmi che da una
pienezza di sentimenti; che sono – amore, tranquillità, fiducia, sicurezza […] di un
avvenire per la mia opera che trovo subito accolta e compresa e ammirata dalla
più sottile e critica intelligenza che io abbia mai incontrata.74
In una lettera al padre del 25 marzo 1931 sottolinea la gioia e la felicità provata in
un momento così bello della sua vita:
Dunque io dico: che sono felicissima – che amo e sono altrettanto riamata – che
Massimo fa di tutto perché la mia vita sia sempre più bella; che ha per me proprio
tutte quelle piccole cure che tu e mamma pensate mi manchino; che si occupa del
mio lavoro più che se fosse il suo e fa tutti i sacrifici purché io vada sempre più in
alto nella vita.75
73
Ibid.
L’uso dei corsivi è da attribuire all’autrice dell’articolo da cui è stato tratto il passo citato. Ibid.
75
Ivi, p. 111.
74
19 Il loro legame sarà indissolubile. Nonostante le numerose malelingue, per Paola,
Massimo non è solo un maestro: è la sua autentica ragione di vita, e negli anni la
scrittrice sarà sempre più convinta di questo. I toni delle lettere degli anni trenta
riguardanti l’intensità di tale sentimento non muteranno nemmeno nel decennio
successivo: in una lettera del 18 aprile del 1946 scrive alla madre: «Ogni giorno di
più mi accorgo di quanto ci vogliamo bene [...]. […] l’ho sempre saputo che non
mi sbagliavo, ho troppo aspettato per tutta la mia infanzia per potermi
sbagliare».76
Gli anni parigini sono spensierati per la coppia. La scrittrice frequenta gli
stimolanti ambienti dei più importanti salotti letterari dell’epoca, approfondisce
l’amicizia con Pirandello, incontra gli artisti e gli intellettuali di rilievo del
panorama culturale dell’epoca. Spesso le condizioni economiche della coppia
sono disastrose, ma ciò non scalfisce la serenità e la spensieratezza di quel
periodo. Lei stessa negli anni sessanta ricorderà:
La povertà mia e di Massimo era di una specie particolare, quale mai più in seguito
conoscemmo. Era una povertà che ci consentiva di saltare un pasto e comprare un
fiore senza dubbi e senza soffrire la fame; una povertà cui l’idea delle malattie non
aggiungeva nessuna minaccia, cui un guadagno improvviso non toglieva nessuna
rimanenza. Potevamo fare a meno di tutto e permetterci tutto con una naturalezza
che aveva più del moto delle ali di un uccello in volo che può andare su e giù a
destra e a sinistra indifferentemente che del respirare umano condizionato e
ineluttabile. Spendevamo come ci veniva in mente, certi che domani o fra un’ora
qualche cosa sarebbe accaduto per la quale avremmo potuto ancora mangiare
benché per il momento non avessimo un soldo in tasca.77
Una sottile ironia attraversa il racconto dei momenti vissuti con Massimo durante
l’esilio parigino: un pomeriggio il compagno deciderà di privarsi degli ultimi soldi
rimastigli per la cena e regalerà a Paola un’intera cesta di fiori di pisello:
76
77
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 128.
Ivi, pp. 33-34.
20 Quanto costa tutta la cesta?». Era un po’ più di quel che lui avesse, ma convinse la
fioraia a lasciargli egualmente tutti i suoi fiori. Me li mise tra le braccia. «Così»
disse «ne hai per tutti i giorni che starò via». «Ma come fai per il viaggio?». «Non
mangio e non bevo. Meno preoccupazioni. E non potrò neppure essere derubato.
Dormo più tranquillo. Una bella fregatura per i ladri».78
I fiori sono sempre al centro di numerosi episodi della loro vita parigina. Una
notte, ad esempio, Massimo rincasa alle quattro di mattina e chiede a Paola: «“Ti
piacciono? Mi dispiaceva prendere il caffè senza te e allora, invece di prendere il
caffè, ti ho comprato questo mazzetto”. Era il tempo in cui scriveva Adria e
lavorava quasi tutta la notte. Sapevo il valore di quel caffè».79
Durante le numerose uscite mondane, Paola preferisce sfoggiare dei fiori sui
vestiti al posto dei gioielli. Negli anni sessanta ricorderà l’episodio in cui decide
di impreziosire un abito di moire verde bottiglia con dell’edera strappata da
qualche cancellata di giardino e si reca ad un ricevimento all’ambasciata dove
Giuseppe Bottai, allora ministro delle Corporazioni, dirà:
«Che coraggio, a portare una collana di tal fatta». E io: «Perché? Le altre donne
non portano pietre al collo? Pietre o foglie non son tutti prodotti della natura? E
noti che spesso le pietre son false e son sempre più pesanti delle foglie che son
sempre leggere e sempre vere».80
L’originalità di Paola emerge dallo stesso stile di vita e non solo dalla scrittura.
Nel caso della Masino i due tratti si intrecciano in un rapporto indissolubile: la
realtà le fornisce il materiale necessario alle sue opere.
Nella capitale francese Paola si distingue per l’originalità e la stravaganza,
come lei stessa scrive ai genitori il 30 maggio 1930: «qui tutti trovano che sono un
78
Ivi, p. 34.
Ibid.
80
Ivi, p. 35.
79
21 fenomeno perché ho il coraggio di fare cose che tutti gli altri non fanno. Sono
proprio rimbambiti!».81
La spensieratezza bohémienne di questi anni si riflette sulla sua produzione
letteraria. Nel 1931 pubblica l’opera di esordio intitolata Decadenza della morte.82
È una raccolta di prose lirico-filosofiche scritte a Roma tra il 1928 e il 1929 e
riordinate successivamente a Parigi nel 1930.83 Tra l’agosto del 1928 e il maggio
del 1929 erano già apparse sulla rivista bontempelliana «900», ad eccezione del
racconto Decadenza della morte, uscito sul «Vesuvio» nel febbraio del 1929.84
Massimo scrive una presentazione del volume sottolineando l’originalità di
un’opera di ardua definizione e senza precedenti:
Inoltrandomi nella lettura di queste prose, mi prende a tratti uno sgomento, a
sentirmi così assalito da tutte le parti, sommerso sotto rovesci sùbiti e tumultuosi di
scoperte, sacrilegi, favolosi imprevisti, frammenti di teogonie, abbagliamenti di
sole seguiti da corse vertiginose nella tenebra. L’aria intorno ora si rarefà fino a
diventar luce pura, ora tutt’a un tratto si chiude e pesa addosso come un incubo.
Ogni sostegno di riscontri con la realtà viene meno, ci sentiamo reggere nel vuoto
per forza d’un equilibrio d’attrazioni simile al gioco della meccanica celeste.
L’anima piomba in esaurimenti mortali, di là balza di colpo ai vertici
dell’intelligibile.
[…] Non so precedenti a questa maniera di pensare e di scrivere.85
Massimo non sarà l’unico a sorprendersi per tanta abilità di scrittura. Guido
Piovene, ad esempio, in una recensione riservata a Decadenza della morte e
Monte Ignoso, pubblicata il 25 maggio del 1931 sul «Convegno», si dimostra
81
Ivi, p. 40.
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 45.
83
Ivi, p. 64.
84
Ibid.
85
MASSIMO BONTEMPELLI, Presentazione, in PAOLA MASINO, Decadenza della morte, Roma,
Alberto Stock, 1931, pp. 9-10.
82
22 sorpreso dalla capacità dell’autrice di impreziosire le pagine grazie a inusitati
contrasti cromatici: è il frutto di una personalità «ricca d’ingegno»:
è la giovane autrice più ricca d’ingegno ch’io conosca. Ha in abbondanza la dote
più necessaria allo scrittore, il fiato: dico la facoltà di far scorrere sopra un respiro
continuo, senz’asma, duecentocinquanta pagine d’avvenimenti tutte ombre e luci e
contrasti, legati fra loro a perdita d’occhio. […] La sua prosa scorre, ho detto a
titolo di lode. Il suo difetto è quello di scorrere troppo: […] come quello che sfoga
senza resistenze.86
La scorrevolezza delle pagine masiniane, a volte, può trasmettere l’idea di una
fuga dalla realtà. Tuttavia, sebbene la fantasia sia un elemento preponderante nella
scrittura di Paola, sussiste un legame costante tra realtà e finzione: «Nella mia
recensione ho accentuato, com’è conveniente, i difetti. Ma Monte Ignoso non è
soltanto una prova di ingegno: dalla suprema astrattezza del primo libro, si è
giunti a calare la fantasia in figure: nebbiose sì, ma figure».87
Lo stesso anno Paola pubblicherà il romanzo Monte Ignoso, opera che,
ambientata a Montignoso, paese in provincia di Carrara meta delle vacanze estive
della famiglia Masino, indaga la complessità della vita familiare. Ella stessa in
Appunti 6 annota: «Era raro che a estate inoltrata noi non fossimo già partite con
mamma per Montignoso».88 Nelle pagine successive aggiunge:
con babbo e mamma <facevamo> una di quelle passeggiate “igieniche” che erano
il nostro tormento. A metà percorso mamma e babbo si fermavano sempre ad
ammirare una certa vecchia casa rossa […] e che trovavano bellissima: anche noi la
trovavamo molto bella e spesso ci divertivamo a immaginare come l’avremmo
mobiliata se fosse stata nostra.89
86
GUIDO PIOVENE, Decadenza della morte e Monte Ignoso, in «Il Convegno», n. 5, 1931, p. 282
(in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni).
87
Ivi, p. 283.
88
PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 155.
89
Ivi, pp. 156-157.
23 È il suo primo romanzo scritto nel 1930 tra Roma e Parigi in soli «cinque mesi e
un giorno»,90 anziché in sei come aveva progettato inizialmente.91 Il libro è
destinato a riscuotere un grandissimo successo di pubblico, come Paola racconta
alla madre in una lettera del 13 maggio 1931:
Qui il mio Monte ha gran successo. Tutti ne parlano, alla Fiera del libro è esaurito,
giovedì a Vita Nuova ne faranno una conferenza, al Teatro Manzoni in Simultanina
di Marinetti ne viene fatta la reclame ed è mostrato al pubblico. Io sono stata per
due giorni mattina e sera dietro il banco di Bompiani alla festa, a vendere e, come ti
ho detto, ho esaurito tutto e anche le poche copie di Decadenza che mi erano
rimaste sono andate. […] Insomma tutti hanno detto che sono stata la trionfatrice
della giornata (sui giornali era scritto: «Paola Masino con il musetto di bimba seria
non stava più nella pelle dalla gioia di vendere il suo primo libro»). Ti raccomando
il musetto di bimba seria. Ma insomma quello che mi fa piacere è che nella sola
Milano (perché nelle altre città non è ancora distribuito) in quattro giorni se ne
sono andate via circa 500 copie.92
Monte Ignoso si aggiudicherà la medaglia d’oro del premio Viareggio durante la
movimentata edizione del 1932:93 lo scrittore Lorenzo Viani, già vincitore del
premio l’anno precedente con l’opera Ritorno alla patria, rivendica il
riconoscimento per il suo Il figlio del pastore e minaccia di chiamare in sala
alcuni marinai per picchiare tutti i presenti. Lo scrittore verrà arrestato e
scarcerato solo dopo aver promesso di astenersi da qualsiasi atto di violenza.94
La vittoria del Viareggio non impedirà a Carlo Emilio Gadda di stroncare
Monte Ignoso su «Solaria» nel 1931. Nelle righe iniziali dell’articolo Gadda
esprime il desiderio di «serbare un cavalleresco silenzio» in merito a Decadenza
90
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 69.
91
Ibid.
92
L’uso del corsivo è originale. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 46-47.
93
Ivi, p. 47.
94
Ivi, p. 48.
24 della morte, considerata la giovanissima età dell’autrice.95 Non potrà fare
altrettanto per Monte Ignoso, romanzo caratterizzato dai «gravi infortuni ai quali
la scrittrice è andata incontro, con intrepidezza da lasciare intontita la gente».96 I
personaggi sono astratti e lo stile è inadeguato a causa delle «gravi differenze
tonali, dal biblico-tarocchistico alla sciatteria piccolo-borghese».97 Il recensore
prosegue
sottolineando
un’«Ossessione
del
particolare:
e
non
sempre
giustificata»98 e «Talora un decadere del tono a piattezza e a rinuncia».99
Il romanzo non convince nemmeno Giuseppe Antonio Borgese, il quale, in
una recensione pubblicata sul «Corriere della sera» il 10 luglio 1931, dichiara di
apprezzare il tema affrontato, per notare poi l’inesperienza stilistica della Masino:
«Paola Masino è proprio al primo volo, ai primi voli; ma sono voli d’Icaro».100
Successivamente aggiunge:
Io non riesco a vedere che tre sventure, tre destini, madre padre figlia, delitto follia
espiazione, un triangolo, una piramide dentro un abisso, un allacciamento funesto.
Questo si vede.
Se Paola Masino, già così fortemente espressiva, sapesse trattenere il suo sogno
dentro la gravitazione del mondo, misurare l’irreale al reale, disporre la sua fantasia
dentro le coordinate che danno ritmo alla vita, anzi sono la vita esse stesse, sarebbe
già una scrittrice potente, una tragica. Invece troppo spesso decolla, perde peso e
contatto, svapora, erra, finalmente sfuma. Può somigliare, se si vuole, a un
colombo viaggiatore, bravissimo nel volare, ma che non trova più la via del
ritorno.101
95
CARLO EMILIO GADDA, Monte Ignoso, in «Solaria», 1931, p. 61.
Ibid.
97
Ivi, p. 62.
98
Ivi, p. 63.
99
Ibid.
100
GIUSEPPE ANTONIO BORGESE, Monte Ignoso, in «Corriere della sera», 10 luglio 1931 (in APM,
serie Ritagli Stampa, Recensioni).
101
Ibid.
96
25 I giudizi negativi ricevuti non scoraggiano Paola: nel 1932 inizia la stesura del suo
secondo romanzo, Periferia.102 L’opera affronta il tema delicato della violenza
domestica e sui minori sullo sfondo del quartiere Caprera, dove l’autrice aveva
vissuto fino a quattordici anni.103 L’opera verrà pubblicata nel 1933 presso
Bompiani, aggiudicandosi il secondo posto al premio Viareggio.104 Come era
avvenuto per Monte Ignoso, anche Periferia andrà incontro a una pesante
stroncatura, questa volta da parte di Leandro Gellona sulla «Provincia di Vercelli»
il 29 agosto del 1933. Fin dalle righe iniziali, Gellona ricorre a toni molto forti e si
dimostra molto severo nei confronti della scrittrice: «non troviamo strano che il
premio Viareggio sia toccato ad Achille Campanile e qualche briciola sia andata a
finire nelle piccolette, odorose mani della Masino».105 È chiaro, secondo lui, come
non si debba fare troppo affidamento sulle scelte della Giuria del premio
Viareggio, ma, piuttosto, «diffidare dei libri vincitori dei concorsi letterari».106
Periferia è un romanzo del tutto «condannevole», privo di qualsiasi conoscenza
della psicologia infantile e femminile. L’autrice non descrive la realtà come vuole
far credere, perché i bambini protagonisti si dimostrano più adulti degli adulti
stessi e, di conseguenza, sono poco credibili. Gellona condivide l’opinione già
espressa da Vittorio Sella in un articolo pubblicato sulla «Scure» il 20 agosto del
1933,107 secondo cui Paola non è stata in grado di «immaginare un bimbo che sia
102
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 45.
103
Ivi, p. 71.
104
Ivi, p. 45.
105
LEANDRO GELLONA, Da un romanzo sballato e premiato ai vari angoli morti letterari, in «La
provincia di Vercelli», 29 agosto 1933 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni).
106
Ibid.
107
VITTORIO SELLA, In margine al Premio letterario Viareggio, in «La Scure», 20 agosto 1933 (in
APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni).
26 veramente bimbo, né un genitore che sia veramente genitore e tanto meno una
madre quale quella che noi tutti abbiamo avuto ed amato e venerato».108
Non descrive la realtà, perché nel romanzo è assente un qualsiasi accenno
all’educazione fascista:
Noi, fascisti ed italiani di Mussolini, non possiamo e non vogliamo comprendere
altra letteratura che quella che è e può essere di incitamento al nostro popolo, sia
esaltandone le virtù, sia colpendone i vizi per correggerli.
Di romanzi cosidetti italiani adattabili ai panni di qualsiasi popolo ne abbiamo fin
sopra i capelli.
Ci fanno nausea.
La letteratura nazionale si crea ispirandosi alla propria nazione non alle vane e
false fantasie del freddo intellettualismo.109
Mussolini, dopo aver letto la recensione citata, invierà al prefetto di Vercelli un
telegramma dove si congratula con Gellona per le parole usate nei confronti della
Masino.110 D’ora in poi avrà inizio un controllo serrato da parte del regime delle
azioni e delle opere di Paola.111
Guido Piovene non era della stessa opinione di Gellona quando, in una
recensione pubblicata sull’«Ambrosiano» il 30 maggio del 1933, aveva
sottolineato quanto «Paola Masino <fosse> indubbiamente una scrittrice».112
Secondo Piovene, Periferia, frutto di una maturazione letteraria dell’autrice,
sarebbe un’opera qualitativamente superiore a Monte Ignoso e a Decadenza della
morte. Per il critico la maschera rappresenta una presenza costante nel testo.
L’immagine del gioco dei bambini, infatti, è un’autentica «mascherata di passioni
108
LEANDRO GELLONA, Da un romanzo sballato e premiato ai vari angoli morti letterari, cit.
Ibid.
110
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 45.
111
Ibid.
112
GUIDO PIOVENE, Periferia, in «L’Ambrosiano», 30 maggio 1933 (in APM, serie Ritagli
Stampa, Recensioni).
109
27 umane» e costituisce un elemento estremamente affascinante: «Questi bambini
sono un’atmosfera. Un’atmosfera in cui si disegnano, erranti, istinti e passioni
come apparizioni fantastiche in un mar di nebbia».113
Un «mar di nebbia» avvolge le passioni e gli istinti da sempre protagonisti
della scrittura masiniana. Il risultato è una serie di immagini pittoriche, necessarie
a sottolineare il costante rapporto tra fantasia e realtà. Sembra quasi di osservare
un quadro contraddistinto dall’elemento della maschera: «Periferia è un libro di
maschere e di pitture: tanto più efficace, quanto più dà nel quadro, e mostra la
passione tutta fissata in un gesto».114
Piovene indica la presenza di un tema principale e ricorrente nella narrativa
di Paola: il legame indissolubile tra realtà concreta ed immaginazione.
Dopo la pubblicazione di Periferia, negli ultimi mesi del 1933 avrà inizio la
stesura di un terzo romanzo, Poi Giovanni. Si tratta di una
sintesi emblematica dell’iter formativo del protagonista, che all’inizio della
narrazione si chiama Graziano, ma che nel finale mai scritto sarebbe dovuto
diventare Giovanni, attraverso un passaggio tra personalità e relativi nomi propri
che avrebbero portato alla sua trasformazione da romantico sognatore a uomo
«qualunque».115
Paola scriverà soltanto il primo capitolo del romanzo.116
Gli anni trenta non si rivelano fondamentali soltanto sul piano professionale
e sentimentale. L’autrice ha la possibilità di conoscere diversi profili di
intellettuali, tra cui la scrittrice Ada Negri. Per quanto la Masino apprezzi fin da
113
Ibid.
Ibid.
115
GIAMILA YEHYA, Tra sogno e scrittura. Poi Giovanni, romanzo incompiuto di Paola Masino,
in «Avanguardia», n. 17, 2001, p. 134.
116
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 45.
114
28 subito la figura in quanto donna, non riesce a comprendere e a condividerne lo
stile poetico: «in quanto ad Ada Negri penso proprio come te e la sua poesia non
mi piace affatto».117 Ada si dimostra «molto affabile, <la> chiama Paola ed è
curiosa di leggere il <suo> romanzo».118 Non ha lo stesso rapporto contrastato con
il regime di Paola: la lodigiana nel 1931 vince il premio Mussolini e sarà l’unica
donna a far parte dell’Accademia d’Italia.119 I premi Mussolini erano stati istituiti
nel 1930 presso l’Accademia stessa e i fondi erano una donazione di Aldo, Mario
e Vittorio Crespi, proprietari del quotidiano «Corriere della Sera».120 Le migliori
scoperte, invenzioni o opere scientifiche, artistiche o letterarie si aggiudicavano il
premio costituito da un assegno di cinquantamila lire. Quattro commissioni
giudicatrici, nominate direttamente dall’Accademia, ne valutavano nel campo
delle discipline morali e storiche, della letteratura, dell’arte e delle scienze fisiche
matematiche e naturali.121
Ada stima il lavoro di Paola: in una cartolina inviatale da Pavia il 31 agosto
del 1931, si congratula con lei per la vittoria del Viareggio con Monte Ignoso, un
«libro di molta forza».122 In una lettera del 9 giugno 1933, dopo aver ringraziato la
Masino e Bontempelli per una copia di Periferia ricevuta in dono, sottolinea gli
elementi apprezzati nel romanzo:
117
Lettera alla madre del 13 maggio del 1931. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 46.
Lettera alla madre datata 1 maggio 1931. Ibid.
119
Ibid.
120
GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta,
Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 169.
121
Ibid.
122
In una cartolina, raffigurante il ponte coperto sul Ticino, Ada scrive:
«Gentilissima, congratulazioni infinite per la Medaglia d’oro di Viareggio. “Monte Ignoso” è libro
di molta forza. Sarà contenta del successo, non è vero? Augurii a Lei e all’amico illustre.
Sua devota
Ada Negri
Pavia, 31-8-’31.» ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Pavia, 31 agosto 1931 (in APM, serie
Corrispondenza, Corrispondenza indirizzata a Paola Masino).
118
29 Milano, Viale dei Mille 7.
9-6-XI123
Cara Paola
Dove siete, ch’io possa scrivervi – con sicurezza di recapito – per
dirvi grazie del vostro dono? “Periferia” è uno strano e bellissimo libro,
pieno di sangue forte. I piccoli selvaggi di Piazza Pannosa ci vivono come se
fossero nel deserto; e tolto l’amore di Romana e di Dich, non hanno nessuno.
Questo è il paradosso, ma anche l’originalità e la vitalità del libro. Scuole,
famiglia: niente. (O peggio di niente) Fra essi quella che amo di più è Lisa: il
capitolo della scoperta del mare e dell’oscura gelosia di Fran pel mare è fra
le pagine indimenticabili del volume.
(E tutte le note sulle stagioni)
Quanto alla tragedia della pubertà, non credo che Voi abbiate letto Stella
mattutina: ebbene, la stessa tragedia è veduta cogli stessi occhi: con la stessa
dolorosa ribellione: come un marchio e una condanna.
L’anarchia selvaggia di Lena mi ha fatto pensare a Zola.
Addio, cara Paola. Il vostro romanzo farà gran rumore. Abbiate il
mio augurio. Sono sempre in gran dolore per lo stato della vostra Delia: se si
domanda di lei al telefono, rispondono: Condizioni immutate. Vederla non si
può. E io soffro di non potere far nulla per lei. La penso notte e giorno. So
che voi pure l’amate tanto. Ricordatemi a Massimo. Vostra
Ada Negri
P.S. Una delle creature più originali, più
liriche del vostro romanzo è «Cleopatra»
che non esiste se non nel sogno.124
Ada è entusiasta del romanzo appena letto: è un romanzo originale destinato a
ritagliarsi uno spazio significativo nel panorama letterario. La Negri coglie la
malinconia dei protagonisti del romanzo, privi di un futuro. Periferia, inoltre,
utilizza le stesse modalità di espressione di Stella mattutina nel trattare la
«tragedia della pubertà». Ada esprime un vivo apprezzamento anche per la
raccolta Racconto grosso e altri, scritta tra il 1936 e il 1938 e pubblicata presso
Bompiani nel 1941.125 Nelle sue lettere non si limita a complimentarsi con l’amica
per i risultati ottenuti nel campo letterario, ma argomenta in modo minuzioso e
123
Si tratta della numerazione fascista e indica un periodo compreso tra il 29 ottobre del 1932 e il
28 ottobre del 1933.
124
ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Milano, 9 giugno 1933 (in APM, serie Corrispondenza,
Corrispondenza indirizzata a Paola Masino). Non è possibile ricostruire l’identità di Delia e il
riferimento fatto a tal proposito da Ada Negri.
125
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., pp. 48-49.
30 particolareggiato il suo giudizio positivo. Racconto grosso e altri, secondo la
Negri, racchiude tutte le peculiarità della scrittura masiniana:
Milano, Viale dei Mille, 7
Fine del 1941. XX.
Cara Paola,
ti sono molto grata d’avermi mandati i tuoi Racconti. Li ho letti
adagio e con intensità, nelle ore libere. Vi sei dentro tutta, carne sangue
anima. Tutta Paola: cioè, una creatura primordiale non ancor liberata dagli
elementi e dalle loro forze cosmiche; ma, nel medesimo tempo, terribilmente
ventesimo secolo. La madre di Caino e l’amica di Regolo (ah, quel delizioso
Regolo) che guida la sua Andromeda da Roma a Firenze. Insomma,
un’inquietante, interessantissima Paola. Buona fortuna al tuo libro, a te, a
Massimo.
Affettuosamente
Ada
P.S. Ricordi quando, anni fa, in una casa di Roma, cercavi di spiegarmi le
ragioni del tuo lungo silenzio in arte, dopo Periferia? _ Vedi? Si ritorna. E tu
ritorni con energie centuplicate, in groppa ad Apollo.126
Nel post scriptum Ada allude al «lungo silenzio in arte» di Paola. Tra la
pubblicazione di Periferia e di Racconto grosso e altri sono passati ben sette anni
e la Masino inizia a percepire una certa difficoltà nella scrittura. Dopo i successi
raggiunti nel giro di un paio di anni, non è abituata a questa nuova condizione e
inizia a nutrire un po’ di timore. Nell’estate del 1935 sente l’esigenza di sfogare
tanta inquietudine in Appunti 2:
Sono tre anni che mi sto perdendo con inesorabile crudeltà contro me stessa. Mi
diverto, perfino, della mia pena. Soffro perché mi piace soffrire e, se mi accuso, –
come sto facendo ora – mi piace accusarmi. Il lavoro mi è sempre stato fatica;
perciò lavoro appena quando non ne posso fare a meno: proprio una necessità
violenta corporale.127
126
ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Milano, fine del 1941 (in APM, serie Corrispondenza,
Corrispondenza indirizzata a Paola Masino).
127
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 15-16.
31 Il successo e i riconoscimenti finora ottenuti non servono a placare il timore. È
come se nel suo animo qualcosa iniziasse a sgretolarsi e fosse uno dei primi
segnali della mancanza d’ispirazione degli anni cinquanta, fedele compagna di un
sofferto e graduale percorso verso l’oblio.
32 I.2. «Venezia […] appena l’ho vista non mi ha fatto nessuna
impressione»:128 un tormentato soggiorno veneziano.
Il 1938 sarà un anno ricco di cambiamenti per Paola. Massimo da tempo
non si riconosce nei principi propagandati dal regime ed esprime pubblicamente il
proprio dissenso: per lui la guerra è un «capofitto nel massacro»129 e durante la
commemorazione di d’Annunzio si dimostra molto critico nei confronti del
regime.130 Non è la prima volta che dichiara la propria contraddittorietà dinanzi
alle volte del fascismo: già nel 1936, in un articolo pubblicato sulla «Gazzetta del
popolo» aveva condannato l’arte politicizzata e nel 1938, sullo stesso giornale,
aveva dichiarato la propria opposizione alla proposta di istituzione di un albo
nazionale dei critici.131 Per lui il fascismo rappresenta soltanto una «coltivata
barbarie».132
Eppure lo scrittore non si accorge fin da subito della negatività del regime.
Tra il 1927 e il 1928 ricopre la carica di segretario nazionale del sindacato fascista
autori e scrittori.133 Il 23 ottobre del 1930 viene nominato Accademico d’Italia.134
Giuseppe Carlo Marino, nell’opera L’autarchia della cultura, osserva come
Le vicende dell’Accademia d’Italia […] mostrano […] il profilo specifico di
un’esperienza nel corso della quale lo squallore dell’abdicazione della ragione
critica fu anche il fastoso rito di un servizio al potere, un servizio remunerato come
128
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Un autoritratto in movimento. Le scritture
autonarrative di Paola Masino, in «Avanguardia», n. 43, 2010, p. 6.
129
PAOLO DI STEFANO, Paola. L’avventura del ‘900, in «Corriere della Sera», 30 marzo 1995.
130
MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, in PAOLA MASINO, Colloquio di notte. Racconti,
Palermo, La Luna, 1994, p. 18.
131
Ibid.
132
Ibid.
133
MARINELLA FERRAROTTO, L’accademia d’Italia. Intellettuali e potere durante il fascismo,
Napoli, Liguori Editore, 1977, p. 135.
134
Ibid.
33 mai era prima accaduto nel passato piuttosto quaresimale degli intellettuali
italiani.135
L’Accademia d’Italia e la sua organizzazione costituiscono il chiaro esempio della
profonda dipendenza della cultura dal potere. Il presidente dell’Accademia veniva
scelto direttamente dal capo del governo e successivamente, una volta nominato,
doveva prestare giuramento di fedeltà fascista. Ogni istituzione culturale del
tempo risulta dipendente dal regime. Avviene, così, una dequalificazione della
cultura: spesso entrano a far parte delle accademie personaggi culturalmente poco
illustri ma raccomandati da esponenti di spicco del regime.
all’accademia
segna
l’inizio
di
una
«specifica
136
“carriera”
L’ingresso
regolata
burocraticamente» e implica numerosi vantaggi.137
In questo panorama di generale consenso, si alza la voce di Massimo
Bontempelli, ormai insofferente di questo diffuso costume degli intellettuali
animati dalla «“vasta mania” del tempo, “una cosa orrenda, che si chiama diventar
ricchi”».138 Bottai, fondatore nel 1923 della rivista «Critica fascista»139 e di
«Primato» nel 1940,140 a cui collaborava lo stesso Bontempelli,141 definisce la
polemica sollevata da quest’ultimo come la conseguenza di un «misurato e
ragionevole pessimismo».142
Nel 1938 Massimo rifiuta di ricoprire la cattedra di Letteratura italiana
all’Università di Firenze, tolta ad Attilio Momigliano perché colpito dalle leggi
135
GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura, cit., p. 10.
Ivi, p. 170.
137
Ivi, p. 173.
138
Ivi, pp. 10-11.
139
ALEXANDER J. DE GRAND, Bottai e la cultura fascista, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 42.
140
Ivi, p. 273.
141
Ivi, p. 276.
142
GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura, cit., p. 11.
136
34 razziali.143 Il regime non è più disposto a tollerare ulteriori affronti da parte di
Bontempelli: gli verrà ritirata la tessera di partito e per più di un anno sarà sospeso
da ogni attività professionale.144 Inoltre dovrà immediatamente abbandonare
Roma. La scelta della città dove trascorrere l’esilio non viene imposta dal regime.
Paola vorrebbe andare a Firenze, così da essere vicina all’amata Roma, ma è la
città dove Massimo ha vissuto con la moglie: dovranno, perciò, andare a vivere a
Venezia.145
Non è la prima volta che Paola si reca nel capoluogo lagunare: il padre
l’aveva già condotta nella città quando aveva sedici anni.146 La ragazza rimane
affascinata dalla «Venezia interna che <le> è piaciuta immensamente e che <le>
ha fatto pensare su cose non mai imaginate», mentre non può apprezzare la
Venezia di San Marco «perché <le> è terribilmente antipatica».147
Dopo quattordici anni ritorna negli stessi luoghi assieme al suo amato
Massimo. Per alcuni mesi la coppia soggiornerà nella pensione Calcina alle
Zattere dove aveva dimorato Ruskin durante il periodo di stesura delle Pietre di
Venezia.148 Successivamente si trasferiscono a Palazzo Contarini delle Figure, sul
Canal Grande, a San Samuele 3327 e ubicato nei pressi del Conservatorio
“Benedetto Marcello”.149 Vi rimarranno fino al 1950.
La Masino e Bontempelli non rinunciano alla compagnia dei più
significativi personaggi del panorama culturale dell’epoca. Oltre a Goffredo
143
MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, cit., p. 18.
Ibid.
145
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 22.
146
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Un autoritratto in movimento, cit., p. 6.
147
Ibid.
148
NICOLÒ MENNITI-IPPOLITO, Quanta frenesia culturale nella Venezia di Bontempelli, in «Il
Mattino di Padova», 14 aprile 1995 (in APM, serie Ritagli Stampa, Episodica e generale).
149
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 22.
144
35 Petrassi le stanze del palazzo veneziano ospitano intellettuali del calibro di Victor
De Sabata, Arturo Martini, Filippo De Pisis, Corrado Alvaro, Gianfrancesco
Malipiero e Anna Maria Ortese.
Quest’ultima risiederà nel palazzo assieme alla coppia nel 1939. Nel 1936
Paola aveva già potuto apprezzare lo stile del racconto ortesiano Angelici dolori,
uscito nell’ultimo numero della rivista «L’Italia letteraria», anche se conoscerà
Anna Maria soltanto un anno dopo. Nel 1937 le due scrittrici si incontrano per la
prima volta in occasione della Fiera del Libro a Roma,150 dando così inizio ad una
profonda amicizia caratterizzata da una fitta corrispondenza epistolare.151
Successivamente, sempre nel 1937, la Ortese farà visita alla coppia nella loro
abitazione romana situata in corso Trieste.152
Le due scrittrici hanno molto in comune: condividono la passione per la
musica153 e per le opere di Shakespeare.154 La Ortese sente fin dal primo istante di
poter essere sincera con l’amica: il 25 giugno del 1937 esprime chiaramente il suo
parere sui romanzi masiniani Monte Ignoso e Periferia:
Cara Signora,
mi scusi se Le scrivo con ritardo. I Suoi libri, Monte Ignoso e
Periferia, mi hanno fatto una profonda impressione. Ma poiché Lei vuole
ch’io Le dica la verità, Le dirò che Monte Ignoso mi ha fatto in alcuni punti
orrore (non so: spavento, tristezza) e Periferia (che mi pare infinitamente più
alto) mi ha ripetuto la tristezza di Monte Ignoso. Io non sono un critico né
una persona che sappia, in tali casi, sbrogliarsela: le mie impressioni sono
quelle della lettrice.
150
ANNA MARIA ORTESE, Ricordo la voce dei suoi libri, in «L’Europeo», 13 aprile 1994, p. 81 ora
in EAD., Da Moby Dick all’Orsa Bianca, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p. 124.
151
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 84.
152
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, in FRANCESCO DE
NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Convegno di studi su Anna Maria Ortese. Rapallo,
sabato 16 maggio 1998, Genova, Sagep, 1999, p. 50.
153
LUCIA STANZIANO, Anna Maria Ortese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia, in «La
Capitanata. Rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia», n. 10, 2006, p. 46.
154
Ivi, p. 47.
36 In Monte Ignoso ho trovato una viva forza drammatica, insieme a un
colore aspro, intenso, atroce, che rivela disinvoltura, e sprezzo della
letteratura (quasi, con questo sprezzo, tenda a raggiungere una più intima e
vera letteratura).
Chi mi piace è Barbara. Giovanni è più umano di Emma. Emma non mi
ispira mai pietà: le scene che più mi hanno colpita son quelle del collegio, e
specialmente là dove il padre chiude la porta della stanza dove Barbara
muore. Sono cose di una verità acutissima, che fa un immenso piacere.
Anche la morte di Emma è stupendamente descritta, ma fa orrore.
Signora, io spero che Lei accetti volentieri questa lettera di sincere
opinioni.155
Anna Maria stimava e, allo stesso tempo, provava invidia per Paola, che appariva
ai suoi occhi come una donna realizzata sul piano professionale e sentimentale.
Desiderava essere come lei e per questo nutriva nei suoi confronti un irrimediabile
senso di inferiorità.156 La solitudine la spinge ad aprirsi con «una donna che,
invece, sola non <è>, ma che forse, al pari di lei, <è> attenta al dolore, al male di
vivere».157 È come se «La sua immagine risult<asse> opaca e solitaria, di contro
allo sfavillio ed alla notorietà della Masino, che, per altro, non fu mai né
sfavillante né troppo nota come si sa».158
L’urgenza di poter soddisfare le proprie necessità quotidiane e la
frustrazione dovuta all’incapacità di portare a termine un certo numero di scritti,
sono la causa per Anna Maria di perdita di autostima.159
Massimo, impressionato dal gusto letterario espresso da questa giovane
scrittrice, aiuterà la Ortese nella sua affermazione letteraria incoraggiando la
pubblicazione della sua opera di esordio Angelici dolori. Si tratta di un volume dal
«fascino dello stile naturale», come lo stesso Bontempelli sottolineerà in una
155
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 49.
156
FRANCESCO DE NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Convegno di studi su Anna Maria
Ortese, cit., p. 65.
157
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50.
158
Ivi, p. 52.
159
Ivi, p. 53.
37 lettera del 18 novembre 1936 all’editore Valentino Bompiani.160 L’opera aveva
sorpreso e stuzzicato l’attenzione di Massimo, il quale non aveva risparmiato le
sue lodi a riguardo nemmeno in un pomposo evento come la seduta reale
dell’Accademia d’Italia di cui faceva parte e dove aveva sentito l’esigenza di
discutere a proposito di un’opera dalla «rara potenza di creazione fantastica, un
istinto sicuro di espressione, un senso religioso delle realtà quotidiane, che per
virtù di poesia appaiono ivi continuamente trasfigurate in luce di bellezza».161
Alla fine Angelici dolori viene pubblicato nel 1937 in una collana
dell’editore Bompiani, inaugurata nel 1930 dal romanzo bontempelliano Vita e
morte di Adria e dei suoi figli e impreziosita nel 1931 dalla pubblicazione di
Monte Ignoso di Paola Masino. Anna Maria non solo aveva avuto così
l’opportunità di conoscere per la prima volta il panorama letterario dell’epoca, ma
allo stesso tempo aveva conosciuto il significato della vera amicizia.
Paola e Massimo, infatti, non si limitano ad ospitare Anna Maria nella loro
casa nella splendida città lagunare, ma consci delle reali necessità di Anna Maria
cercano di soddisfarle in tutti i modi. Si dimostrano attenti a cogliere quello che si
presenta come «quasi un appello, una richiesta di aiuto, di amicizia sincera, di
solidarietà, da parte di una donna sola, nella vita ma soprattutto nell’animo».162
Per questo motivo la introducono nel loro salotto veneziano, fiduciosi nella
possibilità per l’amica di fare nuove e fruttuose conoscenze. Grazie alla Masino la
Ortese nel 1938 inizierà a lavorare per «Il Gazzettino».163 Nel 1943 scriverà per
160
GABRIELLA D’INA, GIUSEPPE ZACCARIA (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore,
Milano, Bompiani, 1988, p. 339.
161
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50.
162
Ibid.
163
LUCIA STANZIANO, Anna Maria Ortese e Paola Masino, cit., p. 46.
38 «Domus»,164 rivista d’architettura di cui Massimo è condirettore165 e dove Paola
tra il gennaio del 1941 e il novembre del 1942 aveva pubblicato i suoi diciotto
Dialoghi della vita armonica.166 Si trattava di una rubrica dove ogni mese la
scrittrice affrontava un tema instaurando un dialogo con un folletto, Apud.167 Non
è possibile stabilire se quest’ultimo «sia uomo o donna».168 L’unica cosa sicura è
che «veste ogni giorno di colore differente e cambia voce con il cambiar delle ore,
e cammina in opposti modi nel giorno e nella notte».169
Nonostante la loro amicizia personale, la convivenza tra Paola e Anna Maria
non sarà per nulla facile, soprattutto a causa delle particolari abitudini della Ortese
stessa. Paola a proposito di ciò scrive ai genitori:
Non fa che dormire, ha una paura morbosa di ogni rumore, la notte ci obbliga a
stare alzati fino alle 3 o alle 4 perché se non ci sente muovere e non vede la luce
attraverso la sua porta è presa da un terrore così gagliardo che cade in una specie di
catalessi: le poche ore che le rimangono libere dal sonno e dagli incubi le passa al
bagno. Da otto giorni che è qui non ha ancora detto che questo: che vuol trovarsi
un impiego; e non siamo riusciti che a trascinarla una volta fino in piazza S. Marco
dove però si è rifiutata di guardare il palazzo ducale perché dice che non la
interessa.170
Nelle righe successive aggiunge: «Oggi ho una gran sonno perché per non fare
morire di paura l’Ortese ho dovuto rimanere alzata fino alle 4 a suonarle dischi
perché non poteva addormentarsi per paura dei morti».171
164
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 105.
Ivi, p. 94.
166
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 50.
167
MARIA VITTORIA VITTORI, Case, cit., p. 14.
168
Ivi, p. 21.
169
Ibid.
170
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 84.
171
Ivi, p. 86.
165
39 Paola, tuttavia, apprezza il lavoro della Ortese, stimandone soprattutto lo
stile. Già in una lettera del 12 settembre 1936 consiglia al padre Enrico la lettura
di Angelici dolori.172 Quasi vent’anni dopo augurerà all’amica la vittoria
dell’edizione del 1953 del Premio Viareggio con il suo Mare non bagna Napoli:
Sto leggendo a ruota, uno dietro l’altro, i libri del premio Viareggio. Ma non ne
trovo alcuno che mi entusiasmi. Il migliore mi sembra ancora quello della Ortese.
La quale continua a supplicarmi di farle avere dal sindacato un po’ di denaro e io
me ne occupo volentieri. Sarei contenta vincesse almeno una parte del premio
Viareggio perché mi pare proprio che se lo meriti.173
Paola e Massimo ospiteranno per circa un mese la Ortese a Palazzo Contarini e
per quest’ultima si tratterà di «un periodo […] molto importante».174 In seguito si
rivedranno una volta sola prima dello scoppio della seconda guerra mondiale per
poi perdersi completamente di vista. Anna Maria Ortese descrive con parole molto
affettuose l’amica Paola:
Lei fu spesso straordinariamente buona e generosa con me. Mi venne incontro in
circostanze molto difficili. C’era sempre una certa polemica – su tutto – fra noi, ma
io la stimavo, era la personalità più forte e affascinante che avessi mai
incontrato.175
L’amicizia tra Anna Maria e Paola prosegue, nonostante alcune interruzioni, fino
al 1975, anno del trasferimento in Liguria della Ortese. In seguito le due scrittrici
non si frequenteranno più e non rimarranno neppure in contatto a causa di un
«contrasto», come racconta la stessa Ortese:
172
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50.
Lettera alla madre del 6 agosto 1953. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 153.
174
ANNA MARIA ORTESE, Ricordo la voce dei suoi libri, cit., p. 124.
175
Ivi, p. 125.
173
40 Penso che anche Paola – a parte un ultimo infelice contrasto in cui il torto era tutto
mio – mi stimasse e forse mi volesse bene. E mi dispiace di essere stata io, con il
mio cattivo carattere, la causa di questa divisione; e dopo, tentai inutilmente una
pacificazione. Lei non volle più, e credo di aver meritato il suo distacco.176
E aggiunge:
la ricordo […] esattamente come una persona della mia famiglia. […] Peccato che
le polemiche ci dividessero così spesso. Ricordo la «voce» dei suoi libri, più che i
libri: è una voce straordinariamente giovane, fervida, viva; e soprattutto
coraggiosa. Una voce di oggi, non di ieri.177
Paola apprezza molto il lavoro di Anna Maria, la quale ricambia tanta stima e in
un articolo pubblicato sull’«Europeo» nel 1994 ha modo di dichiarare:
Penso che dei suoi libri rimarranno alcune cose fra tante: la stravaganza del
discorso, l’ardire (così raro, ieri), e soprattutto una malinconia di fondo, quasi
invisibile, come una nebbiolina. Propria di chi è nato in cima alla vita, e vede anche
quel che gli altri non vedono, che sfugge all’occhio comune.178
La convivenza movimentata con la Ortese distoglie solo per un attimo la Masino
dalla profonda insofferenza del suo soggiorno veneziano. Inizialmente
l’allontanamento da Roma costituisce un evento positivo per l’autrice, perché
«appena via da Roma tutto <le> sembra placato e la vita più semplice e seria».179
In seguito nasceranno i primi problemi nell’allestimento di una nuova casa, e
questi, confiderà Paola alla sorella Valeria in una lettera del 3 dicembre 1938,
saranno i primi segnali di un rapporto difficile e tormentato con l’ambiente
lagunare: «Come vedi, aumentano le dimensioni della mia casa e gli affanni in
176
Ibid.
L’uso del corsivo è originale. Ibid.
178
L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 126.
179
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 80.
177
41 proporzione. Non sarò mai, no, non sarò una massaia felice. Sarò il Lucifero delle
massaie, sarò il popolo ebreo nel mondo delle “casalinghe”».180
La vita a Venezia non offre molte possibilità di svago e la noia e il freddo
dell’abitazione assillano costantemente l’autrice. Quest’ultima cerca di impiegare
il tempo studiando personaggi veneziani a lei sconosciuti, come Giacomo
Casanova, ma ne rimane totalmente indifferente:
ho leggiucchiato qua e là le avventure di Giacomo Casanova che non conoscevo. E
dopo un accurato esame mi sono accorta che il famoso seduttore non ha sedotto che
cameriere, donne pubbliche, attricette. Ogni volta che racconta di un’avventura con
una signora, risulta che per una ragione o per un’altra non l’ha portata a termine.
Cosa per cui non mi spiego tanta fama di conquistatore.181
Venezia non si rivela la città ideale per scrivere. Nell’ambiente lagunare non trova
la serenità necessaria per dedicarsi al lavoro letterario:
Il mio lavoro, con questo stato d’animo, non è possibile che fiorisca. Ora tempo ne
avrei, ma vivo troppo sotto l’incubo di quello che accade nell’appartamento di
servizio.[…] Io non mi sento l’animo del sorvegliante, né quello della padrona che
chiacchiera con la serva.182 La gestione della casa diventa nel tempo un pensiero ossessivo. Scrive alla madre
nell’agosto del 1939: «Cara mamma, ti avverto che per la prima volta in vita mia
mi accade di trovare la mia casa pulita. […] Se guarissi della mania della casa
davvero sarei la donna più felice del mondo».183
180
Ivi, p. 81.
Ivi, p. 82.
182
Ivi, pp. 82-83.
183
Ivi, p. 89.
181
42 Paola, tuttavia, partecipa a diversi incontri culturali dell’ambiente
veneziano: la coppia al Lido di Venezia segue le proiezioni in gara al Festival del
Cinema e Massimo, grande appassionato di musica, frequenta come uditore il
corso di Alto perfezionamento di Composizione tenuto da Gianfrancesco
Malipiero a Venezia. Malipiero era un noto compositore veneziano molto vicino
alla Masino, a Bontempelli e allo stesso Pirandello, del quale aveva musicato nel
1934 la sua Favola del figlio cambiato.184 Non è l’unico compositore a
frequentare Palazzo Contarini: Goffredo Petrassi, compositore, direttore
d’orchestra e sovrintendente dal 1937 al 1940 del Teatro La Fenice di Venezia, e
il compositore Nino Sonzogno fanno visita spesso alla coppia.185
La paura della scrittrice di non riuscire a lavorare si rivelerà completamente
infondata. Continuerà la stesura del romanzo Nascita e morte della massaia,
iniziato nel 1937, nella sua stanza affacciata sulla Giudecca.186 L’opera è pronta
nel gennaio del 1940.187 Si tratta del suo romanzo più importante, ma anche il più
discusso e censurato dal regime che lo giudica un testo cinico e sovversivo.
L’opera si opporrebbe all’immagine della donna-angelo del focolare e madre
prolifica al servizio della nazione tanto propagandata dal fascismo. La massaia, la
protagonista del romanzo, inizialmente tenta di inserirsi nella società
contemporanea, adeguandosi ai codici di comportamento imposti. Così facendo,
però, si accorge di perdere se stessa.
Secondo Silvana Cirillo Nascita e morte della massaia affronterebbe il tema
del difficile rapporto dell’intellettuale con il suo tempo e rispecchierebbe
184
Ivi, p. 94.
Ibid.
186
Ivi, p. 70.
187
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 49.
185
43 l’incapacità di Paola di vivere serenamente nel proprio ruolo di padrona di casa
durante il soggiorno veneziano.188 Le parole della Cirillo trovano conferma in
quelle pronunciate dalla stessa Masino:
Io ero diventata maniaca delle pulizie. Mostravo una mollica alla cameriera, poi la
nascondevo. Lei doveva trovarla prima di sera, buttando all’aria tutta casa.
Bontempelli disse di scrivere il libro per spiegare la stranezza. Gli dissi. Sarebbe
come psicanalizzarmi. Lui insisté. Io scrissi il romanzo. Avrei dovuto morire
allora, perché non avevo più niente da dire.189
L’insofferenza provata per un ruolo da lei sempre rifiutato non si placherà mai;
alla madre scrive il 10 giugno 1946:
Se non ti scrivo è perché ho molto da fare e la gente non capisce che io abbia molto
da fare. Tutti dicono: «ma se veniamo un momento alle sette che noia vi dà?». E
non capiscono che venire loro un momento alle sette per me vuol dire vestirmi e
rimettere in ordine la casa e interrompere quello che stavo facendo e stancarmi per
una o due ore a sentire discorsi che non m’interessano e vedere facce che non mi
sono gradevoli.190
Nelle righe successive aggiunge: «Più tardi siamo andati in gondola per la laguna
e Ciampi suonava il violino e anche allora tutti dicevano che era molto bello e io
avevo una gran voglia di essere a Roma sulla circolare in mezzo al tanfo e ai
pidocchi ma tra gente viva».191
Il paesaggio veneziano non riesce a distogliere la mente di Paola
dall’immagine dell’amata Roma o di Milano, città in cui l’autrice aveva
sperimentato una serenità ormai completamente scomparsa a Venezia:
188
Cfr. SILVANA CIRILLO, Nei dintorni del surrealismo. Da Alvaro a Zavattini umoristi balordi e
sognatori nella letteratura italiana del Novecento, Roma, Editori riuniti, 2006, pp. 125-126.
189
Ivi, p. 255.
190
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 133.
191
Ibid.
44 Io non faccio che sognare Roma e Milano ma non vedo proprio come si potrà mai
fare a spostare questa casa. […] Cara mamma, che voglia avrei di essere lì a girare
per le piazze e vedere e sentire; qua nessuno si occupa di nulla e trovi gente come
la Luciana che ha votato la monarchia perché non sapeva che scegliere e non le è
nemmeno venuto in mente di non votare o dare la scheda bianca.192
L’ambiente del capoluogo veneto le risulta poco stimolante: è difficile rapportarsi
con le donne del luogo così diverse da lei per idee e ragionamenti:
Questa è la coscienza della maggior parte delle donne italiane. Ne sento un’altra
per la strada che dice: «Io oggi mi sento arrabbiata a casa mia perché ieri mi
avevano detto che votavano tutti per la monarchia. Poi vado a casa e mia mamma
ha votato per la repubblica. A me la repubblica è più simpatica e se me lo diceva
prima che anche lei votava la repubblica io manco me lo sognavo di votare per la
monarchia!». Che vuoi farci? Bisogna pensare che sono tanti anni che questa gente
è disabituata a pensare: il male è che credono di saper pensare e giudicano e
criticano.193
Paola si sente depressa e privata di tutta la sua vitalità: ciò comporta la mancanza
d’ispirazione e un certo distacco dall’arte e dalla letteratura:
Io soffro davvero molto di non essere su un campo di battaglia più vivo di questo.
[…] devo essere un animale inferiore in questo momento, perché aborro dall’arte e
l’idea di scrivere o andare a vedere i capolavori veneti mi fa drizzare i capelli. Sono
così satura di queste cose.194
Gli eventi mondani non sollevano l’animo della Masino, la quale preferisce
chiudere gli occhi e immaginarsi nella mente «qualche posto di Roma o di Milano
dove <le> piacerebbe essere».195 Paola è da sempre amante del mare, ma lo
scenario del Lido non suscita il suo interesse. Sono cupi i toni usati per descrivere
il paesaggio circostante e la gente da lei incontrata abitualmente:
192
Ivi, p. 134.
Ibid.
194
Ivi, p. 135.
195
Ivi, p. 136.
193
45 io ero perfettamente infelice. Il mare caldo, pieno d’alghe, stupido. Il panorama, se
ti volgevi a terra, ancora più caldo, senza un albero, e ancora più stupido con sopra
un cielo opaco, giallastro di calore, l’ignobile costruzione dell’Excelsior e gli
ancora più ignobili reticolati sulla spiaggia. Non parliamo poi della compagnia.
Tutta gente una più vuota dell’altra. A me dopo un quarto d’ora era venuto mal di
testa e una voglia di dar mozzichi a tutti.196
Le immagini di un territorio veneziano degradato accrescono l’insofferenza
avvertita nel suo animo e l’insoddisfazione per quella città aumenta in maniera
inarrestabile. Sono suggestive nella loro negatività le descrizioni fornite:
Venezia è deserta benché tutti dicano che è pienissima: deserti i caffè, deserte le
calli e i restaurants. Il Lido è sempre più brutto, l’Excelsior vuoto e le poche larve
che vi si aggirano sono vecchissime matrone mal vestite. Dove è la grande
mondanità e la grande eleganza di cui parlano i giornali non so.197
La sua visione di Venezia e del Lido contrasta in maniera netta con quella
dell’immaginario collettivo e non muterà nemmeno negli anni cinquanta, anni in
cui la scrittrice non riuscirà ancora ad apprezzare lo splendido panorama lagunare,
ma continuerà ad avvertire una certa carenza d’ispirazione: «il forzato riposo
veneziano forse mi fa bene, ma certo mi istupidisce: non ho più voglia di leggere i
giornali né alcun libro, non ho più idee, desideri, aspirazioni, ambizioni di alcun
genere».198
Nascita e morte della massaia per un certo periodo sembra confutare la
sensazione di una certa mancanza d’ispirazione avvertita in quegli anni da Paola.
Tra l’ottobre del 1941 e il gennaio del 1942 le pagine della rivista «Tempo»,
diretta da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, ospiteranno il romanzo in
196
Ivi, p. 140.
Ivi, p. 144.
198
Lettera alla madre del 18 marzo 1950. Ivi, p. 150.
197
46 quindici puntate settimanali.199 Grazie a questa pubblicazione Paola entra nella
cerchia degli intellettuali di prestigio, anche se, su sua stessa ammissione negli
anni sessanta, lei non se ne era accorta:
occorre crederci davvero, a quell’importanza e a quel privilegio: non vederne
l’ingiustizia, la fallacità, la meschinità. Non vederci, quando ci siamo arrivati, quali
siamo davvero, ma quali quel posto ci fa vedere agli altri. Veder chiaro è sempre
stato il mio difetto; e la mia colpa, dire quel che vedevo.
Quando ci si è dentro, in quella luce, crediamo di muoverci con naturalezza. Ma
non è vero. Inconsciamente ci muoviamo secondo un rituale preciso, con il passo
studiato delle indossatrici di passerella, e anche quando assumiamo la parte di chi
si sente un uomo qualunque, sappiamo di essere qualcuno.200
La pubblicazione su «Tempo», tuttavia, non è stata immediata: Paola ha dovuto
correggere e tagliare episodi ed espressioni giudicate irrispettose nel rigido clima
fascista. In una lettera del 27 gennaio 1941 spiega ai genitori:
Alberto Mondadori ne pare molto soddisfatto ma mi ha rimandato indietro la prima
parte del manoscritto con tante censure «politiche» e io non credo di potergli levare
tutte le frasi che gli sembrano pericolose perché in alcune sta proprio gran parte
dell’importanza del lavoro (se importanza sono riuscita a dargli). Vuol poi che gli
tolga tutte le frasi contro o quasi contro la maternità mentre tutta la Massaia è
imperniata sul fatto che la maternità non è una virtù ma una condanna, almeno
dalla Bibbia in poi. Naturalmente questo, se ognuno si mette a fare il caso
personale e pensare alla propria madre, può dar fastidio, ma io vorrei che si capisse
che la madre qui è presa in blocco, comprese finanche le bestie e dunque soltanto il
fatto materiale che porta con sé i figli e la società, come diminuzione
dell’individualità personale d’ogni creatura: maschio o femmina.201
Nel 1944 il romanzo, depurato di ogni riferimento all’Italia e al fascismo, è pronto
per la pubblicazione, ma un bombardamento distrugge la tipografia Bompiani e
manda in frantumi il progetto di Paola.202 Solo due anni dopo, nel 1946, Nascita e
199
Ivi, p. 113.
Ibid.
201
Ivi, p. 95.
202
SILVANA CIRILLO, Nei dintorni del surrealismo, cit., pp. 126-127.
200
47 morte della massaia uscirà riscuotendo un notevole successo di pubblico.
Nell’articolo Rileggendo Paola Masino pubblicato sul «Bimestre» nel 1970, Anna
Maria Ortese tratterà del romanzo, un’opera
dove la disperazione intellettuale e la chiarezza del linguaggio – un linguaggio
asciutto, preciso, tutto in piedi, senza la minima traccia di tempo – compongono un
quadro estremo: potrà essere letto tranquillamente, e goduto, fra vent’anni, come
qui pochi libri in anticipo, per maturità e intelligenza, sulla generazione cui
appartengono.203
La Ortese sottolinea l’attualità del romanzo e sarà propria per la capacità del testo
di rispecchiare la problematiche di ogni epoca, che verrà ripubblicato nel 1970 da
Bompiani e nel 1982 da La Tartaruga.204 Nel 2009 uscirà per la Isbn Edizioni.
Nonostante il successo riscosso con Nascita e morte della massaia, gli anni
quaranta saranno amari per l’autrice: il 25 ottobre del 1945 muore Enrico Masino,
il padre.205 Da tempo la scrittrice sente avvicinarsi tale momento e prova
un’angoscia profonda:
Uno degli ultimi anni, arrivando io a Roma da Venezia, e lui era già malato, mi
venne incontro sulla porta del corridoio. […] Ogni giorno di più, ogni ora,
aumentava in me l’angoscia di non ritrovarlo al mio ritorno, e quando mi
avvicinavo alla nostra casa chiudevo gli occhi per il timore di vederne il portone
mezzo chiuso. Ritrovarlo era una tal gioia che io non potevo parlare, né fermarmi a
salutare nemmeno, prima d’essermi gettata nelle sue braccia. Quella volta […] Ci
stringemmo così forte, senza parlare, che il petto mi faceva male e sentivo la forma
lunga del suo che mi accoglieva, mi assorbiva, mi faceva posto nel suo cuore
dolente.206
203
ANNA MARIA ORTESE, Rileggendo Paola Masino, in «Il Bimestre», novembre-dicembre 1970,
p. 20 (in APM, serie Ritagli Stampa, Episodica e generale).
204
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 77.
205
Ivi, p. 52.
206
PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., p. 246 ora in EAD., Testi inediti dai Quaderni di Appunti, a
cura di Francesca Bernardini Napoletano, in «Avanguardia», n. 43, 2010, pp. 40-41.
48 La guerra è iniziata, la fame si fa sentire e Roma è occupata dai nazisti. In questo
scenario apocalittico Enrico si spegne nella sua casa di Viale Liegi 6:207
Mio padre morì mentre io cercavo per lui un pezzo di pane bianco. Una mia amica
che non lo conosceva mandò la sua cuoca a portargli una fetta di torta. […] La
cuoca portò la fetta di torta la sera del 24 ottobre e mio padre morì la mattina del
25. La fetta era rimasta sul tavolino, intatta. A vederla ho proprio capito che cosa
vuol dire “morto”.
[…] Poi rimase nella stanza vuota quel pezzo di torta che nessuno di noi osava
toccare perché era stato il suo ultimo desiderio: anzi avremmo voluto conservarlo
come un’ostia.208
Il dolore per quel padre che per lei era stato «come il cielo che contiene tutto»209
non si placherà mai e la scrittura, ancora una volta, risulta essere lo strumento
ideale per dare sfogo alla sofferenza e per ricordare una persona amata ormai
definitivamente persa.
Inizialmente Paola concepisce il progetto di un libro per bambini intitolato
Babbo, con Enrico Masino come protagonista,210 per poi dedicarsi ad una poesia
intitolata Al padre. Il testo viene prima pubblicato sull’«Università» il 1 settembre
1946, successivamente211 nella raccolta Poesie del 1947. Nello stesso anno Poesie
arriva al secondo posto nell’edizione di quell’anno del Premio della Ginestra212 e
ottiene l’apprezzamento di intellettuali del calibro di Giorgio Caproni per la
207
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Paola Masino. Il finale ritrovato di Anniversario, in
«Avanguardia», n. 52, 2013, p. 75.
208
PAOLA MASINO, Appunti 3, pp. 74-75 (in APM, serie Scritti, Appunti), ora in FRANCESCA
BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 53.
209
MARIA VITTORIA VITTORI, Case, cit., p. 14.
210
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Paola Masino, cit., p. 71.
211
PAOLA MASINO, Al padre, in «Università», n. 15, 1 settembre 1946 (in APM, serie Scritti,
Pubblicistica).
212
Tra le carte dell’Archivio di Paola Masino è presente l’attestato della vittoria (serie Ritagli
Stampa, Recensioni).
49 capacità della Masino di «testimoniare un temperamento sinceramente angosciatouna sofferenza della propria condizione e del proprio tempo».213
Nella poesia Al Padre Paola esprime il suo profondo desiderio di
riconoscere la figura paterna negli elementi naturali, pur di poter continuare a
godere della sua presenza:
In te, petrosa quercia,
per noi che sue bacche chiamava?
o in questo faggio? o leccio?
o in quel rugoso olmo
di cui sàmare
fummo?
O forse in ogni arbusto,
tralcio, filo d’erba, fiore;
forse in estraneo cielo
nell’ondulosa palma;
in fondo al mare
alga?
Riconsegnato dalla morte al tutto
e in me tua figlia come figlio posto e nella donna dal cui grembo
alla vita dell’uomo mi traevi,
non in noi morto,
padre,
dove ti nascondi o sveli?
Se ci volgiamo verso te, ci vedi?
Odi, se ti chiamiamo?
Quando in sogno ci teniamo per mano
sei tu avvinto là dove ti muovi?
Ancora
io cerco in te dimora. E tue le palpebre al mio dormire voglio;
e la tua fronte, tetto;
e i panorami del tuo cuore, unica terra.
Uomo, guardavi sempre al cielo, e:
– Vedi –
narravi – quanti vascelli rosa
per quel mare. Vanno e con loro
va la vita, fino a sciogliersi in pianto. –
Quanto, quanto pianto da noi
e lacrime dal cielo su te
pietra.
Nella pioggia sepolto, forse con lei disciolto
per le vene del mondo,
negli alterni bagliori del sole e della luna,
linfa di qual creatura,
213
GIORGIO CAPRONI, Poesie di Paola Masino, in «Fiera letteraria», 7 agosto 1947 (in APM, serie
Ritagli Stampa, Recensioni).
50 quale creatura, o il tutto, invocheremo
padre?
Senti tu almeno universale dove,
imperituro quale, dentro noi
affannoso rincorrere memorie?
e darti un corpo in quel che tu per noi
corpo alla felice vita vestivi?
Senti?
Nei tuoi fiati ignoti è il respirare fosco
di noi che, vive, usiamo il tuo soffio mortale.
Nutrirci in te ancora e nutrirti per sempre
in una, più ostinata della morte,
amorosa rapina.
– Sento –.214
Fin dai versi iniziali è evidente il tentativo dell’autrice di riconoscere il padre
negli elementi della natura. Non è sicura che lui possa sentirla e, quindi, cerca
ogni possibile forma di contatto con lui. Una serie di interrogative si rincorrono
nei versi fino al ventiquattresimo, dove Paola spiega il motivo del suo
comportamento: «Ancora/ io cerco in te dimora», ancora la Masino vuole avere il
suo punto di riferimento. Inizia l’elenco delle caratteristiche del padre
malinconicamente rievocate dalla figlia: le palpebre, la fronte fino a scendere ai
panorami del cuore al verso ventinovesimo. Il dolore provato per la perdita è ed è
stato forte, confessa l’autrice al verso trentaquattresimo, e per un attimo riprende
la ricerca dell’elemento naturale dove il padre si è nascosto. Cresce la
preoccupazione per l’impossibilità del defunto di sentire la costante inquietudine
presente nell’animo dei suoi familiari. L’angoscia di non poter più stabilire un
contatto con una persona così tanto amata e ormai perduta emerge dalla
ripetizione dell’interrogativa «Senti?» all’altezza dei versi quarantatreesimo e
quarantottesimo. L’incertezza lascia spazio alla consapevolezza della figlia di
poter combattere l’odiata morte con l’«amorosa rapina» del ricordo. Solo a questo
214
PAOLA MASINO, Al padre, in EAD., Poesie, Milano, Bompiani, 1947, pp. 7-8.
51 punto, dopo tale rivelazione, giunge l’agognata e ormai inaspettata risposta
paterna al verso finale: «Sento».
Il dolore per la perdita di Enrico non sarà l’unico evento a sconvolgere la
vita di quei tormentati anni quaranta: dopo la pubblicazione dell’articolo
masiniano Gioventù fra due guerre sul «Popolo d’Italia» il 22 agosto 1943, la
rottura con il regime è ormai definitiva. Alessandro Pavolini, ex ministro della
Cultura popolare e nominato nel 1943 segretario del Partito fascista repubblicano
della Repubblica Sociale Italiana, emette un mandato di arresto per la coppia.215
Sarà il critico Enrico Falqui ad avvertire i due scrittori tramite un messaggio
cifrato per telefono a Maria Bellonci:
«Maria avrei bisogno di quel macinino che ho visto l’altro giorno da lei. Ma
subito». Maria: «Macinino?». Falqui: «Sì quel macinino da caffè veneziano».
(Falqui allora abitava all’altro capo di Roma, in viale Giulio Cesare: impossibile
raggiungerlo per farsi spiegare: la sua voce era affannata. Bisognava capire a ogni
costo quel che le sue parole volevano significare). Maria ebbe un’illuminazione:
macinino, Massimino, Masino. Cominciava a intuire che era un avvertimento per
noi. Falqui insisteva: «Non posso venire a prenderlo fin lassù. Debbo partire tra
poco. Mi faccia la cortesia: me lo lasci da Bruno». «Va bene» risponde Maria
«esco subito a portarglielo».216
Falqui aveva avuto profondi contrasti sul piano ideologico e letterario con
Bontempelli, tanto da stroncare l’opera di esordio Angelici dolori di Anna Maria
Ortese, solo per colpire Massimo, in una recensione pubblicata su «Quadrivio» il
9 maggio del 1937.217
Sono tempi duri per la coppia costretta a condurre uno stile di vita
estremamente precario, come Paola stessa ricorderà negli anni sessanta:
215
EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 110.
Ivi, pp. 110-111.
217
Ivi, p. 110.
216
52 le nostre sere e le nostre notti erano piene di informazioni miracolosamente
ricevute e trasmesse, di incredibili manipolazioni dei più incredibili cibi (bucce
d’arancio e ghiande abbrustolite per il caffè, dolci di vegetina, erba dei prati e
germogli strappati ai muri dei giardini per verdura, carne ignota manipolata nei
modi più astrusi per mascherarne l’ignoto sapore – vannino? carne umana? gatto?)
e poi il preparare improvvisati giacigli per improvvisi ospiti, trasmettere ordini e
notizie con telefonate la cui interpretazione esatta comportava l’unica speranza di
salvezza.218
L’avvertimento da parte di Falqui si rivelerà provvidenziale: Pavolini, infatti,
aveva emanato un ordine di deportazione per Paola, mentre su Massimo gravava
una condanna a morte. Falqui aveva visto la lista delle future deportazioni da
Giorgio Vecchietti, direttore della rivista «Primato» e amico di Bottai. Durante
l’esilio veneziano Bontempelli si era avvicinato al comunismo. Probabilmente
proprio questa scelta aveva spinto Pavolini ad emettere una sentenza così
spietata.219
Le divergenze tra Falqui e Bontempelli saranno destinate ad appianarsi a
giudicare da una serie di lettere indirizzate a Paola, dove il critico non dimentica
di augurare buon lavoro a Massimo220 oppure lo ringrazia per aver dato il
consenso alla riproduzione di una parte «del suo bel «Verga»».221 Nella
corrispondenza emerge la stima nutrita da Falqui per l’autrice:
Gentilissima signorina Masino,
Il dattiloscritto è già in tipografia. Se domani
mi consegnano le bozze, subito gli le spedisco, purché me le restituisca a
giro di posta. Siamo in ritardo.
Non aggiungo complimenti:
218
Ibid.
Ivi, p. 111.
220
Si tratta di una cartolina del 19 novembre del 1940 dove Falqui esprime la curiosità provata
durante la lettura di un racconto, di cui non precisa il titolo, inviatogli dalla scrittrice. È evidente,
quindi, come già a questa altezza ci fosse una collaborazione tra il critico e l’autrice. ENRICO
FALQUI, Cartolina a Paola Masino, Roma, 19 novembre 1940 (in APM, serie Corrispondenza,
Corrispondenza indirizzata a Paola Masino).
221
La citazione è un estratto di una cartolina inviata alla Masino il 3 novembre del 1940. ID.,
Cartolina a Paola Masino, Roma, 3 novembre 1940 (in ivi).
219
53 I, non Le abbisognano;
II, si sottintendono;
III, la «tipografia» parla
per il Suo
Falqui222
È evidente l’originalità dimostrata dal critico nell’esprimere il proprio
apprezzamento per Paola, alla quale sente di poter sfogare il suo sdegno per le
dicerie circolanti sulla sua attività di critico:
Roma, 23 ott. ’40-XVIII
viale Giulio Cesare 71
Gentilissima Masino,
Aspetto senz’altro il racconto. Ma non per modo di dire.
L’Almanacco di quest’anno sarà dedicato alla giovane narrativa italiana e un
suo racconto, dunque, occorre ad ogni costo. Tutti direbbero che ho fatto
camorra e certe cose lasciamole dire agli imbecilli o alla gente di poca fede.
Sbaglio? No, che non sbaglio. Aspetto il racconto. Con tanti ringraziamenti e
augurî.
Falqui
Gianna contraccambia
i saluti molto cordialmente.223
La stima nutrita da Falqui per Paola rimarrà intatta negli anni: nell’articolo La
massaia, ieri e oggi pubblicato sul «Tempo» nel luglio del 1970 sottolineerà la
necessità di riconoscere il talento dell’autrice, ormai caduta nell’oblio e
condannata ad una «Strana e ingiusta e nociva trascuraggine» per la quale «spetta
[…] d’essere risarcita».224
222
Si tratta di una lettera scritta su carta intestata della rivista romana «Circoli» dove viene
indicato il giorno e il mese (15 luglio), ma non l’anno in cui è stata scritta. ID., Lettera a Paola
Masino, Roma, 15 luglio (in ivi).
223
ID., Cartolina a Paola Masino, Roma, 23 ottobre 1940 (in ivi).
224
ID., La massaia, ieri e oggi, in «Tempo», luglio 1970 (in APM, serie Ritagli Stampa,
Recensioni).
54 Le numerose difficoltà e l’occupazione nazista di Roma non impediscono
alla coppia di portare avanti il proprio lavoro letterario. I due scrittori insieme a
Piovene, Maria Bellonci, Elena Maselli e a Savinio fondano la rivista «Città». Il
periodico conterà solo sei numeri, dall’11 novembre al 21 dicembre del 1944.225
Dopo la guerra Paola e Massimo si trasferiscono a Milano, in via
Borgonuovo. Le condizioni di vita sono precarie e il capoluogo lombardo porta le
ferite ancora aperte della guerra:
l’impressione angosciosa che mi ha fatto Milano è indescrivibile. Sembra lo spettro
di quello che fu. Fisicamente è malvagiamente mutilata ma quello, soprattutto, che
ti sgomenta, è la paura della vita che ha preso tutti gli abitanti; dal terrore banale
dei briganti […] al panico di dover intraprendere un’industria o un commercio.
Tutto è fermo; in terra la malta alta 10 cm, sicché ogni volta che hai traversato
Piazza della scala, sembra tu torni da un’escursione in aperta campagna. Tutte le
strade vuote, interminabili pareti dalle occhiaie vuote con dietro il cielo e la pioggia
tra l’intrico delle travi contorte. E negozi illuminati appena, e dovunque tu ti volga,
un senso di lasciare andare, di provvisorio, di stanchezza. Solo l’odio per Roma
fiorisce qui gagliardo ma molto ingiustamente. Insomma: a queste condizioni
preferisco Venezia.226
Paola si dedica alla scrittura giornalistica con le due rubriche Moda e La lanterna
di Diogene, riguardanti i problemi familiari, sulla rivista «Spazio», fondata e
diretta da Salvato Cappelli. Massimo ne è il condirettore e il primo numero del
periodico, che chiuderà nel 1946, appare il 15 dicembre del 1945.227 Il lavoro
riesce a distogliere per alcuni momenti l’attenzione dell’autrice dall’atmosfera di
angoscia e disperazione della Milano del primo dopoguerra. In una lettera del 23
dicembre del 1945 indirizzata alla madre confesserà: «Ho paura che la
disperazione dei milanesi abbia disancorato anche me dalla vita».228
225
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 112.
Ivi, p. 120.
227
Ivi, p. 121.
228
Ibid.
226
55 I.3. «Ho collaborato e collaboro a quotidiani e riviste»:229 la
pagina di giornale come palestra di scrittura.
La pagina di giornale rappresenta per Paola Masino un’autentica palestra di
scrittura. La rivista bontempelliana «900» è il luogo del suo esordio con l’articolo
di cronaca Musiche di Bontempelli alla «Quirinetta» e al «Circolo Giordani».230
Quotidiani e riviste accolgono poesie e racconti prima della loro pubblicazione in
volume. L’articolo rappresenta il mezzo privilegiato dove esercitare la propria
capacità di analisi della realtà. Quest’ultimo aspetto è interessante, perché nella
sua attività di pubblicista la Masino si concentra nella trattazione di temi quali
l’infanzia, la famiglia e la donna.
Gioventù fra due guerre, l’articolo apparso sul «Popolo d’Italia» il 22
agosto 1943231 e motivo dell’ordine di deportazione della scrittrice emesso da
Pavolini, spicca per la durezza di toni utilizzata nella descrizione di una nuova
generazione derubata del proprio futuro. L’articolo inizia rivolgendosi a questa
stessa gioventù:
Bambini, durante l’altra guerra, ci veniva promessa dalle mamme e dai babbi
umiliati per la nostra malinconia, una giovinezza piena di balli e bistecche e viaggi
per i continenti. Viaggiavamo intanto sulle cartine d’Italia e portavamo a scuola il
sacchetto con dentro la razione di pane giornaliera e lo economizzavamo, se
possibile, per il babbo che è più grande e consuma di più. Vedevamo la mamma
molto pallida avere capogiri, appoggiarsi alle porte e alle tende e ci pareva
l’imitazione di grandi attrici di moda e un poco ne ridevamo e molto la
invidiavamo. Più tardi capimmo che era fame e la ammirazione s’irrigidì in odio
contro la politica […]. Era il tempo delle favole, per noi, ma le madri le
229
ELIO FILIPPO ACCROCCA (a cura di), Ritratti su misura di scrittori italiani, Venezia, Sodalizio
del libro, 1960, p. 270.
230
BEATRICE MANETTI, Modelli di donna e lettrici reali nella pubblicistica di Paola Masino, in «Il
Ponte», n. 12, dicembre 2003, p. 108.
231
PAOLA MASINO, Gioventù fra due guerre, in «Il Popolo d’Italia», 22 agosto 1943 (in APM,
serie Scritti, Pubblicistica).
56 interrompevamo per correre a sorvegliare i magri peperoni in cucina, era il tempo
degli abbracci per i genitori ma i lutti di Caporetto li interrompevano.232
Nonostante i dolori provocati dalla guerra: «Eppure […] amammo la guerra
perché i nostri padri erano romantici e ci avevano insegnato a ritenerla un atto di
disinteresse o un meditato personale sacrificio a un indiscutibile ideale».233
L’articolo del 1943 citato è un resoconto dei due conflitti mondiali vissuti
dai fanciulli tra dolori e privazioni. Il tono è di invettiva, severo. Paola si serve
della pagina di giornale per intervenire direttamente nella realtà, analizzandola. La
disperazione di una gioventù bruciata dalle guerre traspare dalla descrizione di
ragazzi ridottisi ad interrogare gli anziani sul significato, a loro sconosciuto, della
normalità di una vita semplice. Avviene un autentico confronto generazionale in
Gioventù fra due guerre:
Noi no. Noi fermi tra quegli escrementi umani, negli angoli bui; e sempre le
orecchie assordate dai canti. Non dovevamo mai dimenticarci della precarietà
dell’uomo e della sua bassa natura, delle sue necessità più disgustose, delle sue
ambizioni e delle sue più stolide vanità. Tuttavia, come l’erba che nasce dagli
interstizi e vi si ostina benché venga di continuo calpestata, resistemmo.234
Sono frequenti le immagini forti utili a restituire l’idea di tutta la disperazione
provata da una generazione derubata d’ogni speranza e incapace di cancellare i
segni della prima guerra mondiale: «Alcuni riuscirono a cadere in estasi e a
prevedere i tempi presenti, altri si buttarono in quel presente di allora e
232
Ibid.
Ibid.
234
Ibid.
233
57 impazzirono, altri tesero una mano alla carità suprema e ritirando la mano
trovarono qualche scompagnata parola di conforto».235
Il passo successivo di Gioventù fra due guerre è molto suggestivo: Paola
riesce perfettamente a trasmettere l’immagine di quei giovani degli anni quaranta
incapaci di godersi la spensieratezza della loro età:
Torcemmo il capo con supremo disgusto. E questa volta, tra tanta sporcizia, era
davvero ben difficile poter passeggiare con Aladino per le grotte di Arabi, con
Amleto scendere nella fossa di Ofelia. Tutto il mondo, nonché una fossa, diventava
un pozzo nero. […] Aspettammo e aspettammo avendo schifo sin d’ogni nostro
movimento che c’imbrattava e rinnovava intorno a noi quel fetore. E intanto
sempre più scavavamo in noi stessi, scendevamo nella cripta del nostro essere.
Anche laggiù, ahimè, tutto s’inquinava tanta era la pressione esterna, tanto le
esalazioni vi s’infiltravano. […] E tuttavia la nostra umana natura ci faceva ogni
tanto desiderare l’aria del cielo consueto, e di muovere passi sopra invece che sotto
la terra.236
È difficile rimanere impassibili di fronte ad uno scenario così tetro. La nuova
generazione non può evitare di desiderare un bene così prezioso come la
normalità. Nei passi citati si accumulano in maniera crescente termini e aggettivi
appartenenti alla sfera semantica della sporcizia.
Non esiste più un futuro e la situazione sembra destinata a rimanere
immutata: «Provammo e non trovammo che tolleranza per il peggio e intolleranza
per il meglio».237
La crudezza delle immagini e la forza delle parole utilizzate ha causato la
censura di un passo dell’articolo:238
235
Ibid.
Ibid.
237
Ibid.
238
La stessa Masino segnala la censura e allega all’articolo il passo citato in forma dattiloscritta.
Ibid.
236
58 A centinaia, ma anonimi, partivano i giovani per espiare la loro pena. Con processi
irrisori, su pene inesistenti, povera gente qualunque veniva fucilata e così mutilato
anche quel possibile significato di sacrificio che si può, per aiutarci a viverla, dare
una pena di morte. Tutto manomesso, imbrattato, usato per pulire i pavimenti delle
caserme e degli uffici. E tutto nello stesso tempo diventato commemorazione, inno,
esaltazione.239
Le righe citate sintetizzano il significato di fondo dell’articolo: i giovani sono stati
costretti di nuovo a sacrificarsi in nome di una guerra scatenata da altri.
La società degli anni quaranta tende a reprimere l’individuo. Paola non è
disposta a soccombere e, per questo motivo, nelle righe iniziali di un articolo
intitolato L’antico errore e pubblicato su «Città» l’11 novembre 1944240 sottolinea
l’obiettivo perseguito insieme agli altri giornalisti del periodico:
Mentre voi scendete nell’oscurità vi racconterò come, appena noi otto amici
ebbimo pensato di fare questa Città ove potere ognuno di noi abitare e muoversi
liberamente secondo la propria coscienza e non secondo utilità contingenti altrui.241
La libertà di poter decidere liberamente dei propri scritti senza dover compiacere
nessuno è l’obiettivo perseguito da questi «otto amici». L’articolo prosegue
affrontando il tema del lavoro femminile:
Tutto il lavoro, il pensare, l’agire umano, quello appartiene anche a noi, in parti
uguali. E non come una conquista, e non come un diritto, ma come un dovere. E
finora con la compassione […] il più doloroso di tutti gli atteggiamenti umani, con
l’adulazione e con l’amore e con l’odio ci avete tenute in uno stato subalterno, per
cui gli applausi ci venivano traverso la sorpresa, l’uguaglianza traverso la
condiscendenza. Non vogliamo vantaggi, in partenza, né svantaggi.242
239
Ibid.
EAD., L’antico errore, in «Città», n. 1, 11 novembre 1944 (in ivi).
241
Ibid.
242
L’uso del corsivo è originale. Ibid.
240
59 Il lavoro femminile, secondo Paola, deve essere valutato solo in base ai risultati
ottenuti, perché non diverge in nessun aspetto da quello maschile. Le donne stesse
sono responsabili della loro posizione svantaggiata e la colpa non è da attribuire
esclusivamente all’uomo:
L’errore più grande commesso dalla donna è stato quello di spargere il senso
materno su tutta la materia, allargare il proprio grembo, via via che i figli crescono,
agli oggetti, all’aria, al cibo di che si va impastando la vita di quei figli. A poco a
poco ella s’è chiusa nelle più ossessive necessità umane. Questo, credo, neanche
Dio aveva previsto quando divise in parti, quanto disuguali!, il castigo del maschio
e della femmina.243
La donna-madre si è ritrovata imprigionata in un circolo vizioso dal quale non è in
grado di fuggire.
Paola, quindi, sfrutta lo spazio dell’articolo trattando tematiche sociali e, di
conseguenza, intervenendo nella realtà. Sempre nell’Antico errore del 1944
afferma:
Preferisco sbagliare tutto ma buttarmi a capofitto dando la mano alla pazzia
illuminata e cosciente che può anche chiamarsi poesia. Da un pensiero poetico
molte azioni hanno avuto origine e qualche azione finisce in un poetico pensiero.244
Durante il periodo bellico l’analisi della società rappresenta uno degli interessi
principali della Masino giornalista. In Pregiudizi, apparso su «Città» il 23
novembre 1944,245 individua nell’egoismo e nell’eccessivo individualismo le
cause dei mali del proprio tempo: «È dannoso a tutta l’umanità che il singolo non
243
Ibid.
Ibid.
245
EAD., Pregiudizi, in «Città», n. 2, 23 novembre 1944 (in ivi).
244
60 pensi materialmente al benessere di tutti per essere sgombro d’ogni fastidioso
dubbio o rimorso quando si trova a procedere solitario nel proprio pensiero».246
L’artista ha, quindi, il dovere di affrontare tematiche sociali evitando, però,
di concentrare la sua arte nel raggiungimento di quest’unico obiettivo: «l’arte
portata a un’utilità attuale, come sono tutte le attività politiche, perde il suo valore
di profezia e diventa perfettamente inutile».247
Paola è consapevole di come la sua concezione di arte non sia condivisa da
tutti gli intellettuali e nel Soggetto è l’uomo,248 uscito su «Città» il 30 novembre
1944 osserva:
mi infastidisce o mi umilia l’accanirsi di alcuni artisti nell’affermare il loro diritto
al distacco e al disinteresse dalla storia; il non saper essi sentire, con le orecchie
unicamente abituate ai soavi accordi lirici e tonali, le ore cruente che ci ronzano sul
capo, senza avvedersi del lacrimoso fango in cui moviamo i passi.249
L’artista ha un compito specifico:
E quale altra collaborazione può offrire l’artista al non artista nei momenti più
mescolati della loro comune storia se non quella di trasportarlo su un piano ideale,
indicargli sotto il precario l’eterno, riannodare i fili delle speranze che via via si
sono spezzati?250
Gli intellettuali della sua epoca
Vanno in tondo, come sui cavallucci delle giostre, in quel pezzo di panorama che
gira con loro, e ne fanno elzeviri, quadretti e libriccini, si ammirano l’un l’altro al
passaggio, si scrivono a vicenda prefazioni e dediche, critiche e chiarimenti:
246
Ibid.
Ibid.
248
EAD., Il soggetto è l’uomo, in «Città», n. 3, 30 novembre 1944 (in ivi).
249
Ibid.
250
Ibid.
247
61 sognano di compilare un diario tutto sensazioni e anche a ottant’anni di morir
giovani.251
È possibile, quindi, dare una definizione di arte:
tanto più alta è l’arte tanto meno dimentica i caratteri particolari dell’uomo; tanto
più è disinteressata quanto più ogni tanto ridiscende a terra dall’esaltazione o risale
a galla dagli sprofondamenti per darci testimonianza della sua umana natura.252
Dare testimonianza significa anche riconoscere e descrivere la tenacia e
l’inventiva dimostrata dalle madri, durante la guerra, per procurare il cibo ai
figli,253 perché «L’arte non inganna mai, l’arte non tradisce, l’arte, chiamatela
pure d’evasione, non fa che annunciare e denunciare e tanto più crede di essere
disinteressata tanto più ti immerge in una realtà indistruttibile».254
Solo in questo modo l’individuo potrà acquisire piena consapevolezza della
propria condizione e dell’epoca in cui sta vivendo. Di conseguenza la società
vedrà il progresso. La donna, ad esempio, deve uscire dalla cecità: la Masino,
nell’articolo Madri, padri, figli pubblicato su «Spazio» il 13 gennaio 1946,255
dichiara:
Non credo a una iniziale differenza di capacità femminile nei riguardi della società,
dell’arte, dell’amore. Zitelle si nutrirono, abbandonate allevarono i propri figli,
sovrane guidarono i loro popoli, donne che ebbero un odio uccisero e quelle che
ebbero un amore si sacrificarono e altre che avevano malvagi istinti vi si
abbandonarono coscientemente e altre si macerarono in castità né più né meno
degli uomini. Che poi, entrando a sceverare la vita consociata attuale vi si trovi la
donna in uno stato di vassallaggio rispetto all’uomo è un po’ vero, ma è pur vero
che in gran parte vi è per suo volere e pigrizia.256
251
Ibid.
Ibid.
253
EAD., L’ultimo nutrimento, in «Città», n. 4, 7 dicembre 1944 (in ivi).
254
EAD., Io e le favole, in «Città», n. 5, 14 dicembre 1944 (in ivi).
255
EAD., Madri, padri, figli, in «Spazio», n. 5, 13 gennaio 1946 (in ivi).
256
Ibid.
252
62 Anche i genitori sono una delle cause della condizione svantaggiata delle donne:
se sono poche le volte in cui lasciano il figlio libero di percorrere le strade della
vita da solo, alle figlie non concedono mai un simile privilegio:
Gli lasciano l’argenteria, le coperte, le buone conoscenze, ma non si preoccupano
di lasciargli il coraggio, la civiltà intima nata dalla generosità morale, l’educazione
(non quella dei baciamano e delle miss, ma quella fatta di conoscenza dall’interno
delle cose, di verità studiate alle origini, tolte le barriere e gli appannaggi sociali).
A quanto dicevamo, il bambino non può essere condotto se non lasciandogli libero
l’arbitrio, fin da piccino, per il solo fatto che egli è una creatura umana.
Ma se alcune volte tale rarissimo privilegio fu concesso da alcuni genitori a
qualche figlio, esso da secoli si è negato alla creatura nata femmina.257
Non è sempre facile, però, voltare le spalle ai genitori: nel passo seguente di
Madri, padri, figli del 1946 emerge un chiaro riferimento al padre di Paola:
Pochissimi hanno la forza, per mettere alla prova tutte le proprie possibilità, di
voltare le spalle ai genitori: ai migliori genitori: a quella madre che tutto ti avvolge
della sua materia e sempre ti difende abituandoti a essere inerme, a quel padre che,
non contento di indicarti i sentieri delle scoperte ti ci vuole accompagnare, e non ti
trattiene ma ti incita se tu, coi denti e le unghie ti metti, ti metti a scalare un
impervio roccione, e se in cima al roccione tu trovi un fantasioso giardino o una
tenebrosa foresta non ti richiama, come la madre, alla consueta vita con voci o
pallori ma nella sua angoscia ancora ti sostiene e ti spinge, soltanto immerso nel
pensiero di te. Un simile padre, che ha saputo farsi terra per reggerti e cielo per
salvarti senza mai implorare un compenso a se stesso, un simile padre non muore
mai, un simile padre diventa il pianeta medesimo e tu non perdi con la sua
scomparsa le ragioni sotterranee che ti legano al passato e ti fanno tramite al
futuro.258
Nel dopoguerra il tema della donna è fondamentale per la Masino giornalista e in
Uomini, donne, amore,259 apparso su «Spazio» il 20 gennaio 1946, indica il modo
migliore per affrontarlo:
257
Ibid.
L’uso del corsivo è originale. Ibid.
259
EAD., Uomini, donne, amore, in «Spazio», n. 7, 21 gennaio 1946 (in ivi).
258
63 Chi, come alcuni di noi, ha superato il pregiudizio d’un simile quesito non si pone
mai la domanda sulla donna e l’arte, o la donna e la famiglia o la donna e l’amore.
Allo stesso modo non ci poniamo domande sull’uomo e la politica, sull’uomo e lo
sport, sull’uomo e la moda. Pure sono problemi altrettanto vivaci, se non vivi.260
Gli uomini devono contribuire al miglioramento della condizione femminile, se
vogliono loro stessi ottenere dei vantaggi. In Per voi, signori uomini del 17 marzo
1946261 Paola sfodera tutta la sua ironia quando, rivolgendosi ai suoi lettori,
sottolinea come, durante le uscite pubbliche, non debbano preoccuparsi
esclusivamente del proprio abbigliamento, ma soprattutto della propria
accompagnatrice:
E poi, se volete essere eleganti, uomini dovete scegliervi una bella donna da
portare al fianco. Ma non una ragazza, ma non una creatura di lusso, abbiamo detto
una donna. Una donna bella e pacata, una donna che anche se non ha nulla dietro la
fronte, abbia quel passo vasto, quello sguardo pesante, quelle mani sicure che diano
il senso del passato che promettano un avvenire conchiuso. […] una donna che
puoi pensare madre, amante, omicida, santa, e che puoi rapidamente vestire con
l’abito della nonna.262
La discriminazione della donna deriva da una diversità di linguaggi e dallo
scontro tra differenti visioni della vita: in Due mondi segreti: il fanciullo e la
donna del 13 febbraio 1948263 Paola sottolinea come
Gran parte dell’incomprensione tra uomo e uomo, tra donna e uomo, tra popolo e
popolo, tra una e l’altra razza, non nasce da violenza di passioni come
generalmente si crede, ma da differenza di linguaggio. Intendendo per differenza di
linguaggio la diversità del […] modo prospettico di vedere la vita […].
Ecco, ad esempio, uno dei più comuni errori che commette l’uomo adulto:
considerare il bambino non un essere per sé stante […] ma un uomo piccolo che si
avvicina e si fa più alto man mano che i suoi passi lo portano verso la nostra zona.
260
Ibid.
EAD., Per voi, signori uomini, in «Spazio», n. 14, 17 marzo 1946 (in ivi).
262
Ibid.
263
EAD., Due mondi segreti: il fanciullo e la donna, in «La Repubblica», 13 febbraio 1948 (in ivi).
261
64 E quindi pretendere da lui […] atteggiamenti mentali che pretendiamo da noi
stessi.264
La società è stata costruita su una serie di equivoci e fraintendimenti: solo la loro
risoluzione comporterà l’unico e reale progresso. La maternità stessa è stata intesa
per troppo tempo come annullamento dell’io della donna. In Madre atto
d’amore,265 apparso su «Vie Nuove» il 27 giugno 1948, la scrittrice specifica:
la grandezza, diciamo pure l’eroismo della maternità può riconoscersi nell’oblìo in
cui la creatura madre si mette del proprio «io» così da diventare puro strumento di
vita di un altro «io» che è quello della creatura nuova da lei generata. Si badi che
generare […] vuol dire […] darle gran parte di sé medesimi, cuore, cervello,
immaginazione.266
Le testate con cui Paola collabora sono numerose e di varia natura. L’autrice
scrive, ad esempio, per «Cronache dell’Urbe», «Scena illustrata», «Versilia oggi»
e «Video»267 o giornali politicizzati come «l’Unità». Non mancano articoli
masiniani nell’«Almanacco della donna italiana»,268 mentre a partire dal 1946 si
occupa di critica cinematografica per la «Gazzetta d’Italia», nel 1948 per
«Risorgimento» e per «La Sicilia». I suoi giudizi implacabili le cuciono addosso
la fama di cattiva. È molto diretta e cruenta nelle sue critiche: si narra addirittura
di una feroce lite tra la scrittrice ed Orson Welles causata da un giudizio severo di
Paola sul suo Macbeth.269
264
Ibid.
EAD., Madre atto d’amore, in «Vie Nuove», 27 giugno 1948 (in ivi).
266
Ibid.
267
BEATRICE MANETTI, Modelli di donna e lettrici reali nella pubblicistica di Paola Masino, cit.,
p. 112.
268
MARINA ZANCAN, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria
italiana, Torino, Einaudi, 1998, p. 102.
269
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 144.
265
65 Nel 1950 inizia la collaborazione con il settimanale «Epoca» e con «Noi
donne»,270 mentre dal 1951 al 1956 terrà la rubrica Confidatevi con Paola su «Vie
Nuove», dove il 18 novembre 1951 scrive:
il giornale è un po’ diventato il padre spirituale di molti; ognuno se ne sceglie un
suo proprio; e anche il solo chiedere un consiglio di cucina vuol dire che di quel
giornale accettiamo dal linguaggio al costume, dal sentimento alla morale e,
perfino, alla nostra stessa catalogazione nel mondo.271
Paola ridurrà progressivamente le sue collaborazioni per interromperle
definitivamente nei primi anni settanta per dedicarsi completamente alla cura
dell’archivio di Massimo Bontempelli.272
270
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 56.
271
Ibid.
272
Ivi, p. 58.
66 I.4. «io mi sono trovata disoccupata nel mondo»:273 un doloroso
cammino verso l’oblio.
Dopo il successo di Nascita e morte della massaia qualcosa si è sgretolato
nell’animo di Paola: ha la sensazione di non riuscire più a scrivere e inizia ad
avere timore. Il 22 ottobre 1958 scriverà alla madre: «mi spiace constatare come
ormai ci sia qualche cosa di rotto in me. Tutti gli altri sono molto più attivi e
rapidi di quel che io non sia. Tendo a dormire in modo eccessivo».274 Nelle righe
successive aggiunge: «Stamani ho cominciato a lavorare, ma siccome non
ingranavo, verso le cinque ho smesso e mi son messa a scriverti questa lettera, che
se non mi decido a finire, sta per diventare un romanzo».275
La preoccupazione per la vena creativa via via sempre più affievolita con il
passare del tempo lascia spazio ad una spiccata insofferenza e ad una profonda
insoddisfazione per la mancanza di un progetto letterario valido ed originale. Le
lettere di questi anni indirizzate alla madre assumono toni sempre più cupi:
Mi sono accorta che la cosa che più mi svuota è il dover parlare di cose che non mi
interessano, dover fingere di interessarmi, e sentire il tempo che passa senza alcun
costrutto, e non poter arrestarsi dal precipitare nel mare morto della vita
quotidiana.276
La sensazione della scrittrice di non riuscire a rapportarsi con i propri tempi era
già emersa nel 1951 nel corso di un’intervista:
273
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 186.
Ivi, p. 162.
275
Ivi, p. 166.
276
Lettera alla madre del 31 agosto 1959. Ivi, p. 167.
274
67 per istinto naturale io sono portata a trovare tutto molto bello. Il mio desiderio
sarebbe di scoprire in ogni creatura umana un santo e un eroe. Purtroppo assai più
spesso trovo nel santo e nell’eroe l’uomo e magari la parte più meschina
dell’uomo. Allora mi prende una disperazione per cui, come a dare a me stessa la
disciplina, denuncio tutto quell’essere nei suoi peccati, senza perdono, senza
tolleranza. Ne nasce quella che sembra nei miei scritti crudeltà e pessimismo. […]
è disperazione. Quando uno è disperato, è amaro, è cattivo […]. Vedere tutto a
piena luce, senza misericordia, e senza misericordia denunciare se stessi e gli altri
per raggiungere quel bene, quell’assoluto verso cui tende la volontà.
In genere l’uomo si è abituato ad accettare alcune pietose bugie che lo aiutano a
vivere. A me questo non è stato concesso: ed è una maledizione.277
Per poi confessare:
io non […] ho più progetti; io non preparo nulla. Non posso avere progetti per
l’avvenire […]. So di non sbagliare percorrendo la via che ho scelta, ma so anche
che probabilmente questa via mi renderà muta per sempre, perché i problemi di vita
che vi si incontrano sono tanto grandi che è difficile parlarne. Almeno per me.
Diceva Pirandello: «la vita o la si vive o la si scrive». Io la sto vivendo. E per ora
ne sono contenta.278
In realtà gli anni cinquanta vedono l’inizio della scrittura teatrale masiniana: nel
1953 scrive il libretto d’opera per Viaggio d’Europa, tratto dall’omonimo
racconto bontempelliano.279 Nel 1957 pubblica Vivì, scritto in collaborazione con
Bindo Missiroli, mentre nel 1964 uscirà Luisella, tratto dall’omonimo racconto di
Thomas Mann.280 La stesura di libretti d’opera proseguirà negli anni settanta con
la Madrina, un inedito tratto dal racconto omonimo di Oscar Wilde ed eseguito
nel 1973 e con Il ritratto di Dorian Gray, scritto in collaborazione con Beppe De
Tommasi e pubblicato nel 1974.281
277
LEONE PICCIONI (a cura di), Confessioni di scrittori: interviste con se stessi, Torino, Edizioni
Radio Italiana, 1951, p. 60.
278
Ivi, p. 66.
279
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 83.
280
Ibid.
281
Ibid.
68 La situazione è destinata ad aggravarsi negli anni sessanta: il 21 luglio 1960
nella casa romana di Viale Liegi muore Massimo Bontempelli.282 In Appunti 7,
scritto approssimativamente tra il 1959 e il 1963,283 Paola descrive la morte e la
cremazione del compagno con un’attenzione ai particolari tale da trasmettere alla
perfezione tutta la tristezza e la rassegnazione avvertita in quel momento:
Quando morì Massimo avevo un vestito da spiaggia di tela bianca a grandi fiori
gialli con rami azzurri e foglie nere. Una fantasia alla Gauguin, carica di colore e
pesante di disegno […].
La morte di Massimo, ahimè, era ormai inevitabile e forse io mi sforzavo,
sottolineando con il vestirmi più spensierato, di ritardarla fingendo a me stessa di
non crederci e di non ammetterla […]. Così silenzioso, solitario, pudico e
contenuto Massimo se ne andava, ignaro di noi, assorto in se stesso, che i miei
tentativi miseri per trattenerlo e risvegliarlo alla vita, tanto più sottolineati da quei
colori dell’abito, dovevano sembrare invadenti e volgari. E soffrivo anche di quella
veste che indossavo, mi odiavo, avrei voluto subito strapparmela di dosso.
[…] Poi mi misi un vestito di crespo nero, stile impero, con due nastri che
passavano sotto il petto e s’annodavano su un lato. […] l’ho portato per tutta quella
estate. Con quello l’ho accompagnato al Verano, con quello l’ho visto cremare, ne
ho visto raccogliere da suo figlio le ceneri, l’ho posto nell’urna.
Lui aveva un pigiama di colore celeste pallido, filettato di bianco. E un bottone ne
è rimasto intatto in mezzo alle ceneri. L’ho raccolto e portato con me. Il giorno
dopo era un mucchietto di polvere candida, come finissimo sale.284
Paola non si limita a fare un semplice resoconto dell’accaduto. Il vestito diventa il
simbolo del suo stato d’animo: l’abito «da spiaggia di tela bianca a grandi fiori
gialli con rami azzurri e foglie nere» indica la reale difficoltà della scrittrice ad
accettare il distacco dall’amato Massimo. L’attenzione sui colori è evidente dal
terzo capoverso del passo citato: Paola descrive l’abito nero «stile impero»,
indossato alla cremazione di Massimo e, successivamente, durante l’intera estate,
il quale rappresenta la presa di coscienza della perdita. Il nero era anche il colore
delle foglie disegnate sull’abito da spiaggia. È interessante notare l’attenzione per
282
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 167.
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 175.
284
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 168.
283
69 il contrasto tra il colore nero e il bianco presente anche sul pigiama di Massimo
«di colore celeste pallido, filettato di bianco». Non è la prima volta che l’autrice si
sofferma su queste tonalità: in Appunti 7 erano già apparsi in un passo riguardante
la morte del padre Enrico:
Nell’ottobre del ’43 morì mio padre. E io sentii subito fortissima la necessità di
vestirmi di nero. Ho portato il lutto per molti anni: forse non era più per mio padre
né per me stessa. Era un vizio: l’amore al colore nero e al bianco non nasce mai da
un semplice gusto, ma da una più riposta piega dell’animo e risponde a un
atteggiamento mentale dell’individuo: mentre il bianco rappresenta l’esclusione di
ogni colore, il nero è, di ogni colore, la somma. Volendo tradurre ai nostri fini
questa legge fisica se ne dedurrà facilmente come colui che si veste di nero sia più
disposto ad accogliere tutto il peso di una totale comunione con gli altri uomini,
donde la sua maggiore capacità di sofferenza; e che il bianco, per essere bianco,
non potrà che estraniarsi dalla vita altrui, ed avere disponibilità spirituali per se
stesso, non per chi gli vive a fianco.285
La morte di Massimo toglie a Paola tutta la vitalità rimasta, rendendola sempre
più insofferente verso la società contemporanea, della quale non condivide le
modalità di espressione culturale. A proposito di ciò scrive in Appunti 7:
Il colloquio comporta una o più voci singole che si aprono la via a vicenda verso le
idee, dipanando e scegliendo e annodando pensieri. Il colloquio dunque comporta
delle individualità, per esigue che siano, il che oggi non è più consentito. Oggi il
discorso è consentito solo alle collettività, ma, mentre la richiesta di una collettività
per un accrescimento di benessere familiare può essere espressa a una voce e trae
proprio dalla forza della massa una maggiore urgenza, chiarezza, ed efficacia, il
dialogo intorno a cose astratte, a sentimenti, o ad altro che nasca da una intima
necessità personale non le è più consentito. Si può parlare collettivamente di
ideologie politiche o artistiche perché basteranno due o tre voci ufficiali a
denunciare i problemi di una categoria, ma non si può parlare collettivamente di
amore, di gioia, di dolore, di morte, intesi come avvenimenti individuali, come
scoperte singole, come posizioni personali, come reazioni di una creatura rispetto
alle altre.286
285
286
EAD., Appunti 7, cit., pp. 322-323.
L’uso del corsivo è originale. EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 171.
70 La società del tempo impedisce l’espressione alla singola voce e preferisce
affrontare tematiche d’interesse collettivo. L’individuo, quindi, non è più in grado
di formulare il proprio pensiero autonomamente:
Ed ecco che, staccate alcune cellule di questa collettività dal ritmo collettivo e
poste in un salotto a rivelarsi le une alle altre per dar modo […] ad accrescimenti e
a fecondazioni spirituali, esse non trovano più né linguaggio né forma. Una cellula
sola non farà altro che mettersi vertiginosamente a creare un tessuto o a navigare
nel vuoto finché non incappi e non sia assimilata da un qualche tessuto.287
Lo stesso vale per gli intellettuali dell’epoca:
In un primo momento, quando ancora gli ospiti son pochi, li vedi, in un silenzio
d’attesa, ognuno guardare gli altri con un sorriso impacciato. […] il sorriso ha
l’impaccio proprio di colui che vuol gentilmente mascherare la propria pietà.
Tra quei sorrisi sospesi che stendono fili aracnei, fastidiosissimi, per la sala ogni
tanto cadono brevi parole. Assolutamente disgregate tra loro, perché ognuno sta
vorticosamente girando nella propria cellula cercando di uscirne.288
Paola non riesce ad apprezzare la propria epoca e ne sottolinea gli aspetti negativi.
È ben consapevole di questa sua tendenza:
So di stare scrivendo dei miei contemporanei come se io fossi affacciata a un
balcone del secolo scorso, […] da fantasma, diciamo. […] ma non posso fare a
meno di domandarmi se questa frenesia collettiva, distaccata, ironica, sia […] un
atto costruttivo o distruttivo.289
La creatività non trova più posto nel mondo contemporaneo, perché viene
soffocata dal rigore delle scoperte scientifiche:
287
Ivi, pp. 171-172.
Ivi, p. 172.
289
Ivi, pp. 173-174.
288
71 Anche oggi tace l’arte o, per lo meno, da molti anni, non dice nulla di nuovo, e
fiorisce in modo supremo la scienza. […] tutto è di dominio scientifico. L’arte, per
contro, si affanna ed elucubra intorno a vecchi presupposti, tenta, divaga, ma non
riesce a concludere. Ogni tanto sembra che qualcuno abbia trovato la via giusta e
[…] si vede subito che quel tanto di buono che può rimanerti fra le mani è roba
vecchia, già risolta meglio, e dunque con una vitalità già esaurita, dai secoli
precedenti.290
Tace anche l’arte di Paola: sono lontani gli anni dei successi di Monte Ignoso,
Periferia e Nascita e morte della massaia. Nel 1961 la Masino cura per
Mondadori i due volumi di Racconti e romanzi bontempelliani,291 ma non riesce a
concepire il progetto di un nuovo romanzo.
Negli anni settanta la crisi d’ispirazione cresce in modo inarrestabile. Solo
la stesura dei suoi quaderni di appunti è continuata per tutti questi anni. In essi
raccoglie le sue personali riflessioni inerenti la letteratura e la vita in generale e
custodisce i ricordi d’infanzia, della madre, del padre e di Massimo:
quel babbo […] aveva un sapore antico e vegetale che riempiva i polmoni di forza
quando lo abbracciavo. Quella forza. […] Che abbandono e che ripresa […],
nessuno abbraccio mi potrà dare mai più questo senso […] di risentirmi ramo
inserito ancora, ancora, felicemente al suo unico tronco, e sopra me, come tanti
altri rami fratelli e insieme protettori, i suoi occhi e la sua fronte pieni di luce.292
In seguito aggiunge a proposito del «babbo» e del compagno:
Non so se per un uomo poggiare il capo sul petto della donna abbia quel valore
assoluto di comunione, di abbandono nella sicurezza di sentirsi protetti che io
provavo quando poggiavo il capo sul petto di mio padre o di Massimo. Come se mi
riconsegnassi a un grembo spirituale, capace di comprendermi senza che io
parlassi, e di assolvermi senza ch’io mi confessassi, e senza che io mi lamentassi in
se stessi, quei petti, rifugio e consolazione. Il tepore, lo spessore, la vastità dei loro
290
Ibid.
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 60.
292
PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., pp. 245-246 ora in EAD., Testi inediti dai Quaderni di Appunti,
cit., p. 40.
291
72 spazi, rammento: perché non erano più petti di uomini, ma come zone grigie di
cielo, ove bonari lembi di nubi mi sostenevano e proteggevano dall’urto del
mondo. […] Le mani di Massimo erano più bianche e leggiere; quelle di mio babbo
più dorate e pesanti; nude quelle di Massimo e quelle di babbo ornate d’un cammeo
color d’orzo bruciato. Mio padre sembrava tutto una grande foglia autunnale; una
foglia di platano che scherzasse sul picciolo senza mai staccarsi e cadere. Massimo
ricordava piuttosto certe pieghe d’ombra sotto le creste delle onde […]. Nel volto
fermo di Massimo c’era un continuo ammiccare di luci bianche e di ostinati silenzi
che salivano dal profondo […]. Babbo era molto più fanciullo nelle sue
manifestazioni esteriori ma, nell’intimo suo, […] era assai dubitoso e timido e
desolato. Massimo era assai più bambino nell’intimo suo, assai più pronto a ogni
favola, a ogni avventura e fiducioso nell’imprevisto e nel prodigioso, e perciò
all’esterno voleva rimanere calmo, in attesa e sembrava assai più maturo.293
Tra il 1947 e il 1950 l’editore Neri Pozza le aveva proposto di pubblicare i primi
tre quaderni di appunti, ma la Masino non aveva accettato l’offerta ritenendo i
suoi scritti inadeguati a un simile progetto.294 Nell’agosto del 1971 decide di
tenere un diario giornaliero, destinato ad interrompersi qualche mese dopo:
Cominciamo un diario, pur di scrivere. L’aborrito diario di chi non riesce più a
crearsi intimamente e ha bisogno di proiettarsi di continuo nella realtà esteriore.
L’aborrito diario, piedistallo dell’io […]. L’aborrito diario, mostra di vanità e di
impotenza. La scusa del voler ricordare non serve. Quello che ci è valevole lo
ricordiamo […]. No, scriverò un diario solo […] per trovare un filo minimo di
«cose da dire» visto che, se continuo a tacere e a contemplare il mio interno
sfaldamento tra poco sarò una clessidra con la testa vuota e sepolta fino alla vita
nella polvere inerte della mia stessa esistenza. […] Più mi rendo conto di aver
perso di capacità intellettuali, e più razionalmente me ne arrovello, meno ne soffro.
Unica reazione, uscire, mescolarmi alla gente, darmi a un’attività qualsiasi.
Comprare un chilo di patate o fare un solitario, telefonare a un’amica o pettinarmi
(ma impossibile scrivere, impossibile leggere: sulle pagine entrano a folate pensieri
contingenti e inutili e sommergono le righe e le risucchiano via confondendole in
un’oscillazione di lettere che mi danno subito una gran sonnolenza. Credo di non
aver mai dormito tanto in tutta la mia vita come in questi ultimi anni).295
Paola aggiunge in merito alla scrittura creativa e alla questione dell’ispirazione
svanita:
293
Ivi, pp. 247-250 ora in ivi, pp. 41-42.
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 9.
295
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 179-180.
294
73 Ogni tanto, è vero, ancora di quando in quando immagino brani di un libretto
d’opera, stralci d’un racconto, atmosfere d’una scena di romanzo, contorni di un
personaggio. Ma sono baluginii, lampi di colore in un cielo di sorda ovatta. Meglio
dunque tentare il più semplice e volgare dei diari con le annotazioni dei giorni,
delle ore delle persone anonimamente, affidandone il rilievo al rilievo che essi
hanno in se stessi, senza alcuna velleità d’interpretazione e di resa creativa.296
L’autrice nutre una profonda nostalgia per quegli anni in cui ha avuto il privilegio
di frequentare assiduamente i personaggi di spicco del panorama culturale
novecentesco. Si rende conto che è un’epoca ormai lontana:
È come se qualcuno mi avesse raccontato la storia di una certa Paola che
frequentava costoro. Di questa Paola non so e non vedo nulla […] e delle
individualità che le mossero intorno vedo appena quel poco per cui le si affiancano.
Tutto il resto […] è affidato alla storia. Se me ne sono nutrita […] me ne sono
nutrita proprio con la stolta naturalezza con cui si mangia una bella pesca o si beve
a una fresca sorgente. Non pensi che sia un privilegio l’averli incontrati […] e te ne
sei saziata senza soffermarti più che tanto alla squisitezza di quei sapori, all’energia
che te ne veniva. Era un tuo naturale diritto l’optimum, unicamente perché fin
dall’infanzia l’avevi cercato e perseguito.297
Il rimpianto è forte, quasi insopportabile. Nelle righe successive la Masino
riconosce nella mancata consapevolezza delle proprie capacità letterarie la causa
della sua condizione. Lei stessa afferma:
Non rendersi conto appieno delle proprie capacità è il primo passo verso il loro
deterioramento. Le virtù […] sono case che ognuno di noi si deve costruire e poi
mantenersele efficienti con la costante sorveglianza e con restauri, modifiche,
aggiornamenti, abbellimenti. È una delle amministrazioni più costose e sfibranti;
ma è la sola per cui valga la pena di battersi, perché verte sulla sola casa da cui non
potrai mai essere sfrattato, e che puoi alienare mille volte al giorno e mille volte al
giorno tornerà a essere tua, anche se un po’ manomessa.298
296
Ivi, p. 180.
Ibid.
298
L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 181.
297
74 È come se la sua vita si fosse bloccata e l’autrice cercasse disperatamente di uscire
dall’immobilità
che
l’attanaglia.
Questa
profonda
inquietudine
deriva
dall’impossibilità di risolvere una simile situazione. In Appunti 11, scritto tra il 29
agosto del 1971 e il 30 giugno 1972,299 esprime tutta la sua amarezza:
Distruggermi è la mia sola speranza di ricominciare da capo, benché oramai sia
tardissimo. Ma prima di me stessa dovrei distruggere tutta la vita che mi stringe da
vicino e questo è molto più difficile perché io non ho né il coraggio né la viltà dei
prodi e dei pavidi.
Sono, disperatamente, diventata una donna normale. Non c’è niente di più
squallido e inutile a viversi. Per salvarmi dovrei mettermi per una strada e
camminare finché i piedi mi portano. Lì cadere a terra e risvegliarmi senza più
ricordare il mio nome e cognome, per incominciare con altri mezzi, un’altra vita.
Per seguire nell’alienazione […] Massimo e durarci dieci anni, mi sono, senza
accorgermene – e se me ne fossi accorta l’avrei fatto ugualmente – alienata anche
io. E non solo da me stessa, ma da tutto ciò che non era Massimo; così, quando lui
se ne è andato, io mi sono trovata disoccupata nel mondo.300
Nonostante gli innumerevoli sforzi Paola non riesce a ricostruire la propria
carriera letteraria. Sente la «Solitudine orrenda di colui che ha creduto di non
poter dare il meglio di sé perché travolto dalle meschinità della vita e – una volta
libero da esse – si accorge che la propria solitudine s’è svuotata d’ogni
contenuto!».301 E
se venisse il solito ipotetico Dio a domandare di esprimere un voto, vorre<bbe>
che i <suoi> pensieri cambi<assero> strada, che i <suoi> interessi si
rinnov<assero>, che la <sua> fantasia trov<asse> nuovo estro e <la> conduc<esse>
per vie che non h<a> mai sospettato.302
299
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 176.
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 186.
301
EAD., Appunti 6, cit., p. 5.
302
Ivi, p. 23.
300
75 Il desiderio dell’autrice non viene esaudito e, quindi, si concentra nella sua nuova
attività di traduttrice dal francese: tra il 1977 e il 1980 si occupa di Balzac,
Stendhal, Barbey d’Aurevilly, Malot per finire con Madame de La Fayette.303
Nel 1984, in occasione di un’intervista rilasciata a Sandra Petrignani,
parlerà a proposito del suo silenzio letterario:
Problemi di ordine pratico, che col tempo sono diventati anche di ordine
psicologico, mi hanno impedito di scrivere. Massimo è stato malato gravemente
per molti anni e da allora mi sono dovuta adattare a scrivere un po’ di tutto:
traduzioni, rubriche di corrispondenza, articoli vari, persino reportages sportivi. La
notte dormivo pochissimo. Mi tenevo in piedi fumando anche cento sigarette al
giorno. È stata molto dura.304
E aggiunge: «forse se avessi avuto un maggior talento, questo si sarebbe imposto
e avrei scritto malgrado tutto. Oppure avrei accettato che anche altri si
occupassero di Massimo».305
Paola si occuperà di Massimo anche dopo la morte di quest’ultimo.
Continuerà a sistemare le carte dell’archivio e polemizzerà con Moravia, «a
proposito della responsabilità bontempelliana nella scoperta dello scrittore»:306
l’autore del celebre romanzo Gli indifferenti odiava il compagno della Masino
«perché era il solo che l’avesse aiutato, agli inizi, e lui non voleva essere grato a
nessuno».307
Dopo una lunga malattia la scrittrice e giornalista Paola Masino si spegnerà
in una casa di cura a Roma il 27 luglio 1989.308
303
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 63.
304
SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., p. 30.
305
Ibid.
306
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 151.
307
Ibid.
308
MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, cit., p. 26.
76 CAPITOLO SECONDO
LA NARRATIVA DEGLI ANNI TRENTA DI PAOLA MASINO.
II.1. «Il cielo era a volte verde come l’edera o rosso come un
tulipano»:1 le suggestive immagini di Decadenza della morte.
Decadenza della morte è una raccolta di racconti pubblicata dalla scrittrice
nel 1931. Il titolo deriva dall’omonimo racconto che conclude l’opera.
La lettura di questi scritti suscita la sensazione di non poter afferrare la loro
trama e il loro senso. In realtà si tratta di una serie di testi, i quali anticipano i tratti
salienti dell’intera produzione narrativa dell’autrice. Si rincorrono tra le righe
stupende immagini e svariate personificazioni di entità astratte. Non mancano
numerose pennellate di colori come il rosso e l’azzurro: il lettore può osservare
«Un’iscrizione di luce liquida in tubi rossi e azzurri»,2 oppure «macigni […] che
[…] verso l’alto diventano azzurri e rossi».3 A Roma si scorgono «Cappelli rossi,
azzurri, verdi di impermeabili che se ne vanno spavaldamente a Via Veneto».4
Un certo gusto per le sfumature cromatiche deriverebbe dalla suggestione
provocata «fin dalla prima infanzia dalla presenza dei quadri di famiglia nella casa
1
PAOLA MASINO, Decadenza della morte, cit., p. 25.
Ivi, p. 103.
3
Ivi, p. 89.
4
Ivi, p. 43.
2
77 materna in Toscana».5 Il padre ha un’autentica passione per la pittura moderna: la
casa di via Appennini e, in seguito, la dimora di viale Liegi hanno appese alle
pareti opere di artisti del calibro di Armando Spadini e Felice Carena, «coetanei e
amici […] <di> Enrico Alfredo Masino».6 Nel 1922 Paola ha il privilegio di
incontrare i fratelli de Chirico. Successivamente, durante il suo soggiorno
parigino, conoscerà Picasso e De Pisis.7 L’autrice sarà amica del pittore Mino
Maccari, autore dei disegni della sovracopertina del romanzo Poco di buono
pubblicato da Enrico Masino presso Vallecchi nel 1942.8 Mino, inoltre, a partire
dal 1938 avrà una casa a Montignoso, luogo di villeggiatura della famiglia della
scrittrice.9
L’arte è un’altra delle passioni che Paola condivide con Massimo: con lui
frequenta i caffè e i luoghi di ritrovo di artisti ed architetti, «interviene con scritti
critici in occasione di mostre».10 Negli anni trenta la Masino verrà immortalata in
numerosi schizzi e dipinti: Funi, Sironi, Salietti, De Pisis, de Chirico, Marini sono
solo alcuni degli autori impegnati a ritrarla tra il 1929 e il 1931.11 Secondo
Marinella Mascia Galateria questi
suoi amici artisti <sarebbero> […] rivelatori di un altro importante aspetto della
sua biografia intellettuale: l’interesse per le arti e in particolare per l’espressione
pittorica, sulla cui natura, comparata con quella della scrittura, […] rifletteva
sistematicamente.12
5
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 100.
6
Ibid.
7
Ibid.
8
Ibid.
9
Ibid.
10
Ibid.
11
Ivi, pp. 102-103.
12
Ivi, p. 102. 78 Marisa Volpi nel saggio Ritratti di Paola sottolinea come le opere masiniane
risentano dell’influenza delle correnti della «Metafisica e <dell’> Art-déco <. G>li
anni Trenta furono soprattutto questo […]: un realismo trasfigurato di volta in
volta da una certa magica surrealtà o dal grottesco della parodia».13 Il merito
dell’autrice è quello di essersi dimostrata in grado di «trova<re un> modo di
esprimere anche qualcosa di più intimo e drammatico»14 rispetto ai propri modelli.
Le descrizioni sfruttano la potenza evocativa di suggestive similitudini, dove
gli elementi naturali sono i termini di paragone. Il primo racconto intitolato
Giuochi d’aria, ad esempio, dona al lettore il ritratto inusuale di una chiesa:
La navata principale fu avvolta di chiarore tremante e il marmo si mosse
leggermente come l’acqua di un lago. Le colonne delle navate minori si curvavano
lente verso il centro come salici. I santi, gli altari, i grappoli di fiammelle di vetro, i
cappelli cardinalizi pendenti dal soffitto, tutto era sparito. Se n’erano andati senza
rumore e senza danze e la chiesa per la loro assenza era meno spopolata, più calda.
Ora il pavimento bizantino ondeggiava anche sotto le navate minori e le ruote di
marmo verde si movevano e s’incrociavano come i cerchi che il vento descrive
sulle acque. E improvvisamente da quei cerchi sorsero due cigni vivi, morbidi,
ricoperti di piuma, e scivolarono sulla superficie marmorea verso l’altare
maggiore.15
L’abilità di Paola nella costruzione delle immagini è destinata ad accrescere
sempre di più. Le personificazioni ostentano particolari stupefacenti. Singolare è,
ad esempio, la descrizione della costellazione dell’Orsa Maggiore nell’omonimo
racconto:
L’ORSA Maggiore è la costellazione più nobile del cielo. Siede nel centro del
nostro emisfero e intorno a quello gira placida senza mai tramontare. È ambiziosa
ed egoista: vuol rilucere comodamente e con la coda spazza la notte, affastella e
getta lontane le costellazioni di cattivo gusto, quelle più brillanti si dispone ai
13
MARISA VOLPI, Ritratti di Paola, in ivi, p. 104.
Ivi, p. 106.
15
PAOLA MASINO, Decadenza della morte, cit., p. 18.
14
79 fianchi in modo che le diano più risalto, non oscilla mai, né viaggia per gli spazi
duranti le notti d’agosto, parla soltanto a Cassiopea e alla Corona Boreale. Qualche
volta si specchia.16
Se l’Orsa maggiore appare personificata, vanitosa e un po’ altezzosa, le onde e il
cielo dell’Avventura divina a volte dimenticano il proprio compito: «Il cielo, il
mare, la spiaggia della città marinara, erano attoniti e fermi. Le onde si
dimenticano di arrivare a terra e il cielo di curvarsi sull’orizzonte».17
Paola è molto affezionata alla sua città, Roma, e per questo motivo le rende
omaggio dedicandole le più belle immagini della raccolta, oltre a raffigurarla in
alcuni dei racconti contenuti nell’opera: Terrazze su Roma, Orsa Maggiore, I
nuovi fantasmi di Roma.
Terrazze su Roma descrive la città come una splendida donna intenta a
sistemare la propria immagine. Vuole ammaliare i passanti e ci riesce. Il passo
seguente testimonia l’abilità della scrittrice:
Roma ha scelto i fili telefonici come sua chioma, e le piace dopo averli lavati
stenderli ad asciugare al sole. I parrucchieri che la ondulano l’hanno infiocchettata
di grappoli bianchi di porcellana. Così adorna, ella sorride, a chi la guardi da quelle
terrazze asfaltate, come la donna reclame di un dentifricio.18
E ancora:
Roma si è risvegliata si è messa una vestaglia che le ricamatrici le hanno preparata,
si è scoperta i seni, e se li adorna con perle che le ambasciatrici cercheranno di
rubare il giorno della presentazione a corte […]. Vedendola passare, i bambini, dai
balconi, la incitano con gridi.19
16
L’uso del maiuscoletto è originale. Ivi, p. 49.
Ivi, p. 75.
18
Ivi, p. 41.
19
Ivi, p. 43.
17
80 Le vie della città eterna si distinguono per caratteri e diversi atteggiamenti. Starà
al turista decidere da quale strada farsi conquistare:
Il Corso Umberto penzola sul cielo con rilassatezza. Ha una voglia irresistibile di
staccarsi e di formare costellazione a parte. Borbotta sempre. A volte diventa matto
furioso ferma i passanti e li incita alla rivolta, paga i giornalisti perché urlino a
squarciagola e coprano il suono delle sue parole tendenziose. Si dondola, gioca
all’altalena, balla le danze di moda, pesta i piedi, e si mette le dita nel naso. I
metropolitani non riescono mai a fargli la contravvenzione. Non ha nessuno
scrupolo di raddoppiare con la propria indisciplinatezza il lavoro di via Due
Macelli.
[…] via Due Macelli, sola, […] quando è stanca ha il privilegio di potersi
affacciare, da un pezzetto di veranda che fa anche parte della sua casa la quale lo
ruba a piazza Mignanelli, su un giardino fantastico. Se vuole, salta a piedi pari dalla
veranda nel giardino e cade esattamente in mezzo a una fontana davanti ai fiori dai
quali nasce l’arcobaleno di Roma.20
Il gusto per la personificazione sarà presente anche in Periferia, romanzo
pubblicato nel 1933. Questa volta saranno i mesi dell’anno ad assumere
sembianze umane. È il caso di aprile, il quale vuole realizzare i propri desideri, ma
poi ci rinuncia e lascia il suo posto al mese di maggio:
Aprile trascina in mezzo alle giovani agonie il desiderio di nulla e di sognare
uomini maturati in un sangue denso. Ma improvvisi amori sgorgano a superare la
morte e il senso vigile dell’Aprile si allontana dagli esseri, entra nel nirvana, onde è
scaturito, ci abbandona a una torturata inquietudine e al maggio patetico.21
Nel volume dal titolo Finzioni e confessioni. Passaggi letterari nel Novecento
italiano Rita Guerricchio parla di «realismo magico di Paola Masino».22 La
studiosa prosegue sottolineando come «l’entusiasmo manifestato da Bontempelli
20
Ivi, pp. 52-53.
EAD., Periferia, Milano, Bompiani, 1933, p. 160.
22
RITA GUERRICCHIO, Finzioni e confessioni. Passaggi letterari nel Novecento italiano, Napoli,
Liguori Editore, 2001, p. 55.
21
81 nel ’31, nella sua Presentazione a Decadenza della morte»23 sia «equivalente alle
felicitazioni per un arruolamento riuscito».24 Paola riprende i tratti del realismo
magico bontempelliano creando uno stile del tutto originale. Lo stesso Luigi
Baldacci, nell’articolo Gadda e la Masino: due classici del disordine pubblicato
su «Epoca» nel 1970, dipinge l’autrice come una sorta di Eva uscita dalla costola
di Adamo.25 «<Q>uella somiglianza»,26 si affretta ad aggiungere, «è <, però,>
tutta una differenza».27 Dello stesso parere è Giamila Yehya, la quale, in
«Avanguardia» nel 1999, giudica «eccessivo»28 interpretare lo stile masiniano
come «mera imitazione dei dettami novecentisti».29 In realtà «accad<e> proprio il
contrario»:30 in seguito alla morte di Massimo «la stessa Masino»31 decide di
«rinunciare alla sua voce artistica […] per occuparsi interamente dell’opera del
suo compagno».32 Si tratta di «una scelta ben precisa».33
La Yehya ammette come ci siano diversi «punti di contatto»34 tra lo stile
bontempelliano e la scrittura di Paola, nonostante ella si sia sempre impegnata a
non «perdere <mai> di vista il suo personale ed unico carattere».35 Massimo e la
compagna condividono «quell’idea di “pericolo” che comporta la creazione
artistica»:36 secondo l’autrice lo scrittore deve abbandonare ogni convenzione e
pregiudizio sociale, «quel pesante fardello ideologico e stilistico che nel
23
Ivi, p. 56.
Ibid.
25
LUIGI BALDACCI, Gadda e la Masino: due classici del disordine, in «Epoca», 5 aprile 1970, s. p.
26
Ibid.
27
Ibid.
28
GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 112.
29
Ivi, p. 111.
30
Ivi, p. 112.
31
Ibid.
32
Ibid.
33
Ibid.
34
Ivi, p. 113.
35
Ibid.
36
Ibid.
24
82 complesso <viene> a costituire la facciata ipocrita del pensiero e della vita».37
Solo così l’artista può scorgere le forze della «propria immaginazione, le
intuizioni della fantasia»,38 lasciandosi guidare da esse. Nel «primo cahier»39 di
«900» del 1926 Bontempelli sostiene la necessità di abbattere ogni regola,
lasciando spazio ad una nuova tipologia di letteratura.40 Si tratta, quindi, di
ricostruire la «“realtà esterna” e la “realtà individuale”, con il supporto di un unico
strumento, l’immaginazione».41 Il lettore ha così la sensazione che lo scrittore stia
raccontando fatti reali, mescolati a «temi e situazioni inconsueti».42 La narrazione
potrà presentare un esordio realistico, legato alla quotidianità e terminare con
scene ed immagini magiche.43 Al contrario un’«avventura eccezionale»44 avrà
l’opportunità di lasciare spazio alla dimensione della «realtà di tutti i giorni».45 È,
quindi, «un invito alla scoperta di ciò che <sta> dietro, sopra, dentro la realtà, in
un movimento in cui solo chi ha occhi vede».46 Nel 1927, all’interno del quarto
numero di «900»,47 Massimo darà a questa formula il nome di ‘realismo
magico’.48 Nel giugno del 1930 lo stesso Bontempelli afferma:
Comunissimo sopra tutti il pregiudizio che il romanzo abbia un ufficio specifico
[…] <:> rappresentare i costumi del tempo.
Ne deriverebbe che miglior romanzo è quello che li rappresenta con maggior
fedeltà.
Ove l’errore fondamentale è quello di non capire che la rappresentazione dei
costumi e delle passioni degli uomini non è un fine ma un mezzo […] per ottenere
37
Ibid.
Ibid.
39
L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 114.
40
Ibid.
41
Ibid.
42
GIOVANNI CAPPELLO, Invito alla lettura di Bontempelli, Milano, Mursia, 1986, p. 109.
43
Ivi, p. 110.
44
Ibid.
45
Ibid.
46
Ivi, pp. 110-111.
47
GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 115.
48
MASSIMO BONTEMPELLI, Realismo magico e altri scritti sull’arte, a cura di Elena Pontiggia,
Milano, Abscondita, 2006, p. 126.
38
83 in qualche modo quello che è lo scopo unico dell’arte […]: creazione e
interpretazione di un mondo che è insieme il nostro […] e qualche cosa di più là,
che ogni autore e ogni opera raggiunta rivela e offre e impone come invenzione
nuova agli uomini.49
Secondo Massimo non riveste alcuna importanza lo strumento con cui si
raggiunge tale obiettivo.50 Possono essere utilizzati «volti umani o […] nature
morte, […] lo sfogo lirico o l’analisi»,51 l’importante è che il romanziere si liberi
«da ciò che ved<e> e tocc<a>»52 perché «La vera norma dell’arte narrativa è
questa: raccontare il sogno come se fosse realtà e la realtà come se fosse un
sogno».53
Lo scrittore e pittore Alberto Savinio fu il primo a parlare di una
quotidianità «venata di magia».54 Nel novembre del 1918 all’interno del primo
numero di «Valori plastici» aveva definito il fratello de Chirico un «mago
moderno».55 Due anni prima, nel 1916, il pittore Carrà aveva sottolineato la
presenza di una certa magia nell’«“idea che gli uomini si sono fatta dell’arte”»,56
per poi osservare nel 1919 come «“le cose ordinarie rivel<ino> […] uno stato
superiore dell’essere”».57 È evidente, quindi, che la tendenza di Bontempelli a
riconoscere una certa dimensione magica nella quotidianità,58 fosse già presente
nell’ambito delle arti figurative.
49
Ivi, p. 50.
Ibid.
51
Ibid.
52
Ivi, p. 51.
53
Ibid.
54
Ivi, p. 130.
55
L’uso del corsivo è originale. Ibid.
56
Ivi, p. 131.
57
Ibid.
58
Ibid.
50
84 Massimo, d’altro canto, individua nella pittura quattrocentesca il modello
ideale di arte dove la «“precisione realistica”»59 si fonde all’«“atmosfera
magica”».60 Secondo lo scrittore comasco, in quelle opere pittoriche è
riconoscibile un certo alone di mistero61 e anche la letteratura è in grado di
riprodurre lo stesso effetto.62
Nel caso della produzione masiniana l’elemento del fantastico accompagna
l’analisi di tematiche complesse, e cioè la famiglia e l’infanzia caratterizzata da
una profonda incomunicabilità con la sfera adulta. Paola così «modific<a> il
mondo esteriore […] secondo <il suo> ritmo interiore»,63 applicando la formula
bontempelliana del realismo magico, secondo cui la dimensione dell’irrealtà non
deve essere scambiata con il «“favolismo delle fate”».64
I romanzi e i racconti della Masino si contraddistinguono per le trame
oscure e intricate, arricchite da personaggi inverosimili e da suggestive immagini.
Monte Ignoso, il primo romanzo di Paola del 1931, è solo un esempio di questa
sua naturale abilità. Ella intraprende un suo personale cammino di maturazione
letteraria: i temi vengono approfonditi ed ogni suo scritto affronta la questione
della maternità e della famiglia. In quegli anni il fascismo è impegnato nella
propaganda dell’ideale della donna come angelo del focolare. L’autrice è
consapevole della fallacia di una simile concezione: alla madre viene riservato
uno spazio ristretto all’interno di una società irrimediabilmente satura di
convenzioni e pregiudizi. L’obiettivo delle sue opere sarà quello di svelare
l’ipocrisia di quell’epoca. Lo stile utilizzato viene arricchito e, di conseguenza,
59
GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 115.
Ibid.
61
Ibid.
62
Ibid.
63
Ibid.
64
Ibid.
60
85 il magico si attenua per lasciar posto ad un più consistente senso del sacro […],
l’ironia si colorisce con le più decise tinte del sarcasmo, l’artificio diventa
miracolo, il semplice complicato, il lieve pesante, il fantastico grottesco e surreale,
il mito favola allegorica.65
Secondo Massimo la «favola <deve> essere […] sempre lucida, fantastica ma
raziocinante».66 Paola, invece, predilige la complessità delle immagini e l’uso di
trame intricate. I personaggi bontempelliani «esplora<no> con animo divertito»67
l’ignota dimensione della realtà, mentre i protagonisti delle opere masinine, al
contrario, sono continuamente impegnati in un percorso di profonda «ricerca
dell’essere».68 Rita Guerricchio parla, a questo proposito, di «uno scarto di
temperatura»69 della scrittura di Paola rispetto allo stile del compagno, dal
momento che nelle opere dell’autrice è riconoscibile un certo «grado di
concitazione che dona piglio profetico alle sue estasi, assetto biblico alle sue
argomentazioni, statura eroica ai suoi personaggi».70
Giorgio Bàrberi Squarotti sottolinea il fatto che l’elemento fantastico nella
narrativa degli anni trenta non «ha legami diretti con la situazione politica del
fascismo»,71 ma serve ad indicare «uno spazio o […] un mondo […] dove le
angosce e gli affanni trovano un’esplicazione che si pone come assoluta, vera».72
Il romanzo Monte Ignoso, invece, è solo un esempio di come la Masino utilizzi la
sfera dell’irrealtà per svelare la falsità dei modelli imposti dal regime.
65
Ivi, p. 118.
Ibid.
67
Ibid.
68
Ibid.
69
RITA GUERRICCHIO, Finzioni e confessioni, cit., p. 57.
70
Ibid.
71
GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, La forma e la vita: il romanzo del Novecento, Milano, Mursia,
1987, p. 209.
72
Ibid.
66
86 II.2. «Ecco comincio a soffrire […]. È il destino di ogni madre»:73
la degradazione familiare nel romanzo Monte Ignoso.
Monte Ignoso è il primo romanzo di Paola Masino, pubblicato nel 1931. Fin
dall’inizio l’opera illustra le caratteristiche peculiari dell’intera narrativa
dell’autrice: l’estrema e accurata analisi della realtà circostante, l’uso frequente di
tonalità cromatiche del rosso, del dorato, dell’azzurro e del verde, l’attenzione
rivolta alle figure dei padri e delle madri e l’immagine della famiglia in genere.
Monte Ignoso, in particolare, si sofferma sui temi della follia materna e
dell’immaturità paterna.
Nel primo capitolo la scrittrice delinea lo scenario del romanzo: l’atmosfera
è cupa e pervasa da fosche tinte di rosso scuro, dove si susseguono numerosi
personaggi biblici. Si tratta, quindi, di un’introduzione alla vicenda. Il lettore si
trova improvvisamente sommerso da «Nebbie rossastre»74 e scorge il personaggio
biblico di Rut che si muove «pensosa»75 nelle «vesti scarlatte»,76 mentre gli angeli
mostrano le loro «ali d’oro».77 Il paesaggio circostante evidenzia tali sfumature:
«Monti piccoli di argilla rossa coronavano le capigliature delle donne, fiumi verdi
legavano i sandali degli uomini, alberelli e nuvole fiorivano sulle schiene del
bestiame».78
Nel frattempo spuntano «angeli chiusi nei <loro> manti verdi»79 e
«cacciatori in giubbetto scarlatto».80 Non è casuale la scelta di questi colori e la
predilezione per il rosso. È la tonalità per eccellenza della passione, ma è anche la
73
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 100.
Ivi, p. 7.
75
Ivi, p. 8.
76
Ibid.
77
Ibid.
78
Ivi, p. 9.
79
Ivi, p. 10.
80
Ivi, p. 11.
74
87 sfumatura del sangue e della tragedia. Il verde, invece, secondo Stefano Lanuzza,
sarebbe il «colore della paura e della speranza».81
La vicenda è ambientata in una casa rossa situata presso Monte Ignoso, meta
di villeggiatura dell’autrice stessa. In quel luogo risiede la famiglia protagonista
del romanzo, benestante e, apparentemente, serena. Giovanni, il padre, fugge dal
suo ruolo di capofamiglia e scarica ogni responsabilità su Emma, la moglie, una
donna decisa e ferma nelle proprie convinzioni, ma caratterizzata da un amore
eccessivo per la figlia di sei anni, Barbara. Quest’ultima, nonostante l’età, è
l’unica figura adulta della famiglia, perché in grado di valutare ed analizzare le
varie circostanze in maniera lucida e obiettiva. Tanta maturità, però, non la
proteggerà dall’eccessivo affetto della madre, unica responsabile della
disgregazione del loro nucleo familiare.
Nell’articolo intitolato Metodologie di sovversione: “Monte Ignoso” di
Paola Masino, Silvia Boero segnala la scarsa fortuna della prova.82 Il romanzo «fu
[…] stroncato negli anni seguenti dalla critica fascista, che lo denunciò come
eversivo a causa dei toni sommessi eppure pericolosamente destabilizzanti per la
propaganda demografica».83
Il regime giudicò l’opera un testo «sovversivo»84 e, di conseguenza, lo
screditò gettandolo nel «dimenticatoio».85
L’immagine del paese toscano di Montignoso, sfondo di numerose estati
trascorse con l’amata famiglia, resterà sempre viva nella memoria creativa di
81
STEFANO LANUZZA, Siate buffi. Genealogie, tipi e stili del “buffo” in alcuni narratori toscani:
Palazzeschi, Ridolfi, Piccioli, Masino, Tabucchi, Bianciardi, Marianelli, Firenze, Edizioni
Pananti, 1992, p. 17.
82
SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione: “Monte Ignoso” di Paola Masino, in «Forum
Italicum», n. 1, 2008, p. 52.
83
Ibid.
84
Ibid.
85
Ibid.
88 Paola. Per questo motivo convincerà la madre Luisa, originaria di quella località,
a scrivere un volume intitolato Ricordi d’infanzia a Montignoso che verrà
pubblicato nel 2000, dopo la morte della stessa Luisa avvenuta nel 1975.86 È
significativa l’ultima parte della raccolta: si tratta di una serie di trascrizioni
registrate dalla madre di Paola su un nastro magnetico.87 Vengono riportate
diverse domande a lei rivolte dalla figlia, a testimonianza del loro affettuoso
rapporto. La vicinanza delle due donne è resa perfettamente dalle parole della
scrittrice citate nelle pagine iniziali dell’opera:
Mia madre era, come me, figlia di quel gran grembo naturale che ci ospitava. Lei e
io eravamo alla pari: lei per me, come io per lei, facevamo parte delle cose belle del
giardino: una pianta privilegiata che non rispondeva con sospiri di vento se io le
parlavo, ma con parole del mio stesso linguaggio: e mi sembrava naturale e giusto
ch’ella si chiamasse Luisa come l’erba cedrina.88
Monte Ignoso rientra nel genere del romanzo di “famiglia”. Il critico francese
Albert Thibaudet fu il primo a teorizzare questa tipologia di romanzo nel 1925.89
Per lo studioso l’opera I fratelli Karamazov di Dostoevskij del 1880 costituirebbe
«l’esempio per eccellenza del romanzo di famiglia»,90 poiché viene analizzato il
rapporto di quattro fratelli con il padre. La difficoltà di vivere un sereno amore
coniugale è il tema centrale di alcuni romanzi dell’inglese Mary Ann Evans, in
arte George Eliot: Thibaudet cita alcuni testi pubblicati tra gli anni cinquanta e
settanta dell’Ottocento, come Adam Bede, Middlemarch, Daniel Deronda e Il
86
LUISA SFORZA, Ricordi d’infanzia a Montignoso, a cura di Corrado Giunti, Carrara, Francesco
Rossi Editore, 2000, p. 11.
87
Ivi, p. 80.
88
Ivi, p. 15.
89
GIACOMO DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento. La letteratura del nostro secolo in un
grande racconto critico, Milano, Garzanti, 2010, p. 494.
90
Ibid.
89 mulino sulla Floss.91 Il tema centrale della produzione narrativa di Eliot è l’analisi
dei personaggi costretti ad accontentarsi di «union<i> irregolar<i>»,92 lontane da
quel «regolare istituto matrimoniale, di cui l’età vittoriana esige una irreprensibile
osservanza, spinta se occorre fino all’ipocrisia».93 Nel 1903 Samuel Butler
descrive in The Way all Flesh le «“difficoltà” matrimoniali»,94 frutto di una
profonda crisi sociale dell’epoca.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento il romanzo di
famiglia è presente anche in Francia con lo scrittore Paul Bourget, il quale
dimostra come il profondo malessere sociale sia la causa diretta del disagio
vissuto dall’uomo nella vita privata.95 Si tratta di una problematica presa in esame
anche da Abel Hermant:96 egli ritrae i «drammi personali»97 dell’essere umano
come il «riflesso […] di un problema di struttura storico-sociale».98
In Italia l’immagine di un ambiente domestico degradato contraddistingue
l’opere di diversi autori. Una donna di Sibilla Aleramo del 1906, ad esempio,
affronta il delicato tema della separazione coniugale e dell’abbandono del proprio
figlio.99 Lo stesso Massimo Bontempelli apprezzerà il testo, giudicandolo «un
lavoro di una precisa e profonda verità psicologica»100 dove avverte «una vastità
d’orizzonte»101 e «sent<e> l’efficacia artistica»,102 come lui stesso scrive il 29
91
Ivi, p. 495.
Ibid.
93
Ibid.
94
Ibid.
95
Ivi, pp. 495-496.
96
Ivi, p. 496.
97
Ivi, p. 497.
98
Ibid.
99
NERIA DE GIOVANNI, Carta di donna. Narratrici italiane del ‘900, Torino, Società editrice
internazionale, 1996, p. 1.
100
SIBILLA ALERAMO, Una donna, prefazione di Anna Folli, postfazione di Emilio Cecchi,
Milano, Feltrinelli, 2011, p. XIII.
101
Ibid.
102
Ibid.
92
90 novembre del 1907 a Giovanni Cena,103 lo scrittore e poeta compagno
dell’Aleramo dal 1902104 al 1910.105
Il discusso romanzo narra la vicenda autobiografica dell’autrice costretta a
contrarre un «matrimonio “riparatore”»106 con l’uomo che l’ha violentata.
Deciderà di abbandonare il marito, anche se ciò comporta la sofferta separazione
dal figlio. In Una donna, quindi, Sibilla rivendica il diritto alla propria autonomia
e alla possibilità di allontanarsi da un ambiente domestico degradato.107
Nel 1919 Federigo Tozzi narra nel romanzo Con gli occhi chiusi il rapporto
conflittuale tra Domenico, marito adultero e padre padrone, e il figlio Pietro.108 La
madre di quest’ultimo, Anna, è una donna debole, «tradita dal marito e sofferente
in silenzio».109 Dopo la sua morte, Domenico non proverà alcun dolore per la
perdita della consorte e Pietro non lo perdonerà mai per questo.
Gli anni trenta saranno caratterizzati da un certo interesse per l’analisi delle
«difficoltà di un rapporto equilibrato fra i sessi dentro e fuori l’istituto
matrimoniale».110 Già nel 1929 Alberto Moravia con l’opera Gli indifferenti si era
concentrato nella «descrizione di una dissipazione esistenziale come precipitato di
un più generale squilibrio ideale affrontato nel punto cardine del sistema sociale
vigente, la comunità familiare».111 Secondo l’autore l’uomo dell’epoca è vittima
di una realtà tesa a «modellare a una dimensione unica gli individui e le
103
Ibid.
EMMA SCARAMUZZA, La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo.
Amicizia, politica e scrittura, Napoli, Liguori Editore, 2007, p. 4.
105
Ivi, p. 199.
106
Ivi, p. 4.
107
Ibid.
108
GIACOMO DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, cit., p. 251.
109
Ivi, p. 212.
110
VITTORIO SPINAZZOLA, L’egemonia del romanzo. La narrativa italiana del secondo Novecento,
Milano, il Saggiatore, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2007, p. 13.
111
RAFFAELE CAVALLUZZI, Metamorfosi del romanzo. L’attività narrativa del primo Novecento,
Bari, Adriatica Editrice, 1988, p. 231.
104
91 masse».112 Carla, uno dei protagonisti della vicenda, decide di abbandonare una
vita da lei ritenuta «noiosa e mediocre»,113 appiattita dalle ipocrite «ambizioni
sociali del suo mondo».114 L’«indifferenza»115 e il «disgusto»116 per tale
condizione la spingono ad intraprendere una relazione con Leo Merumeci,
l’amante della madre. La famiglia descritta nel romanzo appartiene alla «media
borghesia urbana»117 ed è «avviata alla rovina dalla sua intrinseca inerzia e vanità
[…] e dalla calcolata “protezione” di un amico di famiglia, appunto il
Merumeci».118 Carla e il fratello Michele sono vittime di una situazione familiare
oppressa da una profonda «inautenticità»119 e «falsità sentimentale».120 Carla
s’illude di poter migliorare la propria condizione avvicinandosi a Leo, mentre
Michele avverte «il disagio esistenziale e il senso generale di una catastrofe
familiare e sociale».121 Non si dimostrerà mai in grado di risolvere positivamente
tale «disagio»:122 nel momento in cui deve uccidere Leo, la sua pistola s’inceppa.
Alla fine Merumeci sposerà Carla e tutta la famiglia si lascerà trascinare dalle
convenzioni sociali.123
Paola Masino conosce bene le opere di Moravia: nel 1937 convince
Bompiani a pubblicare la raccolta di racconti intitolata L’imbroglio.124 La casa
editrice Mondadori aveva rifiutato di occuparsi dell’opera, in quanto era già
112
Ivi, p. 232.
Ivi, p. 237.
114
Ibid.
115
Ibid.
116
Ibid.
117
Ibid.
118
Ibid.
119
Ivi, p. 238.
120
Ibid.
121
Ivi, p. 239.
122
Ibid.
123
Ivi, p. 240.
124
ALBERTO MORAVIA, ALAIN ELKANN, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 101.
113
92 troppo impegnata nella pubblicazione dei diari del maresciallo Badoglio.125 È
necessario considerare che la conquista dell’Etiopia era «ormai compiuta»,126 e il
secondo romanzo di Moravia, Le ambizioni sbagliate del 1935, non solo aveva
riscosso uno scarso successo, ma era stato «boicottat<o> dal governo»127 al quale
l’autore era ormai «noto come antifascista».128 Alberto decide di inviare
L’imbroglio a Bompiani. L’editore si dimostra poco convinto del valore della
raccolta. Chiede il parere alla Masino, che non esita a sollecitarne la
pubblicazione.129 Nonostante ciò Paola era solita ricordare come «Moravia
possed<esse> un mestiere, certamente, ma che la sua prosa non era arte».130 Per
lei scrivere significava dimostrarsi in grado di comprendere il mondo, evitando di
«sofisticarne l’assolutezza».131
Il suo primo romanzo intitolato Monte Ignoso, ad esempio, analizzerà le
difficoltà presenti nel rapporto coniugale e nel legame tra genitori e figli, spesso
nascoste da un’apparente normalità. Lo stesso farà in Periferia.
125
Ibid.
Ibid.
127
Ibid.
128
Ibid.
129
Ibid.
130
L’uso del corsivo è originale. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA
GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 106.
131
Ibid.
126
93 II.2.1. «La signora Emma»:132un profilo ambiguo di madre.
Emma è la protagonista del romanzo. La donna è stata concepita in maniera
peccaminosa e la sua preoccupazione più grande è quella di proteggere
l’incolumità fisica e morale della figlia. Questo pensiero ossessivo sarà il motore
della vicenda. L’instabilità di Emma risulta evidente nella tendenza a dialogare
incessantemente con i personaggi biblici immortalati in numerosi dipinti appesi
alle pareti della casa.
Emma viene descritta fisicamente solo a partire dal terzo capitolo. Si
caratterizza per i «capelli rossi»133 e, come un narratore esterno precisa,
non era bella. Quel che avvinceva in lei erano i capelli rossi legati con tre giri di
trecce intorno alla testa, e gli occhi color verde languido affogati in uno sguardo di
una vecchiezza secolare. Quand’ella guardava una cosa, anche la più insignificante,
sembrava che quel movimento di sollevare le palpebre e muovere la pupilla intorno
e fissare, fosse nato nella sua volontà già da millenni, ch’ella lo avesse risvegliato
da un sonno infinito, trascinato traverso secoli e mondi, fino nell’ora presente come
la luce di una stella. Quello sguardo aveva affascinato Giovanni.134
Nella descrizione è interessante notare la presenza del colore rosso accostato al
verde. Giovanni è il marito della protagonista: la considera un solido appoggio per
la famiglia. La donna è consapevole del proprio ruolo e, se all’inizio del romanzo
prova compassione e indifferenza per un uomo così inetto, successivamente
nutrirà nei suoi confronti un odio e un disprezzo profondo:
Emma lo considerava come un fanciullo nervoso e impressionabile, più difficile di
Barbara da educare. Così aveva due figli: una bambina di sei anni e un uomo di
quaranta. Ora li prese tutti e due per mano e li condusse in giardino.
132
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 15.
Ibid.
134
Ivi, p. 31.
133
94 – Giochiamo – disse.
Molte volte giocavano loro tre insieme, ed erano felici. Si rincorrevano, leggevano
favole, passeggiavano abbracciati ragionando seriamente di cose universali.
Barbara amava le cose grandi e misteriose, Dio, la Morte, l’Amore. Ne parlava
come di persone reali e cercava di rappresentarsele.135
La famiglia è felice solo quando appare immersa nella dimensione del gioco. Tale
aspetto verrà affrontato anche nel secondo romanzo masiniano, Periferia, dove i
bimbi protagonisti della vicenda ritroveranno nei loro divertimenti lo spazio ideale
per evadere da soffocanti ambienti familiari. In Monte Ignoso avviene la
medesima cosa: non appena ha fine l’atmosfera goliardica del gioco, la famiglia
viene travolta da un turbine di emozioni e di tragedie per poi sgretolarsi
completamente.
Emma rappresenta una seconda madre per il marito. Giovanni non ha avuto
un’infanzia serena a causa della signora Giulia, la madre, una donna cinica ed
avara. Pertanto desidera rivivere il rapporto genitore-figlio in maniera differente.
La moglie sembra la donna adatta per questo obiettivo, ma in realtà non si rivelerà
tale. Ella non gli riserverà lo stesso amore nutrito per Barbara, ma, al contrario,
arriverà a disprezzarlo per la sua immaturità. Il passato non è più recuperabile e
Giovanni non sembra volerlo accettare.
Barbara è l’autentica ragione di vita per Emma:
Io ho una figlia. Chi la tocca muore. Barbara è un raggio di Dio, una piuma
d’argento dell’ala di un angelo, un fiore caduto sul mondo come una goccia di latte
su un ramo. Emma ucciderà chi la tocca. Emma non sarà mai stanca di uccidere.
Prima questo pretaccio. Dài, Emma, non dimenticarti di finirlo, di sbranarlo. Così
così cosìiiiiiiii … Fatto. Ora bisogna bruciarlo perché sparisca del tutto, perché
Barbara se lo dimentichi.136
135
136
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 26.
95 Barbara è il simbolo della purezza e la madre sembra decisa a proteggerla da ogni
presunto attacco esterno. È interessante notare la ricorrenza dei verbi ‘morire’ ed
‘uccidere’ nella prima parte del passo citato. Successivamente avviene uno
sdoppiamento della protagonista, segnalato dal passaggio dalla prima persona alla
terza singolare: la negatività di Emma assume una sua autonomia incitando la
donna affinché distrugga chiunque osi intaccare la purezza di Barbara.
L’esortazione avviene con un ritmo crescente ed è caratterizzata dalla ripetizione
ossessiva del nome ‘Emma’.
Nel brano analizzato la protagonista parla di un «pretaccio»,137 riferendosi
alla figura di un sacerdote visto da Barbara durante un’allucinazione un giorno
alle «quattro del pomeriggio».138 L’episodio allarma Emma in maniera
sorprendente, facendo emergere la sua parte malata. Il prete è uno dei personaggi
immortalati nei diversi dipinti della casa e secondo Marinella Mascia Galateria
ricorderebbe il «ritratto settecentesco, realmente esistente nella casa di
Montignoso, dell’abate Luca Nottolini».139 Secondo Emma, l’uomo sarebbe
colpevole di avere assistito impassibile al suo concepimento avvenuto in maniera
peccaminosa: «In un angolo era il ritratto di un canonico, bisavolo della famiglia.
Con una mano teneva una lettera aperta. Vi si leggeva il suo nome scritto in lettere
rosse: FEDERICUS LUDOVICUS VAIRA SACERDOS».140
La vista di quel ritratto risveglia in Emma una serie di emozioni e sensazioni
responsabili della perdita del suo controllo emotivo. Non sarà codesta la prima
137
Ibid.
Ivi, p. 15.
139
MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, in
«Avanguardia», n. 17, 2001, p. 113.
140
L’uso del maiuscoletto è originale. PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 19.
138
96 volta in cui Paola descriverà dei personaggi religiosi attribuendo loro tratti
decisamente negativi:
Appena fu sola, furiosamente si precipitò in casa, su per le scale. Giunta […]
davanti al quadro del bisavolo canonico, si arrestò di schianto. […] vibrava come la
vetta di un’antenna troppo lunga. Anche tutto il suo volto chiuso e le mani
abbandonate lungo i fianchi sussultavano, premute dall’impeto di una passione
mostruosa. Stette così un minuto a fissare il ritratto impassibile del sacerdote
Federico Vaira. In quel minuto gli occhi le si sfacevano, la bocca divenne un taglio
nero, il respiro le usciva a vampate fangose quasi che nel ventre le ardesse un fuoco
viscido, come deve essere quello che rimane nei fianchi di un vulcano spento. A
poco a poco […] mosse le labbra, e […] cominciò a parlare. Le parole le
scendevano dal cervello lungo la fronte gelata negli occhi marci, vi si insozzavano,
diventavano oscenità. Allora lungo il naso, in due solchi violetti, colavano fino alla
bocca ove si rotolavano nel fango ardente. Poi ne uscivano dure come sassi e
sibilando si scagliavano contro il prete.141
Ci troviamo dinanzi a un’autentica metamorfosi: Emma, per difendere la figlia, si
trasforma in un’entità mostruosa. Il lettore inizialmente fatica a comprendere
come l’immagine di un quadro possa provocare una reazione così estrema. Il
respiro diviene più affannoso, cambiano i connotati facciali della donna e i termini
usati nella descrizione richiamano alla mente le caratteristiche tipiche di una
creatura risalita dagli inferi. Le parole rivolte dalla donna al prete confermano tale
sensazione:
Basta. Ora basta. Barbara non devi toccarla. Se no racconto a tutto il paese quello
che fai, che hai fatto. Ti faccio disseppellire. Ti butteranno in una chiavica, ci
affogherai. Che cosa vuoi da lei? Farne una donnaccia, come me? Lei non lo sa
quello che io sono. Tutta la mia vita per colpa tua, di quegli altri, sarà quest’inferno
rovente. Almeno mi potessi scaldare e illuminare con questo fuoco. Ma no, ma no.
Giù, Emma, gli uomini e i dolori ti sfonderanno, ma tu sta’ zitta se no Barbara avrà
schifo di te.142
141
142
Ivi, pp. 22-23.
Ivi, p. 24.
97 Il sacerdote sarebbe stato spettatore di scene peccaminose accadute nella casa di
Monte Ignoso:
Ora schianto di rabbia perché lo so che è lui, che sono loro, che mi torturano così.
Hanno cominciato prima ancora che io nascessi. La mia mamma, la tua nonna
Barbara, li guardava quand’era incinta e la incantavano. Lei, ogni sera il marito
[…] la obbligava a essere una di queste donne, Esther o un’altra. Non posso dirti
quello che facevano. Si mettevano in terra, qui davanti. Io sono nata così. Da
allora, sempre, tutta questa gente mi è stata addosso. Io entro nei quadri, loro ne
escono. […] Che cosa ti sto raccontando Barbara? […] È questo prete maledetto
che mi spinge a farti male.143
I ricordi lasciano il posto alla rabbia della donna per quanto accaduto. È decisa a
salvaguardare la figlia Barbara e la violenza si presenta come il mezzo di difesa
ideale. Subito la protagonista minaccia il ritratto: verrà distrutto. Emma sfoga
tutto il suo odio, dimostrando una ferocia smisurata. Le frasi sembrano sconnesse
tra di loro e servono a dimostrare l’agitazione interiore di una madre disperata:
Non pensi che sono una madre, io, una bestia furibonda? Ora ti ammazzo più che
posso, ti sfondo quella faccia ipocrita, voglio mangiarti le mani, cercarti tra il
vestito pitturato un cuore vero, fartelo, fartelo se non ce l’hai, per pestarlo sotto i
piedi. Bastano quattro pugni a sfondarti. E allora addio bocca sdentata. Sputa
sangue. Ma non ne hai. Ci sputerò io, per fartene. Occhi schifosi, addio. Addio
naso torto, e orecchie grasse. […] Come sarò contenta. Proprio contenta. No, non
ancora contenta. Voglio sfondarti tutto. Ma di là. In faccia a quegli altri che vedano
come so difendermi. […] Difendo Barbara. […] Saluta per l’ultima volta queste
belle campagne, questi mari, queste montagne fredde.144
Emma sembra colta dal delirio. La sua è una reazione molto forte, all’apparenza
ingiustificata. In un primo momento minaccia di morte il quadro del sacerdote
Vaira, a suo avviso, un autentico pericolo per l’incolumità della figlia. In seguito
svela gradualmente la causa di tanto odio: la donna sarebbe il frutto di un
143
144
Ivi, pp. 24-25.
Ivi, pp. 25-26.
98 concepimento peccaminoso che l’ha macchiata e marchiata per tutta la vita. Il
religioso avrebbe assistito inerte alla scena, come del resto hanno fatto tutte le
altre raffigurazioni bibliche, e sollecitato il gesto. È presente una critica alla
religione e ai suoi rappresentanti, responsabili di assistere in maniera passiva agli
eventi negativi dell’epoca. Le dichiarazioni rilasciate dalla Masino, a proposito
della religione, in occasione di un’intervista concessa a Sandra Petrignani nel
1984, sono un’ulteriore prova di tale aspetto:
in Italia quasi tutti vanno in chiesa, moltissimi si riconoscono sinceramente nella
religione cattolica. Ebbene, quanti si preoccupano di conoscere seriamente i
fondamenti della loro religione? Quanti hanno letto la Bibbia e osservano
scrupolosamente i comandamenti? E così si va in chiesa ma si ha l’amante, si
abortisce, si sperpera il superfluo, si è invidiosi, si è arrivisti. Ecco l’esempio di una
società incolta e approssimativa.145
L’immagine di una società italiana ipocrita descritta nel passo citato coincide con
quella dei genitori di Emma: le pareti della loro abitazione sono tappezzate di
immagini bibliche, di fronte alle quali si sarebbero consumati diversi atti
peccaminosi. Paola non è religiosa, come ci tiene a precisare,146 ma considera la
Bibbia un testo altamente istruttivo. Lei stessa ha tratto dall’opera la forza
necessaria per analizzare la realtà e cercarne la verità:
Avevo nove anni quando mio padre mi suggerì di cominciare a leggere la Storia
Sacra e poi via via gli altri testi di religione, non soltanto cattolica. Io li lessi e a
sedici anni mi accorsi di non credere a niente. Però la saggezza di quei libri, che ho
sempre amato, ha lasciato in me l’aspirazione alla vita come ricerca e come
possibile conquista di un assoluto eroico.147
145
SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., pp. 27-28.
Ivi, p. 28.
147
Ibid.
146
99 Ancora una volta è Enrico Alfredo Masino a guidare Paola nelle sue letture.
Tornando all’analisi del dialogo tra Emma e il sacerdote Vaira, è
interessante notare come ci sia di nuovo uno sdoppiamento della sua personalità.
Emerge la parte più intima della donna, che la esorta a tacere quanto avvenuto
prima della nascita della figlia. La madre si considera «una donnaccia»148 ed è
determinata a risparmiare alla figlia lo stesso destino. Riflette ad alta voce sulla
propria natura e immagina di rivelarla a Barbara. I toni utilizzati sono desolati e di
rimpianto, ma lasciano subito spazio alla rabbia e all’odio per il prete. La
protagonista arriva a minacciarlo di morte, come dovesse difendere la figlia da un
pericoloso malfattore ed assassino. Le parole trasudano violenza ed esprimono in
tutta la loro forza l’aggressività di una madre profondamente spaventata. Emma si
paragona a Giuditta nel momento in cui uccide Oloferne. Quest’ultimo, secondo
la protagonista, si sarebbe reincarnato nella figura del sacerdote. In realtà le due
donne incarnano due figure femminili differenti: mentre Giuditta «aveva
ammazzato un uomo vero, che aveva giaciuto con lei <,> Emma non ha ucciso
che una sua fissazione, un’immagine».149 Il passo termina con un elenco di insulti
rivolti agli uomini immortalati nei dipinti: sarebbero autentici «criminali.
Stupratori. Ladri. Falsari. Incestuosi».150
Alla fine l’‘omicidio’ tanto annunciato verrà commesso: il ritratto del
sacerdote Vaira sarà distrutto:
A poco a poco il quadro cedette, finchè cadde trascinando con sé una crosta di
muro. Emma non s’era fatta nulla. Lo prese. Lo portò nella sala degli armadi, lo
gettò nel mezzo, perché tutti quei personaggi biblici vedessero come lei sapeva
difendere sua figlia, e cominciò a sfondarlo. Lo calpestava con crudeltà e
148
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 24.
Ivi, p. 46.
150
Ivi, p. 26.
149
100 riflessione: prima la bocca, come aveva detto, e vi sputava sopra: poi gli occhi, il
naso, le orecchie. Ogni volta che alzava il piede per colpire, il volto le si illuminava
di gioia. Quando del quadro non rimasero più che brandelli di tela e pezzi di legno,
li raccolse nella gonnella e discese. In cucina gettò tutto nel fuoco e aspettò che
bruciasse.151
Il pericolo sembra passato, ma non sarà così. La distruzione del ritratto innescherà
un processo destinato a porre in discussione l’identità di Emma e il suo rapporto
con la famiglia.
Barbara, una volta appresa la fine del dipinto del sacerdote, proverà un
sincero dispiacere per l’accaduto, disorientando la madre:
il quadro si è sfondato. Proprio la faccia. Ti dispiace Giovanni?
– A me, sì – interruppe Barbara. – Era proprio bellino.
Emma la guardò con angoscia. Disse lentamente:
– Io l’ho buttato nel fuoco, perché era sfondato. Non era una pittura di valore.
– Che peccato – insistè ancora Barbara. – Era un antenato.
Emma sembrava così disperata di aver fatto una cosa spiacevole a Barbara, che
Giovanni si affrettò a dire:
– Ma no, Barbara. Ha fatto male alla mamma. Bisognava castigarlo.
– Già – ammise Barbara – solo i bambini possono fare male alla sua mamma.
– Oh – disse Emma – ma le mamme non devono mai fare male ai loro bambini.
– Qualche volta possono sculacciarli – ammise ancora Barbara. – Me no.152
Le certezze della donna vacillano miseramente e tutta la sua sforza svanisce.
Manca il coraggio di rivelare la reale motivazione alla base del gesto e risulta più
semplice nascondersi dietro alla scusa della presunta mancanza di valore del
quadro. La protagonista teme di rivelare la verità alla figlia. Barbara potrebbe
soffrirne o semplicemente non comprendere. Giovanni non condivide i timori
della moglie e si preoccupa del suo stato emotivo. Per questo, una volta accortosi
del dispiacere provato dalla consorte, si affretta a trovare una giustificazione
151
152
Ivi, p. 27.
Ivi, pp. 28-29.
101 plausibile: «Ha fatto male alla mamma. Bisognava castigarlo».153 La bambina
dimostra una certa maturità osservando come solamente i figli siano in grado di
nuocere alle proprie madri. Preannuncia così l’esito della vicenda: non esiste
dolore più grande di quello derivante dalla perdita di un figlio. Emma non coglie
questo messaggio nascosto e si affretta a sottolineare come le mamme non
debbano in nessuna occasione punire i figli, ma solamente proteggerli. Barbara la
contraddice sottolineando la necessità di qualche castigo. Solo lei ne è esente: si
dimostra consapevole dell’eccezionalità della propria condizione.
Emma è un personaggio enigmatico e difficile da comprendere. L’
atteggiamento appare ingiustificato e le sue azioni e convinzioni sono
completamente avvolte nel mistero. L’attaccamento alla figlia è una forma di
riscatto per l’amore mai ricevuto dai genitori. Ritrova un affetto profondo nel
proprio legame con la bambina ed è continuamente terrorizzata dall’idea di
perderlo. L’autrice fornisce scarse notizie riguardanti la famiglia d’origine della
protagonista. È chiara, tuttavia, l’atmosfera lussuriosa ed immorale da sempre
presente in quella casa fin dall’ infanzia:
Giovanni andò ad abitare nella casa rossa sul monte: il monte era un antico
vulcano. Un monte di fuoco, Mons Igneus, Monte Ignoso. La casa si chiamava
così. E poiché era molto antica e intorno le era nato un villaggio anche il villaggio
aveva quel monte: Monte Ignoso. Qui Emma aveva sempre vissuto e aveva
trascorso in modo misterioso i tre anni dopo la morte dei genitori fino al giorno del
matrimonio; senza vedere mai nessuno, senza viaggiare, senza riempire le giornate
con i lavori usuali delle donne. Si era occupata solamente dell’amministrazione dei
propri terreni, come aveva imparato da suo padre, e nelle ore libere vagava per la
casa o rimaneva seduta, sola e in silenzio.154
153
154
Ibid.
Ivi, pp. 38-39.
102 È il ritratto desolante di una donna sola, salvata da un marito anch’esso alla
ricerca di salvezza. Ella possiede una certa istruzione e il padre si è preoccupato di
trasmetterle tutte le nozioni necessarie per amministrare il patrimonio, cercando di
assicurarle un futuro. Ben presto questi tratti del papà svaniranno completamente
e lasceranno spazio alla descrizione del suo lato più oscuro:
In quel tempo aveva trovato le lettere e un diario scritti da suo padre e sua madre.
Quelle pagine […] erano ignobili di brutalità e lussuria. Ogni cosa era detta e
ridetta, descritta in ogni particolare con un compiacimento sessuale con
un’ossessione di persona isterica. Emma al principio non aveva capito. Leggeva
lentamente due, tre volte. […] Così conobbe il modo orribile del suo concepimento
al quale, secondo la descrizione del diario, i personaggi dipinti avrebbero
presieduto, così conobbe molte e molte altre scene disgustose nate dall’incubo di
quelle facce immote, così seppe come il sacerdote Federico Vaira vi avesse preso
parte e le avesse benedette in nome del Signore. Emma assorbì quel male come una
spugna arida s’imbeve d’acqua e credette essere una emanazione dei quadri
misteriosi, una materia in loro potere, non più una vita libera. […] quando più tardi
sposò Giovanni […] più che prender parte alla vita del marito sembrava rimanere
in disparte e guardare. Giovanni molte volte aveva la sensazione precisa che Emma
si era sposata soltanto per vedere. Domandarle che cosa sarebbe stato inutile,
perché Emma taceva e rifiutava di parlare di se stessa, delle proprie azioni, dei
genitori. E Giovanni non insisteva per paura che a lui si domandasse di sua
madre.155
Emma ha paura di rivelare i propri trascorsi al marito. Del resto a lui non resta che
rispettare tale scelta, per evitare che si parli di sua madre. I due personaggi,
pertanto, non sono legati solo dal vincolo del matrimonio, ma anche dalla
vergogna per un passato familiare scomodo. La protagonista, dopo aver scoperto
la perversione dei genitori, sente la necessità di preservare il marito e Barbara da
tanta depravazione: terrà Giovanni all’oscuro di quanto scoperto a proposito del
proprio concepimento. Così s’illude di proteggere se stessa e la figlia dalle
pulsioni sessuali ossessive dei suoi genitori. In realtà la madre sarà, a sua volta,
vittima di un comportamento maniacale, anche se di natura diversa: «Devo
155
Ivi, pp. 39-40.
103 difendere Barbara. È pura. L’ho concepita semplicemente, secondo natura, come
certo Dio vuole che si faccia».156
Emma ripete queste parole nella sua mente, fino a perdere completamente il
controllo della situazione. Tenta di trovare conforto, chiedendo una spiegazione
dei propri incubi a Giuseppe, uno dei personaggi biblici dei ritratti. Quest’ultimo
la mette in guardia: se non si libererà dalle sue paure perderà se stessa e la propria
famiglia: «La vita ti scorre sopra piena di affetti. Ma tu li lasci precipitare nella
morte – disse Giuseppe. – Quando vorrai riconquistarli, te li tirerai malamente sul
capo, e morrai soffocata sotto di loro».157 Emma ricorda l’immagine materna
descritta da Ada Neiger nella premessa al volume da lei curato intitolato
Maternità trasgressiva e letteratura.158 La protagonista di Monte Ignoso
rappresenta una «donna ingabbiata nel ruolo materno a tempo pieno <che> aspira
a divenire una Madre Perfetta».159 Per raggiungere questo ideale di perfezione
«Spesso […] avviluppa <la figlia> in una relazione esclusiva, viscosa, soffocante
e immatura».160 Secondo la Neiger una simile reazione è in parte giustificabile e
«riconducibile al fatto che un po’ tutte le donne che danno la vita al figlio non
riescono mai a staccarsene completamente»,161 ma, al contrario, lo ritengono «un
prolungamento del proprio corpo e non come un essere autonomo».162 La società
è la principale responsabile di questa condizione: l’«esclusione»163 delle donne e
156
Ivi, p. 46.
Ivi, p. 47.
158
ADA NEIGER (a cura di), Maternità trasgressiva e letteratura, Napoli, Liguori Editore, 1993.
159
Ivi, p. 8.
160
Ivi, p. 9.
161
Ibid.
162
Ibid.
163
Ibid.
157
104 l’«impoverimento delle loro vite»164 ha provocato un profondo «desiderio di
rivalsa che ha finito per rovesciarsi sugli stessi figli con esiti distruttivi».165
La donna non da ascolto a Giuseppe e prosegue il cammino verso la
tragedia, animata da un’apparente lucidità. L’allontanamento di Barbara da Monte
Ignoso è la prima tappa del viaggio della famiglia verso la catastrofe e la
disgregazione: «Bisogna allontanare Barbara da questa vecchia casa. La
manderemo in collegio, non importa dove. Purchè non stia qui. […] Più Barbara
sarà lontana, più potente sarà la sua vita».166
Emma è determinata a riscattarsi per dimostrare a se stessa di non essere
stata contaminata dalla condotta immorale dei genitori. È un’illusione: è una
madre ossessiva e una moglie adultera, perché da tempo ha una relazione
clandestina con Marco, lo stalliere «Biondo; di un biondo così slavato che si
confondeva nel fieno. Aveva un’espressione indifferente e però ostile, piena di
volontà cieca. Ventidue anni».167
Nel passo citato l’autrice isola l’età dello stalliere all’interno della
descrizione per suggerire l’idea di una certa differenza di età tra i due amanti. La
protagonista non è perfetta come lei stessa è impegnata a far credere. Lo stalliere
sembra non essere solo un capriccio, ma un uomo a cui rivelare le proprie paure e
inquietudini, da cui farsi ascoltare, cosa che Giovanni non è più in grado di fare.
Nemmeno Marco, tuttavia, si dimostra all’altezza delle aspettative: Emma gli
rivela l’allucinazione avuta dalla figlia e lui osa mettere in dubbio la salute
mentale di Barbara, liquidando così la questione: «Allora si mette Barbara in
164
Ibid.
Ibid.
166
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 42.
167
Ivi, p. 52.
165
105 manicomio».168 La reazione della donna è violenta a tal punto che la Masino la
paragona ad un avvoltoio:
– Eh? – urlò Emma. Si era portate le mani davanti al volto, rattrappite come le
zampe di un avvoltoio. – Che cosa hai detto?
– Manicomio.
Emma gli si gettò addosso graffiandolo sul volto e cercava di raggiungerlo anche
con la bocca per morderlo. Lui in principio non si difese perché non aveva capito,
sorrideva. Poi tentò di prenderle le mani e fermarla. Finalmente la afferrò per i
polsi e glieli torse. Ella si accasciò in terra.
– Va bene – disse. – Mi dispiace di non averti levato gli occhi, cane! Ma non mi
vedrai mai più. Barbara in manicomio!
– Anche tu sei pazza – affermò calmo l’uomo.169
Marco ha individuato il problema di Emma: è pazza. È arrivato a questa
conclusione non solo a causa dell’atteggiamento della donna in seguito al suo
suggerimento di rinchiudere Barbara in manicomio. Per tutto il periodo della loro
relazione clandestina, c’è stato il divieto di nominare il nome dell’adorata figlia
per non intaccarne la purezza. Il veto è stato infranto e lo stalliere ha superato ogni
limite dubitando della perfezione della bambina. Il giovane crede che la situazione
sia ancora recuperabile, ma la donna si è convinta della necessità di porre fine a
questo legame scandaloso. Non lo fa per rispetto a Giovanni, il marito ignaro di
tutto, ma per Barbara, la figlia insultata dall’amante. Lo stalliere reagisce con la
stessa violenza dimostrata dalla protagonista pochi minuti prima. Crede di averla
assassinata:
– Domani notte vieni alle due.
– No.
– Domani notte vieni alle due.
– Domani vado in città. E domani notte starò con un signore.
– Sta zitta, carogna!
168
169
Ibid.
Ivi, pp. 52-53.
106 Allora Emma si divertì.
– Con un signore, poi con un altro, poi un altro – rise. Lui si precipitò. Lei subito
gettò un urlo e cadde in terra senza più muoversi. Marco prese la candela dalla
bottiglia e guardò Emma. Era tutta nera. Aveva la bocca aperta, grande, come uno
che dorme e si dimentica di russare. […] una polverina giallognola, minuta, le si
distese come oro sulla fronte livida. Marco la guardava ma non pensava neppure
che poteva averla uccisa, benché desiderasse fortemente di averla uccisa. Se no,
perché le avrebbe dato quel calcio nel ventre?170
Emma non solo disobbedisce a Marco, ma ignora il suo ordine di continuare la
loro relazione, rifiutando l’appuntamento da lui stabilito per il giorno successivo.
Inizia a prendersi gioco della gelosia dell’amante. Quest’ultimo, di conseguenza,
l’aggredisce, perché ella è colpevole di aver sottovalutato i suoi sentimenti. Lo
stalliere è da sempre consapevole dell’impossibilità della protagonista di nutrire
per lui lo stesso amore sentito per Barbara. L’ossessione per la figlia li separa e il
giovane avverte la necessità di eliminare la donna. Il calcio sferratole al ventre,
simbolo della maternità, esprime tale esigenza. L’azione non gli procurerà alcun
sollievo e immagina le conseguenze del suo gesto. È consapevole dell’esito della
vicenda, il suicidio: «Quando muoio, non me lo levate il costume da galeotto. […]
Io non avrò neppure una bara, invece a lei sulla tomba gli ci hanno messo un
angelo con una croce, tutto di marmo bianco».171
Il giovane si preoccupa immediatamente per i genitori, quel padre e quella
madre che dopo la sua morte saranno troppo condizionati dal giudizio altrui per
piangerlo:
Quando mi avranno condannato mi faranno scrivere una lettera a casa.
«Cari genitori, vi scrivo per dirvi che il gran giorno è passato ma senza buoni
risultati come voi dovete sapere e sono condannato a venti anni in una colonia
penitenziaria e come vedete cari genitori saremo morti prima di rivederci perciò
venite a cercare i miei vestiti se no li buttano. Mi darete l’indirizzo quando
170
171
Ivi, pp. 53-54.
Ivi, p. 54.
107 cambierete il paese dove si stava tanto bene prima di quel delitto di un miserabile
come me, che mi tiene per sempre lontano da un buon padre e dalla cara mamma,
e dai fratelli e dalle sorelle che non rivedrò più e il mio nonno che mi voleva tanto
bene non lo vedrò più, e Lisa e Rosa e Gino che è a Tripoli lui che era tanto buono
con me che vergogna per tutti voi che non avete colpa di nulla.
Vostro figlio che pensa a quello che ha fatto e piange pensando a un delitto così
infame che vi ha messo nel dolore e nelle vergogna per il rimanente della vostra
vita come quella dei miei cari fratelli e sorelle che piangeranno sempre un così
grande delitto commesso dal fratello giovanotto, galeotto per sempre, Franceschi
Marco».172
Gli ultimi attimi di vita di Marco sono strazianti: osserva per l’ultima volta le
finestre chiuse, dietro alle quali dorme la famiglia. Prima di legarsi la corda
attorno al collo ha un ripensamento. «Mica è morta, mica è morta»,173 continua a
ripetersi, ma Emma non si riprende e una tragica fine attenderà lo stalliere.
L’ossessione della protagonista non solo non proteggerà la famiglia dalla
catastrofe finale, ma è la causa del suicidio dell’amore clandestino. La donna
recupera le forze e non appena vede il cadavere di Marco pensa di nuovo alla
figlia. È preoccupata del suo giudizio e per questo non si rende conto della
tragedia appena consumatasi:
Barbara saprà che cosa facevo di notte. […] Urlò al cadavere:
– Scendi idiota!
[…] Emma serrò i denti, gettò indietro la testa e corse presso Marco. Sollevandosi
sulle punte dei piedi, si tese con tutti i muscoli, afferrò le gambe di lui, e tirava.
Ripeteva:
– Scendi idiota! Scendi idiota!174
Il suicidio di Marco non suscita nessuna tristezza nell’animo dell’amante:
A me non importa che si sia impiccato […]. Ha avuta paura di andare in prigione,
Dunque la colpa è mia. […] No. Quest’amore l’ho afferrato, l’ho goduto fino
172
L’uso del corsivo è originale. Ivi, pp. 54-55.
Ivi, p. 57.
174
Ivi, p. 60.
173
108 all’ultimo. Non lo lascio precipitare nella morte. Muore perché l’ho consumato
tutto. Perché non c’è più.175
E aggiunge: «Che furia! La stessa furia per ammazzarmi, la stessa furia per
impiccarsi. È morto, non ho più amante. È giusto così. Il prete, Marco, tutto quello
che può nuocere a Barbara deve morire».176
Non è stato l’amore a legarli e ciò è chiaro dalla reazione che prova di fronte
al cadavere.
Inizialmente la famiglia di Marco sfoga tutto il proprio dolore per la notizia
di una morte così inaspettata:
In quel momento arrivava la famiglia del morto. Il padre, la madre, le due sorelle, il
fratello, il nonno. Vennero di corsa, bianchi, muti, si aggrapparono alla porta, al
petto dei carabinieri, e improvvisamente levarono grida altissime. Il padre a un
tratto si rotolava in terra, graffiando il suolo: la madre si precipitava con il capo
contro i muri: le due ragazze si aggrappavano alla madre invocando: il fratello si
strappava la camicia sul petto e si arrampicò su un declivio erboso, per aver più
aria e poter gridare meglio: il nonno piangeva in silenzio e dimenticava di
asciugarsi le lacrime.177
Tutto il paese condivide la sofferenza dei familiari del defunto, espressa da
immagini suggestive. Successivamente qualcuno intuisce che si è trattato di un
suicidio e suggerisce di ignorare una morte così peccaminosa. La madre reagisce
con la stessa furia manifestata dalla protagonista del romanzo di fronte alle
perplessità dell’amante a proposito della salute mentale della figlia:
A poco a poco tutto il paese divenne un’unica bocca immensa che gridava. Il velo
bianco del cielo tremava, si gonfiava e tendeva sotto l’onda di quell’urlo, e a pena
175
Ivi, p. 62.
Ivi, p. 64.
177
Ivi, p. 68.
176
109 lo conteneva come una vela piccola un vento troppo forte. […] Qualcuno nella
folla, gridava: – Legate le campane! È un suicida!
La madre si voltò. Li guardava come una fiera, quando si slancia, con gli angoli
della bocca rialzati, i denti scoperti. Alzò le mani al cielo. Lo difendeva.
– No! Me l’hanno ammazzato, il figlio mio! Assassini!178
Come Emma era stata paragonata ad un avvoltoio, la madre di Marco è una fiera
pronta ad azzannare chiunque osi fare simili insinuazioni. Il suo atteggiamento
muterà, come preannunciano le parole di un Gesù Bambino immortalato in uno
dei numerosi ritratti della casa di Monte Ignoso: «Voi amate i vostri figli ma siete
tanto lontane da loro».179 Gesù si rivolge alla madre Maria e alla stessa Emma, la
quale, attraverso una profonda ossessione per l’incolumità di Barbara, contribuirà
a segnarne la fine. La mamma dello stalliere, invece, in seguito al dolore iniziale
per il suicidio del figlio, non ne protegge la memoria dalle malignità del paese.
Dimentica l’amore per lui e condivide l’opinione della gente sul suo conto. Lo
stesso farà il marito. Gli anziani genitori non si preoccupano di comprendere le
motivazioni di un gesto così estremo compiuto da Marco, perché troppo intenti a
vergognarsi di lui:
La madre era immobile all’altro capo del tavolo, con le mani incrociate sul grembo.
Acre rispose:
– Che cosa volete che ce ne facciamo? Neppure una tomba gli possiamo fare,
perché si è ammazzato. Stà lì, fuori del cimitero, e fa vergogna a tutta la famiglia.
– Mamma! – gridò la maggiore delle sorelle – Sta’ zitta. – La guardava con
ribrezzo, i grandi occhi secchi e scintillanti di sdegno.
– No – continuava la donna – se mi dicessero che uno l’ha ammazzato andrei
dall’assassino a ringraziarlo, perché almeno me lo benedirebbero, me lo
metterebbero nel camposanto.
– Io – sibilò la ragazza – vorrei saperlo, ma per ammazzare lui.180
178
Ivi, p. 69.
Ivi, p. 73.
180
La forma «Stà» è originale. Ivi, pp. 79-80.
179
110 Solo la sorella dimostra la forza di contrastare il parere dei genitori. Desidera
conoscere le cause della tragedia. Il nonno concorda con la nipote:
Il nonno borbottò dal cantuccio dove era rannicchiato:
– Nina, dici così di Marco e non sai neppure perché s’è impiccato, così per il collo.
– Non lo so, ma non doveva farlo. Se era figlio mio non doveva farlo.
La ragazza si alzò furiosa e andandosene urlava:
– Ma tu perché l’hai fatto, se poi non lo difendi? Anche in faccia agli estranei lo
stai ad accusare. Che madre sei se ti vergogni di tuo figlio?
Uscì sbattendo l’uscio.
– Quello che s’è ammazzato non è figlio mio. Non è quello che ho fatto, che ho
portato in chiesa, che ho allattato. – Ora si batteva con dolore il petto e piangeva
disperata.181
La reazione della madre è sorprendente: disprezza la memoria del figlio, motivo di
tanta vergogna per la famiglia. Nulla potrà farle cambiare idea.
Il padre è l’unico personaggio a non esprimersi sulla questione: se ne sta in
un angolo, quasi fosse estraneo alla faccenda. Solo in seguito allo sfogo dei
familiari, interviene preoccupandosi soltanto per i danni causati da quel suicidio:
– Ora – disse il padre – dovranno cercare un nuovo stalliere.
A questo Emma si riscosse:
– Ora no, più tardi. Ho portato questi fiori per lui. Fate venire una delle vostre
figliuole con me. Andiamo al camposanto a portarglieli.
– Lui sta fuori – corresse la madre.
– Vengo io. – E la sorella piccola si staccò dalla porta cui era addossata.182
L’uomo non spende nessuna parola a favore del defunto e abbandona la moglie
alle sue folli convinzioni. I due genitori si sono definitivamente allontanati da
Marco.
181
182
Ivi, pp. 80-81.
Ivi, p. 81.
111 Nel frattempo Emma ha scelto di mandare Barbara in collegio, per salvarla
da un pericolo ignoto ma incombente. La bambina asseconda la decisione della
madre e dimostra una grande maturità nell’obbedirle. Le sue parole sono
enigmatiche e sembrano predire la tragica fine che l’attende: «Ho pensato […]
mamma, che io ho vissuto fin’ora perché stavo qui. […] Sei proprio sicura, che
vivrò ancora, oppure ho già vissuto tutto, qui?»183
Emma non coglie il significato nascosto di queste parole. È ammirevole la
saggezza dimostrata da Barbara in tale circostanza:
faccio quello che vuoi tu. Vado a scuola in quella città. Come si chiama?
– Non so ancora quale città. Non è così presto. Non è domani. Ho scritto e devo
aspettare la risposta.
– Se non è domani, non me lo dire mamma. Dimmelo solo quando è domani, così
non ho il tempo di avere dolore.184
I tratti utilizzati per descrivere la madre ne sottolineano la solitudine e un dolore
profondo:
Si vedeva la sua solitudine nei suoi movimenti. Erano i movimenti di colui che è in
piedi davanti al cadavere del proprio figlio, e intorno gli stanno deserti il cielo e la
terra. I gesti allora sono tanto densi di dolore che rimangono immobili, la bocca
tanto carica di gridi che rimane muta. […] Una sola cosa può consolare l’uomo
sommerso dal dolore: il nascere da ogni suo movimento di una catastrofe, uragano
o terremoto o precipitare di costellazioni o spegnersi di soli, o putrefarsi di
umanità. Il suo animo ne sarebbe distratto e inorgoglito. E a questo,
inconsciamente, tende l’uomo disperato.185
Ancora una volta la scrittrice dimostra una certa abilità nel costruire immagini
suggestive in grado di trasmettere perfettamente al lettore l’atmosfera presente nei
183
Ivi, p. 99.
Ivi, p. 100.
185
Ivi, pp. 100-101.
184
112 diversi episodi narrativi. In un altro passo la Masino immagina la protagonista
circondata da una sorta di deserto emotivo. La ripetizione del suo nome sottolinea
tutta l’ansia e l’angoscia della donna: «Emma era in un deserto. Emma
andandosene, camminava come se dietro sé trascinasse tutte le madri del mondo,
ognuna con in mano il proprio cuore trafitto da sette spade».186
Emma viene travolta dalla sofferenza per aver abbandonato la propria
bambina. Un elenco di frasi brevi, dove si mescolano i pensieri del personaggio
alla descrizione dei suoi gesti, riesce a trasmettere questo stato d’animo:
Emma non pianse. Chiuse i bauli e vi sedette sopra, per non cadere. Poi studiò
l’orario ferroviario. Oggi è venerdì. Di venerdì non si parte. Domani è sabato. Ci
sono quattro treni. Due la mattina, due il pomeriggio. L’ultimo è quello della sera:
alle otto. Si arriva alle dieci. Mettono Barbara a letto. Io rimango là anche la
domenica. La faccio uscire. È meno triste che conosca il collegio in un giorno di
festa. Alle sette, quando le bambine rientrano dalla passeggiata, la riaccompagno
fino alla porta. La lascio. La lascio. La lascio. Sì, la lascio. E poi? Riparto alle
nove. Sono qui alle undici. Domenica sera. Domani l’altro sera. Sola. Non c’è più
Barbara.187
Nulla deve essere lasciato al caso e la protagonista programma tutto fin nei
minimi particolari. Così facendo distoglie la mente dall’evento rappresentato dalla
separazione dalla figlia: ciò è evidente dalla ripetizione insistente dell’espressione
«La lascio».188 Barbara condivide lo stato d’animo della madre ed è consapevole
di come non avrà più la possibilità di vivere serenamente nella sua casa a Monte
Ignoso:
Barbara camminava piano. Voleva vedere tutto, come non aveva mai visto fino ad
allora. Voleva vedere l’aria e sentire come la respirava, voleva vedere il peso del
cielo e il profumo dei fiori. Voleva vedere come le immagini le entravano per
186
Ivi, p. 101.
Ivi, p. 103.
188
Ibid.
187
113 sempre nel cuore, come le si ordinavano nel cervello, per poter ritrovare ogni
particolare quando ne avrebbe avuto bisogno, laggiù.189
La bambina assomiglia ad un carcerato: osserva con uno sguardo diverso il
panorama circostante. La ripetizione dei verbi «Voleva vedere»190 sottolinea la
sua condizione. Subito chiama il padre, pregandolo di annotare su un foglio di
carta ogni particolare da lei dettato: la lista servirà a farle ricordare meglio Monte
Ignoso durante il periodo in cui si troverà in collegio:
Prendi un pezzo di carta e un lapis.
Giovanni ubbidì.
– Per ricordarmelo, capisci? […] Scrivi quello che ti dico. Una cosa sotto l’altra.
Vieni.
Ella scendeva lungo il gran viale. Giovanni la seguiva a un passo di distanza. Lei si
fermò davanti a una scala di marmo bianco. In fondo alla scala c’era un cipresso e
intorno rose pallide.
– Scrivi questo – e glielo indicava col dito.
– Che cosa?
– Ma questo! scala di marmo bianco, cipresso in fondo, intorno rose chiare.191
La scena rievoca le numerose passeggiate fatte da Paola con il padre sulla via
Appia. Lei stessa lo racconta in occasione di un’intervista rilasciata nel 1951:
Mio padre mi prendeva a cavalcioni sulle spalle e ce ne andavamo così per le più
belle vie di Roma, Via delle Sette Sale, la Via Appia, la Latina. E poi, quando
vedevo una cosa che mi colpiva o che mi potesse poi ricordare tutto un panorama
gridavo: – Scrivi, babbo. Lucertola su pietra bianca –. Oppure: – cavallo vicino alla
tomba –. Erano taccuini e taccuini che mio padre docile riempiva nella sua bella
scrittura stampatella in inchiostro verde su spessa carta Fabriano. E imparai così ad
avere un senso del tutto armonico. Il gusto dello scrivere, quasi lo scrivere fosse un
disegno in vari inchiostri in vari caratteri.192
189
Ivi, p. 104.
Ibid.
191
Ivi, pp. 104-105.
192
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola
Masino, cit., p. 29.
190
114 L’importanza assunta da queste passeggiate per la formazione di Paola è evidente:
l’esercizio di dettatura al papà le ha consentito di stimolare un certo spirito di
osservazione. Da ciò deriva la sua abilità nella costruzione delle immagini e la
costante attenzione alle varie sfumature cromatiche.
Barbara arriva in collegio, dove verrà privata della libertà di scrivere alla
madre. Il divieto stimola nella bimba la necessità di comunicare con lei: si tratterà
soltanto di sfruttare il momento più opportuno per eludere la sorveglianza delle
suore e inviare la lettera. Ancora una volta spuntano personaggi religiosi descritti
in maniera negativa: è il caso delle suore dell’istituto:
La maestra le disse: – Ecco il tuo nuovo vestito, cara. – E Barbara sentì allora,
improvviso, immenso, il dolore che aveva tanto atteso. […] Guardò la maestra e
grosse lacrime le scendevano a un tratto sulle gote. […] La maestra non poteva
capire, e volle metterle quella gonnella. Barbara indietreggiò violentemente con un
urlo. La suora ne fu spaventata e indignata. Le gettò il vestito sul capo, quasi
volesse chiudervela sotto: la bambina credè di essere assalita da un’aquila
mostruosa. Lanciò un altro grido e si dibatteva sul letto. La maestra vide che le
educande avevano smesso di vestirsi per guardare, attonite. Con un gesto e un
comando imperiosi le fece allontanare. Rimase sola con la ribelle. Disse: –
Signorina, si metta il vestito e non facciamo storie. O rimarrà senza frutta per tre
giorni. – Barbara non rispose. Non sapeva che cosa farsene della frutta. La suora
raddoppiava le minacce – e non uscirai giovedì. Si ricordò della lettera per mamma
che deve partire assolutamente. Ma la ripugnanza per quell’uniforme era
invincibile. Tentò di commuovere la maestra. Il suo volto non era più che
un’espressione di dolore, che un’umiliazione infinita.193
Barbara cerca di impietosire la suora, ma fallirà nel suo intento. La donna è decisa
a far indossare la divisa dell’istituto alla nuova alunna e nulla servirà a farle
cambiare idea:
Giunse le piccole mani in atto di preghiera e balbettava parole sconnesse non
riuscendo a dare una forma alla propria pena. Ma l’altra la guardava con le
sopracciglia corrugate, impassibile. Allora, a poco a poco, perché qualcuno più
193
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., pp. 121-122.
115 forte di lei l’obbligava premendole una mano dura sul capo, Barbara si inginocchiò
davanti a quella donna. Non parlava più, la guardava. Certo nei suoi occhi doveva
essere una preghiera soprannaturale, mostruosa, perché l’altra la rialzò con uno
strattone per romperne l’incanto.
La scosse con forza, presala per le braccia gliele torse finchè non le furono entrate
nelle maniche della giacchetta: la soffocò tra le pieghe della gonnella, gliela
agganciò stretta sulla schiena perché non potesse togliersela. Allora avvenne una
cosa straordinaria. Barbara puntava verso lei il piccolo indice e diceva,
chiaramente, senza lacrime negli occhi e nella voce:
– Tra poco vado da Dio e allora glielo dico come sei stata cattiva.194
Non è l’unico episodio in cui Barbara è costretta a subire le dure regole del
collegio. La madre le invia una lettera, ma la figlia non potrà aprirla da sola,
perché «tutte le lettere che arrivano o che partono debbono essere lette dalla
direttrice».195 Sarà una delle monache a leggergliela, censurando e omettendo
passi da lei ritenuti di poca importanza:
– No – interruppe Barbara – Più su. Legga come prima, signora. Dove dice di
Monte Ignoso. Poi come dice?
– … Non ti dimenticare di fare merenda …
– Ma dopo che Monte Ignoso è venuto con me, non dice più niente?
– … Non ti dimenticare …
– Allora mi rilegga quel pezzo.
La suora disse:
– Ma è una sciocchezza qualunque. Tutte le mamme lo dicono.
– No, signora. Lei non può saperlo. Mamma ha ragione. Monte Ignoso anche da me
lo sapevo già che è qui.196
La suora giudica scontate le parole di Emma. Quest’ultima ha considerato il
collegio il luogo più sicuro per l’incolumità della figlia. In realtà perderà proprio
là la sua bambina definitivamente. Barbara, infatti, non riesce a rispettare i divieti
imposti dalle maestre e per questo, durante una gita, cercherà di impostare la
lettera alla madre. Approfittando di un momento di distrazione di Suor
194
Ivi, p. 122-123.
Ivi, p. 125.
196
L’uso del corsivo è originale. Ivi, pp. 123-124.
195
116 Emerenziana, si avventurerà per le vie di Roma, inseguendo un vecchio
mendicante assieme ad un gruppetto di bimbi dispettosi. Per lei si tratta del
Monsignore Vaira, l’unica persona in grado di aiutarla nel suo intento.
Sfortunatamente non sarà così e, terminato l’inseguimento, Barbara si troverà
faccia a faccia con la terribile figlia dell’anziano signore:
Come un vento impetuoso una donna aprì la porta che il mendicante aveva richiusa
dietro sé. Camminò minacciosa contro Barbara. Barbara s’era alzata in piedi e le
tendeva la lettera cercando di spiegarle quello che voleva. Ma l’altra l’aveva presa
per un braccio e cominciò a picchiarla crudelmente sulle spalle, sulla testa, sulla
faccia, sulle mani gridando: – Finalmente uno ne ho preso! Vi faccio passare la
voglia a tutti, quanti siete, di dare noia a mio padre, perché è un vecchio
rimbambito. Ora vedi. Vi voglio ammazzare, mascalzoni! – Picchiava Barbara con
movimenti così veloci, che lei non poteva riparare alcun colpo. Del resto non ne
sarebbe stata capace. […] la donna sentì che picchiava una creatura come morta.
Aprì le mani. Barbara cadde in terra, senza rumore, diventata improvvisamente un
vestito da educanda, immenso, tutto vuoto, immobile. La donna la guardò, la
scosse un poco con un piede. Disse: – Un’altra volta impari, canaglia! – E rientrò
nella casa senza più curarsi di lei.197
I personaggi di Monte Ignoso hanno reazioni molto violente, nel momento in cui
proteggono i propri cari. Non si affidano alle parole, ma a gesti aggressivi,
finalizzati all’eliminazione fisica del proprio avversario. In questo caso spunta una
donna decisa a salvaguardare in tutti i modi l’incolumità del padre malato. Per lei
è scontata l’appartenenza di Barbara alla schiera di quei bimbi capricciosi,
impegnati quotidianamente a tormentare l’anziano mendicante. Il suo unico
obiettivo è quello di punire i loro gesti.
La piccola uscirà molto provata da quello scontro e, in preda ad uno stato
confusionario provocato dalle botte, cade in una pozzanghera ammalandosi di
difterite. Emma, avvisata dell’accaduto, si precipita dalla figlia e tutti i presenti la
197
Ivi, pp. 135-136.
117 trattano come «se vicino a loro passasse qualche cosa di macabro».198 Sente che
sta per perdere l’amata figlia e nulla ha per lei più importanza. È talmente provata
da ignorare la presenza del marito Giovanni. Quest’ultimo, vittima di uno dei suoi
ormai frequenti deliri, si chiuderà a chiave in camera con la Barbara, per assisterla
fino alla fine. La moglie, in quel momento, si è recata a prendere del ghiaccio per
la malata e, una volta ritornata, non riuscirà ad accompagnarla nei suoi ultimi
attimi di vita:
Emma era appena uscita, Giovanni si alzò, con un salto fu alla porta, la chiuse a
chiave. Poi venne a inginocchiarsi ai piedi del letto di Barbara ed esultante
spasimava nel proprio dolore.
– Volevo essere solo con te, mamma adorata. Io solo devo assistere alla tua fine. Io
solo, tuo figlio, ho questo diritto. Quella donna non se ne andava mai. Hai fatto
bene. Ora l’ho chiusa fuori. Non entrerà più. Non entrerà più nessuno.199
Giovanni è consapevole del rapporto esclusivo instaurato dalla consorte con la
figlia. Questo amore materno non ha contribuito ad unire la famiglia, ma, al
contrario, è stata la causa principale della sua disgregazione. Barbara sta morendo
e il padre vuole, per una volta, vivere un momento da solo con lei, senza la
presenza invasiva della protagonista. Nel passo citato la chiama «Quella
donna»,200 privandola del suo ruolo e della sua identità di madre. La scelta di
Giovanni scatenerà l’ira della moglie, la quale arriverà a desiderare la sua morte.
Ancora una volta emerge il desiderio di morte di un personaggio masiniano nel
momento in cui viene privato dell’affetto dei propri cari. Una mente instabile
provoca una simile reazione.
Una sensazione di vuoto travolge la protagonista:
198
Ivi, p. 146.
Ivi, p. 158.
200
Ibid.
199
118 Emma era entrata in uno strano vuoto. Non il vuoto che gli uomini comunemente
immaginano, eterno infinito immobile, ma un vuoto morbido, pulsante, limitato,
che l’avvolgeva in una mandorla come i cherubini la madonna in trono. Il vuoto
degli uomini le era intorno e sotto e sopra ed ella credeva precipitarvi, se nel
proprio vuoto voleva camminare o spostarsi. La paura la tenne immobile quei due
giorni; poi capì che il suo vuoto oltre esserle un sostegno, era anche la vita
dell’uomo, l’ultimo, il primo seme di vita umana che vagava nel nulla deserto: lei
ne era il nucleo. Bisogna ricondurlo su una terra calda e semplice dove possa
maturare.201
Nella sua solitudine accresce la sete di vendetta nei confronti del marito,
colpevole di averla separata dalla figlia nei suoi ultimi istanti di vita. Lui non
soffrirebbe quanto lei: «È colpa di Giovanni se non l’ho vista morire. Debbo
vendicarmi. Voglio torturarlo fino alla morte. A Monte Ignoso. Monte Ignoso che
finora è stata la mia prigione diventerà la sua».202
Emma non riesce ad accettare questa morte. Ritiene di essere l’unica madre
a soffrire e «dimenti<ca> che esistono le madri».203 Rifiuta il pensiero di
seppellire la figlia, perché «una tomba la soffoc<a> […]. <Lei> h<a> bisogno che
Barbara viva».204 La madre di Marco non la pensa allo stesso modo e dimostra un
rancore ancora vivo nei confronti del figlio:
– Io vorrei che Marco potesse avere una tomba, per andarci a pregare. Avere una
tomba al camposanto, consola. Sembra di essere ricchi: è come avere un prato di
terra buona.
– Ma sotto c’è quel figlio tuo, che forse con la pietra sul cuore non può respirare.
– Ben gli sta. Perché è morto? Se io l’ho fatto lui doveva vivere finchè io vivevo.
– Vuol dire che lui doveva morire.
– Si deve solo quello che i vostri genitori vogliono.
– E Dio?
– Dio non vuole mai cose cattive. Quella che Marco ha fatto è una cosa cattiva
dunque Dio non l’ha voluta.205
201
Ivi, p. 161.
Ivi, p. 162.
203
Ivi, p. 166.
204
Ivi, p. 167.
205
Ibid.
202
119 Marco non verrà mai perdonato dalla madre per il suo gesto. Le convenzioni
guidano i pensieri della mamma, impedendole di provare dolore. È un’immagine
materna diametralmente opposta rispetto a quella di Emma. Quest’ultima è legata
alla figlia in maniera ossessiva e tale legame provocherà la morte e il dolore di
coloro che la circondano. La madre dello stalliere nuoce a se stessa e alla memoria
del defunto con il proprio comportamento, mentre la mamma di Barbara arriva
addirittura a premeditare il male per coloro che osano intaccare il rapporto con la
figlia. A proposito della maternità dice a Nina, la madre dello stalliere:
– Barbara non si è uccisa e Marco sì. Ma che importanza ha? I nostri dolori sono
gli stessi. Voi, Nina, fate una differenza solo perché io posso dirlo, e voi no, dite.
Ma io faccio una differenza perché Barbara non voleva morire e Marco voleva
morire. Che importa se è una cosa che voi non capite? Se era una necessità per
vostro figlio che v’importa se per la gente è male? Io, Nina, se Barbara si fosse
uccisa, sederei sulla tomba con un coltello in mano e a ogni passante direi:
– Barbara si è uccisa, è stata felice uccidendosi.
– Se vedessi che quello sorride o si allontana con disprezzo, gli pianterei il coltello
nel cuore. Che madre è una madre che si vergogna di suo figlio? La Vergine Maria,
lo sapete che baciava i piedi di Gesù mentre glieli inchiodavano sulla croce? Come
a un assassino. Come a uno schiavo.
– Glielo ammazzavano, glielo ammazzavano, il figlio suo. Magari il mio mi
avessero ammazzato. Allora come lo difenderei. Ma se lui ha fatto il peccato, come
lo difendo?206
Qualunque cosa Emma dica a Nina, lei non riesce a cambiare idea. È l’immagine
desolante e negativa di una madre incapace di difendere la memoria del figlio.
Nel frattempo Giovanni, in preda ad una forte crisi di identità, fugge.
L’evento non preoccupa la moglie, convinta di compiere, in un modo o nell’altro,
la propria vendetta:
– E uno – pensava Emma. – Non importa se non l’ho ucciso. Si ucciderà da sé in
un modo o nell’altro. Domani o dopo, me lo riporteranno schiacciato da
206
Ivi, pp. 168-169.
120 un’automobile o mi avviseranno che l’hanno rinchiuso in un manicomio. Meglio
così. È stato facile. Pure lui, con dentro la sua anima piena di paura, era un uomo. E
io che cosa sono? Un vuoto oscillante tra la vita e la morte di Barbara. E loro?
Vedremo loro, quello che sono. Ora tocca a loro.207
La solitudine della protagonista diventa sempre più opprimente. In quei sei anni
Barbara le ha colmato un vuoto doloroso e la sua morte l’ha riportata ad un
autentico stato di abbandono: «Barbara è morta. Non è più. È sotto terra. È in
cielo. Sono una madre senza figlia. Sono una donna sola nel mondo».208
La consapevolezza della sua condizione la spinge a non odiare più il marito.
Al contrario decide di cercarlo, perché «Lei è l’ultima guardiana del focolare e
parte per cercare il fuoco; un tizzo per riattivare le ceneri spente».209 Si rende
conto di essere stata travolta dal dramma di non aver vissuto la morte della figlia.
Anche Giovanni vuole ritornare dalla moglie e così, «dopo essersi riposato, come
ha fatto ora Emma, <riprende> il cammino per venirle incontro».210
Emma dimostra un cambio repentino di sentimenti verso l’uomo, al quale
rivela tutto il suo amore. Ben presto, però, emerge il vero motivo di questa
passione rinnovata: «Barbara è morta, <loro sono> soli. <Devono> amar<s>i.
Ecco perché <è> venuta a cercar<lo>».211 Viste le premesse è impossibile per la
coppia ristabilire un nuovo equilibrio: la donna è di nuovo ossessionata dalla
necessità di conoscere gli ultimi istanti di vita della bambina. In un primo istante
il marito sembra non ricordare la morte di Barbara. Successivamente gli ritorna in
mente l’episodio del tradimento della consorte con lo stalliere. Deve ucciderla,
perché è così che si comporterebbe un marito esemplare: «Emma, non morire.
207
Ivi, p. 185.
Ivi, p. 192.
209
Ivi, p. 212.
210
Ivi, p. 214.
211
Ivi, p. 224.
208
121 Perché mi hai tradito? Ecco, per colpa tua, devo ammazzarti. Ma ho paura. Ho
paura. Mi perdoni? Mi perdoni?»212
La violenza anima di nuovo uno dei personaggi masiniani e stavolta sarà
Emma ad essere la vittima, anche se non dimostra nessun timore: «Dopo dopo mi
ammazzi. T’insegno io. Mi strangoli. Ma prima dimmi com’è morta Barbara».213
Non lo saprà mai. Giovanni la soffocherà nel fango. Ora anche Emma è vittima
del suo folle amore materno.
212
213
Ivi, p. 231.
Ibid.
122 II.2.2. «Giovanni […] aveva bisogno di sentirsi protetto»:214 l’immagine
dell’inettitudine paterna in Monte Ignoso.
Giovanni quando aveva sposato Emma aveva trentatré anni, un uomo. Pure
l’espressione, i modi, le mani, le parole, tutto di lui era d’un’infantilità dolorosa di
bambino che sa che gli uomini muoiono, che tutto scorre. Si metteva le mani
davanti al cuore o alla fronte per arginare quel flusso incessante di sangue e di
pensieri che tessevano la vita.215
Le prime righe del passo citato sottolineano l’età di Giovanni all’epoca del suo
matrimonio con Emma. È un uomo, ormai, anche se non è in grado di ricoprire il
proprio ruolo di capofamiglia.
I suoi genitori sono i responsabili di un simile atteggiamento. Il padre, del
quale la Masino non rivela il nome, è assente e soffocato dall’imperiosità della
moglie Giulia: è incapace di controllarne l’aggressività. Giovanni, quindi, è privo
di un solido modello maschile a cui ispirarsi.
La madre, al contrario, si distingue nella narrazione per la sua negatività e
cattiveria. Donna cinica ed avara, non rispetta la morte del marito e la sua perfidia
è di un livello tale da suscitare l’odio dell’intero paese:
A creargli un carattere così infelice aveva molto contribuito la madre, la signora
Giulia, donna d’una avarizia perversa e appassionata. Dopo molte insistenze e lotte
da parte del padre, e perché questo rientrava nelle ambizioni della signora Giulia, a
tredici anni Giovanni era stato mandato in un collegio di preti in una città vicina.
Vi aveva fatto il ginnasio e il liceo, poi era andato all’università e aveva studiato
belle lettere. Nei dodici anni trascorsi lontano dalla casa e a contatto con uomini
forti e sani avrebbe potuto liberarsi da quell’angoscia ridicola che lo torturava,
invece la giovinezza era trascorsa su lui come l’acqua su una foglia grassa, senza
neppure lasciargli una goccia fresca in mezzo al cuore.216
214
Ivi, p. 171.
Ivi, pp. 31-32.
216
Ivi, p. 32.
215
123 La natura malata di Giulia emerge in occasione della perdita del coniuge: per lei la
preoccupazione più grande è quella di non investire troppo denaro nelle spese per
il funerale:
Quando suo padre morì egli pensò: – Era meglio se moriva mamma. – Allora seppe
di non amarla. Il padre aveva chiesto d’essere tumulato nella tomba della sua
famiglia, nella città natale. Bisognava spedire la salma e la spedizione era costosa.
La signora Giulia non voleva sprecare tanto danaro: imprecava contro il morto e
bisognò che Giovanni si occupasse di tutto, quasi di nascosto. Tornando dal suo
lugubre viaggio fu accolto da una scenata violenta, perché non aveva chiesta e
riportata indietro la cassa d’imballaggio che proteggeva la bara. – L’abbiamo
pagata. – urlava la signora Giulia – sono dei ladri e tu sei uno stupido. Una cassa
così bella e forte! – Era andata a dire il fatto suo alla società di pompe funebri ed
era riuscita a ricuperare la cassa. Ci aveva messo dentro, in belle pile odorose, le
lenzuola del letto matrimoniale che ormai non dovevano più servirle.217
La morte del marito non riveste alcun significato per la signora Giulia. Il loro
matrimonio è solo una parentesi da chiudere e l’immagine delle lenzuola riposte
nella cassa d’imballaggio della bara sono un chiaro simbolo di ciò.
Il figlio deciderà di sposare Emma, perché quest’ultima si distingue dalla
madre per la sua generosità.218 Giulia apprende con sarcasmo la notizia di quell’
unione imminente, e augura alla nuora di morire dopo un eventuale parto:
Finalmente un giorno disse a sua madre che avrebbe sposato Emma. Quella
rispose:
– È molto ricca. Falle subito un figlio e speriamo che muoia di parto.
Ma Emma aveva rifiutato.
– Finché vive lei, Giovanni, io non ti sposo. Però prometto di aspettarti.219
217
Ivi, pp. 32-33.
Ivi, p. 34.
219
Ibid.
218
124 Emma è consapevole della natura malata della sua futura suocera e, di
conseguenza, decide di adottare le dovute precauzioni. Arriverà presto la fine
della signora Giulia e sarà proprio il paese intero ad augurarle una morte atroce:
Una domenica mattina, alla fine della messa, (la signora Giulia era presente, in uno
dei primi banchi) una donna si alzò e stendendo le mani verso l’altare pregò a voce
alta e chiara:
– Signore, fa morire la signora Giulia d’un cancro all’utero perché questo è
giustizia.
Vi fu un silenzio largo, stupefatto. La signora Giulia rimase immobile. Il prete si
era fermato sull’altare, bianco. A un tratto due o tre contadine gridarono:
– Sì, fatela morire, Signore, perché è troppo cattiva.
Allora tutte le donne si alzarono e stesero le mani a Dio. Anche le giovanette.
Anche le bambine.
– Dio uno e trino – pregarono – falla morire d’un cancro all’utero per il male che fa
al paese. Mangiatele le interiora. Vuotatela come ha vuotato le nostre case.
Gli uomini non si movevano. Solo una voce forte e sicura disse:
– Vergine Santa, liberaci dal male. Purchè muoia non farla soffrire.
– No – urlò esasperata una voce femminile, – un cancro all’utero. Perchè è donna
deve soffrire di più, come una bestia.220
La ribellione delle contadine conferma la natura negativa della donna colpevole di
aver «causato la rovina del proprio figlio»221 e di «vede<re> nell’essere madre
solo la possibilità di esercitare la tirannia, fino al punto di suscitare la ribellione
persino in coloro non direttamente legati a lei».222
Giulia morirà poco tempo dopo a causa di un cancro all’utero. Ritorna
l’immagine del ventre, simbolo della maternità, già presente nell’episodio del
calcio alla pancia sferrato da Marco ad Emma. Il colpo ricevuto da quest’ultima
intende colpire la sua ossessione materna. La malattia della suocera, invece,
simboleggia l’incapacità di nutrire un amore sincero per Giovanni. Da sempre le è
indifferente il benessere del figlio e la sua unica preoccupazione è quella di
220
Ivi, pp. 35-36.
SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione, cit., p. 54.
222
Ibid.
221
125 «cerca<re> tra le mattonelle i chiodi e i pezzetti di spago e gli spilli caduti»,223
riordinandoli «gelosamente […] in profonde scatole di cartone dentro armadi
ferrati».224
Giovanni desidera dimenticare il passato e conoscere il significato
dell’amore. Pensa di poterlo fare sposando Emma. Tuttavia, in seguito al suicidio
di Marco, intuisce il coinvolgimento della moglie nella tragedia e capisce di
essersi sbagliato: la donna ha un passato torbido da dimenticare e non è perfetta
come il marito all’inizio aveva creduto. Solo Barbara, la figlia, sembra avere
questi requisiti e, perciò, il padre stabilisce un legame particolare con lei fingendo
di essere suo figlio: «Giovanni giocava con Barbara per dimenticare la propria
angoscia. Il loro gioco consisteva nel fingere che Barbara fosse la mamma di
Giovanni».225
Il suicidio di Marco lo ha destabilizzato, facendo emergere antichi timori.
Ancora una volta è incapace di affrontare la vita assumendosi determinate
responsabilità e la finzione si profila uno strumento ideale di fuga. L’uomo entrerà
completamente nella parte:
Giovanni provava una strana gioia a questo gioco, ubbidiva senza neppure pensare
che avrebbe potuto non ubbidire. Nell’angolo, con il volto contro il muro,
rifletteva:
– Prima che un bambino invecchi passano molti anni. Tutti gli altri sono già morti e
lui è ancora giovane. Bisogna proprio che accada una disgrazia, perché non sia
così. Del resto lui è ancora tanto piccolo e la mamma veglia attentamente che non
gli accada nulla. Può sgridarlo, può batterlo, ma in ogni occasione lo difende. Ora,
per esempio, è sicuro che sarà perdonato, se lo chiede.226
223
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 35.
Ibid.
225
Ivi, p. 75.
226
Ivi, p. 76.
224
126 Giovanni sente l’esigenza di sfuggire alla propria identità: ha cercato di
dimenticare il suo passato familiare, mentre ora, nel nuovo ruolo di figlio,
desidera riscrivere la propria storia. È possibile descrivere il personaggio secondo
la definizione fornita da Maria Vittoria Vittori nell’articolo Bibbia e follia: è un
«figlio mai cresciuto e quindi debole e irrisolto».227 Il suo intento è, come osserva
Silvia Boero, quello di «regredire allo stadio infantile e ripercorrere la
fanciullezza, nella speranza di uscirne fuori come un uomo nuovo, impresa in cui
fallirà comunque».228
Il gioco ideato dal personaggio è un’autentica follia: «– Un gioco – ripeté
Giovanni, e lo ripeté molte volte perché non ne era persuaso».229 È una nuova
dimensione necessaria al suo riscatto di uomo, di figlio e di marito:
Giovanni ricostruiva la giovinezza trascorsa, se ne creava una nuova, da vivere ora,
che sarebbe stata eterna. Episodi stranissimi della sua infanzia gli riapparivano
come cose da realizzare domani. A poco a poco confondeva le due madri: la
signora Giulia e Barbara. Una volta la signora Giulia voleva obbligare la serva a
dormire in una cassa per non comprarle il letto: aveva per questo furiosamente
litigato con il marito e l’aveva preso a schiaffi. Soddisfatta era andata a dormire
chiudendolo fuori di camera. Il marito aveva passato la notte su una sedia, nel
corridoio, senza poter addormentarsi, tanta gioia gli dava l’aver commesso un atto
di ribellione. Giovanni era scivolato vicino a lui per consolarlo. Nel buio gli
cercava le mani e voleva baciargliele. Ma suo padre aveva cominciato a parlare
vantandosi, insultando la moglie. Il bambino ascoltava e si sentiva diventare ostile.
Lasciò le mani del padre. Ora l’uomo raccontava cose sudice e volgari, fatti intimi;
le raccontava a lui bambino, a suo figlio, come se parlasse di cose altrui con un
estraneo. Forse credeva di rivendicare la propria maschilità, forse credeva di
allontanare il figlio dalla madre. Ma Giovanni piano piano se n’era andato, per non
morire di ribrezzo, e in camera sua si era steso sul piccolo letto, aveva chiuso gli
occhi, e s’era imposto, stringendo i pugni: – Non ho sentito nulla. –230
I ricordi spingono l’uomo a rifugiarsi nella finzione e nella pazzia:
227
MARIA VITTORIA VITTORI, Bibbia e follia, in «L’indice dei libri del mese», n. 11, dicembre
1994, p. 5.
228
SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione, cit., p. 58.
229
PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 78.
230
Ivi, pp. 85-86.
127 Per tutta la notte non aveva dormito cercando di ricostruirsi nel cuore una nuova
immagine della madre, una nuova immagine del padre. La ripugnanza d’allora, ora
nel pensiero si raddoppiava. Non sopportava che un uomo vile come quello avesse
insultato sua madre, sua madre, Barbara. Barbara è la donna più pura (non perché è
sua mamma), ha un sorriso pieno di luce, movimenti sereni e nobili, un parlare
pieno di logica che ripara e sostiene le persone come una bella costruzione. E non è
avara. Qualcuno ha detto che è avara.231
L’immagine della famiglia non si è cancellata nella mente di Giovanni. La follia è
l’unica medicina contro questo male e si rivela nella sovrapposizione del volto
della figlia Barbara a quello della madre Giulia. Tale atto gli richiede uno sforzo
considerevole, evidente dalla ripetizione dell’espressione «sua madre, sua madre,
Barbara».232 Vuole convincersi della possibilità di trasformare una pazzia in
realtà. Nel frattempo Emma ha perso il suo ruolo di moglie, diventando
un’estranea, una «signora»233 qualsiasi.
Alla notizia dell’imminente trasferimento in collegio della figlia, Giovanni
reagisce sostenendo l’impossibilità di una simile prospettiva, perché «Le mamme
non vanno in collegio».234 Nessun evento gli farà abbandonare la sicurezza della
sua nuova identità:
Barbara […] Lo pregava:
– Non giocare più ora, babbo. Io devo partire davvero.
Giovanni si staccò da lei e fece un passo indietro, violentemente.
– Babbo, sei tanto buono. Fammi questo piacere.
Quello alzò una mano davanti al volto, come per difendersi. Piegato in avanti
ascoltava con tutto il corpo. Barbara gli sorrise e gli si avvicinava.
– Babbino caro, non avere paura. Se io non ho paura …
Ma ora l’uomo alzava contro di lei la mano minacciosa. Lanciò un urlo.
– Finiscila di canzonarmi, vecchiaccia egoista! Mi chiami babbo, me, che sono tuo
figlio, per ricordarmi che si deve morire? Lo so che si deve morire, ma morirai
prima te di me, e sarò io a chiuderti gli occhi, strega maledetta! Proprio tu che sei
mia madre, mi fai soffrire così!235
231
Ivi, p. 86.
Ibid.
233
Ivi, p. 93.
234
Ivi, p. 102.
235
Ivi, p. 111.
232
128 Sfortunatamente le ultime parole pronunciate dal padre nel passo citato, saranno
destinate a realizzarsi, come è ormai noto. La scena si chiude con una reazione
violenta da parte di Giovanni, deciso a non voler abbandonare la sua nuova
madre:
l’altro, a sentirsi ancora chiamare babbo, divenne furioso. […] la macchina partì.
La bambina sporta fuori dal finestrino tendeva le braccia a Giovanni:
– Babbo, babbo mio. Voglio baciare il mio babbo prima di partire! Voglio essere
perdonata!
Il pazzo sentì quell’ultimo grido della sua creatura. Raccolse una pietra e con tutta
la sua forza gliela scagliò dietro. La pietra rimbalzò contro un parafango. Barbara
si lasciò scivolare a sedere a fianco di Emma. Le mise il capo sulle ginocchia.
L’una così abbandonata, l’altra rigida, tutte e due in silenzio piangevano.236
Barbara ha perso per sempre il papà, mentre Emma il marito. Quest’ultimo è
deciso a non abbandonare la sua nuova dimensione, tanto da «continua<re> da
solo il gioco»237 durante la permanenza della figlia in collegio. Quando lei morirà,
lui crederà di aver perso la madre.238 Nulla servirà a convincerlo del contrario,
nemmeno le parole rabbiose della moglie:
Lei sibilò:
– Non è tua madre che è morta. È morta Barbara. Mia figlia!
Giovanni la guardò sbalordito:
– E per quello mi uccidi? Io che colpa ne ho?
– Era tua figlia, non era tua madre.
– Non è possibile. Non ho mai avuto figli. Non sono mai stato con una donna.
– Eppure io sono tua moglie.239
Emma dice «È morta Barbara. Mia figlia»,240 e non utilizza l’aggettivo ‘nostra’.
Giovanni, nella sua follia, asseconda l’ossessione della moglie sottolineando la
236
Ivi, p. 112.
Ivi, p. 123.
238
Ivi, p. 163.
239
Ivi, p. 165.
237
129 sua completa estraneità a quella famiglia. Il suo disinteresse non durerà a lungo in
quanto
La paura di essere indifeso nella vita, poiché Barbara era morta, lo spingeva verso
Emma. La sua natura debole, come gli creava fantasmi più paurosi della realtà, così
gli faceva nascere nell’anima un bisogno mostruoso di affetto e di amore.241
Giovanni fallirà di nuovo: dopo essersi rivelato debole nel proprio ruolo di figlio,
di marito e di padre non sarà in grado di affrontare e difendere nemmeno la
pazzia. La fuga da un’identità all’altra si rivelerà un percorso senza uscita.
240
241
Ibid.
Ivi, p. 175.
130 II.2.3. «Il pensiero dominante era quello di fuggire da mia madre»:242
confronto tra Monte Ignoso e il romanzo Poco di buono di Enrico Alfredo
Masino.
Nel 1942 Enrico Alfredo Masino pubblica il suo primo e unico romanzo
intitolato Poco di buono presso l’editore Vallecchi, con lo pseudonimo di Enrico
Sìnoma, chiaro anagramma del cognome. L’opera non ebbe un’ampia diffusione
all’epoca e oggi è pressoché sconosciuta, nonostante possa essere considerata di
un certo livello letterario. Il testo verrà, tuttavia, ristampato presso Feltrinelli nel
1962 con il nome originale dell’autore, Enrico Alfredo Masino.243
Lo scrittore sembra adottare uno stile diametralmente opposto a quello della
figlia. Poco di buono è la memoria scritta dal figlio di una lavandaia durante la
maturità per evitare di «abbrut<tire> la <propria> vecchiaia nell’ozio».244 La
narrazione si svolge in maniera chiara e i fatti sono riportati in tutti i loro
particolari, cosa che non avviene sempre nei romanzi di Paola.
Tuttavia sono presenti alcune similitudini con le opere di quest’ultima, in
particolare con Monte Ignoso.
Il romanzo paterno si apre illustrando una situazione familiare disastrosa: il
protagonista non ha mai conosciuto il padre e vive con la sorella Matilde e la
madre. Quest’ultima si distingue per la sua cattiveria e per il costante desiderio di
punire e tiranneggiare il figlio. Presenta, quindi, diversi tratti in comune con la
signora Giulia del romanzo di Paola. La donna instaura una relazione con Checco,
lo stalliere. Mentre Emma cerca di nascondere il rapporto per proteggere
l’innocenza di Barbara, la lavandaia di Poco di buono non fa altrettanto:
242
ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, Firenze, Vallecchi, 1942, p. 13.
FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO (a cura di), L’archivio di Paola Masino, cit., p. 194.
244
ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., p. 315.
243
131 E, mentre guardavo esterefatto Checco lo stalliere steso nel nostro letto fissarmi
curiosamente, mia madre mi allungò un calcio e richiuse con violenza. Scesi nella
stalla e mi rifugiai nel fieno. È quel ricordo mai dimenticato che mi ha impedito di
amare mia madre; ella aveva insudiciato per sempre la sua immagine in me e forse
è stata questa la mia disgrazia più grande.245
La voce narrante del passo citato condivide con Emma e Giovanni il ricordo
doloroso di una famiglia segnata dall’immoralità. A differenza dei protagonisti del
romanzo di Paola, il personaggio descritto da Enrico non sceglierà la follia oppure
un ossessivo amore genitoriale per dimenticare il passato, ma la via più pratica
della fuga: «da tempo per i miei piccoli risparmi avevo dovuto inventare dei
nascondigli, di mia sorella non avevo da temere, ma la mamma mi perquisiva
spesso con cura rovesciandomi come un fantoccio tra le braccia potenti».246
La madre, quindi, non è soltanto violenta nei confronti del figlio, ma anche
una ladra: da sempre fruga nei cassetti «nelle case dove la chiama<no> per il
bucato o a lavare i piatti».247 In ogni occasione ella si preoccupa di informare i
figli a proposito dei sentimenti nutriti nei loro confronti: «Cominciò dal dire che
mia sorella e io eravamo due carogne, ma che ci avrebbe fatto sputare tanto
sangue da mandarci all’altro mondo prima che noi facessimo crepare lei».248
I soldi sono spesso la causa delle percosse inferte al figlio:
Quando le dissi che non avevo più le cinque lire datemi dal sor Augusto, la sua ira
raddoppiò; mi prese la testa sotto il braccio sinistro, mi dette sculaccioni e pugni
fino a che non ne potè più dalla stanchezza e mi gettò sul pagliericcio come uno
straccio. […] odiavo tanto mia madre in quel momento che se avessi potuto me la
sarei messa sotto i piedi.249
245
Ivi, p. 8.
Ivi, p. 9.
247
Ivi, p. 10.
248
Ivi, p. 11.
249
Ibid.
246
132 «Il pensiero dominante <del ragazzo è> quello di fuggire da <sua> madre»250 e
quando ci riesce «probabilmente <la rende> felice di non veder<lo> più».251 Gli
anni lontani dalla famiglia saranno ricchi di esperienze di natura diversa: il
protagonista frequenterà l’ambiente del porto per poi passare all’austerità dei
collegi dell’alta società. Sarà un segretario, un mantenuto, uno scommettitore, un
giornalista per poi arrivare, dopo aver indossato i panni di altre numerose identità,
al ruolo di marito devoto. Le città da lui visitate saranno numerose: da Roma
andrà in Sardegna, fino ad arrivare a Venezia e alla terra trevigiana di Paese. È
attento a sfruttare ogni esperienza per allontanarsi dalla povertà mentale e
materiale del suo ambiente d’origine, evitando di parlare della madre poiché «la
stessa morale dei grandi non ammette ci siano delle mamme poco materne».252
I temi affrontati da Enrico sono la solitudine infantile e l’aggressività
genitoriale, presenti in Monte Ignoso e più in generale nell’intera produzione
narrativa della figlia Paola:
Mi mostrò inoltre la lettera di mia madre probabilmente scritta da mia sorella sotto
dettatura perché non ricordo che la mamma sapesse scrivere: dichiarava che non
voleva aver che fare con me, dal momento che me ne ero andato restassi dove mi
trovavo e mi arrangiassi, se potevo mandarle dei quattrini li spedissi, era vecchia e
acciaccata e aveva bisogno di aiuto anziché aiutare chi era partito senza più curarsi
di lei.253
Numerosi particolari relativi a questa figura materna negativa richiamano alla
mente le caratteristiche dell’ormai nota signora Giulia di Monte Ignoso. Il
protagonista risente della mancanza del padre ed è consapevole di come il difficile
ambiente familiare della sua infanzia l’abbia profondamente condizionato:
250
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 12.
252
Ivi, p. 32.
253
Ivi, p. 76.
251
133 evocav<o> alla mia mente l’immagine di mio padre che non avevo conosciuto, del
quale non sapevo nulla, che pensavo veramente bello, che sarei stato tanto felice di
avere vicino, che avrebbe forse fatto di me un uomo tutto differente e certo
migliore.254
Giovanni risente dello stesso problema: è privo di un valido modello maschile.
Monte Ignoso si caratterizza per la presenza di figure paterne inette ed incapaci di
ricoprire il proprio ruolo o assenti. In Poco di buono accade lo stesso. Un «uomo
taciturno che si occupava unicamente del suo lavoro»255 è, ad esempio, Efisio
Onida, padre del personaggio di Peppineddu. Priva di padre è Emma, omonima
della protagonista di Monte Ignoso e donna che farà perdutamente innamorare il
protagonista dell’opera di Enrico Alfredo: in lei riconoscerà una sorta di guida,
come è accaduto a Giovanni nel romanzo di Paola:
Le mie premure erano tutte per Emma che mi destava una specie di sgomento a
mano a mano che scoprivo in lei finezze e profondità di sentimento insospettate.
Ma con il passare dei giorni e delle settimane anche queste lacune si colmavano; il
passato si annebbiava e provavo un piacere acuto nell’affidarmi a lei come a una
guida spirituale dandole modo di mettere in luce quanto di buono ci poteva ancora
essere in me.256
Nonostante i sentimenti per lei, l’uomo si lascerà sedurre dalla madre, Dirce.
Avverrà uno sdoppiamento nel personaggio:
In me avvenne uno sdoppiamento curioso; da un lato l’uomo completo che
ascoltava Emma la seguiva e saliva con lei, dall’altro l’individuo fermo alla
bassezza terrena. Ma questo mi permetteva di accostarmi alla mia fidanzata in tutta
purezza; mai vicino a lei ebbi un pensiero volgare. Era realmente una madonna che
rispettavo come una madonna.257
254
Ivi, p. 162.
Ivi, p. 32.
256
Ivi, pp. 244-245.
257
Ivi, pp. 245-246.
255
134 A causa della relazione con la madre egli perderà Emma per sempre, come
Giovanni non riuscirà mai più a ristabilire un equilibrio con la moglie:
In quella catastrofe mi apparve chiara unicamente l’impossibilità di rivedere
Emma; era il colpo più duro che la vita mi avesse dato, tanto che credevo di non
poterlo sopportare. Sentivo il bisogno di un sostegno come può sentirlo un ubriaco
costretto a stare in piedi.258
L’analisi del matrimonio è al centro dell’interesse di Enrico. Paola descrive la
negatività di questo tipo di legame, quasi sempre basato sulla necessità di
soddisfare esigenze che non hanno nulla a che fare con l’amore. Il padre nel
romanzo scrive: «il matrimonio era tanto attraente quanto lo era stato il progetto
di farmi entrare in seminario. Essere lo schiavo di una moglie […] era quasi lo
stesso che essere lo schiavo di tutti i legami che la chiesa impone ai sacerdoti».259
Il protagonista cambierà idea costruendo con la moglie Anna un solido
rapporto, obiettivo non raggiunto da Emma e Giovanni. Il passo citato sottolinea
una certa critica alla Chiesa in quanto istituzione. Se Paola affida alle descrizioni
una visione negativa della religione, Enrico permette al proprio personaggio di
esprimere chiaramente il suo disappunto. L’osservanza dei precetti religiosi
spesso impedisce all’uomo di progredire e di realizzare la propria felicità. È il
caso di un medico incontrato dal protagonista, addolorato per l’impossibilità di
sposare l’amata sorella dell’ingegnere a causa delle loro divergenze religiose:
L’amore era divampato tra quelle due nature ardenti; si erano fidanzati. A un tratto
sorse la questione grossa che forse inconsciamente era stata fino allora evitata da
entrambi. La donna era religiosa e l’uomo positivista e ateo come usava in quel
258
259
Ivi, p. 247.
Ivi, p. 102.
135 tempo; la donna voleva il matrimonio in chiesa previa confessione a comunione,
l’uomo non voleva che il matrimonio civile. […] il matrimonio non si concluse.260
Il protagonista troverà un equilibrio con la moglie Anna, anche se per un certo
periodo considera il matrimonio solamente un valido contratto d’affari: «quello
che Mary mi proponeva non era un matrimonio e […] sarei stato uno sciocco a
respingere l’unico aiuto serio che la provvidenza mi offriva proprio nel momento
nel quale […] sarei rimasto senza impiego e senza quattrini».261
Inizialmente l’io narrante non considera l’ipotesi di legarsi ad una donna
della quale è innamorato. Ad eccezione del denaro, niente ha per lui significato,
neppure la Chiesa e la religione. Ritiene i sacerdoti degli individui ambigui e
incomprensibili: «il prete è una creatura differente dagli altri, uomini e donne.
[…] la sua intelligenza […] è un lama a forma il cuneo più o meno tagliente fatta
per insinuarsi dividere e imperare».262
Come Paola paragona la suora del collegio di Barbara ad un’aquila
imperiosa, Enrico sottolinea la negatività dei rappresentanti di Dio. Il disprezzo e
la diffidenza verso quest’ultimi non si attenua nemmeno quando il protagonista di
Poco di buono incontra un sacerdote veneto:
Nell’attesa sfogliai un catalogo dei magazzini dei Fratelli Bocconi posto sul
tavolino. Da quando avevo perduto di vista il reverendo Piras non avevo avvicinato
preti e la loro mentalità e i loro costumi mi erano diventati del tutto estranei;
immaginarsi la mia sorpresa e la mia voglia di ridere quando vidi accuratamente
ritagliate e asportate dal catalogo tutte le parti che raffiguravano carne femminile;
seni su busti di donna, coscie su calze lunghe, gambe sotto le mutande, braccia ai
lati dei corpetti, teste sotto i cappellini. Il catalogo era ridotto a una serie di buchi a
edificazione del pubblico maschile e femminile che veniva a trovare il parroco.263
260
Ivi, p. 122.
Ivi, pp. 132-133.
262
Ivi, p. 146.
263
Ivi, p. 178.
261
136 E aggiunge successivamente:
Grazie al prete mi feci onore e imparai la necessità di averlo amico anche e
soprattutto se impostore. D’altronde nulla ci obbliga a essere amici sfegatati di
questo o di quello; anche se non si può essere amici di tutti bisogna ricordarsi che
tutti sono uomini e possono esserci utili purchè si abbia cura di scoprire il loro lato
buono e tenerlo presente perché è quello che al momento opportuno ci può rendere
simpatica anche la persona più indigesta. Forse non ho detto bene e in modo
comprensibile quello che volevo perché non sono sempre stato un buon cristiano e
qualche volta dimentico anche ora di esserlo, ma chi vuole intenda.264
L’opera di Enrico Masino analizza svariate problematiche, tra cui il delicato tema
dell’omosessualità con l’episodio delle avance fatte da un enigmatico «russo di
Kiew»265 al protagonista.
Quest’ultimo riuscirà a ricucire i rapporti con la sorella Matilde, quando la
mamma sarà ormai defunta. Ciò ricorda l’immagine della sorella di Marco, lo
stalliere di Monte Ignoso, impegnata a difendere e a proteggere il suo ricordo dalle
assurde accuse della madre.
I due romanzi, tuttavia, analizzano il fascismo in maniera differente. Nel
testo di Paola e, in generale, in tutta la sua produzione, il personaggio femminile
contrasta l’ideale di donna propagandato dal regime. In Poco di buono, al
contrario, il protagonista si dichiara fascista, anche se non si deve credere che
l’autore del romanzo fosse realmente tale:
E così divenni anche io fascista, fascista convinto benché non fossi più giovane,
felice di trovarmi con dei ragazzi che convincevano di prepotenza le masse delle
pecore che si lasciavano tosare da potenze opposte; noi che avevamo fatto la guerra
sapevamo che la lotta guida e domina la vita.
[…] L’eccezionalità del DUCE come uomo meglio che dalla sua figura severa e
imponente appare dalle sue doti di lavoratore instancabile, dalla sua competenza in
tutte le materie, dal suo tatto politico, dalla prontezza nel decidere, dal linguaggio
264
265
Ivi, p. 179.
Ivi, p. 142.
137 sintetico e preciso, dalla fortuna che l’accompagna e trova una ragione solida di
essere nel buon senso originale della sua terra di Romagna. Lo si rappresenta
spesso con un viso burbero e imbronciato come se il popolo non l’adorasse, ma il
suo sorriso è buono e paterno e i suoi occhi si illuminano di una luce magica
quando parla con i bambini.266
Secondo il protagonista, il Duce sarebbe una figura paterna impegnata nella guida
del proprio popolo. In seguito al periodo travagliato del primo conflitto mondiale,
solo lui si è dimostrato in grado di ristabilire l’ordine sconfiggendo un caos
sempre più indomabile:
Non comprendo però e mi irritano quei ricchi che davanti a un movimento così
grandioso rimangono freddi e scontrosi dimenticando i pericoli corsi
nell’immediato dopoguerra quando non sapevano la sera se al mattino si sarebbero
trovati privi di ogni bene: secondo me parte sono stupidi e parte mortificati di non
avere preceduto un impulso che oggi sono costretti a seguire.
[…] I sentimentali puri […] riconoscono […] al Duce il merito grande di avere
portato l’Italia minacciata da un disordine spaventoso in un ordine e in un
raccoglimento di forze che sembrava impossibile.267
Il fascismo viene rappresentato come un movimento necessario alla società del
primo dopoguerra. Paola non è della stessa opinione e, per questo motivo, i
personaggi femminili di Monte Ignoso, ad esempio, non supportano l’ideale di
donna imposto dal regime. Non sono angeli del focolare sottomessi al volere
maschile, ma, al contrario, soffocano l’autorità del capofamiglia.
Per il resto padre e figlia condividono la stessa originalità. L’autrice la
esprime attraverso trame intricate e di difficile comprensione, impreziosite da uno
stile attento all’uso di immagini suggestive e al colore. Enrico si diverte a
seminare all’interno della narrazione particolari che si ricollegano alla sua figura.
Nel momento in cui il personaggio fornisce informazioni in merito alla propria
266
267
L’uso del maiuscoletto è originale. Ivi, pp. 303-304.
Ivi, pp. 304-305.
138 istruzione scolastica, si lamenta di come «De Amicis si ingoiava perché tutti
dicevano che era bello ma nessuno ci credeva».268 È troppo forte la tentazione di
disprezzare anche in questa occasione l’autore di Cuore, opera della quale Enrico
proibisce la lettura alle proprie figlie. In Appunti 6, scritto approssimativamente
tra il 1958 e il 1959,269 Paola ricorda: «mio padre nutriva un’avversione più
fisiologica che intellettuale (come per De Amicis cui ogni tanto aveva il rovello di
sentirsi dire che gli somigliava. Cuore è stato uno dei pochissimi libri che egli
proibì, a noi bambine, di leggere)».270
Enrico si diletta a scrivere il romanzo e tale stato d’animo emerge dalla
presenza nel testo di un personaggio enigmatico, Masino. Non riveste alcuna
importanza nella trama dell’opera ed è impossibile stabilire se la descrizione di
questa figura rifletta perfettamente l’atteggiamento del padre dell’autrice.
Quest’ultimo, per un attimo, ha voluto disorientare il lettore, immaginando la sua
sorpresa di fronte a tale figura:
ricordo […] soprattutto un toscano dai capelli a zazzera, linguacciuto e noioso
come una mosca, un certo Masino.
[…]Per me, conoscitore di uomini, Masino è rimasto un enigma […]. Dapprima mi
stupefece parlando di libri moderni; pareva che avesse letto tutto. Forse però il suo
sapere era inferiore a quello che appariva a me che dalla ignoranza originale ero
stato appena dirozzato con le letture di Gera e con la pratica della biblioteca del
signor Ferri. E così superando l’antipatia che il suo aspetto ironico e sprezzante
suscitava a prima vista, mi avvicinai a lui e mi sembrò chiaro e semplice. Poi a
poco a poco sorgevano delle difficoltà. […] Era di una sincerità incredibile […] e
in conseguenza si permetteva di dire a chiunque le sue verità nel modo più crudele.
Nelle discussioni, anche quando aveva ragione, l’aveva in una forma così urtante
che bisognava negargliela. […] Era avido di apprendere l’opinione altrui sul conto
suo, ma quando l’aveva conosciuta non se ne curava e non curava di lusingare e
affezionarsi chi lo stimava e avrebbe potuto essergli utile; ho pensato più tardi che
di quella conoscenza si servisse come di uno strumento psicologico per valutare le
persone.271
268
Ivi, p. 125.
BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 175.
270
PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 17.
271
ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., pp. 211-212.
269
139 Il personaggio di Masino è enigmatico e fortemente contraddittorio. La sua
descrizione prosegue sottolineando proprio quest’ultimo aspetto:
Non aspirava né al comando né alla ricchezza: si sarebbe potuto credere che
tendesse a farsi un nome nella letteratura (e infatti qualche cosa scriveva), ma
pareva non sentisse nessuna spinta a superare la propria indolenza contemplativa e
certo non si curava dell’avvenire. Odiava tutte le forme dell’ipocrisia […]; odiava
le frasi fatte e più i pensieri fatti; disprezzava l’aristocrazia perché gli pareva non
valesse quanto avrebbe dovuto […]; lo urtava la volgarità […]; non era per nulla
credente, ma bestemmiava per fare dispetto a certi credenti […]. La natura era stata
prodiga con lui; ma egli non sfruttava le sue doti come agli occhi degli altri […]
sarebbe stato giusto e doveroso. […] Forse non era vile; ma davanti all’ingiuria
rimaneva ghiacciato e perdeva ogni capacità di attacco e di difesa.272
L’analisi non permette di affermare con sicurezza che Enrico, nella sua opera del
1942, abbia deliberatamente preso spunto dalla produzione degli anni trenta della
figlia. Ciò che conta è la presenza in entrambi di una indiscussa sensibilità nei
confronti della realtà circostante e l’analisi di tematiche di una certa rilevanza. I
due autori sottolineano un’attenzione significativa per il colore. Enrico, infatti, nel
momento in cui descrive i diversi personaggi del suo romanzo o determinati
luoghi predilige la tonalità del rosso, uno dei colori preferiti da Paola. Il
protagonista sosterà in una «stazioncina rossa»273 e a Fiorenzuola vedrà penzolare
numerosi «stracci rossi».274 L’amante Elda indosserà un «vestito estivo di velo
rosso»,275 mentre la signora Hertz si presenterà al Lido con un «ombrellino
rosso».276
272
Ivi, pp. 213-214.
Ivi, p. 82.
274
Ivi, p. 93.
275
Ivi, p. 171.
276
Ivi, p. 194.
273
140 II.3. «C’è chi ama i figli e chi li odia»:277 i bimbi di Periferia si
raccontano.
Periferia è il secondo romanzo di Paola Masino, pubblicato nel 1933 presso
Bompiani, e inizialmente intitolato Quartiere Pannosa.278 Apparentemente
sembra un’opera priva di trama, perché l’autrice descrive le giornate di gioco di
un gruppo di bambini romani di Quartiere Pannosa. Il luogo riecheggerebbe
Piazza Caprera, nei cui pressi la scrittrice ha abitato fino al 1922.279 Paola avrebbe
preso spunto «dal nome di un fiumiciattolo che corre dalla collina di Montignoso
verso il Cinquale»,280 per ribattezzare la strada.
Nel corso della narrazione, l’autrice si sofferma a descrivere le violenze
subite dai protagonisti. Le convenzioni e il falso perbenismo celano la sofferenza
da loro vissuta quotidianamente a causa dei genitori. La perdita di un equilibrio
familiare corrisponde ad una
degradazione morale e spirituale di una società in disfacimento ed è su questa
critica dell’istituzione della famiglia, intesa nel senso tradizionale, che si articola
una nuova presentazione del disagio e della crisi della cultura borghese
dell’epoca.281
Paola sente l’esigenza di trattare un tema così delicato e una certa attenzione al
mondo infantile emerge anche dalla scrittura privata della fine degli anni
cinquanta. In Appunti 6 scrive: «Ho detto più volte che l’infanzia non è età
277
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 102.
LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, Lewiston, New York,
The Edwin Mellen Press, 2004, p. 57.
279
MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, cit., p. 118.
280
Ibid.
281
LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, cit., p. 59.
278
141 gentile, felice, incosciente […] e naturale. L’età infantile è la più dolorosa fra le
età umane. È un’età fatta di sforzo e di ricerca, arrivi alla pubertà sanguinante».282
Nel libro si susseguono modelli paterni negativi: padri inetti lasciano spazio
a uomini avari, avidi e violenti con la moglie e i figli o completamente ignari dei
tradimenti della loro consorte. Le madri, d’altro canto, non spiccano tutte per il
loro amore materno: non proteggono la prole dalla furia paterna e sono
indifferenti al suo benessere psicofisico. Romana è l’unico modello positivo. Il
figlio Dich è al centro dei suoi pensieri, come lo sono tutti i bimbi del quartiere. È
emotivamente
indipendente
dal
marito.
Quest’ultimo
è
poco
presente
nell’intreccio.
Ad eccezione dei capitoli iniziali, intitolati rispettivamente Quartiere
Pannosa e Presentazioni, i successivi portano il nome di un mese dell’anno, da
ottobre fino a settembre. Così facendo la scrittrice analizza e descrive gli ambienti
familiari nel corso di un anno intero, sottolineando come il passare del tempo non
contribuisca a migliorare la condizione di questi bambini così profondamente
infelici.
282
PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 25.
142 II.3.1. «Noi […] non avremo riposo alla nostra paura»:283 la violenza adulta
sul mondo infantile.
Gli adulti premurosi e gli angeli dei focolari impegnati a salvaguardare la
crescita della nuova generazione scompaiono nell’opera masiniana. È proprio uno
dei bambini, Fran, a sottolineare tanta indifferenza:
– Così non torneranno mai più e noi avremo tutte le strade libere per giocare.
Perché hanno bruttissime abitudini. A volte perfino passano e si permettono di
dirvi che è male insudiciarsi con la terra o darsi qualche pugno o gridare. Noi i
nostri ce li siamo abituati bene e nella strada non vengono a vedere quello che
facciamo.
– Però picchiano lo stesso anche senza vedere – osserva Armando.
– Ma – sospira Fran – pare che ci picchino per nostro bene.
– Oh, ma come ti battono, Armando? Con le mani oppure hanno una frusta? –
domanda Anna, pallida.
– Con tutto – dice Armando sorridendo.
– Ma con tutto che cosa? – domanda ancora Anna torcendosi le mani.
– Con la cinghia, con le mani, con la bocca.
– Come con la bocca?
– A morsi. L’altro giorno mi ha dato tanti morsi nella schiena, lungo quell’osso. Il
dottore ha detto che sono state tutte le botte sulla testa a farmi così mezzo cieco.284
Fran sottolinea come abbiano abituato in una certa maniera i loro genitori.
Avviene un cambio di ruolo, perché sembra di sentire le parole di un adulto a
proposito dei propri figli. In realtà si nasconde un aspetto drammatico e desolante:
i bambini si sentono responsabili di tutta l’infelicità dei padri e delle madri. Lo
conferma la figura di Armando, il quale racconta con molta semplicità le violenze
subite. Il suo racconto riecheggia la narrazione dei colpi inferti dalla mamma al
personaggio di Poco di buono di Enrico Alfredo Masino.
È impossibile per i protagonisti di Periferia fuggire da quella situazione ed
è lo stesso Fran a doverlo constatare:
283
284
EAD., Periferia, cit., p. 206.
Ivi, pp. 17-18.
143 – Non si può scappare da un momento all’altro – disse Fran. – Queste cose le fanno
senza pensarci soltanto i bambini felici che si annoiano. Fanno una passeggiata e
dopo un po’ si siedono sul marciapiede e aspettano che qualcuno venga a cercarli,
poi tutti insieme tornano a casa piangendo e si baciano e si perdonano e gli dànno
la cioccolata calda perché si era raffreddato. Ma se lui scappa deve scappare
davvero e allora può anche morire.285
I bambini che fuggono, osserva Fran, sono quelli sopraffatti dalla noia, sicuri di
un ritorno a casa privo d’ogni conseguenza. Loro, i bimbi di Quartiere Pannosa,
non possono fare altrettanto, perché se falliscono nel loro intento potrebbero
mettere a rischio la propria incolumità fisica.
Il pericolo si nasconde dietro le mura domestiche e a loro non resta che
accettarlo. Il gioco è l’unica dimensione in grado di permettere ai protagonisti di
evadere da quel clima di angoscia e di paura, ma è anche il momento in cui hanno
la possibilità di confidarsi. Anna, altra abitante del Quartiere Pannosa, dimostra
tale esigenza:
– Ho paura del buio – dice. Anna alza le spalle. – Questo non è buio. Buio è la
notte quando io sto in camicia nel corridoio e aspetto che babbo e mamma si
ammazzino. Loro urlano urlano chiusi in camera. C’è uno spiraglio di luce sotto la
porta. Lo sai che quando si ammazza uno il sangue esce piano piano da sotto la
porta? Io guardo sempre là. Poi non urlano più e fanno dei colpi, come se
picchiassero coi pugni sulle coperte. Suona tutta la casa. Gli altri non dormono, lo
so, neanche Fulvia, ma hanno paura di venire nel corridoio perché al buio, se pensi
al sangue, subito ti pare di avere i piedi bagnati. Quando mamma piange me ne
torno a letto, ma quando piange babbo mi metto a piangere anch’io sottovoce. Il
mio babbo quando piange è come uno che russa, oppure che sospira perché gli pare
che nel mondo ci sono troppi morti …286
Ogni occasione si rivela propizia per rievocare e trattare angosciosi e desolanti
episodi di vita familiare. Anna rivela di sentirsi più vicina allo stato d’animo del
padre nel momento in cui lo sente piangere. Si accorge dell’eccezionalità
285
286
Ivi, p. 19.
Ivi, p. 34.
144 dell’evento: l’uomo dimostra la sua fragilità e dolore per una situazione coniugale
disastrosa, abbandonando la sicurezza e la forza tanto immaginata nella figura del
capofamiglia.
La sensibilità non è, invece, uno degli attributi del padre di Ella, Fran e
Carlo. Quest’ultimo, in seguito ad una partita di guardie e ladri, si offende per non
essere stato trovato dai suoi compagni nel corso del gioco. Per questo motivo si
ritrova a vagare fino a giungere ad una villa abitata da una signora con il figlio,
Stefano, convinto di avere appollaiata sulla sua spalla una scimmia chiamata
Cleopatra. Gli altri, nel frattempo, lo cercheranno fino a quando non si sente «la
voce di babbo»:287
Carlo! Carlo! Carlo! Voci forti, piccole dolorose irate singhiozzanti. Lui si fermò
ad ascoltare. Riconosceva voce per voce: Fran, Ella, Lisa, Fulvia, Giovanni, e,
questa come una raffica, la voce di babbo. Allora si mise a correre. Più giù incontrò
Ella. Ella tremava. Quando lo vide dette un urlo.
– Carlo! – e lo abbracciava. – Dove sei stato? Mamma si è già svenuta un bel
po’.288
Le urla del padre intimoriscono la bambina, impaurita dalle possibili conseguenze
del ritardo del fratello. Il terrore e la paura sono i fedeli compagni dei protagonisti
del romanzo, i quali sono profondamente condizionati dalla propria situazione.
Dio, ad esempio, viene da loro considerato sullo stesso piano dei loro padri,
perché, secondo i bimbi, avrebbe dimostrato lo stesso egoismo con Gesù. Anche
in Periferia, pertanto, è presente uno sguardo disincantato nei confronti della
religione:
287
288
Ivi, p. 49.
Ibid.
145 – Ma – gridò Carlo indignatissimo – era un egoista questo Dio. Ogni babbo buono
muore lui invece del suo bambino. E anche le mamme. L’altro giorno mamma è
venuta in camera mia con Giorgio e credeva che io dormissi e ha detto che lei
perderebbe tutto con gioia, perfino Giorgio, ma me no.
– E Giorgio chi è? – domandò Dich.
– Un amico nostro, proprio vero. Di quelli che portano i regali. Figùrati che noi gli
diamo del tu. E lui lo da anche al babbo, alla mamma no, ma quando nessuno sente
sì.
– E quando nessuno vede si baciano perfino dietro le porte. Fanno ridere – disse
Ella.289
I bambini non riescono a dimenticare le proprie questioni familiari e ogni
occasione è buona per affrontare l’argomento. Nel passo citato Carlo parla di Dio
per poi raccontare l’adulterio commesso dalla madre con un certo Giorgio, un
amico di famiglia. Il papà è all’oscuro della situazione. A differenza dei fratelli,
Fran vorrebbe rivelargli la verità:
– Non è vero! Siete due bugiardi! Se lo dicessi a babbo non vi crederebbe.
– Non credo che si debba a dire a babbo, Fran – disse Ella. – Almeno, un giorno
che mamma mi ha vista mentre li stavo a guardare, mi ha portato in camera sua, mi
ha fatto vedere la pistola del babbo e mi ha detto: – Se tu dici a babbo che hai visto
che Giorgio mi baciava, babbo mi ammazzerà con questa pistola, e lui lo
metteranno in prigione per tutta la vita …
[…] – Allora voi rimarrete soli al mondo, poverini, senza né babbo né mamma, e
dovrete vivere di elemosina e non potrete neppure portarmi i fiori al cimitero – e si
è messa a piangere. Io gli ho detto: «Mamma non piangere. Se mai i soldi per i fiori
ce li facciamo dare da Giorgio, e la minestra certo ce la regalano un giorno per uno
la mamma di Lisa e la mamma di Fulvia, e quella di Giovanni». Ma lei continuava
a piangere e Giorgio mi ha detto: «Vedi come sei cattiva che fai piangere
mammina? Chiedile subito scusa e promettile di non dir nulla» e mi ha chiamata
vipera degna di schiaffi, fino a che mi sono messa a piangere forte. […] Mi hanno
fatto piangere un bel po’ poi ho giurato di non dire niente e mamma mi ha
perdonato di aver visto e Giorgio mi ha regalata una lira per la liquerizia.290
Nel passo citato emerge una figura materna negativa: la donna non si preoccupa di
proteggere i figli dal dolore provocato dalla scoperta del suo adulterio, ma arriva a
ricattarli moralmente. Se riveleranno la verità al babbo, si renderanno complici
289
290
Ivi, p. 62.
Ivi, p. 63.
146 dell’assassinio della loro madre. Il papà, sebbene sia ignaro del tradimento,
rappresenterebbe il male, mentre la mamma il bene. La situazione si aggrava nel
momento in cui Giorgio, l’amante, si arroga il diritto di sgridare ed offendere la
povera bambina, senza che la madre intervenga. L’uomo la incolpa in maniera
ingiustificata del dolore della compagna e con una certa severità la apostrofa
chiamandola «vipera degna di schiaffi».291 La bambina sarà costretta ad
assecondare i capricci della madre, mentre questa perderà la propria dignità.
La figlia Ella, vista la tenera età, continua a credere nella sua bontà,
cercando di giustificarla con spiegazioni a dir poco curiose:
credo che sia stabilito per legge quando una donna deve baciare un uomo di
nascosto. Se no sono cose abbastanza schifose che se uno non ci fosse obbligato
non farebbe mica, stare così per tanto tempo con la bocca appiccicata su quella
d’un altro con tutti i baffi.292
Fran, al contrario, si distingue per la sua maturità e comprende perfettamente la
situazione: questa volta il papà, ignaro dell’adulterio della moglie, è una vittima e
il figlio gli è vicino: «Io non voglio, non voglio che si faccia male al mio
babbo».293 Solo Anna può capire cosa significhi vedere un genitore soffrire e per
questo motivo sostiene l’amico: «Fran, difendilo il tuo babbo, che non te lo
facciano piangere! Tu non lo sai, nessuno può saperlo, che cosa vuol dire quando
senti il tuo babbo che piange da solo, di notte».294
Le dolorose tragedie familiari spingono i protagonisti a riflettere sul proprio
futuro. Fulvia è decisa a non avere figli, perché «Cascano e si fanno male, come le
291
Ibid.
Ivi, p. 64.
293
Ivi, p. 65.
294
Ibid.
292
147 bambole. Bella preoccupazione».295 Sogna di essere una «donna famosa»,296
quindi dovrà «sposare un re perché i re e le regine si studiano anche se non hanno
fatto altro che avere un numero».297 Anna non è dello stesso avviso della sorella,
desidera dei figli
Per sentire che male fa a farli. Aver male <le> piace –. Crearsi una sofferenza era il
suo divertimento preferito. Si stendeva sulle spalliere di due seggiole vicine e stava
così dolorante, immaginando di essere una martire cristiana legata sulle corna di un
toro furioso. O, quando era a letto, si convinceva di dover dormire con un rospo
che le passeggiava sul corpo e tanto era lo schifo di questa immaginazione che
quasi sveniva. Ma più di tutto amava arrampicarsi sul cassettone in camera del
babbo e inginocchiarvisi tra due candelieri d’argento e due mazzi di fiori.
Rimaneva immobile in questa posizione finchè non entrava qualcuno nella stanza,
allora si percoteva il petto con i piccoli pugni e gridava: «Pentitevi! Temete le
fiamme infernali. Fate come il povero anacoreta Anna che rinunciò ai giochi degli
amici scapestrati per essere fatto santo». Ma se entrava il babbo Anna diceva, con
le mani giunte sul cuore: «Babbo sto pregando per te». E un tratto pensava che
babbo, nonostante le sue preghiere, sarebbe morto e si metteva a piangere.
Immaginava anche la tomba di mamma, quella di Fulvia, la propria; e il suo dolore
ingigantiva, diventava un pianto disperato. Lei poteva soffrire così
meravigliosamente appena voleva, a ogni ora del giorno, e quando aveva finito di
soffrire improvvisava lunghi canti appassionati come per sciogliere l’incanto che la
torturava.298
Anna è totalmente immersa nella dimensione del dolore e non riesce a pensare ad
altro. Anziché immaginare un roseo futuro, le sue fantasie sono caratterizzate
dalle visioni oscure della tomba.
I fratelli Maria e Giovanni sono i più colpiti da tanta desolazione. Il papà è
violento con loro e, in particolare, con la moglie, costretta ad una vita di stenti a
causa della quale perderà il bimbo che aspetta. I figli sono privati d’ogni
giocattolo e divertimento e vivono ripetendo i severi precetti paterni: «Con le
295
Ivi, p. 68.
Ibid.
297
Ibid.
298
Ivi, pp. 69-70.
296
148 donne non si può mai sapere. Rubano sempre sulla spesa».299 Maria desidera
imparare a suonare il pianoforte e chiede una mano all’amica Lisa, eludendo la
sorveglianza del terribile papà:
Ora tu mi copi gli esercizi e così io imparo a sonare senza che babbo se ne accorga
se no urla perché gli ho consumato il lapis.
– Non mi piacerebbe vivere in una famiglia come la tua. Per andarmene piuttosto
mi sposerei.
– Non ho ancora la dote. Babbo me la sta facendo. Mi ha regalata una cassetta
come quelle dell’elemosina che sono in chiesa, e a ogni persona che viene a
trovarci, come se giocassi alla messa, gli chiedo un soldo. In fondo alla settimana
c’è sempre una mezza liretta che si mette nel salvadanaio e alla fine dell’anno il
salvadanaio si porta alla banca. Anche ora, a Natale, ci andiamo alla banca, a
vedere la cassetta dei tesori.
– Che cosa è la cassetta dei tesori?
– Una cassetta dove sono le posate di argento e due candelieri e due pavoni grandi
preziosi da mettere sulla tavola e gli anelli di famiglia e perfino una collana di
perle.
– E perché tua mamma non se la mette?
– Mamma non lo sa nemmeno che c’è. Lei babbo non ce la porta mica a vedere, se
no si mette in testa che siamo ricchi e non fa più economia. Lei è come Giovanni,
gli piace molto spendere. Giovanni ha detto che appena babbo muore con i soldi
compra l’automobile.300
La menzogna regna nella casa di Maria e Giovanni: non sono poveri, perché
possiedono un’autentica ricchezza depositata in banca. La madre è all’oscuro di
questa risorsa e, secondo il papà, sarebbe una bugia necessaria ad impedire alla
moglie di sperperare tutto il patrimonio. In realtà è l’unico modo per esercitare
una certa autorità sulla consorte. Per la sua avarizia l’uomo ricorda il personaggio
femminile della signora Giulia in Monte Ignoso. Quest’ultima condizionerà
negativamente la vita del figlio e altrettanto farà il padre di Giovanni e Maria.
Riesce a seminare il terrore nella sua famiglia, suscitando l’odio degli altri
bambini. Il paese di Monte Ignoso augurerà la morte alla terribile Giulia, mentre i
299
300
Ivi, p. 73.
Ivi, pp. 74-75.
149 compagni di gioco dei figli della terrificante figura paterna di Periferia lo
disprezzeranno profondamente. Tanto odio spingerà uno dei bimbi di Quartiere
Pannosa, Luca Vanni, a decidere di ucciderlo:
– Giovanni – chiama Luca sottovoce.
– Luca?
– Se non puoi farne a meno vuoi che te lo uccida io?
– Ah … e come, se mai?
– Ci penso stanotte. Un modo bello.
– Da non farlo piangere, Luca.301
Luca avverte l’esigenza di porre fine ai soprusi subiti dall’amico. È un’ossessione
destinata a non passare neppure dopo la fuga di Giovanni e della madre dal padre
padrone: «– Però – disse Luca a un tratto – suo babbo oramai lo ammazzo lo
stesso».302 Non raggiungerà, fortunatamente, il proprio obiettivo, in quanto
comprende come la fuga del compagno di giochi e della mamma abbiano
ristabilito nella casa paterna una felicità da tempo perduta:
– Tu – le domanda Luca – lo ammazzeresti uno che ride?
[…] – Non dico per te. Dico di lui. Non l’ho ammazzato.
[…] – Perché rideva. Parlava di Giovanni, che lo sa dov’è, ma non lo vuol più
vedere, e rideva. Anche Maria rideva. Io non avevo mai sentito ridere così. Come
uno che non può fare altro, come uno che piange quando tutto è finito. Tutto di
dentro. Per se solo.
[…] Come si fa a uccidere uno felice? Non è uno come noi.303
Il padre di Maria e Giovanni «Non è uno <di loro>»,304 come osserva Luca,
perché non subisce la violenza, ma esercita l’autorità. Una breve descrizione
sottolinea la ripugnanza che la sua figura ispira: «dal cancello sulla piazza scivolò
301
Ivi, p. 161.
Ivi, p. 172.
303
Ivi, pp. 189-190.
304
Ibid.
302
150 fuori e s’allontanò rapido con una valigia in mano il babbo di Giovanni e Maria.
Sembrava una vescica e che perdesse olio. Lui da solo aveva sgualcita e
insudiciata tutta la piazza».305
L’immagine presente nel passo citato è emblematica per illustrare la
negatività della figura maschile. La violenza e l’autorità esercitata sulla famiglia è
tristemente nota al quartiere. La sua avidità indigna i compagni di gioco dei figli, i
quali non riescono a trattenere la disperazione per una situazione così complessa:
babbo ieri sera gli ha dato cinquanta lire perché andasse dal tabaccaio a cambiarle e
comprargli una sigaretta. […] Lui va e torna e babbo conta i soldi e mancavano due
lire e Giovanni ha detto che le aveva perdute per la strada. Babbo l’ha mandato a
ricercarle ma lui non le ha trovate e babbo non ha detto nulla, ha fatto così con i
denti […]. […] E mamma si è messa a tremare. Mamma trema sempre. […] Poi
siamo andati a letto. Quando Giovanni dormiva […] babbo è venuto con una
candela nel candeliere di bronzo che io non posso neppure alzare, perché ad
accendere la luce aveva paura che Giovanni si svegliasse. E ha messo una mano sul
cuore di Giovanni e gli ha domandato: – Dove sono le due lire? – Perché Giovanni
parla la notte e se uno gli mette la mano sul cuore lui deve dire la verità. […]
Giovanni ha detto: – L’ho messo dentro alle scarpe –. A babbo gli si sono scoperti
tutti i denti e ha domandato ancora: – Per farne che cosa? – E Giovanni: – Per darli
a Carlo. – Chi è Carlo? – Il bambino che sta di faccia. – Perché volevi darglieli? –
Per sapere il suo segreto. – Canaglia! – E gli ha sbattuto quel candeliere sulla fronte
tanto forte che ha fatto un rumore basso e subito ha cominciato a uscirgli tanto
sangue.306
Il padre somiglia ad un lupo pronto ad azzannare la propria preda: per ben due
volte la figlia Maria sottolinea come l’uomo abbia digrignato i denti ascoltando le
parole pronunciate nel sonno da Giovanni. È un particolare già sottolineato
durante l’analisi di Monte Ignoso. I personaggi vengono paragonati a degli
animali nel momento in cui compiono una violenza. Esiste, pertanto, un filo
sottile che unisce le diverse opere masiniane. Il passo citato ricorda la scena dei
305
306
Ivi, p. 89.
Ivi, pp. 90-91.
151 colpi inferti dalla lavandaia al figlio protagonista del romanzo Poco di buono di
Enrico Alfredo Masino:
Quando le dissi che non avevo più le cinque lire datemi dal sor Augusto, la sua ira
raddoppiò; mi prese la testa sotto il braccio sinistro, mi dette sculaccioni e pugni
fino a che non ne potè più dalla stanchezza e mi gettò sul pagliericcio come uno
straccio. […] odiavo tanto mia madre in quel momento che se avessi potuto me la
sarei messa sotto i piedi.307
I bambini e la stessa Masino non condannano Giovanni per la sua innocente
menzogna. La somma sottratta è esigua e, vista l’ingenuità del figlio, l’uomo
avrebbe potuto tranquillamente perdonarlo. Luca, da sempre deciso ad uccidere
quel padre padrone, è il primo a giustificare il gesto dell’amico, osservando come
«Rubare a un padre avaro <sia> un diritto».308 Fulvia, invece, sottolinea quanto
siano «una brutta cosa […] i babbi e le mamme»,309 perché «Non fanno che urlare
tra loro e poi urlano anche con <i figli>».310
Il padre di Maria e Giovanni si rivela il peggior genitore del quartiere e la
sua arroganza non si affievolisce nemmeno di fronte alle conseguenze causate dai
colpi di candelieri inferti al figlio:
Mamma è entrata in camera e mi si è buttata addosso urlando e io l’abbracciavo.
Allora babbo l’ha presa per un braccio e ha detto: «Non far scene. Vedi quanto mi
costa questo mascalzone. Ora mi tocca chiamare un medico a ricucirlo». Mamma
urlava sempre, diceva: «Io le ammazzo queste creature piuttosto che vederle
soffrire così». […] continuava a gridare: «Sì, le ammazzo, questa e quella che
porto. Abbiamo fame! Ho fame! Ho fame! Assassino!» E si è messa a battere con
la pancia contro lo spigolo del letto. […] babbo l’ha presa da dietro per le braccia e
gli si erano scoperti i denti […] e ha detto piano piano: «Lo sai che ti potrei far
mettere in prigione per quello che stai facendo? Sta attenta a non ricominciare e fila
subito a chiamare il dottore per quel ladro di tuo figlio. Non mi meraviglierei a
307
ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., p. 11.
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 91.
309
Ibid.
310
Ibid.
308
152 sapere che ha rubato perché gliel’hai detto tu. Marsc!». E l’ha messa fuori della
porta. Babbo dice sempre marsc.311
L’attesa di un nuovo figlio non tutela la madre di Giovanni dalle angherie del
marito. La sofferenza è troppa per la donna, la quale cerca di ferirsi al ventre.
L’immagine ricorda gli episodi del calcio alla pancia inferto dallo stalliere Marco
ad Emma e del cancro all’utero della signora Giulia in Monte Ignoso, personaggi
femminili incapaci di assolvere il proprio ruolo di madre. Questa mamma non è in
grado di ribellarsi alla furia del marito e, di conseguenza, non può assicurare il
benessere psico-fisico ai figli. Nel passo citato è di nuovo presente il riferimento
ai denti dell’uomo. Ancora una volta assomiglia ad un lupo in attesa di agguantare
ed azzannare la propria preda.
La figura paterna analizzata fino ad ora ricorda il profilo di Hermann Kafka
descritto nella Lettera al padre del 1919 dal figlio Franz, autore che negli anni
trenta inizia ad essere letto e tradotto.312 Si tratta di un’opera dove è riconoscibile
una «denuncia contro una educazione […] imposta».313 È la «radiografia di […]
<un’> esistenza […] grigia, contorta e infelice».314 Un profondo distacco separa
Kafka da un padre autoritario e dispotico. Franz rimarrà irrimediabilmente
condizionato da questo rapporto negativo, «per anni soffri<rà> del tormentoso
pensiero che <suo> padre, il gigante, la suprema istanza, po<trà> venire quasi
senza motivo nel cuore della notte a portar<lo fuori> sul ballatoio».315 È
consapevole del fatto che la sua vita è stata pesantemente condizionata da quella
presenza ingombrante, come accade ai personaggi masiniani di Monte Ignoso e
311
Ivi, pp. 92-93.
GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, La forma e la vita: il romanzo del Novecento, cit., p. 208.
313
FRANZ KAFKA, Lettera al padre. Quaderni in ottavo, introduzione di Roberto Fertonani,
Milano, Arnoldo Mondadori, 1972, p. VIII.
314
Ibid.
315
Ivi, p. 7.
312
153 Periferia. In quest’ultimo romanzo, in particolare, il padre di Giovanni viene
spesso paragonato ad un lupo pronto ad azzannare la propria preda. Allo stesso
modo Hermann Kafka spesso «Raffor<za> le ingiurie <rivolte a Franz>»316
minacciandolo di «sbran<arlo> come un pesce».317 La madre non è in grado di
affrontare il marito e preferisce soffrire e difendere il figlio «solo in segreto».318 È
il ritratto di una donna debole, simile ai personaggi femminili descritti nei
romanzi della Masino.
Tutte le famiglie di Quartiere Pannosa sono anomale e tra queste spicca
quella della fruttivendola. La figlia, Nena, è consapevole dell’eccezionalità della
propria situazione e la sfrutta a suo vantaggio:
Non mi ci avete mai chiamata a giocare con voi, perché credete che sono sudicia?
Ma i soldi che ci ho io neppure ve li immaginate. Che io sono tanto ricca che siamo
tre sorelle e invece di avere un padre solo, ognuna ha un papà per conto suo che la
porta al caffè la domenica, e gli altri giorni vengono anche tutti e tre insieme a
mangiare con noi. Perché mamma, mica è avara. Mangia e beve e si mantiene tre
mariti. E perciò io con voi neppure ve l’ho chiesto di giocare perché non mi degno.
Se mi volete mi venite a cercare. Chiedete di Nena.319
Inoltre, ci tiene a precisare, «se qualcuno <la> tocca i tre papà hanno detto che lo
sbuzzano».320 Nena si sente una privilegiata e non comprende il rifiuto degli altri
bimbi nel coinvolgerla nei loro giochi. In fondo l’avarizia e la violenza non sono
ospiti graditi a casa sua e può contare sulla presenza di tre figure paterne, cosa che
gli altri suoi coetanei non possono vantare. Le parole e l’orgoglio di Nena
suscitano tenerezza e allo stesso tempo il riso. Tuttavia nascondono una certa
malinconia, perché anche in questo caso il lettore è consapevole di come la
316
Ivi, p. 15.
Ibid.
318
Ivi, p. 19.
319
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 104.
320
Ivi, p. 115.
317
154 bambina sia irrimediabilmente sola e non viva una situazione familiare stabile.
Ancora una volta sono assenti le prerogative della famiglia tradizionale.
I padri e le madri soffrono, sono infelici e insoddisfatti del proprio rapporto
coniugale e i figli sono spettatori di tanto dolore:
Anna diceva a Fran:
– Stanotte hanno urlato e babbo è uscito nel corridoio dopo un po’; ma senza
piangere. Io mi sono nascosta ma lui mi ha visto, mi ha preso per mano e mi ha
portato nello studio. Allora mi ha fatto vedere una pistola e mi ha detto: «Vuoi che
ci ammazziamo Anna? Io e te. Così non starai più alzata la notte al freddo e io
potrò dormire perché sono tanto stanco e la mattina devo alzarmi presto per andare
in caserma. Ma io gli ho detto di no, Fran. Forse ho fatto male perché lui ne doveva
avere proprio voglia, e lui a me, se ho voglia di una cosa, non mi dice mai di no.
Sono molto cattiva?321
È difficile per Anna placare i sensi di colpa: ha disobbedito al babbo,
impedendogli di compiere un gesto tanto desiderato. Solo Fran riuscirà a calmarla,
perché «Un uomo non domanda mai due volte una cosa simile»,322 e suo padre «è
un generale come si deve».323 Ciò dovrebbe tranquillizzarla e se così non sarà
dovrà attendere solo l’estate: ad agosto andranno in vacanza «In una campagna di
prati grandi con un fiume secco nel mezzo e sempre il vento».324 Là alloggeranno
«in albergo e in albergo mamma si vergogna a urlare. Due mesi senza paura».325
È impossibile per i bimbi di Quartiere Pannosa odiare i propri genitori. A
volte li giustificano e provano una profonda compassione per loro. Lo stesso
Giovanni, nonostante i maltrattamenti subiti, spesso pensa al padre come ad una
vittima: «Babbo mio, come saresti felice, povero babbo disgraziato, se qualcuno ti
321
Ivi, p. 122.
Ivi, p. 123.
323
Ibid.
324
Ivi, p. 205.
325
Ibid.
322
155 avesse insegnato a volerci bene, a volerti un po’ di bene da te, invece di obbligarci
a farti questa vita nera».326
Essi riescono a sdrammatizzare gli episodi di violenza familiare, come fa
Armando:
la maestra oggi ha detto che in tutti i modi mi boccia. Mamma ha finito proprio ora
di picchiarmi. E domani mi manda a fare quello vestito di rosso davanti
all’ascensore in un albergo di lusso. Un ascensore va in su, uno in giù e io prendo
le mance.
– Non giocherai mai più? Avrai un giorno di vacanza per giocare?
– Il giorno di vacanza è l’unico giorno che gli rimane a mamma per picchiarmi.
– Ma fatti picchiare un po’ tutte le sere – dice Carlo – così la domenica sei libero.
– Oh non è mai sazia.
– Armando! – tuona infatti una voce dai sottosuoli del villino. Lui è già sparito e
dopo un po’ lo si sente urlare.327
Di fronte all’eventualità di una bocciatura, la madre di Armando prende una
decisione drastica: suo figlio dovrà iniziare a lavorare. La parentesi scolastica è
definitivamente conclusa per il bambino, al quale la madre non offre nessun
futuro. La violenza è per lei l’unico strumento di comunicazione e ad Armando
non resta che accettare la situazione, aggiungendoci un pizzico di ironia:
Non vedete che sono tutto ferito e fasciato? Sembra vero? Mamma quando mi ha
visto vestito così ha detto che la pigliavo in giro e mi ha dato questo schiaffo, qui a
sinistra. Questo è proprio vero non ce l’ho dipinto. Si vede anche meglio. Le
frustate e i lividi un po’ sono vecchi e un po’ dipinti, ma non fanno lo stesso
effetto. Invece il suo schiaffo è proprio bello, ci sono rimaste le cinque dita più
bianche e gonfie gonfie. Se volete potete toccarle. Non c’è trucco.328
Il mondo adulto rappresenta una minaccia per i protagonisti di Periferia, i quali
sono condannati ad una profonda solitudine. Paola si sofferma diverse volte su
326
Ivi, p. 162.
Ivi, p. 177.
328
Ivi, p. 101.
327
156 questo drammatico aspetto e, tramite i bambini, esprime la sua opinione a
riguardo:
Siamo i più soli di tutti, perché tutti con la scusa che siamo piccoli ci prendono la
nostra vita e si dimenticano di ridarcela, quando ne abbiamo bisogno. Sono loro che
ci fanno invecchiare per la fretta di andargliela a strappare dalle mani e
riprendercela, la nostra vita.329
II.3.2. «E… e io? Dich? anche io sono così?»:330 Romana, modello positivo di
madre.
Romana è l’unica figura materna positiva presente in Periferia. Partecipa ai
giochi degli amici del figlio Dich, con il quale ha instaurato un affettuoso legame
di complicità. Quest’ultimo la chiama per nome e la presenta ai bimbi del
quartiere quasi fosse una loro coetanea. Il benessere dei protagonisti del romanzo
sta a cuore alla donna, sempre impegnata ad inventare nuovi e divertenti giochi,
perché come scrive l’autrice nel capitolo undicesimo
Giocare è uno stato d’animo non è un’azione. […] Il gioco è tutto arbitrio, ma
arbitrio cosciente che si crea appassionate gioie mirabili dolori come un nulla basta
a precipitarlo altrove o a infrangerlo come un sogno, ma senza risveglio. Perché
giocare vuol dire essere sempre distratti da se medesimi.331
329
Ivi, p. 181.
Ivi, p. 91.
331
Ivi, p. 175.
330
157 La donna riesce a conquistarsi l’affetto dei bambini: organizza un festoso Natale,
dona loro un sincero amore materno e aiuta Giovanni e la madre a fuggire di casa,
organizzando il viaggio in treno e fornendo un alloggio sicuro presso una cara
amica. Solo la maligna Nena, la figlia della fruttivendola, dubiterà di tanta
disponibilità, poiché, secondo lei, «Romana esagera con questa smania di voler
bene ai bambini».332
In realtà il suo comportamento è sincero. Non vuole approfittare
dell’ingenuità dei giovani amici, perché è estranea alla negatività del mondo
adulto. Vuole vivere in sintonia con i bimbi del Quartiere Pannosa e arriva
addirittura a travestirsi per raggiungere tale obiettivo:
Romana aveva le calze e le sottane corte, un fiocco tra i capelli, scarpette senza
tacco, una bambola in mano e un dito in bocca, proprio come una bambina piccola.
Dopo una attimo di stupore Anna le si precipitò tra le braccia e prese a baciarla
furiosamente.
– Lo sapevo – gridava – che tu non potevi essere così sporca come dice Ella. Tu
sei una di noi, proprio come me.333
A differenza di Giovanni, protagonista di Monte Ignoso, la regressione di Romana
non nasce dall’esigenza di fuggire da uno scomodo passato familiare. È un
modello positivo di madre. Nelle opere masiniane analizzate fino ad ora, Dich è
l’unico personaggio che ha la possibilità di conoscere il significato di un affetto
materno sincero. Alcune scene descritte nel romanzo ne sono la testimonianza:
Quando gli altri si mettevano a giocare ognuno per conto suo, Dich non sapeva che
cosa fare. Allora andava da sua mamma e le diceva, come a un amico: «Romana,
facciamo un po’ ai pugni». Mamma rideva, si rimboccava le maniche, infilava i
guantoni e si preparava a massacrare suo figlio. Ma era quasi sempre lei che cadeva
332
333
Ivi, p. 150.
Ivi, pp. 109-110.
158 in terra fingendo per dieci secondi di non potersi rialzare. Se erano stanchi di darsi
pugni Romana preparava crema e dolci per sé e per Dich. Poi mangiavano tutti e
due nello stesso piatto facendosi molti dispetti. Romana rubava un biscotto a Dich,
Dich le spiaccicava un cucchiaino di crema sul collo, allora ricominciavano a darsi
pugni finchè cadevano abbracciati sul divano e si addormentavano. Il babbo
tornando a casa la sera li trovava ancora così avvinti: con un bacio leggero sulla
fronte di Dich, sugli occhi di Romana, dolcemente li svegliava.334
Anche gli altri bambini vivono con lei attimi di spensieratezza. Il suo florido
aspetto ispira loro quell’idea di maternità ormai completamente svanita nelle
proprie famiglie, come osserva il povero Giovanni:
Romana è una mamma, la nostra non è una mamma. Guarda qui – con le due mani
premeva sul seno grosso di Romana – questo è proprio da mamma. Mamma nostra
ha tutti ossi e quando uno gli va in braccio fa male sotto, con le gambe. Romana è
tutta tonda e fa caldo, uno ci può dormire bene sopra. E poi Romana odora di
zucchero, mamma non odora di nulla.335
Secondo Marinella Mascia Galateria il personaggio dimostrerebbe una valenza
autobiografica.336 In una dedica presente in una copia del romanzo analizzato
avrebbe scritto «“a babbo che è un po’ Romana”».337 Non sarebbe da escludere
neppure una certa somiglianza tra la protagonista e la madre della scrittrice.338
Luisa, per Paola, non rappresenta «una mamma […] <, ma> una cosa speciale»,339
come lei stessa dichiarerà. In Periferia Dich dirà lo stesso a Romana.340
334
Ivi, pp. 70-71.
Ivi, p. 72.
336
MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, cit., p. 119.
337
Ivi, p. 120.
338
Ibid.
339
Ibid.
340
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 92.
335
159 II.3.3. «Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più
bello»:341 somiglianze di Periferia con Il mare non bagna Napoli di Anna
Maria Ortese e Enrico IV di Luigi Pirandello.
Nel 1953 Anna Maria Ortese pubblica Il mare non bagna Napoli presso
Einaudi. Si tratta dell’analisi della città sotto differenti punti di vista. L’autrice
dimostra di concepire la scrittura quale mezzo privilegiato di osservazione della
realtà. Pertanto si rivela molto simile all’amica Paola.
Napoli verrà raffigurata in tutta la sua povertà attraverso una serie di scritti
già apparsi precedentemente su diverse testate giornalistiche. Il racconto Un paio
di occhiali apre la raccolta ed è già stato pubblicato sulla rivista «Omnibus» il 19
maggio 1949, con il titolo Ottomila lire per gli occhi di Eugenia.342 Si narra la
vicenda di una bimba, Eugenia, affetta da gravi problemi di vista. Riceverà in
regalo un paio di occhiali.
Da sempre si era immaginata la realtà circostante con toni idilliaci, ma si
renderà conto dello sbaglio commesso:
non provava più nessuna gioia. […] Come un imbuto viscido il cortile, con la punta
verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri,
coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua
saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel
gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla
rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a
confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti
stregati gli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava
male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e,
lamentandosi, vomitava.343
341
Ivi, p. 77.
LUCA CLERICI, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2002, p. 666.
343
ANNA MARIA ORTESE, Il mare non bagna Napoli, Torino, Giulio Einaudi, 1953, pp. 33-34.
342
160 Eugenia assomiglia al personaggio di Armando, descritto nel 1933 da Paola
Masino nel romanzo Periferia. Il bimbo è stato quasi accecato dalle botte ricevute
dalla madre e Romana gli regala per Natale «un paio di occhiali a stanghetta, di
corno nero».344 Armando comprende subito quanto la realtà non abbia nulla a che
fare con quanto aveva immaginato fino a quel tempo. Le sue aspettative vengono
deluse, come capiterà ad Eugenia:
Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più bello. Ora che lo
so com’è, non capisco che gusto c’è a veder bene. Con gli occhiali tutto è piccolo
con una striscia nera intorno, invece, senza, tutto è morbido come fatto di nebbia,
non si vede mai la fine, ci si immagina quello che vuole. Guardo un albero e le
foglie non hanno orli, a poco a poco, chissà dove, sono diventate cielo, guardo la
terra e la vedo bella gonfia d’un colore strano come se uno da sotto ci soffiasse
tanta aria, e i fiori non sono mai soli ma a strisce o a gruppi rossi gialli bianchi. Un
fiore solo non esiste o se no è grosso grosso. Le luci e le stelle sono larghe come
pozzanghere, senza forma, e se si chiudono le palpebre, subito se ne vedono tante
che fanno un bel disegno a raggi. E poi è più comodo perché ogni cosa ha tanti orli
per dove si può prendere. Con questi occhiali non si capisce a che distanza sono le
cose. Io allungo la mano come prima, ma ora come mai la allungo troppo?345
Armando spiega le motivazioni della sua delusione: la realtà è limitata e non
permette la libertà di immaginazione. Il personaggio masiniano è più adulto
dell’ortesiana Eugenia, in quanto non reagisce vomitando, come fa lei, ma cerca di
analizzare la nuova dimensione vista con il suo paio di occhiali. È significativo il
fatto che li perderà
durante un pomeriggio di svago con gli amici, senza
preoccuparsi di ciò.346
Periferia presenta dei punti in comune con un’altra opera del Novecento: la
tragedia Enrico IV di Luigi Pirandello. La stessa Louise Rozier segnala tale
344
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 76.
Ivi, p. 77.
346
Ivi, p. 196.
345
161 aspetto.347 Si tratta di un dramma andato in scena nel 1924, che affronta il
problema dell’identità. Il protagonista è vittima di una rovinosa caduta da cavallo
avvenuta nei pressi di una villa patrizia in occasione di una festa di Carnevale
organizzata in compagnia di amici. Una volta ripresosi l’aristocratico sarà
convinto di essere l’imperatore Enrico IV e tutti asseconderanno tale illusione.
Dopo dodici anni di pazzia l’uomo si riprende, ma si accorge di essere stato
defraudato della propria vita: la donna amata ha una relazione con l’amico
Belcredi, gli anni sono passati e nulla potrà tornare come un tempo. Per questo
deciderà di dimenticare la passata identità.
Enrico IV ricorda la figura di Giovanni, il padre inetto descritto in Monte
Ignoso. Anche lui vorrà vivere come se fosse un'altra persona mentre la figlia
Barbara asseconderà la sua decisione.
Periferia mostra dei tratti in comune con la tragedia. Uno dei bambini di
Quartiere Pannosa, Anna, propone di «giocare al teatro»,348 recitando l’Amleto.
Subito le pagine del romanzo si trasformano nei fogli di un copione teatrale e
successivamente i bimbi si calano nelle parti assegnate, perdendo la loro identità.
Verranno indicati con i nomi dei personaggi del dramma shakespeariano:
AMLETO – Silenzio. Ora parlo io. Ofelia, ti dico un segreto. Anche io sono pazzo.
Ma molto più pazzo di te. Io faccio finta di essere pazzo. Vedi che pazzia grave è la
mia. Ma non importa, devo vendicare mio padre. Se non dovessi vendicare mio
padre ti sposerei, così ti dico: «Va’ al manicomio, non ti resta altro. Addio».
OFELIA – Addio.349
347
LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, cit., p. 58.
PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 54.
349
Ivi, p. 59.
348
162 Lo stesso avviene in Enrico IV: i servi del protagonista vengono da lui chiamati
con dei nomi fittizi e ciò provocherà in loro una crisi di identità: «Ci chiama così.
Ci siamo abituati. Ma chi siamo?».350 E inoltre:
ARIALDO: Eh no, caro mio! Scusa! Bisogna rispondere a tono! Saper rispondere a
tono! Guai se lui ti parla e tu non sei pronto a rispondergli come vuol lui!
[…] BERTOLDO: E hai detto niente! Come faccio io a rispondergli a tono, che mi
son preparato per Enrico IV di Francia, e mi spunta, qua, ora, un Enrico IV di
Germania?351
È evidente, quindi, come la follia, l’analisi della realtà circostante e il problema
dell’identità caratterizzino queste opere legate tra di loro.
350
351
LUIGI PIRANDELLO, Enrico IV, in ID., Maschere nude, Roma, Newton Compton, 1993, p. 157.
Ibid.
163 PER UNA CONCLUSIONE
«LE INTUIZIONI DEI SEMPLICI SONO SEMPRE PIENE DI
PRODIGIO E DI PAURA».1
i padri e le madri s’infischiano della
restante umanità a vantaggio dei
propri figli onde il mondo è quasi
interamente composto d’inetti e di
egoisti. Tutti i genitori dovrebbero
considerare le proprie creature
individui per sé stanti e non sentirsi
obbligati a dar loro, oltre il nome e
il vitto dei primi anni e un lungo
affetto, arbitrarie coscienze.2
In un articolo dal titolo Racconto grosso e altri di Paola Masino apparso su
«Primato» il 1 aprile del 1942 Vasco Pratolini osservava come fosse possibile
riscontrare «una linea precisa nel procedere artistico della Masino».3 Nella
narrativa degli anni trenta, infatti, Paola dimostra una costante attenzione al tema
della famiglia, analizzando la complessità dei rapporti coniugali e del legame tra
mondo adulto e mondo infantile. Lo stile non muta: sono sempre presenti
descrizioni ricche di immagini suggestive, impreziosite da un certo interesse per i
rilievi cromatici.
Tale tendenza non svanirà nella narrativa degli anni quaranta. Il difficile
rapporto tra genitori e figli è il tema cardine di Anicia, un racconto apparso
nell’aprile del 1943 a Venezia sul «Gazzettino». Il testo riporta alla mente
1
PAOLA MASINO, Racconto grosso e altri, Milano, Bompiani, 1941, p. 38.
EAD., Nascita e morte della massaia, Milano, Isbn Edizioni, 2009, p. 13.
3
VASCO PRATOLINI, Racconto grosso e altri, in «Primato», 1 aprile 1942 (in APM, serie Ritagli
Stampa, Recensioni).
2
165 l’immagine della famiglia dello sfortunato stalliere di Monte Ignoso (1931), la
quale nutre un profondo rancore per Marco, colpevole di essersi suicidato,
ricoprendo di vergogna i propri cari. Lo stesso sentimento animerà il padre e la
madre di Anicia: disapprovano l’amore della figlia per Noale, un giovane
socialmente inferiore rispetto a loro, e per questo decidono di cacciarlo dalla città.
Anicia entrerà in coma dalla disperazione e i suoi genitori non potranno fare a
meno di osservare quanto sia stato «Meglio così […]; così […] la <loro> dignità è
salva, non <devono> vergognar<si> di lei».4
L’immagine del padre appare anche in Quarto comandamento pubblicato
sul «Tempo» di Milano nel giugno del 19435 e nel racconto Lino diffuso a Roma
sulle pagine di «Città» nel dicembre del 1944.6 La figura paterna ritornerà in
maniera preponderante in Anniversario, racconto che comparirà a Roma nel
maggio del 1948 su «Mercurio», un mensile fondato nel 1944 dalla scrittrice e
amica Alba de Céspedes.7 Qui Paola narra la storia di Elena e Diana, due sorelle,
destinate a compiere un viaggio nel tempo proprio il giorno del quarantesimo
anniversario di matrimonio di mamma Luisa e papà Enrico. Quest’ultimo è
rimasto vittima di un bombardamento e le figlie avvertono l’esigenza di
comunicare personalmente la disgrazia alla madre ormai lontana. In realtà avranno
la possibilità di assistere al matrimonio dei genitori e di poter salutare per l’ultima
volta l’amato padre:
un uomo che sia padre porta in sé per i figli il volto vero di ogni spirituale
panorama. Prati avresti creduto si srotolassero sul cammino del giovane che si
4
PAOLA MASINO, Colloquio di notte. Racconti, prefazione di Maria Rosa Cutrufelli, Palermo, La
Luna, 1994, p. 49.
5
Ivi, p. 183.
6
Ibid.
7
MARINELLA MASCIA GALATERIA, Il finale ritrovato di Anniversario, cit., p. 70.
166 stringeva al fianco la donna quale sua terra necessaria. Ecco dunque che cosa
mancava alle sue figliole da quando lui era morto. […] Non ci siamo accorte che
era come se ci avessero detto: ma più vedrai l’erba, o le nuvole, o gli uccelli nel
cielo e le greggi sui pascoli. […] Ma […] devi dirti che lui stesso è in quei nembi,
in quel volare, in quei verdi germogli. […] gli sposi si fermarono davanti a loro ed
Enrico disse:
− Noi siamo molto felici. Anche voi dovete essere felici. L’amore ci deve sempre e
ognuno fare felici.8
Il volume di racconti Racconto grosso e altri pubblicato a Milano nel 1941 presso
la casa editrice Bompiani offre un altro esempio a tale proposito. L’opera si apre
con Terremoto, dove emerge la preoccupazione di una coppia di genitori per la
sorte dei propri figli durante il cataclisma. Latte, invece, si concentra totalmente
sull’analisi del rapporto tra madre e figlio. Inizialmente la donna, moglie del
ragionier Zanni, esterna un eccessivo affetto per il proprio figlio maschio e ciò
provoca la morte del marito. Come in Monte Ignoso, anche in Latte un amore
materno sproporzionato danneggerà i personaggi circostanti:
divenne presto la madre del figlio benedetto del ragionier Zanni e dal giorno che
ebbe partorito si buttò a essere mamma tanto che il timido ragioniere non trovando
più in casa ove riversare il suo pavido affetto, né mobile o fiore o raggio di sole che
non fosse sempre e tutto accaparrato e sommerso nell’amore che la madre aveva
per il figlio, triste triste di giorno in giorno si sentiva sempre più freddo, e quando il
bambino compì un anno, il padre, ridotto esiguo e viscido come un pezzetto di
ghiaccio che si scioglie, lasciò il mondo.9
Nonostante l’abnegazione dimostrata dalla donna nei momenti più difficili, il
figlio Antonio, una volta raggiunta l’età adulta, non le sarà riconoscente, ma verrà
completamente condizionato e dominato dalla moglie, inspiegabilmente astiosa
nei confronti della suocera. La vicenda ricorda l’esperienza di Feliciana,
protagonista del Posto dei vecchi presente nel volume di racconti intitolato Le
8
9
PAOLA MASINO, Colloquio di notte, cit., pp. 155-156.
EAD., Racconto grosso e altri, cit., p. 94.
167 solitarie pubblicato da Ada Negri nel 1920 a Milano.10 Come la madre descritta in
Latte, Feliciana, rimasta vedova prematuramente, si prodiga molto per il
mantenimento dei figli. Alla fine otterrà soltanto il disprezzo delle nuore e la cieca
sottomissione dei figli alle mogli.
La maternità è il tema cardine anche di Figlio, dove Paola affronta la
problematica dell’aborto, riproponendo il simbolo ortesiano degli occhiali.
Famiglia, invece, è un esempio di quanto l’autrice tenda a connotare i propri
scritti con pennellate di colore rosso, come la tonalità del «corsivo largo»11 usato
dai suoi personaggi, o di verde, visibile nei «dolenti occhi»12 del personaggio di
Lisabetta. In Rivoluzione Paola spiega il significato di tale colore:
Mettiamo: una madre veste il proprio figlio di verde, sembra un caso, sembra
magari virtù d’economia. Nossignori: è manifestazione di sentimenti, è il colore
della speranza. Colore sospetto, perché chi sta bene non ha niente da sperare, spera
chi è infelice, chi desidera qualche cosa o qualche mutamento.13
Il verde, tuttavia, è anche il colore della paura come testimonia il «pallore
verdastro»14 di Orazio, il protagonista di Commissione urgente.
Non manca neppure la suggestione delle immagini come in Allegoria
seconda, dove è possibile scorgere «il mare, per metà imbrattato di terra, con un
alito forte, mare antico decaduto a vecchio, e sconvolto da umani sensi».15 In
Racconto grosso, racconto da cui prende il nome la raccolta, Paola descrive un
bimbo
10
ADA NEGRI, Le solitarie, Milano, Treves, 1920.
PAOLA MASINO, Racconto grosso e altri, cit., p. 157.
12
Ivi, p. 160.
13
Ivi, pp. 204-205.
14
Ivi, p. 237.
15
Ivi, p. 277.
11
168 simile agli uccelli che si addormentano e svegliano mentre i crepuscoli maturano,
vanno da un’aurora al tramonto quali sassi lanciati nelle correnti luminose, e
quando i raggi si spengono cadono di schianto dal cielo nel sonno.16
La figura del padre e della madre sono presenti persino in Nascita e morte della
massaia, il romanzo più noto di Paola, pubblicato nel 1946 a Milano presso la
casa editrice Bompiani. La protagonista è destinata a perdere la propria essenza
per rivestire il ruolo di massaia-moglie di uno zio più anziano di lei. È la madre a
spingerla verso tale scelta. Fin dall’inizio ella viene connotata da tratti negativi: è
indifferente e infastidita dalle domande a lei poste dalla figlia sul significato della
nascita e della maternità. È concentrata a rispettare le convenzioni sociali:
Per la madre invece avevano importanza solo i fatti; la domanda della figlia non le
apparve dunque che un mal celato desiderio di marito.
Fatta questa scoperta, la madre si sentì intelligente per molte ore, poi si mise senza
pudore a cercare un uomo per la bisogna, come ogni madre rispettabile usa fare nei
confronti delle proprie figliuole.17
Una sottile ironia accompagna il profilo della donna, la quale, durante una festa da
lei organizzata in onore della figlia, viene raffigurata mentre «sorrid<e> come una
pezzente che chiede l’elemosina».18 Solo il padre dimostra alla figlia un certo
affetto:
«Andate via tutti, e lasciate in pace la bimba. Via.»
Era il padre. Per la prima volta aveva parlato e ora benché non avesse fatto nessun
gesto violento, sembrava avesse riempito la stanza con il suo comando. […] Si
amavano tanto e non sapevano che cosa dirsi. Il babbo abbracciò la sua bimba e la
bimba trasse un grave sospiro, chiudendo gli occhi. A poco a poco si mise a
piangere.
16
Ivi, p. 302.
EAD., Nascita e morte della massaia, cit., p. 16.
18
Ivi, p. 25.
17
169 «No no» diceva il babbo «tutto è molto bello. Come te ora e te quando eri
disordinata. Tu sei sempre molto bella, cara, anche se fossi tanto brutta e cattiva.
Sei la mia bimba.»19
Nel volume intitolato L’inchiostro bianco Saveria Chemotti osserverà come
Nella cultura e nella letteratura del Novecento, la relazione madre-figlia, nodo
dell’autobiografia e centro tematico forte della scrittura femminile, <sia> stata
descritta spesso, dalla testimonianza di innumerevoli donne, come luogo di conflitti
e di sofferenza.20
La protagonista di Nascita e morte della massaia dovrà scontrarsi con la madre
per la quale «La maternità, originariamente e simbolicamente, è stato
l’orientamento prioritario, l’unico ordine in cui doveva esistere una donna, pena la
sua non identificazione come tale».21 Se la figlia «pon<e> in discussione il
materno rischi<a> di mettere in crisi la sua stessa condizione di donna».22
Nel saggio Padre e figlia e il ritorno della madre Laura Derossi offre una
serie di esempi utili a dimostrare come la realizzazione di numerose scrittrici
dipenda da un solido rapporto con la figura paterna.23 Questo legame ha permesso
loro di intraprendere una «difficile ricerca […] per definire una immagine di sé al
di fuori degli stereotipi al femminile».24 Paola Masino, in particolare, crea profili
di mogli e di madri lontani dalle convenzioni dell’epoca.
La massaia si rivelerà una donna sterile e, quindi, destinata a contraddire il
modello femminile indicato dalla visione fascista come angelo del focolare
19
Ivi, pp. 36-37.
SAVERIA CHEMOTTI, L’inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea,
Padova, Il Poligrafo, 2009, p. 13.
21
Ivi, pp. 13-14.
22
Ivi, p. 14.
23
LUISA ACCATI, MARINA CATTARUZZA, MONIKA VERZAR BASS (a cura di), Padre e figlia, cit., p.
272.
24
Ivi, p. 274.
20
170 impegnato a donare i propri figli alla patria. La propaganda fascista non si
concentrava solo sulla figura materna. «Non è uomo chi non è padre!», aveva
affermato Mussolini nel 1928,25 e, perciò, mentre le donne erano «una vitale
risorsa nazionale»,26 gli uomini erano incaricati di costruire nuove famiglie
italiane.27 «<T>utti gli scapoli tra i ventisei e i sessantacinque anni»28 ad
eccezione di «sacerdoti, […] invalidi e […] militari in servizio attivo»29 venivano
colpiti da una particolare tassa «Introdotta con decreto reale del 19 dicembre
1926».30 I nuclei familiari numerosi, al contrario, ricevevano dallo Stato una serie
di incentivi fiscali e monetari.31 La Chiesa condivideva il «culto della maternità»32
del regime, il quale il 24 dicembre celebrava la Giornata della madre: si trattava di
«una scelta che sfruttava il culto cattolico della Vergine Maria».33
Paola si dimostra «continuamente critica contro menzogne sociali e
convenzioni»34 e la scrittura costituisce lo strumento ideale per perseguire tale
scopo.
Secondo Leone Piccioni la Masino nel 1945 avrebbe pubblicato un altro
romanzo: Memoria d’Irene, «Il libro che le darà più forza».35 Neria De Giovanni
riprenderà l’attribuzione nell’opera Carta di donna del 1996.36 È possibile trovare
25
VICTORIA DE GRAZIA, Le donne del regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 69.
Ibid.
27
Ivi, p. 105.
28
Ibid.
29
Ibid.
30
Ibid.
31
Ivi, p. 106.
32
Ivi, p. 110.
33
Ivi, p. 107.
34
ELEONORA CHITI, MONICA FARNETTI, UTA TREDER (a cura di), La perturbante. Das unheimliche
nella scrittura delle donne, Perugia, Morlacchi Editore, 2003, p. 198.
35
LEONE PICCIONI, La narrativa femminile in Italia negli anni tra le due guerre, in FRANCESCO DE
NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Scrittrici d’Italia. Atti del Convegno Nazionale di
Studi. Rapallo, 14 maggio 1994, Genova, Costa & Nolan, 1995, p. 20.
36
NERIA DE GIOVANNI, Carta di donna, cit., p. 69. Nello stesso volume Neria De Giovanni
riprende l’attribuzione anche a p. 253.
26
171 tale attribuzione anche nel volume curato da Laura Pisano, dal titolo Donne del
giornalismo italiano del 2004.37 Risulta complesso reperire una copia di questo
presunto romanzo masiniano, la cui causa non deve essere attribuita al lontano
anno di pubblicazione e neppure all’oblio letterario che ha avvolto negli anni la
figura di Paola: si tratta di un errore di attribuzione. Maria Luisa Ferro, in arte
Marise Ferro, è l’autrice di Memoria d’Irene, pubblicato a Milano nel 1944 presso
la casa editrice Ultra. L’opera narra la vicenda della sfortunata Irene, vista dagli
occhi della cugina Anna. La protagonista è vittima di una famiglia poco
amorevole nei suoi confronti: la madre l’abbandona per inseguire un amore
sbagliato, la nonna materna riversa su di lei l’astio provato nei confronti della
figlia, mentre il padre dimostrerà per lei una costante indifferenza. Solo l’amata
cugina Anna per un attimo sembra essere in grado di colmare il vuoto che si
annida nell’animo di Irene, ma non riuscirà a strapparla al suo tragico destino. La
serie di errori è dovuta al fatto che sembra facile scambiare l’opera della Ferro per
un testo tipicamente masiniano. Sono presenti le pennellate del colore verde come
nel caso dei «cieli verdi di giugno»38 o dello «strano pallore verdastro»39 di Giulio,
l’uomo che Irene sposerà nel momento in cui «Un cristallino splendore che
irradiava verde, si alzava dall’erba».40 Significativa può sembrare anche la scelta
di dare il nome Enrico a uno dei primi pretendenti di Irene.41 In realtà l’opera non
ha nulla a che vedere con la scrittura masiniana, in particolare per quanto riguarda
lo stile, qui chiaro e regolare, nella narrativa di Paola elaborato e teso a rendere la
trama a volte oscura.
37
LAURA PISANO (a cura di), Donne del giornalismo italiano, cit., p. 248.
MARISE FERRO, Memoria d’Irene, Milano, Ultra, 1944, p. 115.
39
Ivi, p. 131.
40
Ivi, p. 146.
41
Ivi, p. 94.
38
172 È chiaro come lo studio del profilo biobibliografico di Paola Masino
consenta di analizzare una tipologia di scrittura originale ed elaborata e di
affrontare numerose questioni di critica letteraria. Le trame dei suoi scritti svelano
l’atmosfera di anni molto complessi, fornendo alcune risposte ad interrogativi
esistenziali destinati a perdurare anche nei decenni successivi. Troppo spesso ella
è stata additata soltanto come la privilegiata compagna di Bontempelli, tacendo la
profonda
sofferenza
patita
per
lunghi
anni.
Tale
stato
d’animo
ha
irrimediabilmente condizionato la sua vena creativa, ormai sopita negli ultimi
tempi. Nonostante ciò Paola Masino ha lasciato pagine preziose per la letteratura
italiana, ricche di numerosi spunti da approfondire.
173 APPENDICE
Qui di seguito sono specificate le sedi in cui compaiono le
riproduzioni:
- Figure 1, 2: LUISA SFORZA, Ricordi d’infanzia a Montignoso, a cura
di Corrado Giunti, Carrara, Francesco Rossi Editore, 2000.
- Figure 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25: FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA
MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, Milano, Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001.
- Figura 13: PAOLA MASINO, Testi inediti dai Quaderni di Appunti, a
cura di Francesca Bernardini Napoletano, in «Avanguardia», n. 43,
2010, pp. 25-45.
Figura 1. Primo piano di Luisa Sforza da ragazza.
Figura 2. Luisa Sforza a vent’anni
(luglio 1903).
177 Figura 3. Enrico Alfredo Masino e Luisa Sforza novelli sposi (Montignoso, 16
settembre 1905).
Figura 4. Le sorelle Masino: Paola (a destra)
e Valeria.
178 Figura 5. Pomeriggio di svago per Paola (in piedi a sinistra), la sorella Valeria
(seduta a destra), ed alcuni amici (Montignoso 1924).
Figura 6. Foto a figura intera della scrittrice.
179 Figura 7. Gita a Venezia per la famiglia Masino (1925).
Figura 8. Paola con mamma Luisa e papà Enrico a Forte dei Marmi
(luglio 1927).
180 Figura 9. Foto di gruppo con la Masino (la seconda seduta da destra) e Massimo
Bontempelli (il secondo seduto da sinistra) nei primi anni trenta.
Figura 10. Altra foto di gruppo degli anni trenta: questa volta sono presenti anche
Marta Abba e Luigi Pirandello (la prima coppia a sinistra).
181 Figura 11. Primo piano della scrittrice (1930).
182 Figura 12. Paola nel 1931.
Figura 13. Posa della Masino in abiti
tradizionali.
183 Figura 14. L’autrice alla Fiera del libro di Milano nel 1933.
Figura 15. Paola con l’amico Luigi Pirandello nel settembre del 1933.
184 Figura 16. Momenti in casa Masino (1933).
Figura 17. Pomeriggio di lavoro per Paola.
185 Figura 18. Primo piano di Paola (1934).
Figura 19. Profilo della scrittrice (1936).
186 Figura 20. Masino e Bontempelli in piazza
S. Marco (1946).
Figura 21. Tra libri e gatti
(1956).
187 Figura 22. Paola alla presentazione dei volumi Racconti e romanzi di Massimo
Bontempelli da lei curati (Libreria Einaudi di Roma, 1962).
Figura 23. L’autrice in visita a Cuba con Alba de Céspedes (la terza da sinistra)
nel 1968.
188 Figura 24. L’autrice in un
primo piano del 1975.
Figura 25. Serata di presentazione della ristampa di Nascita e morte della massaia
(Libreria delle donne di Milano, 1982). Sono presenti accanto all’autrice da
sinistra a destra: Laura Lepetit, Carlo Bo, Valentino Bompiani, Silvia Giacomoni.
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Nascita e morte della massaia, Milano, Bompiani, 1946.
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Colloquio di notte. Racconti, prefazione di Maria Rosa Cutrufelli, Palermo, La
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Testi inediti dai Quaderni di Appunti, a cura di Francesca Bernardini Napoletano,
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ARTICOLI DI PAOLA MASINO CONSERVATI PRESSO IL FONDO
PAOLA
MASINO
DELL’ARCHIVIO
DEL
NOVECENTO
DELL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA (SERIE SCRITTI,
PUBBLICISTICA).
Gioventù fra due guerre, in «Il Popolo d’Italia», 22 agosto 1943.
L’antico errore, in «Città», n. 1, 11 novembre 1944.
Pregiudizi, in «Città», n. 2, 23 novembre 1944.
207
Il soggetto è l’uomo, in «Città», n. 3, 30 novembre 1944.
L’ultimo nutrimento, in «Città», n. 4, 7 dicembre 1944.
Io e le favole, in «Città», n. 5, 14 dicembre 1944.
Madri, padri, figli, in «Spazio», n. 5, 13 gennaio 1946.
Uomini, donne, amore, in «Spazio», n. 7, 21 gennaio 1946.
Per voi, signori uomini, in «Spazio», n. 14, 17 marzo 1946.
Al padre, in «Università», n. 15, 1 settembre 1946.
L’estremo linguaggio. Colloquio con Luigi Pirandello, in «Foemina», n. 7, 12
dicembre 1946, p. 7.
208
Autobiografia, in «Pesci rossi», n. 1, gennaio 1947.
Due mondi segreti: il fanciullo e la donna, in «La Repubblica», 13 febbraio 1948.
Madre atto d’amore, in «Vie Nuove», 27 giugno 1948.
209
BIBLIOGRAFIA CRITICA SU PAOLA MASINO
IN VOLUME
· FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a
cura di), Paola Masino, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
2001.
· FRANCESCA
BERNARDINI NAPOLETANO (a cura di), L’archivio di Paola
Masino. Inventario, Roma, Università La Sapienza, 2004.
· LINDA IZZO, La scrittura privata femminile. I quaderni di Carmen Martín Gaite
e Paola Masino (tesi di dottorato), Firenze, Università degli studi di Firenze,
2011.
· BEATRICE MANETTI,
Una carriera à rebours: i quaderni d’appunti di Paola
Masino, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.
· LOUISE
ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino,
Lewiston, New York, The Edwin Mellen Press, 2004.
210
IN PERIODICO
· CARLO EMILIO GADDA, Monte Ignoso, in «Solaria», 1931, pp. 61-63.
· FRANCESCO
BERNARDELLI, Paola Masino. «Periferia», in «La Stampa», 25
luglio 1933.
· LUIGI BALDACCI, Gadda e la Masino: due classici del disordine, in «Epoca», 5
aprile 1970, s. p.
· MARISA VOLPI,
Ricordo di Paola Masino, in «Paragone», n. 478, 1989, pp.
100-104.
· LUCIA DE FEDERICIS, Di padre in padre, in «L’Indice dei libri del mese», n. 4,
1994, p. 7.
· MARIA VITTORIA VITTORI, Bibbia e follia, in «L’Indice dei libri del mese», n.
11, 1994, p. 5.
211
· PAOLO DI STEFANO, Paola. L’avventura del ‘900, in «Corriere della Sera», 30
marzo 1995, p. 29.
· RITA GUERRICCHIO, Sulla narrativa di Paola Masino, in «Idra», n. 12, 1995,
pp. 61-73.
· MARIA VITTORIA VITTORI, Case. Ritratto di Paola Masino, in «Idra», n. 12,
1995, pp. 11-19.
· MASSIMO ROMANO, Sognando Pirandello, in «Tuttolibri», supplemento a «La
Stampa», 10 giugno 1995.
· GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», in «Avanguardia»,
n. 10, 1999, pp. 102-128.
· FUVIA AIROLDI NAMER, La terra e la discesa: l’immaginario di Paola Masino,
in «Otto-Novecento», n. 3, 2000, pp. 161-186.
· MARINELLA
MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola
Masino, in «Avanguardia», n. 17, 2001, pp. 112-131.
212
· GIAMILA YEHYA, Tra sogno e scrittura. Poi Giovanni, romanzo incompiuto di
Paola Masino, in «Avanguardia», n. 17, 2001, pp. 134-141.
· FLORA MARIA GHEZZO, Fiamme e follia, ovvero la morte della madre arcaica
in Monte Ignoso di Paola Masino, in «Esperienze letterarie», n. 3, 2003, pp. 3355.
· BEATRICE
MANETTI, Modelli di donna e lettrici reali nella pubblicistica di
Paola Masino, in «Il Ponte», n. 12, 2003, pp. 108-128.
· TRISTANA RORANDELLI, “Nascita e morte della massaia” di Paola Masino e la
questione del corpo materno nel fascismo, in «Forum Italicum», n. 1, 2003, pp.
70-102.
· SILVIA
D’ORTENZI, Nascita e morte della Massaia. Paola Masino, in
«Quaderni del ‘900», 2005, n. 5, pp. 39-52.
· LUCIA
STANZIANO, Anna Maria Ortese e Paola Masino: due scrittrici
d’avanguardia, in «La Capitanata. Rassegna di vita e di studi della provincia di
Foggia», n. 10, 2006, pp. 45-52.
213
·
LOUISE ROZIER, The Theme of Childhood in Paola Masino’s Periferia, in
«Italica», nn. 2-3, 2007, pp. 399-407.
· SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione: “Monte Ignoso” di Paola Masino,
in «Forum Italicum», n. 1, 2008, pp. 52-68.
· LAURA
DI NICOLA, L’attività giornalistica di Paola Masino negli anni del
secondo dopoguerra l’esperienza di «Città», in «Atti della Accademia
roveretana degli agiati», 2008, s. n., pp. 73-90.
· LOUISE ROZIER, Paola Masino’s short fiction: another voice in
the collective
experience of Italian neorealism, in «Quaderni d’italianistica», n. 1, 2008, pp.
145-163.
· BEATRICE MANETTI, Nascita e morte di una scrittrice. Per un ritratto di Paola
Masino, in «Paragone», nn. 84-85-86, 2009, pp. 134-152.
· FRANCESCA
BERNARDINI NAPOLETANO, Un autoritratto in movimento. Le
scritture autonarrative di Paola Masino, in «Avanguardia», n. 43, 2010, pp. 623.
· MARELLA FELTRIN – MORRIS, Visions of War: Universality, Dignity, and the
Emptiness of Symbols in Paola Masino, in «Italica», n. 2, 2010, pp. 194-202.
214
· DANIELA
GANGALE, Riferimenti musicali nella vita e nell’opera di Paola
Masino. Una lettura di “Nascita e morte della massaia”, in «Bollettino
d’italianistica», n. 1, 2011, pp. 109-122.
· LOUISE ROZIER, Motherhood and femininity in Paola Masino’s novels Monte
Ignoso and Nascita e morte della massaia, in «Italica», n. 2, 2011, pp. 245-261.
· FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Donne d’Italia, in «Avanguardia», n.
52, 2013, pp. 33-52.
· MARINELLA
MASCIA GALATERIA, Paola Masino. Il finale ritrovato di
Anniversario, in «Avanguardia», n. 52, 2013, pp. 69-94.
215
ARTICOLI CRITICI DEL FONDO PAOLA MASINO PRESSO
L’ARCHIVIO DEL NOVECENTO DELL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA
DI ROMA (SERIE RITAGLI STAMPA, RECENSIONI).
· VITALIANO BRANCATI, Uno strano romanzo, in «Il Popolo di Sicilia», 7 luglio
1931.
· GIUSEPPE ANTONIO BORGESE, Monte Ignoso, in «Corriere della sera», 10 luglio
1931.
· GUIDO PIOVENE, Decadenza della morte e Monte Ignoso, in «Il Convegno», n.
5, 1931, pp. 281-283.
· ID., Periferia, in «L’Ambrosiano», 30 maggio 1933.
· VITTORIO SELLA, In margine al Premio letterario Viareggio, in «La Scure», 20
agosto 1933.
· LEANDRO GELLONA, Da un romanzo sballato e premiato ai vari angoli morti
letterari, in «La provincia di Vercelli», 29 agosto 1933.
216
·
VASCO PRATOLINI, Racconto grosso e altri di Paola Masino, in «Primato», 1
aprile 1942.
· GIORGIO
CAPRONI, Poesie di Paola Masino, in «Fiera letteraria», 7 agosto
1947.
· ALDO
CAMERINO, Poesie di Paola Masino, in «Il Mattino del Popolo», 30
novembre 1947.
· DIEGO VALERI, Le poesie di Paola Masino e di Maria Luisa Belleli, in «Sicilia
del popolo», 7 agosto 1948.
· ENRICO FALQUI, La massaia, ieri e oggi, in «Tempo», luglio 1970.
· ANNA MARIA ORTESE, Rileggendo Paola Masino, in «Il Bimestre», novembredicembre 1970, pp. 20-22.
· SILVIA BATISTI, Il mito dell’amore nella narrativa di Paola Masino, in «Salvo
imprevisti», nn. 2-3, 14-15 maggio-dicembre 1978, p. 17.
217
· EAD. (a cura di), Tre domande a Paola Masino, in «Salvo imprevisti», nn. 2-3,
maggio-dicembre 1978, pp. 19-20.
· GRAZIA LIVI, Tre libri, in «Paragone», n. 390, agosto 1982, pp. 81-86.
· FABRIZI RAMONDINO,
Massaia come metafora, in «Il Mattino», 4 settembre
1982.
· PAOLA BENADUSI, E la massaia muore, in «Il Tempo», 8 ottobre 1982.
· NICOLÒ
MENNITI-IPPOLITO, Quanta frenesia culturale nella Venezia di
Bontempelli, in «Il Mattino di Padova», 14 aprile 1995.
218
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