leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
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Le strade
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I edizione: gennaio 2011
© 2011 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
ISBN: 978-88-6411-141-4
www.fazieditore.it
Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.
Alcuni luoghi citati nel romanzo sono frutto di pura fantasia.
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Giorgio Nisini
La città di Adamo
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A Simona e Matilde
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E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di
cui non si possa pensare nulla di più grande.
ANSELMO D’AOSTA, Proslogion
La verità è molto meno semplice di quanto vorrei.
PAUL AUSTER, La stanza chiusa
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IL PRIMO UOMO
Il televisore Brionvega
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Una sera di ottobre mia moglie Ludovica rientrò a
casa con un piccolo televisore verde. Non era un televisore qualsiasi, ma un vecchio Brionvega portatile che
da qualche tempo era tornato di moda tra gli amanti
del vintage elettronico. Un Brionvega Algol, mi disse
mentre l’aiutavo a scaricarlo dalla macchina, uno di
quei prodotti che avevano fatto la storia dell’industrial
design e che fin dal loro primo apparire erano diventati oggetto di culto. Quando lo tirammo fuori dalla confezione mi accorsi che era troppo nuovo per essere davvero un pezzo di modernariato: la finitura esterna era
eccessivamente gommosa, la superficie della scocca levigata e senza graffi. Anche la linea aveva qualcosa di
sospetto, perché mi sembrò più snella e aerodinamica
di quanto mi ricordavo che fosse nell’originale. E infatti non si trattava dell’originale, quello progettato negli anni Sessanta da Marco Zanuso e Richard Sapper,
ma di una nuova versione che era stata proposta sul
mercato in edizione limitata.
Ludovica era comunque soddisfatta del suo acquisto, lo capivo dal sottile flusso di elettricità che le percorreva la voce. Nonostante l’indelebile patina di falsi13
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ficazione che c’era in quel televisore, la stessa che generalmente possiedono le cose che a distanza di anni
vengono ridisegnate e rimesse in commercio, ne parlava come se fosse un articolo che non poteva assolutamente mancare in una casa come la nostra. Anzi, per
com’era fatta lei, che amava tutto ciò che faceva tendenza, tutto ciò che arredava la sua vita, i suoi luoghi,
i suoi paesaggi e li rendeva potenzialmente invidiabili
da qualcuno, quella versione era l’unica che potesse
realisticamente corrispondere alle sue esigenze. L’originale sarebbe stata una scelta troppo stravagante per
lei: sarebbe stato come preferire la vecchia Fiat 500 al
modello d’ultima generazione, o ascoltare un vinile su
un Europhon di quarant’anni fa piuttosto che su un
modernissimo e costosissimo giradischi analogico. Atteggiamenti da nostalgici, secondo il suo punto di vista,
da gente stravagante, appunto, bizzarra, troppo sopra
le righe, o troppo sotto, perché se non si aveva la giusta personalità per maneggiare certi oggetti si rischiava
di passare per patetici collezionisti senza stile.
Il fatto che avesse acquistato quel televisore, dunque,
non mi sorprese; e poi era talmente prevedibile la sua
mania di spendere soldi che vederla tornare a casa senza nulla di nuovo, anche solo un lucidalabbra da pochi
euro, mi avrebbe fatto pensare che fosse depressa. Mi
sorprese invece che avesse acquistato un televisore, visto che guardare la TV non rientrava minimamente nelle sue abitudini quotidiane, tanto meno in quelle serali.
Anzi, spesso, di sera, quando la maggior parte degli italiani si annullava davanti a uno schermo, lei faceva altro. Di solito si sdraiava sulla poltrona del suo studio a
sfogliare riviste di moda o cataloghi di nuove ditte (era
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titolare di un negozio d’arredamento), oppure se ne stava ore in bagno a spalmarsi di creme per il corpo che
ordinava direttamente da una fabbrica francese. Questa
sorta di resistenza massmediatica la teneva lontana da
molti sistemi di comunicazione moderni, non amava
leggere i quotidiani, navigare in Internet, ascoltare la radio; al massimo le piaceva lasciare la TV accesa come
motivo di sottofondo, ma era un’esigenza minore, del
tutto trascurabile, che poteva essere tranquillamente
soddisfatta dal televisore che già avevamo in soggiorno.
Eppure Ludovica non era sempre stata così, immobilizzata in questa forma quasi insolente di snobismo;
e in fondo non lo era neanche adesso. Il suo modo di
classificare il mondo per categorie d’individui e per cose possedute era strettamente legato al suo mestiere di
commerciante, e cioè alla deformazione professionale
che la spingeva a valutare i clienti a colpo d’occhio.
Nella sua enfasi descrittiva c’era spesso qualcosa di artificioso e profondamente labile; era la sua retorica da
venditrice, insomma, la sua maschera di scena che a
volte non si toglieva neanche con me, e dietro la quale
si nascondeva un carattere molto meno schematico di
quanto volesse far credere.
Per parecchi minuti restò a guardare quel prodotto
Brionvega con la stessa millimetrica curiosità di una
bambina di fronte a un nuovo gioco. Era soprattutto
affascinata dai dettagli: la marcatura laser al lato dello
schermo, la maniglia estraibile, l’antenna, la targhetta
con il logo, il packaging in alluminio. I suoi occhi brillavano di una luce morbida e appassionata che faceva
sembrare quell’apparecchio ancora più interessante di
quanto già non fosse di per sé. Anch’io, che ormai ero
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abituato ai suoi slanci d’entusiasmo e alle sue improvvise manie, ne venni automaticamente sedotto. A forza
di osservarlo mi resi conto che aveva una forma davvero singolare, rassomigliava a un parallelepipedo che
cercava di sollevare la testa verso l’alto, o a una bocca
spalancata progettata per sputare fuori immagini animate. Ed era bello, anche, indipendentemente dal restyling a cui era stato sottoposto, un piccolo capolavoro industriale che conservava intatta la sua modernità.
Quando, dopo un po’, lo trasportai in cucina, e lo
posizionai su un carrello in vetro e metallo, percepii attorno a me un clima leggermente sospeso, tanto che mi
venne voglia di metterlo subito in funzione; ma avevo
fame, e dovevo ancora farmi una doccia, e non mi piaceva l’idea di ritardare ulteriormente le mie consuete
mansioni da fine giornata. Prima di uscire dalla stanza
lo sfiorai per qualche altro secondo, lasciai che i polpastrelli accarezzassero i suoi angoli arrotondati, che i
miei occhi ne scrutassero ancora il colore. Poi andai in
bagno, mi spogliai, abbandonai il mio corpo sotto il
getto dell’acqua calda senza pensare più a niente.
Dopo cena Ludovica si distese sul divano del soggiorno a chiacchierare al telefono con la sua amica Roberta, una tizia che faceva la hostess di terra per una
compagnia aerea italo-americana e chiamava sempre in
orari imprevedibili e poco opportuni. Io rimasi in cucina a svolgere diligentemente i miei compiti da tecnico
televisivo. Studiai il libretto delle istruzioni, collegai i cavi, sintonizzai i canali, provai i tasti del telecomando ergonomico. Il mio umore era perfettamente equidistante
da tutti gli stati d’animo possibili. Non ero nervoso, né
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allegro, né preoccupato per qualcosa. Ero solo stanco,
ma non potevo sperare di sentirmi diversamente dopo
dodici ore ininterrotte di lavoro. In autunno, con la raccolta in corso, l’attività dell’azienda era a pieno regime,
e non c’era attimo in cui la mia presenza non fosse necessaria per prendere decisioni o per risolvere qualche
problema. Il fatto di essere Marcello Vinciguerra, figlio
di Vittorio Vinciguerra, uno tra gli imprenditori agricoli più importanti d’Italia, mi dava l’illusione di stare
dentro un ingranaggio che senza di me sarebbe saltato.
Ma era una stima troppo egocentrica per corrispondere
davvero a come stavano le cose. La verità è che non sapevo vivere diversamente: non riuscivo mai a fare soste,
non riuscivo a concedermi un viaggio o una malattia
senza sentire il peso delle mie responsabilità.
Per fortuna Ludovica non era una di quelle mogli
che vivono all’ombra del marito. Era una donna bella,
elegante, ricca, piena d’interessi e di curiosità, con un
lavoro autonomo, un conto in banca autonomo, circondata da una fitta rete di affetti e amicizie che le garantivano uno spesso muro protettivo. Dal punto in cui
ero la sua voce mi arrivava in maniera ovattata: non capivo bene le parole che diceva, ma il tono allegro e disteso con cui parlava con Roberta mi piaceva, mi metteva tranquillità, così come me la mettevano i suoi gesti consolidati e riconoscibili che da oltre dieci anni
scandivano la nostra vita coniugale.
Appena finii di memorizzare le frequenze del Brionvega presi un nastro adesivo e iniziai a sigillare lo scatolone d’imballaggio su tutti i lati. Ogni tanto lanciavo
un’occhiata distratta alla TV. Era rimasta sintonizzata
su un programma di RAI due, un noto talk show politi17
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co-giornalistico che andava in onda ogni settimana in
prima serata. Era una di quelle trasmissioni in cui si
parla sempre di argomenti particolarmente attuali e
scottanti. Non avevo idea di quale fosse il tema della
puntata, il volume era molto basso, e le sequenze scorrevano sul video da troppo poco tempo per essere associate a qualcosa di più definito.
A un certo punto, però, mentre stavo per cambiare
canale, notai che sul monitor che faceva da sfondo allo
studio televisivo era comparsa l’immagine di un edificio. Un edificio a forma di cilindro. Non so da quanto
fosse lì, forse uno, due minuti, non sapevo dirlo, poteva anche stare lì da sempre, o da un millesimo di secondo, ma non appena me ne accorsi sentii che quell’immagine mi ricordava qualcosa. E nel ricordarmi
qualcosa acquistò un’inattesa forza visiva.
Dopo aver chiuso l’ultimo lato dello scatolone alzai il
volume. Adesso l’immagine dell’edificio scorreva in primo piano accompagnata da una tenue musica orchestrale. Anche l’inquadratura era diversa, perché l’edificio era ripreso dall’alto, e sullo schermo dava l’impressione di apparire molto più piccolo di quanto non fosse in realtà. Per un istante pensai che si trattasse del tassello di un plastico, ma il viavai di scooter e di automobili che sfrecciavano alla sua base mi fece capire che
non era affatto così. Era un edificio troppo anomalo per
passare inosservato, più simile a una ciminiera o a un silos gigante che a un palazzo popolato da qualcuno. Lo
analizzai meglio, e mi resi conto che era pieno di finestre e di balconi e d’imprecisi movimenti circostanti che
gli donavano un vago senso d’abitabilità. La sequenza
successiva scivolò via in un lampo. Feci giusto in tempo
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a riconoscere un altro edificio a forma di cilindro, una
piazza rettangolare, un gruppo di case più basse, e poi
la sagoma squadrata di una città in cui, adesso ne ero
sempre più sicuro, ero già stato da ragazzino.
Per qualche secondo non vidi più niente di particolare, solo riprese aeree di nuvole e colline e paesaggi indeterminati. Li guardai distrattamente, e nel frattempo
cercai di ricordare che città fosse quella, quando esattamente c’ero stato. Perché c’ero stato. Tuttavia non
riuscivo a mettere in chiaro assolutamente nulla, solo
ombre sbiadite che tentavano inutilmente di assumere
una forma, e che appena l’assumevano venivano cancellate da altre ombre ancora più confuse.
Poi ci fu uno stacco di montaggio, dopo il quale apparve una rada folla d’individui che camminava nello
stesso paesaggio urbano di poco prima. Stavolta le immagini avevano qualcosa di diverso: erano più sfocate
e distanti, come se fossero state realizzate in un’altra
epoca. Non c’era una voce fuori campo che potesse
darmi qualche informazione in più, solo la solita musica orchestrale che faceva da colonna sonora, e che evidentemente era stata mixata al video in un secondo
momento. Tuttavia mi bastò osservare l’ambiente circostante, un enorme cantiere in costruzione, e osservare le automobili di passaggio e le persone e i modi di
vestire tipicamente anni Settanta per capire che erano
effettivamente vecchie riprese su pellicola. Immagini
amatoriali, credo, o materiale d’archivio girato durante l’edificazione della città. Guardai quelle immagini
con un crescente senso d’immedesimazione, come se
man mano che scorrevano cominciassi a riconoscere
qualche dettaglio in più. Ecco, fu in quel momento che
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accadde l’imprevisto. Tra quella folla d’individui notai
un uomo e un bambino che si tenevano per mano.
L’uomo avrà avuto quarant’anni. Indossava un abito
bianco intero, la giacca stretta, i pantaloni a tubo, una
cravatta a taglio largo. Portava anche un paio di occhiali da sole e un borsello a tracolla. Il bambino invece era vestito sportivo: jeans tagliati sopra il ginocchio,
maglia a maniche corte, scarpe da ginnastica. Li vidi
passare davanti alla telecamera per pochissimi secondi
e in maniera del tutto inconsapevole. Poi, così com’erano apparsi, furono risucchiati nel nulla.
Quell’uomo e quel bambino eravamo io e mio padre.
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La trasmissione si concluse subito dopo il filmato
d’archivio, e così il mio ricordo rimase sospeso a metà,
lasciandomi la stessa sensazione di non completezza di
quando non si afferra bene qualcosa. La sequenza con
me e papà era riemersa per caso, e adesso era finita a
ondeggiare in un limbo mentale quasi privo di riferimenti. Non sapevo in che luogo fosse stata girata, né
che anno fosse, né cosa stessimo facendo io e lui davanti a quell’edificio a forma di cilindro. Soprattutto
non capivo la ragione per cui era stata mandata in onda
su RAI due, in prima serata, durante uno tra i più seguiti e discussi programmi televisivi.
Per qualche ora non m’importò molto di colmare
quest’assenza d’informazioni. La curiosità c’era, non
potevo negarlo, ma si trattava di una curiosità marginale, che in un primo momento fu totalmente messa in
secondo piano dalla forza delle immagini in sé, astratte da tutto. Erano immagini che avevano richiamato alla mente altre immagini, altri pezzi di vita, altri ricordi
– me, mio padre, mia madre, la casa in cui vivevamo allora, la solidità della nostra famiglia – e che a loro volta avevano rievocato odori, sensazioni, profumi che
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provenivano direttamente dalla mia infanzia. Non credo che Ludovica si fosse resa conto di quanto la cosa
mi avesse emozionato e stupito; anzi, quando provai a
raccontarle ciò che avevo visto in TV, ebbi l’impressione che fosse distratta da tutt’altri pensieri.
«Be’, sì», mi disse, «una coincidenza davvero strana.
Però non è mica un fatto statisticamente impossibile,
sai? Ormai il mondo è diventato una specie di grande
set, Marcello, ci sono telecamere ovunque».
«Ma che c’entrano adesso le statistiche», le dissi infastidito. «Non è questo il punto. Mi ascolti quando ti
parlo?».
No, non mi ascoltava, o perlomeno non mi ascoltava con l’attenzione che avrei voluto. Ma del resto come potevo farle capire il mio stato d’animo? Vedere
me e mio padre in un momento di così tanti anni fa,
un momento nostro, puramente nostro, in cui ce ne
andavamo in giro mano nella mano chissà dove, mi
aveva procurato un’emozione troppo difficile da condividere: un’emozione esclusiva e incomunicabile, piena di nostalgia e dolcezza e amore per un rapporto tra
padre e figlio che non esisteva più, e che forse era esistito solamente allora.
Più tardi, nel cuore della notte, mentre mi rivoltavo
tra le lenzuola senza riuscire a prendere sonno, mi ricordai che sul sito della RAI era possibile rivedere in replica le principali trasmissioni televisive. Non sapevo se
la puntata del programma fosse già stata messa in rete,
ma ero troppo insonne per rimanere nel letto, e poi i
miei pensieri continuavano a girare a vuoto con una ripetitività che era diventata insopportabile. Volevo fare
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qualcosa. Mi bastava anche muovermi, respirare un po’
d’aria diversa.
Quando mi alzai, Ludovica fece un sospiro prolungato e borbottò qualche monosillabo incomprensibile.
La vidi voltarsi dalla parte opposta e coprirsi la testa
con un cuscino.
Fuori dalla stanza, nel buio, mentre a passi veloci mi
dirigevo verso lo studio, la casa mi sembrò un territorio
semisconosciuto, inaspettatamente grande e freddo e
pieno di pericoli. Anche al di là delle pareti, nella campagna, che potevo sbirciare dall’ampia vetrata del soggiorno, mi sembrò che ci fosse qualcosa di minaccioso,
soprattutto quando il rumore di un tuono spezzò il silenzio che c’era attorno a me. Ma questo senso di non
difendibilità non durò molto; anzi, si attenuò fino a sparire nell’istante in cui raggiunsi la mia scrivania, accesi
il computer e dal cassetto estrassi un paio di auricolari.
Quando mi collegai al sito della RAI, e aprii la pagina
con la schermata del talk show, puntai subito il cursore
verso la fine della barra di scorrimento, più o meno all’altezza in cui poteva essere andato in onda il servizio
che m’interessava. Poco dopo ritrovai la breve sequenza di me e mio padre, e nel rivederla notai qualche dettaglio che prima mi era sfuggito. Ad esempio che era
stata girata durante una giornata di bel tempo, estiva,
credo, come suggeriva il nostro abbigliamento leggero;
oppure che la folla attorno a noi era composta da gruppetti sparsi di uomini di cui non si distinguevano i tratti
del viso. Ma anche i nostri, di tratti, erano abbastanza
confusi, e lo diventavano ancora di più se provavo ad allargare l’inquadratura, tanto che se non avessi avuto familiarità con la mia immagine di ragazzino avrei forse ri23
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schiato di non riconoscermi. Tuttavia l’impressione immediata era stata molto netta: quei due tipi eravamo noi,
non potevano esserci dubbi. Anzi, la nostra camminata,
la nostra corporatura, il paesaggio circostante, il ricordo
vago dei miei vestiti, insomma, ogni sfumatura concorreva a dare al quadro una definizione più esatta.
Prima di tornare indietro, e vedere la trasmissione
dall’inizio, chiusi gli occhi, sforzandomi di capire cosa
fosse stato a farmi credere fin da subito, fin da quando
avevo visto sullo schermo l’edificio a forma di cilindro,
di essere già stato in quel posto. Mi ci volle un po’ per
mettere a fuoco qualcosa di più concreto, ma alla fine
mi ricordai di lui, di quel commerciante, il proprietario
di una catena di supermercati che io e mio padre incontrammo proprio lì, la stessa mattina in cui quella telecamera ci aveva ripreso a nostra insaputa; o meglio,
non ricordai esattamente lui, il suo viso, la sua voce, la
sua fisionomia, qualche particolare del corpo, bensì il
suo nome, uno dei pochi dettagli che mi erano rimasti
impressi nella memoria. Quel commerciante, infatti –
ed era questo che mi avevo colpito da ragazzino – si
chiamava come il primo uomo: Adamo.
Il talk show durava due ore e mezza ed era diviso in
tre parti, ciascuna dedicata a un diverso argomento di
politica e attualità. L’ultima parte si apriva con una giovane giornalista che fissava la telecamera con uno
sguardo nervoso. Era una di quelle giornaliste d’assalto
a cui in genere vengono affidati i collegamenti esterni
in prima serata. Non diceva nulla di particolare, parlava in modo generico di traffici di droga, di appalti, di
beni sequestrati alla camorra. Subito dopo la parola
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passò a un presentatore di mezza età, un tizio calvo, un
po’ cianotico, che nel suo modo di parlare rauco e persuasivo, totalmente privo di sbavature dialettali, spiegò
che in quella parte della puntata si sarebbero occupati
della notizia del giorno, l’arresto dell’ex boss Duilio
Pastorelli, ultimo esponente di una delle più pericolose
cosche della vecchia camorra casertana.
C’erano diversi ospiti in studio, un noto opinionista,
qualche politico, un magistrato, il capo della Direzione
Nazionale Antimafia. E poi, dietro, in collegamento su
un maxischermo che faceva da parete, attorno all’inviata d’assalto di poco prima, una schiera irrequieta
d’individui che premeva verso la telecamera come se
stesse per compiere un’invasione di campo. Era tutta
gente che pareva infastidita dalla presenza della stampa, e che sembrava stare lì quasi per un atto di sfida.
Mi colpirono soprattutto due donne che tenevano un
ampio striscione. Avevano i lineamenti duri e poco
femminili, i capelli trascurati, lunghi segni sul viso che
davano l’impressione di essere vecchie cicatrici. Non
riuscii a leggere cosa c’era scritto sullo striscione. Prevaleva un senso di confusione e di rabbia, un continuo
spostamento di teste, di sguardi, di persone che cercavano di conquistare un angolo dell’inquadratura.
Il presentatore si sforzava di tenere su di sé l’attenzione. Ora sintetizzava dati relativi a una serie di omicidi e
di commerci illeciti, ora chiedeva a una collaboratricesegretaria di leggere le e-mail che arrivavano in diretta.
Poi, mentre fuori la pioggia aveva cominciato a cadere
furiosa, sul monitor comparve l’immagine di uno degli
edifici a forma di cilindro, la stessa che avevo visto qualche ora prima sul televisore Brionvega. Dopo un paio di
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minuti le luci dello studio si abbassarono, e quasi in contemporanea iniziò a parlare una voce fuori campo.
«Il quartiere Eurano», disse la voce in un tono impostato, «progettato da Ugo Martoni, il tristemente celebre architetto della camorra, fu edificato tra la fine
degli anni Sessanta e i primi anni Settanta oltre la periferia sud-est di Caserta, la città d’adozione della famiglia Pastorelli. Il piano originario prevedeva la costruzione di un piccolo gruppo di alloggi da parte dell’Istituto per le Case Popolari, ma nel giro di poco tempo il quartiere passò sotto il totale controllo della criminalità organizzata, arrivando a estendersi abusivamente su una superficie di sette chilometri quadrati.
Tutta l’area, con una storia in parte simile a quella del
quartiere ZEN di Palermo o delle Vele di Scampia, ha
costituito per anni il bacino di raccolta di una controcomunità camorristica, un “paese nel paese”, governata da altre regole e da altri apparati legislativi. Le caratteristiche forme geometriche degli edifici, con prevalenza di architetture cilindriche e cubiche, rientravano nell’idea di Martoni di creare uno spazio che fosse percepito come simbolo di ordine e di razionalità.
L’esempio più noto e straordinario di questa tipologia
architettonica è il cosiddetto “antiparlamento”, un cubo di cinque piani situato nel cuore esatto di Eurano.
Per anni è stato il bunker della famiglia Pastorelli, e
prima di essere confiscato e riconvertito in un impianto sportivo, ha rappresentato il centro decisionale dei
più efferati crimini avvenuti in Italia prima della stagione delle maxiretate, la vasta operazione di polizia
ordinata dai giudici Tessitori e Lambella nella primavera del 1994».
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La voce fuoricampo si stava facendo sempre più enfatica. Più la ascoltavo, e più restavo sbalordito dal fatto che esistesse un’architettura camorristica ufficialmente riconosciuta come tale, e che quest’architettura
possedesse insieme una logica e una configurazione
estetica così interessanti. Rispetto alle Vele di Scampia
o al quartiere ZEN, progettati da architetti autorevoli ed
estranei al mondo del crimine, Eurano nasceva infatti
da dentro quel mondo, e questo lo caricava di un fascino torbido e misterioso. Era innegabile che nel progetto di Martoni ci fosse una perversa miscela di potere
occulto, di prevaricazione terroristica, di contro-utopia
sociale, ma era anche innegabile che questa miscela fosse realizzata attraverso una felice commistione di forza
geometrica, di creatività, di talento, di coerenza formale, insomma attraverso un insieme di valori che non mi
sarei mai aspettato di trovare in un collaboratore della
malavita. E poi anche la scelta del toponimo, Eurano,
era fantasiosa, un composto tra il nome del settimo pianeta del sistema solare, Urano, derivato – come avrei
letto poi – da quello di un dio greco che personificava
il cielo stellato, e il nome di un noto quartiere di Roma,
l’EUR appunto.
Continuai ad ascoltare l’anonimo commentatore pieno di curiosità; ma più lui forniva dettagli sulle caratteristiche di quel luogo, più sentivo che una strana inquietudine mi arrivava al cervello, e si traduceva in una
serie di domande a cui non sapevo rispondere. Come
mai mio padre aveva incontrato un cliente in quel posto? Come mai aveva preso un appuntamento di lavoro nella cittadina destinata di lì a poco a diventare il
bunker della famiglia Pastorelli?
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Non appena le luci dello studio si rialzarono, la parola passò alla giovane inviata. Solo in quel momento mi
accorsi che era collegata in diretta da Eurano, perché riconobbi sullo sfondo una costruzione a cubo che doveva essere l’antiparlamento di cui aveva parlato la voce
fuoricampo. L’inviata iniziò a camminare tra la gente in
maniera poco disinvolta. Parlò della vita del quartiere
negli ultimi anni, della riqualificazione urbanistica dopo
la confisca dei beni alla camorra, della creazione di un
complesso scolastico, ma a giudicare dal clima di nervosismo che c’era attorno a lei e dallo stato di degrado di
molti edifici, non sembrava che la riqualificazione avesse sortito realmente qualche effetto. La maggior parte di
essi era ormai ridotta a un brutto ammasso di vecchie
case, e l’antico razionalismo con cui erano stati realizzati era svanito dentro un groviglio babelico di panni stesi,
di antenne televisive, di parabole, di balconi abusivi, di
facciate prive di qualsiasi forma di manutenzione.
Attraverso il punto di vista dell’inviata fui comunque
in grado di vedere un settore del quartiere, e in questo
modo i miei ricordi si fecero più nitidi, perché mi sembrò di passeggiare nuovamente per quelle strade, e percepire il clima da cantiere che si respirava quel giorno.
Era un clima fatto di polvere, di rumori, di palazzi conclusi e di palazzi ancora da concludere, e riempito dalla presenza di gigantesche gru che si piegavano su di
me come spaventosi uccelli meccanici. Ma non so
quanto i miei fossero davvero ricordi o suggestioni momentanee, perché la sola cosa che ricordavo chiaramente era il nome di quel signore che incontrai con papà, Adamo. Oltre a questo, e al fatto che possedesse
una catena di supermercati, altro dettaglio che mi era
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rimasto in mente per chissà quale ragione, non sapevo
altro; non sapevo dove abitasse, se fosse ancora vivo, se
i suoi supermercati esistessero ancora, se qualcun altro
dell’azienda avesse avuto contatti con lui.
Quando l’inviata introdusse una scheda sul padre di
Duilio Pastorelli, ucciso durante una guerra di clan nel
1983, e sullo schermo comparvero le sue fotografie, la
mia inquietudine, fino ad allora limitata a una breve serie
di domande che in fondo potevano avere mille risposte,
si raddensò fino a diventare un languore caldo e ostile.
«L’architetto Martoni fu in realtà un mero esecutore
progettuale. È ormai documentato, infatti, che l’ideazione di Eurano e gli ordini di esecuzione del quartiere
fossero di Adamo Pastorelli, padre di Duilio, da tutti indicato come uno tra i più crudeli e potenti boss del dopoguerra. Pastorelli, che fu ucciso da un commando dei
Baldassarri-Curto, la famiglia destinata ad assumere il
controllo della città fino alla stagione delle maxiretate,
è tuttora considerato un criminale “moderno”, dal momento che seppe costruire il proprio impero non soltanto grazie ad attività illecite fondate su tradizionali
metodi di coercizione e di violenza, ma anche attraverso
un’oculata politica d’immagine e una singolare cultura
da autodidatta. Personaggio di enorme fascino e di
grandi ambizioni, Pastorelli rappresenta ancora oggi un
modello di camorrista eclettico e fuori dagli schemi, capace di piegare la propria intelligenza al servizio di
un’organizzazione malavitosa che lui stesso rivoluzionò
dall’interno, e alla quale, seppur per un breve periodo,
riuscì a dare un assetto di tipo verticistico».
Adamo Pastorelli, aveva detto. Nessun dubbio, così
come non c’era nessun dubbio che il suo nome, Adamo,
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lo stesso nome del primo uomo, associato alla presenza
di me e papà in quella città-quartiere, delineava un quadro di coincidenze che si faceva fortemente ambiguo.
Dopo aver seguito l’ultima parte del talk show, in
cui gli ospiti furono coinvolti in un dibattito sull’arresto di Duilio e sul recupero di un archivio segreto riguardante i traffici della sua famiglia, scoprii finalmente qualcosa sul breve filmato in cui apparivamo io
e mio padre. Si trattava di un frammento video girato
effettivamente durante l’edificazione della città, un documento storico-giornalistico molto breve, appena un
minuto e mezzo, risalente all’inizio degli anni Settanta. Il presentatore spiegò che era stato ritrovato nella
sede di una rete locale napoletana, e che in origine faceva parte di un reportage sull’abusivismo edilizio che
non era mai andato in onda. Non aggiunse altro; disse
solo che per l’occasione era stato montato insieme ad
alcune recenti riprese panoramiche di Eurano e utilizzato come sigla di chiusura.
Pochi istanti dopo il video partì, ma io non avevo voglia di rivederlo, già mi trasmetteva un fortissimo senso di estraneità e di disgusto, come se le immagini che
fino a poco prima mi erano sembrate così piene d’incanto si fossero di colpo corrotte. Così, con un gesto
quasi rabbioso, mi tolsi gli auricolari e spensi il computer, restando immobile sulla sedia per un po’, contratto in un nodo confuso di sentimenti e considerazioni che non mi portavano a capo di nulla.
C’era un silenzio strano attorno a me, attenuato e insieme amplificato dal contrasto sonoro con il violento
temporale che non cessava di perseguitare la campagna. Potevo sentire lo scroscio continuo della pioggia
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sui vetri, il rumore intermittente dei tuoni, il vento che
sbatteva sulle pareti trasportando ovunque detriti di
terra e foglie. Le immagini di Adamo Pastorelli continuavano a scorrermi davanti: ripensavo alle sue fotografie, alle sequenze della città-quartiere da lui ideata,
al volto strafottente di suo figlio che veniva trascinato
in manette dagli uomini mascherati della DIA. Ma più
queste immagini scorrevano dentro di me, più una domanda insidiosa, compromettente, mi rimbombava in
testa, e s’insinuava tra i miei pensieri, nonostante cercassi in tutti i modi di ricacciarla altrove: era possibile
che quel criminale e l’uomo incontrato da mio padre
fossero la stessa persona? Era possibile che mio padre,
che per me era sempre stato un esempio di onestà e di
rigore morale, fosse andato a un appuntamento con
uno tra i più potenti boss della camorra?
Ripensai per un ultimo istante a me, alla mia infanzia, al video che quella sera, per caso, aveva aperto una
finestra su quel periodo felice. Poi ripensai a lui, a mio
padre, al suo sguardo deciso e malinconico che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Quello sguardo, mai
come in quel momento, mi sembrò pieno di ombre.
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Le poche ore che mi separavano dal suono della sveglia le trascorsi dormendo un sonno profondissimo.
Non feci sogni, non provai emozioni. Era come se in
quel breve lasso di tempo ci fosse stata una compensazione naturale tra tutto ciò che avevo visto e pensato
per buona parte della notte e l’assoluto annullamento
del mio cervello dentro una specie di stagno nero che
non aveva fondo. Le immagini di Eurano, di Adamo
Pastorelli, di me e mio padre, le forme morbide del televisore Brionvega, ogni cosa insomma che aveva riempito la mia serata precedente, e che mi aveva così tanto incuriosito e turbato, era sparita senza lasciare traccia, e io ero stato catapultato in questa dimensione statica con una tale naturalezza che sarei potuto rimanerci per sempre. Uno stato d’incoscienza infinito che non
prevedeva diversivi e movimenti, e che mi faceva ondeggiare a mezz’aria in uno spazio senza luce.
Quando mi alzai dal letto, e vidi Ludovica che già si
aggirava nella stanza alla ricerca dei suoi vestiti, sentii
una fitta acuta alla tempia sinistra. I suoni mi arrivavano alle orecchie più della loro reale intensità acustica.
Avrei voluto dormire fino a mezzogiorno e non pensa32
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re più a niente, rinunciare a tutte le responsabilità che
gravavano sulle mie spalle con la stessa giustificata libertà di quando avevo vent’anni. Ma non avevo più
vent’anni, e soprattutto non avevo più lo stesso modo
di neutralizzare all’istante qualsiasi problema che non
avesse un’interferenza immediata sulla mia vita. Mentre facevo colazione davanti al nuovo televisore Brionvega, e mentre Ludovica mi parlava di cose di ordinaria amministrazione, avevo già riattivato i miei pensieri da uomo adulto; e con i pensieri le mie inquietudini.
Ascoltavo Ludovica parlare, sbirciavo la TV, e nel frattempo riflettevo con apprensione su tutto ciò che avevo
visto durante la notte. Mi chiedevo se dovevo fare qualche ricerca nell’archivio dell’azienda oppure no, se dovevo fare finta di nulla, sforzarmi il più possibile di
pensare ad altro. Mi chiedevo anche se dovevo far vedere il video a Ludovica, raccontarle di Adamo, chiederle un parere sulla faccenda; ma subito dopo mi convincevo che non era il caso, che i miei dubbi erano
troppo vaghi e sospesi su ricordi della mia infanzia per
essere condivisi con lei. Solo l’idea che potesse ridicolizzare le mie paure m’innervosiva enormemente.
Attorno alle otto e mezza uscii di casa deciso a raggiungere l’unico luogo in cui potevo incontrare mio padre. Sapevo benissimo che sarebbe stato un appuntamento molto frustrante, ma allo stesso tempo sentivo
che un confronto ravvicinato con lui dovevo concedermelo, e che dovevo aggrapparmi al solo filo di comunicazione che avessi ancora a disposizione, per quanto illusorio ed evanescente fosse. E così, dieci minuti dopo,
chiuso nell’abitacolo del mio Range Rover, con il riscal33
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damento acceso e un giubbotto verde militare che mi
faceva sembrare un cacciatore della domenica, iniziai a
percorrere il sentiero che collega la strada provinciale
con i boschi di Fontedoro, la zona della montagna in
cui sorgono i miei castagneti più grandi e pregiati.
Raramente mi capitava di arrivare fin lassù da solo,
e certo non avevo scelto la mattinata più adatta per farlo. La microalluvione stagionale che si era abbattuta
durante la notte aveva colpito l’intera barriera preappenninica dell’alto Lazio, e la superficie su cui stavo
guidando era talmente dissestata che facevo un’enorme
fatica a mantenere il fuoristrada in traiettoria. I detriti
avevano riempito i canali di scolo, e l’acqua piovana si
era riversata sul sentiero trasformandolo in una lunga e
impercorribile pozzanghera.
Dopo aver oltrepassato una serie di massi rotolati
giù da una costa pendente, valutai l’ipotesi che fosse
meglio proseguire a piedi. Il sole non c’era, ma conoscevo troppo bene il clima delle mie parti per sapere
che quel giorno non avrebbe piovuto più. Tuttavia non
stavo per fare un’escursione di trekking. Appena scesi
dal Range Rover cominciai a ragionare sul video della
notte, sulla casualità con cui l’avevo visto, su Adamo,
il proprietario di supermercati conosciuto da mio padre. Non capivo se l’ipotesi sulla sua identità fosse realistica oppure no, se il mio atteggiamento di sospetto
non fosse troppo ridicolo ed eccessivo. Cercavo di
mettere insieme i pezzi, di creare un atto d’accusa, ma
alla fine mi sembrava che le coincidenze compromettenti fossero davvero poche: un nome – poco diffuso,
certo, ma non così straordinario – e un luogo, Eurano
appunto. Neanche le fotografie di Adamo Pastorelli
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che avevano fatto vedere in TV mi aiutavano granché,
perché erano di pessima qualità, e i miei ricordi erano
troppo indeterminati per consentirmi di trovare o meno analogie tra quei due uomini. Ma se anche le avessi
trovate, se anche mio padre avesse incontrato un boss,
e avesse intrattenuto rapporti commerciali con lui, ciò
avrebbe implicato una sua necessaria collusione con la
camorra?
Quasi correndo attraversai una ripida salita che costeggiava una folta macchia di bosco ceduo, e da lì mi
portai sul fronte alto della montagna. Il piano di Fontedoro era disteso lungo un ampio corridoio d’altura
da cui si apriva l’intera fascia dell’orizzonte. Sulla linea
di quell’orizzonte, alla fine di due strette file di sassi
ammonticchiati l’uno sull’altro, sorgeva un enorme castagno secolare da cui era possibile affacciarsi sulla vallata sottostante.
Lui, mio padre, era lì, immobile, e sembrava aspettarmi. Aveva sempre amato quell’albero, perché secondo il racconto dei suoi genitori sarebbe stato concepito proprio là sotto. Un lontano pomeriggio del 1931.
Non so quanto fosse vera quella storia: i miei nonni
amavano enfatizzare i loro ricordi, e nel tempo l’avevano arricchita di dettagli che probabilmente all’inizio
non c’erano. Ma ciò che importava è che papà ci credesse, e che a forza di sentirsela ripetere fosse diventata un pezzo della sua vita. E non solo della sua vita. A
un certo punto, spinto dalla necessità di chiudere l’immaginario cerchio che lo legava alle sue origini, volle
infatti acquistare il pezzo di terreno in cui era piantato
quel castagno, e volle che quel terreno diventasse il locus deputato alla sua sepoltura.
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A vederlo da qui, però, quel locus, ogni volta che
svoltavo l’angolo del sentiero, e m’introducevo nel vialetto delimitato dai sassi sovrapposti, mi dava un profondo senso di vuoto. Non credo che sarebbe stato
molto diverso se fossi andato a trovare mio padre da
un’altra parte, ma forse in un normale cimitero di paese la sua solitudine di defunto e la mia solitudine di visitatore transitorio sarebbero state compensate da altre
solitudini, e il virtuale dialogo che instauravo con lui
avrebbe avuto una parvenza di maggiore credibilità,
magari solo per la presenza di una fotografia o di una
cappella in muratura. Qui invece no. Ad eccezione di
una piccola lapide con su scritto il nome, accompagnato dalla stupida e sintetica frase «da qui giunse da qui
partì», non c’era altro, e questa specie di rigore funerario mi faceva sentire a disagio.
Anche quel giorno provai la stessa cosa, ma a differenza di altre volte sentii che accanto al disagio c’era anche
un misto di astio, di risentimento, d’irritazione perché lui,
dal suo confortevole aldilà, non poteva dirmi più niente
sull’incontro avvenuto a Eurano; e dunque mi negava non
soltanto la possibilità di accertare la sua presunta innocenza, ma anche, in caso di colpevolezza, di darmi una
giustificazione che fosse almeno per me – moralmente, se
non civilmente – accettabile. Ma chi era davvero mio padre? Come aveva fatto, col suo carattere così schivo e apparentemente poco intraprendente, a creare dal nulla una
tra le aziende agricole più importanti d’Italia? E poi, perché mi aveva raccontato sempre poco del suo passato,
perché la sua ossessione di guardare avanti, guardare sempre avanti, per finire poi sotto un vecchio albero di castagno dove nessuno lo andava mai a trovare?
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Mi avvicinai alla piccola lapide con cautela, quasi
con devozione, lasciando che i pensieri fluissero liberamente. Poi mi piegai, sfiorai la superficie del marmo
con le dita. Era la prima volta che mi ponevo queste
domande, e il fatto di non essermele mai poste, e aver
sempre dato tutto per scontato, quando invece il mondo non faceva altro che inviarmi segnali enormemente
più contraddittori, mi sembrò un atto di enorme ingenuità. E anche di enorme distrazione. Ma forse era proprio questo il punto: la distrazione. È che il mio destino, a pensarci bene, era stato programmato da mio padre in ogni minimo dettaglio, e io, il suo unico figlio, lo
avevo accolto fin da bambino senza mai contestare nulla, senza mai pensare a una possibile alternativa. Il mio
destino era sempre stato quello: gestire l’azienda agricola con lui, e poi, dopo la sua morte, senza di lui.
Ma chissà, mi chiesi mentre accarezzavo i caratteri di
bronzo che componevano il suo nome, chissà se lui, mio
padre, Vittorio Vinciguerra, il Dottore, come lo chiamavano in paese, sebbene avesse soltanto il diploma di
perito agrario, chissà se aveva previsto la possibilità che
un giorno, per colpa di un vecchio filmato di pochi secondi, suo figlio avrebbe iniziato a dubitare di lui?
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Indice
IL PRIMO UOMO
Il televisore Brionvega
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L’AZIENDA
La lampada Jasper Morrison
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LA CITTÀ DI ADAMO
Te quiero calado,
ovvero il tappeto Agatha Ruiz de la Prada
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IL SOLE CONTRO
Gravity Balans
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LA PROVA DI DIO
Il divano Boa
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Ringraziamenti
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Finito di stampare
nel mese di gennaio 2011
da Grafica Veneta SpA
Trebaseleghe (Padova)
per conto di
Fazi Editore
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