Parrocchia S. Croce
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RELAZIONE - TESTIMONIANZA
di don Silvano Brambilla ad
INCONTRO DEI CAPPELLANI DELLE CARCERI DELLA LOMBARDIA
Lunedì 23 Gennaio 2006
TESTIMONE DI CRISTO RISORTO
nella concreta esperienza di parroco e cappellano
Non mi è facile presentare una riflessione sulla traccia preparatoria al Convegno di Verona, partendo
dalla mia esperienza di parroco e di cappellano: ho pensato parecchio nei giorni trascorsi, ero soprattutto in
difficoltà perché non riuscivo a trovare da dove iniziare concretamente:
•
•
•
ho preso in mano il nostro libretto sulla MISSIONE e su quello stile ho cercato un’icona biblica che
potesse presentare sinteticamente la persona del parroco-cappellano, ma non ci sono riuscito;
in parrocchia stiamo leggendo il documento CEI “Il volto missionario della Parrocchia in un mondo
che cambia” e vi abbiamo scoperto alcune note significative circa la missionarietà dei cristiani e
delle comunità;
infine ho notato che la traccia per il Convegno di Verona parla sì dei TESTIMONI di Gesù Risorto,
ma si riferisce ai cristiani in generale (e non ai sacerdoti o ai parroci o ai cappellani in particolare),
così ho deciso di non partire da me, come prete con una missione particolare, ma dai cristiani che incontro
nel mio servizio pastorale, sia in parrocchia, sia in carcere.
Parto dal n. 6 della traccia di Verona che presenta il cristiano come testimone di Gesù e quindi
testimone di speranza.
Cristiano è colui che è fortemente e gioiosamente legato a Cristo, ma anche ben radicato nella storia,
nel tempo e nel luogo in cui vive. L’immagine del cristiano (mi pare di Jacques Loew), come di un albero i
cui rami sono serenamente esposti al sole e le radici sono tenacemente radicate nella terra, penso descriva
molto bene le caratteristiche proprie del cristiano: infatti il cristiano è:
colui che cerca, accoglie, ama e segue il suo Signore ed anche colui che porta in sé i desideri, le
attese, le difficoltà che l’uomo di oggi sente, incontra e vive.
Il cristiano vive in sé e cerca di armonizzare queste due tensioni verso il Signore, che sente ed accoglie come
Maestro, e verso gli altri, che sente ed accoglie sempre più come fratelli.
Se vogliamo, questa è l’immagine, il progetto del cristiano, ma ora cerco di presentare come la vivo
e la descrivo io, dal mio duplice punto di osservazione e cioè dal punto di vista della parrocchia e dal punto
di vista del carcere.
1. Chi è davvero il cristiano delle nostre Parrocchie?
• Il Card. Martini, partendo sempre dall’immagine dell’albero, era solito distinguere
i cristiani della linfa, della corteccia e del muschio.
I cristiani della linfa sono coloro che vivono il legame con il Signore e la presenza nella
comunità in modo bello, sereno, convinto.
I cristiani della corteccia sono quelli che si accontentano di poco per tenere vivo il legame con
il Signore e con la comunità (diremmo i cristiani della domenica).
Infine i cristiani del muschio sono quelli che si avvicinano alla comunità per la necessità di un
Sacramento o anche per un momento di festa in parrocchia, o per chiedere un aiuto materiale a
quelli della Caritas.
Nelle parrocchie quindi sono presenti diversi tipi di cristiani che, a secondo delle loro storie e dei
percorsi fatti, cercano tempi, luoghi e modi per stare con il Signore, per camminare insieme con gli
altri e per irrobustire fede e capacità personali.
•
Tre mi sembrano le attenzioni da sviluppare per una sana e robusta vita parrocchiale:
- l’accoglienza, che porta all’ascolto, alla conoscenza, alla condivisione, in una parola
alla “cura delle persone”, che in momenti e per motivi diversi incrociano ambienti e
persone della Parrocchia.
- la cura dei segni : le celebrazioni, gli incontri, le feste, i diversi momenti conviviali
dicono il tipo di comunità che li vive e li anima: sono il volto concreto di una
comunità, direi quasi il “biglietto da visita” con cui una parrocchia si presenta e
viene riconosciuta come tale.
- Sentirsi parte di un contesto ampio come quello di un territorio, di una città, di un
decanato; e qui sta tutta la bellezza e la fatica di lavorare insieme (insieme con le
altre parrocchie, insieme preti e laici…, insieme con altri preti….).
In una realtà parrocchiale così differenziata e così esigente, come si configura il Parroco?
A questo punto due mi sembrano le immagini evangeliche che ben descrivono la figura e la missione del
Parroco e precisamente:
- quella del PADRE MISERICORDIOSO (Luca 15) che è attento a quelli che sono in casa, che poi
se ne vanno e magari alla fine ritornano, ma è attento pure a chi ritiene esagerata questa
accoglienza e fa una vita sua particolare.
- quella del PADRONE DELLA VIGNA (Matteo 20) che esce sulla piazza alle diverse ore del
giorno e chiama tutti a lavorare nella propria vigna, pagando anche gli ultimi come i primi.
2. E il cristiano in carcere come si presenta? Come vive?
• Anzitutto il cristiano è uno fra tanti: molte e molto diverse sono le culture, le tradizioni, le
religioni presenti in ogni sezione del carcere. Il cristiano vive a contatto con mentalità e
modi di vivere diversissimi, anche il modo di vivere la fede e la vita cristiana sono diversi,
basti pensare a un cristiano del Sud America o del Centro Africa o dell’Est europeo, o anche
del nostro Sud Italia, per esempio nel nostro Sud, per indicare una persona di dice “un
cristianu” (la mia permanenza tra la gente dell’Irpinia per 14 anni mi ha aiutato a capire e
valorizzare queste differenze).
• Il cristiano è uno come tanti, che ti chiede di tutto (dalle cose più piccole a quelle più
impegnative), che vede la Chiesa come un potere tra i tanti che ci sono nella società, che va
alla ricerca di segni sacri (immagini, corone, tau…).
• Tuttavia anche in carcere, direi soprattutto in carcere, c’è chi ritrova, chi avvia, chi
approfondisce un percorso di vita o di fede veramente nuovo. Un uomo di 54 anni mi diceva
qualche tempo fa: “Non avrei mai pensato che proprio in carcere avrei scoperto il Vangelo”.
Così si riscopre e si sente Dio presente
- nelle persone che ti sono e ti si fanno vicine,
- nella parola che apre orizzonti nuovi,
- nel pane che nella Messa spezziamo e condividiamo.
Assumono così il loro giusto significato
- la preghiera e le celebrazioni, che diventano momenti forti di vita,
- i colloqui e la catechesi, come momenti belli di ricerca, di ascolto, di confronto,
- legami significativi da riallacciare e da costruire sia con familiari, sia con persone
dentro e fuori dal carcere.
Per quanto riguarda il cappellano, alle icone bibliche che già abbiamo presentato nel nostro libretto sulla
missione, vorrei aggiungere quella del Buon Samaritano (Luca 10, 30 e ss), però direi un Buon Samaritano a
tutto campo e cioè dei malcapitati (= vittime) e anche dei briganti (= operatori di reato). In tal modo il
cappellano è capace di farsi prossimo per chi sta male e per chi ha fatto del male, rende Dio prossimo per chi
sbaglia e aiuta chi ha sbagliato a farsi anche lui prossimo ad altri (confronta l’esperienza di Paolo, Onesimo e
Filemone; ben evidenziata in quel piccolo scritto che è la Lettera a Filemone).
3. Qualche sottolineatura che deriva dalla mia duplice appartenenza al carcere e alla parrocchia
Condivido pienamente sia in carcere, sia in parrocchia il mio essere “cristiano con loro” e “prete
per loro”, ma questa mia duplice presenza, carcere - parrocchia, e cristiano – prete, mi porta a dare
particolare importanza ad alcuni atteggiamenti che mi possono rendere TESTIMONE CREDIBILE
del Signore Gesù.
• L’ascolto delle persone e l’accoglienza soprattutto degli ultimi, sono “le porte” da cui entrano
e attraverso cui passano tutti. Alcuni ti sono sempre vicini, altri non li vedi mai, tutti non riesci
a raggiungerli: tuttavia le occasioni e i momenti per farti vicino a uno o a tanti non mancano.
Inoltre quelli che sono lontani per me, sono vicini per altri che possono loro stessi essere “porta
d’ingresso” alla fede e alla vita cristiana di molti. L’eterno problema (sia in parrocchia, sia in
carcere) di distinzione tra i pochi che si avvicinano e i tanti che sembrano lontani si può
affrontare con la disponibilità e l’apertura tipica di Gesù e ben espressa nelle parole della
consacrazione: “prendete e bevete, questo è il calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna
alleanza, versato per VOI e per TUTTI in remissione dei peccati”. Ogni eucaristia celebrata nel
corridoio di una sezione o in una grande sala è sempre donata per NOI e per TUTTI.
• Il primato della PAROLA, in mezzo a tante parole che si ascoltano e si dicono, è la PAROLA
non mia, ma del SIGNORE, che guida la vita delle persone e della comunità. E’ importante fare
riferimento a questa parola e soprattutto aiutare anche altri a vivere questo riferimento, in
particolare quando si fanno verifiche o si prendono decisioni sia personali che comunitarie.
• La cura dei SEGNI importanti per noi cristiani, quali ad esempio la S. Messa e soprattutto la
MESSA della domenica, che diventa sia in parrocchia, sia in carcere il centro di tutto.
L’Eucaristia, che, in luoghi diversi e così lontani, io presiedo, diventa segno e strumento di
comunione per le persone che li vivono ed è sicuramente un dono e una responsabilità per me e
per tutti coloro che vi partecipano.
Ci sono poi segni importanti per ogni uomo, quali le tappe significative della vita (la nascita,
la morte, il matrimonio) che possono diventare occasioni ed opportunità per un incontro o per
la ripresa di un cammino di fede. Anche la “sosta forzata” in un carcere può essere un
momento di ripensamento e di una “presa di coscienza” di ciò che veramente si è per dono
del Signore, nonostante le nostre fragilità e debolezze.
• Sviluppare diversi legami e occasioni di contatto tra la comunità locale e il carcere, che
permettano una conoscenza e uno scambio reciproco. Essere presente io, come cappellano,
alle diverse riunioni (decanali, presbiterali) non solo quando si parla di carcere, ma anche
quando si affrontano i diversi aspetti e problemi della vita parrocchiale, non è senza
significato: far capire che la mia vita e i miei discorsi non riguardano solo il carcere, ma sono
attenti ai problemi delle famiglie, dei giovani, dell’oratorio, anch’io ho qualcosa da dire, da
dare e da vivere a proposito di questi ambiti di vita parrocchiale. Se io ci sono, nella vita della
comunità locale, sarà anche facile che la comunità locale sia presente in carcere (a volte, e non
per sostituirmi, a turno i parroci della città presiedono con me l’Eucarestia della domenica in
carcere) come pure una volta all’anno si tiene un incontro decanale, in collaborazione con la
Caritas, su temi relativi alla giustizia, alla pena e al mondo del penitenziario in genere.
Sono queste occasioni per portare un po’ di città nel carcere e un po’ di carcere nella città.
CONCLUSIONE
Sarebbe troppo bello se tutto questo fosse facile, mi sembra giusto mettere in risalto i disagi a cui
spesso sono sottoposto per vivere al meglio questa duplice presenza e questa duplice appartenenza.
Anzitutto il TEMPO da spendere nell’una e nell’altra realtà, mi sottopone a corse continue e a uno stress non
da poco, che segnano inevitabilmente le mie forze fisiche e spirituali: a chi mi cerca in parrocchia spesso i
collaboratori rispondono: “Non c’è, è in carcere”, chi non mi conosce ribatte ancora: “Perché cosa gli è
successo?”.
C’è infine tutto l’ambito delle RESPONSABILITA’ che in maniera diversa e spesso urgente sei
chiamato ad assumerti proprio nei due ambiti di presenza, responsabilità non da poco, sia riguardo alle
persone, sia riguardo alle scelte e decisioni, piccole o grandi, che comunque a te arrivano, perché sei tu il
parroco o il cappellano.
Non basta il tragitto dalla parrocchia al carcere o viceversa, per farti cambiare mondo e modo di vita,
soprattutto perché ognuno di questi richiede il meglio, o anche il tutto di te: qui sta tutto il bello e il difficile
del mio essere parroco e cappellano e quindi un po’ testimone del Signore Gesù.
don Silvano Brambilla
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