IL LIBRO DI
ESTER
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særkærparken 144 · POST­
BOKS 1283
DK-7500 HOL­
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BRO · DENMARK
TEL. +45 9742 4777 · FAX +45 9741 0482
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Holstebro · April 2007
odin teatret
IL LIBRO DI ESTER
Dedicato a mia madre
con
Iben Nagel Rasmussen
Elena Floris
Testo e regia: Iben Nagel Rasmussen
Arrangiamento musicale: Anna Stigsgård e Uta Motz
Tecnica: Tony D’Urso
Filmati: Halfdan Rasmussen e Jan Rüsz
Photo: Jan Rüsz e Morten Stricker
Montaggio dei film: Torgeir Wethal
Spazio scenico: Knud Erik Knudsen
Grafica: Rina Skeel
Consigliere alla regia:Eugenio Barba
Quando nel 2003 mia madre, a 85 anni, sprofondò nella demenza senile e fu ricoverata in una casa per anziani, decisi di portare a termine lo spettacolo che
avevo cominciato ad abbozzare: il racconto della sua vita.
Nell’ambiente chiuso, ovattato e confortevole di un ospizio, madre e figlia dialogono. L'azione fisica è minima. Parole ripetute e ricordi ostinatamente rievocati
fanno trapelare i sogni, le conquiste e i naufragi della vita di Ester. Le canzoni di
una lontana giovinezza e i filmini di famiglia ripercorrono mezzo secolo di vicende personali, tra gli avvenimenti storici che scossero la sua generazione..
La storia di mia madre è anche una riflessione sull'invecchiare oggi in Danimarca, sulla solitudine e sul distacco. Nessuno nasce vecchio.
Ho voluto prolungare la voce di mia madre.
Io sono il "Libro di Ester".
Odin Teatret: Patricia Alves, Eugenio Barba, Luciana Bazzo, Kai Bredholt, Roberta Carreri,
Jan Ferslev, Mia Theil Have, Adrian Jensen, Søren Kjems, Tage Larsen, Else Marie Laukvik,
Sigrid Post, Fausto Pro, Iben Nagel Rasmussen, Francesca Romana Rietti, Oscar Alonso Sanchez, Pushparajah Sinnathamby, Rina Skeel, Ulrik Skeel, Nando Taviani, Trine Schjær Thomsen, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther e Mogens Øgendahl.
Un ringraziamento a Klezmerduo e Claudio Coloberti.
Coproduzione: Fondazione Pontedera Teatro/Fondazione Fabbrica Europa
e Nordisk Teaterlaboratorium.
Iben Nagel Rasmussen
I sentieri nascosti de Il libro di Ester
“L’abbiamo fatto di proposito”, ha scritto mia madre in quello che lei stessa
chiamò Il libro del seme. Quello che “avevano fatto di proposito”, nove mesi prima
della fine della seconda guerra mondiale, ero io.
Il libro del seme è una lunga missiva per la bambina che portava in seno, una
sorta di diario in cui i pensieri gravitano intorno alle aspettative per la maternità
imminente, mentre gioia e speranza cozzano, letteralmente, contro la guerra che sta
subito fuori dalla porta di casa.
Nelle fotografie e nei ritagli di articoli che mia madre ha conservato, la
guerra è onnipresente, in tutto l’orrore di quotidiane esecuzioni di partigiani. Ci
sono immagini del grande sciopero popolare di Copenhagen, e la descrizione del 5
maggio 1945, il giorno della liberazione della Danimarca dai tedeschi.
Mia madre Ester era una scrittrice. Quando sono diventata adulta, le proposi
di pubblicare Il libro del seme. Rifiutò. Temeva che la qualità letteraria non fosse
all’altezza, oppure non voleva essere bollata come una tipica scrittrice “al femminile”, concentrata su piccole cose?
Il libro del seme è un documento unico: una donna incinta, durante la guerra,
accudisce un appartamentino di due stanze al quinto piano e scrive all’embrione
nel suo ventre descrivendo la vita di ogni giorno, i sogni sul futuro, il terrore di
morire prematuramente.
Il tema e i materiali hanno atteso a lungo. Ero davvero sicura di voler fare
uno spettacolo su mia madre? Di voler estrarre i fili della sua voce e i brandelli
della sua storia dal buio in cui sembravano essere stati sepolti?
La domanda, in realtà, non è stata se farlo, o perché farlo, quanto piuttosto:
come mettermi all’opera?
Tony D’Urso
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A Holstebro nel 1999, in occasione dei trentacinque anni dell’Odin Teatret,
si tenne un simposio internazionale dal titolo “La conoscenza tacita”. A me fu
chiesto di preparare un intervento su questo tema: cosa significa “insegnare”,
trasmettere le proprie esperienze o assumersi, senza saperlo, la responsabilità di
una influenza?
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Provai a ricostruire pubblicamente una situazione in cui, senza dare spiegazioni, “passavo” il mio training a Sandra Pasini, mia allieva da molti anni. La
trasmissione si svolgeva in silenzio, attraverso la semplice imitazione - solo raramente accennavo a qualche punto di riferimento, o a qualche principio. Presentammo tutta l’evoluzione del passaggio del training, dagli inizi fino alla fase in cui
Sandra era ormai in grado di inventare e sviluppare i propri esercizi da sola, e di
scoprire diverse qualità di energia.
Mostrammo il “corpo a corpo” tra insegnante e allievo che io stessa avevo
sperimentato nei primi anni all’Odin Teatret, e che ancora oggi pratico nel training
vocale con i risuonatori. Poi mostrai alcune sequenze del mio training, facendo notare come nel nostro corpo si depositino, sotto forma di conoscenze tacite, anche
certe esperienze della nostra infanzia. Ricordo, per esempio, la moda di giocare
con il cerchio dell’hoola hop nel cortile della scuola. Non toccavo un cerchio da allora, ma bastò una mezz’oretta di prova e subito il mio corpo ricordò tutte le variazioni: come fare ruotare il cerchio dell’hoola hop intorno alla vita o al collo, come
lasciarlo scivolare lungo un braccio, in rapidi movimenti, o farlo volteggiare con
le ginocchia.
C’erano altre forme nascoste – tacite – nella memoria del mio corpo che
potevano aver influenzato il mio training, o il mio modo di agire in scena? C’era,
per esempio, un ritmo speciale, che ritornava sempre, sia nel mio training che nel
modo aritmico con cui suonavo il tamburo nelle parate e negli spettacoli di strada
dell’Odin: stop, pausa, suspence. Forse era solo una fantasia, eppure avevo
l’impressione di riconoscere, in esso, il suono e il ritmo della macchina da scrivere
di mia madre: ci cullava, mio fratello e me, mentre ci assopivamo, mentre dormivamo o sognavamo. Avevo l’impressione che persino le pause di quel suono non
fossero semplici “buchi vuoti”, ma che fossero invece sature di attività mentale,
che conservassero la stessa intensità del rumore dei tasti sulla carta e sul rullo.
Avevo chiesto anche a mia madre di partecipare alla dimostrazione. Lei, allora, abitava in quella parte della foresteria dell’Odin Teatret che chiamiamo
“Pavillon”. Alla fine del mio intervento, lesse la prima pagine de Il libro del seme.
E subito divenne evidente quel che si celava dietro i battiti e le pause concentrate
che avevo sperimentato nella mia infanzia.
Prima di iniziare la lettura, che si svolse senza il minimo incidente, alla camicia di mia madre era stato attaccato un microfono. Quando alla fine si alzò, e si
tolse gli occhiali per riporli, urtò nel filo del microfono e li fece cadere a terra.
“Non sono una attrice -reagì subito- sono solo un vecchio clown!” – e i presenti
scoppiarono a ridere.
Nel 2001, partecipai a Le città invisibili, un grande progetto del Teatro Potlach in collaborazione con l’Odin Teatret, durante la “festuge” (settimana di festa)
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di Holstebro. Le città invisibili include decine e decine di mini-spettacoli, scene,
avvenimenti, situazioni improvvisate, tableaux vivants che trasformano radicalmente e magicamente un quartiere. Comprende di tutto: un orso polare che pesca
da una zattera sul fiume, bambini che si applicano a faticosi esercizi di danza classica tra le macchine di un garage, o un’intera piazza animata da balli di società in
coppie. Il compito che avevo ricevuto io era quello di star seduta su un autocarro
militare. Per quale motivo mi trovassi lì sopra, e quindi come dovessi comportarmi,
lo dovevo decidere io.
Immaginai di essere una profuga di guerra. Una donna anziana, che è stata
presa a bordo da un camion militare. Oppure che si ritrova su un automezzo abbandonato?
Sul piano di carico, che era coperto, arrangiai un “salottino” alla buona: una
lampada, una poltrona, una cassa piena di oggetti domestici e qualche foto. Una
di queste, incorniciata, era una immagine di mia madre da giovane. La profuga
leggeva ad alta voce Il libro del seme. Pensavo che un profugo perde anche identità e radici, oltre alla casa e alla famiglia.
Quando la gente passava davanti al camion militare, o si fermava, incuriosita
dal mio salottino, interrompevo la mia lettura: guarda! Non sono solo quello che
vedi. “Profugo” è soltanto una parola. Io, invece, ho un passato, una casa, una
famiglia. Per visualizzare queste parole non pronunciate, consegnavo ad ogni passante un foglio di carta. Da un lato c’era la foto di mia madre da giovane, dall’altro la prima pagina de Il libro del seme.
Ero sulla strada per un nuovo spettacolo?
Nel 1949, decisamente in ritardo, i miei genitori fecero il loro viaggio di
nozze, a Parigi. Avevano risparmiato a lungo. Ester aveva seguito dei corsi serali
di francese, e per mio padre Parigi era la città delle città. Avrebbero condiviso il
viaggio della loro vita.
Non furono però la Torre Eiffel, la Senna, o il Louvre a conquistare il cuore
di mio padre, ma una cinepresa da 9 mm esposta in una vetrina. Sin dal primo
giorno cominciò ad adocchiare questo prodigio con occhi d’innamorato, e quando
anche il secondo e il terzo giorno continuò a restare incollato alla vetrina, mia
madre non poté fare a meno di dire: “D’accordo, comprala”. Il che avvenne all’istante, con la conseguenza che il ritorno fu anticipato, e che mia madre non poté
praticare il suo francese.
Mio padre si rivelò un eccellente fotografo, con un istinto naturale per la
composizione, il ritmo, le inquadrature drammatiche. Adorava Ejzenštejn.
Conservo ancora i suoi film. Forse avrei potuto utilizzarne qualche frammento per
riportare in vita le immagini di quel periodo, per far rivivere la giovanissima Ester,
per evocare le strade senza traffico, e una campagna in cui animali di tutti i tipi
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venivano attaccati all’aratro e alla trebbiatrice per legare i covoni. Che filo potevo
inventare per legare assieme le scene dei film? Come mettere insieme Il libro del
seme e la storia di mia madre. E io, come attrice, cosa avrei potuto fare?
Lina Della Rocca, del Teatro Ridotto di Bologna, mi aveva sentito parlare di
questo spettacolo quando era un semplice abbozzo. Durante un soggiorno all’Odin
Teatret aveva incontrato il fotografo Jan Rüsz, che avevo chiamato per filmare mia
madre nel giardino del Pavillon, dietro il teatro, e aveva visto Torgeir (Wethal) selezionare e montare alcune sequenze dei film a 9 mm di mio padre. Mi propose di
presentare il mio abbozzo come un work in progress al Teatro Ridotto.
Avevo poco tempo. Che fare? Potevo mescolare le vecchie immagini in
bianco e nero di mio padre a quelle nuove, a colori, di mia madre anziana. Potevo
leggere qualcosa da Il libro del seme. Potevo raccontare fatti di allora, aneddoti di
famiglia, episodi di vario tipo. E come attrice, che fare? Ah, sì. Scene dei vecchi
spettacoli dell’Odin Teatret, personaggi già esistenti: per esempio il Trickster di Talabot, con i suoi fili rossi e con il suo figlio di sabbia, che avevo già utilizzato in
diverse altre occasioni. Vi aggiunsi anche la scena di Mythos in cui Medea strangola i propri figli. E presentai questo primo schizzo a Bologna, nel 2003.
Riflettendoci sopra a posteriori, mi resi però conto che la struttura ricordava
un po’ troppo Itsi Bitsi. Anche quello spettacolo si basava su una biografia, con
testi personali, ricordi, sequenze e personaggi di precedenti spettacoli. Cominciavo
ad avere a noia questa me attrice che ripeteva all’infinito sempre le stesse scene.
Che potevo fare di nuovo?
Julia (Varley) mi chiese di presentare i materiali di Bologna durante il Transit Festival del gennaio 2004, a Holstebro. Acconsentii, ancora una volta senza
sapere cosa avrei presentato. Mancavano i dialoghi, ci voleva un testo più corposo.
Nel frattempo, mia madre era stata ricoverata in una casa di cura per anziani in
stato di demenza senile avanzata.
Le nostre conversazioni erano commoventi, grottesche e tragi-comiche
assieme, con lei che insisteva a voler lasciare l’ospizio per venire ad abitare a casa
mia, magari in una roulotte in giardino. Buttai giù un dialogo partendo da queste
conversazioni, scelsi dei frammenti da Il libro del seme, e vi aggiunsi qualche ricordo di infanzia. Il primo abbozzo di montaggio testuale era pronto.
Non mi passò neppure per la testa di fare uno spettacolo da sola. Io e i materiali che avevo raccolto avevamo bisogno di un partner, che ci portasse qualcosa di
imprevisto. Chiesi ad Anna Stigsgaard, che era assistente alla regia per Il sogno di
Andersen, ed è una brava violinista, di suonare il violino durante la proiezione dei
film, un accompagnamento che ne seguisse il ritmo, come accadeva nei vecchi film
muti. La collaborazione con Anna fu decisiva per il work-in-progress. La sua peri-
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zia musicale, la sua età (potrebbe essere mia figlia), e soprattutto la sua esperienza
di vita, così diversa dalla mia, portarono allo spettacolo la freschezza che cercavo.
Sparì la tentazione di ripiegarmi su vecchie scene e personaggi già creati.
Sparì anche l’idea di una espressione fisica vigorosa.
Prima di presentarlo al Transit Festival, invitammo Eugenio a vedere il nostro montaggio e a darci una mano. Lavorò con noi solo pochi giorni, ma consigliò
cambiamenti e propose idee e – come già tante altre volte – grazie a semplici
soluzioni le scene acquistarono coesione e coerenza.
Il libro di Ester è uno spettacolo o un racconto? La sua essenzialità, la rinuncia a teatralizzare, costituiscono la sua forza, o sono il risultato della stanchezza di
una vecchia attrice nei confronti della propria professione e di se stessa?
Che importanza hanno domande come queste se la storia vuole, e può, essere
raccontata, e se qualcuno ha voglia di ascoltarla?
Ryde, giugno 2005
Morten Stricker
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ESTER: C’è un sacco di fango.
ELENA: Sì – ma in primavera pianteranno erba e fiori.
ESTER: Hmmm… Fiori. Erba.
IL LIBRO DI ESTER
Iben entra, siede a un tavolo su cui sta una macchina da scrivere. Scrive…
Si ferma, guarda gli spettatori:
IBEN:
Da dove viene mia madre?
Da dove viene tua madre?
IBEN (con la voce di ESTER): Ecco la mia macchina da scrivere. È una Erika. Me
la regalò mio padre. La pagò a rate, sei rate, cinquanta corone a volta. Erano tanti
soldi, allora – nel 1937.
Sì – ci ho scritto per anni. Romanzi, novelle, radiodrammi.
Strappa un foglio dal calendario
ESTER: Il fumo è proprio affascinante, no?
Dà fuoco al foglio come se fosse una sigaretta.
ESTER: Primo giorno.
Ester strappa un foglio dal calendario.
ESTER: Secondo giorno.
Non hai una stanzetta a casa tua, con un po’ di spazio per me? Potrei anche vivere
in una roulotte, in giardino. Non darei fastidio.
ELENA: Sì mamma. Ma per ora sei qui. E io sono quasi sempre in giro, con il
teatro, lo sai. Non ci starebbe nessuno, con te.
ESTER: Neanche qui c’è nessuno.
ELENA: Ma sì che c’è. Le infermiere sono tanto gentili.
ESTER: Sì ma non c’è nessuno che mi conosce.
ELENA: Mamma, te l’ho già detto, quasi tutti quelli che conoscevi sono morti.
ESTER: Potrei avere un cane.
ELENA: E come faresti a occupartene?
ESTER: Un cane da guardia. Starebbe davanti alla roulotte.
ELENA: Fa freddo in una roulotte, d’inverno.
ESTER: Si potrebbe mettere una stufa.
ELENA: Farebbe freddo comunque, e poi come faresti con i tuoi sonniferi, chi te
li ricorderebbe? Sai benissimo che non riesci a dormire, senza pillole.
ESTER: Senti – non c’è una stanzetta, a casa tua, dove potrei stare? O trasferirmi
in una roulotte. Non darei fastidio.
ELENA: Certo, mamma. Troveremo una soluzione quest’estate, quando farà un
po’ più caldo.
Primo filmato.
Immagini di un incontro di scrittori.
Entra Elena (come Iben)
ESTER: Che posto è questo?
ELENA: (come Iben): È una casa di riposo, mamma.
ESTER: Un ospizio per vecchi, insomma. Così, questo è il posto dove rimarrò
finché muoio.
ELENA: Ma dài, mamma, è un appartamentino piacevole.
ESTER: Hmmm... l’anticamera della morte.
ELENA: Guarda, hai tendine dorate, e una poltrona nuovissima. Abbiamo sistemato il tavolo di fronte alla finestra, così puoi vedere gli alberi. Guarda quanto
sono belli nella luce autunnale.
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ESTER: Incontrai Halfdan per la prima volta a Copenhagen al Club dei Giovani
Artisti. Ci sposammo tre anni dopo, il 9 aprile del 1944, l’anniversario del giorno
dell’invasione tedesca, quattro anni prima.
Immagini di un rifugio antiaereo a Rådhuspladsen, a Copenhagen.
ESTER: Erano tempi folli per fare figli, non c’è dubbio, ma anche tempi che
facevano appello alla voglia di vivere. Più vedevamo morte, miseria e follia, più
agognavamo vita, salute, normalità. Amavamo la vita, e la desideravamo con
un’intensità famelica. Non sapevamo se un giorno una pallottola ci avrebbe colpito
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alla gola, se il piombo fosse già fuso e stesse passando di mano in mano per porre
fine alla nostra vita. Eravamo diventati ottimisti, adoratori del sole, proprio perché
il cielo era così basso e greve di nuvole.
Immagini di Ester incinta.
ESTER: L’avevamo fatto di proposito, perché ne avevamo voglia, perché ne sentivamo l’urgenza, e quando ci siamo riusciti, dopo aver fatto cilecca un paio di
volte, sembrava incredibile! Era talmente comica e sorprendente l’idea di andare
in giro con dentro di sé il germe di un essere umano, un bambino che un giorno
crescerà, diventerà indipendente, e dirà “i miei vecchi” parlando di Halfdan e di
me.
Iben e Elena cantano:
Buio ovunque. La paura di morire
Una notte diventò carezza: un piccolo seme, il divenire.
Il mondo era là fuori. Notte. Qualcuno gridò.
Ovuli e sperma insieme: un piccolo seme in cammino.
ELENA: Mamma?
ESTER: Sì?
ELENA: Leggimi qualcosa.
ESTER: Cosa vuoi che ti legga?
ELENA: Il Libro del Seme. Leggimi qualcosa dal
Libro del Seme.
ESTER: Il Libro del Seme. Il diario che scrivevo
per te quando ancora non eri nata. Lasciami vedere…
20 febbraio 1945. Quarto anno di guerra.
“Il mondo, in questi tempi, è veramente
sottosopra. Quando torneremo in città,
probabilmente non ci sarà né luce né gas.
Non c’è quasi più carbone nell’intero
regno di Danimarca.
Ci sono pochi treni, luce e gas sono
razionati, mancano le patate,
non c’è niente, a parte
incertezza e spari.
Piccolo seme, sangue del nostro sangue, essere vivente,
Ciecamente hai accolto i sogni di tante ore.
Quieto come un sussurro vai crescendo
Prima sei un piccolo seme in grembo a tua madre
Poi spezzerai il cordone, piccolo seme.
Sarai bambina? Sarai bambino?
Avrai gli occhi blu o li avrai scuri?
Sarà lo stesso il cielo che vedrai.
Se il mondo intero soffoca in vesti strette
Conserva la libertà nel tuo respiro.
Muori, piuttosto di piegarti come schiavo.
Nessuna forza, piccolo seme, può incatenare la vita.
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Primo marzo 1945.
Ecco qui un fiorellino, un bucaneve, per indicarci
che la primavera sta per arrivare. Sarà un po’ appassito prima che tu sia in grado di apprezzare i
bucaneve, semino mio, e di rallegrarti alla loro
vista. Ma penso che deve stare nel libro, come un
minuscolo simbolo di ottimismo.
Vedremo un po’ se una volta tanto l’ottimismo
sarà ricompensato.
Canzone:
ELENA (in danese):
Ci hanno legato bocca e mani
Ma non possono legare il nostro spirito
Nessuno è prigioniero se il pensiero è libero.
In noi c’è una fortezza
E il suo valore si rafforza
Se lottiamo per quello che ci è caro.
ESTER: 23 marzo 1945.
Stamane Halfdan è andato presto in città per partecipare a un incontro dell’Associazione scrittori…
Ho appena saputo che la situazione è terrificante, con spari dappertutto, senza
che nessuno capisca più chi sta sparando a chi.
Ieri c’è stato un attacco aereo alleato. Il palazzo della Shell, la casa degli ingegneri, l’Istituto Tecnologico e altri edifici sono stati colpiti e distrutti.
Quando Halfdan va in città, e si avvicina la sera, e so che il treno è arrivato,
non riesco più a restar calma, fino a che non sento in giardino il suo segnale:
“Kuk-kuk! Kuk-kuk!”. Allora tutto ritorna sicuro e familiare.
Immagini di Berlino caduta.
ESTER: 5 maggio 1945.
Così, è finalmente finita con la razza dei signori.
C’è una gioia senza fine, e nelle strade membri della Resistenza schizzano su
ogni tipo di strano veicolo, con elmetti d’acciaio e una fascia al braccio, a
caccia di collaborazionisti da arrestare e sottoporre a giudizio. Ci saranno
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pene di morte per quei farabutti che in cambio di soldi o altri vantaggi hanno denunciato uomini e donne ai Nazisti, condannandoli ai campi di concentramento,
alla tortura, alla fame, a trattamenti inumani.
Pace. Piccolo seme, ti rendi conto cosa vuol dire questa parolina? Non aver più
paura di razzie a casa, niente più bisogno di tener la bocca chiusa su quel che pensi
e senti, non essere in ansia per la sorte degli amici e compagni presi dalla Gestapo
e deportati al Sud. Oh sì, mio piccolo seme, pace è una buona parolina, e se qualcuno cercherà di dirti che la guerra è un valore, qualcosa di grande e di eroico, di
romantico ed eccitante, guarda che ti sta mentendo come mai nessun altro.
Sequenza di immagini di un uomo che suona una fisarmonica in una strada con
falò – gli ultimi giorni di guerra.
IBEN:
Mia madre apparteneva a una generazione di donne rinchiusa nel suo
ruolo di madre di famiglia. In Danimarca, durante l’occupazione tedesca, uomini e
donne, in piccoli gruppi clandestini, combatterono insieme contro i Nazisti. “Eppure – diceva mia madre – cosa avvenne dopo? Abbiamo ricominciato a servire tè
agli uomini che discutevano il destino del mondo, a rammendare, cucinare, tirar su
bambini. Eravamo libere solo dopo le otto di sera”.
Solo di notte mia madre poteva sedersi a scrivere, e dopo che noi, i suoi figli, ce ne
andammo di casa, la vidi diventare dura e amara. Dopo tanti anni di pazienza e di
gentilezza, saltò fuori all’improvviso la rabbia, a lungo nascosta e repressa. Per
troppo tempo non aveva potuto realizzare quel che voleva. Quando vidi mia madre
così cambiata, non la riconobbi più, e mi fece paura. Quando scoprii in me la stessa
tendenza, dissi: no. Anche se fa male, anche se può ferire gli altri, preferisco vivere
il dolore sul momento. Non voglio che si accumuli in un angolo e mi attenda alla
fine della vita.
ESTER: Giorno tre.
Dimmi, abiti qui vicino?
ELENA: Sì, proprio vicino.
ESTER: Che bello che hai trovato il tuo “posto”!
ELENA: Sì, è una fortuna.
ESTER: Mi domandavo se potevo trasferirmi da te – oppure mettere una roulotte
in giardino…
ELENA: Ma mamma – chi si prenderebbe cura di te? Io sono via per metà dell’anno!
ESTER: Potrei avere un cane.
ELENA: E che faresti per le pillole? Chi te le darebbe?
ESTER: Oh! Me la caverei.
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Non pensi che ci sia una stanzetta da te? Non disturberei.
ELENA: Sì mamma, sì. Quest’estate, quando farà un po’ più caldo.
ESTER: Quarto giorno.
Lo sai, ho un vecchio sogno: un viaggio a piedi dalla cima della Danimarca fino al
confine con la Germania e poi attraversarla da costa a costa. Mi porterei la
macchina da scrivere.
ELENA: Ma mamma, pensi davvero di poter camminare così tanto? È un viaggio
lunghissimo.
ESTER: Può darsi – non voglio farlo proprio ora, vediamo un po’ come si mettono le cose. A ogni modo, se tu avessi posto a casa tua…
Inizia il secondo film.
IBEN:
Vesterbro, il quartiere operaio di Copenhagen; Virum, nei sobborghi
della città; Ølstykke nella campagna vicina: sono posti che non ricorda più.
Il violino accompagna le sequenze del film.
Il buio era vivo.
Nelle tarde ore della notte mio fratello e io li potevamo sentire parlare piano, o scrivere.
Il suono della macchina da scrivere – il battito dei tasti contro la carta e il rullo –
era la nostra ninnananna.
Con le sue pause – dense di pensiero – tra parole e frasi, diventava un ritmo calmo,
riposante: la voce confidente della notte.
Didascalia in danese.
Uscivano insieme solo di rado, ma una sera andarono a una festa di carnevale al
Club dei Giovani Artisti. Ci fece da babysitter la nonna.
Eravamo a letto quando vennero a mostrarsi nei loro costumi fatti in casa.
Mamma si era travestita da corvo, con una frusciante gonna di taffetà e grandi ali
nere. Papà da folletto, con una luce nell’alto cappello a punta. Erano fantastici...
Tornarono di notte attraverso il sentiero del giardino, chiacchierando con la nonna.
Il grande geranio, raccontavano, era fiorito, e splendeva nel buio, con petali imperlati di rugiada.
È l’immagine esatta di mia madre in quegli anni: un fiore sbocciato in tutto il suo
vigore, su un fondo nero.
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Didascalia danese.
No, non ricorda più. Ha dimenticato anche la casetta dal tetto di paglia a Ølstykke.
“Viviamo della fertilità della terra”, proclamava, mentre lavorava nella cucina
fredda, con indosso un cappello da sci coi copriorecchi (soffriva di otite).
Kaspar, il gatto siamese che aveva regalato a papà per il suo compleanno, amava
starle sulla spalla o sul cappello, mentre lei, curva sopra la grande cucina a legna,
rimescolava in pentole e tegami, e sistemava gli anelli di ferro sul fuoco. Impastava il pane, preparava conserve, sottaceti, marmellate che travasava in vasi e
barattoli, che allineava in scaffali senza fine.
Ølstykke, la campagna, per noi bambini era l’Africa. Grandi insetti volavano nella
notte, enormi uccelli battevano rumorosamente le ali sopra di noi, mentre ci recavamo alla fattoria vicina a comprare il latte. Vi erano serpenti, e prugne e nocciole – e carote. Che non crescevano, come pensavamo, sugli alberi, ma che papà estraeva dalla terra. E poi – funghi smisurati, le palle di lupo che un giorno zio
Joergen trovò in un campo. “Guardate bambini, –si mise a gridare – ho trovato un
mucchio di uova di mucca”. Noi corremmo giù per la strada polverosa, urlando:
“Mamma, mamma, zio Joergen ha trovato uova di mucca!”.
Ma fu a Saunte che lei trovò la sua casa, il posto della sua famiglia. Il solo posto
che ricordava e chiamava casa, anche se l’aveva lasciato, dopo il divorzio, trent’anni prima.
Fine del secondo film. Ester strappa un foglio dal calendario e lo brucia.
ESTER: Quinto giorno.
Il mio libretto di banca è sparito. Qualcuno deve averlo preso.
ELENA: Mamma, non credo. Una delle donne l’avrà messo nella cassaforte.
Sono sicura che è andata proprio così.
ESTER: Mi piacerebbe sapere quanti soldi ho. Potremmo comprarci una casa
dove poter vivere tutti insieme.
ELENA: Sì, certo. Ma non credo di volermi trasferire proprio ora, mamma. Abbiamo già una casa?
ESTER: E i libri? Non ne vuoi un po’? Quelli di Troels Lund sono proprio buoni.
Li vuoi? E il comò con i cassetti. Guarda, è completamente vuoto.
ELENA: Grazie, no, non ora. Potresti aver bisogno dei libri e del comò.
ESTER: Non posso portarmi dietro così tanto quando ritorno.
ELENA: E dove ritorni?
ESTER: Nello Sjælland – com’è che si chiama?
ELENA: A Saunte?
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ESTER: Certo, a Saunte.
ESTER: Sesto giorno.
Non darti troppo da fare. I quadri… le foto. Non star lì a piantare chiodi nel muro…
Tra poco me ne torno nello Sjælland.
ELENA: Ma mamma, tu lì non conosci nessuno.
ESTER: Anche qui non conosco nessuno.
ELENA: Conosci me.
ESTER: Sì, certo.
Il mio libretto di banca è sparito. Non è nella borsa. Me l’hanno portato via.
ELENA: No, non credo. Ci penserò io.
ESTER: Mi pare che stai bene qui.
ELENA: Sì, mamma, sto bene.
ESTER: Sono così contenta che tu abbia trovato il “tuo” posto.
Canzone (in danese)
La vita è un momento
Buono e cattivo.
Se credi o speri
Sei deluso.
Le lancette della vita girano
Ci incontriamo e ci separiamo
Prima un dolce e piacevole gioco
E poi ognuno per la sua strada.
Adesso ti ho lasciato
Anche se ti voglio bene
Per questo ti dico
Se tu dimentichi, io ricordo ogni parola
Tutto è crollato, ma non fa niente
Ho il diritto di ricordare i ricordi
Tu non potrai mai prendermeli.
Ester strappa dei fogli dal calendario e li brucia.
ESTER: Settimo, ottavo, nono, decimo giorno. Giorni, giorni, giorni…
La mia testa. Mi pare di diventare scimunita. Non riesco più a capire dove appartengo.
ELENA: Perché tu non appartieni a nessun luogo, mamma. Sei una vecchia zingara. Hai vissuto in così tanti posti – perfino nella roulotte di Tom.
ESTER: Tom? Mio figlio? Quando vado via – quando sparisco – prendi la scrivania. È completamente vuota... E i libri. Non scordarti i libri.
Terzo filmato. Ninnananna.
IBEN:
Ti chiamo, amore
E guarda – le mie mani sfiorano
Come ombre il tuo seno bianco
E i tuoi capelli neri.
Steso sulle candide ginocchia della vita
Cerco la tua bocca.
Sotto di me irrompe la luce
Dall’aiola dei tuoi occhi.
In ginocchio nell’erba della notte
Vivo questo istante.
Ti chiamo, amore
E ti incateno a un seme.
Il freddo vaga cieco nella notte
Domani comincerà il disgelo.
Il seme vive e cresce.
E l’albero morirà.
Ricordi le gioie che scoprimmo insieme
E i pensieri che ci univano
Ho contato ogni ora.
Se tu dimentichi, io ricordo tutto.
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Eugenio Barba
Il regalo di Ester
Cara Iben,
quando tua madre venne ad abitare all’Odin, nel “pavillon” del teatro, a volte ci incontravamo nei corridoi. Dal modo in cui mi salutava potevo misurare lo stato della
mia temperatura. Si accorgeva subito, al primo sguardo, delle condizioni del mio
umore. Negli ultimi anni smise di riconoscermi, se mi rivedeva dopo una lunga assenza. Anche mia madre a volte non mi riconosce più. La vecchiaia le allontana.
Ma nel dolore per l’inevitabile distacco brilla una scintilla di luce: le vediamo
come se fossero senza di noi, prima di noi, non più, e quindi non ancora, madri.
Come se fossero le bambine che non abbiamo conosciuto, prima che del nostro
seme nutrissero non solo il germoglio, ma l’idea. Ritornano ad essere sole, loro la
cui vita è stata a lungo occupata dalla nostra esistenza. E ci lasciano soli, anche
quando siamo già avanti negli anni.
Di questa naturale stortura tu hai fatto uno spettacolo sommesso e gioioso, senza
sentimentalismi e senza cinismi. Te ne sono grato. Per questo ho accettato, per la
prima volta, di non essere il tuo regista. L’ho chiamato “spettacolo”. Tu ed io sappiamo che è un’altra cosa. Ma è giusto tacerla, nutrendosene ciascuno con le sue
parole. Non tutto si può scambiare.
Fu giusto che Ester venisse ad abitare all’Odin Teatret. Tu sei un suo regalo. Dal
poco che tu e lei m’avete a volte raccontato, ho capito che fu Ester a spingerti ad
entrare in contatto con noi, molti anni fa, quando tu eri poco più che un’adolescente, sull’orlo della nausea nei confronti della vita. Tua madre non nutriva nessuna passione per il teatro, amava la scrittura. Seppe cogliere in te la scintilla d’un
interesse di cui voleva che tu raccogliessi la sfida. Sei stata un’attrice difficile.
Posso solo immaginare, io che di figlie non ne ho avute, che figlia difficile e angosciosa hai potuto essere.
Negli ultimi anni, Ester era diventata magrissima. Sembrava che la vita l’avesse
scarnificata. Ora mi chiedo come mai, tu ed io, non abbiamo mai pensato di
ringraziarla insieme. Posso benissimo immaginarmi la scena: un brindisi, tre bicchieri, e la freccia infallibile della sua ironia.
Tony D’Urso
Holstebro, 1° marzo 2006
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Tony D’Urso
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