AUSER Volontariato di Forlì - Onlus Associazione per l'Autogestione dei Servizi e la Solidarietà “DARE VITA AGLI ANNI” Testimonianze e ricordi degli Ospiti di residenze per anziani A cura di AUSER Volontariato di Forlì – ONLUS Elaborati Anno 2014 In copertina: Paesaggio, zincografia di Angelo Ranzi Indice Residenza per Anziani “Paolo e Giselda Orsi Mangelli”, Forlì Pugno di cocci, Igino Bagagli E il sogno continua, Tiziano Longo Passione per la musica, Tina Maroncelli Mi ricordo … una vacanza, Iviero Valli 7 8 9 10 Residenza per Anziani “Pietro Zangheri”, Forlì Dazio e beffa, Alteo Amaretti Fuga per amore del ballo, Adele Babbini Una gita per Tolentino, Brunilde Baldi Un sapone speciale, Vincenza Bazzocchi Fucilazione mancata, Evandro Biserni Il bello di noi vecchi, Elio Casadei Commessa per passione, Fausta Casadei L’amico del soldato, Pierina Castellucci A spasso con Fifì, Vincenza Crescenzi Rubacuori, Enza D’Angelo Bellissima, Roberto Pilotti La panchina, Chiara Raffaelli Lo specchio, Tina Tolomelli Ricordi di scuola, Narcisio Valentini 13 14 15 16 17 18 19 21 22 24 25 26 28 29 Residenza Sanitaria “Al Parco”, Forlì Alla luce di un lume a petrolio La guerra 33 35 Casa di Riposo “Pellegrino Artusi”, Forlimpopoli Andè a la stala A trebb di Aldo Spallicci (testimonianza di P.G.) Il racconto della nonna L’Azdora Ricordo il gioco de bò matt 42 43 44 45 46 ~3~ E furmaj (testimonianza di C.A.) Canzone degli scariolanti Ricordi: modi e detti (testimonianza di B.D.) 47 48 49 Residenza “I Girasoli”, Predappio Era l’anno 1943, avevo 20 anni, Ivo Petri 53 Ringraziamenti 55 ~4~ Residenza per Anziani “P. e G. Orsi Mangelli” Forlì ~5~ PUGNO DI COCCI Igino Bagagli Pugno di cocci di cocci di vetro simili a una vita tutto ricorda il passato speranza del futuro da una bottiglia di liquido ambrato sgorga il ricordo di una vita come vorrei gridare al mondo che tutto è finito e invece deve ancora cominciare mio Dio che orrore mio Dio voglio risorgere tornare a nuova vita dimenticare il passato da un pugno di cocci di vetro si può rinascere gioia di vivere ma grazie al Signore di avermi aiutato una urlo è finita, Risorgo! ~7~ ... E IL SOGNO CONTINUA Tiziano Longo Mi trovo davanti ad un mare di fiori di tutte le varietà ed una voce mi dice “Cerca che la troverai”. Son fiori variopinti e profumati che solo guardarli è un'estasi per il cuore che tumultuosamente batte nella ricerca un po' affannosa di trovare ciò che bramo. Ricerco con gli occhi un po' apprensivi il fiore che agogno ed eccolo trovato con un sospiro di sollievo in mezzo a tanti fiori più grandi e colorati. Ma una qualità lo distingue dalla moltitudine il suo profumo soave e delicato, il suo colore azzurro e variegato, la sua innata delicatezza. Pian piano quella piacevole visione floreale prende forma e si evidenzia nel tuo volto, nel tuo sguardo, nei tuoi occhi, nelle tue labbra, nella tua visione amata. Come per magia compari tu nell'interezza della tua persona e preso dal vortice di tutto ciò nella dimensione del non tempo ci abbracciamo e ci fondiamo nei sentimenti, confondendo i battiti dei nostri due cuori appassionatamente. ~8~ PASSIONE PER LA MUSICA Tina Maroncelli Da giovane ho avuto solo rare occasioni per andare a ballare, presa completamente dal lavoro che mi impegnava anche di domenica. Poco tempo dopo essere andata in pensione purtroppo rimasi vedova e per i tre lunghi anni successivi decisi di starmene a lungo in casa, priva di qualunque interesse; poi, intorno all'età di 64 anni, non so come né perché, un giorno trovai la forza di tornare ad uscire ed anche ... a vivere! Da allora iniziava per me una seconda giovinezza e presa la decisione di smettere di stare da sola in casa, cominciai a riscoprire la mia antica passione per il ballo: prendevo in macchina con me qualche amica, oltre a mia sorella Germana, e cominciai ad andare alla sera alla “Taverna Verde”, poi anche al “Bul Bul” di Castrocaro e un po' alla volta anche al “Pamela”, vicino a Faenza. La domenica pomeriggio a volte andavo al Circolo del Ronco. Si cominciava con il valzer, poi la polka, la mazurka, il tango e il valzer lento. Non trascuravo niente dei miei lavori in casa, compresa la cura del giardino, ma la sera il ballo e la musica mi riempivano di gioia di vivere. Dopo aver lavorato una vita, avevo riscoperto un passatempo dimenticato, che faceva bene anche alla salute, oltre che all'umore. Ora, all'età di novant'anni, vivo in Casa di Riposo con le mie due sorelle, una più grande e l'altra più piccola; non avendo più le gambe d'un tempo ho smesso di ballare ma ho scoperto un'ottima alternativa al ballo, mi sono messa a cantare! Ho cominciato a riscoprire le antiche canzoni che mi hanno accompagnato per una vita: quelle di Nilla Pizzi, Claudio Villa, Narciso Parisi, Iva Zanicchi, Milva e Mina. Un po' alla volta, c'è tempo, proverò a ricordare e cantare le loro più belle melodie! ~9~ MI RICORDO... UNA VACANZA Iviero Valli Nell’estate del '69 partecipai - insieme ad altri tre amici appartenenti come me all’Associazione Sportiva Forlivese “Forti e Liberi” - ad una settimana ciclistica, un raduno internazionale che si svolgeva a Rouen, cittadina francese sul mare. La località era graziosa, grande come la nostra Rimini, ma rimanemmo delusi per l'abitudine che avevano le persone del luogo di starsene chiusi in casa: dalle 21 non c'era più nessuno in giro. Per movimentare la vacanza e approfittando della vicinanza con la capitale, noi quattro partimmo per una gita in macchina alla volta di Parigi. Essendo impossibile girare per una tale metropoli, prendendo come meta la torre Eiffel, lasciammo la macchina in un enorme parcheggio a più piani (saremmo riusciti a ritrovarla al ritorno?) e ... scalammo la famosa torre! Volendo, ci sarebbe stata la possibilità di utilizzare i gradini, ma noi decidemmo per l'ascensore. Intorno a noi una folla di turisti, banchi di souvenir, punti di ritrovo, un ristorante, suoni di voci di lingue diverse, visi sorridenti e tutti estasiati di fronte al panorama mozzafiato che si offriva ai nostri occhi: case, viali, la Senna. Scendendo, decidemmo di farci una foto per ricordare quella esperienza unica; eravamo in posa quando una voce femminile ci chiamò, pronunciando l’esclamazione “Ué, Furlè !!”. Sorpresi, ci avvicinammo a questa signora – nostra paesana – che, come lei ci spiegò, era insegnante di lingue ed era solita recarsi in Francia per perfezionare la pronuncia: ci aveva riconosciuti dalle magliette dell'associazione che indossavamo. La signora fu molto gentile ad accettare l'invito a proseguire il giro turistico con noi, anzi ci fece da Cicerone, facendoci conoscere diversi luoghi interessanti e ci indicò dove fermarci per mangiare bene senza spendere troppo. Fu veramente una giornata bella e indimenticabile per tutti noi. ~ 10 ~ Residenza per Anziani “Pietro Zangheri” Forlì ~ 11 ~ DAZIO E BEFFA Alteo Amaretti Negli anni passati, quando ero ragazzo, facevo parte di una allegra compagnia formata da tanti amici, che avevano in comune il buon umore e la condivisione. Ci trovavamo spesso insieme e facevamo a gara a chi raccontava le avventure più belle. Due simpaticoni dei nostri coetanei erano soliti andare a pescare, ma per strada venivano sempre fermati per i controlli dai dazieri. I pesi, le esche, la licenza … uffa, non andava mai bene niente e le multe fioccavano. Allora un giorno decisero di fare un bello scherzo ai dazieri, troppo solerti. Riempirono una damigiana trasparente con olio per pavimenti dal colore ambrato, sembrava autentico liquore. La caricarono nell’auto mettendola bene in vista e quando furono fermati dalle guardie del dazio, alla domanda: “Nulla da dichiarare?” Risposero: “Niente” e i dazieri continuarono: “Come? Avete una damigiana piena di liquore? Ora chiamiamo i carabinieri e vi mettiamo a posto”. Ma, dopo aver analizzato il liquido, furono costretti a scusarsi e da quel giorno diventarono più permissivi con i miei amici. ~ 13 ~ FUGA PER AMORE DEL BALLO Adele Babbini Mi chiamo Adele e sono sorella di un prete. Prima di sposarmi, vivevo con lui nella casa adiacente alla Parrocchia. Mio fratello era molto buono con me, ma mi proibiva di andare a ballare. Io non mi perdevo certo d’animo, fingevo di andare a letto buona buona e invece mi preparavo per uscire. La finestra della mia camera da letto era al primo piano e con un salto ero già fuori, sul prato. Lì c’erano le mie amiche ad aspettarmi e insieme andavamo nella vicina casa dei contadini, dove si organizzavano feste da ballo meravigliose. Le pretese erano poche, c’era un solista che suonava la fisarmonica, ma per noi era il massimo. Entravamo alle 21 e uscivamo alle 5 di mattina. Allora avevo 17 anni. Tutti in famiglia erano sereni e convinti che io fossi a dormire nel mio letto. Ai miei tempi nascevano i primi complessi musicali, si improvvisava, l’importante era stare insieme in allegria. Nei momenti di feste paesane o matrimoni bastava poco: una sala grande o un’aia ed era festa! Per mia grande gioia, quando si sposò uno dei miei fratelli, venne chiamato a suonare nientemeno che il Maestro Secondo Casadei. Tutto il paese partecipò, fu davvero un successo e per me una giornata indimenticabile. ~ 14 ~ UNA GITA PER TOLENTINO Brunilde Baldi Italia mia... Patria mia, dove tanti valorosi morirono sui patiboli… Quanto eri bella e quanto ti amo, ancora al mio autunno. Facendo un agita in autostrada, ho visto una meravigliosa arte… In autostrada ti ho visto povera Italia, pareva proprio, guardandoti qua e là, che ti stessero facendo l’autopsia. Tutto guidato da questi cervelloni, che hanno solo la cultura di rubare la fatica di onesti lavoratori che avrebbero voluto migliorarti. Se pensiamo (una delle tante) al restauro di Pompei, che avrebbe dovuto essere fatto da artisti con mani di velluto… Invece questo Ministro del restauro, che doveva lavorare per la conservazione, fa eseguire un tetto in cemento armato… così che dopo pochi mesi, il peso del tetto fa crollare questi muri meravigliosamente affrescati nei secoli passati. Che fine fanno fare ai tuoi resti meravigliosi!?! Cara Italia… Tu hai ancora tanto da conservare… Io spero solo nelle prossime generazioni. Tanti padri, pur con miseri stipendi, cerchino di dare una cultura ai loro figli e che questi con la loro intelligenza riescano a salvaguardare quello che ci rimane con onestà e giustizia. Quanto sei bella ancora con quello che ti rimane! Pensare che sei l’unico Paese così ricco d’Arte da poter far vivere ancora tanti disoccupati solo col turismo... Pazienza, la vita è questa e spero sia migliore per chi sta nel mio cuore e possa avere un futuro più radioso di questi tempi così tristi. ~ 15 ~ UN SAPONE SPECIALE Vincenza Bazzocchi La guerra era terminata, mancava tutto, tranne la buona volontà! Non ci si poteva lavare, c’era scarsità di acqua e soprattutto non c’era il sapone. La mamma, che era una donna veramente intraprendente, dietro suggerimento di alcune persone che se ne intendevano, imparò a preparare il sapone artigianale. Si procurava le ossa degli animali da un contadino. Prendeva un pentolone e le faceva bollire insieme alla soda caustica. Dove la trovava? Da un tabaccaio suo conoscente, che si riforniva a Meldola. Ricordo che la mamma preparava stampi che erano di forma rettangolare, non di grandi dimensioni, e insieme al sapone per il bucato preparava saponette per la toelette colorate e profumate! Il commercio dei saponi era però fatto col metodo del baratto. Dalla vicina campagna venivano i contadini che portavano il latte, la farina, la frutta, e in cambio prendevano saponi e saponette per lavarsi. Non circolava denaro, ma tanta generosità e simpatia. Nel giro di pochi anni, con la ripresa economica, questa attività artigianale fu sostituita dai detersivi di vario genere. Tutto era comprato con i soldi. Mi ricordo molto bene l’atmosfera di quei momenti, la serenità, la cucina, il vapore, il profumo, l’odore che aleggiava in quello stanzone! Mi si ripresentano le immagini davanti agli occhi e rivedo la mia mamma e il mio nonno indaffarati e risento i loro ordini: “Stai lontana da quello stanzone dove ci sono i tegamoni sul fuoco, è pericoloso!”. Io ero obbediente anche se quei profumi mi attiravano: avrei voluto pasticciare anch’io e, chissà, creare un sapone molto speciale. ~ 16 ~ FUCILAZIONE MANCATA Evandro Biserni A volte mi torna alla mente che a soli 18 anni ho rischiato veramente tanto! Era il 27 settembre del 1944, ero in vacanza dai miei zii a Tontola, nella loro casa colonica. Quella che doveva essere una vacanza piacevole si trasformò in una brutta esperienza. Lì vicino era stato fatto saltare un ponte e i tedeschi cercavano i colpevoli. Ben presto fu fatto un rastrellamento ed io, insieme ad altre 10 persone, venni portato via: mi trovai con le spalle la muro davanti ad un plotone d’esecuzione; la paura era tanta, il cuore mi batteva forte. Un ufficiale ci passò in rassegna e ad uno ad uno ci controllò le mani, poiché sapeva che chi aveva maneggiato il tritolo conservava segni particolari. Mi sentivo perso, anche se sapevo di essere innocente, ma quando fu il mio turno e videro le mie mani pulite e prive di polvere da sparo, mi lasciarono subito libero e, con me, anche gli altri. Mia mamma venne a riprendermi e attraversando i monti a piedi, da Tontola facemmo ritorno a Civitella. Purtroppo lungo il tragitto vedemmo case bruciate e anche persone morte, uccise per rappresaglia. La guerra è spietata. Arrivato al mio paese ho festeggiato con i miei amici lo scampato pericolo, ma il mio sistema nervoso è stato duramente provato e ancora oggi ne porto le conseguenze. Le guerre cambiano gli uomini, non dovrebbero esistere. ~ 17 ~ IL BELLO DI NOI VECCHI Elio Casadei Abbiamo vissuto la nostra vita come ci è piaciuta o come abbiamo potuto. Se pensiamo a quando eravamo giovani, facevamo questo, facevamo quell’altro. Sbagli ne abbiamo fatti, non siamo sempre stati perfetti . Però, abbiamo vissuto, in compagnia o soli. Siamo tanti nel mondo che non li so contare. Qualcuno la vita l’ha passata come aveva voluto, ed è andato bene. Altri hanno avuto difetti e cattiverie, sono rimasti scottati o ammalati. Il mondo è andato avanti con noi. I nostri figli faranno meno errori di noi, speriamolo. Però, siamo ancora esistenti e vivi. Da quello che abbiamo fatto, ormai, non si torna indietro. Ci consolano solo i ricordi dei bei tempi e la futura generazione. Nel nostro piccolo vediamo di aiutarli. Con noi ci sono i ricordi, nessuno può portarceli via. ~ 18 ~ COMMESSA PER PASSIONE Fausta Casadei Sono nata nel 1926 a Forlì e vivevo con mia mamma in via dei Mille. La mia casa era situata dentro ad un giardino, nella zona centrale della città. La zia, sorella di mio padre, era molto ricca e provvedeva al nostro mantenimento poiché mio padre era morto durante la guerra; la mia mamma in cambio le faceva il bucato e teneva in ordine la sua casa. Ho sempre amato molto la mia città e ricordo con piacere com’era piacevole fare passeggiate lungo i nostri corsi in centro. I negozi erano belli e lavoravano molto, noi ragazze ci fermavamo a guardare le vetrine sempre invoglianti e ben allestite. Sognavamo di comprare qualcosa e quando potevamo realizzare il nostro desiderio eravamo al settimo cielo. Dopo le scuole superiori, insieme a due mie amiche, mi trasferii a Roma, poiché avevamo trovato un’occasione di lavoro molto redditizia: eravamo venditrici porta a porta di detersivi “Olà” e di cosmetici. Mi sono trovata molto bene, ma nel frattempo la mia mamma mi scrisse una lettera dicendomi di tornare a Forlì. Avevo l’opportunità di lavorare come commessa, presso un grande magazzino che stava aprendo in quei giorni: si trattava della famosa Standa, che avrebbe sostituito i locali della PTB (“Per Tutte le Borse”) allora situato in Corso Garibaldi. Feci così ritorno a casa e, visto che a Roma avevo fatto esperienza nel settore vendite, fui subito assunta. Mi piaceva molto il mio lavoro, ero davvero entusiasta. Eravamo 30 commesse, avevamo come divisa un grembiule celeste col bavero e i polsini bianchi come le scarpe e un cartellino col nostro nome puntato sul petto. Poco dopo mi misero alla cassa, lavoro di molta responsabilità. Alla sera dovevo controllare i conti che naturalmente dovevano quadrare perfettamente. Col tempo ero diventata sempre più brava e quando venivano assunte nuove commesse io, che ero la più esperta, insegnavo loro tutti i trucchi del mestiere. ~ 19 ~ Ho dedicato passione e molto tempo della mia vita a questo lavoro, che ho iniziato con l’apertura della Standa e ho concluso nel 1990. Poco dopo la Standa terminò l’attività. ~ 20 ~ L’AMICO DEL SOLDATO Pierina Castellucci Sono nata in provincia d’Arezzo, un bel paesino sull’Arno. Mio padre faceva il giardiniere ed io fin da bambina l’ho sempre aiutato nel suo lavoro, annaffiando le piante, talmente tanto che ho sempre preferito fiori finti. Lavorava per una contessa che si era molto affezionata a me e diceva a mio padre: “Voglio questa bimba con me in passeggiata”. Infatti, d’estate, le facevo spesso compagnia. Quando divenni una ragazzina, a volte aiutavo una mia amica magliaia che confezionava i guanti per i soldati. Ne preparai un paio per uno in particolare, che dopo averli ricevuti, venne a casa mia per conoscermi, in compagnia di un suo amico. Poi scoppiò la guerra e loro partirono: il soldato morì e l’amico per fortuna si salvò nonostante le ferite. Una notte bussò alla nostra porta in gravi condizioni, il babbo lo ospitò e lo curò. Durante la sua convalescenza, col permesso del babbo, le mie amiche ed io gli facevamo compagnia nel corso di lunghe passeggiate e parlavamo tanto. Poi un giorno l’amico del soldato si dichiarò e cominciò a farmi la corte… con mio grande piacere. Una volta guarito continuò a venire a trovarmi finché non ci sposammo. Avevo appena 19 anni e lui 7 in più. Siamo stati insieme una vita, ora purtroppo è morto. Tanto amore e tanto rispetto reciproco. Mi è rimasto un ottimo ricordo di mio marito, ora lo tengo sempre nel mio cuore: un paio di guanti mi hanno regalato un grande amore. ~ 21 ~ A SPASSO CON FIFI’ Vincenza Crescenzi Sono nata a Poffi, in provincia di Frosinone, il 23 luglio 1934. Con la mia famiglia mi sono poi stabilita a Roma, abitavo vicino a piazza Navona. Mio padre era controllore ferroviario e proprio lì, nelle vetture dove forava i biglietti, conobbe per fatalità il famoso Erminio Macario che diventò suo amico. Un giorno lo invitò a mangiare a casa nostra, così anch’io ebbi l’occasione di conoscerlo. Con le mie battute a tavola lo sorpresi per il mio spirito e così Macario, conquistato dalla mia simpatia, fece di tutto affinché mio padre mi affidasse a lui e alla sua compagnia teatrale. Così fu, a patto che non uscissi la sera con le altre ragazze, io era davvero troppo piccola. Piacevo molto a Macario, in modo simpatico si rivolgeva sempre a me con questa frase: “Ragazzina piccolina la trattiamo da Regina!” Piccolina lo ero proprio, avevo 13 anni! Spesso davanti a tutti rinnovava questa espressione che era un po’ un monito per farmi rispettare da quelli più veterani della compagnia. Macario era un attore comico unico nel suo genere, piaceva a tutti, grandi e piccoli. Preparava scrupolosamente tutte le battute del copione per scatenare risate a volontà. Il suo spettacolo andava in scena al Teatro Barberini di Roma, vicino a Viale Vittorio Veneto. Si circondava di belle ragazze che richiamavano molto pubblico, anche perché scoprivano le gambe… e, a quell’epoca, era una simpatica provocazione. Divenni una delle sue soubrette preferite e in una delle serate conobbi anche Sandra Mondaini, all’inizio della sua carriera. Mi ritorna in mente una scenetta in particolare dove avevo una particina: dovevo camminare disinvolta e portare a spasso un cagnolino di nome Fifì. Fifì era un barboncino sale e pepe, molto carino e intraprendente e sfilava ~ 22 ~ con me davanti a Macario e mentre camminava era addestrato a fermarsi, ad alzare la zampina e fingere di fare la pipì. Allora Macario si rivolgeva con la sua voce e la mimica ironica al barboncino e diceva: “Fifì, Fifì, eh eh eh… non si fa pipì qui!!!!! E lui abbaiava due volte, si ricomponeva e usciva insieme a me di scena, naturalmente tutti ridevano. Io sono stata fortunata a conoscerlo e a far parte della sua compagnia: grazie a lui ho viaggiato tutta l’Italia, la Spagna, la Grecia e ho visitato anche l’America! Furono tanti i successi ottenuti. Sono rimasta nella sua compagnia fino a 19 anni, poi papà mi ha richiamato a casa e la mia vita è cambiata, però questa esperienza come soubrette del grande Macario non mi abbandonerà mai e resta un bellissimo ricordo. ~ 23 ~ RUBACUORI Enza D’Angelo Ricordo che avevo 9 anni e vivevo con la mia famiglia nella campagna sarda. Per andare a fare il bucato, bisognava armarsi di pazienza: occorreva prendere i panni e il sapone e percorrere 6 chilometri di strada non asfaltata. Si andava in bicicletta oppure con un mezzo molto simpatico: avevamo un asinello che si chiamava Rubacuori, era docile e buono solo col mio papà, perché lui gli voleva molto bene e glielo dimostrava. Un giorno le mie sorelle ed io dovevamo andare a lavare i nostri vestititi, io ero la più piccola e quindi spettava loro il compito di preparare il carretto. Dopo aver legato Rubacuori, mi aiutarono a salire, ma cosa successe? L’asinello partì solo con me a bordo e andava forte, non c’era proprio modo di fermarlo… le mie sorelle correvano ma non riuscivano a raggiungerci. Io mi sono molto spaventata, urlavo disperata: “Aiuto! Aiuto!, con le braccia sollevate al cielo, per vedere se qualcuno accorreva in mio aiuto, ma niente, l’asinello correva e andava, andava, e le mie sorelle erano puntini ormai lontani. Conoscevo a memoria quella strada e sapevo che vicino c’era un pericolo imminente: un ponte fatto ad esse e sotto un burrone: “Povera me!” Per fortuna il mio destino non era quello. Tre contadini, allarmati dalle mie grida, sbarrarono la strada a Rubacuori che si fermò. Io con molta calma ringraziai i miei salvatori e mi misi ad aspettare le mie sorelle, che trafelate, dopo aver corso a lungo, mi trovarono calma e tranquilla. Però quell’esperienza mi fece capire tante cose: ad esempio, che Rubacuori si era comportato così perché i miei fratelli lo stuzzicavano sempre e lui, a modo suo, si era vendicato. ~ 24 ~ BELLISSIMA Roberto Pilotti Ricordo che, quando andavo alle scuole superiori, c’erano pochi maschi e molte femmine. Fui particolarmente colpito dalla mia compagna di banco: per me andare a scuola era un’emozione. Oltretutto abitava nei pressi della mia abitazione in via Sant’Anna; non era molto alta, ma era molto bella. Lei si era accorta del mio interessamento nei suoi confronti, per il modo in cui la guardavo e per i sorrisi che le facevo; purtroppo la mia timidezza non mi permise di esprimere il sentimento d’amore che provavo per lei. Abbiamo frequentato insieme la stessa scuola per due anni. La rividi poi, perché abitavamo nella stessa via. Non c’è mai stato niente tra di noi, però la ricorderò sempre, forse era solo bella, ma per me era bellissima. ~ 25 ~ LA PANCHINA Chiara Raffaelli Sono Chiara Raffaelli, ospite di questa grande struttura denominata “Residenza Pietro Zangheri”, la cui origine risale all’anno 1886, quando venne inaugurata sotto l’ala protettiva del Re Vittorio Emanuele II. È questa la mia attuale residenza, dal luglio 2011, quando, rimasta io sola della mia numerosa famiglia ed essendo in età avanzata perché nata nel 1925, ho deciso di lasciare la mia casa, seppure a malincuore. Devo dire però che mi sono ambientata in breve tempo, avendovi trovato gentile accoglienza e ottima ospitalità, nonché la possibilità di assistere a concerti e spettacoli di vario genere. Ma devo ammettere che uno dei momenti più piacevoli della giornata è il primo mattino, quando, impaziente di scendere dal mio reparto “Magnani”, per recarmi ad assistere alla Santa Messa, celebrata quotidianamente dal Parroco Don Tito, vado a sedermi abitualmente, durante il tempo di attesa, nella prima panchina del corridoio, che conduce al salone principale, poco distante dalla Chiesa. Confesso di provare particolare attrazione per quella speciale panchina, di bella struttura, adorna di disegni a colori; ma ciò che più mi piace è l’opportunità di incontrarmi ogni mattina con alcune persone, ospiti della residenza, desiderose di sedersi accanto a me, per conversare sugli avvenimenti importanti del giorno e su quanto di interessante accade nel nostro stesso ambiente. Quei sia pur brevi momenti di reciproco dialogo, improntato a vera amicizia, mi consentono di dare buon inizio alla giornata, anche se a volte, occorre usare una certa pazienza se qualcuno parla un po’ a sproposito. Posso dire pertanto di essermi talmente affezionata a quel posto, al punto di non poterne fare a meno. Ciò premesso, la mia giornata prosegue in maniera soddisfacente, in quanto partecipo volentieri alla vita di gruppo, promossa dalle Educatrici che ci ~ 26 ~ intrattengono con molteplici attività. In considerazione di tutto ciò, spero di trascorrere in serenità (e ripensando sempre a quella panchina) gli anni di vita che mi restano, in questa Residenza, che, oltre ad essere di rara bellezza, ha il pregio di ospitare per la sua vastità un numero di persone assai notevole. ~ 27 ~ LO SPECCHIO Tina Tolomelli Sincero nel silenzioso riflesso lo specchio come occhio freddo riverbera l’effettiva realtà con crudele, autentica franchezza. Gli anni passano e lui li conta, tutti, fedele al suo impegno franco nel dichiarare la finzione; non c’è pusillanimità né ritrosia nella sua sfacciata autenticità. I sentimenti no, quelli non li possiede, non può introdursi nell’animo, ma le loro contrazioni, gli effetti quelli sì, li esprime e li rigetta con singolare, unica, vera chiarezza. Forse è amico, forse gemello o fragile, labile coscienza che con un botto s’infrange. ~ 28 ~ RICORDI DI SCUOLA Narcisio Valentini Io venivo dalla campagna, precisamente da San Pietro in Trento di Ravenna. Ero venuto con la mia famiglia ad abitare a Forlì. Mio padre aveva acquistato il palazzo dove ora è la Banca di Milano in Corso Mazzini: lo chiamavano il “regno dei topi”. Frequentavo le scuole elementari in via Francesco Nullo e mi ricordo molto bene il primo giorno: era il 1920 circa ed io ero molto intimorito. La maestra era anziana ma assai gentile e ben disposta nei miei confronti. Mi domandò davanti alla scolaresca: “Quanti fratelli hai?” Le risposi: “4 fratelli e 2 fratelle”. Tutti si misero a ridere e rimasi mortificato. I ragazzi di città mi prendevano in giro per la mia ingenuità ddovuta al fatto che venivo dalla campagna ed ero molto intimidito. Nel banco dietro di me, ricordo bene che c’era un bambino che si chiamava Brasini, che mi stuzzicava con i pennini. Io all’inizio subivo, poi trovai il modo per cambiare. Quel Brasini divenne da grande il Direttore dell’Ospedale Morgagni di Forlì. Frequentavo allora l’oratorio dei Cappuccinini e lì, pian piano, vinsi la mia timidezza, mostrai i denti e tutti cominciarono a rispettarmi. Ero così cambiato, ero scatenato, correvo più forte di tutti. A scuola poi diventai molto bravo, i temi erano i miei cavalli di battaglia e oltre che scriverli, li illustravo con disegni molto belli. Il maestro mi elogiava, li mostrava agli altri insegnanti e a tutte le classi: erano molto apprezzati. Ricordo che a proposito di uno dei miei primi temi il maestro disse a tutta la classe: “Solo un tema è leggibile: è quello di Narcisio”. Ne ero davvero orgoglioso. Molto singolare è anche la storia del mio nome: alle elementari mi chiamavano Tarcisio, che era il mio nome di battesimo, ma quando ~ 29 ~ andai alle scuole superiori e chiesi i documenti a Ravenna, l’estratto di nascita mi registrava come Narcisio: da allora ho un “doppio nome”. ~ 30 ~ Residenza Sanitaria “Al Parco” Forlì ~ 31 ~ ALLA LUCE DI UN LUME A PETROLIO Quando il 14 luglio 1927, strillando, sbarcai su questa lacrimarum valle, come molti preti di allora chiamavano la terra, ebbi la fortuna di capitare in una meravigliosa famiglia di mezzadri che abitavano e coltivavano un podere in uno sperduto paese della bassa forlivese chiamato Barisano. La famiglia era composta da tre fratelli (fra i quali mio padre), tre sorelle, i loro genitori, cioè i miei nonni, il fratello del nonno con la moglie, senza figli, mia madre ed infine io, dodicesimo e ultimo arrivato. Nacqui alla debole luce di un lume a petrolio, perché tale era allora l'illuminazione nella stragrande maggioranza delle case di campagna. Il riscaldamento era di tipo bovino, nella stalla. I mezzi di locomozione erano la bicicletta e l'asino e per i più benestanti il cavallo. Poichè a quei tempi pochissime donne andavano a partorire in clinica, qualcuno, familiari, amici o vicini di casa che possedevano un cavallo, andavano a prendere la levatrice alle prime doglie della partoriente: così fu anche per la mia nascita. Finite le elementari ci trovammo, la mia famiglia e io, ad un bivio: si doveva decidere sulla possibilità di continuare ad andare a scuola a Forlì, o fermarmi alla quinta elementare e fare il contadino. A questo punto devo dire con chiarezza quali sono stati i meriti dei miei genitori e degli zii: gli amici e i conoscenti non aiutavano sicuramente nella scelta e, secondo la mentalità allora diffusa, dicevano: «Sé, manda e fiol a la scola, che dop ut dis dl’ignurant in italiano». Nonostante questo essi ebbero la forza e l'intelligenza di mandarmi a scuola, mentre tenevano e pagavano un garzone al mio posto. Un’altra persona alla quale va il mio grazie, per l'esempio e l'aiuto datimi, si chiamava Cavalletti. Era un amico di famiglia che viveva a Forlì insieme a sua cugina Ernestina, che lo accudiva. Quasi tutte le domeniche da Forlì veniva a casa nostra a Barisano in bicicletta ed essendo un appassionato studioso di botanica, conosceva e raccoglieva erbe nei campi per quasi tutta ~ 33 ~ la giornata. A noi sembrava un po' strambo perché mangiava erbe che a nostro giudizio erano robaccia. Ho vissuto per vari anni a casa sua durante il periodo scolastico, specialmente in inverno, perché venire da Barisano a Forlì, con le nevicate di quei tempi, sarebbe stato rischioso per la salute. Cavaletti era un amico e collaboratore di Zambutè, famosissimo guaritore che preparava le medicine da solo. Tante sere Cavaletti mi portava con sé a casa di Zambutè a lavorare per produrre le medicine dalle erbe raccolte: le faceva bollire, per poi trasformarle in pillole e sciroppi. Tali medicine erano addirittura “miracolose” in quanto hanno guarito malati dai medici dati per spacciati. Si è sempre detto che Zambutè aveva guarito anche la moglie di Solieri, notissimo medico forlivese; anzi si affermava che la motocicletta era un regalo di Solieri. Zambutè, oltre ad essere celebre per le guarigioni che riusciva ad ottenere e per le quali si faceva pagare quasi niente, tanto che morì poverissimo, era un personaggio del quale si parlava sempre e ovunque per i suoi modi di fare: era un orso con un cuore d’oro, un benefattore. Come già detto, a casa di Cavalieri rimanevo soprattutto nei mesi invernali, mentre nei mesi di aprile, maggio e giugno andavo a scuola in bicicletta da Barisano a Forlì. Nei giorni in cui c'era scuola di pomeriggio, qualche volta, all'uscita, ci si fermava a giocare, per cui arrivavo a casa molto più tardi del previsto. A questo punto facevo una grande volata per tornare a Barisano e a circa mezzo chilometro da casa, prima dell’ultimo rettilineo, sgonfiavo la bicicletta e a piedi, con la bicicletta a mano, arrivavo tutto sudato, inveendo contro la bicicletta che non stava mai gonfia. Mio padre si lasciava commuovere e a mia madre, tutto preoccupato diceva: “Mo dai, tan vi che por burdel ad sudeda cla fat, praperi da magnè, dai chicosa ad cheld, dai st’etar”. Ce la mettevano tutta per alleviarmi la fatica fatta! Ho sempre amato profondamente ed ammirato i miei genitori e tutti i miei familiari di Barisano e ancora oggi, pensando a questi piccoli trucchi da ragazzino, non mi sento in colpa, ma verso di loro provo ancora più tenerezza. ~ 34 ~ LA GUERRA Negli anni 1943-‘44 io non avevo ancora 17 anni e l'unica arma che conoscevo era il coltello per tagliare il pane, per cui, a me e ad altri come me, venivano assegnati dai partigiani soprattutto compiti di volantinaggio e qualche volta anche di trasporto armi. Queste azioni, coi tedeschi sparpagliati dappertutto, comportavano grossi rischi, perché se ti prendevano con armi o volantini ti fucilavano sul posto. Un giorno, nel giugno 1944, a me e Daniele fu assegnato il compito di andare a portare dei volantini nelle case di tutti i contadini della parrocchia. Il volantino diceva: “Non un solo chicco di grano agli invasori ed agli ammassi dei loro servi”. Praticamente si doveva impedire ai contadini di mietere e trebbiare il grano, che sarebbe poi stato sottratto dai tedeschi e dai fascisti che ormai scarseggiavano di tutto: facevano addirittura trainare i camion dalle mucche, poichè non avevano più benzina. Io e Daniele cominciammo il giro di volantinaggio a tarda sera, addirittura dopo l'inizio del coprifuoco. Andammo in due con una sola bicicletta; Daniele la conduceva pedalando mentre io stavo seduto sulla canna, tenendo nel petto, dentro la camicia, il pacco dei volantini da distribuire. Quando si arrivava davanti alle case dei contadini, dato che allora quasi nessuno aveva recinto e cancello, senza scendere dalla bicicletta si girava nell’aia, si passava da vicino alla finestra, quasi sempre aperta per via del caldo, e si lanciava il volantino addirittura in casa, poi si ritornava sulla strada e ci si dirigeva verso le altre case dove si ripeteva 1'operazione. Quella sera, uscendo dalla semicurva fra le case di Gross e di Muntè in direzione ponte del Vescovo, ci trovammo di colpo di fronte alla ronda tedesca, che a piedi veniva in direzione opposta alla nostra. Non tento neanche di descrivere il terrore e lo spavento di quel momento: la naturale e istintiva tentazione fu quella di fare dietro front e scappare. Non so ancora dove trovammo la forza di non lasciarci travolgere dal panico e andare ~ 35 ~ avanti, tenendo conto che avevamo 17 anni. Se fossimo scappati ci avrebbero sparato. Invece siamo passati accanto alla ronda tedesca e a non più di mezzo metro di distanza, data la larghezza della strada, e abbiamo dovuto tenere un atteggiamento che non li insospettisse! Un'altra avventura mi capitò quando il fronte era a poche decine di chilometri da Forlì. Un giorno eravamo in quattro o cinque sulla strada davanti al mulino a parlare delle retate che facevano i tedeschi e poichè da giovani si è anche un po' spacconi, io stavo dicendo: “Se i tedeschi mi vogliono mi devono correre dietro perché io scappo”. Non avevo ancora finito di parlare, quando dalla semi curva davanti alla chiesa sbucò un gruppo di tedeschi, con sette-otto italiani già rastrellati, che venivano verso il mulino dove eravamo noi. Io scappai subito e passando sotto il porticato andai dietro al mulino, dove c'era una catasta di legna dietro la quale mi nascosi. Cominciai allora ad armeggiare intorno ai calzoni, facendo la solita finta. I tedeschi avevano visto dove ero andato, così uno di loro si staccò dal gruppo per venire a prendermi. Sentii i passi avvicinarsi, vidi la canna del fucile spuntare dall’angolo della catasta di legna, accompagnata dagli urli incomprensibili del tedesco, che di scatto saltò fuori puntandomi il fucile nel petto; io avevo già le mani in alto. “Koman, koman!” urlava. Questa parola voleva dire di andare con lui; le uniche altre parole di tedesco che ho imparato durante la guerra sono “kaput”, che significava che ti avrebbero fatto fuori, e “raus”, con cui ti ordinavano di sparire. Mi mise insieme agli altri già rastrellati e ci portarono proprio a casa mia a fare le postazioni per le mitragliatrici: dovevano scavare delle buche in un boschetto dietro la casa, per piazzarvi l'arma. Capitai a fare le nicchie in un pagliaio proprio nel punto dove io stesso avevo nascosto un rotolo di fasce tricolori della Resistenza, da conservare per il giorno della liberazione. Pensare a che cosa sarebbe successo se un altro che non sapeva niente, tagliando la paglia, avesse fatto cadere quel rotolo sotto gli occhi del tedesco che dirigeva i lavori, mi fa venire freddo anche dopo 54 anni. A questo punto si trattava di fare sparire le fasce prima che venissero scoperte per l'avanzamento dei lavori. ~ 36 ~ Mia zia Guerrina, che penso di non avere mai ringraziato abbastanza, comparve sull’uscio della stalla e io le dissi, riferendomi al tedesco: “Quand cu s’aluntana clu che lè avrì da dri de paier cajo dla roba da dev”. Lei capì al volo la gravità della situazione, ma ebbe ugualmente la forza di non svenire. Si mise a spiare il tedesco e quando questo andò nel boschetto, lei girò dietro al pagliaio, mi si avvicinò ed io, che sapevo il punto esatto dove avevo nascoste le fasce, vi infilai una mano, le presi e le diedi a lei che le mise al petto, andò in casa e le buttò nel fuoco accesso, dove si distrussero immediatamente. A casa nostra c'era una sfollata di Forlì, proprietaria di un negozio di pellicceria e biancheria fine, che aveva portato con sè quasi tutta la sua merce per salvarne il più possibile. Una mattina ebbe la geniale idea di andare a stendere il tutto, per conservarlo meglio, nel pescheto che avevamo dietro i pagliai, cioè a 50 metri da casa. L'aereo ricognitore che girava ininterrottamente sulla zona, intravedendo sotto i peschi qualcosa di difficile classificazione, perché semicoperto dai rami, diede i dati all'artiglieria che era a pochi chilometri, la quale iniziò un cannoneggiamento durato diverse ore e cioè fino a quando ebbero distrutto quasi tutto. Noi passammo quelle ore rannicchiati nel nostri rifugio, con le granate che ci scoppiavano anche a meno di 100 metri. La terra tremava continuamente, le donne pregavano e la paura, come si dice, faceva 90. ~ 37 ~ Casa di Riposo “Pellegrino Artusi” Forlimpopoli ~ 39 ~ Consuetudini di tempi andati, non tanto lontani, tempi in cui nelle campagne il lusso era inconcepibile, in cui le comodità erano riservate ai signori. Spesso si faceva a meno anche del necessario, perché la miseria era molto diffusa e pesante. Si cercava di ottenere soltanto ciò che era indispensabile, anche con notevoli sacrifici. La regola di vita era risparmiare, risparmiare su tutto. Aneddoti e racconti di alcuni ospiti della nostra grande famiglia della casa di riposo "Pellegrino Artusi" di Forlimpopoli. ~ 41 ~ ANDÈ A LA STALA Quando la sera andavamo nella stalla, l’interno era umido e profumato, non c’era tanfo, era e fiè dla stala, odore di paglia, di strame, di fieno e d’altro. Era un modo di stare con i vicini al caldo, le donne filavano la lana grezza facendo frullare il fuso e si parlava. Gli argomenti erano sempre gli stessi: le difficoltà economiche, la famiglia, le fatiche nei campi, i lutti, le malattie e gli amori dei giovani. Assieme alle donne arrivavano anche le ragazze e attratti come le api dai fiori, arrivavano i giovanotti. Le ragazze a volte ridevano (al sgrigneva) alle conversazioni galanti. Gli uomini giocavano a carte (a bes-cia o a pitrangul) e a volte si improvvisava il gioco della tombola. ~ 42 ~ A TREBB L’era una nota bura, senza stel, e fonda fonda coma una sipultura, e par la stre l’andeva Tirindel gamba sicura e cor senza paura. Fola, fola, fulaja, E’ canteva Balenm Stuglé sora la paja. E int e’ mèz de cruser quant che fo stè ecco una vosa u si sintep adoss: « Ben arivé, mi amor, ben arivé, l’è tant ch’aspet, ch’u mi sfoja agli oss». Fola, fola, fulaja..... U l’à ciapé int e’ lazz la vecia striga, e Tirindel e va cun e su guai, por piligren s-cianté da la fadiga par meja e meja ch’u n’s’aferma mai. Fola, fola, fulaja E’ canteva Balen In pì sora la paja. Testimonianza dell’ospite P.G. "Canta romagnola" Testo di Aldo Spa1licci ~ 43 ~ IL RACCONTO DELLA NONNA Quando si faceva sera e d’inverno il buio veniva presto nella stalla, l’azdora entrava e accendeva il lume a petrolio (la loma), che illuminava gli animali e le persone sedute sulle panche o sugli sgabelli portati da casa. La nonna mi raccontava che una sera, stava per sedersi su un panchetto, quando le fecero capire che sul quel panchetto c’erano dei chicchi di granoturco: significava che una ragazza aveva riservato quel posto al suo filarino. Infatti gli amori sbocciavano anche nell’ombra della stalla; a volte senza farsi vedere dai genitori ci scappava un pizzicotto alla ragazza e una mano furtiva si intrufolava sotto le lunghe sottane. A volte c’era un personaggio, "E Fulesta", che narrava storie divertenti e favole e incitava a versare da bere alla comitiva presente. Che bei momenti ho trascorso di sera nelle stalle. ~ 44 ~ L’AZDORA Qualche volta, durante la vegia, interveniva l’azdora che offriva agli uomini qualche dolce, preparato da lei. Il gesto suscitava approvazioni e applausi di gioia. L’azdora era, mi dice C.A., una contadina romagnola che nelle famiglie patriarcali del tempo passato guidava e coordinava i lavori della casa riservati alle donne. Aveva un carattere volitivo, capacità di comando, occhio svelto. Richiamava le altre donne di casa, nuore e cognate, quando a suo parere non filavano diritto e suddivideva i compiti a tutte. Quando la produzione degli animali da cortile era superiore ai bisogni della famiglia, andava a vendere l’eccedenza al mercato. Il ricavato della vendita veniva amministrato dall’azdora e in accordo con le altre donne acquistava il necessario per la casa (piatti, merceria, grembiuli). ~ 45 ~ RICORDO IL GIOCO DE BÒ MATT Si legava alla schiena di un ragazzo una forca fatta da un ramo secco con sporgenze, mentre il ragazzo appoggiava le mani a terra come fosse un bue. Gli mettevano sopra una coperta, che lasciava scoperti i rami: cosi sembravano due corna. Un altro ragazzo conduceva e guidava per la stalla l’animale, ma il bue di tanto intanto si imbizzarriva, dava di matto e si lanciava contro le ragazze, che stavano al gioco e scappavano urlando, spaventate. ~ 46 ~ E FURMAJ La sera andavo nella stalla a mungere le mucche, seduto su uno sgabello. Raccolto il latte, mettevo il caglio acquistato dal droghiere. Dopo un’oretta trattavo il latte cagliato con le mani e cercavo di separare il formaggio dal siero, che utilizzavo successivamente per la ricotta. Se era poco, lo mettevo in un secchio per i maiali, mescolato alla crusca (la broda). Mettevo il formaggio in una ciotola circolare (e casarot), che aveva dei buchi nel fondo. Dopo un giorno lo toglievo dal recipiente e lo riponevo su un’asse apposita, in un posto dove ci fosse fresco e aria, perché si doveva asciugare. Ogni tanto lo dovevo anche lavare. Si poteva usare il formaggio sia stagionato e ben secco (cunzè), sia fresco. Il formaggio non serviva solo al nostro fabbisogno familiare: andavo anche a venderlo in piazza e per le case. Partivo con la mia bicicletta, carica dei miei formaggi e ricotte. Quanta fatica! Ma se devo essere sincera, rimpiango quei tempi: c’era tanta miseria, ma fra le persone non c’era invidia, c’era tanta fratellanza, ci si aiutava molto, in particolare fra vicini. Adesso non conosciamo neanche chi abita nel nostro palazzo. Mah!!!! Testimonianza dell’ospite C.A. ~ 47 ~ CANZONE DEGLI SCARIOLANTI Spesso ci ritroviamo in gruppo e cantiamo assieme. Voglio qui trascrivere la canzone degli scariolanti, una delle mie preferite. A mezzanotte in punto si sente un gran rumor sono gli scariolanti che vengon a lavorar. Volta, rivolta e torna a rivoltar; noi siam gli scariolanti che vanno a lavorar. A mezzanotte in punto si sente una tromba sonar: sono gli scariolanti che vanno a lavorar Volta, rivolta..... Gli scariolanti belli son tutti ingannator che j’à ingannà la bionda per un bacin d’amor. Volta, rivolta ~ 48 ~ RICORDI: MODI E DETTI Aver al budeli in t’un zest. Avere le budella in un cesto. Lavurè la tera. Arare. Al budèli al fa la rezna. Le budella fanno la ruggine. Par San Martèn u s’imbariega grend e znen. Per San Martino si ubriacano grandi e piccoli. Imbarieg coma una cioza. Ubriaco come una chioccia. Int la bota znena u j sta e bé bon. Nella botte piccola c'è il vino buono. Recitati dall'ospite B.D. ~ 49 ~ Residenza “I Girasoli” Predappio ~ 51 ~ ERA L’ANNO 1943, AVEVO 20 ANNI Ivo Petri Ero militare, il mio sogno era fare il paracadutista, ma poi vi ho rinunciato. In quel tempo militavo nei “Lupi di Toscana”, corpo di fanteria, e ci trovavamo a Nizza di passaggio. Proprio qui successe un fatto che ancora oggi è impresso nella mia mente come fosse ieri. In quel luogo disarmai un colonnello tedesco che aveva ucciso il nostro Capitano. Era l’8 settembre. Io, il Capitano e il sottotenente eravamo presso l’ufficio della stazione del luogo, quando arrivarono i tedeschi che si stavano recando in Normandia in perlustrazione per cercare armi. Noi non avevamo armi, ma nel corridoio del piccolo ufficio della stazione c’erano delle bombe a mano. I tedeschi entrarono nella stazione. Entrò il loro Colonnello seguito dai soldati, che fece poi uscire dai locali della stazione. Il nostro capitano, vedendoli avvicinare, tentò di accostarsi al telefono, ma venne colpito a morte dal tedesco, che gli sparò tre colpi di pistola e puntò l’arma in fronte al sottotenente. Quest’ultimo, nel frattempo, aveva preso una delle bombe a mano che si trovavano nel corridoio. Nella mano destra teneva una bomba a mano sganciata, sfidando il colonnello tedesco. Io, che in un primo momento ero rimasto dietro, mi trovai di fianco al colonnello tedesco, in un balzo lo disarmai e nella lotta lui cadde sbattendo la testa. Nello stesso istante scoppiò la bomba che teneva in mano il sottotenente. Il colonnello tedesco morì nello scoppio, ma il sottotenente perse l’avambraccio. Saltò la centrale elettrica e nel trambusto, uscii per primo, spoglio della divisa e pieno di sangue e ferito dalle schegge della granata. I soldati tedeschi, rimasti fuori, allarmati, mi puntarono un mitra alla schiena e non riconoscendomi come nemico mi trasferirono presso un ospedale di campo. ~ 53 ~ La permanenza all’ospedale di campo è stata lunga, avendo sempre come compagna la paura sia di essere trasferito in un campo di concentramento, sia di perdere entrambi gli occhi per infezione. Non è stato così, anche se persi per sempre l’occhio destro e le schegge di granata infilate nel braccio sono lì, ancora oggi a ricordarmi questa storia. Dopo la guarigione quando ritornai in Italia (a Torino), in parte mutilato e con la voglia di rischiare per la mia Patria, continuai ad rendermi utile, portando le missive dall’Arcivescovado ai partigiani. Quello che vi ho raccontato è un amaro ricordo di un gesto eroico che nessuno mi ha riconosciuto, poiché un tempo, per riservatezza lo raccontavo solo agli amici più cari. ~ 54 ~ Ringraziamenti Si ringraziano i gentili autori per le preziose testimonianze. Si ringraziano le animatrici e gli animatori delle Residenze. Un grazie di cuore all’ideatore della manifestazione letteraria “Dare vita agli anni”, Mario Vespignani, sempre vicino. Un affettuoso ricordo è rivolto ad Andrea Brigliadori. Alla sua memoria dedichiamo questo libretto. Marzo 2015 La Curatrice Flavia Bugani ~ 55 ~ forlì L’Associazione, iscritta al registro regionale del Volontariato, opera prevalentemente con e per gli anziani – o, meglio – diversamente giovani. Promuove, nell’ambito della cultura, l’incontro fra generazioni, affinché l’anziano possa esprimere nella società le sue conoscenze e capacità a favore del prossimo. L’Auser è una “Associazione di Progetto” tesa alla valorizzazione delle persone e delle loro relazioni ed è ispirata ai principi di equità sociale e di rispetto delle differenze, di tutela dei diritto, di sviluppo delle opportunità e dei beni comuni. ~ 56 ~ Stampato in proprio – Marzo 2015 Impaginazione e stampa a cura di Copisteria Digicopy Via Bella 17 - Forlì