Corso di Laurea magistrale in Filologia e letteratura italiana Tesi di Laurea «Veder chiaro è sempre stato il mio difetto»: Paola Masino, scrittrice e giornalista del Novecento. Relatore prof.ssa Ilaria Crotti Correlatori prof.ssa Monica Giachino dott.ssa Marialuigia Sipione Laureanda Arianna Ceschin Matricola 817565 Anno Accademico 2012 / 2013 INDICE CAPITOLO PRIMO UNA SCRITTRICE «AFFACCIATA “A UN BALCONE DEL SECOLO SCORSO”» ......................................................................................................... 1 I.1. «Io sono nata l’anno del terremoto di Messina» ...........................................1 I.2. «Venezia […] appena l’ho vista non mi ha fatto nessuna impressione»: un tormentato soggiorno veneziano .....................................................................33 I.3. «Ho collaborato e collaboro a quotidiani e riviste»: la pagina di giornale come palestra di scrittura ................................................................................56 I.4. «io mi sono trovata disoccupata nel mondo»: un doloroso cammino verso l’oblio ..............................................................................................................67 CAPITOLO SECONDO LA NARRATIVA DEGLI ANNI TRENTA DI PAOLA MASINO ........................................................................................................................................................ 77 II.1. «Il cielo era a volte verde come l’edera o rosso come un tulipano»: le suggestive immagini di Decadenza della morte .............................................77 II.2. «Ecco comincio a soffrire […]. È il destino di ogni madre»: la degradazione familiare nel romanzo Monte Ignoso ........................................87 II.2.1. «La signora Emma»: un profilo ambiguo di madre ...........................94 II.2.2. «Giovanni […] aveva bisogno di sentirsi protetto»: l’immagine dell’inettitudine paterna in Monte Ignoso ...................................................123 II.2.3. «Il pensiero dominante era quello di fuggire da mia madre»: confronto tra Monte Ignoso e il romanzo Poco di buono di Enrico Alfredo Masino ........................................................................................................131 II.3. «C’è chi ama i figli e chi li odia»: i bimbi di Periferia si raccontano .....141 II.3.1. «Noi […] non avremo riposo alla nostra paura»: la violenza adulta sul mondo infantile .......................................................................................... 143 II.3.2. «E… e io? Dich? Anche io sono così?»: Romana, modello positivo di madre .......................................................................................................... 157 II.3.3. «Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più bello»: somiglianze di Periferia con Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese e Enrico IV di Luigi Pirandello ............................................ 160 PER UNA CONCLUSIONE «LE INTUIZIONI DEI SEMPLICI SONO SEMPRE PIENE DI PRODIGIO E DI PAURA» ......................................................................... 165 APPENDICE .................................................................................................. 175 BIBLIOGRAFIA .......................................................................................... 191 Bibliografia generale ........................................................................................................ 193 Opere di riferimento ......................................................................................................... 204 Opere di Paola Masino prese in esame ....................................................................... 206 Articoli di Paola Masino conservati presso il Fondo Paola Masino dell’Archivio del Novecento dell’Università La Sapienza di Roma (serie Scritti, Pubblicistica) ..................................................................................................... 207 Bibliografia critica su Paola Masino ........................................................................... 210 In volume .......................................................................................................................... 210 In periodico ...................................................................................................................... 211 Articoli critici del Fondo Paola Masino presso l’Archivio del Novecento dell’Università La Sapienza di Roma (serie Ritagli Stampa, Recensioni) .... 216 CAPITOLO PRIMO UNA SCRITTRICE «AFFACCIATA “A UN BALCONE DEL SECOLO SCORSO”».1 I.1. «Io sono nata l’anno del terremoto di Messina».2 Sono nata a Pisa il 20 maggio 1908. È l’avvenimento della mia vita che confesso con maggior piacere, direi anzi con tracotanza non essendo mai riuscita a capire perché gli uomini in generale e le donne in particolare non amino dichiarare la propria età.3 È il 20 maggio del 1908 quando in casa Masino a Pisa vede la luce la piccola Paola, secondogenita di Enrico Alfredo Masino e Luisa Sforza.4 Dopo la nascita la famiglia Masino si trasferirà a Roma in un villino situato presso via degli Appennini, per poi trasferirsi in viale Liegi nel 1922. 1 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri. Autobiografia di una figlia del secolo, Milano, Rusconi, 1995, p. 5. 2 Ivi, p. 15. 3 EAD., Autobiografia, in «Pesci rossi», n. 1, gennaio 1947 (in Archivio di Paola Masino, serie Scritti, Pubblicistica). L’Archivio di Paola Masino (indicato nelle pagine seguenti con la sigla APM) fa parte dell’Archivio del Novecento dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ringrazio la prof.ssa Francesca Bernardini Napoletano, direttrice dell’Archivio citato, per avermi concesso l’opportunità di consultare l’Archivio e vivere un’esperienza molto ricca a livello accademico e personale. Rivolgo un sentito ringraziamento anche alla prof.ssa Marinella Mascia Galateria per le indicazioni bibliografiche fornitemi, al dott. Alessandro Taddei per i consigli e l’estrema disponibilità dimostratami e alla dott.ssa Teresa Scala per l’accoglienza ricevuta nel mio primo giorno in Archivio. 4 LAURA PISANO (a cura di), Donne del giornalismo italiano. Da Eleonora Fonseca Pimentel a Ilaria Alpi. Dizionario storico bio-bibliografico. Secoli XVIII-XX, Milano, FrancoAngeli, 2004, p. 247. 1 La coppia aveva già una figlia, la piccola Valeria di due anni. L’autrice instaurerà un rapporto speciale e di complicità con la sorella maggiore e ciò emerge dalle lettere a quest’ultima indirizzate e da alcuni passi dei quaderni d’appunti masiniani, autentici diari a cui la scrittrice affida ricordi e riflessioni. Nel quaderno di Appunti 6, scritto approssimativamente tra il 1958 e il 1959,5 Paola ricorda un grembiule indossato da piccola rivelando tutto l’affetto nutrito per Valeria: Anche quel grembiule mi piaceva in modo particolare e mi piaceva soprattutto perché mia sorella ne aveva uno identico, e io da quella identità, quand’ero fuori con lei, mi sentivo protetta, come camminassimo tenendoci per mano. Mi sorella, invece, ha sempre aborrito dall’essere vestita come me e quando finalmente poté emanciparsi fu un giorno assai importante della sua vita.6 Valeria trasmette un senso di protezione a Paola, la quale si dimostra profondamente affascinata da tanta forza di volontà nella ricerca della propria emancipazione. Non nutre nessuna invidia per lei, ma, al contrario, le parole citate rivelano tutta la sua ammirazione e il suo affetto. In relazione al ricordo di una mascherata in Appunti 6 dichiara: «Valeria quella volta ebbe più successo di me. Ma non ricordo di averne provato invidia. Ero da tempo abituata a considerare mia sorella, alta, slanciata e sempre ridente, il non plus ultra della grazia femminile».7 Le parole della scrittrice esprimono la stima nutrita per la sorella e per il suo carattere determinato. Tale aspetto emerge in maniera netta dai ricordi d’infanzia disseminati nei quaderni di appunti e la descrizione di una fotografia raffigurante 5 BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours: i quaderni d’appunti di Paola Masino, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, p. 175. 6 PAOLA MASINO, Appunti 6, pp. 154-155 (in APM, serie Scritti, Appunti). 7 Ivi, p. 194. 2 le due sorelle è il pretesto ideale per rimarcare le caratteristiche caratteriali di Valeria: Una fotografia, di me e Valeria sotto quella cuffia, ci mostra due bambine di un languore dolente, quale immagino possa essere quello di una principessa reale che va sposa a un aborrito monarca, per ragioni di stato. A me, forse, tal parte non dispiaceva e – in quella fotografia – il mio languore mi fa da corona: mentre Valeria, che è stata sempre più pronta a reagire e a trarre a sé gli immediati piaceri della vita, tenta un vanescente sorriso, quasi a farsi forza, a convincere se stessa e gli altri che porta quella cuffia solo per scherzo: una maschera.8 Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta ella continuerà a ricordare la sorella maggiore come «molto ambiziosa: ambiziosa in modo mondano, con desideri e gusti mondani, sia pure d’alta mondanità».9 La madre, Luisa Sforza, è originaria di Montignoso, in Toscana, e la sua famiglia d’origine vanta un buon numero di storici e diplomatici. Luisa è imparentata con la famiglia Giorgini tra i quali Giovan Battista aveva sposato Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni.10 Papà Enrico è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura a Roma11 e nel 1921 diventa capo gabinetto del ministro Abbiati.12 Uomo di cultura e vero appassionato di teatro e letteratura, nel 1942 pubblica presso l’editore Vallecchi il suo primo e unico romanzo intitolato Poco di buono con lo pseudonimo di Enrico Sìnoma, anagramma di Masino. Il romanzo non ebbe una grande diffusione all’epoca e, nonostante sia stato ripubblicato presso Feltrinelli nel 1962, oggi è pressoché sconosciuto. Secondo Beatrice Manetti la scrittrice avrebbe, così, 8 Ivi, pp. 194-195. EAD., Appunti 7, pp. 97-98 (in ivi). 10 GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», in «Avanguardia», n. 10, 1999, p. 104. 11 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001, p. 38. 12 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 17. 9 3 iniziato «la propria carriera letteraria per risarcire il padre del suo scarso successo come drammaturgo e romanziere».13 Enrico si rivelerà un padre molto attento all’educazione delle figlie e Paola si sentirà sempre unita a lui da un legame profondo. Nel 1984, in occasione di un’intervista rilasciata a Sandra Petrignani, l’autrice parlerà proprio di questo rapporto speciale avuto con il padre, lasciando trapelare tutto il suo affetto per lui e una certa nostalgia nel ricordarlo: Era una persona fuori dal comune. […] Mi portarono precocemente a teatro, nei musei, e se, per problemi economici, si doveva scegliere fra il loggione e le scarpe nuove, sceglievano il loggione. Mio padre è stato il mio grande ispiratore. Gli altri uomini che sono stati importanti nella mia esistenza avevano più o meno la sua età quando li ho conosciuti: Massimo Bontempelli, che fu il compagno della mia vita, e Luigi Pirandello, il mio grande amico. Non mi trovavo molto a mio agio con i coetanei.14 La preoccupazione maggiore di Enrico Masino è da sempre la necessità di educare al meglio le proprie figlie: indica loro le letture da affrontare, si preoccupa del loro stile di abbigliamento, fin da piccole le porta con sé a teatro per condividere con loro interessi e passioni: Fin da piccine nostro padre ci aveva abituate ad andare all’opera. […] Babbo prediligeva Wagner, Debussy, Strauss, Mozart e, in genere, gli operisti stranieri agli italiani. Credo che la prima opera che io ho ascoltata sia stata, nell’undici, il Pelléas et Mélisande con la Bianca Stagno Bellincioni. Avevo dunque 3 anni e me n’è rimasta come una visione d’una nebbia colore di viola. La prima volta che udii un italiano, avevo dieci anni. Fu il Rigoletto e, come ho già detto, ne risi. Mio padre faceva qualche riserva su Verdi, eccettuati il Falstaff e l’Otello. Il Falstaff – forse anche perché era un personaggio shakespeariano – divenne presto una presenza viva, in casa nostra. Lo cantava mia madre, lo cantava il padre, lo cantavo e recitavo io da sola avendone imparato tutto il libretto a memoria, lo storpiava Ferminia quando, mentre lavava i piatti, berciava […]. 13 14 BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 14. SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura. Interviste, Milano, la Tartaruga, 1984, p. 28. 4 Ma chi non sarebbe mai entrato a far parte delle nostre conoscenze […] era Puccini. Per Puccini mio padre nutriva un’avversione più fisiologica che intellettuale (come per De Amicis cui ogni tanto aveva il rovello di sentirsi dire che gli somigliava. Cuore è stato uno dei pochissimi libri che egli proibì, a noi bambine, di leggere).15 Enrico stabilisce, così, con Paola e Valeria un rapporto dallo «spessore intellettuale oltreché affettivo»,16 diventando il loro punto di riferimento. Sarà proprio lui ad accompagnare Paola fin da piccola in lunghe passeggiate archeologiche sulla via Appia e nei circoli letterari dell’epoca.17 Sarà sempre Enrico Masino ad indicare a Paola le letture da affrontare: non c’è tempo per opere della narrativa per l’infanzia come Cuore di De Amicis, ma tra i nove e i sedici anni dovrà concentrarsi nella lettura della Bibbia, per poi passare a Shakespeare, i favolisti del calibro di Andersen, dei fratelli Grimm, di Perrault e ai grandi romanzieri ottocenteschi come Flaubert, Stendhal, Maupassant, Gogol, Tolstoi, Dostoevskij e Dickens. Successivamente il padre indicherà a Paola la necessità della lettura di testi sacri e occidentali e così l’autrice si dedicherà al Corano e al Talmud, all’Upanishad e al Tao Te King, a Platone e a Sant’Agostino.18 Paola segue i consigli di Enrico perché «Quello che diceva <il suo> babbo era sempre la cosa più bella e più eccitante da fare».19 A volte, però, prende un po’ troppo alla lettera ciò che il padre rileva: negli anni sessanta Paola ricorda l’incontro particolare avvenuto a teatro nel 1921 con la soprano Emma Carelli: 15 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 16-17. LUISA ACCATI, MARINA CATTARUZZA, MONIKA VERZAR BASS (a cura di), Padre e figlia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, p. 9. 17 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 38. 18 Ibid. 19 PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 187. 16 5 si avvicina Emma Carelli, grassissima e ammantata in un abito di lustrini blu notte come un’astrifiammante obesa. Era con lei un signore per contro assai magro, distinto, un abito grigio perla e grigi capelli. […] subito la signora disse: «[…] Questo signore è Giacomo Puccini». Appena udito quel nome, indietreggiai di un passo e ripiombando sulla mia poltrona esclamai: «Allora il posto non glielo do, perché mio babbo dice che la sua musica è tutta schifosa». Mio padre intervenne: «ma è un signore anziano e tu sei piccola. Devi cedere il posto a un signore anziano e tanto famoso». E io, imbronciata, alzandomi di nuovo: «E va bene: ma soltanto perché è un vecchio». […] fu mio padre a tenermi sulle ginocchia con gran sollievo mio e della signora Carelli che avrebbe avuto paura di stringersi una tal vipera al seno. […] Mio padre non mi smentì, non mi parlò più dell’accaduto se non forse per dirmi soltanto che non sempre è opportuno ripetere quel che si sente, anche se è la verità. Anzi, soprattutto se è la verità.20 Fin da bambina Paola esterna la necessità e la volontà di esprimere ciò che vede, anche se non sempre, come il papà le ha fatto notare nell’episodio citato, si rivela una scelta opportuna. È necessaria una certa cultura per raggiungere i propri obiettivi, ma è importante non tralasciare la cura dell’aspetto e una certa eleganza nei modi. Enrico è profondamente convinto di questo e si impegna affinché le sue figlie non lo dimentichino mai: A quel tempo le nostre calzature erano sempre bianche o marroni, tanto era il terrore di mio padre di vederci con quelle scarpette […] con cinturino, che portavano allora tutti i bambini. La fobia di mamma e babbo per quel comun denominatore dei fanciulli il giorno di festa, sia che fossero figli del portinaio o del re, era tale che noi avevamo assunto le scarpette nere a simbolo d’ineleganza.21 Paola ricorda inoltre: Mio padre mi ripeteva spesso che non era elegante pettinarsi, pulirsi le scarpe col fazzoletto, frugarsi nell’orecchio e simili quando si era fuori casa. Sicché io 20 21 EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 18-19. EAD., Appunti 6, cit., p. 181. 6 vedendo a un tratto Ferminia chinarsi a passarmi il suo fazzoletto sulle scarpine, ebbi un moto di rabbia e le urlai: – Stupida! Non si fa.22 Non è sempre facile per le sorelle Masino accettare i gusti del padre in fatto di abbigliamento e, di conseguenza, soprattutto in età adolescenziale, non mancano le loro prime proteste a riguardo: è ovvio che, entrate nell’adolescenza, mia sorella ed io volessimo emanciparci dal gusto imparato dal padre e dalla madre e, sicure di aver ormai in nostro potere i canoni infallibili della vera eleganza, facemmo una vera e propria sommossa.23 Paola si dimostra sin dalla tenera età più matura di tutti i suoi coetanei, dai quali si distingue in età scolare. È inevitabile, quindi, che «I compagni <la> ammir<ino>, le compagne <la> odi<no>, i professori <la> toller<ino>, perplessi».24 Al liceo classico Tasso di Roma la scrittrice incontra insegnanti in grado di comprendere il suo carattere e di riconoscere il suo talento precoce, come il professore di latino Giovanni Staderini. Non tutti, però, condividono lo stesso entusiasmo di quest’ultimo, ma, al contrario, leggono nell’atteggiamento di Paola una certa sfacciataggine. È questa l’interpretazione di Luigi Volpicelli, docente di filosofia e di economia politica, e per tal motivo deciderà di sfidare la giovane Masino assegnandole il compito di preparare per la lezione successiva un’esposizione riguardante la figura di Shakespeare. L’autrice non si lascerà intimorire dalla richiesta e analizzerà i personaggi femminili dei drammi shakespeariani: nessuna di loro è malvagia per natura, ma la passione incontrollabile e l’amore profondo le 22 Ivi, p. 212. EAD., Appunti 7, cit., p. 97. 24 EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 20. 23 7 spinge ad essere tali. Una tesi brillante per una studentessa della sua età, in grado di confrontarsi con il proprio insegnante. Lei stessa ricorderà negli anni sessanta: Andammo avanti per un pezzo. Alla fine per difendermi dai sarcasmi (troppo facili, professor Volpicelli, contro una ragazzina di 15 anni, ammettiamolo!) tirai in ballo Taine. Allora il professore si arrese ma conservò sempre per me, finché fui sua allieva, un certo ironico disprezzo. Poi – nella vita – siamo diventati amici.25 La giovane Masino si stancherà presto dell’ambiente scolastico e per questo deciderà di non presentarsi agli esami di riparazione in fisica e matematica, materie in cui è stata rimandata. Sa bene ciò che vuole e per questo interrompe bruscamente gli studi al secondo anno per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Il padre è consapevole delle doti della figlia e la incoraggia a sottoporre il proprio lavoro ai grandi professionisti: Avevo 16 anni. Avevo scritto un dramma intitolato Le tre Marie i cui personaggi sono soltanto tre donne Maria, Marta e Maddalena. Maria la madre, Marta la sorella e Maddalena la moglie di un grand’uomo, diciamo pure un «genio» che non appare mai in scena ma che riempie continuamente di sé la scena e determina l’azione traverso i discorsi delle tre Marie variamente innamorate e soggiogate e condizionate da lui. […] andai al Valle dove recitava la compagnia Ruggeri.26 […] Al mio apparire, tutti tacquero. Poi Ruggeri si mosse e venne, assai titubante, verso di me. […] E così, scrutandomi, fra divertito sorpreso e perplesso, egli mi si fermò davanti. E […] io […] gli […] Dissi: «Maestro, ho scritto un dramma su un grande personaggio. Come lei. Tutto s’impernia su un genio. Non v’è che lui, attorno a cui girano tre donne amanti […]. È un dramma dedicato a lei. Lo legga». […] debbo pensare che io fossi stata mossa a cercare Ruggero Ruggeri più per una curiosità di conoscere e parlare a tu per tu con quel grande attore, che per la speranza che egli accettasse mai d’interpretare o far interpretare dalla sua compagnia un dramma dove non c’era parte alcuna per lui. […] Era forse il mio invincibile desiderio del palcoscenico a trarmi dietro miraggi, e a costo d’ogni beffa, su quelle tavole, ove poi passai, non per mia personale conquista, ma al seguito di Pirandello e di Bontempelli, i più felici anni della mia vita.27 25 Ivi, pp. 20-21. Ruggero Ruggeri fu il più famoso interprete dei drammi di Luigi Pirandello. Recitò nel Piacere dell’onestà, nel Gioco delle parti, in Tutto per bene e in Enrico IV. Ivi, p. 21. 27 Ivi, pp. 21-22. 26 8 Ruggeri non metterà in scena il dramma masiniano: per quell’anno il suo «repertorio è già fissato» e non avrebbe avuto «neppure il tempo di leggere il suo dramma».28 Paola non demorde e il giorno successivo «torn<a> all’attacco», recandosi da Alda Borelli, altra interprete delle opere pirandelliane, come ad esempio La vita che ti diedi nel 1923.29 La reazione della Borelli è identica a quella avuta da Ruggeri e la risposta data alla giovane Masino la medesima. Il padre si accorge della delusione della figlia e per questo le suggerisce di incontrare Luigi Pirandello. È una domenica pomeriggio del 192430 quando papà Enrico accompagna Paola al teatro Argentina. Pirandello sta passeggiando con l’amico Lucio D’Ambra (pseudonimo di Eduardo Manganella), narratore e commediografo. Enrico Masino avvicina Pirandello esprimendo il desiderio della figlia di parlare con lui. Dopo aver ascoltato attentamente la trama e le caratteristiche del dramma esposte da Paola, Luigi osserverà: Se tu avessi saputo scrivere quello che mi hai raccontato saresti un genio. Ma son sicuro che non hai saputo scriverlo. È già molto che tu l’abbia pensato. E io voglio dimostrati di essere coraggioso almeno quanto te. Lo leggo e, se non ci sono troppi errori teatrali, te lo faccio rappresentare.31 Negli anni sessanta la Masino ricorderà ancora l’emozione provata dinanzi alle parole di Pirandello, il quale, a differenza di Ruggeri e della Borelli, non si è arrestato dinanzi alla giovane età dell’autrice, ma si è preoccupato di analizzare quanto da lei scritto: «Ho visto la gioia. E mai più ho provato una sensazione 28 Ivi, p. 22. Ivi, p. 23. 30 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 40. 31 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 24-25. 29 9 fisica così trasumanata dalla felicità».32 Enrico Masino, d’altro canto, ha incoraggiato la figlia nel suo sogno di affermazione letteraria, dandole l’occasione di conoscere un artista destinato a diventare una delle figure più importanti nella vita di Paola. Il destino, infatti, le farà incontrare di nuovo Luigi a Parigi nel 1929:33 «Appena mi vide, puntandomi contro l’indice, esclamò: “Tu sei quella delle Tre Marie!” e, [...] senza darmi tempo di rispondere, me ne fece tutta la critica atto per atto, a memoria. Da allora fummo amici».34 Da quel momento i due intellettuali si frequenteranno assiduamente fino alla morte di Pirandello, avvenuta nel 1936. Non la legherà a lui solo la stima per il suo lavoro, ma anche un profondo affetto destinato a non venir meno. Come dimenticare le incursioni mattutine fatte da Luigi nella camera da letto della scrittrice e del suo compagno, Massimo Bontempelli: veniva da noi al mattino presto. Eravamo appena svegli e ci trovava ancora a letto. Allora si sedeva con noi, sul letto anche lui, e si faceva colazione tutti e tre insieme parlando di letteratura. Stavamo sempre a parlare di letteratura, di arte. Certe volte non ne potevo più e per farmi passare il mal di testa prendevo il tram sola soletta e arrivavo fino al capolinea. Mi mettevo ad ascoltare i discorsi della gente, la moglie che diceva al marito: stasera ti va la frittata di cipolle? E così me ne tornavo a casa dopo un tuffo nella vita, pronta a riprendere i discorsi sulla letteratura, la filosofia, l’arte, la musica.35 Non sarà facile per la Masino apprendere la notizia della morte del suo migliore amico, giunta il 10 dicembre 1936 mentre è ospite dei Volterra a Firenze.36 È come se si sentisse responsabile di quella morte, colpevole di non aver potuto 32 Ivi, p. 25. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 43. 34 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 36. 35 SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., pp. 30-31. 36 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 48. 33 10 assistere Luigi nei suoi ultimi attimi di vita: «Sono così infelice di essere lontana da Roma e mi pare tutta colpa mia e che se ero lì questo non poteva avvenire.»37 Quell’anno Pirandello era stato impegnato a seguire le riprese del film Il fu Mattia Pascal, girato dal regista Pierre Chenal a Cinecittà. Il gelo degli studi gli aveva provocato una febbre improvvisa e violenta e una polmonite che in pochi giorni ne provocherà la morte.38 Il dolore per la perdita induce la scrittrice ad accusare il medico di Luigi, il dottor Trenti, di aver sottovalutato la gravità delle condizioni di salute dell’artista. Lo sdegno e l’ira verso il medico emerge da una lettera indirizzata al padre nel 1936: Caro babbo […] Dì a mamma che non mi parli mai più di quello schifoso di Trenti. Il quale, chiamato il mercoledì per vedere Pirandello, invece di preoccuparsi com’era suo dovere sapendo chi era Pirandello e che aveva 70 anni ed era malato di cuore, ha fatto la diagnosi di una lieve influenza […]. Basta. […] se lo sento ancora nominare metto la dinamite sotto la casa.39 È evidente il profondo dolore della scrittrice nelle parole forti del passo citato. La scrittura diventa per la Masino l’unico strumento per esprimere la sua intima sofferenza. Ad Appunti 1, redatto approssimativamente tra il settembre del 1933 e il dicembre del 1936,40 l’autrice affida tutta l’amarezza per la perdita dell’amico: Amavo Pirandello non come un uomo o come un parente o un amico, ma come un elemento del mondo che a me è palese. Quando mi hanno detto che è morto è stato come se all’improvviso mi avessero annunciato che l’erba o le nubi o le greggi sono scomparse da questo pianeta.41 37 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 53. Ivi, pp. 54-55. 39 Ibid. 40 BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 174. 41 PAOLA MASINO, Appunti 1, p. 102 (in serie Scritti, Appunti), ora in FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 48. 38 11 Il mondo di Paola si è sgretolato di fronte alla notizia della perdita di Luigi. Nulla sarà più come prima per lei e d’ora in avanti avrà sempre la sensazione di aver subito una mutilazione: Ripenso al mondo di un’ora fa, quando lui era ancora vivo, e mi pare un mondo completo, non zoppo come questo, non con questo buco vuoto nel fianco; e tuttavia so che camminando fino alla mia morte in questo nuovo mondo mutilato, niente potrà non farmelo ancora apparire completo d’erba e di greggi e tempeste, tanto quelle immagini sono abbeverate della mia sostanza. E così è di Pirandello.42 La scrittura è l’unico strumento indispensabile per sopportare una condizione esistenziale improvvisamente mutata: Scrivo queste cose qualunque per rispetto di lui che amava tutti gli sforzi contro la nostra pochezza. […] Tanto scoramento mi dà questa morte che vivo da qualche giorno sempre in una gran voglia di sonno. Dormire per non ascoltare il rumore di una vita che mi sembra ormai senza speranza […]. Scrivere è un inutile tentativo di rammendo.43 Il dolore e la nostalgia dell’amico rimarranno immutati negli anni, come non muterà la concezione della scrittura intesa come valvola di sfogo per la propria sofferenza. In occasione del decimo anniversario della scomparsa dell’amico, Paola lo ricorderà con una profonda malinconia in un articolo dal titolo L’estremo linguaggio. Colloquio con Luigi Pirandello pubblicato sulla rivista «Foemina» il 12 dicembre del 1946. La pagina di giornale diventa il luogo dove poter esprimere le proprie emozioni e dare al lettore la possibilità di conoscere i lati più intimi e nascosti dei personaggi di rilievo della letteratura italiana: 42 43 Ivi, p. 103, ora in ibid. Ibid. 12 Luigi Pirandello è morto dicendo: – Che peccato – e pensava a quanto lasciava d’incompiuto; non a sé, non ai figli. Lui che ogni volta si trasportava tutto intero dentro ognuna delle sue maschere non poteva accettare di concludersi solo, in se stesso, con tutte quelle sue creature rimaste a mezzo un gesto. […] Non poteva placarsi, gli sembrava un abbandono, un tradimento davvero.44 L’articolo esprime le emozioni provate nel ricordare Pirandello, fino ad arrivare alla conclusione: E così, se ognuno guardasse in se stesso, saprebbe che ogni morte regala a ogni vivo una sua particolare mutilazione e quella mutilazione non è se non il più alto volto, la traduzione, in un linguaggio in cui le parole non sono più necessarie, dell’essenza vera delle sue ragioni di vita.45 In Appunti 7, scritto tra il 1959 e il 1963, la scrittrice racconta di aver sognato di incontrare Pirandello, il quale affronta con Paola il tema della morte: Cominciò subito: «Tu l’hai sempre detto che io non sono morto. Ed è vero. Muore chi vuole morire, ma io non volevo, non ho mai voluto morire. Ho ancora tante cose da dire, e voglio dirle io, con il mio nome e cognome. […] Il mio pensiero, io solo lo conosco, io solo posso foggiarlo nella sua incandescenza, a mio piacimento. Quelli che sfruttano qualche scintilla sfuggita alla mia fucina, cosa vuoi che facciano? Sono epigoni, gente che non ha midollo spinale, non son vivi per se stessi, vivono una vita d’accatto, posticcia, portano abiti smessi da altri. E son sempre abiti smessi».46 L’autore attraverso le sue opere è destinato a non perire, perché la sua voce è destinata a risuonare sempre nitida nella letteratura, senza che nessuno possa impedirlo. Chi cercherà di sfruttare il suo pensiero non rappresenta una minaccia: sono autori sprovvisti di una propria originalità letteraria, ridotti a creare brutte copie di capolavori letterari. Lui stesso puntualizza: 44 EAD., L’estremo linguaggio. Colloquio con Luigi Pirandello, in «Foemina», n. 7, 12 dicembre 1946, p. 7 (in APM, serie Scritti, Pubblicistica). 45 Ibid. 46 L’uso del corsivo è originale. EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 62. 13 E vuoi un’altra prova che io sono vivo? Ma che tu mi capisci! Se io fossi morto, come questi che ci ronzano attorno, tu sentiresti il brusio delle mie parole ma non potresti afferrarle […]. Con i vivi devo parlare. Ho ancora tante cose da dire. E allora tu vieni qui, con me. Io dico a te le cose che poi tu riporterai agli altri, di là.47 Non è possibile verificare con certezza la veridicità di quanto raccontato da Paola in merito al sogno, o capire se tale visione abbia avuto realmente luogo. È interessante notare, però, come la Masino percepisca un legame costante con la figura di Pirandello, tanto da sentirsi in dovere di farsi portavoce delle idee inespresse dello scrittore. La scrittrice stessa riflette molto sul significato dei suoi sogni e, a proposito di tale aspetto, in un articolo intitolato Autobiografia uscito su «Pesci rossi» nel gennaio del 1947, osserva: Sono sempre stata annoiata di me stessa, tranne che in sogno. I sogni sono la parte più vera e fattiva della mia esistenza. In sogno io non ci sono mai, e quell’io che va per gli astrali panorami […] è sempre tanto vario e ricco di possibilità, che riesce a darmi per il giorno seguente […] qualche speranza e tenacia.48 È grazie al padre che Paola ha avuto la possibilità di conoscere il significato di un’amicizia sincera, autentica e così profonda. Nonostante il rapporto speciale tra Enrico e la figlia, non sono mancati i contrasti e le tensioni. Un esempio è il distacco temporaneo causato dalla relazione tra la scrittrice e Massimo Bontempelli. La coppia si incontrerà per la prima volta nel marzo del 1927 a casa di un’amica comune.49 Paola non è ancora ventenne, mentre Massimo ha trent’anni in più di lei, è sposato e padre di un figlio, Massimo detto Mino, quasi coetaneo dell’autrice. La moglie di Bontempelli è la scrittrice Amelia Della Pergola, detta Meletta, sposata da Massimo nel 1909 e collabora alla rivista 47 Ibid. EAD., Autobiografia, cit. 49 EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 23. 48 14 bontempelliana «900»50 ricorrendo allo pseudonimo di “Diotima”.51 In Appunti 11 Paola parlerà di lei servendosi di termini poco lusinghieri: Che Meletta Bontempelli sia una bigotta […] non c’è dubbio. È d’un’ignoranza assoluta in materia di religione e si tiene rintanata nelle sue superstizioni con un astio, un livore, un continuo digrignare di denti contro tutto ciò le scompone un po’ la cuccia e tenta di farle vedere un po’ di luce. […] Egocentrica e vanitosa fino alla mania gliene deriva un egoismo molto difficile a sceverare a prima vista. In parole povere: è una di quelle persone che fa la carità non per pietà del povero ma perché nel farla si sente migliore, e il sentirsi migliore le dà piacere. Allo stesso modo crede in Dio per scaricarsi la coscienza d’ogni rimorso. Ma se si parla delle cause dei suoi rimorsi (trascorsi sessuali, carenze di affetto materno, indifferenza all’altrui sofferenza) subito incolpa Dio di averci dati il sesso […], il marito di averle dato dei figli perché lei non era fatta per avere figli […]. Le colpe dei suoi tradimenti son tutte di Massimo che la tradiva […]. Se lei ha sposato Massimo, essendo contraria al matrimonio, e non amandolo […] è unicamente perché aspettava un figlio. E il figlio come l’ha fatto? «L’ho fatto perché non sapevo nulla del sesso. La colpa è tutta di D’Angelantonio che mi ha portato da Massimo. A me quella cosa ripugnava eccetera». Io: «Ma poi l’ha fatto di nuovo, con altri, quando sapeva di che si trattava. Allora?». «A me non piaceva mai, era sempre colpa degli uomini che si approfittavano di me perché ero debole.» Inutile insistere, non se ne viene mai fuori.52 Inizialmente Massimo sembra ignorare Paola.53 Successivamente nel 1928 sarà proprio lui a pubblicare per la prima volta un racconto masiniano, Ricostruzione, su «900», rivista fondata assieme a Curzio Malaparte.54 Inizierà, così, la collaborazione tra i due e successivamente nascerà il loro legame: Traverso amici comuni un mio racconto arrivò a Bontempelli […] e Bontempelli si offerse di pubblicarlo in ‘900’. Cominciò così la mia collaborazione a quella rivista e, con essa, anche una collaborazione con Bontempelli. (Era il solo modo che avessimo per poterci incontrare. Scrivemmo un dramma intitolato Il naufragio del 50 La rivista «900» venne fondata nel 1926 da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte con lo scopo di promuovere un profondo rinnovamento della letteratura italiana, attraverso un confronto con le avanguardie culturali europee. Malaparte abbandonerà il giornale. La prima serie della rivista era composta da quattro fascicoli trimestrali in francese e il comitato redazionale vantava personaggi di spicco del panorama culturale europeo. Successivamente «900» divenne un mensile, per poi essere chiuso definitivamente nel giugno del 1929 (ivi, p. 26). 51 Ivi, p. 27. 52 Ivi, pp. 181-182. 53 GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 107. 54 Ibid. 15 Titanic, manoscritto andato disperso e di cui solo alcune pagine, a firma del solo Bontempelli, furono più tardi pubblicate sulla rivista “Prospettive”). Collaborando ci accorgemmo di dover vivere insieme.55 L’amore paterno non può ignorare lo scandalo alimentato da questa relazione, considerata peccaminosa all’epoca. Già nel novembre del 1927 la famiglia aveva mandato Paola in un «blando esilio» a Firenze,56 durante il quale la Masino aveva frequentato il gruppo di “Solaria”.57 Nel luglio del 1929 la scrittrice verrà mandata dalla famiglia a Parigi,58 con la speranza e l’illusione che le malelingue possano dimenticare la sua scandalosa relazione con Massimo. Motivi di lavoro giustificheranno la sua permanenza a Parigi: grazie ad un’amica di famiglia59 le viene trovato un impiego come segretaria di redazione presso la rivista politica «L’Europe Nouvelle».60 Contemporaneamente lavora al Bureau International de Coopération Intellectuelle.61 La voce sulla sua relazione peccaminosa è già giunta a «L’Europe Nouvelle», dove lavorerà fino al luglio del 193062: «Arrivai a Parigi, accompagnata da babbo, una mattina di luglio e mi avrebbe atteso alla stazione un’impiegata del giornale […]. […] già tutti, al giornale, conoscevano il mio dramma e perché me ne andavo a vivere a Parigi».63 Una volta arrivata al giornale osserva: 55 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 42. 56 Ivi, p. 41. 57 Ibid. 58 Ivi, p. 43. 59 GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 104. 60 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 43. 61 Ibid. 62 PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., p. 356. 63 Ivi, pp. 357-358. 16 Al giornale mi aspettavano come si aspetta la nuova puntata di un romanzo avvincente. Non so che cosa di preciso avessero raccontato della mia vicenda personale, ma di certo tutti sapevano che io amavo un uomo sposato; il che, per l’Italia era gran misfatto.64 Non è facile per Paola ignorare le critiche ricevute e l’opposizione della sua famiglia, da sempre per lei il principale punto di riferimento. Il suo forte carattere e la gioia per il nuovo amore non le impediscono di avvertire la pesantezza della sua condizione e la malignità di quanti la giudicano: Quando me ne andai di casa con le poche cose che poterono darmi […] c’era in me una saggezza che nasceva dalla scelta più ardua che ero stata chiamata a fare in così giovane età. Abbandonare la casa paterna dove tutto era stato […] reciproco affetto, per una vita irregolare, con un uomo sposato, contro la volontà e il giudizio di tutti, in una incomprensione ostile, nutrita solo da una fede cieca nel «nostro» amore. Non mi sono sbagliata. Non potevo sbagliare. Ma era ugualmente molto difficile resistere imperterrita alla massiccia opposizione degli altri. […] spesso lacrime miste di felicità e di dolore mi rigavano il volto. Sempre tesa contro l’agguato che poteva il mondo esteriore portare alla mia passione […] (non ebbi mai un confidente e risposi sempre da sola, secondo il mio criterio, agli attacchi che mi furono mossi).65 La famiglia non l’appoggia in questa sua scelta e per lei è difficile accettarlo. È consapevole, tuttavia, di vivere un amore sincero e autentico e tale sicurezza le permette di difendere Massimo dagli attacchi mossi dai genitori. Bontempelli, d’altro canto, non riuscirà a stare a lungo lontano da Paola e perciò la raggiungerà nella capitale francese nel 1930. Nel giugno dello stesso anno l’autrice deciderà di abbandonare definitivamente l’impiego presso «L’Europe Nouvelle»,66 un lavoro «ingrato e inutile», come lei stessa lo definirà in una lettera al padre del 13 giugno 1930.67 Non nutre più nessun interesse per ciò che fin dall’inizio non è stato altro 64 Ivi, p. 359. EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 31-32. 66 GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 108. 67 Ibid. 65 17 che una «facciata di apparenze necessaria a salvaguardare la reputazione di una giovane di buona famiglia improvvisamente allontanatasi da casa per vivere una travolgente ed inaccettabile unione».68 I contrasti familiari continueranno ad inasprirsi in maniera crescente fino al 1933, anno del definitivo ritorno in Italia di Paola e Massimo.69 Sarà merito dello stesso Bontempelli se a poco a poco i rapporti si ristabiliranno ritrovando la forza di un tempo.70 Durante gli anni parigini la scrittrice s’impegnerà sempre a mantenere una corrispondenza epistolare con i genitori, in ragione della quale si ritrova a difendere spesso il compagno. Un esempio è la lettera indirizzata al padre il 13 giugno 1930: Caro babbo, ho avuto la tua lettera. Questa lettera veramente mi ha fatto molto dolore. […] Quello che tu dici di B. e che mamma dice, è talmente cattivo che non riesco neppure a vedere come si possa pensarlo. Se io ho lavorato con tutte le mie forze, se io ho intenzione ancora di lavorare […] è perché credevamo che questo facesse piacere a voi, perché così mamma era abbastanza tranquilla avendo una scusa da dire alla gente; perché se io mi fossi lasciata completamente mantenere da Massimo, voi avreste trovato che: quell’individuo ti ha ridotto una mantenuta. Così per non darvi dolore più grande ci siamo privati di una grande gioia. Per lui quella di assumersi ogni responsabilità della mia vita; per me quella di essere veramente e completamente cosa sua. Questo non solo noi saremmo felici di far immediatamente […] ma ne saremmo orgogliosi essendo la cosa che ci è più cara e alla quale cerchiamo di giungere.71 Nelle righe successive precisa: «Io e B. siamo disposti a fare tutto il possibile per rendervi calmi e contenti. Noi credevamo appunto che il trovare io un lavoro […] vi fosse cosa gradevole».72 68 Ivi, p. 109. Ibid. 70 MARIA VITTORIA VITTORI, Case. Ritratto di Paola Masino, in «Idra», n. 12, 1995, p. 12. 71 GIAMILA YEHYA, Paola Masino, cit., p. 109. 72 Ivi, p. 110. 69 18 Paola non considera nemmeno per un istante l’idea di rinunciare a quell’amore, di conseguenza, per poter proseguire la sua vita con Massimo, è ben cosciente della necessità di dover trovare un giusto compromesso con la propria famiglia. I toni diventano più concilianti nelle righe conclusive: Caro babbo, ora rispondimi subito. Ti ringrazio tanto della tua lettera così sincera. Non pensare che mi ha fatto dolore. Anche io ve ne ho fatto tanto. Pure so che è per una causa molto bella. Bisogna essere sempre così sinceri e ci aiuteremo molto di più vicendevolmente. Tutti i miei baci e ancora di più. Paola73 La Masino non si sbaglierà a giudicare l’amore e il legame con Massimo. Il 7 marzo del 1931 in una lettera al padre esprime chiaramente le sue sensazioni a riguardo: Caro babbo […] Io mi sento sicura di arrivare e di arrivare proprio per la via che ho scelto, e che non solo mi pare buona per me, ma anzi l’ottima. Perché questa gioia che ora è nella mia vita tutti i minuti […] non può venirmi che da una pienezza di sentimenti; che sono – amore, tranquillità, fiducia, sicurezza […] di un avvenire per la mia opera che trovo subito accolta e compresa e ammirata dalla più sottile e critica intelligenza che io abbia mai incontrata.74 In una lettera al padre del 25 marzo 1931 sottolinea la gioia e la felicità provata in un momento così bello della sua vita: Dunque io dico: che sono felicissima – che amo e sono altrettanto riamata – che Massimo fa di tutto perché la mia vita sia sempre più bella; che ha per me proprio tutte quelle piccole cure che tu e mamma pensate mi manchino; che si occupa del mio lavoro più che se fosse il suo e fa tutti i sacrifici purché io vada sempre più in alto nella vita.75 73 Ibid. L’uso dei corsivi è da attribuire all’autrice dell’articolo da cui è stato tratto il passo citato. Ibid. 75 Ivi, p. 111. 74 19 Il loro legame sarà indissolubile. Nonostante le numerose malelingue, per Paola, Massimo non è solo un maestro: è la sua autentica ragione di vita, e negli anni la scrittrice sarà sempre più convinta di questo. I toni delle lettere degli anni trenta riguardanti l’intensità di tale sentimento non muteranno nemmeno nel decennio successivo: in una lettera del 18 aprile del 1946 scrive alla madre: «Ogni giorno di più mi accorgo di quanto ci vogliamo bene [...]. […] l’ho sempre saputo che non mi sbagliavo, ho troppo aspettato per tutta la mia infanzia per potermi sbagliare».76 Gli anni parigini sono spensierati per la coppia. La scrittrice frequenta gli stimolanti ambienti dei più importanti salotti letterari dell’epoca, approfondisce l’amicizia con Pirandello, incontra gli artisti e gli intellettuali di rilievo del panorama culturale dell’epoca. Spesso le condizioni economiche della coppia sono disastrose, ma ciò non scalfisce la serenità e la spensieratezza di quel periodo. Lei stessa negli anni sessanta ricorderà: La povertà mia e di Massimo era di una specie particolare, quale mai più in seguito conoscemmo. Era una povertà che ci consentiva di saltare un pasto e comprare un fiore senza dubbi e senza soffrire la fame; una povertà cui l’idea delle malattie non aggiungeva nessuna minaccia, cui un guadagno improvviso non toglieva nessuna rimanenza. Potevamo fare a meno di tutto e permetterci tutto con una naturalezza che aveva più del moto delle ali di un uccello in volo che può andare su e giù a destra e a sinistra indifferentemente che del respirare umano condizionato e ineluttabile. Spendevamo come ci veniva in mente, certi che domani o fra un’ora qualche cosa sarebbe accaduto per la quale avremmo potuto ancora mangiare benché per il momento non avessimo un soldo in tasca.77 Una sottile ironia attraversa il racconto dei momenti vissuti con Massimo durante l’esilio parigino: un pomeriggio il compagno deciderà di privarsi degli ultimi soldi rimastigli per la cena e regalerà a Paola un’intera cesta di fiori di pisello: 76 77 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 128. Ivi, pp. 33-34. 20 Quanto costa tutta la cesta?». Era un po’ più di quel che lui avesse, ma convinse la fioraia a lasciargli egualmente tutti i suoi fiori. Me li mise tra le braccia. «Così» disse «ne hai per tutti i giorni che starò via». «Ma come fai per il viaggio?». «Non mangio e non bevo. Meno preoccupazioni. E non potrò neppure essere derubato. Dormo più tranquillo. Una bella fregatura per i ladri».78 I fiori sono sempre al centro di numerosi episodi della loro vita parigina. Una notte, ad esempio, Massimo rincasa alle quattro di mattina e chiede a Paola: «“Ti piacciono? Mi dispiaceva prendere il caffè senza te e allora, invece di prendere il caffè, ti ho comprato questo mazzetto”. Era il tempo in cui scriveva Adria e lavorava quasi tutta la notte. Sapevo il valore di quel caffè».79 Durante le numerose uscite mondane, Paola preferisce sfoggiare dei fiori sui vestiti al posto dei gioielli. Negli anni sessanta ricorderà l’episodio in cui decide di impreziosire un abito di moire verde bottiglia con dell’edera strappata da qualche cancellata di giardino e si reca ad un ricevimento all’ambasciata dove Giuseppe Bottai, allora ministro delle Corporazioni, dirà: «Che coraggio, a portare una collana di tal fatta». E io: «Perché? Le altre donne non portano pietre al collo? Pietre o foglie non son tutti prodotti della natura? E noti che spesso le pietre son false e son sempre più pesanti delle foglie che son sempre leggere e sempre vere».80 L’originalità di Paola emerge dallo stesso stile di vita e non solo dalla scrittura. Nel caso della Masino i due tratti si intrecciano in un rapporto indissolubile: la realtà le fornisce il materiale necessario alle sue opere. Nella capitale francese Paola si distingue per l’originalità e la stravaganza, come lei stessa scrive ai genitori il 30 maggio 1930: «qui tutti trovano che sono un 78 Ivi, p. 34. Ibid. 80 Ivi, p. 35. 79 21 fenomeno perché ho il coraggio di fare cose che tutti gli altri non fanno. Sono proprio rimbambiti!».81 La spensieratezza bohémienne di questi anni si riflette sulla sua produzione letteraria. Nel 1931 pubblica l’opera di esordio intitolata Decadenza della morte.82 È una raccolta di prose lirico-filosofiche scritte a Roma tra il 1928 e il 1929 e riordinate successivamente a Parigi nel 1930.83 Tra l’agosto del 1928 e il maggio del 1929 erano già apparse sulla rivista bontempelliana «900», ad eccezione del racconto Decadenza della morte, uscito sul «Vesuvio» nel febbraio del 1929.84 Massimo scrive una presentazione del volume sottolineando l’originalità di un’opera di ardua definizione e senza precedenti: Inoltrandomi nella lettura di queste prose, mi prende a tratti uno sgomento, a sentirmi così assalito da tutte le parti, sommerso sotto rovesci sùbiti e tumultuosi di scoperte, sacrilegi, favolosi imprevisti, frammenti di teogonie, abbagliamenti di sole seguiti da corse vertiginose nella tenebra. L’aria intorno ora si rarefà fino a diventar luce pura, ora tutt’a un tratto si chiude e pesa addosso come un incubo. Ogni sostegno di riscontri con la realtà viene meno, ci sentiamo reggere nel vuoto per forza d’un equilibrio d’attrazioni simile al gioco della meccanica celeste. L’anima piomba in esaurimenti mortali, di là balza di colpo ai vertici dell’intelligibile. […] Non so precedenti a questa maniera di pensare e di scrivere.85 Massimo non sarà l’unico a sorprendersi per tanta abilità di scrittura. Guido Piovene, ad esempio, in una recensione riservata a Decadenza della morte e Monte Ignoso, pubblicata il 25 maggio del 1931 sul «Convegno», si dimostra 81 Ivi, p. 40. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 45. 83 Ivi, p. 64. 84 Ibid. 85 MASSIMO BONTEMPELLI, Presentazione, in PAOLA MASINO, Decadenza della morte, Roma, Alberto Stock, 1931, pp. 9-10. 82 22 sorpreso dalla capacità dell’autrice di impreziosire le pagine grazie a inusitati contrasti cromatici: è il frutto di una personalità «ricca d’ingegno»: è la giovane autrice più ricca d’ingegno ch’io conosca. Ha in abbondanza la dote più necessaria allo scrittore, il fiato: dico la facoltà di far scorrere sopra un respiro continuo, senz’asma, duecentocinquanta pagine d’avvenimenti tutte ombre e luci e contrasti, legati fra loro a perdita d’occhio. […] La sua prosa scorre, ho detto a titolo di lode. Il suo difetto è quello di scorrere troppo: […] come quello che sfoga senza resistenze.86 La scorrevolezza delle pagine masiniane, a volte, può trasmettere l’idea di una fuga dalla realtà. Tuttavia, sebbene la fantasia sia un elemento preponderante nella scrittura di Paola, sussiste un legame costante tra realtà e finzione: «Nella mia recensione ho accentuato, com’è conveniente, i difetti. Ma Monte Ignoso non è soltanto una prova di ingegno: dalla suprema astrattezza del primo libro, si è giunti a calare la fantasia in figure: nebbiose sì, ma figure».87 Lo stesso anno Paola pubblicherà il romanzo Monte Ignoso, opera che, ambientata a Montignoso, paese in provincia di Carrara meta delle vacanze estive della famiglia Masino, indaga la complessità della vita familiare. Ella stessa in Appunti 6 annota: «Era raro che a estate inoltrata noi non fossimo già partite con mamma per Montignoso».88 Nelle pagine successive aggiunge: con babbo e mamma <facevamo> una di quelle passeggiate “igieniche” che erano il nostro tormento. A metà percorso mamma e babbo si fermavano sempre ad ammirare una certa vecchia casa rossa […] e che trovavano bellissima: anche noi la trovavamo molto bella e spesso ci divertivamo a immaginare come l’avremmo mobiliata se fosse stata nostra.89 86 GUIDO PIOVENE, Decadenza della morte e Monte Ignoso, in «Il Convegno», n. 5, 1931, p. 282 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 87 Ivi, p. 283. 88 PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 155. 89 Ivi, pp. 156-157. 23 È il suo primo romanzo scritto nel 1930 tra Roma e Parigi in soli «cinque mesi e un giorno»,90 anziché in sei come aveva progettato inizialmente.91 Il libro è destinato a riscuotere un grandissimo successo di pubblico, come Paola racconta alla madre in una lettera del 13 maggio 1931: Qui il mio Monte ha gran successo. Tutti ne parlano, alla Fiera del libro è esaurito, giovedì a Vita Nuova ne faranno una conferenza, al Teatro Manzoni in Simultanina di Marinetti ne viene fatta la reclame ed è mostrato al pubblico. Io sono stata per due giorni mattina e sera dietro il banco di Bompiani alla festa, a vendere e, come ti ho detto, ho esaurito tutto e anche le poche copie di Decadenza che mi erano rimaste sono andate. […] Insomma tutti hanno detto che sono stata la trionfatrice della giornata (sui giornali era scritto: «Paola Masino con il musetto di bimba seria non stava più nella pelle dalla gioia di vendere il suo primo libro»). Ti raccomando il musetto di bimba seria. Ma insomma quello che mi fa piacere è che nella sola Milano (perché nelle altre città non è ancora distribuito) in quattro giorni se ne sono andate via circa 500 copie.92 Monte Ignoso si aggiudicherà la medaglia d’oro del premio Viareggio durante la movimentata edizione del 1932:93 lo scrittore Lorenzo Viani, già vincitore del premio l’anno precedente con l’opera Ritorno alla patria, rivendica il riconoscimento per il suo Il figlio del pastore e minaccia di chiamare in sala alcuni marinai per picchiare tutti i presenti. Lo scrittore verrà arrestato e scarcerato solo dopo aver promesso di astenersi da qualsiasi atto di violenza.94 La vittoria del Viareggio non impedirà a Carlo Emilio Gadda di stroncare Monte Ignoso su «Solaria» nel 1931. Nelle righe iniziali dell’articolo Gadda esprime il desiderio di «serbare un cavalleresco silenzio» in merito a Decadenza 90 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 69. 91 Ibid. 92 L’uso del corsivo è originale. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 46-47. 93 Ivi, p. 47. 94 Ivi, p. 48. 24 della morte, considerata la giovanissima età dell’autrice.95 Non potrà fare altrettanto per Monte Ignoso, romanzo caratterizzato dai «gravi infortuni ai quali la scrittrice è andata incontro, con intrepidezza da lasciare intontita la gente».96 I personaggi sono astratti e lo stile è inadeguato a causa delle «gravi differenze tonali, dal biblico-tarocchistico alla sciatteria piccolo-borghese».97 Il recensore prosegue sottolineando un’«Ossessione del particolare: e non sempre giustificata»98 e «Talora un decadere del tono a piattezza e a rinuncia».99 Il romanzo non convince nemmeno Giuseppe Antonio Borgese, il quale, in una recensione pubblicata sul «Corriere della sera» il 10 luglio 1931, dichiara di apprezzare il tema affrontato, per notare poi l’inesperienza stilistica della Masino: «Paola Masino è proprio al primo volo, ai primi voli; ma sono voli d’Icaro».100 Successivamente aggiunge: Io non riesco a vedere che tre sventure, tre destini, madre padre figlia, delitto follia espiazione, un triangolo, una piramide dentro un abisso, un allacciamento funesto. Questo si vede. Se Paola Masino, già così fortemente espressiva, sapesse trattenere il suo sogno dentro la gravitazione del mondo, misurare l’irreale al reale, disporre la sua fantasia dentro le coordinate che danno ritmo alla vita, anzi sono la vita esse stesse, sarebbe già una scrittrice potente, una tragica. Invece troppo spesso decolla, perde peso e contatto, svapora, erra, finalmente sfuma. Può somigliare, se si vuole, a un colombo viaggiatore, bravissimo nel volare, ma che non trova più la via del ritorno.101 95 CARLO EMILIO GADDA, Monte Ignoso, in «Solaria», 1931, p. 61. Ibid. 97 Ivi, p. 62. 98 Ivi, p. 63. 99 Ibid. 100 GIUSEPPE ANTONIO BORGESE, Monte Ignoso, in «Corriere della sera», 10 luglio 1931 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 101 Ibid. 96 25 I giudizi negativi ricevuti non scoraggiano Paola: nel 1932 inizia la stesura del suo secondo romanzo, Periferia.102 L’opera affronta il tema delicato della violenza domestica e sui minori sullo sfondo del quartiere Caprera, dove l’autrice aveva vissuto fino a quattordici anni.103 L’opera verrà pubblicata nel 1933 presso Bompiani, aggiudicandosi il secondo posto al premio Viareggio.104 Come era avvenuto per Monte Ignoso, anche Periferia andrà incontro a una pesante stroncatura, questa volta da parte di Leandro Gellona sulla «Provincia di Vercelli» il 29 agosto del 1933. Fin dalle righe iniziali, Gellona ricorre a toni molto forti e si dimostra molto severo nei confronti della scrittrice: «non troviamo strano che il premio Viareggio sia toccato ad Achille Campanile e qualche briciola sia andata a finire nelle piccolette, odorose mani della Masino».105 È chiaro, secondo lui, come non si debba fare troppo affidamento sulle scelte della Giuria del premio Viareggio, ma, piuttosto, «diffidare dei libri vincitori dei concorsi letterari».106 Periferia è un romanzo del tutto «condannevole», privo di qualsiasi conoscenza della psicologia infantile e femminile. L’autrice non descrive la realtà come vuole far credere, perché i bambini protagonisti si dimostrano più adulti degli adulti stessi e, di conseguenza, sono poco credibili. Gellona condivide l’opinione già espressa da Vittorio Sella in un articolo pubblicato sulla «Scure» il 20 agosto del 1933,107 secondo cui Paola non è stata in grado di «immaginare un bimbo che sia 102 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 45. 103 Ivi, p. 71. 104 Ivi, p. 45. 105 LEANDRO GELLONA, Da un romanzo sballato e premiato ai vari angoli morti letterari, in «La provincia di Vercelli», 29 agosto 1933 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 106 Ibid. 107 VITTORIO SELLA, In margine al Premio letterario Viareggio, in «La Scure», 20 agosto 1933 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 26 veramente bimbo, né un genitore che sia veramente genitore e tanto meno una madre quale quella che noi tutti abbiamo avuto ed amato e venerato».108 Non descrive la realtà, perché nel romanzo è assente un qualsiasi accenno all’educazione fascista: Noi, fascisti ed italiani di Mussolini, non possiamo e non vogliamo comprendere altra letteratura che quella che è e può essere di incitamento al nostro popolo, sia esaltandone le virtù, sia colpendone i vizi per correggerli. Di romanzi cosidetti italiani adattabili ai panni di qualsiasi popolo ne abbiamo fin sopra i capelli. Ci fanno nausea. La letteratura nazionale si crea ispirandosi alla propria nazione non alle vane e false fantasie del freddo intellettualismo.109 Mussolini, dopo aver letto la recensione citata, invierà al prefetto di Vercelli un telegramma dove si congratula con Gellona per le parole usate nei confronti della Masino.110 D’ora in poi avrà inizio un controllo serrato da parte del regime delle azioni e delle opere di Paola.111 Guido Piovene non era della stessa opinione di Gellona quando, in una recensione pubblicata sull’«Ambrosiano» il 30 maggio del 1933, aveva sottolineato quanto «Paola Masino <fosse> indubbiamente una scrittrice».112 Secondo Piovene, Periferia, frutto di una maturazione letteraria dell’autrice, sarebbe un’opera qualitativamente superiore a Monte Ignoso e a Decadenza della morte. Per il critico la maschera rappresenta una presenza costante nel testo. L’immagine del gioco dei bambini, infatti, è un’autentica «mascherata di passioni 108 LEANDRO GELLONA, Da un romanzo sballato e premiato ai vari angoli morti letterari, cit. Ibid. 110 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 45. 111 Ibid. 112 GUIDO PIOVENE, Periferia, in «L’Ambrosiano», 30 maggio 1933 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 109 27 umane» e costituisce un elemento estremamente affascinante: «Questi bambini sono un’atmosfera. Un’atmosfera in cui si disegnano, erranti, istinti e passioni come apparizioni fantastiche in un mar di nebbia».113 Un «mar di nebbia» avvolge le passioni e gli istinti da sempre protagonisti della scrittura masiniana. Il risultato è una serie di immagini pittoriche, necessarie a sottolineare il costante rapporto tra fantasia e realtà. Sembra quasi di osservare un quadro contraddistinto dall’elemento della maschera: «Periferia è un libro di maschere e di pitture: tanto più efficace, quanto più dà nel quadro, e mostra la passione tutta fissata in un gesto».114 Piovene indica la presenza di un tema principale e ricorrente nella narrativa di Paola: il legame indissolubile tra realtà concreta ed immaginazione. Dopo la pubblicazione di Periferia, negli ultimi mesi del 1933 avrà inizio la stesura di un terzo romanzo, Poi Giovanni. Si tratta di una sintesi emblematica dell’iter formativo del protagonista, che all’inizio della narrazione si chiama Graziano, ma che nel finale mai scritto sarebbe dovuto diventare Giovanni, attraverso un passaggio tra personalità e relativi nomi propri che avrebbero portato alla sua trasformazione da romantico sognatore a uomo «qualunque».115 Paola scriverà soltanto il primo capitolo del romanzo.116 Gli anni trenta non si rivelano fondamentali soltanto sul piano professionale e sentimentale. L’autrice ha la possibilità di conoscere diversi profili di intellettuali, tra cui la scrittrice Ada Negri. Per quanto la Masino apprezzi fin da 113 Ibid. Ibid. 115 GIAMILA YEHYA, Tra sogno e scrittura. Poi Giovanni, romanzo incompiuto di Paola Masino, in «Avanguardia», n. 17, 2001, p. 134. 116 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 45. 114 28 subito la figura in quanto donna, non riesce a comprendere e a condividerne lo stile poetico: «in quanto ad Ada Negri penso proprio come te e la sua poesia non mi piace affatto».117 Ada si dimostra «molto affabile, <la> chiama Paola ed è curiosa di leggere il <suo> romanzo».118 Non ha lo stesso rapporto contrastato con il regime di Paola: la lodigiana nel 1931 vince il premio Mussolini e sarà l’unica donna a far parte dell’Accademia d’Italia.119 I premi Mussolini erano stati istituiti nel 1930 presso l’Accademia stessa e i fondi erano una donazione di Aldo, Mario e Vittorio Crespi, proprietari del quotidiano «Corriere della Sera».120 Le migliori scoperte, invenzioni o opere scientifiche, artistiche o letterarie si aggiudicavano il premio costituito da un assegno di cinquantamila lire. Quattro commissioni giudicatrici, nominate direttamente dall’Accademia, ne valutavano nel campo delle discipline morali e storiche, della letteratura, dell’arte e delle scienze fisiche matematiche e naturali.121 Ada stima il lavoro di Paola: in una cartolina inviatale da Pavia il 31 agosto del 1931, si congratula con lei per la vittoria del Viareggio con Monte Ignoso, un «libro di molta forza».122 In una lettera del 9 giugno 1933, dopo aver ringraziato la Masino e Bontempelli per una copia di Periferia ricevuta in dono, sottolinea gli elementi apprezzati nel romanzo: 117 Lettera alla madre del 13 maggio del 1931. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 46. Lettera alla madre datata 1 maggio 1931. Ibid. 119 Ibid. 120 GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 169. 121 Ibid. 122 In una cartolina, raffigurante il ponte coperto sul Ticino, Ada scrive: «Gentilissima, congratulazioni infinite per la Medaglia d’oro di Viareggio. “Monte Ignoso” è libro di molta forza. Sarà contenta del successo, non è vero? Augurii a Lei e all’amico illustre. Sua devota Ada Negri Pavia, 31-8-’31.» ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Pavia, 31 agosto 1931 (in APM, serie Corrispondenza, Corrispondenza indirizzata a Paola Masino). 118 29 Milano, Viale dei Mille 7. 9-6-XI123 Cara Paola Dove siete, ch’io possa scrivervi – con sicurezza di recapito – per dirvi grazie del vostro dono? “Periferia” è uno strano e bellissimo libro, pieno di sangue forte. I piccoli selvaggi di Piazza Pannosa ci vivono come se fossero nel deserto; e tolto l’amore di Romana e di Dich, non hanno nessuno. Questo è il paradosso, ma anche l’originalità e la vitalità del libro. Scuole, famiglia: niente. (O peggio di niente) Fra essi quella che amo di più è Lisa: il capitolo della scoperta del mare e dell’oscura gelosia di Fran pel mare è fra le pagine indimenticabili del volume. (E tutte le note sulle stagioni) Quanto alla tragedia della pubertà, non credo che Voi abbiate letto Stella mattutina: ebbene, la stessa tragedia è veduta cogli stessi occhi: con la stessa dolorosa ribellione: come un marchio e una condanna. L’anarchia selvaggia di Lena mi ha fatto pensare a Zola. Addio, cara Paola. Il vostro romanzo farà gran rumore. Abbiate il mio augurio. Sono sempre in gran dolore per lo stato della vostra Delia: se si domanda di lei al telefono, rispondono: Condizioni immutate. Vederla non si può. E io soffro di non potere far nulla per lei. La penso notte e giorno. So che voi pure l’amate tanto. Ricordatemi a Massimo. Vostra Ada Negri P.S. Una delle creature più originali, più liriche del vostro romanzo è «Cleopatra» che non esiste se non nel sogno.124 Ada è entusiasta del romanzo appena letto: è un romanzo originale destinato a ritagliarsi uno spazio significativo nel panorama letterario. La Negri coglie la malinconia dei protagonisti del romanzo, privi di un futuro. Periferia, inoltre, utilizza le stesse modalità di espressione di Stella mattutina nel trattare la «tragedia della pubertà». Ada esprime un vivo apprezzamento anche per la raccolta Racconto grosso e altri, scritta tra il 1936 e il 1938 e pubblicata presso Bompiani nel 1941.125 Nelle sue lettere non si limita a complimentarsi con l’amica per i risultati ottenuti nel campo letterario, ma argomenta in modo minuzioso e 123 Si tratta della numerazione fascista e indica un periodo compreso tra il 29 ottobre del 1932 e il 28 ottobre del 1933. 124 ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Milano, 9 giugno 1933 (in APM, serie Corrispondenza, Corrispondenza indirizzata a Paola Masino). Non è possibile ricostruire l’identità di Delia e il riferimento fatto a tal proposito da Ada Negri. 125 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., pp. 48-49. 30 particolareggiato il suo giudizio positivo. Racconto grosso e altri, secondo la Negri, racchiude tutte le peculiarità della scrittura masiniana: Milano, Viale dei Mille, 7 Fine del 1941. XX. Cara Paola, ti sono molto grata d’avermi mandati i tuoi Racconti. Li ho letti adagio e con intensità, nelle ore libere. Vi sei dentro tutta, carne sangue anima. Tutta Paola: cioè, una creatura primordiale non ancor liberata dagli elementi e dalle loro forze cosmiche; ma, nel medesimo tempo, terribilmente ventesimo secolo. La madre di Caino e l’amica di Regolo (ah, quel delizioso Regolo) che guida la sua Andromeda da Roma a Firenze. Insomma, un’inquietante, interessantissima Paola. Buona fortuna al tuo libro, a te, a Massimo. Affettuosamente Ada P.S. Ricordi quando, anni fa, in una casa di Roma, cercavi di spiegarmi le ragioni del tuo lungo silenzio in arte, dopo Periferia? _ Vedi? Si ritorna. E tu ritorni con energie centuplicate, in groppa ad Apollo.126 Nel post scriptum Ada allude al «lungo silenzio in arte» di Paola. Tra la pubblicazione di Periferia e di Racconto grosso e altri sono passati ben sette anni e la Masino inizia a percepire una certa difficoltà nella scrittura. Dopo i successi raggiunti nel giro di un paio di anni, non è abituata a questa nuova condizione e inizia a nutrire un po’ di timore. Nell’estate del 1935 sente l’esigenza di sfogare tanta inquietudine in Appunti 2: Sono tre anni che mi sto perdendo con inesorabile crudeltà contro me stessa. Mi diverto, perfino, della mia pena. Soffro perché mi piace soffrire e, se mi accuso, – come sto facendo ora – mi piace accusarmi. Il lavoro mi è sempre stato fatica; perciò lavoro appena quando non ne posso fare a meno: proprio una necessità violenta corporale.127 126 ADA NEGRI, Lettera a Paola Masino, Milano, fine del 1941 (in APM, serie Corrispondenza, Corrispondenza indirizzata a Paola Masino). 127 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 15-16. 31 Il successo e i riconoscimenti finora ottenuti non servono a placare il timore. È come se nel suo animo qualcosa iniziasse a sgretolarsi e fosse uno dei primi segnali della mancanza d’ispirazione degli anni cinquanta, fedele compagna di un sofferto e graduale percorso verso l’oblio. 32 I.2. «Venezia […] appena l’ho vista non mi ha fatto nessuna impressione»:128 un tormentato soggiorno veneziano. Il 1938 sarà un anno ricco di cambiamenti per Paola. Massimo da tempo non si riconosce nei principi propagandati dal regime ed esprime pubblicamente il proprio dissenso: per lui la guerra è un «capofitto nel massacro»129 e durante la commemorazione di d’Annunzio si dimostra molto critico nei confronti del regime.130 Non è la prima volta che dichiara la propria contraddittorietà dinanzi alle volte del fascismo: già nel 1936, in un articolo pubblicato sulla «Gazzetta del popolo» aveva condannato l’arte politicizzata e nel 1938, sullo stesso giornale, aveva dichiarato la propria opposizione alla proposta di istituzione di un albo nazionale dei critici.131 Per lui il fascismo rappresenta soltanto una «coltivata barbarie».132 Eppure lo scrittore non si accorge fin da subito della negatività del regime. Tra il 1927 e il 1928 ricopre la carica di segretario nazionale del sindacato fascista autori e scrittori.133 Il 23 ottobre del 1930 viene nominato Accademico d’Italia.134 Giuseppe Carlo Marino, nell’opera L’autarchia della cultura, osserva come Le vicende dell’Accademia d’Italia […] mostrano […] il profilo specifico di un’esperienza nel corso della quale lo squallore dell’abdicazione della ragione critica fu anche il fastoso rito di un servizio al potere, un servizio remunerato come 128 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Un autoritratto in movimento. Le scritture autonarrative di Paola Masino, in «Avanguardia», n. 43, 2010, p. 6. 129 PAOLO DI STEFANO, Paola. L’avventura del ‘900, in «Corriere della Sera», 30 marzo 1995. 130 MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, in PAOLA MASINO, Colloquio di notte. Racconti, Palermo, La Luna, 1994, p. 18. 131 Ibid. 132 Ibid. 133 MARINELLA FERRAROTTO, L’accademia d’Italia. Intellettuali e potere durante il fascismo, Napoli, Liguori Editore, 1977, p. 135. 134 Ibid. 33 mai era prima accaduto nel passato piuttosto quaresimale degli intellettuali italiani.135 L’Accademia d’Italia e la sua organizzazione costituiscono il chiaro esempio della profonda dipendenza della cultura dal potere. Il presidente dell’Accademia veniva scelto direttamente dal capo del governo e successivamente, una volta nominato, doveva prestare giuramento di fedeltà fascista. Ogni istituzione culturale del tempo risulta dipendente dal regime. Avviene, così, una dequalificazione della cultura: spesso entrano a far parte delle accademie personaggi culturalmente poco illustri ma raccomandati da esponenti di spicco del regime. all’accademia segna l’inizio di una «specifica 136 “carriera” L’ingresso regolata burocraticamente» e implica numerosi vantaggi.137 In questo panorama di generale consenso, si alza la voce di Massimo Bontempelli, ormai insofferente di questo diffuso costume degli intellettuali animati dalla «“vasta mania” del tempo, “una cosa orrenda, che si chiama diventar ricchi”».138 Bottai, fondatore nel 1923 della rivista «Critica fascista»139 e di «Primato» nel 1940,140 a cui collaborava lo stesso Bontempelli,141 definisce la polemica sollevata da quest’ultimo come la conseguenza di un «misurato e ragionevole pessimismo».142 Nel 1938 Massimo rifiuta di ricoprire la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Firenze, tolta ad Attilio Momigliano perché colpito dalle leggi 135 GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura, cit., p. 10. Ivi, p. 170. 137 Ivi, p. 173. 138 Ivi, pp. 10-11. 139 ALEXANDER J. DE GRAND, Bottai e la cultura fascista, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 42. 140 Ivi, p. 273. 141 Ivi, p. 276. 142 GIUSEPPE CARLO MARINO, L’autarchia della cultura, cit., p. 11. 136 34 razziali.143 Il regime non è più disposto a tollerare ulteriori affronti da parte di Bontempelli: gli verrà ritirata la tessera di partito e per più di un anno sarà sospeso da ogni attività professionale.144 Inoltre dovrà immediatamente abbandonare Roma. La scelta della città dove trascorrere l’esilio non viene imposta dal regime. Paola vorrebbe andare a Firenze, così da essere vicina all’amata Roma, ma è la città dove Massimo ha vissuto con la moglie: dovranno, perciò, andare a vivere a Venezia.145 Non è la prima volta che Paola si reca nel capoluogo lagunare: il padre l’aveva già condotta nella città quando aveva sedici anni.146 La ragazza rimane affascinata dalla «Venezia interna che <le> è piaciuta immensamente e che <le> ha fatto pensare su cose non mai imaginate», mentre non può apprezzare la Venezia di San Marco «perché <le> è terribilmente antipatica».147 Dopo quattordici anni ritorna negli stessi luoghi assieme al suo amato Massimo. Per alcuni mesi la coppia soggiornerà nella pensione Calcina alle Zattere dove aveva dimorato Ruskin durante il periodo di stesura delle Pietre di Venezia.148 Successivamente si trasferiscono a Palazzo Contarini delle Figure, sul Canal Grande, a San Samuele 3327 e ubicato nei pressi del Conservatorio “Benedetto Marcello”.149 Vi rimarranno fino al 1950. La Masino e Bontempelli non rinunciano alla compagnia dei più significativi personaggi del panorama culturale dell’epoca. Oltre a Goffredo 143 MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, cit., p. 18. Ibid. 145 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 22. 146 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, Un autoritratto in movimento, cit., p. 6. 147 Ibid. 148 NICOLÒ MENNITI-IPPOLITO, Quanta frenesia culturale nella Venezia di Bontempelli, in «Il Mattino di Padova», 14 aprile 1995 (in APM, serie Ritagli Stampa, Episodica e generale). 149 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 22. 144 35 Petrassi le stanze del palazzo veneziano ospitano intellettuali del calibro di Victor De Sabata, Arturo Martini, Filippo De Pisis, Corrado Alvaro, Gianfrancesco Malipiero e Anna Maria Ortese. Quest’ultima risiederà nel palazzo assieme alla coppia nel 1939. Nel 1936 Paola aveva già potuto apprezzare lo stile del racconto ortesiano Angelici dolori, uscito nell’ultimo numero della rivista «L’Italia letteraria», anche se conoscerà Anna Maria soltanto un anno dopo. Nel 1937 le due scrittrici si incontrano per la prima volta in occasione della Fiera del Libro a Roma,150 dando così inizio ad una profonda amicizia caratterizzata da una fitta corrispondenza epistolare.151 Successivamente, sempre nel 1937, la Ortese farà visita alla coppia nella loro abitazione romana situata in corso Trieste.152 Le due scrittrici hanno molto in comune: condividono la passione per la musica153 e per le opere di Shakespeare.154 La Ortese sente fin dal primo istante di poter essere sincera con l’amica: il 25 giugno del 1937 esprime chiaramente il suo parere sui romanzi masiniani Monte Ignoso e Periferia: Cara Signora, mi scusi se Le scrivo con ritardo. I Suoi libri, Monte Ignoso e Periferia, mi hanno fatto una profonda impressione. Ma poiché Lei vuole ch’io Le dica la verità, Le dirò che Monte Ignoso mi ha fatto in alcuni punti orrore (non so: spavento, tristezza) e Periferia (che mi pare infinitamente più alto) mi ha ripetuto la tristezza di Monte Ignoso. Io non sono un critico né una persona che sappia, in tali casi, sbrogliarsela: le mie impressioni sono quelle della lettrice. 150 ANNA MARIA ORTESE, Ricordo la voce dei suoi libri, in «L’Europeo», 13 aprile 1994, p. 81 ora in EAD., Da Moby Dick all’Orsa Bianca, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p. 124. 151 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 84. 152 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, in FRANCESCO DE NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Convegno di studi su Anna Maria Ortese. Rapallo, sabato 16 maggio 1998, Genova, Sagep, 1999, p. 50. 153 LUCIA STANZIANO, Anna Maria Ortese e Paola Masino: due scrittrici d’avanguardia, in «La Capitanata. Rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia», n. 10, 2006, p. 46. 154 Ivi, p. 47. 36 In Monte Ignoso ho trovato una viva forza drammatica, insieme a un colore aspro, intenso, atroce, che rivela disinvoltura, e sprezzo della letteratura (quasi, con questo sprezzo, tenda a raggiungere una più intima e vera letteratura). Chi mi piace è Barbara. Giovanni è più umano di Emma. Emma non mi ispira mai pietà: le scene che più mi hanno colpita son quelle del collegio, e specialmente là dove il padre chiude la porta della stanza dove Barbara muore. Sono cose di una verità acutissima, che fa un immenso piacere. Anche la morte di Emma è stupendamente descritta, ma fa orrore. Signora, io spero che Lei accetti volentieri questa lettera di sincere opinioni.155 Anna Maria stimava e, allo stesso tempo, provava invidia per Paola, che appariva ai suoi occhi come una donna realizzata sul piano professionale e sentimentale. Desiderava essere come lei e per questo nutriva nei suoi confronti un irrimediabile senso di inferiorità.156 La solitudine la spinge ad aprirsi con «una donna che, invece, sola non <è>, ma che forse, al pari di lei, <è> attenta al dolore, al male di vivere».157 È come se «La sua immagine risult<asse> opaca e solitaria, di contro allo sfavillio ed alla notorietà della Masino, che, per altro, non fu mai né sfavillante né troppo nota come si sa».158 L’urgenza di poter soddisfare le proprie necessità quotidiane e la frustrazione dovuta all’incapacità di portare a termine un certo numero di scritti, sono la causa per Anna Maria di perdita di autostima.159 Massimo, impressionato dal gusto letterario espresso da questa giovane scrittrice, aiuterà la Ortese nella sua affermazione letteraria incoraggiando la pubblicazione della sua opera di esordio Angelici dolori. Si tratta di un volume dal «fascino dello stile naturale», come lo stesso Bontempelli sottolineerà in una 155 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 49. 156 FRANCESCO DE NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Convegno di studi su Anna Maria Ortese, cit., p. 65. 157 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50. 158 Ivi, p. 52. 159 Ivi, p. 53. 37 lettera del 18 novembre 1936 all’editore Valentino Bompiani.160 L’opera aveva sorpreso e stuzzicato l’attenzione di Massimo, il quale non aveva risparmiato le sue lodi a riguardo nemmeno in un pomposo evento come la seduta reale dell’Accademia d’Italia di cui faceva parte e dove aveva sentito l’esigenza di discutere a proposito di un’opera dalla «rara potenza di creazione fantastica, un istinto sicuro di espressione, un senso religioso delle realtà quotidiane, che per virtù di poesia appaiono ivi continuamente trasfigurate in luce di bellezza».161 Alla fine Angelici dolori viene pubblicato nel 1937 in una collana dell’editore Bompiani, inaugurata nel 1930 dal romanzo bontempelliano Vita e morte di Adria e dei suoi figli e impreziosita nel 1931 dalla pubblicazione di Monte Ignoso di Paola Masino. Anna Maria non solo aveva avuto così l’opportunità di conoscere per la prima volta il panorama letterario dell’epoca, ma allo stesso tempo aveva conosciuto il significato della vera amicizia. Paola e Massimo, infatti, non si limitano ad ospitare Anna Maria nella loro casa nella splendida città lagunare, ma consci delle reali necessità di Anna Maria cercano di soddisfarle in tutti i modi. Si dimostrano attenti a cogliere quello che si presenta come «quasi un appello, una richiesta di aiuto, di amicizia sincera, di solidarietà, da parte di una donna sola, nella vita ma soprattutto nell’animo».162 Per questo motivo la introducono nel loro salotto veneziano, fiduciosi nella possibilità per l’amica di fare nuove e fruttuose conoscenze. Grazie alla Masino la Ortese nel 1938 inizierà a lavorare per «Il Gazzettino».163 Nel 1943 scriverà per 160 GABRIELLA D’INA, GIUSEPPE ZACCARIA (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, Milano, Bompiani, 1988, p. 339. 161 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50. 162 Ibid. 163 LUCIA STANZIANO, Anna Maria Ortese e Paola Masino, cit., p. 46. 38 «Domus»,164 rivista d’architettura di cui Massimo è condirettore165 e dove Paola tra il gennaio del 1941 e il novembre del 1942 aveva pubblicato i suoi diciotto Dialoghi della vita armonica.166 Si trattava di una rubrica dove ogni mese la scrittrice affrontava un tema instaurando un dialogo con un folletto, Apud.167 Non è possibile stabilire se quest’ultimo «sia uomo o donna».168 L’unica cosa sicura è che «veste ogni giorno di colore differente e cambia voce con il cambiar delle ore, e cammina in opposti modi nel giorno e nella notte».169 Nonostante la loro amicizia personale, la convivenza tra Paola e Anna Maria non sarà per nulla facile, soprattutto a causa delle particolari abitudini della Ortese stessa. Paola a proposito di ciò scrive ai genitori: Non fa che dormire, ha una paura morbosa di ogni rumore, la notte ci obbliga a stare alzati fino alle 3 o alle 4 perché se non ci sente muovere e non vede la luce attraverso la sua porta è presa da un terrore così gagliardo che cade in una specie di catalessi: le poche ore che le rimangono libere dal sonno e dagli incubi le passa al bagno. Da otto giorni che è qui non ha ancora detto che questo: che vuol trovarsi un impiego; e non siamo riusciti che a trascinarla una volta fino in piazza S. Marco dove però si è rifiutata di guardare il palazzo ducale perché dice che non la interessa.170 Nelle righe successive aggiunge: «Oggi ho una gran sonno perché per non fare morire di paura l’Ortese ho dovuto rimanere alzata fino alle 4 a suonarle dischi perché non poteva addormentarsi per paura dei morti».171 164 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 105. Ivi, p. 94. 166 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 50. 167 MARIA VITTORIA VITTORI, Case, cit., p. 14. 168 Ivi, p. 21. 169 Ibid. 170 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 84. 171 Ivi, p. 86. 165 39 Paola, tuttavia, apprezza il lavoro della Ortese, stimandone soprattutto lo stile. Già in una lettera del 12 settembre 1936 consiglia al padre Enrico la lettura di Angelici dolori.172 Quasi vent’anni dopo augurerà all’amica la vittoria dell’edizione del 1953 del Premio Viareggio con il suo Mare non bagna Napoli: Sto leggendo a ruota, uno dietro l’altro, i libri del premio Viareggio. Ma non ne trovo alcuno che mi entusiasmi. Il migliore mi sembra ancora quello della Ortese. La quale continua a supplicarmi di farle avere dal sindacato un po’ di denaro e io me ne occupo volentieri. Sarei contenta vincesse almeno una parte del premio Viareggio perché mi pare proprio che se lo meriti.173 Paola e Massimo ospiteranno per circa un mese la Ortese a Palazzo Contarini e per quest’ultima si tratterà di «un periodo […] molto importante».174 In seguito si rivedranno una volta sola prima dello scoppio della seconda guerra mondiale per poi perdersi completamente di vista. Anna Maria Ortese descrive con parole molto affettuose l’amica Paola: Lei fu spesso straordinariamente buona e generosa con me. Mi venne incontro in circostanze molto difficili. C’era sempre una certa polemica – su tutto – fra noi, ma io la stimavo, era la personalità più forte e affascinante che avessi mai incontrato.175 L’amicizia tra Anna Maria e Paola prosegue, nonostante alcune interruzioni, fino al 1975, anno del trasferimento in Liguria della Ortese. In seguito le due scrittrici non si frequenteranno più e non rimarranno neppure in contatto a causa di un «contrasto», come racconta la stessa Ortese: 172 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Anna Maria Ortese epistolografa, cit., p. 50. Lettera alla madre del 6 agosto 1953. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 153. 174 ANNA MARIA ORTESE, Ricordo la voce dei suoi libri, cit., p. 124. 175 Ivi, p. 125. 173 40 Penso che anche Paola – a parte un ultimo infelice contrasto in cui il torto era tutto mio – mi stimasse e forse mi volesse bene. E mi dispiace di essere stata io, con il mio cattivo carattere, la causa di questa divisione; e dopo, tentai inutilmente una pacificazione. Lei non volle più, e credo di aver meritato il suo distacco.176 E aggiunge: la ricordo […] esattamente come una persona della mia famiglia. […] Peccato che le polemiche ci dividessero così spesso. Ricordo la «voce» dei suoi libri, più che i libri: è una voce straordinariamente giovane, fervida, viva; e soprattutto coraggiosa. Una voce di oggi, non di ieri.177 Paola apprezza molto il lavoro di Anna Maria, la quale ricambia tanta stima e in un articolo pubblicato sull’«Europeo» nel 1994 ha modo di dichiarare: Penso che dei suoi libri rimarranno alcune cose fra tante: la stravaganza del discorso, l’ardire (così raro, ieri), e soprattutto una malinconia di fondo, quasi invisibile, come una nebbiolina. Propria di chi è nato in cima alla vita, e vede anche quel che gli altri non vedono, che sfugge all’occhio comune.178 La convivenza movimentata con la Ortese distoglie solo per un attimo la Masino dalla profonda insofferenza del suo soggiorno veneziano. Inizialmente l’allontanamento da Roma costituisce un evento positivo per l’autrice, perché «appena via da Roma tutto <le> sembra placato e la vita più semplice e seria».179 In seguito nasceranno i primi problemi nell’allestimento di una nuova casa, e questi, confiderà Paola alla sorella Valeria in una lettera del 3 dicembre 1938, saranno i primi segnali di un rapporto difficile e tormentato con l’ambiente lagunare: «Come vedi, aumentano le dimensioni della mia casa e gli affanni in 176 Ibid. L’uso del corsivo è originale. Ibid. 178 L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 126. 179 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 80. 177 41 proporzione. Non sarò mai, no, non sarò una massaia felice. Sarò il Lucifero delle massaie, sarò il popolo ebreo nel mondo delle “casalinghe”».180 La vita a Venezia non offre molte possibilità di svago e la noia e il freddo dell’abitazione assillano costantemente l’autrice. Quest’ultima cerca di impiegare il tempo studiando personaggi veneziani a lei sconosciuti, come Giacomo Casanova, ma ne rimane totalmente indifferente: ho leggiucchiato qua e là le avventure di Giacomo Casanova che non conoscevo. E dopo un accurato esame mi sono accorta che il famoso seduttore non ha sedotto che cameriere, donne pubbliche, attricette. Ogni volta che racconta di un’avventura con una signora, risulta che per una ragione o per un’altra non l’ha portata a termine. Cosa per cui non mi spiego tanta fama di conquistatore.181 Venezia non si rivela la città ideale per scrivere. Nell’ambiente lagunare non trova la serenità necessaria per dedicarsi al lavoro letterario: Il mio lavoro, con questo stato d’animo, non è possibile che fiorisca. Ora tempo ne avrei, ma vivo troppo sotto l’incubo di quello che accade nell’appartamento di servizio.[…] Io non mi sento l’animo del sorvegliante, né quello della padrona che chiacchiera con la serva.182 La gestione della casa diventa nel tempo un pensiero ossessivo. Scrive alla madre nell’agosto del 1939: «Cara mamma, ti avverto che per la prima volta in vita mia mi accade di trovare la mia casa pulita. […] Se guarissi della mania della casa davvero sarei la donna più felice del mondo».183 180 Ivi, p. 81. Ivi, p. 82. 182 Ivi, pp. 82-83. 183 Ivi, p. 89. 181 42 Paola, tuttavia, partecipa a diversi incontri culturali dell’ambiente veneziano: la coppia al Lido di Venezia segue le proiezioni in gara al Festival del Cinema e Massimo, grande appassionato di musica, frequenta come uditore il corso di Alto perfezionamento di Composizione tenuto da Gianfrancesco Malipiero a Venezia. Malipiero era un noto compositore veneziano molto vicino alla Masino, a Bontempelli e allo stesso Pirandello, del quale aveva musicato nel 1934 la sua Favola del figlio cambiato.184 Non è l’unico compositore a frequentare Palazzo Contarini: Goffredo Petrassi, compositore, direttore d’orchestra e sovrintendente dal 1937 al 1940 del Teatro La Fenice di Venezia, e il compositore Nino Sonzogno fanno visita spesso alla coppia.185 La paura della scrittrice di non riuscire a lavorare si rivelerà completamente infondata. Continuerà la stesura del romanzo Nascita e morte della massaia, iniziato nel 1937, nella sua stanza affacciata sulla Giudecca.186 L’opera è pronta nel gennaio del 1940.187 Si tratta del suo romanzo più importante, ma anche il più discusso e censurato dal regime che lo giudica un testo cinico e sovversivo. L’opera si opporrebbe all’immagine della donna-angelo del focolare e madre prolifica al servizio della nazione tanto propagandata dal fascismo. La massaia, la protagonista del romanzo, inizialmente tenta di inserirsi nella società contemporanea, adeguandosi ai codici di comportamento imposti. Così facendo, però, si accorge di perdere se stessa. Secondo Silvana Cirillo Nascita e morte della massaia affronterebbe il tema del difficile rapporto dell’intellettuale con il suo tempo e rispecchierebbe 184 Ivi, p. 94. Ibid. 186 Ivi, p. 70. 187 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 49. 185 43 l’incapacità di Paola di vivere serenamente nel proprio ruolo di padrona di casa durante il soggiorno veneziano.188 Le parole della Cirillo trovano conferma in quelle pronunciate dalla stessa Masino: Io ero diventata maniaca delle pulizie. Mostravo una mollica alla cameriera, poi la nascondevo. Lei doveva trovarla prima di sera, buttando all’aria tutta casa. Bontempelli disse di scrivere il libro per spiegare la stranezza. Gli dissi. Sarebbe come psicanalizzarmi. Lui insisté. Io scrissi il romanzo. Avrei dovuto morire allora, perché non avevo più niente da dire.189 L’insofferenza provata per un ruolo da lei sempre rifiutato non si placherà mai; alla madre scrive il 10 giugno 1946: Se non ti scrivo è perché ho molto da fare e la gente non capisce che io abbia molto da fare. Tutti dicono: «ma se veniamo un momento alle sette che noia vi dà?». E non capiscono che venire loro un momento alle sette per me vuol dire vestirmi e rimettere in ordine la casa e interrompere quello che stavo facendo e stancarmi per una o due ore a sentire discorsi che non m’interessano e vedere facce che non mi sono gradevoli.190 Nelle righe successive aggiunge: «Più tardi siamo andati in gondola per la laguna e Ciampi suonava il violino e anche allora tutti dicevano che era molto bello e io avevo una gran voglia di essere a Roma sulla circolare in mezzo al tanfo e ai pidocchi ma tra gente viva».191 Il paesaggio veneziano non riesce a distogliere la mente di Paola dall’immagine dell’amata Roma o di Milano, città in cui l’autrice aveva sperimentato una serenità ormai completamente scomparsa a Venezia: 188 Cfr. SILVANA CIRILLO, Nei dintorni del surrealismo. Da Alvaro a Zavattini umoristi balordi e sognatori nella letteratura italiana del Novecento, Roma, Editori riuniti, 2006, pp. 125-126. 189 Ivi, p. 255. 190 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 133. 191 Ibid. 44 Io non faccio che sognare Roma e Milano ma non vedo proprio come si potrà mai fare a spostare questa casa. […] Cara mamma, che voglia avrei di essere lì a girare per le piazze e vedere e sentire; qua nessuno si occupa di nulla e trovi gente come la Luciana che ha votato la monarchia perché non sapeva che scegliere e non le è nemmeno venuto in mente di non votare o dare la scheda bianca.192 L’ambiente del capoluogo veneto le risulta poco stimolante: è difficile rapportarsi con le donne del luogo così diverse da lei per idee e ragionamenti: Questa è la coscienza della maggior parte delle donne italiane. Ne sento un’altra per la strada che dice: «Io oggi mi sento arrabbiata a casa mia perché ieri mi avevano detto che votavano tutti per la monarchia. Poi vado a casa e mia mamma ha votato per la repubblica. A me la repubblica è più simpatica e se me lo diceva prima che anche lei votava la repubblica io manco me lo sognavo di votare per la monarchia!». Che vuoi farci? Bisogna pensare che sono tanti anni che questa gente è disabituata a pensare: il male è che credono di saper pensare e giudicano e criticano.193 Paola si sente depressa e privata di tutta la sua vitalità: ciò comporta la mancanza d’ispirazione e un certo distacco dall’arte e dalla letteratura: Io soffro davvero molto di non essere su un campo di battaglia più vivo di questo. […] devo essere un animale inferiore in questo momento, perché aborro dall’arte e l’idea di scrivere o andare a vedere i capolavori veneti mi fa drizzare i capelli. Sono così satura di queste cose.194 Gli eventi mondani non sollevano l’animo della Masino, la quale preferisce chiudere gli occhi e immaginarsi nella mente «qualche posto di Roma o di Milano dove <le> piacerebbe essere».195 Paola è da sempre amante del mare, ma lo scenario del Lido non suscita il suo interesse. Sono cupi i toni usati per descrivere il paesaggio circostante e la gente da lei incontrata abitualmente: 192 Ivi, p. 134. Ibid. 194 Ivi, p. 135. 195 Ivi, p. 136. 193 45 io ero perfettamente infelice. Il mare caldo, pieno d’alghe, stupido. Il panorama, se ti volgevi a terra, ancora più caldo, senza un albero, e ancora più stupido con sopra un cielo opaco, giallastro di calore, l’ignobile costruzione dell’Excelsior e gli ancora più ignobili reticolati sulla spiaggia. Non parliamo poi della compagnia. Tutta gente una più vuota dell’altra. A me dopo un quarto d’ora era venuto mal di testa e una voglia di dar mozzichi a tutti.196 Le immagini di un territorio veneziano degradato accrescono l’insofferenza avvertita nel suo animo e l’insoddisfazione per quella città aumenta in maniera inarrestabile. Sono suggestive nella loro negatività le descrizioni fornite: Venezia è deserta benché tutti dicano che è pienissima: deserti i caffè, deserte le calli e i restaurants. Il Lido è sempre più brutto, l’Excelsior vuoto e le poche larve che vi si aggirano sono vecchissime matrone mal vestite. Dove è la grande mondanità e la grande eleganza di cui parlano i giornali non so.197 La sua visione di Venezia e del Lido contrasta in maniera netta con quella dell’immaginario collettivo e non muterà nemmeno negli anni cinquanta, anni in cui la scrittrice non riuscirà ancora ad apprezzare lo splendido panorama lagunare, ma continuerà ad avvertire una certa carenza d’ispirazione: «il forzato riposo veneziano forse mi fa bene, ma certo mi istupidisce: non ho più voglia di leggere i giornali né alcun libro, non ho più idee, desideri, aspirazioni, ambizioni di alcun genere».198 Nascita e morte della massaia per un certo periodo sembra confutare la sensazione di una certa mancanza d’ispirazione avvertita in quegli anni da Paola. Tra l’ottobre del 1941 e il gennaio del 1942 le pagine della rivista «Tempo», diretta da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, ospiteranno il romanzo in 196 Ivi, p. 140. Ivi, p. 144. 198 Lettera alla madre del 18 marzo 1950. Ivi, p. 150. 197 46 quindici puntate settimanali.199 Grazie a questa pubblicazione Paola entra nella cerchia degli intellettuali di prestigio, anche se, su sua stessa ammissione negli anni sessanta, lei non se ne era accorta: occorre crederci davvero, a quell’importanza e a quel privilegio: non vederne l’ingiustizia, la fallacità, la meschinità. Non vederci, quando ci siamo arrivati, quali siamo davvero, ma quali quel posto ci fa vedere agli altri. Veder chiaro è sempre stato il mio difetto; e la mia colpa, dire quel che vedevo. Quando ci si è dentro, in quella luce, crediamo di muoverci con naturalezza. Ma non è vero. Inconsciamente ci muoviamo secondo un rituale preciso, con il passo studiato delle indossatrici di passerella, e anche quando assumiamo la parte di chi si sente un uomo qualunque, sappiamo di essere qualcuno.200 La pubblicazione su «Tempo», tuttavia, non è stata immediata: Paola ha dovuto correggere e tagliare episodi ed espressioni giudicate irrispettose nel rigido clima fascista. In una lettera del 27 gennaio 1941 spiega ai genitori: Alberto Mondadori ne pare molto soddisfatto ma mi ha rimandato indietro la prima parte del manoscritto con tante censure «politiche» e io non credo di potergli levare tutte le frasi che gli sembrano pericolose perché in alcune sta proprio gran parte dell’importanza del lavoro (se importanza sono riuscita a dargli). Vuol poi che gli tolga tutte le frasi contro o quasi contro la maternità mentre tutta la Massaia è imperniata sul fatto che la maternità non è una virtù ma una condanna, almeno dalla Bibbia in poi. Naturalmente questo, se ognuno si mette a fare il caso personale e pensare alla propria madre, può dar fastidio, ma io vorrei che si capisse che la madre qui è presa in blocco, comprese finanche le bestie e dunque soltanto il fatto materiale che porta con sé i figli e la società, come diminuzione dell’individualità personale d’ogni creatura: maschio o femmina.201 Nel 1944 il romanzo, depurato di ogni riferimento all’Italia e al fascismo, è pronto per la pubblicazione, ma un bombardamento distrugge la tipografia Bompiani e manda in frantumi il progetto di Paola.202 Solo due anni dopo, nel 1946, Nascita e 199 Ivi, p. 113. Ibid. 201 Ivi, p. 95. 202 SILVANA CIRILLO, Nei dintorni del surrealismo, cit., pp. 126-127. 200 47 morte della massaia uscirà riscuotendo un notevole successo di pubblico. Nell’articolo Rileggendo Paola Masino pubblicato sul «Bimestre» nel 1970, Anna Maria Ortese tratterà del romanzo, un’opera dove la disperazione intellettuale e la chiarezza del linguaggio – un linguaggio asciutto, preciso, tutto in piedi, senza la minima traccia di tempo – compongono un quadro estremo: potrà essere letto tranquillamente, e goduto, fra vent’anni, come qui pochi libri in anticipo, per maturità e intelligenza, sulla generazione cui appartengono.203 La Ortese sottolinea l’attualità del romanzo e sarà propria per la capacità del testo di rispecchiare la problematiche di ogni epoca, che verrà ripubblicato nel 1970 da Bompiani e nel 1982 da La Tartaruga.204 Nel 2009 uscirà per la Isbn Edizioni. Nonostante il successo riscosso con Nascita e morte della massaia, gli anni quaranta saranno amari per l’autrice: il 25 ottobre del 1945 muore Enrico Masino, il padre.205 Da tempo la scrittrice sente avvicinarsi tale momento e prova un’angoscia profonda: Uno degli ultimi anni, arrivando io a Roma da Venezia, e lui era già malato, mi venne incontro sulla porta del corridoio. […] Ogni giorno di più, ogni ora, aumentava in me l’angoscia di non ritrovarlo al mio ritorno, e quando mi avvicinavo alla nostra casa chiudevo gli occhi per il timore di vederne il portone mezzo chiuso. Ritrovarlo era una tal gioia che io non potevo parlare, né fermarmi a salutare nemmeno, prima d’essermi gettata nelle sue braccia. Quella volta […] Ci stringemmo così forte, senza parlare, che il petto mi faceva male e sentivo la forma lunga del suo che mi accoglieva, mi assorbiva, mi faceva posto nel suo cuore dolente.206 203 ANNA MARIA ORTESE, Rileggendo Paola Masino, in «Il Bimestre», novembre-dicembre 1970, p. 20 (in APM, serie Ritagli Stampa, Episodica e generale). 204 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 77. 205 Ivi, p. 52. 206 PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., p. 246 ora in EAD., Testi inediti dai Quaderni di Appunti, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, in «Avanguardia», n. 43, 2010, pp. 40-41. 48 La guerra è iniziata, la fame si fa sentire e Roma è occupata dai nazisti. In questo scenario apocalittico Enrico si spegne nella sua casa di Viale Liegi 6:207 Mio padre morì mentre io cercavo per lui un pezzo di pane bianco. Una mia amica che non lo conosceva mandò la sua cuoca a portargli una fetta di torta. […] La cuoca portò la fetta di torta la sera del 24 ottobre e mio padre morì la mattina del 25. La fetta era rimasta sul tavolino, intatta. A vederla ho proprio capito che cosa vuol dire “morto”. […] Poi rimase nella stanza vuota quel pezzo di torta che nessuno di noi osava toccare perché era stato il suo ultimo desiderio: anzi avremmo voluto conservarlo come un’ostia.208 Il dolore per quel padre che per lei era stato «come il cielo che contiene tutto»209 non si placherà mai e la scrittura, ancora una volta, risulta essere lo strumento ideale per dare sfogo alla sofferenza e per ricordare una persona amata ormai definitivamente persa. Inizialmente Paola concepisce il progetto di un libro per bambini intitolato Babbo, con Enrico Masino come protagonista,210 per poi dedicarsi ad una poesia intitolata Al padre. Il testo viene prima pubblicato sull’«Università» il 1 settembre 1946, successivamente211 nella raccolta Poesie del 1947. Nello stesso anno Poesie arriva al secondo posto nell’edizione di quell’anno del Premio della Ginestra212 e ottiene l’apprezzamento di intellettuali del calibro di Giorgio Caproni per la 207 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Paola Masino. Il finale ritrovato di Anniversario, in «Avanguardia», n. 52, 2013, p. 75. 208 PAOLA MASINO, Appunti 3, pp. 74-75 (in APM, serie Scritti, Appunti), ora in FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 53. 209 MARIA VITTORIA VITTORI, Case, cit., p. 14. 210 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Paola Masino, cit., p. 71. 211 PAOLA MASINO, Al padre, in «Università», n. 15, 1 settembre 1946 (in APM, serie Scritti, Pubblicistica). 212 Tra le carte dell’Archivio di Paola Masino è presente l’attestato della vittoria (serie Ritagli Stampa, Recensioni). 49 capacità della Masino di «testimoniare un temperamento sinceramente angosciatouna sofferenza della propria condizione e del proprio tempo».213 Nella poesia Al Padre Paola esprime il suo profondo desiderio di riconoscere la figura paterna negli elementi naturali, pur di poter continuare a godere della sua presenza: In te, petrosa quercia, per noi che sue bacche chiamava? o in questo faggio? o leccio? o in quel rugoso olmo di cui sàmare fummo? O forse in ogni arbusto, tralcio, filo d’erba, fiore; forse in estraneo cielo nell’ondulosa palma; in fondo al mare alga? Riconsegnato dalla morte al tutto e in me tua figlia come figlio posto e nella donna dal cui grembo alla vita dell’uomo mi traevi, non in noi morto, padre, dove ti nascondi o sveli? Se ci volgiamo verso te, ci vedi? Odi, se ti chiamiamo? Quando in sogno ci teniamo per mano sei tu avvinto là dove ti muovi? Ancora io cerco in te dimora. E tue le palpebre al mio dormire voglio; e la tua fronte, tetto; e i panorami del tuo cuore, unica terra. Uomo, guardavi sempre al cielo, e: – Vedi – narravi – quanti vascelli rosa per quel mare. Vanno e con loro va la vita, fino a sciogliersi in pianto. – Quanto, quanto pianto da noi e lacrime dal cielo su te pietra. Nella pioggia sepolto, forse con lei disciolto per le vene del mondo, negli alterni bagliori del sole e della luna, linfa di qual creatura, 213 GIORGIO CAPRONI, Poesie di Paola Masino, in «Fiera letteraria», 7 agosto 1947 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 50 quale creatura, o il tutto, invocheremo padre? Senti tu almeno universale dove, imperituro quale, dentro noi affannoso rincorrere memorie? e darti un corpo in quel che tu per noi corpo alla felice vita vestivi? Senti? Nei tuoi fiati ignoti è il respirare fosco di noi che, vive, usiamo il tuo soffio mortale. Nutrirci in te ancora e nutrirti per sempre in una, più ostinata della morte, amorosa rapina. – Sento –.214 Fin dai versi iniziali è evidente il tentativo dell’autrice di riconoscere il padre negli elementi della natura. Non è sicura che lui possa sentirla e, quindi, cerca ogni possibile forma di contatto con lui. Una serie di interrogative si rincorrono nei versi fino al ventiquattresimo, dove Paola spiega il motivo del suo comportamento: «Ancora/ io cerco in te dimora», ancora la Masino vuole avere il suo punto di riferimento. Inizia l’elenco delle caratteristiche del padre malinconicamente rievocate dalla figlia: le palpebre, la fronte fino a scendere ai panorami del cuore al verso ventinovesimo. Il dolore provato per la perdita è ed è stato forte, confessa l’autrice al verso trentaquattresimo, e per un attimo riprende la ricerca dell’elemento naturale dove il padre si è nascosto. Cresce la preoccupazione per l’impossibilità del defunto di sentire la costante inquietudine presente nell’animo dei suoi familiari. L’angoscia di non poter più stabilire un contatto con una persona così tanto amata e ormai perduta emerge dalla ripetizione dell’interrogativa «Senti?» all’altezza dei versi quarantatreesimo e quarantottesimo. L’incertezza lascia spazio alla consapevolezza della figlia di poter combattere l’odiata morte con l’«amorosa rapina» del ricordo. Solo a questo 214 PAOLA MASINO, Al padre, in EAD., Poesie, Milano, Bompiani, 1947, pp. 7-8. 51 punto, dopo tale rivelazione, giunge l’agognata e ormai inaspettata risposta paterna al verso finale: «Sento». Il dolore per la perdita di Enrico non sarà l’unico evento a sconvolgere la vita di quei tormentati anni quaranta: dopo la pubblicazione dell’articolo masiniano Gioventù fra due guerre sul «Popolo d’Italia» il 22 agosto 1943, la rottura con il regime è ormai definitiva. Alessandro Pavolini, ex ministro della Cultura popolare e nominato nel 1943 segretario del Partito fascista repubblicano della Repubblica Sociale Italiana, emette un mandato di arresto per la coppia.215 Sarà il critico Enrico Falqui ad avvertire i due scrittori tramite un messaggio cifrato per telefono a Maria Bellonci: «Maria avrei bisogno di quel macinino che ho visto l’altro giorno da lei. Ma subito». Maria: «Macinino?». Falqui: «Sì quel macinino da caffè veneziano». (Falqui allora abitava all’altro capo di Roma, in viale Giulio Cesare: impossibile raggiungerlo per farsi spiegare: la sua voce era affannata. Bisognava capire a ogni costo quel che le sue parole volevano significare). Maria ebbe un’illuminazione: macinino, Massimino, Masino. Cominciava a intuire che era un avvertimento per noi. Falqui insisteva: «Non posso venire a prenderlo fin lassù. Debbo partire tra poco. Mi faccia la cortesia: me lo lasci da Bruno». «Va bene» risponde Maria «esco subito a portarglielo».216 Falqui aveva avuto profondi contrasti sul piano ideologico e letterario con Bontempelli, tanto da stroncare l’opera di esordio Angelici dolori di Anna Maria Ortese, solo per colpire Massimo, in una recensione pubblicata su «Quadrivio» il 9 maggio del 1937.217 Sono tempi duri per la coppia costretta a condurre uno stile di vita estremamente precario, come Paola stessa ricorderà negli anni sessanta: 215 EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 110. Ivi, pp. 110-111. 217 Ivi, p. 110. 216 52 le nostre sere e le nostre notti erano piene di informazioni miracolosamente ricevute e trasmesse, di incredibili manipolazioni dei più incredibili cibi (bucce d’arancio e ghiande abbrustolite per il caffè, dolci di vegetina, erba dei prati e germogli strappati ai muri dei giardini per verdura, carne ignota manipolata nei modi più astrusi per mascherarne l’ignoto sapore – vannino? carne umana? gatto?) e poi il preparare improvvisati giacigli per improvvisi ospiti, trasmettere ordini e notizie con telefonate la cui interpretazione esatta comportava l’unica speranza di salvezza.218 L’avvertimento da parte di Falqui si rivelerà provvidenziale: Pavolini, infatti, aveva emanato un ordine di deportazione per Paola, mentre su Massimo gravava una condanna a morte. Falqui aveva visto la lista delle future deportazioni da Giorgio Vecchietti, direttore della rivista «Primato» e amico di Bottai. Durante l’esilio veneziano Bontempelli si era avvicinato al comunismo. Probabilmente proprio questa scelta aveva spinto Pavolini ad emettere una sentenza così spietata.219 Le divergenze tra Falqui e Bontempelli saranno destinate ad appianarsi a giudicare da una serie di lettere indirizzate a Paola, dove il critico non dimentica di augurare buon lavoro a Massimo220 oppure lo ringrazia per aver dato il consenso alla riproduzione di una parte «del suo bel «Verga»».221 Nella corrispondenza emerge la stima nutrita da Falqui per l’autrice: Gentilissima signorina Masino, Il dattiloscritto è già in tipografia. Se domani mi consegnano le bozze, subito gli le spedisco, purché me le restituisca a giro di posta. Siamo in ritardo. Non aggiungo complimenti: 218 Ibid. Ivi, p. 111. 220 Si tratta di una cartolina del 19 novembre del 1940 dove Falqui esprime la curiosità provata durante la lettura di un racconto, di cui non precisa il titolo, inviatogli dalla scrittrice. È evidente, quindi, come già a questa altezza ci fosse una collaborazione tra il critico e l’autrice. ENRICO FALQUI, Cartolina a Paola Masino, Roma, 19 novembre 1940 (in APM, serie Corrispondenza, Corrispondenza indirizzata a Paola Masino). 221 La citazione è un estratto di una cartolina inviata alla Masino il 3 novembre del 1940. ID., Cartolina a Paola Masino, Roma, 3 novembre 1940 (in ivi). 219 53 I, non Le abbisognano; II, si sottintendono; III, la «tipografia» parla per il Suo Falqui222 È evidente l’originalità dimostrata dal critico nell’esprimere il proprio apprezzamento per Paola, alla quale sente di poter sfogare il suo sdegno per le dicerie circolanti sulla sua attività di critico: Roma, 23 ott. ’40-XVIII viale Giulio Cesare 71 Gentilissima Masino, Aspetto senz’altro il racconto. Ma non per modo di dire. L’Almanacco di quest’anno sarà dedicato alla giovane narrativa italiana e un suo racconto, dunque, occorre ad ogni costo. Tutti direbbero che ho fatto camorra e certe cose lasciamole dire agli imbecilli o alla gente di poca fede. Sbaglio? No, che non sbaglio. Aspetto il racconto. Con tanti ringraziamenti e augurî. Falqui Gianna contraccambia i saluti molto cordialmente.223 La stima nutrita da Falqui per Paola rimarrà intatta negli anni: nell’articolo La massaia, ieri e oggi pubblicato sul «Tempo» nel luglio del 1970 sottolineerà la necessità di riconoscere il talento dell’autrice, ormai caduta nell’oblio e condannata ad una «Strana e ingiusta e nociva trascuraggine» per la quale «spetta […] d’essere risarcita».224 222 Si tratta di una lettera scritta su carta intestata della rivista romana «Circoli» dove viene indicato il giorno e il mese (15 luglio), ma non l’anno in cui è stata scritta. ID., Lettera a Paola Masino, Roma, 15 luglio (in ivi). 223 ID., Cartolina a Paola Masino, Roma, 23 ottobre 1940 (in ivi). 224 ID., La massaia, ieri e oggi, in «Tempo», luglio 1970 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 54 Le numerose difficoltà e l’occupazione nazista di Roma non impediscono alla coppia di portare avanti il proprio lavoro letterario. I due scrittori insieme a Piovene, Maria Bellonci, Elena Maselli e a Savinio fondano la rivista «Città». Il periodico conterà solo sei numeri, dall’11 novembre al 21 dicembre del 1944.225 Dopo la guerra Paola e Massimo si trasferiscono a Milano, in via Borgonuovo. Le condizioni di vita sono precarie e il capoluogo lombardo porta le ferite ancora aperte della guerra: l’impressione angosciosa che mi ha fatto Milano è indescrivibile. Sembra lo spettro di quello che fu. Fisicamente è malvagiamente mutilata ma quello, soprattutto, che ti sgomenta, è la paura della vita che ha preso tutti gli abitanti; dal terrore banale dei briganti […] al panico di dover intraprendere un’industria o un commercio. Tutto è fermo; in terra la malta alta 10 cm, sicché ogni volta che hai traversato Piazza della scala, sembra tu torni da un’escursione in aperta campagna. Tutte le strade vuote, interminabili pareti dalle occhiaie vuote con dietro il cielo e la pioggia tra l’intrico delle travi contorte. E negozi illuminati appena, e dovunque tu ti volga, un senso di lasciare andare, di provvisorio, di stanchezza. Solo l’odio per Roma fiorisce qui gagliardo ma molto ingiustamente. Insomma: a queste condizioni preferisco Venezia.226 Paola si dedica alla scrittura giornalistica con le due rubriche Moda e La lanterna di Diogene, riguardanti i problemi familiari, sulla rivista «Spazio», fondata e diretta da Salvato Cappelli. Massimo ne è il condirettore e il primo numero del periodico, che chiuderà nel 1946, appare il 15 dicembre del 1945.227 Il lavoro riesce a distogliere per alcuni momenti l’attenzione dell’autrice dall’atmosfera di angoscia e disperazione della Milano del primo dopoguerra. In una lettera del 23 dicembre del 1945 indirizzata alla madre confesserà: «Ho paura che la disperazione dei milanesi abbia disancorato anche me dalla vita».228 225 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 112. Ivi, p. 120. 227 Ivi, p. 121. 228 Ibid. 226 55 I.3. «Ho collaborato e collaboro a quotidiani e riviste»:229 la pagina di giornale come palestra di scrittura. La pagina di giornale rappresenta per Paola Masino un’autentica palestra di scrittura. La rivista bontempelliana «900» è il luogo del suo esordio con l’articolo di cronaca Musiche di Bontempelli alla «Quirinetta» e al «Circolo Giordani».230 Quotidiani e riviste accolgono poesie e racconti prima della loro pubblicazione in volume. L’articolo rappresenta il mezzo privilegiato dove esercitare la propria capacità di analisi della realtà. Quest’ultimo aspetto è interessante, perché nella sua attività di pubblicista la Masino si concentra nella trattazione di temi quali l’infanzia, la famiglia e la donna. Gioventù fra due guerre, l’articolo apparso sul «Popolo d’Italia» il 22 agosto 1943231 e motivo dell’ordine di deportazione della scrittrice emesso da Pavolini, spicca per la durezza di toni utilizzata nella descrizione di una nuova generazione derubata del proprio futuro. L’articolo inizia rivolgendosi a questa stessa gioventù: Bambini, durante l’altra guerra, ci veniva promessa dalle mamme e dai babbi umiliati per la nostra malinconia, una giovinezza piena di balli e bistecche e viaggi per i continenti. Viaggiavamo intanto sulle cartine d’Italia e portavamo a scuola il sacchetto con dentro la razione di pane giornaliera e lo economizzavamo, se possibile, per il babbo che è più grande e consuma di più. Vedevamo la mamma molto pallida avere capogiri, appoggiarsi alle porte e alle tende e ci pareva l’imitazione di grandi attrici di moda e un poco ne ridevamo e molto la invidiavamo. Più tardi capimmo che era fame e la ammirazione s’irrigidì in odio contro la politica […]. Era il tempo delle favole, per noi, ma le madri le 229 ELIO FILIPPO ACCROCCA (a cura di), Ritratti su misura di scrittori italiani, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 270. 230 BEATRICE MANETTI, Modelli di donna e lettrici reali nella pubblicistica di Paola Masino, in «Il Ponte», n. 12, dicembre 2003, p. 108. 231 PAOLA MASINO, Gioventù fra due guerre, in «Il Popolo d’Italia», 22 agosto 1943 (in APM, serie Scritti, Pubblicistica). 56 interrompevamo per correre a sorvegliare i magri peperoni in cucina, era il tempo degli abbracci per i genitori ma i lutti di Caporetto li interrompevano.232 Nonostante i dolori provocati dalla guerra: «Eppure […] amammo la guerra perché i nostri padri erano romantici e ci avevano insegnato a ritenerla un atto di disinteresse o un meditato personale sacrificio a un indiscutibile ideale».233 L’articolo del 1943 citato è un resoconto dei due conflitti mondiali vissuti dai fanciulli tra dolori e privazioni. Il tono è di invettiva, severo. Paola si serve della pagina di giornale per intervenire direttamente nella realtà, analizzandola. La disperazione di una gioventù bruciata dalle guerre traspare dalla descrizione di ragazzi ridottisi ad interrogare gli anziani sul significato, a loro sconosciuto, della normalità di una vita semplice. Avviene un autentico confronto generazionale in Gioventù fra due guerre: Noi no. Noi fermi tra quegli escrementi umani, negli angoli bui; e sempre le orecchie assordate dai canti. Non dovevamo mai dimenticarci della precarietà dell’uomo e della sua bassa natura, delle sue necessità più disgustose, delle sue ambizioni e delle sue più stolide vanità. Tuttavia, come l’erba che nasce dagli interstizi e vi si ostina benché venga di continuo calpestata, resistemmo.234 Sono frequenti le immagini forti utili a restituire l’idea di tutta la disperazione provata da una generazione derubata d’ogni speranza e incapace di cancellare i segni della prima guerra mondiale: «Alcuni riuscirono a cadere in estasi e a prevedere i tempi presenti, altri si buttarono in quel presente di allora e 232 Ibid. Ibid. 234 Ibid. 233 57 impazzirono, altri tesero una mano alla carità suprema e ritirando la mano trovarono qualche scompagnata parola di conforto».235 Il passo successivo di Gioventù fra due guerre è molto suggestivo: Paola riesce perfettamente a trasmettere l’immagine di quei giovani degli anni quaranta incapaci di godersi la spensieratezza della loro età: Torcemmo il capo con supremo disgusto. E questa volta, tra tanta sporcizia, era davvero ben difficile poter passeggiare con Aladino per le grotte di Arabi, con Amleto scendere nella fossa di Ofelia. Tutto il mondo, nonché una fossa, diventava un pozzo nero. […] Aspettammo e aspettammo avendo schifo sin d’ogni nostro movimento che c’imbrattava e rinnovava intorno a noi quel fetore. E intanto sempre più scavavamo in noi stessi, scendevamo nella cripta del nostro essere. Anche laggiù, ahimè, tutto s’inquinava tanta era la pressione esterna, tanto le esalazioni vi s’infiltravano. […] E tuttavia la nostra umana natura ci faceva ogni tanto desiderare l’aria del cielo consueto, e di muovere passi sopra invece che sotto la terra.236 È difficile rimanere impassibili di fronte ad uno scenario così tetro. La nuova generazione non può evitare di desiderare un bene così prezioso come la normalità. Nei passi citati si accumulano in maniera crescente termini e aggettivi appartenenti alla sfera semantica della sporcizia. Non esiste più un futuro e la situazione sembra destinata a rimanere immutata: «Provammo e non trovammo che tolleranza per il peggio e intolleranza per il meglio».237 La crudezza delle immagini e la forza delle parole utilizzate ha causato la censura di un passo dell’articolo:238 235 Ibid. Ibid. 237 Ibid. 238 La stessa Masino segnala la censura e allega all’articolo il passo citato in forma dattiloscritta. Ibid. 236 58 A centinaia, ma anonimi, partivano i giovani per espiare la loro pena. Con processi irrisori, su pene inesistenti, povera gente qualunque veniva fucilata e così mutilato anche quel possibile significato di sacrificio che si può, per aiutarci a viverla, dare una pena di morte. Tutto manomesso, imbrattato, usato per pulire i pavimenti delle caserme e degli uffici. E tutto nello stesso tempo diventato commemorazione, inno, esaltazione.239 Le righe citate sintetizzano il significato di fondo dell’articolo: i giovani sono stati costretti di nuovo a sacrificarsi in nome di una guerra scatenata da altri. La società degli anni quaranta tende a reprimere l’individuo. Paola non è disposta a soccombere e, per questo motivo, nelle righe iniziali di un articolo intitolato L’antico errore e pubblicato su «Città» l’11 novembre 1944240 sottolinea l’obiettivo perseguito insieme agli altri giornalisti del periodico: Mentre voi scendete nell’oscurità vi racconterò come, appena noi otto amici ebbimo pensato di fare questa Città ove potere ognuno di noi abitare e muoversi liberamente secondo la propria coscienza e non secondo utilità contingenti altrui.241 La libertà di poter decidere liberamente dei propri scritti senza dover compiacere nessuno è l’obiettivo perseguito da questi «otto amici». L’articolo prosegue affrontando il tema del lavoro femminile: Tutto il lavoro, il pensare, l’agire umano, quello appartiene anche a noi, in parti uguali. E non come una conquista, e non come un diritto, ma come un dovere. E finora con la compassione […] il più doloroso di tutti gli atteggiamenti umani, con l’adulazione e con l’amore e con l’odio ci avete tenute in uno stato subalterno, per cui gli applausi ci venivano traverso la sorpresa, l’uguaglianza traverso la condiscendenza. Non vogliamo vantaggi, in partenza, né svantaggi.242 239 Ibid. EAD., L’antico errore, in «Città», n. 1, 11 novembre 1944 (in ivi). 241 Ibid. 242 L’uso del corsivo è originale. Ibid. 240 59 Il lavoro femminile, secondo Paola, deve essere valutato solo in base ai risultati ottenuti, perché non diverge in nessun aspetto da quello maschile. Le donne stesse sono responsabili della loro posizione svantaggiata e la colpa non è da attribuire esclusivamente all’uomo: L’errore più grande commesso dalla donna è stato quello di spargere il senso materno su tutta la materia, allargare il proprio grembo, via via che i figli crescono, agli oggetti, all’aria, al cibo di che si va impastando la vita di quei figli. A poco a poco ella s’è chiusa nelle più ossessive necessità umane. Questo, credo, neanche Dio aveva previsto quando divise in parti, quanto disuguali!, il castigo del maschio e della femmina.243 La donna-madre si è ritrovata imprigionata in un circolo vizioso dal quale non è in grado di fuggire. Paola, quindi, sfrutta lo spazio dell’articolo trattando tematiche sociali e, di conseguenza, intervenendo nella realtà. Sempre nell’Antico errore del 1944 afferma: Preferisco sbagliare tutto ma buttarmi a capofitto dando la mano alla pazzia illuminata e cosciente che può anche chiamarsi poesia. Da un pensiero poetico molte azioni hanno avuto origine e qualche azione finisce in un poetico pensiero.244 Durante il periodo bellico l’analisi della società rappresenta uno degli interessi principali della Masino giornalista. In Pregiudizi, apparso su «Città» il 23 novembre 1944,245 individua nell’egoismo e nell’eccessivo individualismo le cause dei mali del proprio tempo: «È dannoso a tutta l’umanità che il singolo non 243 Ibid. Ibid. 245 EAD., Pregiudizi, in «Città», n. 2, 23 novembre 1944 (in ivi). 244 60 pensi materialmente al benessere di tutti per essere sgombro d’ogni fastidioso dubbio o rimorso quando si trova a procedere solitario nel proprio pensiero».246 L’artista ha, quindi, il dovere di affrontare tematiche sociali evitando, però, di concentrare la sua arte nel raggiungimento di quest’unico obiettivo: «l’arte portata a un’utilità attuale, come sono tutte le attività politiche, perde il suo valore di profezia e diventa perfettamente inutile».247 Paola è consapevole di come la sua concezione di arte non sia condivisa da tutti gli intellettuali e nel Soggetto è l’uomo,248 uscito su «Città» il 30 novembre 1944 osserva: mi infastidisce o mi umilia l’accanirsi di alcuni artisti nell’affermare il loro diritto al distacco e al disinteresse dalla storia; il non saper essi sentire, con le orecchie unicamente abituate ai soavi accordi lirici e tonali, le ore cruente che ci ronzano sul capo, senza avvedersi del lacrimoso fango in cui moviamo i passi.249 L’artista ha un compito specifico: E quale altra collaborazione può offrire l’artista al non artista nei momenti più mescolati della loro comune storia se non quella di trasportarlo su un piano ideale, indicargli sotto il precario l’eterno, riannodare i fili delle speranze che via via si sono spezzati?250 Gli intellettuali della sua epoca Vanno in tondo, come sui cavallucci delle giostre, in quel pezzo di panorama che gira con loro, e ne fanno elzeviri, quadretti e libriccini, si ammirano l’un l’altro al passaggio, si scrivono a vicenda prefazioni e dediche, critiche e chiarimenti: 246 Ibid. Ibid. 248 EAD., Il soggetto è l’uomo, in «Città», n. 3, 30 novembre 1944 (in ivi). 249 Ibid. 250 Ibid. 247 61 sognano di compilare un diario tutto sensazioni e anche a ottant’anni di morir giovani.251 È possibile, quindi, dare una definizione di arte: tanto più alta è l’arte tanto meno dimentica i caratteri particolari dell’uomo; tanto più è disinteressata quanto più ogni tanto ridiscende a terra dall’esaltazione o risale a galla dagli sprofondamenti per darci testimonianza della sua umana natura.252 Dare testimonianza significa anche riconoscere e descrivere la tenacia e l’inventiva dimostrata dalle madri, durante la guerra, per procurare il cibo ai figli,253 perché «L’arte non inganna mai, l’arte non tradisce, l’arte, chiamatela pure d’evasione, non fa che annunciare e denunciare e tanto più crede di essere disinteressata tanto più ti immerge in una realtà indistruttibile».254 Solo in questo modo l’individuo potrà acquisire piena consapevolezza della propria condizione e dell’epoca in cui sta vivendo. Di conseguenza la società vedrà il progresso. La donna, ad esempio, deve uscire dalla cecità: la Masino, nell’articolo Madri, padri, figli pubblicato su «Spazio» il 13 gennaio 1946,255 dichiara: Non credo a una iniziale differenza di capacità femminile nei riguardi della società, dell’arte, dell’amore. Zitelle si nutrirono, abbandonate allevarono i propri figli, sovrane guidarono i loro popoli, donne che ebbero un odio uccisero e quelle che ebbero un amore si sacrificarono e altre che avevano malvagi istinti vi si abbandonarono coscientemente e altre si macerarono in castità né più né meno degli uomini. Che poi, entrando a sceverare la vita consociata attuale vi si trovi la donna in uno stato di vassallaggio rispetto all’uomo è un po’ vero, ma è pur vero che in gran parte vi è per suo volere e pigrizia.256 251 Ibid. Ibid. 253 EAD., L’ultimo nutrimento, in «Città», n. 4, 7 dicembre 1944 (in ivi). 254 EAD., Io e le favole, in «Città», n. 5, 14 dicembre 1944 (in ivi). 255 EAD., Madri, padri, figli, in «Spazio», n. 5, 13 gennaio 1946 (in ivi). 256 Ibid. 252 62 Anche i genitori sono una delle cause della condizione svantaggiata delle donne: se sono poche le volte in cui lasciano il figlio libero di percorrere le strade della vita da solo, alle figlie non concedono mai un simile privilegio: Gli lasciano l’argenteria, le coperte, le buone conoscenze, ma non si preoccupano di lasciargli il coraggio, la civiltà intima nata dalla generosità morale, l’educazione (non quella dei baciamano e delle miss, ma quella fatta di conoscenza dall’interno delle cose, di verità studiate alle origini, tolte le barriere e gli appannaggi sociali). A quanto dicevamo, il bambino non può essere condotto se non lasciandogli libero l’arbitrio, fin da piccino, per il solo fatto che egli è una creatura umana. Ma se alcune volte tale rarissimo privilegio fu concesso da alcuni genitori a qualche figlio, esso da secoli si è negato alla creatura nata femmina.257 Non è sempre facile, però, voltare le spalle ai genitori: nel passo seguente di Madri, padri, figli del 1946 emerge un chiaro riferimento al padre di Paola: Pochissimi hanno la forza, per mettere alla prova tutte le proprie possibilità, di voltare le spalle ai genitori: ai migliori genitori: a quella madre che tutto ti avvolge della sua materia e sempre ti difende abituandoti a essere inerme, a quel padre che, non contento di indicarti i sentieri delle scoperte ti ci vuole accompagnare, e non ti trattiene ma ti incita se tu, coi denti e le unghie ti metti, ti metti a scalare un impervio roccione, e se in cima al roccione tu trovi un fantasioso giardino o una tenebrosa foresta non ti richiama, come la madre, alla consueta vita con voci o pallori ma nella sua angoscia ancora ti sostiene e ti spinge, soltanto immerso nel pensiero di te. Un simile padre, che ha saputo farsi terra per reggerti e cielo per salvarti senza mai implorare un compenso a se stesso, un simile padre non muore mai, un simile padre diventa il pianeta medesimo e tu non perdi con la sua scomparsa le ragioni sotterranee che ti legano al passato e ti fanno tramite al futuro.258 Nel dopoguerra il tema della donna è fondamentale per la Masino giornalista e in Uomini, donne, amore,259 apparso su «Spazio» il 20 gennaio 1946, indica il modo migliore per affrontarlo: 257 Ibid. L’uso del corsivo è originale. Ibid. 259 EAD., Uomini, donne, amore, in «Spazio», n. 7, 21 gennaio 1946 (in ivi). 258 63 Chi, come alcuni di noi, ha superato il pregiudizio d’un simile quesito non si pone mai la domanda sulla donna e l’arte, o la donna e la famiglia o la donna e l’amore. Allo stesso modo non ci poniamo domande sull’uomo e la politica, sull’uomo e lo sport, sull’uomo e la moda. Pure sono problemi altrettanto vivaci, se non vivi.260 Gli uomini devono contribuire al miglioramento della condizione femminile, se vogliono loro stessi ottenere dei vantaggi. In Per voi, signori uomini del 17 marzo 1946261 Paola sfodera tutta la sua ironia quando, rivolgendosi ai suoi lettori, sottolinea come, durante le uscite pubbliche, non debbano preoccuparsi esclusivamente del proprio abbigliamento, ma soprattutto della propria accompagnatrice: E poi, se volete essere eleganti, uomini dovete scegliervi una bella donna da portare al fianco. Ma non una ragazza, ma non una creatura di lusso, abbiamo detto una donna. Una donna bella e pacata, una donna che anche se non ha nulla dietro la fronte, abbia quel passo vasto, quello sguardo pesante, quelle mani sicure che diano il senso del passato che promettano un avvenire conchiuso. […] una donna che puoi pensare madre, amante, omicida, santa, e che puoi rapidamente vestire con l’abito della nonna.262 La discriminazione della donna deriva da una diversità di linguaggi e dallo scontro tra differenti visioni della vita: in Due mondi segreti: il fanciullo e la donna del 13 febbraio 1948263 Paola sottolinea come Gran parte dell’incomprensione tra uomo e uomo, tra donna e uomo, tra popolo e popolo, tra una e l’altra razza, non nasce da violenza di passioni come generalmente si crede, ma da differenza di linguaggio. Intendendo per differenza di linguaggio la diversità del […] modo prospettico di vedere la vita […]. Ecco, ad esempio, uno dei più comuni errori che commette l’uomo adulto: considerare il bambino non un essere per sé stante […] ma un uomo piccolo che si avvicina e si fa più alto man mano che i suoi passi lo portano verso la nostra zona. 260 Ibid. EAD., Per voi, signori uomini, in «Spazio», n. 14, 17 marzo 1946 (in ivi). 262 Ibid. 263 EAD., Due mondi segreti: il fanciullo e la donna, in «La Repubblica», 13 febbraio 1948 (in ivi). 261 64 E quindi pretendere da lui […] atteggiamenti mentali che pretendiamo da noi stessi.264 La società è stata costruita su una serie di equivoci e fraintendimenti: solo la loro risoluzione comporterà l’unico e reale progresso. La maternità stessa è stata intesa per troppo tempo come annullamento dell’io della donna. In Madre atto d’amore,265 apparso su «Vie Nuove» il 27 giugno 1948, la scrittrice specifica: la grandezza, diciamo pure l’eroismo della maternità può riconoscersi nell’oblìo in cui la creatura madre si mette del proprio «io» così da diventare puro strumento di vita di un altro «io» che è quello della creatura nuova da lei generata. Si badi che generare […] vuol dire […] darle gran parte di sé medesimi, cuore, cervello, immaginazione.266 Le testate con cui Paola collabora sono numerose e di varia natura. L’autrice scrive, ad esempio, per «Cronache dell’Urbe», «Scena illustrata», «Versilia oggi» e «Video»267 o giornali politicizzati come «l’Unità». Non mancano articoli masiniani nell’«Almanacco della donna italiana»,268 mentre a partire dal 1946 si occupa di critica cinematografica per la «Gazzetta d’Italia», nel 1948 per «Risorgimento» e per «La Sicilia». I suoi giudizi implacabili le cuciono addosso la fama di cattiva. È molto diretta e cruenta nelle sue critiche: si narra addirittura di una feroce lite tra la scrittrice ed Orson Welles causata da un giudizio severo di Paola sul suo Macbeth.269 264 Ibid. EAD., Madre atto d’amore, in «Vie Nuove», 27 giugno 1948 (in ivi). 266 Ibid. 267 BEATRICE MANETTI, Modelli di donna e lettrici reali nella pubblicistica di Paola Masino, cit., p. 112. 268 MARINA ZANCAN, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998, p. 102. 269 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 144. 265 65 Nel 1950 inizia la collaborazione con il settimanale «Epoca» e con «Noi donne»,270 mentre dal 1951 al 1956 terrà la rubrica Confidatevi con Paola su «Vie Nuove», dove il 18 novembre 1951 scrive: il giornale è un po’ diventato il padre spirituale di molti; ognuno se ne sceglie un suo proprio; e anche il solo chiedere un consiglio di cucina vuol dire che di quel giornale accettiamo dal linguaggio al costume, dal sentimento alla morale e, perfino, alla nostra stessa catalogazione nel mondo.271 Paola ridurrà progressivamente le sue collaborazioni per interromperle definitivamente nei primi anni settanta per dedicarsi completamente alla cura dell’archivio di Massimo Bontempelli.272 270 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 56. 271 Ibid. 272 Ivi, p. 58. 66 I.4. «io mi sono trovata disoccupata nel mondo»:273 un doloroso cammino verso l’oblio. Dopo il successo di Nascita e morte della massaia qualcosa si è sgretolato nell’animo di Paola: ha la sensazione di non riuscire più a scrivere e inizia ad avere timore. Il 22 ottobre 1958 scriverà alla madre: «mi spiace constatare come ormai ci sia qualche cosa di rotto in me. Tutti gli altri sono molto più attivi e rapidi di quel che io non sia. Tendo a dormire in modo eccessivo».274 Nelle righe successive aggiunge: «Stamani ho cominciato a lavorare, ma siccome non ingranavo, verso le cinque ho smesso e mi son messa a scriverti questa lettera, che se non mi decido a finire, sta per diventare un romanzo».275 La preoccupazione per la vena creativa via via sempre più affievolita con il passare del tempo lascia spazio ad una spiccata insofferenza e ad una profonda insoddisfazione per la mancanza di un progetto letterario valido ed originale. Le lettere di questi anni indirizzate alla madre assumono toni sempre più cupi: Mi sono accorta che la cosa che più mi svuota è il dover parlare di cose che non mi interessano, dover fingere di interessarmi, e sentire il tempo che passa senza alcun costrutto, e non poter arrestarsi dal precipitare nel mare morto della vita quotidiana.276 La sensazione della scrittrice di non riuscire a rapportarsi con i propri tempi era già emersa nel 1951 nel corso di un’intervista: 273 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 186. Ivi, p. 162. 275 Ivi, p. 166. 276 Lettera alla madre del 31 agosto 1959. Ivi, p. 167. 274 67 per istinto naturale io sono portata a trovare tutto molto bello. Il mio desiderio sarebbe di scoprire in ogni creatura umana un santo e un eroe. Purtroppo assai più spesso trovo nel santo e nell’eroe l’uomo e magari la parte più meschina dell’uomo. Allora mi prende una disperazione per cui, come a dare a me stessa la disciplina, denuncio tutto quell’essere nei suoi peccati, senza perdono, senza tolleranza. Ne nasce quella che sembra nei miei scritti crudeltà e pessimismo. […] è disperazione. Quando uno è disperato, è amaro, è cattivo […]. Vedere tutto a piena luce, senza misericordia, e senza misericordia denunciare se stessi e gli altri per raggiungere quel bene, quell’assoluto verso cui tende la volontà. In genere l’uomo si è abituato ad accettare alcune pietose bugie che lo aiutano a vivere. A me questo non è stato concesso: ed è una maledizione.277 Per poi confessare: io non […] ho più progetti; io non preparo nulla. Non posso avere progetti per l’avvenire […]. So di non sbagliare percorrendo la via che ho scelta, ma so anche che probabilmente questa via mi renderà muta per sempre, perché i problemi di vita che vi si incontrano sono tanto grandi che è difficile parlarne. Almeno per me. Diceva Pirandello: «la vita o la si vive o la si scrive». Io la sto vivendo. E per ora ne sono contenta.278 In realtà gli anni cinquanta vedono l’inizio della scrittura teatrale masiniana: nel 1953 scrive il libretto d’opera per Viaggio d’Europa, tratto dall’omonimo racconto bontempelliano.279 Nel 1957 pubblica Vivì, scritto in collaborazione con Bindo Missiroli, mentre nel 1964 uscirà Luisella, tratto dall’omonimo racconto di Thomas Mann.280 La stesura di libretti d’opera proseguirà negli anni settanta con la Madrina, un inedito tratto dal racconto omonimo di Oscar Wilde ed eseguito nel 1973 e con Il ritratto di Dorian Gray, scritto in collaborazione con Beppe De Tommasi e pubblicato nel 1974.281 277 LEONE PICCIONI (a cura di), Confessioni di scrittori: interviste con se stessi, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1951, p. 60. 278 Ivi, p. 66. 279 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 83. 280 Ibid. 281 Ibid. 68 La situazione è destinata ad aggravarsi negli anni sessanta: il 21 luglio 1960 nella casa romana di Viale Liegi muore Massimo Bontempelli.282 In Appunti 7, scritto approssimativamente tra il 1959 e il 1963,283 Paola descrive la morte e la cremazione del compagno con un’attenzione ai particolari tale da trasmettere alla perfezione tutta la tristezza e la rassegnazione avvertita in quel momento: Quando morì Massimo avevo un vestito da spiaggia di tela bianca a grandi fiori gialli con rami azzurri e foglie nere. Una fantasia alla Gauguin, carica di colore e pesante di disegno […]. La morte di Massimo, ahimè, era ormai inevitabile e forse io mi sforzavo, sottolineando con il vestirmi più spensierato, di ritardarla fingendo a me stessa di non crederci e di non ammetterla […]. Così silenzioso, solitario, pudico e contenuto Massimo se ne andava, ignaro di noi, assorto in se stesso, che i miei tentativi miseri per trattenerlo e risvegliarlo alla vita, tanto più sottolineati da quei colori dell’abito, dovevano sembrare invadenti e volgari. E soffrivo anche di quella veste che indossavo, mi odiavo, avrei voluto subito strapparmela di dosso. […] Poi mi misi un vestito di crespo nero, stile impero, con due nastri che passavano sotto il petto e s’annodavano su un lato. […] l’ho portato per tutta quella estate. Con quello l’ho accompagnato al Verano, con quello l’ho visto cremare, ne ho visto raccogliere da suo figlio le ceneri, l’ho posto nell’urna. Lui aveva un pigiama di colore celeste pallido, filettato di bianco. E un bottone ne è rimasto intatto in mezzo alle ceneri. L’ho raccolto e portato con me. Il giorno dopo era un mucchietto di polvere candida, come finissimo sale.284 Paola non si limita a fare un semplice resoconto dell’accaduto. Il vestito diventa il simbolo del suo stato d’animo: l’abito «da spiaggia di tela bianca a grandi fiori gialli con rami azzurri e foglie nere» indica la reale difficoltà della scrittrice ad accettare il distacco dall’amato Massimo. L’attenzione sui colori è evidente dal terzo capoverso del passo citato: Paola descrive l’abito nero «stile impero», indossato alla cremazione di Massimo e, successivamente, durante l’intera estate, il quale rappresenta la presa di coscienza della perdita. Il nero era anche il colore delle foglie disegnate sull’abito da spiaggia. È interessante notare l’attenzione per 282 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 167. BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 175. 284 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 168. 283 69 il contrasto tra il colore nero e il bianco presente anche sul pigiama di Massimo «di colore celeste pallido, filettato di bianco». Non è la prima volta che l’autrice si sofferma su queste tonalità: in Appunti 7 erano già apparsi in un passo riguardante la morte del padre Enrico: Nell’ottobre del ’43 morì mio padre. E io sentii subito fortissima la necessità di vestirmi di nero. Ho portato il lutto per molti anni: forse non era più per mio padre né per me stessa. Era un vizio: l’amore al colore nero e al bianco non nasce mai da un semplice gusto, ma da una più riposta piega dell’animo e risponde a un atteggiamento mentale dell’individuo: mentre il bianco rappresenta l’esclusione di ogni colore, il nero è, di ogni colore, la somma. Volendo tradurre ai nostri fini questa legge fisica se ne dedurrà facilmente come colui che si veste di nero sia più disposto ad accogliere tutto il peso di una totale comunione con gli altri uomini, donde la sua maggiore capacità di sofferenza; e che il bianco, per essere bianco, non potrà che estraniarsi dalla vita altrui, ed avere disponibilità spirituali per se stesso, non per chi gli vive a fianco.285 La morte di Massimo toglie a Paola tutta la vitalità rimasta, rendendola sempre più insofferente verso la società contemporanea, della quale non condivide le modalità di espressione culturale. A proposito di ciò scrive in Appunti 7: Il colloquio comporta una o più voci singole che si aprono la via a vicenda verso le idee, dipanando e scegliendo e annodando pensieri. Il colloquio dunque comporta delle individualità, per esigue che siano, il che oggi non è più consentito. Oggi il discorso è consentito solo alle collettività, ma, mentre la richiesta di una collettività per un accrescimento di benessere familiare può essere espressa a una voce e trae proprio dalla forza della massa una maggiore urgenza, chiarezza, ed efficacia, il dialogo intorno a cose astratte, a sentimenti, o ad altro che nasca da una intima necessità personale non le è più consentito. Si può parlare collettivamente di ideologie politiche o artistiche perché basteranno due o tre voci ufficiali a denunciare i problemi di una categoria, ma non si può parlare collettivamente di amore, di gioia, di dolore, di morte, intesi come avvenimenti individuali, come scoperte singole, come posizioni personali, come reazioni di una creatura rispetto alle altre.286 285 286 EAD., Appunti 7, cit., pp. 322-323. L’uso del corsivo è originale. EAD., Io, Massimo e gli altri, cit., p. 171. 70 La società del tempo impedisce l’espressione alla singola voce e preferisce affrontare tematiche d’interesse collettivo. L’individuo, quindi, non è più in grado di formulare il proprio pensiero autonomamente: Ed ecco che, staccate alcune cellule di questa collettività dal ritmo collettivo e poste in un salotto a rivelarsi le une alle altre per dar modo […] ad accrescimenti e a fecondazioni spirituali, esse non trovano più né linguaggio né forma. Una cellula sola non farà altro che mettersi vertiginosamente a creare un tessuto o a navigare nel vuoto finché non incappi e non sia assimilata da un qualche tessuto.287 Lo stesso vale per gli intellettuali dell’epoca: In un primo momento, quando ancora gli ospiti son pochi, li vedi, in un silenzio d’attesa, ognuno guardare gli altri con un sorriso impacciato. […] il sorriso ha l’impaccio proprio di colui che vuol gentilmente mascherare la propria pietà. Tra quei sorrisi sospesi che stendono fili aracnei, fastidiosissimi, per la sala ogni tanto cadono brevi parole. Assolutamente disgregate tra loro, perché ognuno sta vorticosamente girando nella propria cellula cercando di uscirne.288 Paola non riesce ad apprezzare la propria epoca e ne sottolinea gli aspetti negativi. È ben consapevole di questa sua tendenza: So di stare scrivendo dei miei contemporanei come se io fossi affacciata a un balcone del secolo scorso, […] da fantasma, diciamo. […] ma non posso fare a meno di domandarmi se questa frenesia collettiva, distaccata, ironica, sia […] un atto costruttivo o distruttivo.289 La creatività non trova più posto nel mondo contemporaneo, perché viene soffocata dal rigore delle scoperte scientifiche: 287 Ivi, pp. 171-172. Ivi, p. 172. 289 Ivi, pp. 173-174. 288 71 Anche oggi tace l’arte o, per lo meno, da molti anni, non dice nulla di nuovo, e fiorisce in modo supremo la scienza. […] tutto è di dominio scientifico. L’arte, per contro, si affanna ed elucubra intorno a vecchi presupposti, tenta, divaga, ma non riesce a concludere. Ogni tanto sembra che qualcuno abbia trovato la via giusta e […] si vede subito che quel tanto di buono che può rimanerti fra le mani è roba vecchia, già risolta meglio, e dunque con una vitalità già esaurita, dai secoli precedenti.290 Tace anche l’arte di Paola: sono lontani gli anni dei successi di Monte Ignoso, Periferia e Nascita e morte della massaia. Nel 1961 la Masino cura per Mondadori i due volumi di Racconti e romanzi bontempelliani,291 ma non riesce a concepire il progetto di un nuovo romanzo. Negli anni settanta la crisi d’ispirazione cresce in modo inarrestabile. Solo la stesura dei suoi quaderni di appunti è continuata per tutti questi anni. In essi raccoglie le sue personali riflessioni inerenti la letteratura e la vita in generale e custodisce i ricordi d’infanzia, della madre, del padre e di Massimo: quel babbo […] aveva un sapore antico e vegetale che riempiva i polmoni di forza quando lo abbracciavo. Quella forza. […] Che abbandono e che ripresa […], nessuno abbraccio mi potrà dare mai più questo senso […] di risentirmi ramo inserito ancora, ancora, felicemente al suo unico tronco, e sopra me, come tanti altri rami fratelli e insieme protettori, i suoi occhi e la sua fronte pieni di luce.292 In seguito aggiunge a proposito del «babbo» e del compagno: Non so se per un uomo poggiare il capo sul petto della donna abbia quel valore assoluto di comunione, di abbandono nella sicurezza di sentirsi protetti che io provavo quando poggiavo il capo sul petto di mio padre o di Massimo. Come se mi riconsegnassi a un grembo spirituale, capace di comprendermi senza che io parlassi, e di assolvermi senza ch’io mi confessassi, e senza che io mi lamentassi in se stessi, quei petti, rifugio e consolazione. Il tepore, lo spessore, la vastità dei loro 290 Ibid. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 60. 292 PAOLA MASINO, Appunti 7, cit., pp. 245-246 ora in EAD., Testi inediti dai Quaderni di Appunti, cit., p. 40. 291 72 spazi, rammento: perché non erano più petti di uomini, ma come zone grigie di cielo, ove bonari lembi di nubi mi sostenevano e proteggevano dall’urto del mondo. […] Le mani di Massimo erano più bianche e leggiere; quelle di mio babbo più dorate e pesanti; nude quelle di Massimo e quelle di babbo ornate d’un cammeo color d’orzo bruciato. Mio padre sembrava tutto una grande foglia autunnale; una foglia di platano che scherzasse sul picciolo senza mai staccarsi e cadere. Massimo ricordava piuttosto certe pieghe d’ombra sotto le creste delle onde […]. Nel volto fermo di Massimo c’era un continuo ammiccare di luci bianche e di ostinati silenzi che salivano dal profondo […]. Babbo era molto più fanciullo nelle sue manifestazioni esteriori ma, nell’intimo suo, […] era assai dubitoso e timido e desolato. Massimo era assai più bambino nell’intimo suo, assai più pronto a ogni favola, a ogni avventura e fiducioso nell’imprevisto e nel prodigioso, e perciò all’esterno voleva rimanere calmo, in attesa e sembrava assai più maturo.293 Tra il 1947 e il 1950 l’editore Neri Pozza le aveva proposto di pubblicare i primi tre quaderni di appunti, ma la Masino non aveva accettato l’offerta ritenendo i suoi scritti inadeguati a un simile progetto.294 Nell’agosto del 1971 decide di tenere un diario giornaliero, destinato ad interrompersi qualche mese dopo: Cominciamo un diario, pur di scrivere. L’aborrito diario di chi non riesce più a crearsi intimamente e ha bisogno di proiettarsi di continuo nella realtà esteriore. L’aborrito diario, piedistallo dell’io […]. L’aborrito diario, mostra di vanità e di impotenza. La scusa del voler ricordare non serve. Quello che ci è valevole lo ricordiamo […]. No, scriverò un diario solo […] per trovare un filo minimo di «cose da dire» visto che, se continuo a tacere e a contemplare il mio interno sfaldamento tra poco sarò una clessidra con la testa vuota e sepolta fino alla vita nella polvere inerte della mia stessa esistenza. […] Più mi rendo conto di aver perso di capacità intellettuali, e più razionalmente me ne arrovello, meno ne soffro. Unica reazione, uscire, mescolarmi alla gente, darmi a un’attività qualsiasi. Comprare un chilo di patate o fare un solitario, telefonare a un’amica o pettinarmi (ma impossibile scrivere, impossibile leggere: sulle pagine entrano a folate pensieri contingenti e inutili e sommergono le righe e le risucchiano via confondendole in un’oscillazione di lettere che mi danno subito una gran sonnolenza. Credo di non aver mai dormito tanto in tutta la mia vita come in questi ultimi anni).295 Paola aggiunge in merito alla scrittura creativa e alla questione dell’ispirazione svanita: 293 Ivi, pp. 247-250 ora in ivi, pp. 41-42. BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 9. 295 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., pp. 179-180. 294 73 Ogni tanto, è vero, ancora di quando in quando immagino brani di un libretto d’opera, stralci d’un racconto, atmosfere d’una scena di romanzo, contorni di un personaggio. Ma sono baluginii, lampi di colore in un cielo di sorda ovatta. Meglio dunque tentare il più semplice e volgare dei diari con le annotazioni dei giorni, delle ore delle persone anonimamente, affidandone il rilievo al rilievo che essi hanno in se stessi, senza alcuna velleità d’interpretazione e di resa creativa.296 L’autrice nutre una profonda nostalgia per quegli anni in cui ha avuto il privilegio di frequentare assiduamente i personaggi di spicco del panorama culturale novecentesco. Si rende conto che è un’epoca ormai lontana: È come se qualcuno mi avesse raccontato la storia di una certa Paola che frequentava costoro. Di questa Paola non so e non vedo nulla […] e delle individualità che le mossero intorno vedo appena quel poco per cui le si affiancano. Tutto il resto […] è affidato alla storia. Se me ne sono nutrita […] me ne sono nutrita proprio con la stolta naturalezza con cui si mangia una bella pesca o si beve a una fresca sorgente. Non pensi che sia un privilegio l’averli incontrati […] e te ne sei saziata senza soffermarti più che tanto alla squisitezza di quei sapori, all’energia che te ne veniva. Era un tuo naturale diritto l’optimum, unicamente perché fin dall’infanzia l’avevi cercato e perseguito.297 Il rimpianto è forte, quasi insopportabile. Nelle righe successive la Masino riconosce nella mancata consapevolezza delle proprie capacità letterarie la causa della sua condizione. Lei stessa afferma: Non rendersi conto appieno delle proprie capacità è il primo passo verso il loro deterioramento. Le virtù […] sono case che ognuno di noi si deve costruire e poi mantenersele efficienti con la costante sorveglianza e con restauri, modifiche, aggiornamenti, abbellimenti. È una delle amministrazioni più costose e sfibranti; ma è la sola per cui valga la pena di battersi, perché verte sulla sola casa da cui non potrai mai essere sfrattato, e che puoi alienare mille volte al giorno e mille volte al giorno tornerà a essere tua, anche se un po’ manomessa.298 296 Ivi, p. 180. Ibid. 298 L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 181. 297 74 È come se la sua vita si fosse bloccata e l’autrice cercasse disperatamente di uscire dall’immobilità che l’attanaglia. Questa profonda inquietudine deriva dall’impossibilità di risolvere una simile situazione. In Appunti 11, scritto tra il 29 agosto del 1971 e il 30 giugno 1972,299 esprime tutta la sua amarezza: Distruggermi è la mia sola speranza di ricominciare da capo, benché oramai sia tardissimo. Ma prima di me stessa dovrei distruggere tutta la vita che mi stringe da vicino e questo è molto più difficile perché io non ho né il coraggio né la viltà dei prodi e dei pavidi. Sono, disperatamente, diventata una donna normale. Non c’è niente di più squallido e inutile a viversi. Per salvarmi dovrei mettermi per una strada e camminare finché i piedi mi portano. Lì cadere a terra e risvegliarmi senza più ricordare il mio nome e cognome, per incominciare con altri mezzi, un’altra vita. Per seguire nell’alienazione […] Massimo e durarci dieci anni, mi sono, senza accorgermene – e se me ne fossi accorta l’avrei fatto ugualmente – alienata anche io. E non solo da me stessa, ma da tutto ciò che non era Massimo; così, quando lui se ne è andato, io mi sono trovata disoccupata nel mondo.300 Nonostante gli innumerevoli sforzi Paola non riesce a ricostruire la propria carriera letteraria. Sente la «Solitudine orrenda di colui che ha creduto di non poter dare il meglio di sé perché travolto dalle meschinità della vita e – una volta libero da esse – si accorge che la propria solitudine s’è svuotata d’ogni contenuto!».301 E se venisse il solito ipotetico Dio a domandare di esprimere un voto, vorre<bbe> che i <suoi> pensieri cambi<assero> strada, che i <suoi> interessi si rinnov<assero>, che la <sua> fantasia trov<asse> nuovo estro e <la> conduc<esse> per vie che non h<a> mai sospettato.302 299 BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 176. PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 186. 301 EAD., Appunti 6, cit., p. 5. 302 Ivi, p. 23. 300 75 Il desiderio dell’autrice non viene esaudito e, quindi, si concentra nella sua nuova attività di traduttrice dal francese: tra il 1977 e il 1980 si occupa di Balzac, Stendhal, Barbey d’Aurevilly, Malot per finire con Madame de La Fayette.303 Nel 1984, in occasione di un’intervista rilasciata a Sandra Petrignani, parlerà a proposito del suo silenzio letterario: Problemi di ordine pratico, che col tempo sono diventati anche di ordine psicologico, mi hanno impedito di scrivere. Massimo è stato malato gravemente per molti anni e da allora mi sono dovuta adattare a scrivere un po’ di tutto: traduzioni, rubriche di corrispondenza, articoli vari, persino reportages sportivi. La notte dormivo pochissimo. Mi tenevo in piedi fumando anche cento sigarette al giorno. È stata molto dura.304 E aggiunge: «forse se avessi avuto un maggior talento, questo si sarebbe imposto e avrei scritto malgrado tutto. Oppure avrei accettato che anche altri si occupassero di Massimo».305 Paola si occuperà di Massimo anche dopo la morte di quest’ultimo. Continuerà a sistemare le carte dell’archivio e polemizzerà con Moravia, «a proposito della responsabilità bontempelliana nella scoperta dello scrittore»:306 l’autore del celebre romanzo Gli indifferenti odiava il compagno della Masino «perché era il solo che l’avesse aiutato, agli inizi, e lui non voleva essere grato a nessuno».307 Dopo una lunga malattia la scrittrice e giornalista Paola Masino si spegnerà in una casa di cura a Roma il 27 luglio 1989.308 303 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 63. 304 SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., p. 30. 305 Ibid. 306 BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 151. 307 Ibid. 308 MARIA VITTORIA VITTORI, Introduzione, cit., p. 26. 76 CAPITOLO SECONDO LA NARRATIVA DEGLI ANNI TRENTA DI PAOLA MASINO. II.1. «Il cielo era a volte verde come l’edera o rosso come un tulipano»:1 le suggestive immagini di Decadenza della morte. Decadenza della morte è una raccolta di racconti pubblicata dalla scrittrice nel 1931. Il titolo deriva dall’omonimo racconto che conclude l’opera. La lettura di questi scritti suscita la sensazione di non poter afferrare la loro trama e il loro senso. In realtà si tratta di una serie di testi, i quali anticipano i tratti salienti dell’intera produzione narrativa dell’autrice. Si rincorrono tra le righe stupende immagini e svariate personificazioni di entità astratte. Non mancano numerose pennellate di colori come il rosso e l’azzurro: il lettore può osservare «Un’iscrizione di luce liquida in tubi rossi e azzurri»,2 oppure «macigni […] che […] verso l’alto diventano azzurri e rossi».3 A Roma si scorgono «Cappelli rossi, azzurri, verdi di impermeabili che se ne vanno spavaldamente a Via Veneto».4 Un certo gusto per le sfumature cromatiche deriverebbe dalla suggestione provocata «fin dalla prima infanzia dalla presenza dei quadri di famiglia nella casa 1 PAOLA MASINO, Decadenza della morte, cit., p. 25. Ivi, p. 103. 3 Ivi, p. 89. 4 Ivi, p. 43. 2 77 materna in Toscana».5 Il padre ha un’autentica passione per la pittura moderna: la casa di via Appennini e, in seguito, la dimora di viale Liegi hanno appese alle pareti opere di artisti del calibro di Armando Spadini e Felice Carena, «coetanei e amici […] <di> Enrico Alfredo Masino».6 Nel 1922 Paola ha il privilegio di incontrare i fratelli de Chirico. Successivamente, durante il suo soggiorno parigino, conoscerà Picasso e De Pisis.7 L’autrice sarà amica del pittore Mino Maccari, autore dei disegni della sovracopertina del romanzo Poco di buono pubblicato da Enrico Masino presso Vallecchi nel 1942.8 Mino, inoltre, a partire dal 1938 avrà una casa a Montignoso, luogo di villeggiatura della famiglia della scrittrice.9 L’arte è un’altra delle passioni che Paola condivide con Massimo: con lui frequenta i caffè e i luoghi di ritrovo di artisti ed architetti, «interviene con scritti critici in occasione di mostre».10 Negli anni trenta la Masino verrà immortalata in numerosi schizzi e dipinti: Funi, Sironi, Salietti, De Pisis, de Chirico, Marini sono solo alcuni degli autori impegnati a ritrarla tra il 1929 e il 1931.11 Secondo Marinella Mascia Galateria questi suoi amici artisti <sarebbero> […] rivelatori di un altro importante aspetto della sua biografia intellettuale: l’interesse per le arti e in particolare per l’espressione pittorica, sulla cui natura, comparata con quella della scrittura, […] rifletteva sistematicamente.12 5 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 100. 6 Ibid. 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Ibid. 10 Ibid. 11 Ivi, pp. 102-103. 12 Ivi, p. 102. 78 Marisa Volpi nel saggio Ritratti di Paola sottolinea come le opere masiniane risentano dell’influenza delle correnti della «Metafisica e <dell’> Art-déco <. G>li anni Trenta furono soprattutto questo […]: un realismo trasfigurato di volta in volta da una certa magica surrealtà o dal grottesco della parodia».13 Il merito dell’autrice è quello di essersi dimostrata in grado di «trova<re un> modo di esprimere anche qualcosa di più intimo e drammatico»14 rispetto ai propri modelli. Le descrizioni sfruttano la potenza evocativa di suggestive similitudini, dove gli elementi naturali sono i termini di paragone. Il primo racconto intitolato Giuochi d’aria, ad esempio, dona al lettore il ritratto inusuale di una chiesa: La navata principale fu avvolta di chiarore tremante e il marmo si mosse leggermente come l’acqua di un lago. Le colonne delle navate minori si curvavano lente verso il centro come salici. I santi, gli altari, i grappoli di fiammelle di vetro, i cappelli cardinalizi pendenti dal soffitto, tutto era sparito. Se n’erano andati senza rumore e senza danze e la chiesa per la loro assenza era meno spopolata, più calda. Ora il pavimento bizantino ondeggiava anche sotto le navate minori e le ruote di marmo verde si movevano e s’incrociavano come i cerchi che il vento descrive sulle acque. E improvvisamente da quei cerchi sorsero due cigni vivi, morbidi, ricoperti di piuma, e scivolarono sulla superficie marmorea verso l’altare maggiore.15 L’abilità di Paola nella costruzione delle immagini è destinata ad accrescere sempre di più. Le personificazioni ostentano particolari stupefacenti. Singolare è, ad esempio, la descrizione della costellazione dell’Orsa Maggiore nell’omonimo racconto: L’ORSA Maggiore è la costellazione più nobile del cielo. Siede nel centro del nostro emisfero e intorno a quello gira placida senza mai tramontare. È ambiziosa ed egoista: vuol rilucere comodamente e con la coda spazza la notte, affastella e getta lontane le costellazioni di cattivo gusto, quelle più brillanti si dispone ai 13 MARISA VOLPI, Ritratti di Paola, in ivi, p. 104. Ivi, p. 106. 15 PAOLA MASINO, Decadenza della morte, cit., p. 18. 14 79 fianchi in modo che le diano più risalto, non oscilla mai, né viaggia per gli spazi duranti le notti d’agosto, parla soltanto a Cassiopea e alla Corona Boreale. Qualche volta si specchia.16 Se l’Orsa maggiore appare personificata, vanitosa e un po’ altezzosa, le onde e il cielo dell’Avventura divina a volte dimenticano il proprio compito: «Il cielo, il mare, la spiaggia della città marinara, erano attoniti e fermi. Le onde si dimenticano di arrivare a terra e il cielo di curvarsi sull’orizzonte».17 Paola è molto affezionata alla sua città, Roma, e per questo motivo le rende omaggio dedicandole le più belle immagini della raccolta, oltre a raffigurarla in alcuni dei racconti contenuti nell’opera: Terrazze su Roma, Orsa Maggiore, I nuovi fantasmi di Roma. Terrazze su Roma descrive la città come una splendida donna intenta a sistemare la propria immagine. Vuole ammaliare i passanti e ci riesce. Il passo seguente testimonia l’abilità della scrittrice: Roma ha scelto i fili telefonici come sua chioma, e le piace dopo averli lavati stenderli ad asciugare al sole. I parrucchieri che la ondulano l’hanno infiocchettata di grappoli bianchi di porcellana. Così adorna, ella sorride, a chi la guardi da quelle terrazze asfaltate, come la donna reclame di un dentifricio.18 E ancora: Roma si è risvegliata si è messa una vestaglia che le ricamatrici le hanno preparata, si è scoperta i seni, e se li adorna con perle che le ambasciatrici cercheranno di rubare il giorno della presentazione a corte […]. Vedendola passare, i bambini, dai balconi, la incitano con gridi.19 16 L’uso del maiuscoletto è originale. Ivi, p. 49. Ivi, p. 75. 18 Ivi, p. 41. 19 Ivi, p. 43. 17 80 Le vie della città eterna si distinguono per caratteri e diversi atteggiamenti. Starà al turista decidere da quale strada farsi conquistare: Il Corso Umberto penzola sul cielo con rilassatezza. Ha una voglia irresistibile di staccarsi e di formare costellazione a parte. Borbotta sempre. A volte diventa matto furioso ferma i passanti e li incita alla rivolta, paga i giornalisti perché urlino a squarciagola e coprano il suono delle sue parole tendenziose. Si dondola, gioca all’altalena, balla le danze di moda, pesta i piedi, e si mette le dita nel naso. I metropolitani non riescono mai a fargli la contravvenzione. Non ha nessuno scrupolo di raddoppiare con la propria indisciplinatezza il lavoro di via Due Macelli. […] via Due Macelli, sola, […] quando è stanca ha il privilegio di potersi affacciare, da un pezzetto di veranda che fa anche parte della sua casa la quale lo ruba a piazza Mignanelli, su un giardino fantastico. Se vuole, salta a piedi pari dalla veranda nel giardino e cade esattamente in mezzo a una fontana davanti ai fiori dai quali nasce l’arcobaleno di Roma.20 Il gusto per la personificazione sarà presente anche in Periferia, romanzo pubblicato nel 1933. Questa volta saranno i mesi dell’anno ad assumere sembianze umane. È il caso di aprile, il quale vuole realizzare i propri desideri, ma poi ci rinuncia e lascia il suo posto al mese di maggio: Aprile trascina in mezzo alle giovani agonie il desiderio di nulla e di sognare uomini maturati in un sangue denso. Ma improvvisi amori sgorgano a superare la morte e il senso vigile dell’Aprile si allontana dagli esseri, entra nel nirvana, onde è scaturito, ci abbandona a una torturata inquietudine e al maggio patetico.21 Nel volume dal titolo Finzioni e confessioni. Passaggi letterari nel Novecento italiano Rita Guerricchio parla di «realismo magico di Paola Masino».22 La studiosa prosegue sottolineando come «l’entusiasmo manifestato da Bontempelli 20 Ivi, pp. 52-53. EAD., Periferia, Milano, Bompiani, 1933, p. 160. 22 RITA GUERRICCHIO, Finzioni e confessioni. Passaggi letterari nel Novecento italiano, Napoli, Liguori Editore, 2001, p. 55. 21 81 nel ’31, nella sua Presentazione a Decadenza della morte»23 sia «equivalente alle felicitazioni per un arruolamento riuscito».24 Paola riprende i tratti del realismo magico bontempelliano creando uno stile del tutto originale. Lo stesso Luigi Baldacci, nell’articolo Gadda e la Masino: due classici del disordine pubblicato su «Epoca» nel 1970, dipinge l’autrice come una sorta di Eva uscita dalla costola di Adamo.25 «<Q>uella somiglianza»,26 si affretta ad aggiungere, «è <, però,> tutta una differenza».27 Dello stesso parere è Giamila Yehya, la quale, in «Avanguardia» nel 1999, giudica «eccessivo»28 interpretare lo stile masiniano come «mera imitazione dei dettami novecentisti».29 In realtà «accad<e> proprio il contrario»:30 in seguito alla morte di Massimo «la stessa Masino»31 decide di «rinunciare alla sua voce artistica […] per occuparsi interamente dell’opera del suo compagno».32 Si tratta di «una scelta ben precisa».33 La Yehya ammette come ci siano diversi «punti di contatto»34 tra lo stile bontempelliano e la scrittura di Paola, nonostante ella si sia sempre impegnata a non «perdere <mai> di vista il suo personale ed unico carattere».35 Massimo e la compagna condividono «quell’idea di “pericolo” che comporta la creazione artistica»:36 secondo l’autrice lo scrittore deve abbandonare ogni convenzione e pregiudizio sociale, «quel pesante fardello ideologico e stilistico che nel 23 Ivi, p. 56. Ibid. 25 LUIGI BALDACCI, Gadda e la Masino: due classici del disordine, in «Epoca», 5 aprile 1970, s. p. 26 Ibid. 27 Ibid. 28 GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 112. 29 Ivi, p. 111. 30 Ivi, p. 112. 31 Ibid. 32 Ibid. 33 Ibid. 34 Ivi, p. 113. 35 Ibid. 36 Ibid. 24 82 complesso <viene> a costituire la facciata ipocrita del pensiero e della vita».37 Solo così l’artista può scorgere le forze della «propria immaginazione, le intuizioni della fantasia»,38 lasciandosi guidare da esse. Nel «primo cahier»39 di «900» del 1926 Bontempelli sostiene la necessità di abbattere ogni regola, lasciando spazio ad una nuova tipologia di letteratura.40 Si tratta, quindi, di ricostruire la «“realtà esterna” e la “realtà individuale”, con il supporto di un unico strumento, l’immaginazione».41 Il lettore ha così la sensazione che lo scrittore stia raccontando fatti reali, mescolati a «temi e situazioni inconsueti».42 La narrazione potrà presentare un esordio realistico, legato alla quotidianità e terminare con scene ed immagini magiche.43 Al contrario un’«avventura eccezionale»44 avrà l’opportunità di lasciare spazio alla dimensione della «realtà di tutti i giorni».45 È, quindi, «un invito alla scoperta di ciò che <sta> dietro, sopra, dentro la realtà, in un movimento in cui solo chi ha occhi vede».46 Nel 1927, all’interno del quarto numero di «900»,47 Massimo darà a questa formula il nome di ‘realismo magico’.48 Nel giugno del 1930 lo stesso Bontempelli afferma: Comunissimo sopra tutti il pregiudizio che il romanzo abbia un ufficio specifico […] <:> rappresentare i costumi del tempo. Ne deriverebbe che miglior romanzo è quello che li rappresenta con maggior fedeltà. Ove l’errore fondamentale è quello di non capire che la rappresentazione dei costumi e delle passioni degli uomini non è un fine ma un mezzo […] per ottenere 37 Ibid. Ibid. 39 L’uso del corsivo è originale. Ivi, p. 114. 40 Ibid. 41 Ibid. 42 GIOVANNI CAPPELLO, Invito alla lettura di Bontempelli, Milano, Mursia, 1986, p. 109. 43 Ivi, p. 110. 44 Ibid. 45 Ibid. 46 Ivi, pp. 110-111. 47 GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 115. 48 MASSIMO BONTEMPELLI, Realismo magico e altri scritti sull’arte, a cura di Elena Pontiggia, Milano, Abscondita, 2006, p. 126. 38 83 in qualche modo quello che è lo scopo unico dell’arte […]: creazione e interpretazione di un mondo che è insieme il nostro […] e qualche cosa di più là, che ogni autore e ogni opera raggiunta rivela e offre e impone come invenzione nuova agli uomini.49 Secondo Massimo non riveste alcuna importanza lo strumento con cui si raggiunge tale obiettivo.50 Possono essere utilizzati «volti umani o […] nature morte, […] lo sfogo lirico o l’analisi»,51 l’importante è che il romanziere si liberi «da ciò che ved<e> e tocc<a>»52 perché «La vera norma dell’arte narrativa è questa: raccontare il sogno come se fosse realtà e la realtà come se fosse un sogno».53 Lo scrittore e pittore Alberto Savinio fu il primo a parlare di una quotidianità «venata di magia».54 Nel novembre del 1918 all’interno del primo numero di «Valori plastici» aveva definito il fratello de Chirico un «mago moderno».55 Due anni prima, nel 1916, il pittore Carrà aveva sottolineato la presenza di una certa magia nell’«“idea che gli uomini si sono fatta dell’arte”»,56 per poi osservare nel 1919 come «“le cose ordinarie rivel<ino> […] uno stato superiore dell’essere”».57 È evidente, quindi, che la tendenza di Bontempelli a riconoscere una certa dimensione magica nella quotidianità,58 fosse già presente nell’ambito delle arti figurative. 49 Ivi, p. 50. Ibid. 51 Ibid. 52 Ivi, p. 51. 53 Ibid. 54 Ivi, p. 130. 55 L’uso del corsivo è originale. Ibid. 56 Ivi, p. 131. 57 Ibid. 58 Ibid. 50 84 Massimo, d’altro canto, individua nella pittura quattrocentesca il modello ideale di arte dove la «“precisione realistica”»59 si fonde all’«“atmosfera magica”».60 Secondo lo scrittore comasco, in quelle opere pittoriche è riconoscibile un certo alone di mistero61 e anche la letteratura è in grado di riprodurre lo stesso effetto.62 Nel caso della produzione masiniana l’elemento del fantastico accompagna l’analisi di tematiche complesse, e cioè la famiglia e l’infanzia caratterizzata da una profonda incomunicabilità con la sfera adulta. Paola così «modific<a> il mondo esteriore […] secondo <il suo> ritmo interiore»,63 applicando la formula bontempelliana del realismo magico, secondo cui la dimensione dell’irrealtà non deve essere scambiata con il «“favolismo delle fate”».64 I romanzi e i racconti della Masino si contraddistinguono per le trame oscure e intricate, arricchite da personaggi inverosimili e da suggestive immagini. Monte Ignoso, il primo romanzo di Paola del 1931, è solo un esempio di questa sua naturale abilità. Ella intraprende un suo personale cammino di maturazione letteraria: i temi vengono approfonditi ed ogni suo scritto affronta la questione della maternità e della famiglia. In quegli anni il fascismo è impegnato nella propaganda dell’ideale della donna come angelo del focolare. L’autrice è consapevole della fallacia di una simile concezione: alla madre viene riservato uno spazio ristretto all’interno di una società irrimediabilmente satura di convenzioni e pregiudizi. L’obiettivo delle sue opere sarà quello di svelare l’ipocrisia di quell’epoca. Lo stile utilizzato viene arricchito e, di conseguenza, 59 GIAMILA YEHYA, Paola Masino: il «mestiere di scrittrice», cit., p. 115. Ibid. 61 Ibid. 62 Ibid. 63 Ibid. 64 Ibid. 60 85 il magico si attenua per lasciar posto ad un più consistente senso del sacro […], l’ironia si colorisce con le più decise tinte del sarcasmo, l’artificio diventa miracolo, il semplice complicato, il lieve pesante, il fantastico grottesco e surreale, il mito favola allegorica.65 Secondo Massimo la «favola <deve> essere […] sempre lucida, fantastica ma raziocinante».66 Paola, invece, predilige la complessità delle immagini e l’uso di trame intricate. I personaggi bontempelliani «esplora<no> con animo divertito»67 l’ignota dimensione della realtà, mentre i protagonisti delle opere masinine, al contrario, sono continuamente impegnati in un percorso di profonda «ricerca dell’essere».68 Rita Guerricchio parla, a questo proposito, di «uno scarto di temperatura»69 della scrittura di Paola rispetto allo stile del compagno, dal momento che nelle opere dell’autrice è riconoscibile un certo «grado di concitazione che dona piglio profetico alle sue estasi, assetto biblico alle sue argomentazioni, statura eroica ai suoi personaggi».70 Giorgio Bàrberi Squarotti sottolinea il fatto che l’elemento fantastico nella narrativa degli anni trenta non «ha legami diretti con la situazione politica del fascismo»,71 ma serve ad indicare «uno spazio o […] un mondo […] dove le angosce e gli affanni trovano un’esplicazione che si pone come assoluta, vera».72 Il romanzo Monte Ignoso, invece, è solo un esempio di come la Masino utilizzi la sfera dell’irrealtà per svelare la falsità dei modelli imposti dal regime. 65 Ivi, p. 118. Ibid. 67 Ibid. 68 Ibid. 69 RITA GUERRICCHIO, Finzioni e confessioni, cit., p. 57. 70 Ibid. 71 GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, La forma e la vita: il romanzo del Novecento, Milano, Mursia, 1987, p. 209. 72 Ibid. 66 86 II.2. «Ecco comincio a soffrire […]. È il destino di ogni madre»:73 la degradazione familiare nel romanzo Monte Ignoso. Monte Ignoso è il primo romanzo di Paola Masino, pubblicato nel 1931. Fin dall’inizio l’opera illustra le caratteristiche peculiari dell’intera narrativa dell’autrice: l’estrema e accurata analisi della realtà circostante, l’uso frequente di tonalità cromatiche del rosso, del dorato, dell’azzurro e del verde, l’attenzione rivolta alle figure dei padri e delle madri e l’immagine della famiglia in genere. Monte Ignoso, in particolare, si sofferma sui temi della follia materna e dell’immaturità paterna. Nel primo capitolo la scrittrice delinea lo scenario del romanzo: l’atmosfera è cupa e pervasa da fosche tinte di rosso scuro, dove si susseguono numerosi personaggi biblici. Si tratta, quindi, di un’introduzione alla vicenda. Il lettore si trova improvvisamente sommerso da «Nebbie rossastre»74 e scorge il personaggio biblico di Rut che si muove «pensosa»75 nelle «vesti scarlatte»,76 mentre gli angeli mostrano le loro «ali d’oro».77 Il paesaggio circostante evidenzia tali sfumature: «Monti piccoli di argilla rossa coronavano le capigliature delle donne, fiumi verdi legavano i sandali degli uomini, alberelli e nuvole fiorivano sulle schiene del bestiame».78 Nel frattempo spuntano «angeli chiusi nei <loro> manti verdi»79 e «cacciatori in giubbetto scarlatto».80 Non è casuale la scelta di questi colori e la predilezione per il rosso. È la tonalità per eccellenza della passione, ma è anche la 73 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 100. Ivi, p. 7. 75 Ivi, p. 8. 76 Ibid. 77 Ibid. 78 Ivi, p. 9. 79 Ivi, p. 10. 80 Ivi, p. 11. 74 87 sfumatura del sangue e della tragedia. Il verde, invece, secondo Stefano Lanuzza, sarebbe il «colore della paura e della speranza».81 La vicenda è ambientata in una casa rossa situata presso Monte Ignoso, meta di villeggiatura dell’autrice stessa. In quel luogo risiede la famiglia protagonista del romanzo, benestante e, apparentemente, serena. Giovanni, il padre, fugge dal suo ruolo di capofamiglia e scarica ogni responsabilità su Emma, la moglie, una donna decisa e ferma nelle proprie convinzioni, ma caratterizzata da un amore eccessivo per la figlia di sei anni, Barbara. Quest’ultima, nonostante l’età, è l’unica figura adulta della famiglia, perché in grado di valutare ed analizzare le varie circostanze in maniera lucida e obiettiva. Tanta maturità, però, non la proteggerà dall’eccessivo affetto della madre, unica responsabile della disgregazione del loro nucleo familiare. Nell’articolo intitolato Metodologie di sovversione: “Monte Ignoso” di Paola Masino, Silvia Boero segnala la scarsa fortuna della prova.82 Il romanzo «fu […] stroncato negli anni seguenti dalla critica fascista, che lo denunciò come eversivo a causa dei toni sommessi eppure pericolosamente destabilizzanti per la propaganda demografica».83 Il regime giudicò l’opera un testo «sovversivo»84 e, di conseguenza, lo screditò gettandolo nel «dimenticatoio».85 L’immagine del paese toscano di Montignoso, sfondo di numerose estati trascorse con l’amata famiglia, resterà sempre viva nella memoria creativa di 81 STEFANO LANUZZA, Siate buffi. Genealogie, tipi e stili del “buffo” in alcuni narratori toscani: Palazzeschi, Ridolfi, Piccioli, Masino, Tabucchi, Bianciardi, Marianelli, Firenze, Edizioni Pananti, 1992, p. 17. 82 SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione: “Monte Ignoso” di Paola Masino, in «Forum Italicum», n. 1, 2008, p. 52. 83 Ibid. 84 Ibid. 85 Ibid. 88 Paola. Per questo motivo convincerà la madre Luisa, originaria di quella località, a scrivere un volume intitolato Ricordi d’infanzia a Montignoso che verrà pubblicato nel 2000, dopo la morte della stessa Luisa avvenuta nel 1975.86 È significativa l’ultima parte della raccolta: si tratta di una serie di trascrizioni registrate dalla madre di Paola su un nastro magnetico.87 Vengono riportate diverse domande a lei rivolte dalla figlia, a testimonianza del loro affettuoso rapporto. La vicinanza delle due donne è resa perfettamente dalle parole della scrittrice citate nelle pagine iniziali dell’opera: Mia madre era, come me, figlia di quel gran grembo naturale che ci ospitava. Lei e io eravamo alla pari: lei per me, come io per lei, facevamo parte delle cose belle del giardino: una pianta privilegiata che non rispondeva con sospiri di vento se io le parlavo, ma con parole del mio stesso linguaggio: e mi sembrava naturale e giusto ch’ella si chiamasse Luisa come l’erba cedrina.88 Monte Ignoso rientra nel genere del romanzo di “famiglia”. Il critico francese Albert Thibaudet fu il primo a teorizzare questa tipologia di romanzo nel 1925.89 Per lo studioso l’opera I fratelli Karamazov di Dostoevskij del 1880 costituirebbe «l’esempio per eccellenza del romanzo di famiglia»,90 poiché viene analizzato il rapporto di quattro fratelli con il padre. La difficoltà di vivere un sereno amore coniugale è il tema centrale di alcuni romanzi dell’inglese Mary Ann Evans, in arte George Eliot: Thibaudet cita alcuni testi pubblicati tra gli anni cinquanta e settanta dell’Ottocento, come Adam Bede, Middlemarch, Daniel Deronda e Il 86 LUISA SFORZA, Ricordi d’infanzia a Montignoso, a cura di Corrado Giunti, Carrara, Francesco Rossi Editore, 2000, p. 11. 87 Ivi, p. 80. 88 Ivi, p. 15. 89 GIACOMO DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento. La letteratura del nostro secolo in un grande racconto critico, Milano, Garzanti, 2010, p. 494. 90 Ibid. 89 mulino sulla Floss.91 Il tema centrale della produzione narrativa di Eliot è l’analisi dei personaggi costretti ad accontentarsi di «union<i> irregolar<i>»,92 lontane da quel «regolare istituto matrimoniale, di cui l’età vittoriana esige una irreprensibile osservanza, spinta se occorre fino all’ipocrisia».93 Nel 1903 Samuel Butler descrive in The Way all Flesh le «“difficoltà” matrimoniali»,94 frutto di una profonda crisi sociale dell’epoca. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento il romanzo di famiglia è presente anche in Francia con lo scrittore Paul Bourget, il quale dimostra come il profondo malessere sociale sia la causa diretta del disagio vissuto dall’uomo nella vita privata.95 Si tratta di una problematica presa in esame anche da Abel Hermant:96 egli ritrae i «drammi personali»97 dell’essere umano come il «riflesso […] di un problema di struttura storico-sociale».98 In Italia l’immagine di un ambiente domestico degradato contraddistingue l’opere di diversi autori. Una donna di Sibilla Aleramo del 1906, ad esempio, affronta il delicato tema della separazione coniugale e dell’abbandono del proprio figlio.99 Lo stesso Massimo Bontempelli apprezzerà il testo, giudicandolo «un lavoro di una precisa e profonda verità psicologica»100 dove avverte «una vastità d’orizzonte»101 e «sent<e> l’efficacia artistica»,102 come lui stesso scrive il 29 91 Ivi, p. 495. Ibid. 93 Ibid. 94 Ibid. 95 Ivi, pp. 495-496. 96 Ivi, p. 496. 97 Ivi, p. 497. 98 Ibid. 99 NERIA DE GIOVANNI, Carta di donna. Narratrici italiane del ‘900, Torino, Società editrice internazionale, 1996, p. 1. 100 SIBILLA ALERAMO, Una donna, prefazione di Anna Folli, postfazione di Emilio Cecchi, Milano, Feltrinelli, 2011, p. XIII. 101 Ibid. 102 Ibid. 92 90 novembre del 1907 a Giovanni Cena,103 lo scrittore e poeta compagno dell’Aleramo dal 1902104 al 1910.105 Il discusso romanzo narra la vicenda autobiografica dell’autrice costretta a contrarre un «matrimonio “riparatore”»106 con l’uomo che l’ha violentata. Deciderà di abbandonare il marito, anche se ciò comporta la sofferta separazione dal figlio. In Una donna, quindi, Sibilla rivendica il diritto alla propria autonomia e alla possibilità di allontanarsi da un ambiente domestico degradato.107 Nel 1919 Federigo Tozzi narra nel romanzo Con gli occhi chiusi il rapporto conflittuale tra Domenico, marito adultero e padre padrone, e il figlio Pietro.108 La madre di quest’ultimo, Anna, è una donna debole, «tradita dal marito e sofferente in silenzio».109 Dopo la sua morte, Domenico non proverà alcun dolore per la perdita della consorte e Pietro non lo perdonerà mai per questo. Gli anni trenta saranno caratterizzati da un certo interesse per l’analisi delle «difficoltà di un rapporto equilibrato fra i sessi dentro e fuori l’istituto matrimoniale».110 Già nel 1929 Alberto Moravia con l’opera Gli indifferenti si era concentrato nella «descrizione di una dissipazione esistenziale come precipitato di un più generale squilibrio ideale affrontato nel punto cardine del sistema sociale vigente, la comunità familiare».111 Secondo l’autore l’uomo dell’epoca è vittima di una realtà tesa a «modellare a una dimensione unica gli individui e le 103 Ibid. EMMA SCARAMUZZA, La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Napoli, Liguori Editore, 2007, p. 4. 105 Ivi, p. 199. 106 Ivi, p. 4. 107 Ibid. 108 GIACOMO DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, cit., p. 251. 109 Ivi, p. 212. 110 VITTORIO SPINAZZOLA, L’egemonia del romanzo. La narrativa italiana del secondo Novecento, Milano, il Saggiatore, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2007, p. 13. 111 RAFFAELE CAVALLUZZI, Metamorfosi del romanzo. L’attività narrativa del primo Novecento, Bari, Adriatica Editrice, 1988, p. 231. 104 91 masse».112 Carla, uno dei protagonisti della vicenda, decide di abbandonare una vita da lei ritenuta «noiosa e mediocre»,113 appiattita dalle ipocrite «ambizioni sociali del suo mondo».114 L’«indifferenza»115 e il «disgusto»116 per tale condizione la spingono ad intraprendere una relazione con Leo Merumeci, l’amante della madre. La famiglia descritta nel romanzo appartiene alla «media borghesia urbana»117 ed è «avviata alla rovina dalla sua intrinseca inerzia e vanità […] e dalla calcolata “protezione” di un amico di famiglia, appunto il Merumeci».118 Carla e il fratello Michele sono vittime di una situazione familiare oppressa da una profonda «inautenticità»119 e «falsità sentimentale».120 Carla s’illude di poter migliorare la propria condizione avvicinandosi a Leo, mentre Michele avverte «il disagio esistenziale e il senso generale di una catastrofe familiare e sociale».121 Non si dimostrerà mai in grado di risolvere positivamente tale «disagio»:122 nel momento in cui deve uccidere Leo, la sua pistola s’inceppa. Alla fine Merumeci sposerà Carla e tutta la famiglia si lascerà trascinare dalle convenzioni sociali.123 Paola Masino conosce bene le opere di Moravia: nel 1937 convince Bompiani a pubblicare la raccolta di racconti intitolata L’imbroglio.124 La casa editrice Mondadori aveva rifiutato di occuparsi dell’opera, in quanto era già 112 Ivi, p. 232. Ivi, p. 237. 114 Ibid. 115 Ibid. 116 Ibid. 117 Ibid. 118 Ibid. 119 Ivi, p. 238. 120 Ibid. 121 Ivi, p. 239. 122 Ibid. 123 Ivi, p. 240. 124 ALBERTO MORAVIA, ALAIN ELKANN, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 101. 113 92 troppo impegnata nella pubblicazione dei diari del maresciallo Badoglio.125 È necessario considerare che la conquista dell’Etiopia era «ormai compiuta»,126 e il secondo romanzo di Moravia, Le ambizioni sbagliate del 1935, non solo aveva riscosso uno scarso successo, ma era stato «boicottat<o> dal governo»127 al quale l’autore era ormai «noto come antifascista».128 Alberto decide di inviare L’imbroglio a Bompiani. L’editore si dimostra poco convinto del valore della raccolta. Chiede il parere alla Masino, che non esita a sollecitarne la pubblicazione.129 Nonostante ciò Paola era solita ricordare come «Moravia possed<esse> un mestiere, certamente, ma che la sua prosa non era arte».130 Per lei scrivere significava dimostrarsi in grado di comprendere il mondo, evitando di «sofisticarne l’assolutezza».131 Il suo primo romanzo intitolato Monte Ignoso, ad esempio, analizzerà le difficoltà presenti nel rapporto coniugale e nel legame tra genitori e figli, spesso nascoste da un’apparente normalità. Lo stesso farà in Periferia. 125 Ibid. Ibid. 127 Ibid. 128 Ibid. 129 Ibid. 130 L’uso del corsivo è originale. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 106. 131 Ibid. 126 93 II.2.1. «La signora Emma»:132un profilo ambiguo di madre. Emma è la protagonista del romanzo. La donna è stata concepita in maniera peccaminosa e la sua preoccupazione più grande è quella di proteggere l’incolumità fisica e morale della figlia. Questo pensiero ossessivo sarà il motore della vicenda. L’instabilità di Emma risulta evidente nella tendenza a dialogare incessantemente con i personaggi biblici immortalati in numerosi dipinti appesi alle pareti della casa. Emma viene descritta fisicamente solo a partire dal terzo capitolo. Si caratterizza per i «capelli rossi»133 e, come un narratore esterno precisa, non era bella. Quel che avvinceva in lei erano i capelli rossi legati con tre giri di trecce intorno alla testa, e gli occhi color verde languido affogati in uno sguardo di una vecchiezza secolare. Quand’ella guardava una cosa, anche la più insignificante, sembrava che quel movimento di sollevare le palpebre e muovere la pupilla intorno e fissare, fosse nato nella sua volontà già da millenni, ch’ella lo avesse risvegliato da un sonno infinito, trascinato traverso secoli e mondi, fino nell’ora presente come la luce di una stella. Quello sguardo aveva affascinato Giovanni.134 Nella descrizione è interessante notare la presenza del colore rosso accostato al verde. Giovanni è il marito della protagonista: la considera un solido appoggio per la famiglia. La donna è consapevole del proprio ruolo e, se all’inizio del romanzo prova compassione e indifferenza per un uomo così inetto, successivamente nutrirà nei suoi confronti un odio e un disprezzo profondo: Emma lo considerava come un fanciullo nervoso e impressionabile, più difficile di Barbara da educare. Così aveva due figli: una bambina di sei anni e un uomo di quaranta. Ora li prese tutti e due per mano e li condusse in giardino. 132 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 15. Ibid. 134 Ivi, p. 31. 133 94 – Giochiamo – disse. Molte volte giocavano loro tre insieme, ed erano felici. Si rincorrevano, leggevano favole, passeggiavano abbracciati ragionando seriamente di cose universali. Barbara amava le cose grandi e misteriose, Dio, la Morte, l’Amore. Ne parlava come di persone reali e cercava di rappresentarsele.135 La famiglia è felice solo quando appare immersa nella dimensione del gioco. Tale aspetto verrà affrontato anche nel secondo romanzo masiniano, Periferia, dove i bimbi protagonisti della vicenda ritroveranno nei loro divertimenti lo spazio ideale per evadere da soffocanti ambienti familiari. In Monte Ignoso avviene la medesima cosa: non appena ha fine l’atmosfera goliardica del gioco, la famiglia viene travolta da un turbine di emozioni e di tragedie per poi sgretolarsi completamente. Emma rappresenta una seconda madre per il marito. Giovanni non ha avuto un’infanzia serena a causa della signora Giulia, la madre, una donna cinica ed avara. Pertanto desidera rivivere il rapporto genitore-figlio in maniera differente. La moglie sembra la donna adatta per questo obiettivo, ma in realtà non si rivelerà tale. Ella non gli riserverà lo stesso amore nutrito per Barbara, ma, al contrario, arriverà a disprezzarlo per la sua immaturità. Il passato non è più recuperabile e Giovanni non sembra volerlo accettare. Barbara è l’autentica ragione di vita per Emma: Io ho una figlia. Chi la tocca muore. Barbara è un raggio di Dio, una piuma d’argento dell’ala di un angelo, un fiore caduto sul mondo come una goccia di latte su un ramo. Emma ucciderà chi la tocca. Emma non sarà mai stanca di uccidere. Prima questo pretaccio. Dài, Emma, non dimenticarti di finirlo, di sbranarlo. Così così cosìiiiiiiii … Fatto. Ora bisogna bruciarlo perché sparisca del tutto, perché Barbara se lo dimentichi.136 135 136 Ivi, p. 21. Ivi, p. 26. 95 Barbara è il simbolo della purezza e la madre sembra decisa a proteggerla da ogni presunto attacco esterno. È interessante notare la ricorrenza dei verbi ‘morire’ ed ‘uccidere’ nella prima parte del passo citato. Successivamente avviene uno sdoppiamento della protagonista, segnalato dal passaggio dalla prima persona alla terza singolare: la negatività di Emma assume una sua autonomia incitando la donna affinché distrugga chiunque osi intaccare la purezza di Barbara. L’esortazione avviene con un ritmo crescente ed è caratterizzata dalla ripetizione ossessiva del nome ‘Emma’. Nel brano analizzato la protagonista parla di un «pretaccio»,137 riferendosi alla figura di un sacerdote visto da Barbara durante un’allucinazione un giorno alle «quattro del pomeriggio».138 L’episodio allarma Emma in maniera sorprendente, facendo emergere la sua parte malata. Il prete è uno dei personaggi immortalati nei diversi dipinti della casa e secondo Marinella Mascia Galateria ricorderebbe il «ritratto settecentesco, realmente esistente nella casa di Montignoso, dell’abate Luca Nottolini».139 Secondo Emma, l’uomo sarebbe colpevole di avere assistito impassibile al suo concepimento avvenuto in maniera peccaminosa: «In un angolo era il ritratto di un canonico, bisavolo della famiglia. Con una mano teneva una lettera aperta. Vi si leggeva il suo nome scritto in lettere rosse: FEDERICUS LUDOVICUS VAIRA SACERDOS».140 La vista di quel ritratto risveglia in Emma una serie di emozioni e sensazioni responsabili della perdita del suo controllo emotivo. Non sarà codesta la prima 137 Ibid. Ivi, p. 15. 139 MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, in «Avanguardia», n. 17, 2001, p. 113. 140 L’uso del maiuscoletto è originale. PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 19. 138 96 volta in cui Paola descriverà dei personaggi religiosi attribuendo loro tratti decisamente negativi: Appena fu sola, furiosamente si precipitò in casa, su per le scale. Giunta […] davanti al quadro del bisavolo canonico, si arrestò di schianto. […] vibrava come la vetta di un’antenna troppo lunga. Anche tutto il suo volto chiuso e le mani abbandonate lungo i fianchi sussultavano, premute dall’impeto di una passione mostruosa. Stette così un minuto a fissare il ritratto impassibile del sacerdote Federico Vaira. In quel minuto gli occhi le si sfacevano, la bocca divenne un taglio nero, il respiro le usciva a vampate fangose quasi che nel ventre le ardesse un fuoco viscido, come deve essere quello che rimane nei fianchi di un vulcano spento. A poco a poco […] mosse le labbra, e […] cominciò a parlare. Le parole le scendevano dal cervello lungo la fronte gelata negli occhi marci, vi si insozzavano, diventavano oscenità. Allora lungo il naso, in due solchi violetti, colavano fino alla bocca ove si rotolavano nel fango ardente. Poi ne uscivano dure come sassi e sibilando si scagliavano contro il prete.141 Ci troviamo dinanzi a un’autentica metamorfosi: Emma, per difendere la figlia, si trasforma in un’entità mostruosa. Il lettore inizialmente fatica a comprendere come l’immagine di un quadro possa provocare una reazione così estrema. Il respiro diviene più affannoso, cambiano i connotati facciali della donna e i termini usati nella descrizione richiamano alla mente le caratteristiche tipiche di una creatura risalita dagli inferi. Le parole rivolte dalla donna al prete confermano tale sensazione: Basta. Ora basta. Barbara non devi toccarla. Se no racconto a tutto il paese quello che fai, che hai fatto. Ti faccio disseppellire. Ti butteranno in una chiavica, ci affogherai. Che cosa vuoi da lei? Farne una donnaccia, come me? Lei non lo sa quello che io sono. Tutta la mia vita per colpa tua, di quegli altri, sarà quest’inferno rovente. Almeno mi potessi scaldare e illuminare con questo fuoco. Ma no, ma no. Giù, Emma, gli uomini e i dolori ti sfonderanno, ma tu sta’ zitta se no Barbara avrà schifo di te.142 141 142 Ivi, pp. 22-23. Ivi, p. 24. 97 Il sacerdote sarebbe stato spettatore di scene peccaminose accadute nella casa di Monte Ignoso: Ora schianto di rabbia perché lo so che è lui, che sono loro, che mi torturano così. Hanno cominciato prima ancora che io nascessi. La mia mamma, la tua nonna Barbara, li guardava quand’era incinta e la incantavano. Lei, ogni sera il marito […] la obbligava a essere una di queste donne, Esther o un’altra. Non posso dirti quello che facevano. Si mettevano in terra, qui davanti. Io sono nata così. Da allora, sempre, tutta questa gente mi è stata addosso. Io entro nei quadri, loro ne escono. […] Che cosa ti sto raccontando Barbara? […] È questo prete maledetto che mi spinge a farti male.143 I ricordi lasciano il posto alla rabbia della donna per quanto accaduto. È decisa a salvaguardare la figlia Barbara e la violenza si presenta come il mezzo di difesa ideale. Subito la protagonista minaccia il ritratto: verrà distrutto. Emma sfoga tutto il suo odio, dimostrando una ferocia smisurata. Le frasi sembrano sconnesse tra di loro e servono a dimostrare l’agitazione interiore di una madre disperata: Non pensi che sono una madre, io, una bestia furibonda? Ora ti ammazzo più che posso, ti sfondo quella faccia ipocrita, voglio mangiarti le mani, cercarti tra il vestito pitturato un cuore vero, fartelo, fartelo se non ce l’hai, per pestarlo sotto i piedi. Bastano quattro pugni a sfondarti. E allora addio bocca sdentata. Sputa sangue. Ma non ne hai. Ci sputerò io, per fartene. Occhi schifosi, addio. Addio naso torto, e orecchie grasse. […] Come sarò contenta. Proprio contenta. No, non ancora contenta. Voglio sfondarti tutto. Ma di là. In faccia a quegli altri che vedano come so difendermi. […] Difendo Barbara. […] Saluta per l’ultima volta queste belle campagne, questi mari, queste montagne fredde.144 Emma sembra colta dal delirio. La sua è una reazione molto forte, all’apparenza ingiustificata. In un primo momento minaccia di morte il quadro del sacerdote Vaira, a suo avviso, un autentico pericolo per l’incolumità della figlia. In seguito svela gradualmente la causa di tanto odio: la donna sarebbe il frutto di un 143 144 Ivi, pp. 24-25. Ivi, pp. 25-26. 98 concepimento peccaminoso che l’ha macchiata e marchiata per tutta la vita. Il religioso avrebbe assistito inerte alla scena, come del resto hanno fatto tutte le altre raffigurazioni bibliche, e sollecitato il gesto. È presente una critica alla religione e ai suoi rappresentanti, responsabili di assistere in maniera passiva agli eventi negativi dell’epoca. Le dichiarazioni rilasciate dalla Masino, a proposito della religione, in occasione di un’intervista concessa a Sandra Petrignani nel 1984, sono un’ulteriore prova di tale aspetto: in Italia quasi tutti vanno in chiesa, moltissimi si riconoscono sinceramente nella religione cattolica. Ebbene, quanti si preoccupano di conoscere seriamente i fondamenti della loro religione? Quanti hanno letto la Bibbia e osservano scrupolosamente i comandamenti? E così si va in chiesa ma si ha l’amante, si abortisce, si sperpera il superfluo, si è invidiosi, si è arrivisti. Ecco l’esempio di una società incolta e approssimativa.145 L’immagine di una società italiana ipocrita descritta nel passo citato coincide con quella dei genitori di Emma: le pareti della loro abitazione sono tappezzate di immagini bibliche, di fronte alle quali si sarebbero consumati diversi atti peccaminosi. Paola non è religiosa, come ci tiene a precisare,146 ma considera la Bibbia un testo altamente istruttivo. Lei stessa ha tratto dall’opera la forza necessaria per analizzare la realtà e cercarne la verità: Avevo nove anni quando mio padre mi suggerì di cominciare a leggere la Storia Sacra e poi via via gli altri testi di religione, non soltanto cattolica. Io li lessi e a sedici anni mi accorsi di non credere a niente. Però la saggezza di quei libri, che ho sempre amato, ha lasciato in me l’aspirazione alla vita come ricerca e come possibile conquista di un assoluto eroico.147 145 SANDRA PETRIGNANI, Le signore della scrittura, cit., pp. 27-28. Ivi, p. 28. 147 Ibid. 146 99 Ancora una volta è Enrico Alfredo Masino a guidare Paola nelle sue letture. Tornando all’analisi del dialogo tra Emma e il sacerdote Vaira, è interessante notare come ci sia di nuovo uno sdoppiamento della sua personalità. Emerge la parte più intima della donna, che la esorta a tacere quanto avvenuto prima della nascita della figlia. La madre si considera «una donnaccia»148 ed è determinata a risparmiare alla figlia lo stesso destino. Riflette ad alta voce sulla propria natura e immagina di rivelarla a Barbara. I toni utilizzati sono desolati e di rimpianto, ma lasciano subito spazio alla rabbia e all’odio per il prete. La protagonista arriva a minacciarlo di morte, come dovesse difendere la figlia da un pericoloso malfattore ed assassino. Le parole trasudano violenza ed esprimono in tutta la loro forza l’aggressività di una madre profondamente spaventata. Emma si paragona a Giuditta nel momento in cui uccide Oloferne. Quest’ultimo, secondo la protagonista, si sarebbe reincarnato nella figura del sacerdote. In realtà le due donne incarnano due figure femminili differenti: mentre Giuditta «aveva ammazzato un uomo vero, che aveva giaciuto con lei <,> Emma non ha ucciso che una sua fissazione, un’immagine».149 Il passo termina con un elenco di insulti rivolti agli uomini immortalati nei dipinti: sarebbero autentici «criminali. Stupratori. Ladri. Falsari. Incestuosi».150 Alla fine l’‘omicidio’ tanto annunciato verrà commesso: il ritratto del sacerdote Vaira sarà distrutto: A poco a poco il quadro cedette, finchè cadde trascinando con sé una crosta di muro. Emma non s’era fatta nulla. Lo prese. Lo portò nella sala degli armadi, lo gettò nel mezzo, perché tutti quei personaggi biblici vedessero come lei sapeva difendere sua figlia, e cominciò a sfondarlo. Lo calpestava con crudeltà e 148 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 24. Ivi, p. 46. 150 Ivi, p. 26. 149 100 riflessione: prima la bocca, come aveva detto, e vi sputava sopra: poi gli occhi, il naso, le orecchie. Ogni volta che alzava il piede per colpire, il volto le si illuminava di gioia. Quando del quadro non rimasero più che brandelli di tela e pezzi di legno, li raccolse nella gonnella e discese. In cucina gettò tutto nel fuoco e aspettò che bruciasse.151 Il pericolo sembra passato, ma non sarà così. La distruzione del ritratto innescherà un processo destinato a porre in discussione l’identità di Emma e il suo rapporto con la famiglia. Barbara, una volta appresa la fine del dipinto del sacerdote, proverà un sincero dispiacere per l’accaduto, disorientando la madre: il quadro si è sfondato. Proprio la faccia. Ti dispiace Giovanni? – A me, sì – interruppe Barbara. – Era proprio bellino. Emma la guardò con angoscia. Disse lentamente: – Io l’ho buttato nel fuoco, perché era sfondato. Non era una pittura di valore. – Che peccato – insistè ancora Barbara. – Era un antenato. Emma sembrava così disperata di aver fatto una cosa spiacevole a Barbara, che Giovanni si affrettò a dire: – Ma no, Barbara. Ha fatto male alla mamma. Bisognava castigarlo. – Già – ammise Barbara – solo i bambini possono fare male alla sua mamma. – Oh – disse Emma – ma le mamme non devono mai fare male ai loro bambini. – Qualche volta possono sculacciarli – ammise ancora Barbara. – Me no.152 Le certezze della donna vacillano miseramente e tutta la sua sforza svanisce. Manca il coraggio di rivelare la reale motivazione alla base del gesto e risulta più semplice nascondersi dietro alla scusa della presunta mancanza di valore del quadro. La protagonista teme di rivelare la verità alla figlia. Barbara potrebbe soffrirne o semplicemente non comprendere. Giovanni non condivide i timori della moglie e si preoccupa del suo stato emotivo. Per questo, una volta accortosi del dispiacere provato dalla consorte, si affretta a trovare una giustificazione 151 152 Ivi, p. 27. Ivi, pp. 28-29. 101 plausibile: «Ha fatto male alla mamma. Bisognava castigarlo».153 La bambina dimostra una certa maturità osservando come solamente i figli siano in grado di nuocere alle proprie madri. Preannuncia così l’esito della vicenda: non esiste dolore più grande di quello derivante dalla perdita di un figlio. Emma non coglie questo messaggio nascosto e si affretta a sottolineare come le mamme non debbano in nessuna occasione punire i figli, ma solamente proteggerli. Barbara la contraddice sottolineando la necessità di qualche castigo. Solo lei ne è esente: si dimostra consapevole dell’eccezionalità della propria condizione. Emma è un personaggio enigmatico e difficile da comprendere. L’ atteggiamento appare ingiustificato e le sue azioni e convinzioni sono completamente avvolte nel mistero. L’attaccamento alla figlia è una forma di riscatto per l’amore mai ricevuto dai genitori. Ritrova un affetto profondo nel proprio legame con la bambina ed è continuamente terrorizzata dall’idea di perderlo. L’autrice fornisce scarse notizie riguardanti la famiglia d’origine della protagonista. È chiara, tuttavia, l’atmosfera lussuriosa ed immorale da sempre presente in quella casa fin dall’ infanzia: Giovanni andò ad abitare nella casa rossa sul monte: il monte era un antico vulcano. Un monte di fuoco, Mons Igneus, Monte Ignoso. La casa si chiamava così. E poiché era molto antica e intorno le era nato un villaggio anche il villaggio aveva quel monte: Monte Ignoso. Qui Emma aveva sempre vissuto e aveva trascorso in modo misterioso i tre anni dopo la morte dei genitori fino al giorno del matrimonio; senza vedere mai nessuno, senza viaggiare, senza riempire le giornate con i lavori usuali delle donne. Si era occupata solamente dell’amministrazione dei propri terreni, come aveva imparato da suo padre, e nelle ore libere vagava per la casa o rimaneva seduta, sola e in silenzio.154 153 154 Ibid. Ivi, pp. 38-39. 102 È il ritratto desolante di una donna sola, salvata da un marito anch’esso alla ricerca di salvezza. Ella possiede una certa istruzione e il padre si è preoccupato di trasmetterle tutte le nozioni necessarie per amministrare il patrimonio, cercando di assicurarle un futuro. Ben presto questi tratti del papà svaniranno completamente e lasceranno spazio alla descrizione del suo lato più oscuro: In quel tempo aveva trovato le lettere e un diario scritti da suo padre e sua madre. Quelle pagine […] erano ignobili di brutalità e lussuria. Ogni cosa era detta e ridetta, descritta in ogni particolare con un compiacimento sessuale con un’ossessione di persona isterica. Emma al principio non aveva capito. Leggeva lentamente due, tre volte. […] Così conobbe il modo orribile del suo concepimento al quale, secondo la descrizione del diario, i personaggi dipinti avrebbero presieduto, così conobbe molte e molte altre scene disgustose nate dall’incubo di quelle facce immote, così seppe come il sacerdote Federico Vaira vi avesse preso parte e le avesse benedette in nome del Signore. Emma assorbì quel male come una spugna arida s’imbeve d’acqua e credette essere una emanazione dei quadri misteriosi, una materia in loro potere, non più una vita libera. […] quando più tardi sposò Giovanni […] più che prender parte alla vita del marito sembrava rimanere in disparte e guardare. Giovanni molte volte aveva la sensazione precisa che Emma si era sposata soltanto per vedere. Domandarle che cosa sarebbe stato inutile, perché Emma taceva e rifiutava di parlare di se stessa, delle proprie azioni, dei genitori. E Giovanni non insisteva per paura che a lui si domandasse di sua madre.155 Emma ha paura di rivelare i propri trascorsi al marito. Del resto a lui non resta che rispettare tale scelta, per evitare che si parli di sua madre. I due personaggi, pertanto, non sono legati solo dal vincolo del matrimonio, ma anche dalla vergogna per un passato familiare scomodo. La protagonista, dopo aver scoperto la perversione dei genitori, sente la necessità di preservare il marito e Barbara da tanta depravazione: terrà Giovanni all’oscuro di quanto scoperto a proposito del proprio concepimento. Così s’illude di proteggere se stessa e la figlia dalle pulsioni sessuali ossessive dei suoi genitori. In realtà la madre sarà, a sua volta, vittima di un comportamento maniacale, anche se di natura diversa: «Devo 155 Ivi, pp. 39-40. 103 difendere Barbara. È pura. L’ho concepita semplicemente, secondo natura, come certo Dio vuole che si faccia».156 Emma ripete queste parole nella sua mente, fino a perdere completamente il controllo della situazione. Tenta di trovare conforto, chiedendo una spiegazione dei propri incubi a Giuseppe, uno dei personaggi biblici dei ritratti. Quest’ultimo la mette in guardia: se non si libererà dalle sue paure perderà se stessa e la propria famiglia: «La vita ti scorre sopra piena di affetti. Ma tu li lasci precipitare nella morte – disse Giuseppe. – Quando vorrai riconquistarli, te li tirerai malamente sul capo, e morrai soffocata sotto di loro».157 Emma ricorda l’immagine materna descritta da Ada Neiger nella premessa al volume da lei curato intitolato Maternità trasgressiva e letteratura.158 La protagonista di Monte Ignoso rappresenta una «donna ingabbiata nel ruolo materno a tempo pieno <che> aspira a divenire una Madre Perfetta».159 Per raggiungere questo ideale di perfezione «Spesso […] avviluppa <la figlia> in una relazione esclusiva, viscosa, soffocante e immatura».160 Secondo la Neiger una simile reazione è in parte giustificabile e «riconducibile al fatto che un po’ tutte le donne che danno la vita al figlio non riescono mai a staccarsene completamente»,161 ma, al contrario, lo ritengono «un prolungamento del proprio corpo e non come un essere autonomo».162 La società è la principale responsabile di questa condizione: l’«esclusione»163 delle donne e 156 Ivi, p. 46. Ivi, p. 47. 158 ADA NEIGER (a cura di), Maternità trasgressiva e letteratura, Napoli, Liguori Editore, 1993. 159 Ivi, p. 8. 160 Ivi, p. 9. 161 Ibid. 162 Ibid. 163 Ibid. 157 104 l’«impoverimento delle loro vite»164 ha provocato un profondo «desiderio di rivalsa che ha finito per rovesciarsi sugli stessi figli con esiti distruttivi».165 La donna non da ascolto a Giuseppe e prosegue il cammino verso la tragedia, animata da un’apparente lucidità. L’allontanamento di Barbara da Monte Ignoso è la prima tappa del viaggio della famiglia verso la catastrofe e la disgregazione: «Bisogna allontanare Barbara da questa vecchia casa. La manderemo in collegio, non importa dove. Purchè non stia qui. […] Più Barbara sarà lontana, più potente sarà la sua vita».166 Emma è determinata a riscattarsi per dimostrare a se stessa di non essere stata contaminata dalla condotta immorale dei genitori. È un’illusione: è una madre ossessiva e una moglie adultera, perché da tempo ha una relazione clandestina con Marco, lo stalliere «Biondo; di un biondo così slavato che si confondeva nel fieno. Aveva un’espressione indifferente e però ostile, piena di volontà cieca. Ventidue anni».167 Nel passo citato l’autrice isola l’età dello stalliere all’interno della descrizione per suggerire l’idea di una certa differenza di età tra i due amanti. La protagonista non è perfetta come lei stessa è impegnata a far credere. Lo stalliere sembra non essere solo un capriccio, ma un uomo a cui rivelare le proprie paure e inquietudini, da cui farsi ascoltare, cosa che Giovanni non è più in grado di fare. Nemmeno Marco, tuttavia, si dimostra all’altezza delle aspettative: Emma gli rivela l’allucinazione avuta dalla figlia e lui osa mettere in dubbio la salute mentale di Barbara, liquidando così la questione: «Allora si mette Barbara in 164 Ibid. Ibid. 166 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 42. 167 Ivi, p. 52. 165 105 manicomio».168 La reazione della donna è violenta a tal punto che la Masino la paragona ad un avvoltoio: – Eh? – urlò Emma. Si era portate le mani davanti al volto, rattrappite come le zampe di un avvoltoio. – Che cosa hai detto? – Manicomio. Emma gli si gettò addosso graffiandolo sul volto e cercava di raggiungerlo anche con la bocca per morderlo. Lui in principio non si difese perché non aveva capito, sorrideva. Poi tentò di prenderle le mani e fermarla. Finalmente la afferrò per i polsi e glieli torse. Ella si accasciò in terra. – Va bene – disse. – Mi dispiace di non averti levato gli occhi, cane! Ma non mi vedrai mai più. Barbara in manicomio! – Anche tu sei pazza – affermò calmo l’uomo.169 Marco ha individuato il problema di Emma: è pazza. È arrivato a questa conclusione non solo a causa dell’atteggiamento della donna in seguito al suo suggerimento di rinchiudere Barbara in manicomio. Per tutto il periodo della loro relazione clandestina, c’è stato il divieto di nominare il nome dell’adorata figlia per non intaccarne la purezza. Il veto è stato infranto e lo stalliere ha superato ogni limite dubitando della perfezione della bambina. Il giovane crede che la situazione sia ancora recuperabile, ma la donna si è convinta della necessità di porre fine a questo legame scandaloso. Non lo fa per rispetto a Giovanni, il marito ignaro di tutto, ma per Barbara, la figlia insultata dall’amante. Lo stalliere reagisce con la stessa violenza dimostrata dalla protagonista pochi minuti prima. Crede di averla assassinata: – Domani notte vieni alle due. – No. – Domani notte vieni alle due. – Domani vado in città. E domani notte starò con un signore. – Sta zitta, carogna! 168 169 Ibid. Ivi, pp. 52-53. 106 Allora Emma si divertì. – Con un signore, poi con un altro, poi un altro – rise. Lui si precipitò. Lei subito gettò un urlo e cadde in terra senza più muoversi. Marco prese la candela dalla bottiglia e guardò Emma. Era tutta nera. Aveva la bocca aperta, grande, come uno che dorme e si dimentica di russare. […] una polverina giallognola, minuta, le si distese come oro sulla fronte livida. Marco la guardava ma non pensava neppure che poteva averla uccisa, benché desiderasse fortemente di averla uccisa. Se no, perché le avrebbe dato quel calcio nel ventre?170 Emma non solo disobbedisce a Marco, ma ignora il suo ordine di continuare la loro relazione, rifiutando l’appuntamento da lui stabilito per il giorno successivo. Inizia a prendersi gioco della gelosia dell’amante. Quest’ultimo, di conseguenza, l’aggredisce, perché ella è colpevole di aver sottovalutato i suoi sentimenti. Lo stalliere è da sempre consapevole dell’impossibilità della protagonista di nutrire per lui lo stesso amore sentito per Barbara. L’ossessione per la figlia li separa e il giovane avverte la necessità di eliminare la donna. Il calcio sferratole al ventre, simbolo della maternità, esprime tale esigenza. L’azione non gli procurerà alcun sollievo e immagina le conseguenze del suo gesto. È consapevole dell’esito della vicenda, il suicidio: «Quando muoio, non me lo levate il costume da galeotto. […] Io non avrò neppure una bara, invece a lei sulla tomba gli ci hanno messo un angelo con una croce, tutto di marmo bianco».171 Il giovane si preoccupa immediatamente per i genitori, quel padre e quella madre che dopo la sua morte saranno troppo condizionati dal giudizio altrui per piangerlo: Quando mi avranno condannato mi faranno scrivere una lettera a casa. «Cari genitori, vi scrivo per dirvi che il gran giorno è passato ma senza buoni risultati come voi dovete sapere e sono condannato a venti anni in una colonia penitenziaria e come vedete cari genitori saremo morti prima di rivederci perciò venite a cercare i miei vestiti se no li buttano. Mi darete l’indirizzo quando 170 171 Ivi, pp. 53-54. Ivi, p. 54. 107 cambierete il paese dove si stava tanto bene prima di quel delitto di un miserabile come me, che mi tiene per sempre lontano da un buon padre e dalla cara mamma, e dai fratelli e dalle sorelle che non rivedrò più e il mio nonno che mi voleva tanto bene non lo vedrò più, e Lisa e Rosa e Gino che è a Tripoli lui che era tanto buono con me che vergogna per tutti voi che non avete colpa di nulla. Vostro figlio che pensa a quello che ha fatto e piange pensando a un delitto così infame che vi ha messo nel dolore e nelle vergogna per il rimanente della vostra vita come quella dei miei cari fratelli e sorelle che piangeranno sempre un così grande delitto commesso dal fratello giovanotto, galeotto per sempre, Franceschi Marco».172 Gli ultimi attimi di vita di Marco sono strazianti: osserva per l’ultima volta le finestre chiuse, dietro alle quali dorme la famiglia. Prima di legarsi la corda attorno al collo ha un ripensamento. «Mica è morta, mica è morta»,173 continua a ripetersi, ma Emma non si riprende e una tragica fine attenderà lo stalliere. L’ossessione della protagonista non solo non proteggerà la famiglia dalla catastrofe finale, ma è la causa del suicidio dell’amore clandestino. La donna recupera le forze e non appena vede il cadavere di Marco pensa di nuovo alla figlia. È preoccupata del suo giudizio e per questo non si rende conto della tragedia appena consumatasi: Barbara saprà che cosa facevo di notte. […] Urlò al cadavere: – Scendi idiota! […] Emma serrò i denti, gettò indietro la testa e corse presso Marco. Sollevandosi sulle punte dei piedi, si tese con tutti i muscoli, afferrò le gambe di lui, e tirava. Ripeteva: – Scendi idiota! Scendi idiota!174 Il suicidio di Marco non suscita nessuna tristezza nell’animo dell’amante: A me non importa che si sia impiccato […]. Ha avuta paura di andare in prigione, Dunque la colpa è mia. […] No. Quest’amore l’ho afferrato, l’ho goduto fino 172 L’uso del corsivo è originale. Ivi, pp. 54-55. Ivi, p. 57. 174 Ivi, p. 60. 173 108 all’ultimo. Non lo lascio precipitare nella morte. Muore perché l’ho consumato tutto. Perché non c’è più.175 E aggiunge: «Che furia! La stessa furia per ammazzarmi, la stessa furia per impiccarsi. È morto, non ho più amante. È giusto così. Il prete, Marco, tutto quello che può nuocere a Barbara deve morire».176 Non è stato l’amore a legarli e ciò è chiaro dalla reazione che prova di fronte al cadavere. Inizialmente la famiglia di Marco sfoga tutto il proprio dolore per la notizia di una morte così inaspettata: In quel momento arrivava la famiglia del morto. Il padre, la madre, le due sorelle, il fratello, il nonno. Vennero di corsa, bianchi, muti, si aggrapparono alla porta, al petto dei carabinieri, e improvvisamente levarono grida altissime. Il padre a un tratto si rotolava in terra, graffiando il suolo: la madre si precipitava con il capo contro i muri: le due ragazze si aggrappavano alla madre invocando: il fratello si strappava la camicia sul petto e si arrampicò su un declivio erboso, per aver più aria e poter gridare meglio: il nonno piangeva in silenzio e dimenticava di asciugarsi le lacrime.177 Tutto il paese condivide la sofferenza dei familiari del defunto, espressa da immagini suggestive. Successivamente qualcuno intuisce che si è trattato di un suicidio e suggerisce di ignorare una morte così peccaminosa. La madre reagisce con la stessa furia manifestata dalla protagonista del romanzo di fronte alle perplessità dell’amante a proposito della salute mentale della figlia: A poco a poco tutto il paese divenne un’unica bocca immensa che gridava. Il velo bianco del cielo tremava, si gonfiava e tendeva sotto l’onda di quell’urlo, e a pena 175 Ivi, p. 62. Ivi, p. 64. 177 Ivi, p. 68. 176 109 lo conteneva come una vela piccola un vento troppo forte. […] Qualcuno nella folla, gridava: – Legate le campane! È un suicida! La madre si voltò. Li guardava come una fiera, quando si slancia, con gli angoli della bocca rialzati, i denti scoperti. Alzò le mani al cielo. Lo difendeva. – No! Me l’hanno ammazzato, il figlio mio! Assassini!178 Come Emma era stata paragonata ad un avvoltoio, la madre di Marco è una fiera pronta ad azzannare chiunque osi fare simili insinuazioni. Il suo atteggiamento muterà, come preannunciano le parole di un Gesù Bambino immortalato in uno dei numerosi ritratti della casa di Monte Ignoso: «Voi amate i vostri figli ma siete tanto lontane da loro».179 Gesù si rivolge alla madre Maria e alla stessa Emma, la quale, attraverso una profonda ossessione per l’incolumità di Barbara, contribuirà a segnarne la fine. La mamma dello stalliere, invece, in seguito al dolore iniziale per il suicidio del figlio, non ne protegge la memoria dalle malignità del paese. Dimentica l’amore per lui e condivide l’opinione della gente sul suo conto. Lo stesso farà il marito. Gli anziani genitori non si preoccupano di comprendere le motivazioni di un gesto così estremo compiuto da Marco, perché troppo intenti a vergognarsi di lui: La madre era immobile all’altro capo del tavolo, con le mani incrociate sul grembo. Acre rispose: – Che cosa volete che ce ne facciamo? Neppure una tomba gli possiamo fare, perché si è ammazzato. Stà lì, fuori del cimitero, e fa vergogna a tutta la famiglia. – Mamma! – gridò la maggiore delle sorelle – Sta’ zitta. – La guardava con ribrezzo, i grandi occhi secchi e scintillanti di sdegno. – No – continuava la donna – se mi dicessero che uno l’ha ammazzato andrei dall’assassino a ringraziarlo, perché almeno me lo benedirebbero, me lo metterebbero nel camposanto. – Io – sibilò la ragazza – vorrei saperlo, ma per ammazzare lui.180 178 Ivi, p. 69. Ivi, p. 73. 180 La forma «Stà» è originale. Ivi, pp. 79-80. 179 110 Solo la sorella dimostra la forza di contrastare il parere dei genitori. Desidera conoscere le cause della tragedia. Il nonno concorda con la nipote: Il nonno borbottò dal cantuccio dove era rannicchiato: – Nina, dici così di Marco e non sai neppure perché s’è impiccato, così per il collo. – Non lo so, ma non doveva farlo. Se era figlio mio non doveva farlo. La ragazza si alzò furiosa e andandosene urlava: – Ma tu perché l’hai fatto, se poi non lo difendi? Anche in faccia agli estranei lo stai ad accusare. Che madre sei se ti vergogni di tuo figlio? Uscì sbattendo l’uscio. – Quello che s’è ammazzato non è figlio mio. Non è quello che ho fatto, che ho portato in chiesa, che ho allattato. – Ora si batteva con dolore il petto e piangeva disperata.181 La reazione della madre è sorprendente: disprezza la memoria del figlio, motivo di tanta vergogna per la famiglia. Nulla potrà farle cambiare idea. Il padre è l’unico personaggio a non esprimersi sulla questione: se ne sta in un angolo, quasi fosse estraneo alla faccenda. Solo in seguito allo sfogo dei familiari, interviene preoccupandosi soltanto per i danni causati da quel suicidio: – Ora – disse il padre – dovranno cercare un nuovo stalliere. A questo Emma si riscosse: – Ora no, più tardi. Ho portato questi fiori per lui. Fate venire una delle vostre figliuole con me. Andiamo al camposanto a portarglieli. – Lui sta fuori – corresse la madre. – Vengo io. – E la sorella piccola si staccò dalla porta cui era addossata.182 L’uomo non spende nessuna parola a favore del defunto e abbandona la moglie alle sue folli convinzioni. I due genitori si sono definitivamente allontanati da Marco. 181 182 Ivi, pp. 80-81. Ivi, p. 81. 111 Nel frattempo Emma ha scelto di mandare Barbara in collegio, per salvarla da un pericolo ignoto ma incombente. La bambina asseconda la decisione della madre e dimostra una grande maturità nell’obbedirle. Le sue parole sono enigmatiche e sembrano predire la tragica fine che l’attende: «Ho pensato […] mamma, che io ho vissuto fin’ora perché stavo qui. […] Sei proprio sicura, che vivrò ancora, oppure ho già vissuto tutto, qui?»183 Emma non coglie il significato nascosto di queste parole. È ammirevole la saggezza dimostrata da Barbara in tale circostanza: faccio quello che vuoi tu. Vado a scuola in quella città. Come si chiama? – Non so ancora quale città. Non è così presto. Non è domani. Ho scritto e devo aspettare la risposta. – Se non è domani, non me lo dire mamma. Dimmelo solo quando è domani, così non ho il tempo di avere dolore.184 I tratti utilizzati per descrivere la madre ne sottolineano la solitudine e un dolore profondo: Si vedeva la sua solitudine nei suoi movimenti. Erano i movimenti di colui che è in piedi davanti al cadavere del proprio figlio, e intorno gli stanno deserti il cielo e la terra. I gesti allora sono tanto densi di dolore che rimangono immobili, la bocca tanto carica di gridi che rimane muta. […] Una sola cosa può consolare l’uomo sommerso dal dolore: il nascere da ogni suo movimento di una catastrofe, uragano o terremoto o precipitare di costellazioni o spegnersi di soli, o putrefarsi di umanità. Il suo animo ne sarebbe distratto e inorgoglito. E a questo, inconsciamente, tende l’uomo disperato.185 Ancora una volta la scrittrice dimostra una certa abilità nel costruire immagini suggestive in grado di trasmettere perfettamente al lettore l’atmosfera presente nei 183 Ivi, p. 99. Ivi, p. 100. 185 Ivi, pp. 100-101. 184 112 diversi episodi narrativi. In un altro passo la Masino immagina la protagonista circondata da una sorta di deserto emotivo. La ripetizione del suo nome sottolinea tutta l’ansia e l’angoscia della donna: «Emma era in un deserto. Emma andandosene, camminava come se dietro sé trascinasse tutte le madri del mondo, ognuna con in mano il proprio cuore trafitto da sette spade».186 Emma viene travolta dalla sofferenza per aver abbandonato la propria bambina. Un elenco di frasi brevi, dove si mescolano i pensieri del personaggio alla descrizione dei suoi gesti, riesce a trasmettere questo stato d’animo: Emma non pianse. Chiuse i bauli e vi sedette sopra, per non cadere. Poi studiò l’orario ferroviario. Oggi è venerdì. Di venerdì non si parte. Domani è sabato. Ci sono quattro treni. Due la mattina, due il pomeriggio. L’ultimo è quello della sera: alle otto. Si arriva alle dieci. Mettono Barbara a letto. Io rimango là anche la domenica. La faccio uscire. È meno triste che conosca il collegio in un giorno di festa. Alle sette, quando le bambine rientrano dalla passeggiata, la riaccompagno fino alla porta. La lascio. La lascio. La lascio. Sì, la lascio. E poi? Riparto alle nove. Sono qui alle undici. Domenica sera. Domani l’altro sera. Sola. Non c’è più Barbara.187 Nulla deve essere lasciato al caso e la protagonista programma tutto fin nei minimi particolari. Così facendo distoglie la mente dall’evento rappresentato dalla separazione dalla figlia: ciò è evidente dalla ripetizione insistente dell’espressione «La lascio».188 Barbara condivide lo stato d’animo della madre ed è consapevole di come non avrà più la possibilità di vivere serenamente nella sua casa a Monte Ignoso: Barbara camminava piano. Voleva vedere tutto, come non aveva mai visto fino ad allora. Voleva vedere l’aria e sentire come la respirava, voleva vedere il peso del cielo e il profumo dei fiori. Voleva vedere come le immagini le entravano per 186 Ivi, p. 101. Ivi, p. 103. 188 Ibid. 187 113 sempre nel cuore, come le si ordinavano nel cervello, per poter ritrovare ogni particolare quando ne avrebbe avuto bisogno, laggiù.189 La bambina assomiglia ad un carcerato: osserva con uno sguardo diverso il panorama circostante. La ripetizione dei verbi «Voleva vedere»190 sottolinea la sua condizione. Subito chiama il padre, pregandolo di annotare su un foglio di carta ogni particolare da lei dettato: la lista servirà a farle ricordare meglio Monte Ignoso durante il periodo in cui si troverà in collegio: Prendi un pezzo di carta e un lapis. Giovanni ubbidì. – Per ricordarmelo, capisci? […] Scrivi quello che ti dico. Una cosa sotto l’altra. Vieni. Ella scendeva lungo il gran viale. Giovanni la seguiva a un passo di distanza. Lei si fermò davanti a una scala di marmo bianco. In fondo alla scala c’era un cipresso e intorno rose pallide. – Scrivi questo – e glielo indicava col dito. – Che cosa? – Ma questo! scala di marmo bianco, cipresso in fondo, intorno rose chiare.191 La scena rievoca le numerose passeggiate fatte da Paola con il padre sulla via Appia. Lei stessa lo racconta in occasione di un’intervista rilasciata nel 1951: Mio padre mi prendeva a cavalcioni sulle spalle e ce ne andavamo così per le più belle vie di Roma, Via delle Sette Sale, la Via Appia, la Latina. E poi, quando vedevo una cosa che mi colpiva o che mi potesse poi ricordare tutto un panorama gridavo: – Scrivi, babbo. Lucertola su pietra bianca –. Oppure: – cavallo vicino alla tomba –. Erano taccuini e taccuini che mio padre docile riempiva nella sua bella scrittura stampatella in inchiostro verde su spessa carta Fabriano. E imparai così ad avere un senso del tutto armonico. Il gusto dello scrivere, quasi lo scrivere fosse un disegno in vari inchiostri in vari caratteri.192 189 Ivi, p. 104. Ibid. 191 Ivi, pp. 104-105. 192 FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, cit., p. 29. 190 114 L’importanza assunta da queste passeggiate per la formazione di Paola è evidente: l’esercizio di dettatura al papà le ha consentito di stimolare un certo spirito di osservazione. Da ciò deriva la sua abilità nella costruzione delle immagini e la costante attenzione alle varie sfumature cromatiche. Barbara arriva in collegio, dove verrà privata della libertà di scrivere alla madre. Il divieto stimola nella bimba la necessità di comunicare con lei: si tratterà soltanto di sfruttare il momento più opportuno per eludere la sorveglianza delle suore e inviare la lettera. Ancora una volta spuntano personaggi religiosi descritti in maniera negativa: è il caso delle suore dell’istituto: La maestra le disse: – Ecco il tuo nuovo vestito, cara. – E Barbara sentì allora, improvviso, immenso, il dolore che aveva tanto atteso. […] Guardò la maestra e grosse lacrime le scendevano a un tratto sulle gote. […] La maestra non poteva capire, e volle metterle quella gonnella. Barbara indietreggiò violentemente con un urlo. La suora ne fu spaventata e indignata. Le gettò il vestito sul capo, quasi volesse chiudervela sotto: la bambina credè di essere assalita da un’aquila mostruosa. Lanciò un altro grido e si dibatteva sul letto. La maestra vide che le educande avevano smesso di vestirsi per guardare, attonite. Con un gesto e un comando imperiosi le fece allontanare. Rimase sola con la ribelle. Disse: – Signorina, si metta il vestito e non facciamo storie. O rimarrà senza frutta per tre giorni. – Barbara non rispose. Non sapeva che cosa farsene della frutta. La suora raddoppiava le minacce – e non uscirai giovedì. Si ricordò della lettera per mamma che deve partire assolutamente. Ma la ripugnanza per quell’uniforme era invincibile. Tentò di commuovere la maestra. Il suo volto non era più che un’espressione di dolore, che un’umiliazione infinita.193 Barbara cerca di impietosire la suora, ma fallirà nel suo intento. La donna è decisa a far indossare la divisa dell’istituto alla nuova alunna e nulla servirà a farle cambiare idea: Giunse le piccole mani in atto di preghiera e balbettava parole sconnesse non riuscendo a dare una forma alla propria pena. Ma l’altra la guardava con le sopracciglia corrugate, impassibile. Allora, a poco a poco, perché qualcuno più 193 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., pp. 121-122. 115 forte di lei l’obbligava premendole una mano dura sul capo, Barbara si inginocchiò davanti a quella donna. Non parlava più, la guardava. Certo nei suoi occhi doveva essere una preghiera soprannaturale, mostruosa, perché l’altra la rialzò con uno strattone per romperne l’incanto. La scosse con forza, presala per le braccia gliele torse finchè non le furono entrate nelle maniche della giacchetta: la soffocò tra le pieghe della gonnella, gliela agganciò stretta sulla schiena perché non potesse togliersela. Allora avvenne una cosa straordinaria. Barbara puntava verso lei il piccolo indice e diceva, chiaramente, senza lacrime negli occhi e nella voce: – Tra poco vado da Dio e allora glielo dico come sei stata cattiva.194 Non è l’unico episodio in cui Barbara è costretta a subire le dure regole del collegio. La madre le invia una lettera, ma la figlia non potrà aprirla da sola, perché «tutte le lettere che arrivano o che partono debbono essere lette dalla direttrice».195 Sarà una delle monache a leggergliela, censurando e omettendo passi da lei ritenuti di poca importanza: – No – interruppe Barbara – Più su. Legga come prima, signora. Dove dice di Monte Ignoso. Poi come dice? – … Non ti dimenticare di fare merenda … – Ma dopo che Monte Ignoso è venuto con me, non dice più niente? – … Non ti dimenticare … – Allora mi rilegga quel pezzo. La suora disse: – Ma è una sciocchezza qualunque. Tutte le mamme lo dicono. – No, signora. Lei non può saperlo. Mamma ha ragione. Monte Ignoso anche da me lo sapevo già che è qui.196 La suora giudica scontate le parole di Emma. Quest’ultima ha considerato il collegio il luogo più sicuro per l’incolumità della figlia. In realtà perderà proprio là la sua bambina definitivamente. Barbara, infatti, non riesce a rispettare i divieti imposti dalle maestre e per questo, durante una gita, cercherà di impostare la lettera alla madre. Approfittando di un momento di distrazione di Suor 194 Ivi, p. 122-123. Ivi, p. 125. 196 L’uso del corsivo è originale. Ivi, pp. 123-124. 195 116 Emerenziana, si avventurerà per le vie di Roma, inseguendo un vecchio mendicante assieme ad un gruppetto di bimbi dispettosi. Per lei si tratta del Monsignore Vaira, l’unica persona in grado di aiutarla nel suo intento. Sfortunatamente non sarà così e, terminato l’inseguimento, Barbara si troverà faccia a faccia con la terribile figlia dell’anziano signore: Come un vento impetuoso una donna aprì la porta che il mendicante aveva richiusa dietro sé. Camminò minacciosa contro Barbara. Barbara s’era alzata in piedi e le tendeva la lettera cercando di spiegarle quello che voleva. Ma l’altra l’aveva presa per un braccio e cominciò a picchiarla crudelmente sulle spalle, sulla testa, sulla faccia, sulle mani gridando: – Finalmente uno ne ho preso! Vi faccio passare la voglia a tutti, quanti siete, di dare noia a mio padre, perché è un vecchio rimbambito. Ora vedi. Vi voglio ammazzare, mascalzoni! – Picchiava Barbara con movimenti così veloci, che lei non poteva riparare alcun colpo. Del resto non ne sarebbe stata capace. […] la donna sentì che picchiava una creatura come morta. Aprì le mani. Barbara cadde in terra, senza rumore, diventata improvvisamente un vestito da educanda, immenso, tutto vuoto, immobile. La donna la guardò, la scosse un poco con un piede. Disse: – Un’altra volta impari, canaglia! – E rientrò nella casa senza più curarsi di lei.197 I personaggi di Monte Ignoso hanno reazioni molto violente, nel momento in cui proteggono i propri cari. Non si affidano alle parole, ma a gesti aggressivi, finalizzati all’eliminazione fisica del proprio avversario. In questo caso spunta una donna decisa a salvaguardare in tutti i modi l’incolumità del padre malato. Per lei è scontata l’appartenenza di Barbara alla schiera di quei bimbi capricciosi, impegnati quotidianamente a tormentare l’anziano mendicante. Il suo unico obiettivo è quello di punire i loro gesti. La piccola uscirà molto provata da quello scontro e, in preda ad uno stato confusionario provocato dalle botte, cade in una pozzanghera ammalandosi di difterite. Emma, avvisata dell’accaduto, si precipita dalla figlia e tutti i presenti la 197 Ivi, pp. 135-136. 117 trattano come «se vicino a loro passasse qualche cosa di macabro».198 Sente che sta per perdere l’amata figlia e nulla ha per lei più importanza. È talmente provata da ignorare la presenza del marito Giovanni. Quest’ultimo, vittima di uno dei suoi ormai frequenti deliri, si chiuderà a chiave in camera con la Barbara, per assisterla fino alla fine. La moglie, in quel momento, si è recata a prendere del ghiaccio per la malata e, una volta ritornata, non riuscirà ad accompagnarla nei suoi ultimi attimi di vita: Emma era appena uscita, Giovanni si alzò, con un salto fu alla porta, la chiuse a chiave. Poi venne a inginocchiarsi ai piedi del letto di Barbara ed esultante spasimava nel proprio dolore. – Volevo essere solo con te, mamma adorata. Io solo devo assistere alla tua fine. Io solo, tuo figlio, ho questo diritto. Quella donna non se ne andava mai. Hai fatto bene. Ora l’ho chiusa fuori. Non entrerà più. Non entrerà più nessuno.199 Giovanni è consapevole del rapporto esclusivo instaurato dalla consorte con la figlia. Questo amore materno non ha contribuito ad unire la famiglia, ma, al contrario, è stata la causa principale della sua disgregazione. Barbara sta morendo e il padre vuole, per una volta, vivere un momento da solo con lei, senza la presenza invasiva della protagonista. Nel passo citato la chiama «Quella donna»,200 privandola del suo ruolo e della sua identità di madre. La scelta di Giovanni scatenerà l’ira della moglie, la quale arriverà a desiderare la sua morte. Ancora una volta emerge il desiderio di morte di un personaggio masiniano nel momento in cui viene privato dell’affetto dei propri cari. Una mente instabile provoca una simile reazione. Una sensazione di vuoto travolge la protagonista: 198 Ivi, p. 146. Ivi, p. 158. 200 Ibid. 199 118 Emma era entrata in uno strano vuoto. Non il vuoto che gli uomini comunemente immaginano, eterno infinito immobile, ma un vuoto morbido, pulsante, limitato, che l’avvolgeva in una mandorla come i cherubini la madonna in trono. Il vuoto degli uomini le era intorno e sotto e sopra ed ella credeva precipitarvi, se nel proprio vuoto voleva camminare o spostarsi. La paura la tenne immobile quei due giorni; poi capì che il suo vuoto oltre esserle un sostegno, era anche la vita dell’uomo, l’ultimo, il primo seme di vita umana che vagava nel nulla deserto: lei ne era il nucleo. Bisogna ricondurlo su una terra calda e semplice dove possa maturare.201 Nella sua solitudine accresce la sete di vendetta nei confronti del marito, colpevole di averla separata dalla figlia nei suoi ultimi istanti di vita. Lui non soffrirebbe quanto lei: «È colpa di Giovanni se non l’ho vista morire. Debbo vendicarmi. Voglio torturarlo fino alla morte. A Monte Ignoso. Monte Ignoso che finora è stata la mia prigione diventerà la sua».202 Emma non riesce ad accettare questa morte. Ritiene di essere l’unica madre a soffrire e «dimenti<ca> che esistono le madri».203 Rifiuta il pensiero di seppellire la figlia, perché «una tomba la soffoc<a> […]. <Lei> h<a> bisogno che Barbara viva».204 La madre di Marco non la pensa allo stesso modo e dimostra un rancore ancora vivo nei confronti del figlio: – Io vorrei che Marco potesse avere una tomba, per andarci a pregare. Avere una tomba al camposanto, consola. Sembra di essere ricchi: è come avere un prato di terra buona. – Ma sotto c’è quel figlio tuo, che forse con la pietra sul cuore non può respirare. – Ben gli sta. Perché è morto? Se io l’ho fatto lui doveva vivere finchè io vivevo. – Vuol dire che lui doveva morire. – Si deve solo quello che i vostri genitori vogliono. – E Dio? – Dio non vuole mai cose cattive. Quella che Marco ha fatto è una cosa cattiva dunque Dio non l’ha voluta.205 201 Ivi, p. 161. Ivi, p. 162. 203 Ivi, p. 166. 204 Ivi, p. 167. 205 Ibid. 202 119 Marco non verrà mai perdonato dalla madre per il suo gesto. Le convenzioni guidano i pensieri della mamma, impedendole di provare dolore. È un’immagine materna diametralmente opposta rispetto a quella di Emma. Quest’ultima è legata alla figlia in maniera ossessiva e tale legame provocherà la morte e il dolore di coloro che la circondano. La madre dello stalliere nuoce a se stessa e alla memoria del defunto con il proprio comportamento, mentre la mamma di Barbara arriva addirittura a premeditare il male per coloro che osano intaccare il rapporto con la figlia. A proposito della maternità dice a Nina, la madre dello stalliere: – Barbara non si è uccisa e Marco sì. Ma che importanza ha? I nostri dolori sono gli stessi. Voi, Nina, fate una differenza solo perché io posso dirlo, e voi no, dite. Ma io faccio una differenza perché Barbara non voleva morire e Marco voleva morire. Che importa se è una cosa che voi non capite? Se era una necessità per vostro figlio che v’importa se per la gente è male? Io, Nina, se Barbara si fosse uccisa, sederei sulla tomba con un coltello in mano e a ogni passante direi: – Barbara si è uccisa, è stata felice uccidendosi. – Se vedessi che quello sorride o si allontana con disprezzo, gli pianterei il coltello nel cuore. Che madre è una madre che si vergogna di suo figlio? La Vergine Maria, lo sapete che baciava i piedi di Gesù mentre glieli inchiodavano sulla croce? Come a un assassino. Come a uno schiavo. – Glielo ammazzavano, glielo ammazzavano, il figlio suo. Magari il mio mi avessero ammazzato. Allora come lo difenderei. Ma se lui ha fatto il peccato, come lo difendo?206 Qualunque cosa Emma dica a Nina, lei non riesce a cambiare idea. È l’immagine desolante e negativa di una madre incapace di difendere la memoria del figlio. Nel frattempo Giovanni, in preda ad una forte crisi di identità, fugge. L’evento non preoccupa la moglie, convinta di compiere, in un modo o nell’altro, la propria vendetta: – E uno – pensava Emma. – Non importa se non l’ho ucciso. Si ucciderà da sé in un modo o nell’altro. Domani o dopo, me lo riporteranno schiacciato da 206 Ivi, pp. 168-169. 120 un’automobile o mi avviseranno che l’hanno rinchiuso in un manicomio. Meglio così. È stato facile. Pure lui, con dentro la sua anima piena di paura, era un uomo. E io che cosa sono? Un vuoto oscillante tra la vita e la morte di Barbara. E loro? Vedremo loro, quello che sono. Ora tocca a loro.207 La solitudine della protagonista diventa sempre più opprimente. In quei sei anni Barbara le ha colmato un vuoto doloroso e la sua morte l’ha riportata ad un autentico stato di abbandono: «Barbara è morta. Non è più. È sotto terra. È in cielo. Sono una madre senza figlia. Sono una donna sola nel mondo».208 La consapevolezza della sua condizione la spinge a non odiare più il marito. Al contrario decide di cercarlo, perché «Lei è l’ultima guardiana del focolare e parte per cercare il fuoco; un tizzo per riattivare le ceneri spente».209 Si rende conto di essere stata travolta dal dramma di non aver vissuto la morte della figlia. Anche Giovanni vuole ritornare dalla moglie e così, «dopo essersi riposato, come ha fatto ora Emma, <riprende> il cammino per venirle incontro».210 Emma dimostra un cambio repentino di sentimenti verso l’uomo, al quale rivela tutto il suo amore. Ben presto, però, emerge il vero motivo di questa passione rinnovata: «Barbara è morta, <loro sono> soli. <Devono> amar<s>i. Ecco perché <è> venuta a cercar<lo>».211 Viste le premesse è impossibile per la coppia ristabilire un nuovo equilibrio: la donna è di nuovo ossessionata dalla necessità di conoscere gli ultimi istanti di vita della bambina. In un primo istante il marito sembra non ricordare la morte di Barbara. Successivamente gli ritorna in mente l’episodio del tradimento della consorte con lo stalliere. Deve ucciderla, perché è così che si comporterebbe un marito esemplare: «Emma, non morire. 207 Ivi, p. 185. Ivi, p. 192. 209 Ivi, p. 212. 210 Ivi, p. 214. 211 Ivi, p. 224. 208 121 Perché mi hai tradito? Ecco, per colpa tua, devo ammazzarti. Ma ho paura. Ho paura. Mi perdoni? Mi perdoni?»212 La violenza anima di nuovo uno dei personaggi masiniani e stavolta sarà Emma ad essere la vittima, anche se non dimostra nessun timore: «Dopo dopo mi ammazzi. T’insegno io. Mi strangoli. Ma prima dimmi com’è morta Barbara».213 Non lo saprà mai. Giovanni la soffocherà nel fango. Ora anche Emma è vittima del suo folle amore materno. 212 213 Ivi, p. 231. Ibid. 122 II.2.2. «Giovanni […] aveva bisogno di sentirsi protetto»:214 l’immagine dell’inettitudine paterna in Monte Ignoso. Giovanni quando aveva sposato Emma aveva trentatré anni, un uomo. Pure l’espressione, i modi, le mani, le parole, tutto di lui era d’un’infantilità dolorosa di bambino che sa che gli uomini muoiono, che tutto scorre. Si metteva le mani davanti al cuore o alla fronte per arginare quel flusso incessante di sangue e di pensieri che tessevano la vita.215 Le prime righe del passo citato sottolineano l’età di Giovanni all’epoca del suo matrimonio con Emma. È un uomo, ormai, anche se non è in grado di ricoprire il proprio ruolo di capofamiglia. I suoi genitori sono i responsabili di un simile atteggiamento. Il padre, del quale la Masino non rivela il nome, è assente e soffocato dall’imperiosità della moglie Giulia: è incapace di controllarne l’aggressività. Giovanni, quindi, è privo di un solido modello maschile a cui ispirarsi. La madre, al contrario, si distingue nella narrazione per la sua negatività e cattiveria. Donna cinica ed avara, non rispetta la morte del marito e la sua perfidia è di un livello tale da suscitare l’odio dell’intero paese: A creargli un carattere così infelice aveva molto contribuito la madre, la signora Giulia, donna d’una avarizia perversa e appassionata. Dopo molte insistenze e lotte da parte del padre, e perché questo rientrava nelle ambizioni della signora Giulia, a tredici anni Giovanni era stato mandato in un collegio di preti in una città vicina. Vi aveva fatto il ginnasio e il liceo, poi era andato all’università e aveva studiato belle lettere. Nei dodici anni trascorsi lontano dalla casa e a contatto con uomini forti e sani avrebbe potuto liberarsi da quell’angoscia ridicola che lo torturava, invece la giovinezza era trascorsa su lui come l’acqua su una foglia grassa, senza neppure lasciargli una goccia fresca in mezzo al cuore.216 214 Ivi, p. 171. Ivi, pp. 31-32. 216 Ivi, p. 32. 215 123 La natura malata di Giulia emerge in occasione della perdita del coniuge: per lei la preoccupazione più grande è quella di non investire troppo denaro nelle spese per il funerale: Quando suo padre morì egli pensò: – Era meglio se moriva mamma. – Allora seppe di non amarla. Il padre aveva chiesto d’essere tumulato nella tomba della sua famiglia, nella città natale. Bisognava spedire la salma e la spedizione era costosa. La signora Giulia non voleva sprecare tanto danaro: imprecava contro il morto e bisognò che Giovanni si occupasse di tutto, quasi di nascosto. Tornando dal suo lugubre viaggio fu accolto da una scenata violenta, perché non aveva chiesta e riportata indietro la cassa d’imballaggio che proteggeva la bara. – L’abbiamo pagata. – urlava la signora Giulia – sono dei ladri e tu sei uno stupido. Una cassa così bella e forte! – Era andata a dire il fatto suo alla società di pompe funebri ed era riuscita a ricuperare la cassa. Ci aveva messo dentro, in belle pile odorose, le lenzuola del letto matrimoniale che ormai non dovevano più servirle.217 La morte del marito non riveste alcun significato per la signora Giulia. Il loro matrimonio è solo una parentesi da chiudere e l’immagine delle lenzuola riposte nella cassa d’imballaggio della bara sono un chiaro simbolo di ciò. Il figlio deciderà di sposare Emma, perché quest’ultima si distingue dalla madre per la sua generosità.218 Giulia apprende con sarcasmo la notizia di quell’ unione imminente, e augura alla nuora di morire dopo un eventuale parto: Finalmente un giorno disse a sua madre che avrebbe sposato Emma. Quella rispose: – È molto ricca. Falle subito un figlio e speriamo che muoia di parto. Ma Emma aveva rifiutato. – Finché vive lei, Giovanni, io non ti sposo. Però prometto di aspettarti.219 217 Ivi, pp. 32-33. Ivi, p. 34. 219 Ibid. 218 124 Emma è consapevole della natura malata della sua futura suocera e, di conseguenza, decide di adottare le dovute precauzioni. Arriverà presto la fine della signora Giulia e sarà proprio il paese intero ad augurarle una morte atroce: Una domenica mattina, alla fine della messa, (la signora Giulia era presente, in uno dei primi banchi) una donna si alzò e stendendo le mani verso l’altare pregò a voce alta e chiara: – Signore, fa morire la signora Giulia d’un cancro all’utero perché questo è giustizia. Vi fu un silenzio largo, stupefatto. La signora Giulia rimase immobile. Il prete si era fermato sull’altare, bianco. A un tratto due o tre contadine gridarono: – Sì, fatela morire, Signore, perché è troppo cattiva. Allora tutte le donne si alzarono e stesero le mani a Dio. Anche le giovanette. Anche le bambine. – Dio uno e trino – pregarono – falla morire d’un cancro all’utero per il male che fa al paese. Mangiatele le interiora. Vuotatela come ha vuotato le nostre case. Gli uomini non si movevano. Solo una voce forte e sicura disse: – Vergine Santa, liberaci dal male. Purchè muoia non farla soffrire. – No – urlò esasperata una voce femminile, – un cancro all’utero. Perchè è donna deve soffrire di più, come una bestia.220 La ribellione delle contadine conferma la natura negativa della donna colpevole di aver «causato la rovina del proprio figlio»221 e di «vede<re> nell’essere madre solo la possibilità di esercitare la tirannia, fino al punto di suscitare la ribellione persino in coloro non direttamente legati a lei».222 Giulia morirà poco tempo dopo a causa di un cancro all’utero. Ritorna l’immagine del ventre, simbolo della maternità, già presente nell’episodio del calcio alla pancia sferrato da Marco ad Emma. Il colpo ricevuto da quest’ultima intende colpire la sua ossessione materna. La malattia della suocera, invece, simboleggia l’incapacità di nutrire un amore sincero per Giovanni. Da sempre le è indifferente il benessere del figlio e la sua unica preoccupazione è quella di 220 Ivi, pp. 35-36. SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione, cit., p. 54. 222 Ibid. 221 125 «cerca<re> tra le mattonelle i chiodi e i pezzetti di spago e gli spilli caduti»,223 riordinandoli «gelosamente […] in profonde scatole di cartone dentro armadi ferrati».224 Giovanni desidera dimenticare il passato e conoscere il significato dell’amore. Pensa di poterlo fare sposando Emma. Tuttavia, in seguito al suicidio di Marco, intuisce il coinvolgimento della moglie nella tragedia e capisce di essersi sbagliato: la donna ha un passato torbido da dimenticare e non è perfetta come il marito all’inizio aveva creduto. Solo Barbara, la figlia, sembra avere questi requisiti e, perciò, il padre stabilisce un legame particolare con lei fingendo di essere suo figlio: «Giovanni giocava con Barbara per dimenticare la propria angoscia. Il loro gioco consisteva nel fingere che Barbara fosse la mamma di Giovanni».225 Il suicidio di Marco lo ha destabilizzato, facendo emergere antichi timori. Ancora una volta è incapace di affrontare la vita assumendosi determinate responsabilità e la finzione si profila uno strumento ideale di fuga. L’uomo entrerà completamente nella parte: Giovanni provava una strana gioia a questo gioco, ubbidiva senza neppure pensare che avrebbe potuto non ubbidire. Nell’angolo, con il volto contro il muro, rifletteva: – Prima che un bambino invecchi passano molti anni. Tutti gli altri sono già morti e lui è ancora giovane. Bisogna proprio che accada una disgrazia, perché non sia così. Del resto lui è ancora tanto piccolo e la mamma veglia attentamente che non gli accada nulla. Può sgridarlo, può batterlo, ma in ogni occasione lo difende. Ora, per esempio, è sicuro che sarà perdonato, se lo chiede.226 223 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 35. Ibid. 225 Ivi, p. 75. 226 Ivi, p. 76. 224 126 Giovanni sente l’esigenza di sfuggire alla propria identità: ha cercato di dimenticare il suo passato familiare, mentre ora, nel nuovo ruolo di figlio, desidera riscrivere la propria storia. È possibile descrivere il personaggio secondo la definizione fornita da Maria Vittoria Vittori nell’articolo Bibbia e follia: è un «figlio mai cresciuto e quindi debole e irrisolto».227 Il suo intento è, come osserva Silvia Boero, quello di «regredire allo stadio infantile e ripercorrere la fanciullezza, nella speranza di uscirne fuori come un uomo nuovo, impresa in cui fallirà comunque».228 Il gioco ideato dal personaggio è un’autentica follia: «– Un gioco – ripeté Giovanni, e lo ripeté molte volte perché non ne era persuaso».229 È una nuova dimensione necessaria al suo riscatto di uomo, di figlio e di marito: Giovanni ricostruiva la giovinezza trascorsa, se ne creava una nuova, da vivere ora, che sarebbe stata eterna. Episodi stranissimi della sua infanzia gli riapparivano come cose da realizzare domani. A poco a poco confondeva le due madri: la signora Giulia e Barbara. Una volta la signora Giulia voleva obbligare la serva a dormire in una cassa per non comprarle il letto: aveva per questo furiosamente litigato con il marito e l’aveva preso a schiaffi. Soddisfatta era andata a dormire chiudendolo fuori di camera. Il marito aveva passato la notte su una sedia, nel corridoio, senza poter addormentarsi, tanta gioia gli dava l’aver commesso un atto di ribellione. Giovanni era scivolato vicino a lui per consolarlo. Nel buio gli cercava le mani e voleva baciargliele. Ma suo padre aveva cominciato a parlare vantandosi, insultando la moglie. Il bambino ascoltava e si sentiva diventare ostile. Lasciò le mani del padre. Ora l’uomo raccontava cose sudice e volgari, fatti intimi; le raccontava a lui bambino, a suo figlio, come se parlasse di cose altrui con un estraneo. Forse credeva di rivendicare la propria maschilità, forse credeva di allontanare il figlio dalla madre. Ma Giovanni piano piano se n’era andato, per non morire di ribrezzo, e in camera sua si era steso sul piccolo letto, aveva chiuso gli occhi, e s’era imposto, stringendo i pugni: – Non ho sentito nulla. –230 I ricordi spingono l’uomo a rifugiarsi nella finzione e nella pazzia: 227 MARIA VITTORIA VITTORI, Bibbia e follia, in «L’indice dei libri del mese», n. 11, dicembre 1994, p. 5. 228 SILVIA BOERO, Metodologie di sovversione, cit., p. 58. 229 PAOLA MASINO, Monte Ignoso, cit., p. 78. 230 Ivi, pp. 85-86. 127 Per tutta la notte non aveva dormito cercando di ricostruirsi nel cuore una nuova immagine della madre, una nuova immagine del padre. La ripugnanza d’allora, ora nel pensiero si raddoppiava. Non sopportava che un uomo vile come quello avesse insultato sua madre, sua madre, Barbara. Barbara è la donna più pura (non perché è sua mamma), ha un sorriso pieno di luce, movimenti sereni e nobili, un parlare pieno di logica che ripara e sostiene le persone come una bella costruzione. E non è avara. Qualcuno ha detto che è avara.231 L’immagine della famiglia non si è cancellata nella mente di Giovanni. La follia è l’unica medicina contro questo male e si rivela nella sovrapposizione del volto della figlia Barbara a quello della madre Giulia. Tale atto gli richiede uno sforzo considerevole, evidente dalla ripetizione dell’espressione «sua madre, sua madre, Barbara».232 Vuole convincersi della possibilità di trasformare una pazzia in realtà. Nel frattempo Emma ha perso il suo ruolo di moglie, diventando un’estranea, una «signora»233 qualsiasi. Alla notizia dell’imminente trasferimento in collegio della figlia, Giovanni reagisce sostenendo l’impossibilità di una simile prospettiva, perché «Le mamme non vanno in collegio».234 Nessun evento gli farà abbandonare la sicurezza della sua nuova identità: Barbara […] Lo pregava: – Non giocare più ora, babbo. Io devo partire davvero. Giovanni si staccò da lei e fece un passo indietro, violentemente. – Babbo, sei tanto buono. Fammi questo piacere. Quello alzò una mano davanti al volto, come per difendersi. Piegato in avanti ascoltava con tutto il corpo. Barbara gli sorrise e gli si avvicinava. – Babbino caro, non avere paura. Se io non ho paura … Ma ora l’uomo alzava contro di lei la mano minacciosa. Lanciò un urlo. – Finiscila di canzonarmi, vecchiaccia egoista! Mi chiami babbo, me, che sono tuo figlio, per ricordarmi che si deve morire? Lo so che si deve morire, ma morirai prima te di me, e sarò io a chiuderti gli occhi, strega maledetta! Proprio tu che sei mia madre, mi fai soffrire così!235 231 Ivi, p. 86. Ibid. 233 Ivi, p. 93. 234 Ivi, p. 102. 235 Ivi, p. 111. 232 128 Sfortunatamente le ultime parole pronunciate dal padre nel passo citato, saranno destinate a realizzarsi, come è ormai noto. La scena si chiude con una reazione violenta da parte di Giovanni, deciso a non voler abbandonare la sua nuova madre: l’altro, a sentirsi ancora chiamare babbo, divenne furioso. […] la macchina partì. La bambina sporta fuori dal finestrino tendeva le braccia a Giovanni: – Babbo, babbo mio. Voglio baciare il mio babbo prima di partire! Voglio essere perdonata! Il pazzo sentì quell’ultimo grido della sua creatura. Raccolse una pietra e con tutta la sua forza gliela scagliò dietro. La pietra rimbalzò contro un parafango. Barbara si lasciò scivolare a sedere a fianco di Emma. Le mise il capo sulle ginocchia. L’una così abbandonata, l’altra rigida, tutte e due in silenzio piangevano.236 Barbara ha perso per sempre il papà, mentre Emma il marito. Quest’ultimo è deciso a non abbandonare la sua nuova dimensione, tanto da «continua<re> da solo il gioco»237 durante la permanenza della figlia in collegio. Quando lei morirà, lui crederà di aver perso la madre.238 Nulla servirà a convincerlo del contrario, nemmeno le parole rabbiose della moglie: Lei sibilò: – Non è tua madre che è morta. È morta Barbara. Mia figlia! Giovanni la guardò sbalordito: – E per quello mi uccidi? Io che colpa ne ho? – Era tua figlia, non era tua madre. – Non è possibile. Non ho mai avuto figli. Non sono mai stato con una donna. – Eppure io sono tua moglie.239 Emma dice «È morta Barbara. Mia figlia»,240 e non utilizza l’aggettivo ‘nostra’. Giovanni, nella sua follia, asseconda l’ossessione della moglie sottolineando la 236 Ivi, p. 112. Ivi, p. 123. 238 Ivi, p. 163. 239 Ivi, p. 165. 237 129 sua completa estraneità a quella famiglia. Il suo disinteresse non durerà a lungo in quanto La paura di essere indifeso nella vita, poiché Barbara era morta, lo spingeva verso Emma. La sua natura debole, come gli creava fantasmi più paurosi della realtà, così gli faceva nascere nell’anima un bisogno mostruoso di affetto e di amore.241 Giovanni fallirà di nuovo: dopo essersi rivelato debole nel proprio ruolo di figlio, di marito e di padre non sarà in grado di affrontare e difendere nemmeno la pazzia. La fuga da un’identità all’altra si rivelerà un percorso senza uscita. 240 241 Ibid. Ivi, p. 175. 130 II.2.3. «Il pensiero dominante era quello di fuggire da mia madre»:242 confronto tra Monte Ignoso e il romanzo Poco di buono di Enrico Alfredo Masino. Nel 1942 Enrico Alfredo Masino pubblica il suo primo e unico romanzo intitolato Poco di buono presso l’editore Vallecchi, con lo pseudonimo di Enrico Sìnoma, chiaro anagramma del cognome. L’opera non ebbe un’ampia diffusione all’epoca e oggi è pressoché sconosciuta, nonostante possa essere considerata di un certo livello letterario. Il testo verrà, tuttavia, ristampato presso Feltrinelli nel 1962 con il nome originale dell’autore, Enrico Alfredo Masino.243 Lo scrittore sembra adottare uno stile diametralmente opposto a quello della figlia. Poco di buono è la memoria scritta dal figlio di una lavandaia durante la maturità per evitare di «abbrut<tire> la <propria> vecchiaia nell’ozio».244 La narrazione si svolge in maniera chiara e i fatti sono riportati in tutti i loro particolari, cosa che non avviene sempre nei romanzi di Paola. Tuttavia sono presenti alcune similitudini con le opere di quest’ultima, in particolare con Monte Ignoso. Il romanzo paterno si apre illustrando una situazione familiare disastrosa: il protagonista non ha mai conosciuto il padre e vive con la sorella Matilde e la madre. Quest’ultima si distingue per la sua cattiveria e per il costante desiderio di punire e tiranneggiare il figlio. Presenta, quindi, diversi tratti in comune con la signora Giulia del romanzo di Paola. La donna instaura una relazione con Checco, lo stalliere. Mentre Emma cerca di nascondere il rapporto per proteggere l’innocenza di Barbara, la lavandaia di Poco di buono non fa altrettanto: 242 ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, Firenze, Vallecchi, 1942, p. 13. FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO (a cura di), L’archivio di Paola Masino, cit., p. 194. 244 ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., p. 315. 243 131 E, mentre guardavo esterefatto Checco lo stalliere steso nel nostro letto fissarmi curiosamente, mia madre mi allungò un calcio e richiuse con violenza. Scesi nella stalla e mi rifugiai nel fieno. È quel ricordo mai dimenticato che mi ha impedito di amare mia madre; ella aveva insudiciato per sempre la sua immagine in me e forse è stata questa la mia disgrazia più grande.245 La voce narrante del passo citato condivide con Emma e Giovanni il ricordo doloroso di una famiglia segnata dall’immoralità. A differenza dei protagonisti del romanzo di Paola, il personaggio descritto da Enrico non sceglierà la follia oppure un ossessivo amore genitoriale per dimenticare il passato, ma la via più pratica della fuga: «da tempo per i miei piccoli risparmi avevo dovuto inventare dei nascondigli, di mia sorella non avevo da temere, ma la mamma mi perquisiva spesso con cura rovesciandomi come un fantoccio tra le braccia potenti».246 La madre, quindi, non è soltanto violenta nei confronti del figlio, ma anche una ladra: da sempre fruga nei cassetti «nelle case dove la chiama<no> per il bucato o a lavare i piatti».247 In ogni occasione ella si preoccupa di informare i figli a proposito dei sentimenti nutriti nei loro confronti: «Cominciò dal dire che mia sorella e io eravamo due carogne, ma che ci avrebbe fatto sputare tanto sangue da mandarci all’altro mondo prima che noi facessimo crepare lei».248 I soldi sono spesso la causa delle percosse inferte al figlio: Quando le dissi che non avevo più le cinque lire datemi dal sor Augusto, la sua ira raddoppiò; mi prese la testa sotto il braccio sinistro, mi dette sculaccioni e pugni fino a che non ne potè più dalla stanchezza e mi gettò sul pagliericcio come uno straccio. […] odiavo tanto mia madre in quel momento che se avessi potuto me la sarei messa sotto i piedi.249 245 Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. 247 Ivi, p. 10. 248 Ivi, p. 11. 249 Ibid. 246 132 «Il pensiero dominante <del ragazzo è> quello di fuggire da <sua> madre»250 e quando ci riesce «probabilmente <la rende> felice di non veder<lo> più».251 Gli anni lontani dalla famiglia saranno ricchi di esperienze di natura diversa: il protagonista frequenterà l’ambiente del porto per poi passare all’austerità dei collegi dell’alta società. Sarà un segretario, un mantenuto, uno scommettitore, un giornalista per poi arrivare, dopo aver indossato i panni di altre numerose identità, al ruolo di marito devoto. Le città da lui visitate saranno numerose: da Roma andrà in Sardegna, fino ad arrivare a Venezia e alla terra trevigiana di Paese. È attento a sfruttare ogni esperienza per allontanarsi dalla povertà mentale e materiale del suo ambiente d’origine, evitando di parlare della madre poiché «la stessa morale dei grandi non ammette ci siano delle mamme poco materne».252 I temi affrontati da Enrico sono la solitudine infantile e l’aggressività genitoriale, presenti in Monte Ignoso e più in generale nell’intera produzione narrativa della figlia Paola: Mi mostrò inoltre la lettera di mia madre probabilmente scritta da mia sorella sotto dettatura perché non ricordo che la mamma sapesse scrivere: dichiarava che non voleva aver che fare con me, dal momento che me ne ero andato restassi dove mi trovavo e mi arrangiassi, se potevo mandarle dei quattrini li spedissi, era vecchia e acciaccata e aveva bisogno di aiuto anziché aiutare chi era partito senza più curarsi di lei.253 Numerosi particolari relativi a questa figura materna negativa richiamano alla mente le caratteristiche dell’ormai nota signora Giulia di Monte Ignoso. Il protagonista risente della mancanza del padre ed è consapevole di come il difficile ambiente familiare della sua infanzia l’abbia profondamente condizionato: 250 Ivi, p. 13. Ivi, p. 12. 252 Ivi, p. 32. 253 Ivi, p. 76. 251 133 evocav<o> alla mia mente l’immagine di mio padre che non avevo conosciuto, del quale non sapevo nulla, che pensavo veramente bello, che sarei stato tanto felice di avere vicino, che avrebbe forse fatto di me un uomo tutto differente e certo migliore.254 Giovanni risente dello stesso problema: è privo di un valido modello maschile. Monte Ignoso si caratterizza per la presenza di figure paterne inette ed incapaci di ricoprire il proprio ruolo o assenti. In Poco di buono accade lo stesso. Un «uomo taciturno che si occupava unicamente del suo lavoro»255 è, ad esempio, Efisio Onida, padre del personaggio di Peppineddu. Priva di padre è Emma, omonima della protagonista di Monte Ignoso e donna che farà perdutamente innamorare il protagonista dell’opera di Enrico Alfredo: in lei riconoscerà una sorta di guida, come è accaduto a Giovanni nel romanzo di Paola: Le mie premure erano tutte per Emma che mi destava una specie di sgomento a mano a mano che scoprivo in lei finezze e profondità di sentimento insospettate. Ma con il passare dei giorni e delle settimane anche queste lacune si colmavano; il passato si annebbiava e provavo un piacere acuto nell’affidarmi a lei come a una guida spirituale dandole modo di mettere in luce quanto di buono ci poteva ancora essere in me.256 Nonostante i sentimenti per lei, l’uomo si lascerà sedurre dalla madre, Dirce. Avverrà uno sdoppiamento nel personaggio: In me avvenne uno sdoppiamento curioso; da un lato l’uomo completo che ascoltava Emma la seguiva e saliva con lei, dall’altro l’individuo fermo alla bassezza terrena. Ma questo mi permetteva di accostarmi alla mia fidanzata in tutta purezza; mai vicino a lei ebbi un pensiero volgare. Era realmente una madonna che rispettavo come una madonna.257 254 Ivi, p. 162. Ivi, p. 32. 256 Ivi, pp. 244-245. 257 Ivi, pp. 245-246. 255 134 A causa della relazione con la madre egli perderà Emma per sempre, come Giovanni non riuscirà mai più a ristabilire un equilibrio con la moglie: In quella catastrofe mi apparve chiara unicamente l’impossibilità di rivedere Emma; era il colpo più duro che la vita mi avesse dato, tanto che credevo di non poterlo sopportare. Sentivo il bisogno di un sostegno come può sentirlo un ubriaco costretto a stare in piedi.258 L’analisi del matrimonio è al centro dell’interesse di Enrico. Paola descrive la negatività di questo tipo di legame, quasi sempre basato sulla necessità di soddisfare esigenze che non hanno nulla a che fare con l’amore. Il padre nel romanzo scrive: «il matrimonio era tanto attraente quanto lo era stato il progetto di farmi entrare in seminario. Essere lo schiavo di una moglie […] era quasi lo stesso che essere lo schiavo di tutti i legami che la chiesa impone ai sacerdoti».259 Il protagonista cambierà idea costruendo con la moglie Anna un solido rapporto, obiettivo non raggiunto da Emma e Giovanni. Il passo citato sottolinea una certa critica alla Chiesa in quanto istituzione. Se Paola affida alle descrizioni una visione negativa della religione, Enrico permette al proprio personaggio di esprimere chiaramente il suo disappunto. L’osservanza dei precetti religiosi spesso impedisce all’uomo di progredire e di realizzare la propria felicità. È il caso di un medico incontrato dal protagonista, addolorato per l’impossibilità di sposare l’amata sorella dell’ingegnere a causa delle loro divergenze religiose: L’amore era divampato tra quelle due nature ardenti; si erano fidanzati. A un tratto sorse la questione grossa che forse inconsciamente era stata fino allora evitata da entrambi. La donna era religiosa e l’uomo positivista e ateo come usava in quel 258 259 Ivi, p. 247. Ivi, p. 102. 135 tempo; la donna voleva il matrimonio in chiesa previa confessione a comunione, l’uomo non voleva che il matrimonio civile. […] il matrimonio non si concluse.260 Il protagonista troverà un equilibrio con la moglie Anna, anche se per un certo periodo considera il matrimonio solamente un valido contratto d’affari: «quello che Mary mi proponeva non era un matrimonio e […] sarei stato uno sciocco a respingere l’unico aiuto serio che la provvidenza mi offriva proprio nel momento nel quale […] sarei rimasto senza impiego e senza quattrini».261 Inizialmente l’io narrante non considera l’ipotesi di legarsi ad una donna della quale è innamorato. Ad eccezione del denaro, niente ha per lui significato, neppure la Chiesa e la religione. Ritiene i sacerdoti degli individui ambigui e incomprensibili: «il prete è una creatura differente dagli altri, uomini e donne. […] la sua intelligenza […] è un lama a forma il cuneo più o meno tagliente fatta per insinuarsi dividere e imperare».262 Come Paola paragona la suora del collegio di Barbara ad un’aquila imperiosa, Enrico sottolinea la negatività dei rappresentanti di Dio. Il disprezzo e la diffidenza verso quest’ultimi non si attenua nemmeno quando il protagonista di Poco di buono incontra un sacerdote veneto: Nell’attesa sfogliai un catalogo dei magazzini dei Fratelli Bocconi posto sul tavolino. Da quando avevo perduto di vista il reverendo Piras non avevo avvicinato preti e la loro mentalità e i loro costumi mi erano diventati del tutto estranei; immaginarsi la mia sorpresa e la mia voglia di ridere quando vidi accuratamente ritagliate e asportate dal catalogo tutte le parti che raffiguravano carne femminile; seni su busti di donna, coscie su calze lunghe, gambe sotto le mutande, braccia ai lati dei corpetti, teste sotto i cappellini. Il catalogo era ridotto a una serie di buchi a edificazione del pubblico maschile e femminile che veniva a trovare il parroco.263 260 Ivi, p. 122. Ivi, pp. 132-133. 262 Ivi, p. 146. 263 Ivi, p. 178. 261 136 E aggiunge successivamente: Grazie al prete mi feci onore e imparai la necessità di averlo amico anche e soprattutto se impostore. D’altronde nulla ci obbliga a essere amici sfegatati di questo o di quello; anche se non si può essere amici di tutti bisogna ricordarsi che tutti sono uomini e possono esserci utili purchè si abbia cura di scoprire il loro lato buono e tenerlo presente perché è quello che al momento opportuno ci può rendere simpatica anche la persona più indigesta. Forse non ho detto bene e in modo comprensibile quello che volevo perché non sono sempre stato un buon cristiano e qualche volta dimentico anche ora di esserlo, ma chi vuole intenda.264 L’opera di Enrico Masino analizza svariate problematiche, tra cui il delicato tema dell’omosessualità con l’episodio delle avance fatte da un enigmatico «russo di Kiew»265 al protagonista. Quest’ultimo riuscirà a ricucire i rapporti con la sorella Matilde, quando la mamma sarà ormai defunta. Ciò ricorda l’immagine della sorella di Marco, lo stalliere di Monte Ignoso, impegnata a difendere e a proteggere il suo ricordo dalle assurde accuse della madre. I due romanzi, tuttavia, analizzano il fascismo in maniera differente. Nel testo di Paola e, in generale, in tutta la sua produzione, il personaggio femminile contrasta l’ideale di donna propagandato dal regime. In Poco di buono, al contrario, il protagonista si dichiara fascista, anche se non si deve credere che l’autore del romanzo fosse realmente tale: E così divenni anche io fascista, fascista convinto benché non fossi più giovane, felice di trovarmi con dei ragazzi che convincevano di prepotenza le masse delle pecore che si lasciavano tosare da potenze opposte; noi che avevamo fatto la guerra sapevamo che la lotta guida e domina la vita. […] L’eccezionalità del DUCE come uomo meglio che dalla sua figura severa e imponente appare dalle sue doti di lavoratore instancabile, dalla sua competenza in tutte le materie, dal suo tatto politico, dalla prontezza nel decidere, dal linguaggio 264 265 Ivi, p. 179. Ivi, p. 142. 137 sintetico e preciso, dalla fortuna che l’accompagna e trova una ragione solida di essere nel buon senso originale della sua terra di Romagna. Lo si rappresenta spesso con un viso burbero e imbronciato come se il popolo non l’adorasse, ma il suo sorriso è buono e paterno e i suoi occhi si illuminano di una luce magica quando parla con i bambini.266 Secondo il protagonista, il Duce sarebbe una figura paterna impegnata nella guida del proprio popolo. In seguito al periodo travagliato del primo conflitto mondiale, solo lui si è dimostrato in grado di ristabilire l’ordine sconfiggendo un caos sempre più indomabile: Non comprendo però e mi irritano quei ricchi che davanti a un movimento così grandioso rimangono freddi e scontrosi dimenticando i pericoli corsi nell’immediato dopoguerra quando non sapevano la sera se al mattino si sarebbero trovati privi di ogni bene: secondo me parte sono stupidi e parte mortificati di non avere preceduto un impulso che oggi sono costretti a seguire. […] I sentimentali puri […] riconoscono […] al Duce il merito grande di avere portato l’Italia minacciata da un disordine spaventoso in un ordine e in un raccoglimento di forze che sembrava impossibile.267 Il fascismo viene rappresentato come un movimento necessario alla società del primo dopoguerra. Paola non è della stessa opinione e, per questo motivo, i personaggi femminili di Monte Ignoso, ad esempio, non supportano l’ideale di donna imposto dal regime. Non sono angeli del focolare sottomessi al volere maschile, ma, al contrario, soffocano l’autorità del capofamiglia. Per il resto padre e figlia condividono la stessa originalità. L’autrice la esprime attraverso trame intricate e di difficile comprensione, impreziosite da uno stile attento all’uso di immagini suggestive e al colore. Enrico si diverte a seminare all’interno della narrazione particolari che si ricollegano alla sua figura. Nel momento in cui il personaggio fornisce informazioni in merito alla propria 266 267 L’uso del maiuscoletto è originale. Ivi, pp. 303-304. Ivi, pp. 304-305. 138 istruzione scolastica, si lamenta di come «De Amicis si ingoiava perché tutti dicevano che era bello ma nessuno ci credeva».268 È troppo forte la tentazione di disprezzare anche in questa occasione l’autore di Cuore, opera della quale Enrico proibisce la lettura alle proprie figlie. In Appunti 6, scritto approssimativamente tra il 1958 e il 1959,269 Paola ricorda: «mio padre nutriva un’avversione più fisiologica che intellettuale (come per De Amicis cui ogni tanto aveva il rovello di sentirsi dire che gli somigliava. Cuore è stato uno dei pochissimi libri che egli proibì, a noi bambine, di leggere)».270 Enrico si diletta a scrivere il romanzo e tale stato d’animo emerge dalla presenza nel testo di un personaggio enigmatico, Masino. Non riveste alcuna importanza nella trama dell’opera ed è impossibile stabilire se la descrizione di questa figura rifletta perfettamente l’atteggiamento del padre dell’autrice. Quest’ultimo, per un attimo, ha voluto disorientare il lettore, immaginando la sua sorpresa di fronte a tale figura: ricordo […] soprattutto un toscano dai capelli a zazzera, linguacciuto e noioso come una mosca, un certo Masino. […]Per me, conoscitore di uomini, Masino è rimasto un enigma […]. Dapprima mi stupefece parlando di libri moderni; pareva che avesse letto tutto. Forse però il suo sapere era inferiore a quello che appariva a me che dalla ignoranza originale ero stato appena dirozzato con le letture di Gera e con la pratica della biblioteca del signor Ferri. E così superando l’antipatia che il suo aspetto ironico e sprezzante suscitava a prima vista, mi avvicinai a lui e mi sembrò chiaro e semplice. Poi a poco a poco sorgevano delle difficoltà. […] Era di una sincerità incredibile […] e in conseguenza si permetteva di dire a chiunque le sue verità nel modo più crudele. Nelle discussioni, anche quando aveva ragione, l’aveva in una forma così urtante che bisognava negargliela. […] Era avido di apprendere l’opinione altrui sul conto suo, ma quando l’aveva conosciuta non se ne curava e non curava di lusingare e affezionarsi chi lo stimava e avrebbe potuto essergli utile; ho pensato più tardi che di quella conoscenza si servisse come di uno strumento psicologico per valutare le persone.271 268 Ivi, p. 125. BEATRICE MANETTI, Una carriera à rebours, cit., p. 175. 270 PAOLA MASINO, Io, Massimo e gli altri, cit., p. 17. 271 ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., pp. 211-212. 269 139 Il personaggio di Masino è enigmatico e fortemente contraddittorio. La sua descrizione prosegue sottolineando proprio quest’ultimo aspetto: Non aspirava né al comando né alla ricchezza: si sarebbe potuto credere che tendesse a farsi un nome nella letteratura (e infatti qualche cosa scriveva), ma pareva non sentisse nessuna spinta a superare la propria indolenza contemplativa e certo non si curava dell’avvenire. Odiava tutte le forme dell’ipocrisia […]; odiava le frasi fatte e più i pensieri fatti; disprezzava l’aristocrazia perché gli pareva non valesse quanto avrebbe dovuto […]; lo urtava la volgarità […]; non era per nulla credente, ma bestemmiava per fare dispetto a certi credenti […]. La natura era stata prodiga con lui; ma egli non sfruttava le sue doti come agli occhi degli altri […] sarebbe stato giusto e doveroso. […] Forse non era vile; ma davanti all’ingiuria rimaneva ghiacciato e perdeva ogni capacità di attacco e di difesa.272 L’analisi non permette di affermare con sicurezza che Enrico, nella sua opera del 1942, abbia deliberatamente preso spunto dalla produzione degli anni trenta della figlia. Ciò che conta è la presenza in entrambi di una indiscussa sensibilità nei confronti della realtà circostante e l’analisi di tematiche di una certa rilevanza. I due autori sottolineano un’attenzione significativa per il colore. Enrico, infatti, nel momento in cui descrive i diversi personaggi del suo romanzo o determinati luoghi predilige la tonalità del rosso, uno dei colori preferiti da Paola. Il protagonista sosterà in una «stazioncina rossa»273 e a Fiorenzuola vedrà penzolare numerosi «stracci rossi».274 L’amante Elda indosserà un «vestito estivo di velo rosso»,275 mentre la signora Hertz si presenterà al Lido con un «ombrellino rosso».276 272 Ivi, pp. 213-214. Ivi, p. 82. 274 Ivi, p. 93. 275 Ivi, p. 171. 276 Ivi, p. 194. 273 140 II.3. «C’è chi ama i figli e chi li odia»:277 i bimbi di Periferia si raccontano. Periferia è il secondo romanzo di Paola Masino, pubblicato nel 1933 presso Bompiani, e inizialmente intitolato Quartiere Pannosa.278 Apparentemente sembra un’opera priva di trama, perché l’autrice descrive le giornate di gioco di un gruppo di bambini romani di Quartiere Pannosa. Il luogo riecheggerebbe Piazza Caprera, nei cui pressi la scrittrice ha abitato fino al 1922.279 Paola avrebbe preso spunto «dal nome di un fiumiciattolo che corre dalla collina di Montignoso verso il Cinquale»,280 per ribattezzare la strada. Nel corso della narrazione, l’autrice si sofferma a descrivere le violenze subite dai protagonisti. Le convenzioni e il falso perbenismo celano la sofferenza da loro vissuta quotidianamente a causa dei genitori. La perdita di un equilibrio familiare corrisponde ad una degradazione morale e spirituale di una società in disfacimento ed è su questa critica dell’istituzione della famiglia, intesa nel senso tradizionale, che si articola una nuova presentazione del disagio e della crisi della cultura borghese dell’epoca.281 Paola sente l’esigenza di trattare un tema così delicato e una certa attenzione al mondo infantile emerge anche dalla scrittura privata della fine degli anni cinquanta. In Appunti 6 scrive: «Ho detto più volte che l’infanzia non è età 277 PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 102. LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, Lewiston, New York, The Edwin Mellen Press, 2004, p. 57. 279 MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, cit., p. 118. 280 Ibid. 281 LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, cit., p. 59. 278 141 gentile, felice, incosciente […] e naturale. L’età infantile è la più dolorosa fra le età umane. È un’età fatta di sforzo e di ricerca, arrivi alla pubertà sanguinante».282 Nel libro si susseguono modelli paterni negativi: padri inetti lasciano spazio a uomini avari, avidi e violenti con la moglie e i figli o completamente ignari dei tradimenti della loro consorte. Le madri, d’altro canto, non spiccano tutte per il loro amore materno: non proteggono la prole dalla furia paterna e sono indifferenti al suo benessere psicofisico. Romana è l’unico modello positivo. Il figlio Dich è al centro dei suoi pensieri, come lo sono tutti i bimbi del quartiere. È emotivamente indipendente dal marito. Quest’ultimo è poco presente nell’intreccio. Ad eccezione dei capitoli iniziali, intitolati rispettivamente Quartiere Pannosa e Presentazioni, i successivi portano il nome di un mese dell’anno, da ottobre fino a settembre. Così facendo la scrittrice analizza e descrive gli ambienti familiari nel corso di un anno intero, sottolineando come il passare del tempo non contribuisca a migliorare la condizione di questi bambini così profondamente infelici. 282 PAOLA MASINO, Appunti 6, cit., p. 25. 142 II.3.1. «Noi […] non avremo riposo alla nostra paura»:283 la violenza adulta sul mondo infantile. Gli adulti premurosi e gli angeli dei focolari impegnati a salvaguardare la crescita della nuova generazione scompaiono nell’opera masiniana. È proprio uno dei bambini, Fran, a sottolineare tanta indifferenza: – Così non torneranno mai più e noi avremo tutte le strade libere per giocare. Perché hanno bruttissime abitudini. A volte perfino passano e si permettono di dirvi che è male insudiciarsi con la terra o darsi qualche pugno o gridare. Noi i nostri ce li siamo abituati bene e nella strada non vengono a vedere quello che facciamo. – Però picchiano lo stesso anche senza vedere – osserva Armando. – Ma – sospira Fran – pare che ci picchino per nostro bene. – Oh, ma come ti battono, Armando? Con le mani oppure hanno una frusta? – domanda Anna, pallida. – Con tutto – dice Armando sorridendo. – Ma con tutto che cosa? – domanda ancora Anna torcendosi le mani. – Con la cinghia, con le mani, con la bocca. – Come con la bocca? – A morsi. L’altro giorno mi ha dato tanti morsi nella schiena, lungo quell’osso. Il dottore ha detto che sono state tutte le botte sulla testa a farmi così mezzo cieco.284 Fran sottolinea come abbiano abituato in una certa maniera i loro genitori. Avviene un cambio di ruolo, perché sembra di sentire le parole di un adulto a proposito dei propri figli. In realtà si nasconde un aspetto drammatico e desolante: i bambini si sentono responsabili di tutta l’infelicità dei padri e delle madri. Lo conferma la figura di Armando, il quale racconta con molta semplicità le violenze subite. Il suo racconto riecheggia la narrazione dei colpi inferti dalla mamma al personaggio di Poco di buono di Enrico Alfredo Masino. È impossibile per i protagonisti di Periferia fuggire da quella situazione ed è lo stesso Fran a doverlo constatare: 283 284 EAD., Periferia, cit., p. 206. Ivi, pp. 17-18. 143 – Non si può scappare da un momento all’altro – disse Fran. – Queste cose le fanno senza pensarci soltanto i bambini felici che si annoiano. Fanno una passeggiata e dopo un po’ si siedono sul marciapiede e aspettano che qualcuno venga a cercarli, poi tutti insieme tornano a casa piangendo e si baciano e si perdonano e gli dànno la cioccolata calda perché si era raffreddato. Ma se lui scappa deve scappare davvero e allora può anche morire.285 I bambini che fuggono, osserva Fran, sono quelli sopraffatti dalla noia, sicuri di un ritorno a casa privo d’ogni conseguenza. Loro, i bimbi di Quartiere Pannosa, non possono fare altrettanto, perché se falliscono nel loro intento potrebbero mettere a rischio la propria incolumità fisica. Il pericolo si nasconde dietro le mura domestiche e a loro non resta che accettarlo. Il gioco è l’unica dimensione in grado di permettere ai protagonisti di evadere da quel clima di angoscia e di paura, ma è anche il momento in cui hanno la possibilità di confidarsi. Anna, altra abitante del Quartiere Pannosa, dimostra tale esigenza: – Ho paura del buio – dice. Anna alza le spalle. – Questo non è buio. Buio è la notte quando io sto in camicia nel corridoio e aspetto che babbo e mamma si ammazzino. Loro urlano urlano chiusi in camera. C’è uno spiraglio di luce sotto la porta. Lo sai che quando si ammazza uno il sangue esce piano piano da sotto la porta? Io guardo sempre là. Poi non urlano più e fanno dei colpi, come se picchiassero coi pugni sulle coperte. Suona tutta la casa. Gli altri non dormono, lo so, neanche Fulvia, ma hanno paura di venire nel corridoio perché al buio, se pensi al sangue, subito ti pare di avere i piedi bagnati. Quando mamma piange me ne torno a letto, ma quando piange babbo mi metto a piangere anch’io sottovoce. Il mio babbo quando piange è come uno che russa, oppure che sospira perché gli pare che nel mondo ci sono troppi morti …286 Ogni occasione si rivela propizia per rievocare e trattare angosciosi e desolanti episodi di vita familiare. Anna rivela di sentirsi più vicina allo stato d’animo del padre nel momento in cui lo sente piangere. Si accorge dell’eccezionalità 285 286 Ivi, p. 19. Ivi, p. 34. 144 dell’evento: l’uomo dimostra la sua fragilità e dolore per una situazione coniugale disastrosa, abbandonando la sicurezza e la forza tanto immaginata nella figura del capofamiglia. La sensibilità non è, invece, uno degli attributi del padre di Ella, Fran e Carlo. Quest’ultimo, in seguito ad una partita di guardie e ladri, si offende per non essere stato trovato dai suoi compagni nel corso del gioco. Per questo motivo si ritrova a vagare fino a giungere ad una villa abitata da una signora con il figlio, Stefano, convinto di avere appollaiata sulla sua spalla una scimmia chiamata Cleopatra. Gli altri, nel frattempo, lo cercheranno fino a quando non si sente «la voce di babbo»:287 Carlo! Carlo! Carlo! Voci forti, piccole dolorose irate singhiozzanti. Lui si fermò ad ascoltare. Riconosceva voce per voce: Fran, Ella, Lisa, Fulvia, Giovanni, e, questa come una raffica, la voce di babbo. Allora si mise a correre. Più giù incontrò Ella. Ella tremava. Quando lo vide dette un urlo. – Carlo! – e lo abbracciava. – Dove sei stato? Mamma si è già svenuta un bel po’.288 Le urla del padre intimoriscono la bambina, impaurita dalle possibili conseguenze del ritardo del fratello. Il terrore e la paura sono i fedeli compagni dei protagonisti del romanzo, i quali sono profondamente condizionati dalla propria situazione. Dio, ad esempio, viene da loro considerato sullo stesso piano dei loro padri, perché, secondo i bimbi, avrebbe dimostrato lo stesso egoismo con Gesù. Anche in Periferia, pertanto, è presente uno sguardo disincantato nei confronti della religione: 287 288 Ivi, p. 49. Ibid. 145 – Ma – gridò Carlo indignatissimo – era un egoista questo Dio. Ogni babbo buono muore lui invece del suo bambino. E anche le mamme. L’altro giorno mamma è venuta in camera mia con Giorgio e credeva che io dormissi e ha detto che lei perderebbe tutto con gioia, perfino Giorgio, ma me no. – E Giorgio chi è? – domandò Dich. – Un amico nostro, proprio vero. Di quelli che portano i regali. Figùrati che noi gli diamo del tu. E lui lo da anche al babbo, alla mamma no, ma quando nessuno sente sì. – E quando nessuno vede si baciano perfino dietro le porte. Fanno ridere – disse Ella.289 I bambini non riescono a dimenticare le proprie questioni familiari e ogni occasione è buona per affrontare l’argomento. Nel passo citato Carlo parla di Dio per poi raccontare l’adulterio commesso dalla madre con un certo Giorgio, un amico di famiglia. Il papà è all’oscuro della situazione. A differenza dei fratelli, Fran vorrebbe rivelargli la verità: – Non è vero! Siete due bugiardi! Se lo dicessi a babbo non vi crederebbe. – Non credo che si debba a dire a babbo, Fran – disse Ella. – Almeno, un giorno che mamma mi ha vista mentre li stavo a guardare, mi ha portato in camera sua, mi ha fatto vedere la pistola del babbo e mi ha detto: – Se tu dici a babbo che hai visto che Giorgio mi baciava, babbo mi ammazzerà con questa pistola, e lui lo metteranno in prigione per tutta la vita … […] – Allora voi rimarrete soli al mondo, poverini, senza né babbo né mamma, e dovrete vivere di elemosina e non potrete neppure portarmi i fiori al cimitero – e si è messa a piangere. Io gli ho detto: «Mamma non piangere. Se mai i soldi per i fiori ce li facciamo dare da Giorgio, e la minestra certo ce la regalano un giorno per uno la mamma di Lisa e la mamma di Fulvia, e quella di Giovanni». Ma lei continuava a piangere e Giorgio mi ha detto: «Vedi come sei cattiva che fai piangere mammina? Chiedile subito scusa e promettile di non dir nulla» e mi ha chiamata vipera degna di schiaffi, fino a che mi sono messa a piangere forte. […] Mi hanno fatto piangere un bel po’ poi ho giurato di non dire niente e mamma mi ha perdonato di aver visto e Giorgio mi ha regalata una lira per la liquerizia.290 Nel passo citato emerge una figura materna negativa: la donna non si preoccupa di proteggere i figli dal dolore provocato dalla scoperta del suo adulterio, ma arriva a ricattarli moralmente. Se riveleranno la verità al babbo, si renderanno complici 289 290 Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. 146 dell’assassinio della loro madre. Il papà, sebbene sia ignaro del tradimento, rappresenterebbe il male, mentre la mamma il bene. La situazione si aggrava nel momento in cui Giorgio, l’amante, si arroga il diritto di sgridare ed offendere la povera bambina, senza che la madre intervenga. L’uomo la incolpa in maniera ingiustificata del dolore della compagna e con una certa severità la apostrofa chiamandola «vipera degna di schiaffi».291 La bambina sarà costretta ad assecondare i capricci della madre, mentre questa perderà la propria dignità. La figlia Ella, vista la tenera età, continua a credere nella sua bontà, cercando di giustificarla con spiegazioni a dir poco curiose: credo che sia stabilito per legge quando una donna deve baciare un uomo di nascosto. Se no sono cose abbastanza schifose che se uno non ci fosse obbligato non farebbe mica, stare così per tanto tempo con la bocca appiccicata su quella d’un altro con tutti i baffi.292 Fran, al contrario, si distingue per la sua maturità e comprende perfettamente la situazione: questa volta il papà, ignaro dell’adulterio della moglie, è una vittima e il figlio gli è vicino: «Io non voglio, non voglio che si faccia male al mio babbo».293 Solo Anna può capire cosa significhi vedere un genitore soffrire e per questo motivo sostiene l’amico: «Fran, difendilo il tuo babbo, che non te lo facciano piangere! Tu non lo sai, nessuno può saperlo, che cosa vuol dire quando senti il tuo babbo che piange da solo, di notte».294 Le dolorose tragedie familiari spingono i protagonisti a riflettere sul proprio futuro. Fulvia è decisa a non avere figli, perché «Cascano e si fanno male, come le 291 Ibid. Ivi, p. 64. 293 Ivi, p. 65. 294 Ibid. 292 147 bambole. Bella preoccupazione».295 Sogna di essere una «donna famosa»,296 quindi dovrà «sposare un re perché i re e le regine si studiano anche se non hanno fatto altro che avere un numero».297 Anna non è dello stesso avviso della sorella, desidera dei figli Per sentire che male fa a farli. Aver male <le> piace –. Crearsi una sofferenza era il suo divertimento preferito. Si stendeva sulle spalliere di due seggiole vicine e stava così dolorante, immaginando di essere una martire cristiana legata sulle corna di un toro furioso. O, quando era a letto, si convinceva di dover dormire con un rospo che le passeggiava sul corpo e tanto era lo schifo di questa immaginazione che quasi sveniva. Ma più di tutto amava arrampicarsi sul cassettone in camera del babbo e inginocchiarvisi tra due candelieri d’argento e due mazzi di fiori. Rimaneva immobile in questa posizione finchè non entrava qualcuno nella stanza, allora si percoteva il petto con i piccoli pugni e gridava: «Pentitevi! Temete le fiamme infernali. Fate come il povero anacoreta Anna che rinunciò ai giochi degli amici scapestrati per essere fatto santo». Ma se entrava il babbo Anna diceva, con le mani giunte sul cuore: «Babbo sto pregando per te». E un tratto pensava che babbo, nonostante le sue preghiere, sarebbe morto e si metteva a piangere. Immaginava anche la tomba di mamma, quella di Fulvia, la propria; e il suo dolore ingigantiva, diventava un pianto disperato. Lei poteva soffrire così meravigliosamente appena voleva, a ogni ora del giorno, e quando aveva finito di soffrire improvvisava lunghi canti appassionati come per sciogliere l’incanto che la torturava.298 Anna è totalmente immersa nella dimensione del dolore e non riesce a pensare ad altro. Anziché immaginare un roseo futuro, le sue fantasie sono caratterizzate dalle visioni oscure della tomba. I fratelli Maria e Giovanni sono i più colpiti da tanta desolazione. Il papà è violento con loro e, in particolare, con la moglie, costretta ad una vita di stenti a causa della quale perderà il bimbo che aspetta. I figli sono privati d’ogni giocattolo e divertimento e vivono ripetendo i severi precetti paterni: «Con le 295 Ivi, p. 68. Ibid. 297 Ibid. 298 Ivi, pp. 69-70. 296 148 donne non si può mai sapere. Rubano sempre sulla spesa».299 Maria desidera imparare a suonare il pianoforte e chiede una mano all’amica Lisa, eludendo la sorveglianza del terribile papà: Ora tu mi copi gli esercizi e così io imparo a sonare senza che babbo se ne accorga se no urla perché gli ho consumato il lapis. – Non mi piacerebbe vivere in una famiglia come la tua. Per andarmene piuttosto mi sposerei. – Non ho ancora la dote. Babbo me la sta facendo. Mi ha regalata una cassetta come quelle dell’elemosina che sono in chiesa, e a ogni persona che viene a trovarci, come se giocassi alla messa, gli chiedo un soldo. In fondo alla settimana c’è sempre una mezza liretta che si mette nel salvadanaio e alla fine dell’anno il salvadanaio si porta alla banca. Anche ora, a Natale, ci andiamo alla banca, a vedere la cassetta dei tesori. – Che cosa è la cassetta dei tesori? – Una cassetta dove sono le posate di argento e due candelieri e due pavoni grandi preziosi da mettere sulla tavola e gli anelli di famiglia e perfino una collana di perle. – E perché tua mamma non se la mette? – Mamma non lo sa nemmeno che c’è. Lei babbo non ce la porta mica a vedere, se no si mette in testa che siamo ricchi e non fa più economia. Lei è come Giovanni, gli piace molto spendere. Giovanni ha detto che appena babbo muore con i soldi compra l’automobile.300 La menzogna regna nella casa di Maria e Giovanni: non sono poveri, perché possiedono un’autentica ricchezza depositata in banca. La madre è all’oscuro di questa risorsa e, secondo il papà, sarebbe una bugia necessaria ad impedire alla moglie di sperperare tutto il patrimonio. In realtà è l’unico modo per esercitare una certa autorità sulla consorte. Per la sua avarizia l’uomo ricorda il personaggio femminile della signora Giulia in Monte Ignoso. Quest’ultima condizionerà negativamente la vita del figlio e altrettanto farà il padre di Giovanni e Maria. Riesce a seminare il terrore nella sua famiglia, suscitando l’odio degli altri bambini. Il paese di Monte Ignoso augurerà la morte alla terribile Giulia, mentre i 299 300 Ivi, p. 73. Ivi, pp. 74-75. 149 compagni di gioco dei figli della terrificante figura paterna di Periferia lo disprezzeranno profondamente. Tanto odio spingerà uno dei bimbi di Quartiere Pannosa, Luca Vanni, a decidere di ucciderlo: – Giovanni – chiama Luca sottovoce. – Luca? – Se non puoi farne a meno vuoi che te lo uccida io? – Ah … e come, se mai? – Ci penso stanotte. Un modo bello. – Da non farlo piangere, Luca.301 Luca avverte l’esigenza di porre fine ai soprusi subiti dall’amico. È un’ossessione destinata a non passare neppure dopo la fuga di Giovanni e della madre dal padre padrone: «– Però – disse Luca a un tratto – suo babbo oramai lo ammazzo lo stesso».302 Non raggiungerà, fortunatamente, il proprio obiettivo, in quanto comprende come la fuga del compagno di giochi e della mamma abbiano ristabilito nella casa paterna una felicità da tempo perduta: – Tu – le domanda Luca – lo ammazzeresti uno che ride? […] – Non dico per te. Dico di lui. Non l’ho ammazzato. […] – Perché rideva. Parlava di Giovanni, che lo sa dov’è, ma non lo vuol più vedere, e rideva. Anche Maria rideva. Io non avevo mai sentito ridere così. Come uno che non può fare altro, come uno che piange quando tutto è finito. Tutto di dentro. Per se solo. […] Come si fa a uccidere uno felice? Non è uno come noi.303 Il padre di Maria e Giovanni «Non è uno <di loro>»,304 come osserva Luca, perché non subisce la violenza, ma esercita l’autorità. Una breve descrizione sottolinea la ripugnanza che la sua figura ispira: «dal cancello sulla piazza scivolò 301 Ivi, p. 161. Ivi, p. 172. 303 Ivi, pp. 189-190. 304 Ibid. 302 150 fuori e s’allontanò rapido con una valigia in mano il babbo di Giovanni e Maria. Sembrava una vescica e che perdesse olio. Lui da solo aveva sgualcita e insudiciata tutta la piazza».305 L’immagine presente nel passo citato è emblematica per illustrare la negatività della figura maschile. La violenza e l’autorità esercitata sulla famiglia è tristemente nota al quartiere. La sua avidità indigna i compagni di gioco dei figli, i quali non riescono a trattenere la disperazione per una situazione così complessa: babbo ieri sera gli ha dato cinquanta lire perché andasse dal tabaccaio a cambiarle e comprargli una sigaretta. […] Lui va e torna e babbo conta i soldi e mancavano due lire e Giovanni ha detto che le aveva perdute per la strada. Babbo l’ha mandato a ricercarle ma lui non le ha trovate e babbo non ha detto nulla, ha fatto così con i denti […]. […] E mamma si è messa a tremare. Mamma trema sempre. […] Poi siamo andati a letto. Quando Giovanni dormiva […] babbo è venuto con una candela nel candeliere di bronzo che io non posso neppure alzare, perché ad accendere la luce aveva paura che Giovanni si svegliasse. E ha messo una mano sul cuore di Giovanni e gli ha domandato: – Dove sono le due lire? – Perché Giovanni parla la notte e se uno gli mette la mano sul cuore lui deve dire la verità. […] Giovanni ha detto: – L’ho messo dentro alle scarpe –. A babbo gli si sono scoperti tutti i denti e ha domandato ancora: – Per farne che cosa? – E Giovanni: – Per darli a Carlo. – Chi è Carlo? – Il bambino che sta di faccia. – Perché volevi darglieli? – Per sapere il suo segreto. – Canaglia! – E gli ha sbattuto quel candeliere sulla fronte tanto forte che ha fatto un rumore basso e subito ha cominciato a uscirgli tanto sangue.306 Il padre somiglia ad un lupo pronto ad azzannare la propria preda: per ben due volte la figlia Maria sottolinea come l’uomo abbia digrignato i denti ascoltando le parole pronunciate nel sonno da Giovanni. È un particolare già sottolineato durante l’analisi di Monte Ignoso. I personaggi vengono paragonati a degli animali nel momento in cui compiono una violenza. Esiste, pertanto, un filo sottile che unisce le diverse opere masiniane. Il passo citato ricorda la scena dei 305 306 Ivi, p. 89. Ivi, pp. 90-91. 151 colpi inferti dalla lavandaia al figlio protagonista del romanzo Poco di buono di Enrico Alfredo Masino: Quando le dissi che non avevo più le cinque lire datemi dal sor Augusto, la sua ira raddoppiò; mi prese la testa sotto il braccio sinistro, mi dette sculaccioni e pugni fino a che non ne potè più dalla stanchezza e mi gettò sul pagliericcio come uno straccio. […] odiavo tanto mia madre in quel momento che se avessi potuto me la sarei messa sotto i piedi.307 I bambini e la stessa Masino non condannano Giovanni per la sua innocente menzogna. La somma sottratta è esigua e, vista l’ingenuità del figlio, l’uomo avrebbe potuto tranquillamente perdonarlo. Luca, da sempre deciso ad uccidere quel padre padrone, è il primo a giustificare il gesto dell’amico, osservando come «Rubare a un padre avaro <sia> un diritto».308 Fulvia, invece, sottolinea quanto siano «una brutta cosa […] i babbi e le mamme»,309 perché «Non fanno che urlare tra loro e poi urlano anche con <i figli>».310 Il padre di Maria e Giovanni si rivela il peggior genitore del quartiere e la sua arroganza non si affievolisce nemmeno di fronte alle conseguenze causate dai colpi di candelieri inferti al figlio: Mamma è entrata in camera e mi si è buttata addosso urlando e io l’abbracciavo. Allora babbo l’ha presa per un braccio e ha detto: «Non far scene. Vedi quanto mi costa questo mascalzone. Ora mi tocca chiamare un medico a ricucirlo». Mamma urlava sempre, diceva: «Io le ammazzo queste creature piuttosto che vederle soffrire così». […] continuava a gridare: «Sì, le ammazzo, questa e quella che porto. Abbiamo fame! Ho fame! Ho fame! Assassino!» E si è messa a battere con la pancia contro lo spigolo del letto. […] babbo l’ha presa da dietro per le braccia e gli si erano scoperti i denti […] e ha detto piano piano: «Lo sai che ti potrei far mettere in prigione per quello che stai facendo? Sta attenta a non ricominciare e fila subito a chiamare il dottore per quel ladro di tuo figlio. Non mi meraviglierei a 307 ENRICO SÌNOMA, Poco di buono, cit., p. 11. PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 91. 309 Ibid. 310 Ibid. 308 152 sapere che ha rubato perché gliel’hai detto tu. Marsc!». E l’ha messa fuori della porta. Babbo dice sempre marsc.311 L’attesa di un nuovo figlio non tutela la madre di Giovanni dalle angherie del marito. La sofferenza è troppa per la donna, la quale cerca di ferirsi al ventre. L’immagine ricorda gli episodi del calcio alla pancia inferto dallo stalliere Marco ad Emma e del cancro all’utero della signora Giulia in Monte Ignoso, personaggi femminili incapaci di assolvere il proprio ruolo di madre. Questa mamma non è in grado di ribellarsi alla furia del marito e, di conseguenza, non può assicurare il benessere psico-fisico ai figli. Nel passo citato è di nuovo presente il riferimento ai denti dell’uomo. Ancora una volta assomiglia ad un lupo in attesa di agguantare ed azzannare la propria preda. La figura paterna analizzata fino ad ora ricorda il profilo di Hermann Kafka descritto nella Lettera al padre del 1919 dal figlio Franz, autore che negli anni trenta inizia ad essere letto e tradotto.312 Si tratta di un’opera dove è riconoscibile una «denuncia contro una educazione […] imposta».313 È la «radiografia di […] <un’> esistenza […] grigia, contorta e infelice».314 Un profondo distacco separa Kafka da un padre autoritario e dispotico. Franz rimarrà irrimediabilmente condizionato da questo rapporto negativo, «per anni soffri<rà> del tormentoso pensiero che <suo> padre, il gigante, la suprema istanza, po<trà> venire quasi senza motivo nel cuore della notte a portar<lo fuori> sul ballatoio».315 È consapevole del fatto che la sua vita è stata pesantemente condizionata da quella presenza ingombrante, come accade ai personaggi masiniani di Monte Ignoso e 311 Ivi, pp. 92-93. GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, La forma e la vita: il romanzo del Novecento, cit., p. 208. 313 FRANZ KAFKA, Lettera al padre. Quaderni in ottavo, introduzione di Roberto Fertonani, Milano, Arnoldo Mondadori, 1972, p. VIII. 314 Ibid. 315 Ivi, p. 7. 312 153 Periferia. In quest’ultimo romanzo, in particolare, il padre di Giovanni viene spesso paragonato ad un lupo pronto ad azzannare la propria preda. Allo stesso modo Hermann Kafka spesso «Raffor<za> le ingiurie <rivolte a Franz>»316 minacciandolo di «sbran<arlo> come un pesce».317 La madre non è in grado di affrontare il marito e preferisce soffrire e difendere il figlio «solo in segreto».318 È il ritratto di una donna debole, simile ai personaggi femminili descritti nei romanzi della Masino. Tutte le famiglie di Quartiere Pannosa sono anomale e tra queste spicca quella della fruttivendola. La figlia, Nena, è consapevole dell’eccezionalità della propria situazione e la sfrutta a suo vantaggio: Non mi ci avete mai chiamata a giocare con voi, perché credete che sono sudicia? Ma i soldi che ci ho io neppure ve li immaginate. Che io sono tanto ricca che siamo tre sorelle e invece di avere un padre solo, ognuna ha un papà per conto suo che la porta al caffè la domenica, e gli altri giorni vengono anche tutti e tre insieme a mangiare con noi. Perché mamma, mica è avara. Mangia e beve e si mantiene tre mariti. E perciò io con voi neppure ve l’ho chiesto di giocare perché non mi degno. Se mi volete mi venite a cercare. Chiedete di Nena.319 Inoltre, ci tiene a precisare, «se qualcuno <la> tocca i tre papà hanno detto che lo sbuzzano».320 Nena si sente una privilegiata e non comprende il rifiuto degli altri bimbi nel coinvolgerla nei loro giochi. In fondo l’avarizia e la violenza non sono ospiti graditi a casa sua e può contare sulla presenza di tre figure paterne, cosa che gli altri suoi coetanei non possono vantare. Le parole e l’orgoglio di Nena suscitano tenerezza e allo stesso tempo il riso. Tuttavia nascondono una certa malinconia, perché anche in questo caso il lettore è consapevole di come la 316 Ivi, p. 15. Ibid. 318 Ivi, p. 19. 319 PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 104. 320 Ivi, p. 115. 317 154 bambina sia irrimediabilmente sola e non viva una situazione familiare stabile. Ancora una volta sono assenti le prerogative della famiglia tradizionale. I padri e le madri soffrono, sono infelici e insoddisfatti del proprio rapporto coniugale e i figli sono spettatori di tanto dolore: Anna diceva a Fran: – Stanotte hanno urlato e babbo è uscito nel corridoio dopo un po’; ma senza piangere. Io mi sono nascosta ma lui mi ha visto, mi ha preso per mano e mi ha portato nello studio. Allora mi ha fatto vedere una pistola e mi ha detto: «Vuoi che ci ammazziamo Anna? Io e te. Così non starai più alzata la notte al freddo e io potrò dormire perché sono tanto stanco e la mattina devo alzarmi presto per andare in caserma. Ma io gli ho detto di no, Fran. Forse ho fatto male perché lui ne doveva avere proprio voglia, e lui a me, se ho voglia di una cosa, non mi dice mai di no. Sono molto cattiva?321 È difficile per Anna placare i sensi di colpa: ha disobbedito al babbo, impedendogli di compiere un gesto tanto desiderato. Solo Fran riuscirà a calmarla, perché «Un uomo non domanda mai due volte una cosa simile»,322 e suo padre «è un generale come si deve».323 Ciò dovrebbe tranquillizzarla e se così non sarà dovrà attendere solo l’estate: ad agosto andranno in vacanza «In una campagna di prati grandi con un fiume secco nel mezzo e sempre il vento».324 Là alloggeranno «in albergo e in albergo mamma si vergogna a urlare. Due mesi senza paura».325 È impossibile per i bimbi di Quartiere Pannosa odiare i propri genitori. A volte li giustificano e provano una profonda compassione per loro. Lo stesso Giovanni, nonostante i maltrattamenti subiti, spesso pensa al padre come ad una vittima: «Babbo mio, come saresti felice, povero babbo disgraziato, se qualcuno ti 321 Ivi, p. 122. Ivi, p. 123. 323 Ibid. 324 Ivi, p. 205. 325 Ibid. 322 155 avesse insegnato a volerci bene, a volerti un po’ di bene da te, invece di obbligarci a farti questa vita nera».326 Essi riescono a sdrammatizzare gli episodi di violenza familiare, come fa Armando: la maestra oggi ha detto che in tutti i modi mi boccia. Mamma ha finito proprio ora di picchiarmi. E domani mi manda a fare quello vestito di rosso davanti all’ascensore in un albergo di lusso. Un ascensore va in su, uno in giù e io prendo le mance. – Non giocherai mai più? Avrai un giorno di vacanza per giocare? – Il giorno di vacanza è l’unico giorno che gli rimane a mamma per picchiarmi. – Ma fatti picchiare un po’ tutte le sere – dice Carlo – così la domenica sei libero. – Oh non è mai sazia. – Armando! – tuona infatti una voce dai sottosuoli del villino. Lui è già sparito e dopo un po’ lo si sente urlare.327 Di fronte all’eventualità di una bocciatura, la madre di Armando prende una decisione drastica: suo figlio dovrà iniziare a lavorare. La parentesi scolastica è definitivamente conclusa per il bambino, al quale la madre non offre nessun futuro. La violenza è per lei l’unico strumento di comunicazione e ad Armando non resta che accettare la situazione, aggiungendoci un pizzico di ironia: Non vedete che sono tutto ferito e fasciato? Sembra vero? Mamma quando mi ha visto vestito così ha detto che la pigliavo in giro e mi ha dato questo schiaffo, qui a sinistra. Questo è proprio vero non ce l’ho dipinto. Si vede anche meglio. Le frustate e i lividi un po’ sono vecchi e un po’ dipinti, ma non fanno lo stesso effetto. Invece il suo schiaffo è proprio bello, ci sono rimaste le cinque dita più bianche e gonfie gonfie. Se volete potete toccarle. Non c’è trucco.328 Il mondo adulto rappresenta una minaccia per i protagonisti di Periferia, i quali sono condannati ad una profonda solitudine. Paola si sofferma diverse volte su 326 Ivi, p. 162. Ivi, p. 177. 328 Ivi, p. 101. 327 156 questo drammatico aspetto e, tramite i bambini, esprime la sua opinione a riguardo: Siamo i più soli di tutti, perché tutti con la scusa che siamo piccoli ci prendono la nostra vita e si dimenticano di ridarcela, quando ne abbiamo bisogno. Sono loro che ci fanno invecchiare per la fretta di andargliela a strappare dalle mani e riprendercela, la nostra vita.329 II.3.2. «E… e io? Dich? anche io sono così?»:330 Romana, modello positivo di madre. Romana è l’unica figura materna positiva presente in Periferia. Partecipa ai giochi degli amici del figlio Dich, con il quale ha instaurato un affettuoso legame di complicità. Quest’ultimo la chiama per nome e la presenta ai bimbi del quartiere quasi fosse una loro coetanea. Il benessere dei protagonisti del romanzo sta a cuore alla donna, sempre impegnata ad inventare nuovi e divertenti giochi, perché come scrive l’autrice nel capitolo undicesimo Giocare è uno stato d’animo non è un’azione. […] Il gioco è tutto arbitrio, ma arbitrio cosciente che si crea appassionate gioie mirabili dolori come un nulla basta a precipitarlo altrove o a infrangerlo come un sogno, ma senza risveglio. Perché giocare vuol dire essere sempre distratti da se medesimi.331 329 Ivi, p. 181. Ivi, p. 91. 331 Ivi, p. 175. 330 157 La donna riesce a conquistarsi l’affetto dei bambini: organizza un festoso Natale, dona loro un sincero amore materno e aiuta Giovanni e la madre a fuggire di casa, organizzando il viaggio in treno e fornendo un alloggio sicuro presso una cara amica. Solo la maligna Nena, la figlia della fruttivendola, dubiterà di tanta disponibilità, poiché, secondo lei, «Romana esagera con questa smania di voler bene ai bambini».332 In realtà il suo comportamento è sincero. Non vuole approfittare dell’ingenuità dei giovani amici, perché è estranea alla negatività del mondo adulto. Vuole vivere in sintonia con i bimbi del Quartiere Pannosa e arriva addirittura a travestirsi per raggiungere tale obiettivo: Romana aveva le calze e le sottane corte, un fiocco tra i capelli, scarpette senza tacco, una bambola in mano e un dito in bocca, proprio come una bambina piccola. Dopo una attimo di stupore Anna le si precipitò tra le braccia e prese a baciarla furiosamente. – Lo sapevo – gridava – che tu non potevi essere così sporca come dice Ella. Tu sei una di noi, proprio come me.333 A differenza di Giovanni, protagonista di Monte Ignoso, la regressione di Romana non nasce dall’esigenza di fuggire da uno scomodo passato familiare. È un modello positivo di madre. Nelle opere masiniane analizzate fino ad ora, Dich è l’unico personaggio che ha la possibilità di conoscere il significato di un affetto materno sincero. Alcune scene descritte nel romanzo ne sono la testimonianza: Quando gli altri si mettevano a giocare ognuno per conto suo, Dich non sapeva che cosa fare. Allora andava da sua mamma e le diceva, come a un amico: «Romana, facciamo un po’ ai pugni». Mamma rideva, si rimboccava le maniche, infilava i guantoni e si preparava a massacrare suo figlio. Ma era quasi sempre lei che cadeva 332 333 Ivi, p. 150. Ivi, pp. 109-110. 158 in terra fingendo per dieci secondi di non potersi rialzare. Se erano stanchi di darsi pugni Romana preparava crema e dolci per sé e per Dich. Poi mangiavano tutti e due nello stesso piatto facendosi molti dispetti. Romana rubava un biscotto a Dich, Dich le spiaccicava un cucchiaino di crema sul collo, allora ricominciavano a darsi pugni finchè cadevano abbracciati sul divano e si addormentavano. Il babbo tornando a casa la sera li trovava ancora così avvinti: con un bacio leggero sulla fronte di Dich, sugli occhi di Romana, dolcemente li svegliava.334 Anche gli altri bambini vivono con lei attimi di spensieratezza. Il suo florido aspetto ispira loro quell’idea di maternità ormai completamente svanita nelle proprie famiglie, come osserva il povero Giovanni: Romana è una mamma, la nostra non è una mamma. Guarda qui – con le due mani premeva sul seno grosso di Romana – questo è proprio da mamma. Mamma nostra ha tutti ossi e quando uno gli va in braccio fa male sotto, con le gambe. Romana è tutta tonda e fa caldo, uno ci può dormire bene sopra. E poi Romana odora di zucchero, mamma non odora di nulla.335 Secondo Marinella Mascia Galateria il personaggio dimostrerebbe una valenza autobiografica.336 In una dedica presente in una copia del romanzo analizzato avrebbe scritto «“a babbo che è un po’ Romana”».337 Non sarebbe da escludere neppure una certa somiglianza tra la protagonista e la madre della scrittrice.338 Luisa, per Paola, non rappresenta «una mamma […] <, ma> una cosa speciale»,339 come lei stessa dichiarerà. In Periferia Dich dirà lo stesso a Romana.340 334 Ivi, pp. 70-71. Ivi, p. 72. 336 MARINELLA MASCIA GALATERIA, L’autobiografia trasfigurata di Paola Masino, cit., p. 119. 337 Ivi, p. 120. 338 Ibid. 339 Ibid. 340 PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 92. 335 159 II.3.3. «Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più bello»:341 somiglianze di Periferia con Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese e Enrico IV di Luigi Pirandello. Nel 1953 Anna Maria Ortese pubblica Il mare non bagna Napoli presso Einaudi. Si tratta dell’analisi della città sotto differenti punti di vista. L’autrice dimostra di concepire la scrittura quale mezzo privilegiato di osservazione della realtà. Pertanto si rivela molto simile all’amica Paola. Napoli verrà raffigurata in tutta la sua povertà attraverso una serie di scritti già apparsi precedentemente su diverse testate giornalistiche. Il racconto Un paio di occhiali apre la raccolta ed è già stato pubblicato sulla rivista «Omnibus» il 19 maggio 1949, con il titolo Ottomila lire per gli occhi di Eugenia.342 Si narra la vicenda di una bimba, Eugenia, affetta da gravi problemi di vista. Riceverà in regalo un paio di occhiali. Da sempre si era immaginata la realtà circostante con toni idilliaci, ma si renderà conto dello sbaglio commesso: non provava più nessuna gioia. […] Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati gli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparle in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava.343 341 Ivi, p. 77. LUCA CLERICI, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, p. 666. 343 ANNA MARIA ORTESE, Il mare non bagna Napoli, Torino, Giulio Einaudi, 1953, pp. 33-34. 342 160 Eugenia assomiglia al personaggio di Armando, descritto nel 1933 da Paola Masino nel romanzo Periferia. Il bimbo è stato quasi accecato dalle botte ricevute dalla madre e Romana gli regala per Natale «un paio di occhiali a stanghetta, di corno nero».344 Armando comprende subito quanto la realtà non abbia nulla a che fare con quanto aveva immaginato fino a quel tempo. Le sue aspettative vengono deluse, come capiterà ad Eugenia: Sapete che cosa vi dico? Che il mondo senza occhiali è molto più bello. Ora che lo so com’è, non capisco che gusto c’è a veder bene. Con gli occhiali tutto è piccolo con una striscia nera intorno, invece, senza, tutto è morbido come fatto di nebbia, non si vede mai la fine, ci si immagina quello che vuole. Guardo un albero e le foglie non hanno orli, a poco a poco, chissà dove, sono diventate cielo, guardo la terra e la vedo bella gonfia d’un colore strano come se uno da sotto ci soffiasse tanta aria, e i fiori non sono mai soli ma a strisce o a gruppi rossi gialli bianchi. Un fiore solo non esiste o se no è grosso grosso. Le luci e le stelle sono larghe come pozzanghere, senza forma, e se si chiudono le palpebre, subito se ne vedono tante che fanno un bel disegno a raggi. E poi è più comodo perché ogni cosa ha tanti orli per dove si può prendere. Con questi occhiali non si capisce a che distanza sono le cose. Io allungo la mano come prima, ma ora come mai la allungo troppo?345 Armando spiega le motivazioni della sua delusione: la realtà è limitata e non permette la libertà di immaginazione. Il personaggio masiniano è più adulto dell’ortesiana Eugenia, in quanto non reagisce vomitando, come fa lei, ma cerca di analizzare la nuova dimensione vista con il suo paio di occhiali. È significativo il fatto che li perderà durante un pomeriggio di svago con gli amici, senza preoccuparsi di ciò.346 Periferia presenta dei punti in comune con un’altra opera del Novecento: la tragedia Enrico IV di Luigi Pirandello. La stessa Louise Rozier segnala tale 344 PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 76. Ivi, p. 77. 346 Ivi, p. 196. 345 161 aspetto.347 Si tratta di un dramma andato in scena nel 1924, che affronta il problema dell’identità. Il protagonista è vittima di una rovinosa caduta da cavallo avvenuta nei pressi di una villa patrizia in occasione di una festa di Carnevale organizzata in compagnia di amici. Una volta ripresosi l’aristocratico sarà convinto di essere l’imperatore Enrico IV e tutti asseconderanno tale illusione. Dopo dodici anni di pazzia l’uomo si riprende, ma si accorge di essere stato defraudato della propria vita: la donna amata ha una relazione con l’amico Belcredi, gli anni sono passati e nulla potrà tornare come un tempo. Per questo deciderà di dimenticare la passata identità. Enrico IV ricorda la figura di Giovanni, il padre inetto descritto in Monte Ignoso. Anche lui vorrà vivere come se fosse un'altra persona mentre la figlia Barbara asseconderà la sua decisione. Periferia mostra dei tratti in comune con la tragedia. Uno dei bambini di Quartiere Pannosa, Anna, propone di «giocare al teatro»,348 recitando l’Amleto. Subito le pagine del romanzo si trasformano nei fogli di un copione teatrale e successivamente i bimbi si calano nelle parti assegnate, perdendo la loro identità. Verranno indicati con i nomi dei personaggi del dramma shakespeariano: AMLETO – Silenzio. Ora parlo io. Ofelia, ti dico un segreto. Anche io sono pazzo. Ma molto più pazzo di te. Io faccio finta di essere pazzo. Vedi che pazzia grave è la mia. Ma non importa, devo vendicare mio padre. Se non dovessi vendicare mio padre ti sposerei, così ti dico: «Va’ al manicomio, non ti resta altro. Addio». OFELIA – Addio.349 347 LOUISE ROZIER, Il mito e l’allegoria nella narrativa di Paola Masino, cit., p. 58. PAOLA MASINO, Periferia, cit., p. 54. 349 Ivi, p. 59. 348 162 Lo stesso avviene in Enrico IV: i servi del protagonista vengono da lui chiamati con dei nomi fittizi e ciò provocherà in loro una crisi di identità: «Ci chiama così. Ci siamo abituati. Ma chi siamo?».350 E inoltre: ARIALDO: Eh no, caro mio! Scusa! Bisogna rispondere a tono! Saper rispondere a tono! Guai se lui ti parla e tu non sei pronto a rispondergli come vuol lui! […] BERTOLDO: E hai detto niente! Come faccio io a rispondergli a tono, che mi son preparato per Enrico IV di Francia, e mi spunta, qua, ora, un Enrico IV di Germania?351 È evidente, quindi, come la follia, l’analisi della realtà circostante e il problema dell’identità caratterizzino queste opere legate tra di loro. 350 351 LUIGI PIRANDELLO, Enrico IV, in ID., Maschere nude, Roma, Newton Compton, 1993, p. 157. Ibid. 163 PER UNA CONCLUSIONE «LE INTUIZIONI DEI SEMPLICI SONO SEMPRE PIENE DI PRODIGIO E DI PAURA».1 i padri e le madri s’infischiano della restante umanità a vantaggio dei propri figli onde il mondo è quasi interamente composto d’inetti e di egoisti. Tutti i genitori dovrebbero considerare le proprie creature individui per sé stanti e non sentirsi obbligati a dar loro, oltre il nome e il vitto dei primi anni e un lungo affetto, arbitrarie coscienze.2 In un articolo dal titolo Racconto grosso e altri di Paola Masino apparso su «Primato» il 1 aprile del 1942 Vasco Pratolini osservava come fosse possibile riscontrare «una linea precisa nel procedere artistico della Masino».3 Nella narrativa degli anni trenta, infatti, Paola dimostra una costante attenzione al tema della famiglia, analizzando la complessità dei rapporti coniugali e del legame tra mondo adulto e mondo infantile. Lo stile non muta: sono sempre presenti descrizioni ricche di immagini suggestive, impreziosite da un certo interesse per i rilievi cromatici. Tale tendenza non svanirà nella narrativa degli anni quaranta. Il difficile rapporto tra genitori e figli è il tema cardine di Anicia, un racconto apparso nell’aprile del 1943 a Venezia sul «Gazzettino». Il testo riporta alla mente 1 PAOLA MASINO, Racconto grosso e altri, Milano, Bompiani, 1941, p. 38. EAD., Nascita e morte della massaia, Milano, Isbn Edizioni, 2009, p. 13. 3 VASCO PRATOLINI, Racconto grosso e altri, in «Primato», 1 aprile 1942 (in APM, serie Ritagli Stampa, Recensioni). 2 165 l’immagine della famiglia dello sfortunato stalliere di Monte Ignoso (1931), la quale nutre un profondo rancore per Marco, colpevole di essersi suicidato, ricoprendo di vergogna i propri cari. Lo stesso sentimento animerà il padre e la madre di Anicia: disapprovano l’amore della figlia per Noale, un giovane socialmente inferiore rispetto a loro, e per questo decidono di cacciarlo dalla città. Anicia entrerà in coma dalla disperazione e i suoi genitori non potranno fare a meno di osservare quanto sia stato «Meglio così […]; così […] la <loro> dignità è salva, non <devono> vergognar<si> di lei».4 L’immagine del padre appare anche in Quarto comandamento pubblicato sul «Tempo» di Milano nel giugno del 19435 e nel racconto Lino diffuso a Roma sulle pagine di «Città» nel dicembre del 1944.6 La figura paterna ritornerà in maniera preponderante in Anniversario, racconto che comparirà a Roma nel maggio del 1948 su «Mercurio», un mensile fondato nel 1944 dalla scrittrice e amica Alba de Céspedes.7 Qui Paola narra la storia di Elena e Diana, due sorelle, destinate a compiere un viaggio nel tempo proprio il giorno del quarantesimo anniversario di matrimonio di mamma Luisa e papà Enrico. Quest’ultimo è rimasto vittima di un bombardamento e le figlie avvertono l’esigenza di comunicare personalmente la disgrazia alla madre ormai lontana. In realtà avranno la possibilità di assistere al matrimonio dei genitori e di poter salutare per l’ultima volta l’amato padre: un uomo che sia padre porta in sé per i figli il volto vero di ogni spirituale panorama. Prati avresti creduto si srotolassero sul cammino del giovane che si 4 PAOLA MASINO, Colloquio di notte. Racconti, prefazione di Maria Rosa Cutrufelli, Palermo, La Luna, 1994, p. 49. 5 Ivi, p. 183. 6 Ibid. 7 MARINELLA MASCIA GALATERIA, Il finale ritrovato di Anniversario, cit., p. 70. 166 stringeva al fianco la donna quale sua terra necessaria. Ecco dunque che cosa mancava alle sue figliole da quando lui era morto. […] Non ci siamo accorte che era come se ci avessero detto: ma più vedrai l’erba, o le nuvole, o gli uccelli nel cielo e le greggi sui pascoli. […] Ma […] devi dirti che lui stesso è in quei nembi, in quel volare, in quei verdi germogli. […] gli sposi si fermarono davanti a loro ed Enrico disse: − Noi siamo molto felici. Anche voi dovete essere felici. L’amore ci deve sempre e ognuno fare felici.8 Il volume di racconti Racconto grosso e altri pubblicato a Milano nel 1941 presso la casa editrice Bompiani offre un altro esempio a tale proposito. L’opera si apre con Terremoto, dove emerge la preoccupazione di una coppia di genitori per la sorte dei propri figli durante il cataclisma. Latte, invece, si concentra totalmente sull’analisi del rapporto tra madre e figlio. Inizialmente la donna, moglie del ragionier Zanni, esterna un eccessivo affetto per il proprio figlio maschio e ciò provoca la morte del marito. Come in Monte Ignoso, anche in Latte un amore materno sproporzionato danneggerà i personaggi circostanti: divenne presto la madre del figlio benedetto del ragionier Zanni e dal giorno che ebbe partorito si buttò a essere mamma tanto che il timido ragioniere non trovando più in casa ove riversare il suo pavido affetto, né mobile o fiore o raggio di sole che non fosse sempre e tutto accaparrato e sommerso nell’amore che la madre aveva per il figlio, triste triste di giorno in giorno si sentiva sempre più freddo, e quando il bambino compì un anno, il padre, ridotto esiguo e viscido come un pezzetto di ghiaccio che si scioglie, lasciò il mondo.9 Nonostante l’abnegazione dimostrata dalla donna nei momenti più difficili, il figlio Antonio, una volta raggiunta l’età adulta, non le sarà riconoscente, ma verrà completamente condizionato e dominato dalla moglie, inspiegabilmente astiosa nei confronti della suocera. La vicenda ricorda l’esperienza di Feliciana, protagonista del Posto dei vecchi presente nel volume di racconti intitolato Le 8 9 PAOLA MASINO, Colloquio di notte, cit., pp. 155-156. EAD., Racconto grosso e altri, cit., p. 94. 167 solitarie pubblicato da Ada Negri nel 1920 a Milano.10 Come la madre descritta in Latte, Feliciana, rimasta vedova prematuramente, si prodiga molto per il mantenimento dei figli. Alla fine otterrà soltanto il disprezzo delle nuore e la cieca sottomissione dei figli alle mogli. La maternità è il tema cardine anche di Figlio, dove Paola affronta la problematica dell’aborto, riproponendo il simbolo ortesiano degli occhiali. Famiglia, invece, è un esempio di quanto l’autrice tenda a connotare i propri scritti con pennellate di colore rosso, come la tonalità del «corsivo largo»11 usato dai suoi personaggi, o di verde, visibile nei «dolenti occhi»12 del personaggio di Lisabetta. In Rivoluzione Paola spiega il significato di tale colore: Mettiamo: una madre veste il proprio figlio di verde, sembra un caso, sembra magari virtù d’economia. Nossignori: è manifestazione di sentimenti, è il colore della speranza. Colore sospetto, perché chi sta bene non ha niente da sperare, spera chi è infelice, chi desidera qualche cosa o qualche mutamento.13 Il verde, tuttavia, è anche il colore della paura come testimonia il «pallore verdastro»14 di Orazio, il protagonista di Commissione urgente. Non manca neppure la suggestione delle immagini come in Allegoria seconda, dove è possibile scorgere «il mare, per metà imbrattato di terra, con un alito forte, mare antico decaduto a vecchio, e sconvolto da umani sensi».15 In Racconto grosso, racconto da cui prende il nome la raccolta, Paola descrive un bimbo 10 ADA NEGRI, Le solitarie, Milano, Treves, 1920. PAOLA MASINO, Racconto grosso e altri, cit., p. 157. 12 Ivi, p. 160. 13 Ivi, pp. 204-205. 14 Ivi, p. 237. 15 Ivi, p. 277. 11 168 simile agli uccelli che si addormentano e svegliano mentre i crepuscoli maturano, vanno da un’aurora al tramonto quali sassi lanciati nelle correnti luminose, e quando i raggi si spengono cadono di schianto dal cielo nel sonno.16 La figura del padre e della madre sono presenti persino in Nascita e morte della massaia, il romanzo più noto di Paola, pubblicato nel 1946 a Milano presso la casa editrice Bompiani. La protagonista è destinata a perdere la propria essenza per rivestire il ruolo di massaia-moglie di uno zio più anziano di lei. È la madre a spingerla verso tale scelta. Fin dall’inizio ella viene connotata da tratti negativi: è indifferente e infastidita dalle domande a lei poste dalla figlia sul significato della nascita e della maternità. È concentrata a rispettare le convenzioni sociali: Per la madre invece avevano importanza solo i fatti; la domanda della figlia non le apparve dunque che un mal celato desiderio di marito. Fatta questa scoperta, la madre si sentì intelligente per molte ore, poi si mise senza pudore a cercare un uomo per la bisogna, come ogni madre rispettabile usa fare nei confronti delle proprie figliuole.17 Una sottile ironia accompagna il profilo della donna, la quale, durante una festa da lei organizzata in onore della figlia, viene raffigurata mentre «sorrid<e> come una pezzente che chiede l’elemosina».18 Solo il padre dimostra alla figlia un certo affetto: «Andate via tutti, e lasciate in pace la bimba. Via.» Era il padre. Per la prima volta aveva parlato e ora benché non avesse fatto nessun gesto violento, sembrava avesse riempito la stanza con il suo comando. […] Si amavano tanto e non sapevano che cosa dirsi. Il babbo abbracciò la sua bimba e la bimba trasse un grave sospiro, chiudendo gli occhi. A poco a poco si mise a piangere. 16 Ivi, p. 302. EAD., Nascita e morte della massaia, cit., p. 16. 18 Ivi, p. 25. 17 169 «No no» diceva il babbo «tutto è molto bello. Come te ora e te quando eri disordinata. Tu sei sempre molto bella, cara, anche se fossi tanto brutta e cattiva. Sei la mia bimba.»19 Nel volume intitolato L’inchiostro bianco Saveria Chemotti osserverà come Nella cultura e nella letteratura del Novecento, la relazione madre-figlia, nodo dell’autobiografia e centro tematico forte della scrittura femminile, <sia> stata descritta spesso, dalla testimonianza di innumerevoli donne, come luogo di conflitti e di sofferenza.20 La protagonista di Nascita e morte della massaia dovrà scontrarsi con la madre per la quale «La maternità, originariamente e simbolicamente, è stato l’orientamento prioritario, l’unico ordine in cui doveva esistere una donna, pena la sua non identificazione come tale».21 Se la figlia «pon<e> in discussione il materno rischi<a> di mettere in crisi la sua stessa condizione di donna».22 Nel saggio Padre e figlia e il ritorno della madre Laura Derossi offre una serie di esempi utili a dimostrare come la realizzazione di numerose scrittrici dipenda da un solido rapporto con la figura paterna.23 Questo legame ha permesso loro di intraprendere una «difficile ricerca […] per definire una immagine di sé al di fuori degli stereotipi al femminile».24 Paola Masino, in particolare, crea profili di mogli e di madri lontani dalle convenzioni dell’epoca. La massaia si rivelerà una donna sterile e, quindi, destinata a contraddire il modello femminile indicato dalla visione fascista come angelo del focolare 19 Ivi, pp. 36-37. SAVERIA CHEMOTTI, L’inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Padova, Il Poligrafo, 2009, p. 13. 21 Ivi, pp. 13-14. 22 Ivi, p. 14. 23 LUISA ACCATI, MARINA CATTARUZZA, MONIKA VERZAR BASS (a cura di), Padre e figlia, cit., p. 272. 24 Ivi, p. 274. 20 170 impegnato a donare i propri figli alla patria. La propaganda fascista non si concentrava solo sulla figura materna. «Non è uomo chi non è padre!», aveva affermato Mussolini nel 1928,25 e, perciò, mentre le donne erano «una vitale risorsa nazionale»,26 gli uomini erano incaricati di costruire nuove famiglie italiane.27 «<T>utti gli scapoli tra i ventisei e i sessantacinque anni»28 ad eccezione di «sacerdoti, […] invalidi e […] militari in servizio attivo»29 venivano colpiti da una particolare tassa «Introdotta con decreto reale del 19 dicembre 1926».30 I nuclei familiari numerosi, al contrario, ricevevano dallo Stato una serie di incentivi fiscali e monetari.31 La Chiesa condivideva il «culto della maternità»32 del regime, il quale il 24 dicembre celebrava la Giornata della madre: si trattava di «una scelta che sfruttava il culto cattolico della Vergine Maria».33 Paola si dimostra «continuamente critica contro menzogne sociali e convenzioni»34 e la scrittura costituisce lo strumento ideale per perseguire tale scopo. Secondo Leone Piccioni la Masino nel 1945 avrebbe pubblicato un altro romanzo: Memoria d’Irene, «Il libro che le darà più forza».35 Neria De Giovanni riprenderà l’attribuzione nell’opera Carta di donna del 1996.36 È possibile trovare 25 VICTORIA DE GRAZIA, Le donne del regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, p. 69. Ibid. 27 Ivi, p. 105. 28 Ibid. 29 Ibid. 30 Ibid. 31 Ivi, p. 106. 32 Ivi, p. 110. 33 Ivi, p. 107. 34 ELEONORA CHITI, MONICA FARNETTI, UTA TREDER (a cura di), La perturbante. Das unheimliche nella scrittura delle donne, Perugia, Morlacchi Editore, 2003, p. 198. 35 LEONE PICCIONI, La narrativa femminile in Italia negli anni tra le due guerre, in FRANCESCO DE NICOLA, PIER ANTONIO ZANNONI (a cura di), Scrittrici d’Italia. Atti del Convegno Nazionale di Studi. Rapallo, 14 maggio 1994, Genova, Costa & Nolan, 1995, p. 20. 36 NERIA DE GIOVANNI, Carta di donna, cit., p. 69. Nello stesso volume Neria De Giovanni riprende l’attribuzione anche a p. 253. 26 171 tale attribuzione anche nel volume curato da Laura Pisano, dal titolo Donne del giornalismo italiano del 2004.37 Risulta complesso reperire una copia di questo presunto romanzo masiniano, la cui causa non deve essere attribuita al lontano anno di pubblicazione e neppure all’oblio letterario che ha avvolto negli anni la figura di Paola: si tratta di un errore di attribuzione. Maria Luisa Ferro, in arte Marise Ferro, è l’autrice di Memoria d’Irene, pubblicato a Milano nel 1944 presso la casa editrice Ultra. L’opera narra la vicenda della sfortunata Irene, vista dagli occhi della cugina Anna. La protagonista è vittima di una famiglia poco amorevole nei suoi confronti: la madre l’abbandona per inseguire un amore sbagliato, la nonna materna riversa su di lei l’astio provato nei confronti della figlia, mentre il padre dimostrerà per lei una costante indifferenza. Solo l’amata cugina Anna per un attimo sembra essere in grado di colmare il vuoto che si annida nell’animo di Irene, ma non riuscirà a strapparla al suo tragico destino. La serie di errori è dovuta al fatto che sembra facile scambiare l’opera della Ferro per un testo tipicamente masiniano. Sono presenti le pennellate del colore verde come nel caso dei «cieli verdi di giugno»38 o dello «strano pallore verdastro»39 di Giulio, l’uomo che Irene sposerà nel momento in cui «Un cristallino splendore che irradiava verde, si alzava dall’erba».40 Significativa può sembrare anche la scelta di dare il nome Enrico a uno dei primi pretendenti di Irene.41 In realtà l’opera non ha nulla a che vedere con la scrittura masiniana, in particolare per quanto riguarda lo stile, qui chiaro e regolare, nella narrativa di Paola elaborato e teso a rendere la trama a volte oscura. 37 LAURA PISANO (a cura di), Donne del giornalismo italiano, cit., p. 248. MARISE FERRO, Memoria d’Irene, Milano, Ultra, 1944, p. 115. 39 Ivi, p. 131. 40 Ivi, p. 146. 41 Ivi, p. 94. 38 172 È chiaro come lo studio del profilo biobibliografico di Paola Masino consenta di analizzare una tipologia di scrittura originale ed elaborata e di affrontare numerose questioni di critica letteraria. Le trame dei suoi scritti svelano l’atmosfera di anni molto complessi, fornendo alcune risposte ad interrogativi esistenziali destinati a perdurare anche nei decenni successivi. Troppo spesso ella è stata additata soltanto come la privilegiata compagna di Bontempelli, tacendo la profonda sofferenza patita per lunghi anni. Tale stato d’animo ha irrimediabilmente condizionato la sua vena creativa, ormai sopita negli ultimi tempi. Nonostante ciò Paola Masino ha lasciato pagine preziose per la letteratura italiana, ricche di numerosi spunti da approfondire. 173 APPENDICE Qui di seguito sono specificate le sedi in cui compaiono le riproduzioni: - Figure 1, 2: LUISA SFORZA, Ricordi d’infanzia a Montignoso, a cura di Corrado Giunti, Carrara, Francesco Rossi Editore, 2000. - Figure 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25: FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO, MARINELLA MASCIA GALATERIA (a cura di), Paola Masino, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2001. - Figura 13: PAOLA MASINO, Testi inediti dai Quaderni di Appunti, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, in «Avanguardia», n. 43, 2010, pp. 25-45. Figura 1. Primo piano di Luisa Sforza da ragazza. Figura 2. Luisa Sforza a vent’anni (luglio 1903). 177 Figura 3. Enrico Alfredo Masino e Luisa Sforza novelli sposi (Montignoso, 16 settembre 1905). Figura 4. Le sorelle Masino: Paola (a destra) e Valeria. 178 Figura 5. Pomeriggio di svago per Paola (in piedi a sinistra), la sorella Valeria (seduta a destra), ed alcuni amici (Montignoso 1924). Figura 6. Foto a figura intera della scrittrice. 179 Figura 7. Gita a Venezia per la famiglia Masino (1925). Figura 8. Paola con mamma Luisa e papà Enrico a Forte dei Marmi (luglio 1927). 180 Figura 9. Foto di gruppo con la Masino (la seconda seduta da destra) e Massimo Bontempelli (il secondo seduto da sinistra) nei primi anni trenta. Figura 10. Altra foto di gruppo degli anni trenta: questa volta sono presenti anche Marta Abba e Luigi Pirandello (la prima coppia a sinistra). 181 Figura 11. Primo piano della scrittrice (1930). 182 Figura 12. Paola nel 1931. Figura 13. Posa della Masino in abiti tradizionali. 183 Figura 14. L’autrice alla Fiera del libro di Milano nel 1933. Figura 15. Paola con l’amico Luigi Pirandello nel settembre del 1933. 184 Figura 16. Momenti in casa Masino (1933). Figura 17. Pomeriggio di lavoro per Paola. 185 Figura 18. Primo piano di Paola (1934). Figura 19. Profilo della scrittrice (1936). 186 Figura 20. Masino e Bontempelli in piazza S. Marco (1946). Figura 21. Tra libri e gatti (1956). 187 Figura 22. Paola alla presentazione dei volumi Racconti e romanzi di Massimo Bontempelli da lei curati (Libreria Einaudi di Roma, 1962). Figura 23. L’autrice in visita a Cuba con Alba de Céspedes (la terza da sinistra) nel 1968. 188 Figura 24. L’autrice in un primo piano del 1975. Figura 25. Serata di presentazione della ristampa di Nascita e morte della massaia (Libreria delle donne di Milano, 1982). Sono presenti accanto all’autrice da sinistra a destra: Laura Lepetit, Carlo Bo, Valentino Bompiani, Silvia Giacomoni. 189 BIBLIOGRAFIA BIBLIOGRAFIA GENERALE · AA.VV., Futurisme et surréalisme, Losanna, Editions L’Age d’Homme, 2008. · LUISA ACCATI, MARINA CATTARUZZA, MONIKA VERZAR BASS (a cura di), Padre e figlia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994. · LUISA ACCATI, Il mostro e la bella. 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