l'Unità dossier - II parte - Sotto la ferula del Cominform
Sotto la ferula del Cominform
L'Unità, dossier - II parte
1.Il 1950, quando tramontava la prima metà del
secolo, fu un anno di sangue. In Italia si aprì
con un nuovo eccidio: il 9 gennaio, a Modena,
la polizia di Scelba uccise sei operai nel cuore
di una manifestazione che protestava contro i
licenziamenti alle Officine Orsi. Si allungava il
cupo elenco dei caduti del lavoro. La scia di
sangue ora toccava il cuore dell'Emilia: quella
città così pregna di storia italiana, e la sua
splendida torre dal nome incredibile. Quanti
erano ormai gli assassinati per mano pubblica?
Raggiungeva la vetta il numero delle
condanne al carcere comminate per i moti di
protesta della sinistra: si calcola che nel triennio
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1948-1950 esso abbia superato quelle emesse
dal Tribunale speciale fascista. E più o meno in
quel periodo veniva a capo l'operazione
'Gladio', condotta insieme dal governo italiano
e dal Fbi. Nel luglio del'49, scattava anche
l'interdetto spirituale: la scomunica dei
comunisti decretata dal Sant'Uffizio, voluta
ardentemente da Pio XII.
E tuttavia quei morti, quei caduti non
bastarono a fermare la protesta. A ridosso
della sconfitta politica e a un anno appena dal
trionfo democristiano del 18 aprile, era scattato
- proprio in quel Sud che era stato baluardo
della destra monarchica e della vampa clericale
- un moto contadino, che chiedeva terra e
lavoro.
L'epicentro del movimento fu in Calabria: più
precisamente nell'area che dalle montagne
della Sila si congiungeva al Marchesato di
Crotone, e dilagò nelle due province di
Cosenza e di Catanzaro.
L'agitazione iniziò a luglio, ma la sua
espansione avvenne nell'ottobre. Partivano le
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popolazioni con in testa le bandiere, si
salutavano da un poggio all'altro, e giunte sui
demani e nei latifondi baronali - costruiti anche
attraverso lunghe storie di usurpazioni picchettavano il campo, spartivano le terre fra i
partecipanti, squadra per squadra
cominciavano ad arare le fasce occupate.
Il 29 di ottobre il movimento di Melissa si portò
sul feudo demaniale di Fragalà: e secondo il
rito cominciò la pratica dell'occupazione. Ma fu
ancora una volta il sangue. Un reparto di polizia
sparò sui contadini che stavano arando una
terra demaniale, cioè di proprietà comune.
Caddero un ragazzo di 15 anni, Giovanni Zito,
e Francesco Nigro di 29 anni. Angelina Mauro,
colpita anch'essa, morirà dopo alcuni giorni
all'ospedale di Crotone. Non ricordo il numero
dei feriti, quasi tutti colpiti alle spalle. Le terre
erano in buona parte demani comunali; altre
nelle mani di baroni feudali come Berlingieri.
Avevo conosciuto la Calabria nei primi giorni
di marzo del 1943: da clandestino, fuggendo la
polizia fascista che mi cercava, i compagni di
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Cosenza non mi avevano mai visto prima: mi
nascosero e mi protessero nelle montagne
della Sila. C'era dunque un vincolo forte.
Come direttore dell'"Unità" scrissi una lettera
pubblica a Cesare Zavattini, figura alta della
letteratura e del cinema. Proposi che un
gruppo di giornalisti e di intellettuali di tutte le
parti si recasse in Calabria a interrogare
persone e luoghi, e a ragionare sullo stato del
Mezzogiorno. Zavatttini rispose gentilmente.
Non potè venire. Ma la carovana di giornalisti
di varie tendenze partì per quel giro, in giorni di
un autunno splendido e visioni di sofferenza
umana, cupa e orgogliosa.
Le bandiere che invadevano il latifondo, i volti
scavati di chi le innalzava li ritrovammo poi
nelle pitture di Guttuso e di Treccani. Ci fu un
moto di pensiero. Tornammo a sfogliare pagine
di Dorso e di Gramsci.
In Parlamento i comunisti votarono contro le
leggi agrarie proposte da De Gasperi,
ritenendole se non sbagliate insufficienti. In
seguito tante cose parvero dare ragione a
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Ruggiero Grieco e Giorgio Amendola, che si
mossero così.
E tuttavia si compiva un mutamento nel
Mezzogiorno, dove per molti aspetti la sinistra
italiana aveva subito nel tempo sconfitte
drammatiche, e aveva visto perseguitare,
incarcerare, ferire le sue avanguardie. Ancora
a guerra finita, dopo il crollo del fascismo e la
cacciata dei nazisti, la federazione napoletana
del Pci un giorno aveva dovuto barricarsi
fisicamente nella sua sede, per respingere i
'lazzari' scatenati dalla destra.
A partire dal quel 1949 ci fu un rilancio
dell'opposizione sociale nel Sud. Da lontano
oggi si vedono chiaramente i vuoti e le
debolezze dell'iniziativa socialcomunista di
allora. E tuttavia fu dato un colpo al blocco
agrario. Finiva una riserva di caccia della
reazione italiana e del clericalismo. Il resto lo
fece l'emigrazione, quando ormai si schiudeva
la grande mutazione del Nord.
Anche tutto l'aspro dibattito interno al Pci sulla
strategia agraria verrà scavalcato dal lento
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deperimento del mondo contadino. E sarà per
così dire una fortuna che nell'Italia centrale
l'esodo dei mezzadri - dopo l'aspra e
inconclusa controversia sui patti agrari - li
condurrà nei comuni, nelle cinture delle cento
città, dove una cultura repubblicano-socialista
e avanguardie comuniste lavoreranno a una
pratica di inclusione e di elevamento con un
uso moderno e intelligente delle autonomie.
Era la società italiana in movimento che si
rifondava e si rimescolava. Una fascia povera
di popolazione (a volte poverissima) si mette in
viaggio per l'Europa, parte e ritorna. O
addirittura fugge dall'Europa, come era stato
all'inizio del secolo. Prima che nei libri, tutto fu
raccontato nelle pellicole dei maestri d'allora: Il
cammino della speranza di Germi,
Trevico-Torino di Scola, Rocco di Visconti - e
più avanti su quel tema così ossessivo, così
italiano, dell'emigrare tornerà anche Gianni
Amelio.
In ogni modo la questione dello sviluppo
prorompe. Lo affronterà con rischio e baldanza
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proprio un ex bracciante pugliese, divenuto
segretario della Cgil: Giuseppe Di Vittorio. E
sarà il 'Piano del lavoro'.
Le lacune, le approssimazioni, le vere e
proprie debolezze della proposta sono facili da
vedere oggi. In quel 'piano' l'unico intervento
per così dire 'strutturale' riguardava l'industria
elettrica. Le altre, sostanzialmente, erano
proposte o linee abbastanza sommarie di lotta
contro la disoccupazione.
Eppure in quella iniziativa del segretario della
Cgil emergeva l'idea di un 'progetto di riforma',
un bisogno di misurarsi con le novità
clamorose che stavano investendo la società
italiana: un primo, gracile tentativo di discorso
sui connotati di uno sviluppo nuovo, il tema che
poi diverrà centrale con forza negli anni '60, e
già in quel Convegno del "Gramsci" del 1962.
La dirigenza del Pci formalmente appoggiò la
proposta Di Vittorio. Ma non ne colse il segno
effettivo di novità. Soprattutto non avvertì che
dietro quella iniziativa ancora così gracile stava
ormai l'emergere di un soggetto sindacale
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deciso ad affermare la sua autonomia e la sua
difficile particolarità: tema poi di aspri conflitti,
come li vidi nel seno della Direzione comunista
tra Rinaldo Scheda e Bruno Trentin. E mi
parve chiaro che erano in dura discussione le
nuove forme che assumeva la politica: la
sconfitta storica del monolitismo e la
molteplicità dei campi e degli attori. E secondo
me il gruppo dirigente comunista di allora - pur
così fermo nel suo coraggio dinanzi alla
sconfitta - sbagliava nella lettura del
capitalismo che aveva di fronte, sia pure in
Italia così segnato dagli strascichi della sua
arretratezza.
A rileggere le fonti di quel lontano mezzo
secolo si vedono oggi abbastanza chiaramente
i lacci non solo politici, ma per così dire
'ideologici' che segnavano la battaglia
comunista di allora.
Ho davanti a me il libretto dedicato al Comitato
centrale del Pci che si svolse dal 10 al 12
ottobre del '50. Si può dire che fa una certa
tenerezza a guardarlo? È stampato all'Uesisa,
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dove allora era anche "l'Unità" in cui io
lavoravo. Sulla copertina, in testa, c'è la banda
rossa fiammeggiante. E sotto la foto rituale: con
i dirigenti in piedi, immoti in fila, le mani
poggiate sul tavolo: Scoccimarro, Togliatti,
Longo, Novella, Secchia, il gruppo dirigente,
come si diceva con una certa solennità allora.
Il libretto è un supplemento del "Quaderno
dell'attivista".
La lettura oggi delude: non per la polvere del
tempo su quegli eventi che allora ci stringevano
alla gola.
Era l'anno - mi sembra - in cui scattava
l'operazione 'Gladio', trama congiunta del Fbi.
e della dirigenza cattolica. Chi poteva negare
che fosse legittima una battaglia anche solo di
resistenza?
Eppure lo sbaglio, la difficoltà del Pci
traspaiono brutalmente nei testi di quel
Comitato centrale che si radunava nel pieno di
una tempesta. Stava prima di tutto nell'idea del
nemico, che si incontrava in quelle due parole
così insistite, così sillabate: imperialismo e
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grandi monopoli.
Era una troppo fragile semplificazione.
Rimandava a categorie e canoni discutibili del
leninismo, ancor più accentuati e forse falsificati
dallo stalinismo nel suo sanguinoso fiorire. In
quegli schemi interpretativi della tempesta in
corso, che pure io ascoltavo con religiosa
attenzione, due appaiono oggi le assenze
clamorose: l'Europa, e la complessità del
capitalismo nella metà di quel Novecento. Quel
continente così centrale nella storia del mondo
sembrava scomparire, o veniva colto allora
solo nelle sue immagini ritornanti di dissidenza
dalle grida americane: Mendès France, per
esempio. Risultava del tutto incompresa, quasi
dimenticata o ridotta a un rozzo strumento
dell'imperialismo americano, la laboriosa, ma
decisa costituzione della Comunità economica
europea, che pure era stata così
intelligentemente promossa e sostenuta dal
cattolicesimo europeo, compreso quel De
Gasperi che noi, schernendolo, chiamavamo
'austriaco', e Schumann, Adenauer... Quale
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errore!
Quanto all'ardente e complicata questione dei
Balcani, da secoli decisiva per gli equilibri e la
pace d'Europa, c'era in quei testi e discorsi del
comunismo italiano solo l'aspra condanna
dell'eresia titina, con un silenzio colpevole sulla
Polonia, frontiera del cattolicesimo, terra così
segnata per secoli dalle guerre per gli equilibri
continentali, e Praga, sito complicato delle
differenze religiose e poi del pensiero del
Novecento. Infine, un grave triste silenzio sui
processi e le purghe che là erano risorti, e i
dirigenti comunisti finiti sul patibolo già allora:
Rajk in Ungheria e Kostov in Bulgaria.
C'era - so bene di dirlo con il senno di poi una lettura povera e mutilata del capitalismo
novecentesco, che lo riduceva al potere
militare e alla frusta padronale nella fabbrica,
quasi come uno 'scelbismo' a livello imperiale.
Le culture sofisticate, le varianti statali così
marcate nella vasta area dell'Occidente, le
mutazioni nuove delle tecnologie industriali nei
loro spazi di regolazione: questo si perdeva. E
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ciò proprio mentre la nuova razionalità
capitalistica dilagava anche nel nostro paese,
quegli anni in cui dalla penombra carceraria
venivano portate alla luce, e quasi santificate, le
riflessioni di Gramsci sui sistemi di egemonia,
sui vari fronti o reti di casematte in cui si
differenziavano, nella modernità capitalistica,
guerra di movimento e guerra di posizione.
Non sono mai stato convinto della fortuna di
Zdanov nella sinistra italiana. E tuttavia i suoi
solenni scenari, il suo dogmatismo brutale
sembravano aver lasciato una traccia - o
almeno come un freno - che rigettava indietro
anche l'ideologia della 'via italiana',
l'affermazione di diversità con cui Togliatti s'era
distinto dalla vicenda russa e aveva
combattuto strenuamente (questo non si può
dimenticare) contro la prospettiva 'greca',
contro la 'semplificazione' del ricorso alla lotta
armata.
C'è una curiosa traccia di ragionamento, che
s'incontra spesso, nei testi analitici del gruppo
dirigente di quegli anni: si espongono i motivi
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generali per cui X o Y "non possono non fare"...
E a me sembra evidente, in quello schema
logico, la precostituzione di una soggettività
trascinata alle sue scelte da un'intima natura,
che al momento dato fatalmente si rivelerà.
Sembra tornare, in quelle previsioni fatali, la
secca assiomaticità con cui Lenin dalle fiamme
della prima guerra mondiale in atto ricavava la
definizione dell'imperialismo e dei gruppi
monopolistici dominanti, e da ciò l'ineluttabilità
della guerra e della insorgenza rivoluzionaria:
con la riduzione della socialdemocrazia
europea al tradimento, al miserabile compito di
'rinnegati'. Una dura semplificazione del
capitalismo giunto alle complesse morfologie
del Novecento, ai suoi molteplici intrecci fra
'nazionale' e 'internazionale', alle culture con cui
esso si incontra e si mischia, ai vari livelli con
cui costituisce alleanze, e in un certo specifico
modo le segna e le collega: da luogo a luogo.
Può sembrare curioso che ormai all'inizio del
secondo Novecento l'avanguardia comunista
italiana resti dogmaticamente stretta alle
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clausole leniniste, quando contraddittoriamente - già la pratica comunista
italiana da tanti versanti - tenacemente e quasi
disperatamente - lavorava a scavalcare i moduli
stalinisti, si costituiva nel territorio, e dilatava
l'agire del partito in una molteplicità di campi,
fino a iscrivere nei suoi modi - non mi stancherò
di ripeterlo - persino i simboli del folclore.
Guardando da lontano, si percepisce
nitidamente che - nel momento forse di
massima tensione con l'avversario di classe - il
Pci utilizza il suo abbrancarsi al territorio: il
comune e la regione, e persino il vecchiume
statalistico rappresentato dalle province. Più o
meno è in quegli inizi del secondo Novecento
che in Emilia, in Toscana, in Umbria (ma si
potrebbe allargare la lista dei nomi) un potere
comunale e regionale realizza alleanze, e
scopre (o ritrova) terreni 'locali' di
emancipazione, e luoghi di incontro con la
molteplicità novecentesca dei lavori e delle
professioni.
Fu quello un ripiegamento dinanzi alla
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difficoltà e alla sconfitta subita ai livelli di potere
nazionale e mondiale? E tuttavia Bologna
divenne un simbolo, che parlò persino a livello
internazionale. E la lotta rivendicativa in quelle
terre tra il Po e il Tevere non fu certo
mortificata: se mai, ne fu esaltato il nesso fra
emancipazione del lavoro e sviluppo civile. E fu
rotto l'isolamento della fabbrica.
Ma questo si dispiegò in Italia soprattutto
dopo. A luglio di quell'aspro 1950 tornava nel
mondo la guerra.
2.Ho a mente ancora l'emozione, il silenzio,
quando in quella stanza dell'Uesisa, dove
lavoravamo in équipe alla fabbricazione
dell'"Unità", un compagno redattore mi portò il
foglio di agenzia che annunciava l'evento: Kim
Il Sung, capo comunista della Corea del Nord,
aveva varcato la frontiera della Corea del Sud,
stretto alleato della potenza americana.
Non so dire se fummo sorpresi. Da quella
capitale italiana avevamo abbastanza chiaro il
livello a cui si appressava lo scontro mondiale.
Ed era fatua la campagna italoatlantica quando
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irrideva agli 'utili idioti': il movimento dei
Partigiani della pace, almeno in Italia, fu tutto
meno che un trucco. E ci furono scissioni,
rotture dolorose, in cui spesso chi si schierò
con i pacifisti perdeva poteri e favori.
Certo: alla testa di quella onda pacifista
stavano le avanguardie comuniste. Ma
parlavano a mondi inquieti. Non so dire se la
firma di Vittorio Valletta sotto quell'appello di
Stoccolma fu un gioco beffardo o un moto
d'animo. Nenni ha raccontato che in quelle ore
anche De Gasperi parve convinto che stesse
per scoppiare la terza guerra.
Di sicuro, un esteso campo cattolico fu
scosso. E non si mosse solo la dissidenza
proclamata: da Gozzini a don Mazzolari. Disse
il suo turbamento anche una figura come Igino
Giordani, uomo della crociata anticomunista. E
sapevamo allora quasi nulla del campo di lotta:
di quella nuova Asia, che aveva visto, quasi a
sorpresa, l'incredibile vittoria di Mao.
In quei giorni, con l'animo sospeso, andammo
con i nostri figli a cercare sull'atlante il segno di
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quel fiume Yalu, su cui si fronteggiavano così
direttamente il nuovo paese-guida
dell'Occidente, l'incredibile America, e l'ignota
Cina che si proclamava comunista. Chi poteva
pronosticare l'esito di quella sfida e i livelli e lo
spazio cui sarebbe giunto l'urto?
Tornava nel modo più concreto la mondialità
dello scontro fra due campi: di nuovo al livello
delle armi, quasi a ribadire il legame obbligato
con lo Stato-guida, l'unico - così sembrava - in
grado di aiutare la giovane rivoluzione maoista,
quindi l'Asia nuova, uscita vittoriosa persino
dalla sfida col Giappone.
Sembrava emergere - allargato - quel vincolo
degli anni trenta e quaranta che ci aveva
trascinato con l'Urss nonostante le purghe
staliniane.
Eppure in quell'autunno degli anni cinquanta ci
fu una vicenda singolare - si potrebbe dire in
qualche modo tutta italiana - che nel suo livello
aprì una ferita con i sovietici, e a coloro che
quella vicenda vissero svelò quasi una crepa,
una incredibile disfunzione in quel paese-guida.
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Per caso singolare mi trovai a viverne un
anfratto.
Era la seconda metà di novembre, e come
direttore dell'"Unità" fui chiamato a una
conferenza del Cominform, dedicata alla
discussione sulla stampa comunista e che
assumeva come punto di partenza l'esame del
giornale cecoslovacco "Rude Pravo" e
dell'italiana "Unità".
L'incontro era fissato a Bucarest. Partii
insieme con Edoardo D'Onofrio, un comunista
rigido e malinconico, che in quel tempo teneva i
contatti diretti con il Cominform.
Era un volto, una storia di operaio romano che
incuteva rispetto: come segnato da una
amarezza, non si capiva se generata dal corso
delle lotte italiane o da una ingiustizia che lo
aveva ferito. Ne parlò una volta aspramente
con Togliatti che gli rispose: voi che avete fatto
per me, quando Stalin mi voleva portare via
dall'Italia?
E quella malinconia dell'operaio comunista
romano sembrava cancellata solo in qualche
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incontro nelle trattorie di Testaccio, a mangiare
coda alla vaccinara: allora si abbandonava a
scatti goliardici, a sfide sull'ingozzarsi e sul
bere e a qualche parola grassa. Mi faceva un
po' soggezione, pur essendo io lontano dalle
posizioni che egli esprimeva nel dibattito di
partito. Ma mi piacque andare con lui a
quell'incontro, di cui non afferravo bene gli
scopi.
A Bucarest vidi una città nuda, spoglia nelle
sue piazze. Presto ci spostammo altrove, in
una villa quasi sepolta tra i boschi. Le stanze
erano vaste e senza arredamento, come di
luoghi appassiti o addormentati. Fuori c'erano
però selve assorte.
Se ricordo bene, la discussione fu aperta da
una relazione di Iudin, uno dei segretari
dell'Informburò. Fu una relazione pesantemente
didascalica, con un caloroso apprezzamento
per il "Rude Pravo" e una critica feroce e
dichiarata per "l'Unità". Il primo addebito era
l'assenza nel giornale della vita dell'Urss e delle
conquiste del comunismo mondiale, Stalin 19 / 29
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s'intende - in testa a tutto. Il centro dell'attacco
al giornale italiano riguardava la sua debolezza
ideologica, la gracilità della informazione sulle
vittorie del campo comunista, lo spazio
minuscolo dato alla formazione bolscevica dei
quadri, allo studio e alla illustrazione delle
opere di Stalin e di Lenin. E via dicendo.
Ma la condanna non si fermava alla politica:
tracimava nell'etica. Veniva criticato lo spazio
dato alla cronaca nera, ai malcostumi della
società borghese: e infine alle 'donne nude',
alla narrazione frivola e impudica. Eccetera. Ed
era davvero una critica esagerata, anche se
nella giovane redazione dell'"Unità" c'era sì un
certo gusto del lazzo un po' becero, della beffa
salace, rivolta non solo all'avversario.
In ogni modo a fronte di quelle critiche non si
capiva cosa rimanesse in piedi di quel giornale
italiano, e nemmeno l'acribia dell'attacco. Ma si
capiva nettamente che la condanna andava al
di là del giornale, e toccava indubbiamente
connotati di fondo del partito italiano, il suo
immaginario nel paese e il suo modo di
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confrontarsi con il capitalismo occidentale di
quel tempo.
Con quell'attacco veniva colpita proprio la
dilatazione del giornale, il suo sforzo di incidere
sul costume e di dialogare con le correnti
culturali della rivoluzione novecentesca, anche
con chi dissentiva e rompeva con noi. E forse
non bastava a giustificare quella dura
arroganza il finanziamento che ci veniva da
Mosca.
È vero. Noi esploravamo varianti corpose
rispetto al modello sovietico. Tentavamo di
afferrare l'evoluzione del capitalismo
occidentale, le turbinose rivolte culturali che
avevano scosso il secolo. Esploravamo varianti
possibili del modello.
Invece ci trovammo di fronte a un dispotismo
centralistico, che tentava di cancellare le
innovazioni del secolo, quando si trattava di
capirle. Cos'era, in quella congiuntura aspra,
quell'educandato cominformista? Erano curia?
Nel caso, gli mancava l'impudicizia e il rutto.
Predicavano lo stalinismo, nel suo senso più
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gretto. Più tardi mi chiesi che significava
quell'attacco agli italiani proprio mentre Stalin
intendeva portare Togliatti alla dirigenza del
Cominform.
Dissi a D'Onofrio: questa critica violenta non
riguarda solo noi dell'"Unità". Va oltre. Fu
malinconicamente d'accordo.
La mia relazione che seguì fu francamente
infelice: cercava di parare i colpi, a suo modo
inserendosi nel linguaggio di quel rito. Alla fine
facevo, quasi a compenso, un racconto
apologetico (ma veritiero) del lavoro degli
'Amici dell'Unità', l'organizzazione militante che
in certe domeniche aveva portato la diffusione
dell'"Unità" quasi a un milione di copie, vicino
ai livelli dei grandi giornali borghesi.
Ma nemmeno questo mi salvò. Cercai qualche
appoggio nel compagno francese che
rappresentava l'"Huma", sperando in una
solidarietà del comunismo occidentale. Ma la
risposta fu evasiva. Ed era ancora poco: in
seguito con i compagni francesi fu conflitto
aperto.
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In una sosta pomeridiana, in giro per i prati
splendidi che circondavano quella villa
solitaria, incontrammo Suslov, l'ideologo
sovietico ufficiale dopo la morte improvvisa di
Zdanov: una figura alta, chiusa in un lungo
cappotto bordato da un lembo di pelliccia, come
assorto negli occhiali a pince-nez. Domandò
gentilmente a D'Onofrio: che cosa pensa
questo giovane compagno delle critiche che gli
sono state rivolte? D'Onofrio rispose qualche
parola di circostanza. Io più o meno tacqui.
Al ritorno in Italia incontrai Togliatti
convalescente a Sorrento. Quel 1950 che
stava per finire era stato un anno drammatico
per lui. In agosto, mentre viaggiava verso le
Alpi piemontesi che gli erano così care, la
macchina che lo ospitava con la Jotti era
sbandata paurosamente.
All'inizio parve che Togliatti avesse riportato
solo qualche piccolo danno. Ma in autunno
cominciò uno strano malore. Marcella Ferrara,
che era la segretaria di "Rinascita", e per
ragioni del suo lavoro e per amicizia era
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spesso con lui e con Nilde nella casa di
Montesacro, mi raccontava con angoscia quei
segni di un male oscuro: le risposte confuse e
sbandate, l'improvviso assopirsi o non dar
segno di attenzione, i malori progressivi che
alla fine allarmarono Spallone, il medico che lo
seguiva si può dire giorno per giorno.
Poi le cose precipitarono. Togliatti era quasi in
coma. Fu cercato freneticamente Valdoni, il
chirurgo famoso che l'aveva salvato il giorno
dell'attentato di Pallante in piazza Montecitorio.
Valdoni, sia pure con qualche riluttanza,
accettò di intervenire. Ricordo come fosse ora
quel momento in cui Antonello Trombadori,
critico d'arte e vecchio gappista e addetto ora
ai servizi di vigilanza (secondo le curiose
metamorfosi che si compivano in quello strano
Partito comunista) sbucò da una porta e
abbracciandomi mi disse: è salvo. Tali erano le
passioni che si vivevano in quel singolare
organismo politico che a Bucarest avevo visto
sotto accusa dal Cominform, poiché di questo
alla fine si trattava.
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A Sorrento, in quella fine di un triste
novembre, andai accompagnato da Marcella
Ferrara. Informai Togliatti del brutto esito di
quella riunione. Per necessaria correttezza, e
secondo i vincoli che allora ci apparivano
naturali, dissi a Togliatti che naturalmente ero
pronto a lasciare la direzione del giornale. Mi
rispose semplicemente: continua come prima.
Senza aggiungere altro.
Il 17 dicembre 1950 quel segretario del Pci
partì per Mosca con la Jotti e con la figlia
Marisa, per un periodo di convalescenza in
Unione sovietica. Il giorno seguente al suo
arrivo ricevette una visita di Stalin, che gli
propose subito di lasciare l'Italia e di assumere
la guida del Cominform a Praga.
Che fu? Una mossa di Stalin per togliere un
uomo incomodo alla testa del più grande e più
radicato partito comunista d'Occidente, in
qualche modo sospetto ormai di eresia, e
affidare la direzione del partito italiano a Pietro
Secchia, strettamente legato alla guida
sovietica? O - più probabilmente - era il
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tentativo disperato di risollevare le sorti del
Cominform, diventato una fragile accolta di
burocrati, che ormai - dietro quel nome così
prolisso - sapeva solo allineare materiali
dottrinari e articoli noiosi, che nessuno leggeva,
e ritrovare una iniziativa in quell'Occidente
europeo dove i partiti comunisti - quasi tutti erano sconfitti o ammalati di malsottile?
Assai probabilmente era vera la seconda
lettura.
In ogni modo Togliatti rifiutò aspramente
l'incarico prestigioso. Ma si trovò
drammaticamente di fronte la direzione del Pci
che tutta - salvo Terracini che fu seccamente
contro e Longo che si astenne semplicemente
per motivi di correttezza essendo lui
chiaramente il candidato alla successione di
Togliatti - tutta la direzione del Pci approvò la
proposta di Stalin. Togliatti tenacemente,
rabbiosamente resistette all'allontanamento
dall'Italia. E alla fine la spuntò. Nilde Jotti mi ha
raccontato il gesto, il respiro di sollievo che il
segretario del partito italiano ebbe, quando
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sulla via del ritorno, varcarono la frontiera
sovietica. Tali erano i 'tempi di ferro e di fuoco',
che egli amaramente evocò, in una assemblea
del Partito a Livorno, quando nel 1956
Amendola e Pajetta l'accusarono di tiepidezza
o reticenza di fronte al 'rapporto segreto' di
Nikita Krusciov sui delitti di Stalin.
In verità in quel duro 1950, Mao corse in aiuto
dei nordcoreani, e l'attacco americano fu
fermato sulle rive dello Yalu. Né l'uno né l'altro
dei grandi protagonisti mondiali pigiarono il
bottone che faceva brillare l'atomica. E quella
pace precaria fu salva.
La stella del Cominform era ormai in frantumi,
seppure avesse mai brillato. Prima ancora che
l'idea del 'comunismo' (questa grande metafora
della transizione verso un'ipotesi socialista)
cadeva sconfitta l'idea che la parte comunista
aveva dell'avversario di classe: il quale non era
solo il gigante fordista americano che dilagava
nel mondo, ma una costellazione di soggetti, di
forme statali e di apparati ideologici, che
collegavano l'avanzata dei saperi industriali e la
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dilatazione dei consumi, le corporazioni
proprietarie e i siti molteplici della politica,
niente affatto chiusi nel Palazzo d'Inverno, ma
diffusi nella molteplicità della vita, nella lunga
durata del giorno e nei cicli notturni dove
avevano i loro clamori sessualità e travaglio
della psiche, o trovavano spazio attonito le
interrogazioni sul Divino e sull'oltre.
Il lavoro stava dentro e al centro di queste
boscaglie, e trascolorava, mutava nei nuovi
livelli dei saperi che s'interrogavano ormai
persino sul generare, sulla creazione della vita
umana. Poteva esserci, può esserci un
processo di emancipazione, di liberazione del
lavoro, che non cominci (solo cominci) a fare
più nettamente e pazientemente i conti con
questa inaudita complessità umana in cui
naviga l'atto lavorativo?
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Pietro Ingrao
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