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Cattivi presagi
AlessAndrA pepino
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CATTIVI PRESAGI
© 2014 Alessandra pepino
© 2014 Atmosphere libri
Via seneca 66
00136 roma
www.atmospherelibri.it
atmospherelibri.wordpress.com
[email protected]
redazione a cura de il Menabò (www.ilmenabo.it)
i edizione nella collana Biblioteca del giallo ottobre 2014
Finito di stampare nel mese di ottobre 2014 presso Csr - roma per conto di Atmosphere libri
isBn 978-88-6564-111-8
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A Massimo e a Paola, per aver reso ogni cosa possibile.
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“Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da
soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità”.
Joseph Conrad
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Chissà perché nessuno mai si premura di spiegarti che cosa è, veramente,
la morte.
Nessuno che si prenda la briga di raccontartela per davvero, piuttosto che nasconderla dietro il velo rassicurante di un oltre dall’inafferrabile consistenza. Sarebbe utile, invece, arrivare a questo snodo
cruciale della vita con un libretto delle istruzioni già letto e interiorizzato.
Io, per esempio, nemmeno lo immaginavo si potesse provare così
tanto dolore tutto insieme. L’ho capito troppo tardi, quando ormai le sue
mani – quelle mani malvagie, piena di vene e di collera – mi avevano
già avvolta per cingermi nel loro abbraccio mortale.
Quello che è successo dopo non sarei in grado di raccontarlo, tanto è
avvenuto rapidamente: dicono prenda forma così la danza propiziatoria della morte, quella che ti alita addosso col suo f iato caldo e inconsistente.
Quando ho sentito il suo ginocchio puntarsi con violenza dietro la
mia schiena e un corpo estraneo cingermi il collo, come un cappio, il
mondo aveva già preso a rotearmi davanti agli occhi, come un caleidoscopio.
Il primo pensiero che mi ha attraversato la testa, mentre l’aria trovava già sbarrata la strada per arrivare ai polmoni, è stato che non
avrei mai più potuto sapere cosa si provi a sentirsi crescere dentro un
f iglio f ino a vederlo venire al mondo. Me ne sarei andata prima, con
i miei inutili anni alle spalle e un futuro inesploso davanti. Poi ho pensato ai posti che non ho mai visto, quelli che nel tempo avevo segnato con
il pennarello rosso sulla cartina, con un cerchio di diverse dimensioni,
in ordine di priorità.
Uno si immagina di morire pensando alle persone più care, un genitore, un marito, un fratello. Io invece, mentre morivo, ho pensato a
nient’altro che a me stessa.
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Il destino ha voluto farsi gioco di me, decidendo di prendermi con sé
proprio stasera che sembra che qualcuno, ai piani alti, abbia dimenticato di chiudere i rubinetti dell’acqua. Io che ho sempre avuto una paura
irrazionale dei temporali, f in da quando ero bambina. Strano, vero?
Sembravo impermeabile a tutto, alle diff icoltà come alle critiche, e invece me la facevo sotto per quattro gocce d’acqua. In realtà non era tanto
la pioggia che scroscia sulle ali del tuono a mettermi a disagio, quanto
il senso di precarietà che le nuvole portano con sé, la loro totale arrendevolezza alle scorrerie del vento.
Sono sempre stata una roccia, non c’è mai stato vento che abbia saputo smuovermi dal punto in cui avrei voluto essere. Perché se non ti
fai roccia, f inisce che la vita ti inganna e fa di te quella che desidera che
tu sia. Per quanti errori possa aver commesso, so con certezza di non essermi mai piegata al volere degli altri. Ho sempre deciso io come condurre il gioco. Persino adesso, che sto morendo sul selciato di questo
cortile inzaccherato di acqua e fango, le redini della situazione restano
salde nella mia mano: non gliel’ho data vinta, come la persona che mi
ha ridotto così avrebbe voluto. Nonostante il dolore, la paura e la disperazione io non ho mai gridato, né l ’ho implorata di fermarsi, di
smetterla di inf ierire su di me.
La morte mi è venuta incontro, e io l’ho salutata in silenzio.
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Capitolo 1
18 giugno 2013
ore 22:18
L’orologio digitale del lettore dvd lampeggiava le 22:18 quando Cesare Melchionna richiuse la porta dell’appartamento alle sue spalle.
L’oscurità che trovò ad attenderlo, tradita dai lampi che si rincorrevano al di là della finestra, fece da eco alle scariche di adrenalina che sentiva deflagrare lungo la spina dorsale. Per quanto si
sforzasse di rimanere lucido, le mani non smettevano di tremargli, né
gli incisivi di tormentare il labbro inferiore. Muovendosi come un
ladro nella sua stessa casa l’uomo cercava a tentoni l’interruttore sulla
parete. Quando i faretti che pendevano dalla controsoffittatura dispiegarono la loro luce tutt’intorno, lo spazio circostante fuoriuscì
dall’ombra recuperando una parvenza di normalità.
Melchionna si appoggiò al muro e inspirò profondamente: gli
spettri che lo stavano rincorrendo sembravano seminati, almeno per
il momento.
Dietro di lui, un sentiero di piccole pozze d’acqua, regalo delle
suole inzuppate delle sue scarpe; senza volerlo, Cesare si scoprì a fissarle come se fossero giganteschi abissi pronti a risucchiarlo.
Il cordless era sulla sua base, nello scaffale della parete attrezzata
dove ricordava di averlo riposto poco prima di uscire. Anche se
avrebbe avuto tutt’altro a cui pensare, non riuscì a fare a meno di notare come non ci fosse alcuna luce lampeggiante a richiamare la sua
attenzione. Nessuno che, in quel breve lasso di tempo, avesse cercato
di mettersi in comunicazione con lui.
Col cuore ancora in gola, Melchionna si lanciò in direzione dell’apparecchio, deciso a comporre il numero della polizia ma, a un
passo dall’afferrare la cornetta, avvertì uno strano bruciore all’altezza
dello stomaco. “Devo farlo” pensò, “è mio dovere”.
A implorarlo da sopra la scrivania, come un cane legato a una catena che sta per strozzarlo, c’era il computer portatile, lasciato come
sempre acceso. Il salvaschermo, una penna che attinge a un calamaio
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e riempie righe su righe di un foglio immaginario, si offriva al suo
sguardo come una crudele presa in giro. Nell’attimo esatto in cui afferrava il telefono e iniziava a comporre le cifre del 113, lo scrittore
sentì una forza magnetica attrarlo verso lo schermo luminoso: il foglio Word paurosamente bianco che gli apparve davanti dopo aver
sfiorato il mouse gli provocò una nuova scarica di angoscia.
“Potrei scendere un attimo e dare giusto un’altra occhiatina. Cinque minuti, non uno di più, e poi farò quella maledetta telefonata.
Non cambierà niente, visto come era ridotta. Cinque minuti in più
per quella poveretta non faranno certo la differenza. Per me, invece,
potrebbero essere fondamentali: sai quanti dettagli si possono registrare in soli cinque minuti? Sai quante idee che possono affacciarsi
alla mente? Poi torno a casa e la faccio, ‘sta cazzo di telefonata. Lo
giuro”.
Il boato di un tuono si infranse sul vetro della balconata, facendolo sussultare. Un temporale del genere, nel mese di giugno, non si
vedeva in città da chissà quanto tempo.
Cesare sprofondò nella poltroncina girevole della scrivania e si
prese la testa tra le mani, massaggiandosi le tempie con i polpastrelli.
Ripensando a tutte le volte in cui quel gesto dal sapore scaramantico
era stato capace di aiutarlo a mettere insieme le tante idee che gli
mulinavano come schegge nella mente riscoprì il sapore del fallimento affacciarsi alla bocca dello stomaco. Uno scrittore di gialli che
non è più in grado di inventare storie è come un calciatore a cui vengono amputate entrambe le gambe. Senza idee non esistono trame
e senza trame, ahimè, le case editrici ci mettono un secondo a liquidarti come l’ultimo degli sconosciuti, anche se ti chiami Cesare Melchionna e hai un curriculum di tutto rispetto alle spalle.
E allora, cosa fare se l’ispirazione ti si presenta più reale che mai,
in una piovosa notte come un’altra, sotto le spoglie di un cadavere ancora caldo, abbandonato tra le piante del cortile del tuo condominio? Cesare lo sapeva che la cosa più ovvia sarebbe stata avvisare
subito la polizia, eppure c’era una vocina insistente, che si levava dall’angolo più nascosto della sua coscienza, che lo incitava a non lasciarsi scappare un’occasione del genere: il corpo era nascosto alla
meglio tra i vasi in coccio del cortile, con tutta la pioggia che stava
cadendo giù era piuttosto improbabile che qualcun altro lo avvistasse.
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Lui stesso non se ne sarebbe mai accorto, se la fede che stava rigirandosi sull’anulare non gli fosse scivolata via dal dito per andarsi a
infilare in una pozzanghera poco lontano dal cadavere.
Istintivamente l’uomo sfiorò con le dita della mano destra l’anello
recuperato per miracolo e si scoprì a chiedere un consiglio immaginario ad Adele. Lei sì che avrebbe saputo rassicurarlo. Poggiando
impercettibilmente le mani sopra le sue e regalandogli uno soltanto
dei suoi caldi sorrisi, avrebbe finito col rendere tutto meno terribile.
Da quando se ne era andata, non era passato giorno senza che
Cesare mettesse in ordine le sue cose, ripiegando con cura il suo pigiama sotto il cuscino o apparecchiando la tavola per due, nel caso in
cui avesse deciso di fargli una sorpresa e farla finita con quell’assurdo
esilio che si era imposta, per riflettere sul loro matrimonio, secondo
lei alla deriva.
Melchionna si era scoperto del tutto incapace di vivere senza sua
moglie: ventidue anni di vita insieme non erano certo uno scherzo da
archiviare così, a cuor leggero. I ritmi della sua esistenza, privi di regole come accade a ogni libero professionista, erano stati sempre dettati dal buon senso e dall’organizzazione impareggiabile di quella
donna che all’apparenza sembrava uno scricciolo da proteggere ma
che, dentro, era un gigante buono in grado di sollevare le montagne
pur di rendergli le giornate meno faticose.
Cesare era stato talmente tanto concentrato su se stesso e sul suo
lavoro da non accorgersi dell’insoddisfazione che covava silente dentro l’anima di sua moglie. Alla soglia dei cinquant’anni, con una vita
di dedizione e sacrificio alle spalle, Adele appariva al di sopra di qualsiasi sospetto. E invece, senza dare il minimo preavviso, nel giro di
poche ore la madre di sua figlia aveva fatto le valige ed era sparita in
un luogo segreto, dove lui non avrebbe potuto raggiungerla.
Erano giorni che l’uomo si arrovellava sui motivi che avessero potuto convincere sua moglie a lasciarlo, e non riusciva a togliersi in
nessun modo dalla testa che il buco nero creativo che aveva finito
col risucchiarlo negli ultimi mesi avesse di certo influito nel vertiginoso abbassamento di stima nei suoi confronti. Se il suo ragionamento si fosse rivelato veritiero, quel cadavere da cui sgorgavano
sangue e possibili trame per il suo libro sembrava capitato sulla sua
strada per il volere di una mano amica. Una seconda chance che, se
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sfruttata a dovere, avrebbe potuto tradursi in un nuovo decollo della
sua vita professionale e, cosa più importante, nel ritorno di Adele
nelle sue grigie giornate. Più ci pensava, più Cesare sembrava convincersene.
Erano settimane, ormai, che se ne stava seduto alla scrivania, incapace di scrivere anche solo un capitolo che fosse abbastanza decente da convincere la casa editrice a non impugnare il contratto e
ritirargli la commessa per il nuovo giallo, il quale avrebbe dovuto essere lanciato sugli scaffali delle librerie non più tardi di Natale.
Un vuoto totale mai capitatogli fino ad allora e che affondava radici nella sua testa ancor prima che sua moglie lo piantasse in asso.
Già per la stesura dell’ultimo romanzo aveva dovuto cedere all’idea
di farsi affiancare da una squadra di ghost writers – dicitura che, solo
a nominarla, gli metteva i brividi – che lo aiutasse a elaborare un finale capace di soddisfare un pubblico sì fidelizzato, ma non per questo meno esigente. La cosa lo aveva gettato in un vortice di sconforto
e mortificazione: aveva sempre guardato con un certo disprezzo i colleghi rosi dalla mancanza di ispirazione che avevano accettato di farsi
soccorrere come tossici con il metadone.
Le idee non gli erano mai mancate, la sua focosa immaginazione,
capace di partorire storie e personaggi sull’onda dell’improvvisazione,
non lo aveva mai tradito in precedenza. “Accidenti a me” ricominciò
a pensare freneticamente. “Se invece di scappare a gambe levate come
un ragazzino davanti a un fantasma fossi rimasto lì qualche attimo
in più, adesso non sarei qui a tormentarmi. Mi sarebbe bastato registrare qualche altro dettaglio, il modo in cui era adagiato il corpo, le
ferite che riportava, la possibile dinamica del delitto, per avere materiale sufficiente a buttare giù un primo capitolo da urlo. Perfino
l’ambientazione sarebbe stata perfetta. Una boccata d’ossigeno prima
di annegare. E invece adesso, se decido di comporre quel dannato
numero e non tornare sui miei passi, mi toccherà affidarmi ancora
una volta alla fantasia, la mia attuale nemica numero uno”.
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Capitolo 2
18 giugno 2013
ore 22:24
«No! No! No!» urlò Massimo battendo freneticamente le dita sulla
tastiera del computer.
«Ma non è possibile! Stu figlio ‘e ‘ntrocchia!»
Le braccia lunghe del buio più pesto lo cinsero all’improvviso,
oscurando la schermata luminosa davanti a lui. A far luce nella stanza
era soltanto la costellazione fluorescente attaccata al soffitto negli
anni dell’adolescenza.
Massimo si alzò di scatto dalla scrivania e si lanciò verso la finestra, nella speranza di non avere conferma di quel che il suo stomaco
stava già suggerendogli.
Buio pesto anche di fuori. Pioggia e fulmini in quantità, e nemmeno un dannato lampione acceso nel raggio di chilometri.
«O’ ssapevo sulo io!»
“Ci mancava solo il fottutissimo black out”.
«Massimino? Tutto a posto, a mamma?»
Impastata dal sonno, la voce di sua madre arrivò forte e chiara
dalla soglia della stanza. L’uomo non fece in tempo a maledirsi per
aver dimenticato di chiudere a chiave la porta, che lei era già entrata
nel suo bunker, invadendolo con la sua aerea presenza.
«Sì, sì, è tutto a posto» mugugnò mentre brancolava nel buio.
«Vire nu poco si te truove n’ accendino. Vado a vedere se è saltato
il contatore».
«Non serve, ma’. È così in tutto il quartiere, deve essere un maledetto black out… Ahia! Ma che sfaccimma!»
«Ch’è stato?»
«Niente! So’ inciampato al filo dello stereo e ho sbattuto la gamba
allo spigolo della scrivania».
«Uh maronna! Te si ffatto male? A mammà, fammè vedè!»
«Ma che vuo’vedè, che sì ‘mpazzuta? A parte che è tutto buio, io
ho trent’anni, mica tre! Te lo ricordi questo, sì?» le urlò contro, massaggiandosi il ginocchio dolorante.
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Anche se non poteva distinguerne i lineamenti, Massimo riusciva
lo stesso a figurarsi la vena pulsante spuntata sulla fronte di sua
madre. I contorni della sua figura robusta, avvolta nella vestaglia rosa
e sovrastata da un nugolo i bigodini, gli si materializzarono davanti
agli occhi nonostante l’oscurità.
«E vabbuò, mo’ però vire ‘e te calmà» sbottò lei, «te pareva a te,
c’a cervella nun te parteva ‘e subbeto! Chissà comm’è ca eri stato accussì gentile, stammatina…»
«O’ssaje ch’è, ma’? Sì na cosa ‘mpossibble, tu! Stai sempre a rinfacciare qualcosa a qualcuno. E io mi sono rotto i coglioni di starti a
sentire!»
«E no, uagliò! ‘O problema nun songo io ca rinfaccio, ma tu ca
bell ‘e bbuono addeviente ‘na ufera accussì comme te dice ‘a capa! E
poi sono tua madre, che vai trovando? Ch’è, mo’ non mi posso preoccupare manco un po’ per mio figlio?»
«Foss’a maronna fosse solo un po’…»
«Ch’è ritto?»
«Niente, oi ma’. Mo’ m’o faje ‘o piacere ‘e te luvà nu poco a’nanze?
Ho già i miei problemi senza che ti ci metta pure tu».
«E che probblema tenisse tu, se po’ ssapè? Staje jettato dint’a sta
stanza vintiquatt’ore ‘o juorno, nun magne, nun te lave, nun te vieste,
nun fatiche! Ogni tanto jastimme e staje tutt’o tiemp c’a capa dinto a
chillu coso… e tutto questo pe cchi? Pe chella…»
«Non ti permettere, sai? Tu non sai niente di lei».
«Saccio chello c’abbasta! E saccio ca m’aggia sfasteriata! Io tengo
un’età, che tte crire? Ca pozzo stà areto a te ch’e tarantelle toje, comm’a quanno tenive quinnicianne? Aggia già passato tante ‘e chilli uaje
dint’a vita mia, ca nun dico assaje ma me facesse piacere e passà na
bbona vicchiaja».
Massimo guardò con odio nell’angolo della stanza dove immaginava levarsi il viso di sua madre. Aveva tollerato con pazienza la sua
invadenza continua e ingiustificata, ora però gli sembrava che la
donna avesse veramente varcato ogni limite. Le voleva un bene dell’anima, guai a chi pensasse di torcerle un solo capello, ma c’erano
momenti in cui si sentiva soffocare.
La quotidianità, divisa con quella donna carica di ansie e di attenzioni, che invecchiando sembrava essere diventata sì un po’ più
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fragile, ma che restava pur sempre una guerriera, lo aveva reso giorno
dopo giorno più insofferente.
Se avesse avuto uno straccio di indipendenza economica se ne sarebbe già scappato a gambe levate da quella casa. Avrebbe potuto offrire tutt’altra prospettiva di vita a Benedetta e forse, chissà, lei non
l’avrebbe scaricato come invece aveva fatto.
«‘O Pataterno s’è scurdato ‘e ll’acqua!» esclamò la sagoma della
donna, avvicinandosi a piccoli passi alla finestra. «Ogni vota ca
scenne nu poco a cchiovere, pare tanto ca ‘sta città se n’adda cadè ‘a
nu momento a n’ato».
Massimo sospirò platealmente.
«Mi ha fatto assai piacere scambiare quattro chiacchiere con te
sul tempo, dico davvero. Ora, però, che ne diresti di toglierti dalle
palle e lasciarmi in pace?»
«Sì nu ngrato, Massimo! Se tuo padre mo’ steva ccà cu nnuje, staje
sicuro ca nun t’o permetteva e me tratta’ accussì…»
«Ma lui non c’è, quindi ti dispiacerebbe dirmi di cosa cazzo
stiamo parlando?»
Massimo era più aggressivo di quanto avrebbe voluto, tutta colpa
di sua madre e del suo maledetto vizio di mettere continuamente in
mezzo quell’uomo.
Nel vano tentativo di dominare la rabbia si avvicinò al profilo
della donna, abbozzato dalla poca luce rubata all’esterno, le afferrò il
gomito e l’accompagnò con malagrazia verso la porta.
«Ora vedi di toglierti dai piedi, fammi il favore, ma’».
«Sì, ma io non voglio sta’ di là da sola, mmiez’ a tutto ‘stu scuro…»
provò a impietosirlo lei, con la voce incrinata.
«Chiudi gli occhi e conta le pecore, non ti serve mica la luce per
dormire» la liquidò lui, sbattendola definitivamente fuori dalla
stanza.
I singhiozzi che si levavano sommessi al di là della porta lo fecero
sentire un mostro. Ma fu solo un momento, aveva troppe cose da
pensare.
Tornato in sé, appoggiò la schiena contro la porta di legno e sospirò forte.
“Finalmente solo. Al buio, e senza computer, accidenti al temporale”.
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*
Un’intuizione improvvisa gli attraversò la mente come una scintilla.
Possibile che non ci avesse pensato prima?
Massimo si gettò come una furia sul mucchio di vestiti appallottolati sul pavimento, cercando a tentoni nell’oscurità. Quando le dita
trovarono finalmente la superficie liscia della cover, l’uomo vide il
suo sorriso trionfante riflettersi nel display dello Smartphone, illuminatosi come per magia.
“Con questo non ho mica bisogno dell’elettricità” esultò tra sé.
Per un attimo ripensò a tutte le volte in cui si era trovato a maledire quell’aggeggio con cui sembrava non avere un briciolo di familiarità, comprato in un impeto di disperazione soltanto per potersi
mettere più facilmente in comunicazione con Benedetta: WhatsApp,
Skype, Facebook, una fucina di armi improprie per chi, come lui,
aveva deciso di farla finita con la vita vera e dedicarsi all’addestramento della sua anima virtuale.
Le dita frugarono freneticamente sul desktop alla ricerca dell’icona azzurra di Facebook, il posto nel quale erano andate a morire
le ultime sinapsi valide innescate dal suo cervello.
Da quando due mesi prima Benedetta lo aveva lasciato, decidendo di chiudere una volta e per tutte la loro relazione clandestina,
ogni singola giornata per Massimo sembrava essersi trasformata in
un percorso a ostacoli con un unico grande obiettivo: controllare ossessivamente ogni movimento della donna che era stata sua, scoprire
quanti più aspetti possibili della sua nuova vita e poi approntare un
piano infallibile per riportarla a sé.
Non appena la schermata gli restituì la foto del profilo di Benedetta il cuore sembrò tornare in carreggiata: i capelli biondi agitati dal
vento e la pelle candida costellata di lentiggini gli riempirono gli
occhi fino a rendergli la regolarità del respiro. Come aveva potuto
troncare così freddamente la loro relazione? Un amore tanto grande
non poteva certo finire in quel modo.
«Cosa pensi di fare di nuovo tra le braccia di quell’individuo?»
bofonchiò Massimo, rivolgendosi alla fotografia che gli sorrideva a
pochi centimetri dal viso.
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Che Benedetta fosse una donna sposata non aveva mai rappresentato un grosso problema per lui. Si può dire che, anzi, lo considerasse un particolare capace di regalare addirittura del pepe alla loro
relazione. Per quanto si sforzasse proprio non riusciva a prendere sul
serio l’improvvisa decisione di lei di rimettere in piedi il suo sbilenco
matrimonio. Non c’era più nulla da salvare in quel rapporto: Benedetta era una creatura libera, e non poteva finire imbrigliata in un
tale marasma di obblighi e convenzioni.
Era scritto nel destino che il loro amore dovesse vincere tutte
quelle stronzate. Lo aveva fatto fino ad allora e, Massimo ne era più
che certo, avrebbe continuato a farlo.
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Capitolo 3
18 giugno 2013
ore 21:40
Nonostante il temporale scrosciante, la Golf grigio metallizzato stava
ferma davanti al portone, come ogni venerdì. Anche se era giugno
inoltrato sembrava non esserci traccia di estate in quella notte infestata da fulmini e fantasmi.
Le gambe della ragazza, appena coperte da una minigonna di raso
nero, si stendevano in tutta la loro lunghezza mettendo in bella mostra un paio di décolleté rosso sangue dal tacco vertiginoso. Il suo
corpo era proteso verso il sedile del guidatore, dove una sagoma dai
lineamenti inafferrabili stava producendosi in una vasta gamma di
contorsioni pur di costruire un approccio che si rivelasse proficuo.
Dopo qualche minuto di doverosi convenevoli, la mano dell’accompagnatore si arrampicò, sinuosa come un serpente, nel tentativo di infilarsi sotto l’astratta gonnellina. Anche a una certa distanza era
possibile distinguere le dita del ragazzo che cercavano accanite.
Al di là del vetro della finestra, Costanza sfilò una sigaretta dal
pacchetto, l’accese e inspirò avidamente una boccata di fumo, preparandosi ad assistere al prosieguo dello spettacolo. Prima ancora dei
due protagonisti, sapeva con esattezza cosa sarebbe successo di lì a
poco all’interno di quella macchina. Anche se la pioggia rendeva difficoltoso decifrare i movimenti dei due sconosciuti, non dovette compiere nessuno sforzo particolare per immaginare il surriscaldamento
dell’atmosfera all’interno dell’abitacolo, la crescita esponenziale dell’eccitazione di lui, il mugugno di finto risentimento di lei quando,
con un gesto che non ammetteva repliche, arrestava la cavalcata delle
dita del malcapitato a un passo dal pizzo delle sue mutandine.
“Tutto come previsto” assodò Costanza con un sorriso.
Prendendo un’altra boccata di fumo, la donna si divertì ad accompagnare con lo sguardo la piccola mantide che si ricomponeva,
tirando prima verso il basso la gonna, poi ravviandosi la voluminosa
chioma riccia. Costanza quasi si rammaricò del fatto che la ridotta
visuale le precludesse l’espressione mortificata del ragazzo, rifiutato
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ancora una volta sul più bello, come voleva da cinque settimane a
quella parte l’ormai obsoleto copione del venerdì sera.
Per un attimo si scoprì a sperare di vederlo reagire e prendere a
schiaffi la sua virtuosa fidanzatina con le calze a rete. Ma, in fondo,
sapeva che nulla di tutto questo sarebbe avvenuto: lo sbarbatello si sarebbe limitato a sospirare rumorosamente e poi l’avrebbe lasciata andare, accontentandosi di un blando bacio della buonanotte a fior di
labbra.
Costanza decise di risparmiare a quel disgraziato l’ultima umiliazione, così ripose il binocolo sul tavolino di cristallo e si costrinse
ad alzarsi dal divano.
Le gambe le sembrarono pesanti come due zavorre, la testa un tumulto di pensieri. Nel salone, intorno a lei, regnava il caos più assoluto:
fogli sparsi sul pavimento, libri impilati un po’ dappertutto, una tazza abbandonata sul tavolino da chissà quanto tempo. Raccogliendola, la
donna desiderò, per un momento, che l’alone concentrico rimasto impresso sul ripiano trasparente la risucchiasse.
La città, oltre l’enorme vetrata graffiata di pioggia, ricordava la sagoma di un titano addormentato. In lontananza si alternavano luci che,
simili alle decorazioni intermittenti di un albero di Natale, accendevano il contorno di uno straordinario presepe sul mare.
Costanza ripensò al momento in cui suo padre aveva firmato per
comprarle quell’appartamento, dissipando i risparmi di tutta una vita;
le speranze che traboccavano dagli occhi della mamma e della sorella,
Benedetta, la prima volta che vi avevano messo piede. L’entusiasmo per
il panorama mozzafiato della grande città che avrebbe dovuto ispirarla
nella sua carriera universitaria le risalì in gola come un conato acido.
Il vento, che ululava tutto il suo disappunto, si assunse l’incombenza
di riportarla alla realtà. Costanza dedicò un’occhiata distratta alla stazione meteorologica digitale che la osservava dal ripiano più basso della
libreria. Il simbolo inequivocabile dell’avviso di pioggia in arrivo lampeggiava impietoso davanti a lei. Almeno per adesso, nessuna tregua
all’orizzonte.
Gli occhi della donna si spostarono meccanicamente sull’orologio
che batteva il tempo accanto alla nuvola luminosa: appena le nove e
quaranta, l’alba di una lunga nottata che non sarebbe stata per lei diversa
dalle altre.
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Capitolo 4
18 giugno 2013
ore 20:50
La voce di Tracy Chapman aveva da sempre il potere di rilassarlo.
Calda e ipnotica come una carezza data a fior di pelle, sapeva come
metterlo a suo agio anche nelle situazioni peggiori.
Mentre fuori il temporale infuriava, l’ingegner Botta mise su la
Collection della cantante americana e aspettò che le note si diffondessero come un soffio nella stanza: fu subito Fast Car, la sua preferita.
La prima volta che aveva avuto modo di ascoltarla, non ricordava
con precisione dove né quando, aveva pensato che a cantare fosse un
uomo. Quel timbro così… borderline – come altro definirlo? – lo
aveva stregato fin dal principio.
Da allora quando aveva avuto bisogno di sgombrare la testa dalle
preoccupazioni aveva scelto un album a caso della sua discografia,
come accompagnamento dei suoi pensieri.
Quella sera più che mai l’ingegner Botta aveva necessità di non
pensare. La decisione era stata presa già da qualche giorno, ma occorreva aspettare il momento giusto, essere certi di aver valutato tutte
le possibili alternative. C’è sempre una parte di noi che cerca di sfuggire alla razionalità e spera di essere stata eccessivamente pessimista
nel valutare la situazione.
Era importante per lui che ogni pezzo fosse al giusto posto. Aveva
organizzato il tutto fin nel più piccolo particolare, avendo cura che
nulla sfuggisse alla sua attenzione. Soltanto un dettaglio non aveva
potuto gestire: il diluvio che aveva cominciato a venir giù a metà del
pomeriggio e che non accennava in nessun modo ad arrestarsi.
Una cosa del genere non la si vedeva da anni. La morsa del caldo
che di solito in quel periodo aveva già stretto la città appariva una
smisurata chimera.
“Poco male” pensò l’ingegner Botta, lasciando che lo sguardo si
perdesse fuori dalla finestra. “Vorrà dire che almeno non suderò”.
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L’uomo si guardò intorno, cingendo con un abbraccio mentale lo
spazio circostante. La sua casa, costruita su misura per lui e per le
sue esigenze, e la miriade di oggetti che negli anni aveva comprato
nei suoi viaggi per il mondo e che adesso riempiva gli scaffali di
quella stanza e della sua vita non gli erano mai parse sconosciute e
misteriose come in quell’istante.
Prima di dedicarsi al momento della serata che più gli stava a
cuore – la preparazione della cena – l’ingegnere avviò il computer,
deciso ad accedere subito alla cartella della posta elettronica.
La mail era ancora lì dove l’aveva lasciata. Per un attimo Botta
ne restò stupito, come se avesse segretamente sperato che, per qualche fenomeno paranormale, avesse potuto autodistruggersi nel corso
della giornata. Dopo aver riletto quelle poche parole, scritte per lui
in una lingua che non era la sua, gli occhi gli carambolarono istintivamente sulle mani, abbarbicate con tenacia alle ginocchia, pur di
nascondere l’ingestibile tremore che aveva preso a scuoterle.
L’uomo si forzò a spegnere il computer e a rimettersi sulle tracce
di una calma da cui sapeva di non poter prescindere, se voleva che le
cose andassero esattamente così come le aveva programmate.
Una volta riportato il respiro alla normalità, l’ingegnere rivolse
un’ultima occhiata alla tavola apparecchiata per essere certo che non
mancasse nulla: la tovaglia era di lino bianca, quella delle grandi occasioni. Le posate rigorosamente d’argento, il calice del vino di un
cristallo splendente.
Il profumo di mare che arrivava dalla cucina si era già intrufolato
nelle altre stanze della casa, inebriandole. Era quasi tutto pronto: le
polpette di polpo – quelle che aveva assaggiato per la prima volta
durante un’estate di tanti anni prima nel Salento – dovevano essere
soltanto scaldate. I cicinielli aspettavano di essere sacrificati negli inferi dell’olio bollente, così come gli anellini di calamari, tagliati tutti
della stessa dimensione. Il caviale lo aveva pagato uno sproposito, ma
ne era valsa la pena: nel consegnare la banconota al venditore gli era
parso di avvertire la consistenza granulosa e paradisiaca delle piccole
uova sulla lingua.
E poi c’erano i frutti di mare, appena sporcati da una manciata
di pomodorini del piennolo del Vesuvio, che non vedevano l’ora di
accogliere la generosa porzione di linguine che di lì a poco avrebbe
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incontrato l’acqua portata a bollore. Il tutto condito da un bel po’ di
peperoncino, proprio come piaceva a lui.
*
Botta aveva sempre amato cucinare. Una passione presa da sua madre
che, dei fornelli, poteva dirsi la regina incontrastata. Non esisteva ricetta che quella donna non sapesse affrontare, il mare come la terra
non le nascondevano alcun segreto.
Da piccolo l’ingegnere trascorreva la domenica mattina seduto su
uno sgabello di legno, incantato a osservare la mamma che compiva
le operazioni più disparate: sbucciare, friggere, montare, affettare,
sbollentare.
Ogni tecnica richiedeva una competenza specifica anche se, alla
base, la ricetta appariva la stessa, universale: una buona dose di amore
per la materia prima, tanta pazienza e un’innata manualità. Nei suoi
ricordi c’era sempre la radio accesa, che trasmetteva con la sua voce
roca le canzoni del momento. Quando, quando, quando di Tony Renis
sarebbe stata associata per sempre, nella sua mente, alla preparazione
del tacchino ripieno di uova, prosciutto e formaggio.
L’ingegnere aveva immagazzinato e catalogato per anni i segreti
e gli espedienti di cui grondavano le pareti della sua cucina, di cui peraltro la madre era gelosissima. Una volta diventato adulto aveva potuto finalmente cominciare a metterli in pratica, scoprendosi ben
presto all’altezza della sua insegnante. Da lei aveva ereditato non soltanto la tecnica, ma soprattutto la voglia e il piacere di sperimentare,
accostare sapori in apparenza inconciliabili. Il suo frigo, al contrario
di come si potrebbe immaginare il frigo di un uomo che vive da solo,
non era mai sprovvisto di frutta fresca e verdura di stagione; la dispensa, organizzata secondo un ordine maniacale, soffriva zeppa dei
formati più disparati di pasta e scatolame.
Qualche anno prima si era addirittura iscritto a un corso di cucina: ne
aveva letto ottime recensioni sul più importante quotidiano della città e
gli era venuta improvvisamente voglia di mettersi alla prova, confrontarsi
con un professionista da cui apprendere quello che sua madre non era
stata capace di insegnargli o che, più verosimilmente, lui aveva mancato
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di imparare. L’esperimento, durato poco meno di un mese, si era rivelato
fallimentare su tutta la linea.
Alla fine della seconda lezione l’ingegnere aveva già capito che le uniche cose che il pluristellato chef avrebbe potuto insegnargli avevano poco
a che vedere con inesplorati orizzonti culinari; i suoi veri punti di forza
confluivano nel campionario di presunte tecniche di seduzione da lui
stesso sperimentate sulle sue adoranti allieve. Sotto il profilo strettamente
culinario era abbastanza evidente che non ci fosse nulla che quell’individuo in balia degli ormoni sapesse fare meglio di lui, almeno non al punto
da giustificare la sua presenza nella sua aula.
A rendergli ancora più insopportabile l’idea di perseverare nella frequentazione di quell’inutile corso ci si metteva anche il clima di eccessiva
amicalità che si respirava nella classe. Per quanto si sforzasse di apparire
diverso, Botta era un animale solitario, un misantropo che bastava a se
stesso e che trascorreva le sue giornate rendendosi invisibile, così da studiare di sottecchi le persone che lo circondavano nel tentativo di odorarne i segreti, capire se e come avrebbero potuto tornargli utili.
Al terzo tentativo fallito di coinvolgerlo in una cena di gruppo, organizzata subito dopo l’orario di lezione, i suoi compagni di corso sembravano essersi arresi all’evidenza: non c’era modo di smuovere dal suo guscio
quello strano omino dall’andatura sbilenca.
L’unica a non darsi per vinta era stata la donna che era solita prendere
posto strategicamente alla sua destra, in modo da avere la scusa sempre a
portata di mano per poterlo interpellare. Da poco divorziata, e di aspetto
tutt’altro che sgradevole, la signora si era da subito lanciata alla conquista del burbero ingegnere, tentando con ogni mezzo a sua disposizione di
creare un ponte con lui che si protraesse oltre l’orario di lezione. Imbarazzato e irritato da una così sfacciata insistenza, Botta aveva dovuto ricorrere a tutto il suo self control per non mandare a quel paese la sua nuova
ammiratrice, dando prova della sua scarsa dimestichezza con il genere
umano nel suo insieme, e con l’universo femminile in particolare.
Per contro si era arreso di fronte alla consapevolezza che non sarebbe
mai riuscito a togliersela dai piedi se non avesse archiviato una volta e per
sempre l’esperienza nella classe dello chef marpione. Libero da particolari rimpianti, aveva così detto addio alla retta già versata, ben lieto di
poter tornare a rifugiarsi tra le silenziose e accoglienti pareti della sua cucina che, se non altro, era sicuro non lo avrebbero mai importunato.
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Capitolo 5
18 giugno 2013
Ore 22:15
Un trillo proveniente dal computer la costrinse a spalancare gli occhi.
Il dormiveglia le si era arrampicato addosso senza che Costanza se
ne accorgesse. Le capitava sempre più spesso di alternare lunghi momenti di insonnia a baleni di sonno leggerissimo. A ogni risveglio
aveva la sensazione di aver dormito per ore, mentre in realtà non
erano passati che pochi minuti.
Una faccina sorridente la stava salutando virtualmente dalla finestra della chat, rimasta accesa a vegliare sul suo sonno. Costanza
sospirò, stropicciandosi l’occhio sinistro come se non fosse il suo.
Non aveva molta voglia di parlare quella sera. C’era qualcosa di strano
nell’aria, il tetro presagio di una cattiva notizia. Tuttavia le dispiaceva abbandonare Milo in balia della sua insonnia.
Con Milo, di solito, le piaceva chiacchierare. Si erano trovati per
caso, più di un anno prima, in una notte come quella, stretti nella
morsa di un sonno latitante. Avevano fatto amicizia, nello strano
modo in cui ci si può legare trincerati ognuno dietro al proprio
schermo luminoso. Due solitudini in rotta di collisione.
Da allora non si erano più perduti. Si erano fatti compagnia, chiedendo soltanto l’uno all’altro di aiutarsi reciprocamente a sospendere
il tempo, compagno ingrato delle loro infinite giornate.
“Ehi, Wonder Woman, non mi dire che stasera sei capitolata pure
tu tra le braccia dell’orrido narcolettico, altrimenti sarò costretto a rivedere i miei propositi suicidi”.
“Puoi anche sciogliere il cappio, stavo per cedere al nemico ma è
stato solo un attimo di distrazione”.
Costanza non sapeva che aspetto avesse Milo. Non conosceva la
sua voce e nemmeno le interessava. Per quanto ne sapesse, avrebbe
potuto essere un ottantenne con la prostata ingrossata così come un
adolescente brufoloso che rimaneva alzato fino a tardi di nascosto
dai genitori. Non le importava.
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In sua compagnia i pensieri più bui sembravano prendere il largo,
anche se per poco.
“Che sollievo, ero sul punto di lasciare testamento. Dove ti eri
cacciata? Ti ho cercata, ieri”.
“Lo so, mi spiace. Non era un buon momento”.
“Sei finita nel crepaccio?”
“Già. Si è aperto di nuovo, a tradimento. Ma stasera ne sono fuori.
Se hai pensato di esserti liberato di me ti sei sbagliato alla grande”.
Era una specie di codice, il loro, fatto di parole criptate che soltanto l’altro avrebbe potuto afferrare. Costanza lo chiamava “crepaccio”, l’unico modo di dare una forma e un nome ai suoi momenti di
black out. Ma non aveva voglia di parlarne, non quella sera. Se solo
gliene avesse dato la possibilità, Milo avrebbe cominciato a subissarla di domande e il solo pensiero la caricava di ansia.
“Che dice il bollettino di stasera? Livello di lobotomizzazione?”
“Medio-alto. Ho affrontato un’altra tappa della maratona Kubrick, ma sono venuto meno su Eyes Wide Shut. Barry Lyndon mi ha
provato più del previsto”.
“Poco male, ho sempre pensato che Mister Top Gun non renda
giustizia all’operato del maestro”.
“Adesso non bestemmiare, bambina. Il maestro non fallisce. Se
ha scelto il nanerottolo avrà avuto i suoi buoni motivi”.
Costanza non riuscì a trattenere un sorriso.
Milo era un cinefilo incallito. Grazie a lui aveva scoperto filoni
inesplorati come il Cinéma vérité, ed era venuta a conoscenza per la
prima volta dell’esistenza di capolavori indiscussi della storia del cinema, tra cui Citizen Kane di Orson Welles, che ormai conosceva a
memoria. Non aveva mai avuto il coraggio di confessargli che su La
corazzata Potëmkin la pensava come il ragioniere Fantozzi ma, in generale, considerava il suo gusto e la sua competenza cinematografica
a dir poco illuminanti.
“La tua enciclopedia Treccani? Aumenta di volume?”
La domanda le arrivò a tradimento, franando sul nervo scoperto
delle sue frustrazioni.
“Figurati. Spiaggiata come una balena a riva. Mi sa che posso pure
mettermi l’anima in pace, prima di veder conclusa la mia tesi di dottorato dovremo aspettare ancora un bel po’. Che poi, non so a cosa
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serva perdere tempo e salute cercando di scrivere una cosa che non
avrò mai il coraggio di andare a discutere di persona”.
“Risparmiami la solfa del blocco dello scrittore. Se uno sa scrivere,
sa farlo sempre e comunque. Il resto lo affronteremo a tempo debito”.
“Sai che ti dico? Hai ragione. Sulla solfa, intendo. Infatti mi sa che
me ne torno in postazione, magari riesco pure a buttare giù qualcosa
di decente. Pensi di poter affrontare il resto della serata in solitudine?”
“Per amore della letteratura che verrà, questo e altro. E poi, non
crederti così indispensabile, bambina. Mi scolerò una bottiglia del
miglior whisky per poi lanciarmi nell’adescamento virtuale di qualche donzella più giovane e meno impegnata. Carne fresca, insomma”.
Costanza avrebbe sorriso ancora, se non avesse avvertito il sopraggiungere di quel maledetto groppo alle pendici della gola.
“Buona fortuna, allora! Non rivelarti subito per il maniaco che
sei”.
“Buona scrittura a te, domani voglio un resoconto dettagliato dei
nuovi capitoli del mattone”.
Un attimo dopo averlo visto diventare invisibile sulla finestra della
chat, Costanza si rese conto di non avergli nemmeno chiesto come
si sentisse dopo la trasfusione.
“Che stronza, eppure me l’aveva detto”.
Milo era affetto da una malattia di cui lei non conosceva nemmeno l’esistenza, prima. Si chiamava talassemia, un disturbo ereditario che provoca un abbassamento dell’emoglobina, quella che ha il
compito di assicurare una corretta circolazione di ossigeno nel sangue.
Costanza si era fatta un giro su Internet per cercare di capirne di
più, ma poi aveva deciso di non soffermarsi sulla descrizione degli
effetti dovuti all’incedere della patologia: Milo non era il tipo da
piangersi addosso, aveva una dignità e un ottimismo tali da farla vergognare come una ladra tutte le volte che i fantasmi si sguinzagliavano nella sua mente, mettendola a soqquadro. Quando non lo
sentiva per più di due giorni di fila capiva che c’era stata una crisi
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improvvisa e che non avrebbe potuto fare altro che mettersi in un
angolo e aspettare che la tempesta passasse.
Sforzandosi di cancellare il pensiero del suo amico – di cui nemmeno conosceva il viso – steso su un letto con un sacchetto pieno di
sangue attaccato al braccio, la ragazza accese l’ennesima sigaretta.
Nuove secchiate d’acqua colarono giù dal cielo come bombe. Il
fragore del temporale si impastava col boato dei ricordi, i ricordi si
schiantavano contro le pareti della sua testa.
Istintivamente Costanza si ritrovò ad abbassare lo sguardo sui
suoi piedi: una piccola crepa stava riaprendosi sotto di lei, era in pericolo. Per esorcizzarla la ragazza soffiò fuori una nuvola eterea di
fumo, poi spense il computer e si lasciò nuovamente sprofondare tra
i cuscini del divano.
Se non fosse stato per il rumore di qualche allarme che si rincorreva al di là delle finestre, quasi non si sarebbe accorta del velo di
buio calato d’improvviso sulla città, come il lenzuolo sul corpo di un
moribondo.
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Capitolo 6
18 giugno 2013
Ore 22:22
Lo squillo improvviso del telefono lo fece sobbalzare, come se la cornetta fosse diventata di colpo rovente tra le sue mani.
«Pronto? Adele?»
«Ciao, papà».
«Ah, Ilaria, sei tu» fece Melchionna, senza riuscire a dissimulare
la delusione.
«È una gioia anche per me sentirti» ribatté lei, facendo scoppiare
la gomma da masticare sotto il palato.
«Ma no, che dici… Mica non mi fa piacere. È che speravo fosse
tua madre».
«…»
«Ilaria? Sei sempre lì?»
«E dove vuoi che vada?»
«Che ne so, non parli!»
«Non parlo perché tu dici sempre le stesse cose».
«Non sarei ridotto in questo stato se tu la smettessi con questa
follia di non dirmi dove cazzo si è cacciata tua madre».
«Faccio solo quello che lei mi ha chiesto» spiegò lei, con un nuovo
schiocco di gomma da masticare.
«Cristo! La vuoi smettere di fare rumore con quella schifezza che
hai in bocca?»
«Oh, papà, ma che c’hai stasera? Hai le tue cose?»
«Sai com’è, ho giusto qualche pensiero ultimamente…»
«Col libro come va? Le mie compagne di università continuano
a fracassarmi le palle, vogliono sapere qualche anticipazione sulla
nuova indagine del commissario Corsi».
«E tu digli che non puoi… segreto professionale!»
«Vabbè, ho capito, non hai scritto un cazzo neanche oggi».
«Senti, Ila’, io non ho nessuna voglia di discutere con te, anzi ho
perso già fin troppo tempo, devo fare una telefonata importante,
quindi ti saluto».
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«Vabbè, stammi bene allora».
«Eh, pure tu… E, quando la senti, salutami tanto quella stronza
di tua madre!»
Melchionna riprese a camminare nervosamente, il telefono ormai
muto in una mano, l’altra impegnata a rovistare nella barba incolta di
giorni.
Nonostante i ripetuti tentativi, non c’era stato verso di estorcere
alla figlia mezza informazione su dove potesse essersi cacciata la
madre; all’inizio Melchionna avrebbe scommesso tutto quello che
aveva sul fatto che Adele fosse corsa a rifugiarsi proprio a casa della
loro bambina, che viveva da quasi un anno a Perugia insieme ad altre
tre studentesse universitarie. Ma il blitz che aveva compiuto in terra
umbra, sull’onda della rabbia e della disperazione, si era rivelato fallimentare.
Adele era come svanita nel nulla. Si era limitata a scrivergli qualche sms per chiedergli come gli andassero le cose e per rassicurarlo
sul fatto che stesse bene e che staccare la spina stesse aiutandola a vedere con altri occhi la loro vita insieme. Se allo sguardo di un qualsiasi altro lettore quest’ultima frase sarebbe apparsa quanto meno
sibillina, Melchionna aveva scelto di leggerla come uno spiraglio di
speranza per il recupero del loro matrimonio. Il fatto che fossero più
di dieci giorni che di lei non aveva alcuna notizia non sembrava aver
intaccato più di tanto la sua coriacea fiducia.
*
Per quanto si sforzasse di rimanere lucido, lo scrittore continuava a
vagare per la stanza come un leone braccato.
La risata di Gerry Scotti, che arrivò ovattata dalla parete che divideva con l’appartamento accanto, lo scosse improvvisamente dai
suoi pensieri. Era stato talmente inebetito dal panico da dimenticare
persino il volume di quella maledetta televisione, capace come poche
altre cose al mondo di trapanargli le orecchie e il cervello. Quella di
alzare al massimo la voce del conduttore di turno, e provare a coprire
le grida e i rumori che rimbalzavano tra le mura attigue, sembrava essere diventata, ormai da mesi, una prassi quotidiana per i suoi vicini.
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La disamina di quel macabro rituale, che si ripeteva ogni santo
giorno a pochi metri da lui, fece suonare all’improvviso un campanello d’allarme nella sua testa.
Senza poter far nulla per impedirlo, Cesare avvertì il cuore tirargli un calcio al centro del petto: ecco cosa era quella strana sensazione che sentiva strisciargli dentro. Era stato talmente preso dal
rincorrersi degli eventi da non essersi fermato a porsi la domanda
più ovvia, a chi potesse mai appartenere il cadavere in cui si era fortuitamente imbattuto nel cortile. La pioggia battente e le condizioni
in cui era ridotto il viso, sfigurato dai colpi ricevuti e insozzato dal
sangue rappreso, non rendevano di certo semplice attribuirgli
un’identità.
L’attenzione di Melchionna era stata catalizzata soprattutto dalla
lingua, nera e gonfia, che spuntava fuori dalla bocca come macabra
e inoppugnabile testimonianza di uno strangolamento. Eppure, nonostante la pioggia e la concitazione di quegli attimi, a Cesare era
parso di cogliere qualcosa di familiare in quella figura rannicchiata
come una foglia caduta e poi schiacciata con ferocia.
Soltanto adesso, a distanza di qualche minuto, il ronzio sotterraneo che sentiva strisciargli incessante nel cervello riusciva a trasformarsi in una certezza che non lasciava scampo.
La sua vicina di casa, la ragazza piccola e procace che, anche soltanto camminando, era in grado di far girare tutti gli uomini del palazzo; la donna con quei capelli biondi vaporosi che sembravano fatti
di nuvola e gli occhi da gatta selvatica, la stessa che ogni sera sembrava trasformarsi nel ricettacolo degli insulti e delle urla di suo marito: ecco chi gli era sembrata la sconosciuta che aveva rinvenuto
riversa in una pozza di acqua e sangue pochi minuti prima.
Nel momento stesso in cui il pensiero prendeva forma, Cesare
sentì il sangue gelarsi nelle vene. Troppe liti, nelle ultime settimane
trascorse senza Adele, gli avevano tenuto compagnia attraverso la
parete. Troppo furiose per essere considerate ordinarie discussioni
tra innamorati. In un paio di occasioni gli era anche passato per la
mente di andare a bussare alla porta dei vicini e pregarli di darsi una
calmata, ma poi aveva deciso che, tutto sommato, il clima movimentato che si agitava a pochi metri da lui era sempre meglio del silenzio stagnante che galleggiava nel suo appartamento.
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Restava il fatto che il suo vicino gli aveva sempre comunicato uno
strano senso di disagio. Non che lo conoscesse bene, i loro rapporti
erano limitati a una cordiale convivenza sullo stesso pianerottolo. È
per questo che quando, una sera di qualche mese prima, si erano casualmente incontrati in un bar del centro, Cesare era rimasto molto
stupito del fatto che lui avesse insistito per offrirgli una birra, che si
era poi moltiplicata, trascinandoli in una lunga e inattesa chiacchierata: la precaria situazione politica ed economica in cui versava il
paese, la poca attitudine degli italiani alla lettura, il problema degli
orari del riscaldamento centralizzato non ancora risolto.
Non c’era nulla che non andasse in lui, eppure lo scrittore avvertiva la fastidiosa sensazione di non riuscire a inquadrarlo. I suoi occhi,
sempre sfuggenti, davano l’idea di racchiudere un segreto inconfessabile.
Cesare lo aveva sempre considerato un uomo fortunato ad avere
accanto una donna affascinante come la sua. Quella sera aveva avuto
la sensazione che il suo vicino pensasse la stessa e identica cosa di lui.
«Siete proprio una bella coppia, lei e sua moglie. Vi vedo dal balcone,
quando uscite la domenica mattina, sempre mano nella mano. Ci vogliono impegno e tanto coraggio per dedicare la propria vita a qualcun altro».
Melchionna si era schernito ribattendo quanto, da parte sua, invidiasse a lui e alla sua signora la loro giovane età e la meravigliosa
sensazione che si prova nel formulare progetti per il futuro. A quel
punto l’uomo si era rabbuiato, bofonchiando tra i denti che le cose
non sono sempre perfette come sembrano e che, anzi, coglieva l’occasione per scusarsi se qualche volta i loro litigi irrompevano, senza
volerlo, nel suo appartamento. Non stavano attraversando un momento facile, e chissà se ne sarebbero usciti.
Quelle parole, cui non aveva dato gran peso al momento, gli risalivano adesso alla memoria con prepotenza. L’antico lumicino fornitogli da anni passati a scrivere storie di morti ammazzati sembrò
riaccendersi lentamente nella sua testa, suggerendogli i dettagli di
un possibile quadro per il delitto.
Istintivamente lo scrittore si avvicinò alla parete che condivideva con i suoi vicini e vi poggiò sopra l’orecchio. A parte il fragore
degli applausi che arrivano dallo schermo acceso a tutto volume,
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non distinse alcun suono particolare che potesse consentirgli di immaginare una qualsiasi dinamica domestica. Melchionna concluse
con se stesso che nessuna decisione poteva essere presa senza aver
bevuto prima un dito di quel fantastico whisky che gli aveva tenuto
compagnia nelle ultime sere di solitudine.
“Devo raccogliere le idee e mantenere il sangue freddo. Non si
può accusare un povero cristo di omicidio sulla base di una suggestione” ragionava versando il liquido ambrato nel bicchiere. “E poi
non sono nemmeno sicuro che la donna morta sia veramente lei, la
mia vicina… come cavolo è che si chiama? Possibile che non me lo
ricordi, nemmeno in una situazione come questa?”
Il primo sorso di alcol, che scese bollente lungo l’esofago, gli regalò un inatteso senso di pace. Cesare non avrebbe mai creduto di
poter avere così tanto freddo in una sera di giugno.
La Trilogia del sol levante che vedeva protagonista quel commissario Corsi che aveva imperversato per anni tra le sponde della sua
immaginazione, dando vita alle indagini che avevano tenuto svegli
milioni di lettori sparsi per l’Europa, sembrava fissarlo torva dallo
scaffale più alto della libreria. Che le sue ricerche fossero già naufragate nel buco nero della mente? La vena creativa non può certo
esaurirsi così, all’improvviso. Non quando si è ancora abbastanza giovani e si ha una prospettiva di vita ragionevolmente lunga da far nascere dentro la paura di come arrivare alla fine del mese. C’erano altri
delitti cui il commissario avrebbe dovuto dare una soluzione, non era
ancora arrivato il tempo per lui di mettersi in pensione. Cesare Melchionna lo ripeté silenziosamente dentro di sé, come un mantra.
“Costi quel che costi, devo prendere il coraggio a due mani e tornare in cortile. Devo farlo per me e per Adele” pensò mentre buttava
giù l’ultimo goccio di whisky.
L’uomo non fece in tempo a riempirsi della sua nuova convinzione e mettere tutti e due i piedi fuori sul pianerottolo che l’intero
palazzo venne inghiottito da un turbine di oscurità.
Il ruggito di un tuono in lontananza fece da eco allo spegnersi simultaneo delle luci sull’intero quartiere. Se anche avesse voluto provare a guardare al di là dei suoi piedi, lo scrittore non sarebbe riuscito
a vedere nulla di più di un ingombrante gomitolo di buio.
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Capitolo 7
18 giugno 2013
Ore 22:30
Ogni volta che rivedeva il suo viso, che fosse dal vivo piuttosto che
in fotografia, avvertiva sempre lo stesso nodo stringersi alla base dell’anima.
Lui e Benedetta si erano conosciuti un pomeriggio di poco più di
un anno prima, a un vernissage in una piccola galleria in uno dei vicoli del centro storico e subito, complice uno sguardo di troppo, era
scattato qualcosa di difficilmente spiegabile tra di loro. Lei era di una
bellezza fuori dal comune: il suo viso portava esposte le piccole imperfezioni con una tale grazia e consapevolezza da farle risultare inconsistenti.
Avevano scambiato qualche impressione davanti a un dipinto di
un giovane pittore emergente, poi Massimo le aveva offerto da bere
un calice di vino in un locale poco lontano.
Seduti a un tavolino all’aperto che affacciava su una delle piazze
più affascinanti, quella che si diceva fosse frequentata da artisti e letterati e che faceva da crocevia a tre delle più importanti strade del
centro storico, avevano chiacchierato come se si conoscessero da sempre, lontano anni luce dall’imbarazzo che permea di solito le conversazioni tra estranei. La fede brillava al suo anulare come il satellite
di un pianeta e lei non faceva nulla per nasconderla. Quando lui le
aveva chiesto come mai una così bella donna non fosse accompagnata, alludendo con un cenno della testa all’anello che portava al
dito, lei aveva risposto con candore che, per fortuna, i suoi interessi
e le sue passioni non collimavano con quelli di suo marito. Era importante sapersi ritagliare le proprie bolle – così amava definirle –
all’interno delle quali spaziare in totale libertà, lontano dal condizionamento altrui.
Massimo non aveva potuto fare a meno di pensare che non ci sarebbe stato niente di più sublime che condividere lo spazio di una
bolla con quella ragazza dallo sguardo enigmatico, e in quel preciso
istante aveva deciso che, a prescindere da quanto gli sarebbe costato,
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avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per farla sua. Si erano poi
salutati con la stessa levità con cui si erano incontrati, senza sapere
se si sarebbero mai rivisti. Massimo aveva provato a chiederle timidamente un numero di telefono, ma lei si era rivelata sfuggente e misteriosa. Il risultato era che non sapeva quasi niente di lei, se non il
suo nome.
Si era maledetto mille volte per non avere avuto il coraggio di insistere. Avrebbe potuto essere più persuasivo, forse quello che lei desiderava era essere corteggiata con più tenacia.
Non sapendo cosa altro fare per ritrovarla, aveva deciso di dilapidare quel poco di risparmi messi da parte negli anni con qualche lavoretto estivo e acquistare il dipinto davanti al quale si erano fermati
per la prima volta a parlare. Poiché non possedeva un indirizzo dove
poterlo spedire, aveva chiesto al proprietario del locale in cui avevano bevuto un bicchiere di vino il favore di esporlo all’ingresso per
qualche giorno, sicuro che Benedetta sarebbe prima o poi passata di
là e avrebbe capito che si trattava di un messaggio in codice per lei.
In quel caso avrebbe trovato ad attenderla un biglietto con tutti i suoi
recapiti.
L’attesa l’aveva divorato: più i giorni passavano e il silenzio diventata pesante, più il pensiero di quella ragazza diventava un’ossessione. A nulla servivano gli ammonimenti della parte razionale del
suo cervello, che lo invitava a riflettere sul fatto che si trattasse di una
donna sposata.
Doveva rivederla a qualsiasi costo.
Nonostante Massimo avesse piantonato il locale più volte al
giorno per più di due settimane, Benedetta sembrava svanita nel
nulla. Si era quasi rassegnato all’idea di non rivederla mai più, quando
l’aveva rincontrata per caso, una domenica mattina, al mercato del
pesce.
Quando il profilo di lei aveva fatto irruzione nel suo campo visivo,
isolandolo in un colpo dal chiasso di fondo fatto delle urla dei venditori e degli schiamazzi dei passanti, Massimo aveva sentito il cuore
saltare un battito.
Era stato sul punto di urlare il suo nome ma poi si era accorto
che, stavolta, Benedetta non era da sola.
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Alto e dai lineamenti spigolosi, un uomo le teneva una mano sul
fianco con supponenza. Lei lo lasciava fare, come se la cosa a stento la
riguardasse. Sembrava stessero lì non per comprare del cibo, semplicemente per osservare quello che gli accadeva intorno. Attento a non dare
nell’occhio, Massimo li aveva spiati mentre si muovevano tra il banco del
pesce spada e quello dei frutti di mare, sempre stretti in quella specie di
presa innaturale. Lei era ancora più bella di quanto ricordasse. I capelli
biondi tirati su e un paio di infradito ultrapiatte ne esaltavano la grazia
naturale.
Mentre la tampinava con lo sguardo continuava a pensare che non
poteva lasciarsela scappare ancora una volta, se il destino li aveva rimessi
l’uno sulla strada dell’altra un motivo doveva pur esserci. Si era così avvicinato alla coppia con fare disinvolto, avendo cura che questa volta lei
si accorgesse della sua presenza. I loro sguardi si erano incrociati quando
lui stava ancora avanzando nella loro direzione. Arrivato a pochi passi,
aveva finto di inciampare in un sampietrino e si era praticamente lanciato tra le braccia di lei. Nel rimettersi in piedi, tra una scusa e l’altra,
era riuscito a infilare con destrezza, nella borsa shopping che lei stringeva sotto braccio, il suo bigliettino da visita: Avvocato Massimo Ierace,
recitava il cartoncino con su scritto il suo numero di cellulare. Glielo
aveva fatto stampare sua madre subito dopo la laurea, senza sapere che
quello sciagurato di suo figlio non avrebbe mai dato l’esame di avvocatura ma, anzi, negli anni a venire si sarebbe crogiolato nella nullafacenza.
Benedetta si era limitata a guardarlo con i suoi occhioni castani, a
metà strada tra lo stupore e l’incertezza.
Il tutto si era infine risolto in un gran profondersi in scuse e finti
convenevoli da ambo le parti. L’uomo, che fino a quel momento aveva
cinto la vita di lei con un braccio, non si era mostrato particolarmente
comprensivo con il maldestro passante, tanto da invitarlo con uno
sguardo poco accondiscendente a togliersi dai piedi.
Adesso che se ne stava seduto su quel letto, avvolto dalle tenebre in
una notte di tempesta con la sua fotografia virtuale davanti, Massimo
provava lo stesso batticuore di quella domenica al mercato, quando si era
allontanato da lei nella consapevolezza di avercela fatta: Benedetta
l’avrebbe cercato, glielo aveva letto in viso, nella ruga di perplessità che
le era spuntata spontanea qualche millimetro più sopra degli occhi.
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Più tardi avrebbe saputo che lei era passata decine di volte davanti al
quadro esposto fuori dal bar, ben consapevole che si trattasse di una
sorta di biglietto figurato lasciato lì apposta perché lo vedesse. Ogni
volta lo aveva osservato con la coda dell’occhio, sorridendo tra sé dell’ingegno e della tenacia di quel ragazzo sconosciuto. Quando Massimo le aveva chiesto come mai non avesse chiesto nulla al gestore del
locale, lei si era trincerata dietro uno dei suoi sorrisi misteriosi.
Benedetta era fatta così, otteneva sempre quello che desiderava,
ma con i tempi e i modi decisi da lei.
Quello era stato l’inizio della loro relazione: intensa, clandestina,
sempre in bilico sull’orlo della fine. La prima volta che avevano fatto
l’amore Massimo si era chiesto come avesse potuto provare prima
un orgasmo non procuratogli da lei. Benedetta aveva il sesso nel sangue, sulla pelle, nella voce. Il suo corpo, le labbra turgide, il ventre
caldo e accogliente, erano le uniche ragioni per cui Massimo riteneva valesse la pena vivere.
Tutto d’un tratto la sua vita aveva preso a ruotare unicamente attorno al tempo trascorso insieme a lei, divorando tutto il resto. Benedetta non parlava molto spesso del futuro, la loro storia sapeva
essere speciale proprio perché si suffragava della concretezza del presente. D’altro canto, lui non le aveva mai dato fretta: paradossalmente più passava il tempo più il pensiero del marito che l’aspettava
a casa ogni sera, per cingerla nel suo abbraccio intessuto di menzogne, gli recava meno fastidio. Non c’era nulla che, nella sua testa,
avrebbe potuto dividerlo dalla donna della sua vita.
E invece, all’improvviso e senza nessuna avvisaglia, Benedetta si
era sbarazzata di lui, lasciandolo nella disperazione più totale.
«Ci ho pensato tanto, non posso più andare avanti così, voglio riprovare con mio marito, voglio un figlio da lui» gli aveva detto una
fredda mattina di due mesi prima davanti a un cappuccino troppo
dolce. Così, come se gli avesse raccontato di un sogno strano fatto la
notte precedente. Glielo aveva detto quasi sorridendo, con quel modo
di fare che la rendeva unica.
Nonostante fosse passato del tempo, Massimo non riusciva ancora a darsi pace. Provare a contattarla in ogni modo, scongiurarla di
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ripensarci, arrivare addirittura a minacciarla di raccontare di loro a
suo marito non era servito a nulla. Benedetta lo aveva come cancellato dalla sua vita.
Con tutto quel buio intorno, Massimo si sentiva come un bambino che non vuole dormire da solo. Erano troppi i pensieri che gli
passavano per la testa, bombardandola di emozioni. Avrebbe potuto
provare a chiamarla per la centesima volta ma sapeva che non sarebbe servito a nulla, tanto lei non avrebbe risposto. Avrebbe potuto
creare l’ennesimo account fasullo per chiederle l’amicizia e rientrare
nella sua vita virtuale dalla finestra, come un ladro nel mezzo della
notte. Ma la sola idea gli provocò un conato.
Gli occhi si tuffarono al di là del vetro della balconata, dove il diluvio stava ricoprendo le strade della città con la sua furia.
A Benedetta non piacevano i temporali, e lui lo sapeva.
“Benedetta, amore, dove sei? Mi stai pensando?”
La decisione prese forma dentro di lui in meno di un secondo: infilate un paio di scarpe di tela ai piedi uscì dalla sua stanza come se
fosse appena salito a cavallo del fulmine, deciso più che mai a vederla ancora, fosse anche per un’ultima volta.
Quaranta secondi più tardi si ritrovò nel bel mezzo della strada
deserta, nell’ombelico del temporale che non accennava a placarsi. Il
fragore della pioggia che percuoteva i tetti delle macchine era talmente forte da inebetire tutto il resto. Finanche la voce di sua madre,
che si levava grondante di angoscia da sopra la ringhiera del balcone,
finì col diradarsi tra i mille rumori della notte.
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Cattivi presagi - 10 righe dai libri