“Cattolici in politica”
Valori non negoziabili
e dialogo possibile
Padre Bartolomeo Sorge
Villa Elena, Affi (VR)
1
La Fondazione Elena da Persico,
ispirandosi particolarmente al pensiero di
Elena da Persico (1869 –1948), giornalista
e collaboratrice di Giuseppe Toniolo
in ambito sociale, ha, tra i suoi scopi,
“la promozione di iniziative sociali e culturali
per una crescita della società secondo i valori
della solidarietà cristiana”
Con piacere inviamo la relazione
di Padre Bartolomeo Sorge,
docente di Dottrina Sociale e
Direttore
di
Aggiornamenti
Sociali, a quanti hanno partecipato
all’iniziativa della Fondazione e ai
simpatizzanti della stessa.
2
3
“CATTOLICI IN POLITICA”
Valori non negoziabili
e dialogo possibile
Affi, 22 settembre 2007
4
5
Premessa
La crisi italiana negli ultimi tempi si è ulteriormente
aggrovigliata. Non solo non si vede ancora la fine della lunga
transizione, iniziata ormai più di quindici anni fa, ma la
situazione sembra avvitarsi su se stessa, ogni giorno più, con
esiti imprevedibili. Non è possibile neppure fare pronostici,
perché le incognite sono troppe: quanto durerà il Governo
Prodi? Basterà la nascita del Partito Democratico (PD) a dare
equilibrio e stabilità a una coalizione, dentro la quale opera
una minoranza più incline a scendere in piazza che a
governare? La riforma della legge elettorale, che va fatta
assolutamente, sarà tale da garantire la governabilità del
Paese e la normale alternanza tra maggioranza e opposizione,
come si addice a una democrazia matura?
A noi qui, però, interessa soprattutto un altro aspetto
della crisi presente: poiché ai cattolici non è consentito certo
di rimanere alla finestra come semplici spettatori, che cosa
possono e devono fare in una simile situazione? Come si
dovranno muovere? Per rispondere ci rifaremo alle
conclusioni del Convegno ecclesiale nazionale di Verona,
ufficializzate dalla Nota pastorale della Conferenza
Episcopale Italiana (CEI) del 29 giugno 2007. Esse sono
sostanzialmente tre e sottolineano la necessità di una
rinnovata presenza dei cattolici italiani sul piano religioso,
culturale e socio-politico1.
1
Riprendiamo qui, sviluppandola e approfondendola, la nostra precedente
breve presentazione della Nota della CEI (cfr SORGE B., «Chiesa italiana:
una “nuova tappa”», in Aggiornamenti Sociali 9-10 [2007] 569-574). I
numeri tra parentesi nel testo si riferiscono alla Nota della CEI: «Rigenerati
per una speranza viva» (1 Pt 1, 3): Testimoni del grande «sì» di Dio
all’uomo».
6
1. Il grande «sì» della fede
Il punto di partenza di un rinnovata presenza dei
cattolici in Italia deve essere sul piano religioso. Lo esigono i
profondi mutamenti degli ultimi decenni, che hanno messo in
crisi la vita cristiana nei suoi stessi fondamenti. In particolare
– come insiste Benedetto XVI – bisogna reagire alla
tentazione più grave del nostro tempo: al tentativo cioè di fare
a meno di Dio, il quale, «di fronte a tutto ciò che nella nostra
vita appare più urgente, sembra secondario se non superfluo e
fastidioso. Mettere ordine da soli nel mondo, senza Dio,
contare soltanto sulle proprie capacità, riconoscere come vere
solo le realtà politiche e materiali e lasciare da parte Dio come
illusione, è la tentazione che ci minaccia in molteplici
forme»2.
Il superamento di questa tentazione può venire solo dal
grande «sì» della fede, sul quale il Papa fonda tutto il suo
programma pastorale. La Nota della CEI espone così il
pensiero di Benedetto XVI: «Il “sì” che continuamente e
fedelmente Dio pronuncia sull’uomo trova compimento nel
“sì” con cui il credente risponde ogni giorno con la fede nella
parola di verità, con la speranza della definitiva sconfitta del
male e della morte, con l’amore nei confronti della vita, di
ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio» (n. 10).
Proprio per questo – continua la Nota citando il Papa –, i
cristiani, pur consapevoli della fragilità della natura umana e
delle contraddizioni della nostra epoca, riconoscono e
accolgono volentieri tutti i valori autentici della cultura del
nostro tempo: la conoscenza scientifica, lo sviluppo
tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la
democrazia. In una parola, il «sì» della fede non immiserisce
il discorso religioso, non lo riduce a mera catechesi
moralistica, ma lo apre a orizzonti più ampi: «L’incontro con
2
.RATZINGER J. – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano
2007, 50.
7
il Risorto e la fede in lui ci rendono persone nuove, risorti con
lui e rigenerati secondo il progetto di Dio sul mondo e su ogni
persona. […] Non sono le nostre opere a sostenerci, ma
l’amore con cui Dio ci ha rigenerati in Cristo e con cui,
attraverso lo Spirito, continua a darci vita» (n. 5).
Dunque la prima preoccupazione dei cattolici italiani
oggi deve essere quella di ristabilire il primato di Dio,
cominciando da se stessi, attraverso una formazione spirituale
rinnovata che porti all’incontro personale con il Risorto, alla
partecipazione cosciente della sua vita divina. E il Risorto si
incontra, in forma privilegiata, nella Parola di Dio,
nell’Eucaristia, nella Chiesa, nei poveri.
Questo grande «sì» della fede – insiste Benedetto XVI –
è il punto decisivo e primordiale di ogni servizio della Chiesa
al mondo e trasforma i cristiani in seminatori di germi di «vita
risorta», in ideatori dinamici e creativi di progetti che
anticipano nella storia il senso della nuova umanità destinata
alla risurrezione (cfr n. 7). E’ questa l’impronta specifica del
pontificato di Benedetto XVI: una spiritualità profonda,
strutturata anche culturalmente. Di conseguenza, la tappa del
cammino ecclesiale che si è aperta a Verona è da considerare
«nuova», come il Papa l’ha definita, non soltanto in senso
cronologico e storico, ma soprattutto in senso teologico,
spirituale e culturale. Ecco, dunque, la prima preoccupazione
pastorale della Chiesa italiana nel difficile contesto storico
present:.una fede adulta, che non mortifica la ragione, anzi le
è amica, la potenzia e la purifica.
2. La «carità culturale»
Il grande «sì» della fede – «specchio dell’unità
inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore
che si fa servizio generoso e gratuito» (n. 11) – ispirerà una
rinnovata testimonianza della carità, intesa anche come «carità
8
culturale». E’ il secondo orientamento di Verona. E’
significativo che la Nota della CEI, dopo aver ripreso il
discorso sui cinque ambiti dell’esistenza in cui testimoniare il
«sì» della fede attraverso la carità (cfr n.12), fra le
testimonianze di amore più importanti include anche il
«Progetto culturale orientato in senso cristiano», scorgendo in
esso lo strumento per eccellenza di un nuovo incontro tra la
fede e la ragione, attraverso il quale «i credenti possano
mostrare a tutti che “la vita cristiana è possibile oggi, è
ragionevole, è realizzabile”» (n. 13).
Non si può non concordare sul giudizio che il servizio
culturale costituisce una forma di carità di alto profilo; ma i
cattolici italiani oggi sono divisi non tanto sul riconoscere la
necessità del servizio culturale, quanto su come prestarlo.
Infatti, alcuni ritengono che si debba partire dalla
riaffermazione dei valori e dei principi «non negoziabili» per
dialogare «senza complessi di inferiorità con le dinamiche
culturali del nostro tempo» (ivi), proponendosi così di
ristabilire in Italia una forma di leadership culturale cattolica,
dopo la fine di quella politica. Altri invece, senza nulla
togliere alla importanza della testimonianza e dell’annunzio
coraggioso dei valori del Regno di Dio, ritengono che sul
piano operativo si debba partire piuttosto dalla condivisione
disinteressata dei problemi materiali, morali e culturali della
gente, per proseguire insieme gradualmente verso la verità
tutta intera, confidando nell’aiuto dello Spirito Santo che apre
gli occhi della mente e del cuore.
E’ importante chiarire questo rapporto tra dialogo e
testimonianza della carità. Non è solo questione di metodo, se
è vero – come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus
caritas est – che la carità (quindi, anche la carità culturale)
«non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene
indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene
esercitato per raggiungere altri scopi. […] Chi esercita la
9
carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli
altri la fede della Chiesa» 3.
In Italia, infatti, la questione è questa: in una situazione
culturalmente e politicamente frammentata i cattolici sono in
grado, sì o no, di aiutare il Paese a ritrovare la sua unità nel
rispetto della pluralità? Sono capaci, sì o no, di realizzare
insieme con gli altri una mediazione culturale che recepisca
quanto di valido vi è nelle differenti tradizioni, senza chiedere
a nessuno di rinnegare le proprie radici e la propria storia, ma
spingendo tutti ad andare oltre gli anacronistici steccati
ideologici e culturali?
Certamente sì. Non solo i cattolici sono capaci di recare
questo contributo, ma oggi è questo il loro preciso dovere. A
ciò li impegna il grande «sì» della fede, che non è una
categoria astratta («La fede senza le opere è morta», [Gc 2,
26]), ma si traduce necessariamente in testimonianza
disinteressata della carità, anche della «carità culturale» e
della «carità sociale e politica»: offerta non in modo
strumentale, per imporre agli altri una propria visione
confessionale, ma con disinteresse in vista alla formazione di
un ethos civile e laico condiviso, intorno al quale realizzare
l’unità nella pluralità, necessaria a garantire il bene comune.
Detto in altre parole: non basta enunciare i valori
assoluti e i principi «non negoziabili» (i quali devono essere
certamente annunziati e testimoniati), se nello stesso tempo
non ci si impegna a ricercare insieme il bene comune
possibile, il quale passa inevitabilmente attraverso le regole
democratiche del consenso e quelle psicologiche della
gradualità. Infatti – come ha spiegato bene il card. Martini nel
discorso di sant’Ambrogio 1998 –, il bene comune non
consiste in una definizione filosofica astratta, ma va
perseguito concretamente commisurandolo alle reali situazioni
storiche in cui si opera; ciò significa che il suo
3
BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, n. 31c.
10
raggiungimento dovrà passare per il convincimento e la
pazienza, per la progressiva e graduale affermazione dei
valori, talvolta «perfino per dure rinunce nel nome di una
superiore concordia civile e sempre in vista di un bene più
alto»4.
I principi e i valori, cioè, sono sempre in sé «non
negoziabili», ma la loro traduzione storica è soggetta alle
condizioni di tempo e di luogo, al consenso e alla crescita del
costume e della vita politica. «Sembra invece – continua
Martini – che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano
si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la
legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare
al criterio della maggioranza la verifica della verità di un
valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità
nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il
compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a
cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito
all’interno della società»5.
Pertanto, si applica anche all’esercizio della «carità
culturale» ciò che Benedetto XVI dice più in generale
nell’enciclica Deus caritas est: «Il cristiano sa quando è
tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e
lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr
1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui
nient’altro viene fatto fuorché amare»6.
In conclusione, oggi non è più tempo di pensare
all’egemonia di una cultura politica (neppure di quella
«cattolica») imposta sulle altre, ma di realizzare una crescita
comune, che vada al di là delle diverse tradizioni culturali
che hanno fatto l’Italia, aprendole a una dimensione nuova,
senza tagliarne le radici. Nessuna soluzione di mera
4
MARTINI C.M., «Il seme, il lievito, il piccolo gregge», discorso di
sant’Ambrogio 1998, in AS 2 (1999) 164.
5
Ivi.
6
BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, cit., ivi.
11
ingegneria politica potrebbe mai sostituirsi a questa
necessaria crescita culturale, che sola può garantire il retto
funzionamento di una società unita e plurale, grazie alla
«fecondazione reciproca» (l’espressione è di Giovanni Paolo
II) tra culture diverse, destinate ad arricchirsi
vicendevolmente in un superiore «neopersonalismo solidale e
laico»7.
Non è una novità. Si tratta solo di rinverdire e
approfondire lo spirito e la lettera della nostra Costituzione
repubblicana. Sessant’anni fa i Padri costituenti riuscirono a
superare le profonde divisioni ideologiche di allora in nome
del bene comune del Paese, facendo sintesi tra l’attenzione
alla dimensione etica e religiosa (propria del personalismo
della tradizione cattolico-democratica), l’insistenza sulla
solidarietà (propria della tradizione socialista) e la esigenza
di laicità (propria della tradizione liberal-democratica).
Perché noi oggi non dovremmo riuscire ad approfondire
insieme il significato di valori (libertà, uguaglianza,
solidarietà, pace, dignità della persona) che permeano la
nostra Costituzione e di cui oggi conosciamo meglio il
significato dopo 60 anni di vita democratica? Un
«neopersonalismo solidale e laico», in fedeltà e coerenza con
lo spirito della Costituzione, può dunque offrire una base
culturale condivisa, in grado di restituire un’anima etica alla
politica e di farla tornare a essere servizio e ricerca del bene
comune.
Parlare di «neopersonalismo solidale e laico» non è
affatto un discorso astratto e fumoso. Significa invece un
preciso programma di scelte da fare. A partire appunto dal
primato della persona, dalla solidarietà e dalla laicità, si tratta
di ripensare l’esercizio e la tutela dei diritti umani, della
libertà, della legalità; la riforma delle istituzioni; le regole del
mercato e della produzione; lo Stato sociale; la difesa del
7
Cfr SORGE B., «Il “neopersonalismo solidale”», in AS 3 (2007) 169-174.
12
lavoro attraverso l’innovazione e la lotta alla precarietà; il
rifiuto del razzismo e la politica dell’accoglienza e della
integrazione dei flussi migratori; la tutela dell’ambiente; la
dimensione europea e mondiale dei problemi dello sviluppo;
la collaborazione internazionale.
Pertanto, i cattolici – quale che sia la scelta partitica
che decideranno di compiere – oggi sono tenuti a recare un
contributo originale ed essenziale in direzione di questa
sintesi culturale nuova, sia a livello culturale, sia a livello
operativo di testimonianza e di servizio. A questo li chiama il
«sì» grande della fede. Infatti – per citare ancora il card.
Martini –, i cristiani sono portatori di una nativa «sensibilità
comunionale» che li rende capaci di preservare la convivenza
civile «dalle cadute nell’irrigidimento contrapposto»; «Il
cristiano oggi nella città deve interpretare quindi l’alto
compito storico di creare un tessuto comune di valori su cui
possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non
più devastanti. E questo sia in zone proprie di riflessione e di
traduzione antropologica dei propri valori di fede (e una
operazione come questa potrebbe genuinamente interpretare
almeno alcuni aspetti del progetto culturale della Chiesa
italiana), sia facendoli sbocciare dentro i luoghi delle diverse
appartenenze politiche, dimostrando che ci si può occupare a
pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti, non solo con
una attenzione confessionale»8.
Persona e socialità si sviluppano insieme. Ecco perché
la «carità culturale» è vera carità di alto profilo, in quanto si
oppone a una visione riduttiva della persona e della società,
che finisce col corrodere l’uomo stesso, la vita sociale e
politica. Movendo dal riconoscimento della essenziale
uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro
comune trascendente dignità, è possibile elaborare quel
8
MARTINI C.M., «Paure e speranze di una città. Discorso al Comune di
Milano, 28 giugno 2002», in AS 9-10 (2002) n. 8, 695.
13
«neo-personalismo solidale e laico», di cui oggi ha bisogno
l’Italia (e non solo).
3. Un «cattolicesimo di popolo»?
Il grande «sì» della fede dovrà tradursi, infine, in
«carità sociale» e politica. Questo compito – come scrive il
Papa nell’enciclica Deus caritas est – tocca soprattutto ai
fedeli laici. E’ loro missione, in quanto cittadini dello Stato,
impegnarsi di fatto nella vita pubblica per «configurare
rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima
autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le
rispettive competenze e sotto la propria responsabilità»9. E’
loro responsabilità compiere le scelte necessarie, insieme a
tutti i cittadini nel rispetto della laicità e delle regole
democratiche.
Il 14 ottobre si svolgeranno le elezioni primarie per la
nascita del Partito Democratico (PD). Dato che nel nuovo
soggetto politico confluirà anche la Margherita, nella quale, a
suo tempo, erano già confluiti i «popolari» (eredi principali e
diretti del cattolicesimo democratico), era inevitabile che
riprendesse vigore il dibattito sulla presenza politica dei
cattolici in Italia, di fronte al nuovo scenario. Vi sono, come è
noto, posizioni opposte: da un lato, stanno coloro che
ritengono che nel PD non vi sia spazio per i cattolici, perché il
«partito nuovo» non garantirebbe valori e principi, che per un
cristiano sono «non negoziabili»; dall’altro, stanno quanti
invece scorgono nel PD lo sbocco naturale e il compimento
storico della intuizione originaria di don Sturzo, un salto di
qualità per i cattolici democratici, di cui ha bisogno il Paese.
Le ragioni principali di quanti considerano un errore
l’ingresso di cattolici nel nuovo soggetto politico sono
9
BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, cit, n. 29.
14
soprattutto due10. La prima, di natura culturale, è la
mancanza di una visione antropologica comune tra DS e
Margherita. E’ vero – dicono – che la cooperazione tra partiti
di diversa ispirazione c’è stata sempre; tuttavia ciò è possibile
finché ciascuno mantiene la propria identità, pur
condividendo il medesimo programma. Invece, dovendosi
fondere in un unico soggetto politico, è facile prevedere che,
data la sproporzione quantitativa tra le due forze (i DS
intorno al 18% e i DL intorno al 10%), sulle questioni
fondamentali riguardanti valori «non negoziabili», risulterà
vincente la ispirazione culturale della maggioranza, in molti
casi lontana dal sentire dei cattolici democratici. La seconda
ragione è di natura politica: in democrazia – dicono –, per
fare valere le proprie tesi occorre agire in gruppo, non basta
la mera testimonianza personale. Come potranno i cattolici
democratici farsi sentire, dopo che il loro gruppo si è sciolto?
Potrebbero dare vita a una corrente di cattolici all’interno del
nuovo soggetto politico; ma che senso avrebbe ricostituire le
correnti in un partito come il PD, che nasce proprio per
superarle e unificarle?
Coloro che invece giudicano favorevolmente la
confluenza dei cattolici democratici nel PD, senza negare le
difficoltà esistenti, ritengono che esse facciano parte della
sfida ed erano state già previste da don Sturzo, quando, nel
fondare il Partito Popolare, si rivolse non ai cattolici, ma a
tutti i «liberi e forti», credenti e non credenti. Con la nascita
del PD ora quella intuizione originaria giunge finalmente a
compimento, dopo le lunghe parentesi prima del fascismo e
poi della unità politica dei cattolici nella DC.
Si può dire, infatti, che l’ultima fase del cammino
verso il PD ha avuto inizio oltre dieci anni fa, nel 1995, con
la nascita dell’Ulivo. Una svolta decisiva si ebbe nel 2002,
con la nascita di «Democrazia è libertà - la Margherita»
10
Cfr MONTICONE A., «Partito Democratico: un partito di sinistra che
guarda al centro», in AS 6-7 (2007) 495-499.
15
(DL), nella quale confluirono Popolari, Democratici e
Rinnovamento Italiano. Un altro momento significativo fu la
presentazione della lista unitaria dell’Ulivo (DS-Margherita)
nelle elezioni per la Camera del 2006; quando la lista unitaria
ottenne più voti (31,1%) di quanti ne raccolsero al Senato,
sommate insieme, le due liste separate dei DS (17,5%) e della
Margherita (10,7%) e quando, sull’onda di questo successo,
si formarono i gruppi unitari dell’Ulivo alla Camera e al
Senato. Il resto è cronaca dei nostri giorni. Nell’aprile 2007,
DS e Margherita tennero i rispettivi Congressi di
scioglimento, e ora con le primarie del 14 ottobre, nascerà
finalmente il PD e saranno eletti sia il segretario nazionale,
sia quelli regionali, insieme a 2460 costituenti, ai quali
spetterà di gestire la fase costituente e approvare il Manifesto
e lo Statuto del nuovo soggetto politico.
Dunque, in linea di principio, la confluenza dei
cattolici democratici nel PD non è affatto la loro morte, ma al
contrario è il compimento di un lungo percorso, il cui inizio
si può far risalire a don Sturzo nel 1919 con il Partito
popolare. Le obiezioni che si muovono, certo, sono vere, ma
erano già nel conto, se è vero – come afferma il Compendio
della Dottrina Sociale della Chiesa –che «Il cristiano non
può trovare un partito pienamente rispondente alle esigenze
etiche che nascono dalla fede e dall’appartenenza alla
Chiesa» e che pertanto «la sua adesione a uno schieramento
politico non sarà mai ideologica, ma sempre critica»11.
Di conseguenza, la vera sfida dei cattolici
democratici, confluiti nel PD sta nel vedere se riusciranno ad
approfittare del periodo costituente per elaborare insieme con
i partner quella cultura politica omogenea, quell’ethos
comune o «neo-personalismo solidale e laico», di cui
abbiamo parlato. Non dovrebbe essere impossibile, dato che
è questa anche la prospettiva del Manifesto del PD, già
11
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 573.
16
approvato dai Democratici di Sinistra (DS) e dalla
Margherita (DL) e che ora la Costituente dovrà ratificare o
migliorare.
In quel documento, infatti, si chiede ai partner (DS e
Margherita) di «andare oltre» le rispettive tradizioni, non
rinnegandole, ma sublimandole nella nuova identità unitaria
del PD. I valori del nuovo soggetto politico – si legge nel
Manifesto – «discendono dai molti affluenti della cultura
democratica europea. Hanno le loro radici più profonde nel
cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e
sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico
liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico
democratico. Sono maturati nella dialettica tra queste diverse
tradizioni e dal confronto con le sfide proposte dalle culture
ambientalista, dei diritti civili e della libertà femminile, oltre
che nella condanna delle ideologie e dei regimi totalitari del
novecento. Sono anche frutto di una lunga sequenza di
conflitti, basati su appartenenze religiose o di classe, e di
tragici errori. Oggi possiamo considerare alle nostre spalle
quei conflitti e quegli errori. Oggi soni valori che ci uniscono
e gli obiettivi comuni che intendiamo realizzare a definire la
nostra identità politica». Ecco perché – afferma il Manifesto
concludendo – «Per noi, i democratici, la politica è prima di
tutto servizio, è una nobile forma di amore per il prossimo e
per il nostro Paese». Che altro è tutto ciò se non l’abbozzo di
un «neopersonalismo solidale e laico»? Ma riuscirà la sfida?
Infatti, il problema rimane aperto sul piano pratico e
organizzativo, a causa delle procedure seguite fin qui. Si può
veramente dire che il PD sia un «partito nuovo» oppure è
soltanto un nuovo partito, che si aggiunge a quelli che già vi
sono? Indubbiamente la creazione del PD costituisce il
tentativo più importante, fatto fin qui, di rinnovare la vecchia
forma-partito ideologica; ma la rapidità del processo ha
prodotto la netta sensazione che si sia trattato di una fusione a
freddo tra DS e Margherita, decretata dai vertici, secondo
17
vecchie logiche partitocratriche e senza un reale
coinvolgimento della società civile, nonostante tutte le
dichiarazioni in contrario. In particolare, continuano a pesare
il mancato chiarimento sul collocamento del PD in Europa, il
modo in cui si sono scelte le candidature alla leadership, la
logica spartitoria con cui si è garantita a ciascun partner la
propria quota di rappresentanza. Perciò, il PD rischia di avere
vita molto breve e travagliata, se durante la fase costituente
che si aprirà il 14 ottobre non ricupererà slancio ideale,
flessibilità organizzativa, se non rinnoverà la classe dirigente,
se non si aprirà realmente alla società civile. In altre parole,
per i cattolici democratici il vero pericolo viene non dal loro
confluire nel PD, ma dalla capacità reale che essi avranno di
confrontarsi con le altre culture politiche per giungere a una
sintesi comune, che ne valorizzi le radici.
A questo punto non possiamo non porre un
interrogativo: che cosa accadrà qualora il tentativo del PD
fallisse e se dovesse pure cadere il Governo Prodi? Certo,
molto dipenderà dalla riforma della legge elettorale, tuttavia
non si può escludere il rischio di una implosione del sistema
bipolare attuale. Con quali prospettive?
L’esplosione recente di una forma negativa di
antipolitica e di populismo (qual è il caso clamoroso del
comico Beppe Grillo) rischia di compromettere la lettura di
un fenomeno nuovo, positivo, emerso come reazione sana e
responsabile di fronte all’imbarbarimento della crisi.
Alludiamo al moltiplicarsi di incontri di massa di cattolici,
non di natura politica, ma di natura culturale, etica e
religiosa. Solo quest’anno, nel 2007, abbiamo visto tutti il
milione in piazza S. Giovanni per il Family day, i 500.000
giovani dell’Agorà di Loreto, le oltre 700.000 presenze al
Meeting di Rimini, che finalmente sembra liberarsi dal
tradizionale collateralismo politico, che ne annebbiava la
dimensione «cattolica».
18
Di fronte a questi e altri simili eventi, che non si
possono più attribuire alla personalità carismatica e mediatica
di Giovanni Paolo II, appare evidente l’esistenza in Italia di
quello che alcuni definiscono «cattolicesimo di popolo»
molto vivace sul piano etico, culturale e religioso. Si tratta di
una dizione non priva di ambiguità, dato che essa viene usata
proprio nel momento in cui il «cattolicesimo democratico»,
confluendo nel PD, sembra a molti destinato a scomparire.
Non è un caso, infatti, che si tenti di strumentalizzare
politicamente il fenomeno, mettendolo in relazione al
discorso sulla eventuale nascita di un soggetto politico di
centro, nel quale potrebbero confluire sia gli orfani della DC,
sia quanti altri provano disagio nel centro-sinistra e nel
centro-destra. Che pensare?
Non è in questione la legittimità che i cattolici, in
base a un prudenziale giudizio storico, si uniscano in difesa
di precisi valori fondamentali. La questione è «come» unirsi.
Nella mutata situazione dei nostri giorni, non ha più senso
guardare al passato e pensare di ricostituire la vecchia DC.
Non solo per evidenti ragioni storiche, ma anche perché il
Concilio Vaticano II ha chiarito che non è possibile dedurre
una scelta politica direttamente dalla fede, che a nessuno è
lecito strumentalizzare a fini politici il nome cristiano, né
tanto meno «rivendicare esclusivamente in favore della
propria opinione l’autorità della Chiesa»12; anzi – aggiunge il
Compendio della dottrina sociale della Chiesa –, «pretendere
che un partito o uno schieramento politico corrispondano
completamente alle esigenze della fede e della vita cristiana
ingenera equivoci pericolosi»13.
Di per sé Savino Pezzotta, l’animatore del Family
day, scartata l’idea di un nuovo partito cattolico, parla di un
possibile movimento «parapolitico» di cattolici. Tuttavia, non
12
CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n.
43.
13
Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, cit., n. 573.
19
è ancora chiaro a che cosa pensi. Siamo in attesa di saperne
di più.
Ma forse il Signore, più che una nuova aggregazione
sociale dei cristiani, oggi chiede un’altra cosa: che la Chiesa
in Italia, ritornata a essere «piccolo gregge» (Lc 12, 32) dopo
gli anni della cristianità, immetta nella costruzione della città
dell’uomo il cemento della carità operosa, unitamente alla
chiara testimonianza della fede.
Che non sia già iniziata una stagione nuova, nella
quale in Italia, più che parlare di «cattolicesimo di popolo»,
sia il «Popolo di Dio» pellegrinante nella storia del mondo (la
Chiesa) chiamato a ricuperare sul piano religioso, culturale
ed etico il suo essere «sale della terra», «luce del mondo» e
«casa posta sul monte» (Mt 5, 13-16)? E’ appunto la
direzione indicata da Benedetto XVI, che tanto insiste sul
binomio fede-amore.
Il tema della prossima Settimana Sociale di PistoiaPisa (18-21 ottobre): «Il bene comune oggi: un impegno che
viene da lontano» potrebbe offrire l’occasione adatta per
andare oltre una concezione ambigua di «cattolicesimo di
popolo» (di cui vi è qualche traccia nel Documento
preparatorio), aprendo il discorso – sia ad intra (per quanto
riguarda i rapporti interni nella vita della comunità cristiana),
sia ad extra (per quanto riguarda il futuro del nostro Paese) –
a una visione del bene comune inteso come responsabilità di
tutti, al di là delle rivendicazioni personali e corporative, per
il raggiungimento di una nuova maturità di tutti sul piano
religioso, culturale e sociale.
20
21
Dibattito
Il potere è importante?
Di fronte a problemi così grandi, se non ci uniamo cosa
succede? Se siamo senza potere non si va avanti. Non sono
d’accordo nel demonizzare il potere perché senza potere non si
fa niente. Il potere, anche quello economico, non è un male.
Però il potere è uno strumento. Quindi, anche per fare politica,
si ha bisogno del potere; se non si ha potere non si fa politica.
Il guaio è quando si fa politica per avere il potere, perché allora
il potere da strumento diventa fine.
Tutti vogliono il potere, ma è per servire o per comandare?
Non si può guardare al potere come un fine, però
ricordiamoci che se non abbiamo potere non facciamo nulla.
È bene che i cattolici si uniscano?
Siamo troppo frammentati, ma se noi cattolici ci uniamo
solo tra noi frammentiamo ancora di più la società, diventiamo
un’isola chiusa accanto ad altri che a loro volta si chiuderanno.
Se alziamo steccati noi cattolici, gli altri chi sono, non sono
tutti cittadini? Il bene comune non è il bene di tutti?
Non facciamo un discorso astratto: quando le ideologie
erano diverse e divise tra loro bisognava essere uniti perché
dietro le ideologie c’erano modelli di società che si
combattevano. Quando c’era la D.C. ci univamo attorno alla
D.C. perché i partiti si erano appropriati di una forma
ideologica e la volevano imporre: ed è nata l’ideologia
cattolica.
Oggi, nella società pluralistica, laica, secolarizzata, il futuro
dell’Italia, del mondo globalizzato non è il trionfo delle
ideologie, ma è il realizzare una sintesi culturale che ci unisca
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nella diversità. Questo è il segreto del cristiano. Noi cattolici
abbiamo tradizionalmente, per fede, una sensibilità
comunionale, come diceva il cardinal Martini, e perciò non
possiamo creare il nostro ghetto e dire: “Saremo forti, così
capirete, avremo il 51%, toglieremo il divorzio, toglieremo
l’aborto, finalmente vinceremo…”.
Questo non è cristianesimo. Il cristianesimo è cambiare le
coscienze. Se le coscienze non cambiano e io conto i voti in
Parlamento e riesco ad abolire la legge sull’aborto, la gente va
ad abortire all’estero…
Il nostro potere non è un potere contro gli altri poteri, è
condizione dei cuori per portare ad un umanesimo integrale
attraverso la convinzione, nel rispetto delle coscienze.
È più difficile, certo, ma come cristiani sappiamo che …
non siamo noi a costruire con il nostro potere l’Italia, è Dio che
costruisce.
Allora per essere fedeli al “sì” della fede, dobbiamo essere
coerenti, e qui chiamiamo in causa i preti, i Vescovi, il
catechismo, la formazione delle coscienze.
Quando Pio XI non poteva parlare perché c’era la dittatura
fascista che cosa ha fatto? Ha fatto l’Azione Cattolica e
l’Università Cattolica di Milano. Dall’Azione Cattolica,
dall’Università Cattolica, dal movimento religioso sono nati
coloro che hanno guidato l’Italia per decenni ed erano veri
cristiani, perché erano state formate le loro coscienze.
Questo è ciò che trasforma l’Italia, non: “pigliamo il potere
perché siamo più forti e vinceremo”. Questa è una vecchia
mentalità che divide e non unisce. Apparentemente unisce i
cattolici, ma divide la società.
In una società senza frontiere bisogna trovare un modo
nuovo di essere cristiani autentici e di essere sale della terra,
che è più difficile e coinvolge non solo i laici che militano in
politica, ma anche i nostri Pastori.
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Il Manifesto del Partito Democratico è un trucco?
Non è che i valori del Manifesto del Partito Democratico
siano un modo di incastrare i cattolici.
Il testo è stato fatto da un gruppo di docenti, appartenenti a
tutte le culture italiane, non molto conosciuti, non è stato fatto
dai partiti. I partiti l’hanno approvato dopo averlo discusso.
Adesso però il Manifesto dovrà essere rivisto, perché il
nuovo Partito dovrà per prima cosa fare lo Statuto partendo dal
Manifesto iniziale; ma può anche darsi che venga bocciato.
Vedremo cosa verrà fuori. Quindi non è un trucco, perché
viene fatto insieme.
Il pericolo c’è, siamo così abituati agli sgambetti, ma qui si
tratta di fare il bene comune di tutti. Bisogna cambiare
mentalità. Il bene comune non è il mio bene personale, è il
bene di tutti. Siccome siamo diversi, cerchiamo i valori che
sono comuni, come nella Costituzione. Si tratta di avere delle
persone capaci e competenti nel realizzare questo compito.
Cosa vuol dire fede adulta?
La fede adulta è fare veramente l’esperienza di Dio.
Il cristianesimo non è un’adesione anagrafica, il
cristianesimo è aver incontrato Gesù.
Alle volte io dico: “Ma ci crediamo o non ci crediamo?”
Non è una bella filosofia, una bella favola: c’era un Dio tanto
buono, che un giorno mandò suo Figlio nella capanna di
Betlemme, le pecorelle, il latte, i pastori. Che commozione!
Non è questo il cristianesimo, il cristianesimo è che Gesù è
stato ucciso ed è risorto ed è vivo; e chi incontra il Risorto
cambia vita.
Faccio sempre l’esempio di Mondadori. Tutti sanno chi è,
un miliardario, 49 riviste, case editrici, 5000 operai, divorziato,
risposato, figli dall’una, figli dall’altra. A un certo momento va
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a incontrare Gesù risorto. È morto due anni fa di tumore, ha
voluto fare un’intervista a Messori e il titolo l’ha voluto
mettere lui: la parola “conversione”, perché Messori non la
voleva. È andato a girare l’Italia, Mondadori, gli ultimi due tre anni di vita per dire a tutti come aveva incontrato Gesù.
Allora fede adulta vuol dire una fede non appiccicata perché
mia nonna diceva il rosario e padre Pio le ha tolto il mal di
testa, ma è l’incontro di Gesù nella fede, il Figlio di Dio, che
mi divinizza.
Fede adulta vuol dire che io divento Cristo, vivo in grazia di
Dio, mi alimento all’Eucaristia, alla parola di Dio. Dobbiamo
diventare sempre di più così.
Al tempo stesso è l’essere professionalmente validi. Non
basta essere santi per essere bravi cittadini, o per essere bravi
politici, o per essere bravi professori; accanto alla santità
bisogna avere la professionalità.
Si racconta di un bravo studente che diceva: “Io sono un
uomo di grande fede. Quello che importa per passare gli esami
non è studiare, è avere fede, pregare”. Il cristianesimo adulto!
Ci sono dei santi che si sono fatti la fama di proteggere quelli
che fanno gli esami, e davanti ai loro altari c’è sempre la
coda… Questo studente diceva ai suoi compagni: “Io prego”
ed è andato a fare l’esame. Come è andato l’esame? Ve l’avevo
detto: “La cosa importante è la fede, la preghiera, perché non
potevo trovare un professore più religioso di quello che ho
trovato. Lui faceva la domanda, io rispondevo, lui alzava gli
occhi al cielo e le braccia al cielo e diceva: “Gesù, Gesù”!
Cristiani adulti: santi nella misura del possibile, anche se
siamo peccatori, e poi preparati, cioè studiare, essere
laicamente preparati in politica, in economia, in tutto…
Paolo VI, per il numero 3000 di Civiltà Cattolica (allora ero
direttore io), ci ricevette con tutti gli scrittori, ci fece un
discorso scritto da lui, molto bello, che io ho pubblicato nel
numero 3000; ci ha ringraziato così: “Vi ringrazio per la vostra
obbedienza adulta al magistero della Chiesa, perché la vera
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obbedienza non è nel ripetere materialmente quello che il
Magistero ha detto; voi siete fedeli al Magistero, ma, mentre
siete fedeli, cercate di farlo avanzare e lo fate accettare anche
dai non credenti e dai lontani”.
Questo è Montini: obbedienza adulta, non bambina.
Come si fa a dialogare tra noi cristiani che facciamo scelte
partitiche diverse?
È un grosso problema. Su questo tema non sono così
pessimista, oggi. Ho partecipato al primo Convegno della
Chiesa italiana a Roma nel 1976 su “Evangelizzazione e
promozione umana”. Il segretario della CEI, Mons. Bartoletti
(un vescovo santo, di cui si è introdotta la causa di
beatificazione) volle che insieme a Lazzati ci fossi anch’io
come vicepresidente, perché, mi disse: “Voglio che la
commissione responsabile del Convegno rappresenti la Chiesa
in tutte le sue forme”. Accanto ad un laico volle un presbitero.
Una delle commissioni affrontava proprio il tema
dell’impegno politico dei cattolici: la crisi della D.C., la crisi
del comunismo… Chiedeva uno spazio nella comunità
cristiana in cui tutti i cattolici laici impegnati in politica
potessero parlare tra di loro, al di là delle diverse posizioni, e
anche insieme ai Pastori, i Vescovi, perchè potessero sentire
direttamente i laici e ci fosse un luogo comune di formazione.
È possibile che un cattolico di sinistra parli più facilmente
con un comunista o con un radicale che con un cattolico di
destra eppure fanno la comunione insieme? È uno scandalo. È
essere cristiani? È la comunione che Gesù vuole tra di noi?
La proposta fatta al Convegno non venne però raccolta con
il motivo che era già stato addotto in Olanda. Era andata male,
non era il momento opportuno…
La proposta è stata rifatta nei Convegni successivi (Loreto,
Palermo…) ma la risposta è sempre stata negativa.
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Nella relazione del Card. Ruini al Convegno di Verona si è
aperto uno spiraglio. Il documento finale dice: “Si facciano
spazi nelle Chiese locali dove si possa realizzare questo
dialogo”. Quindi l’idea è stata accolta. Io ho fatto un balzo di
gioia. È un consiglio, però è più che un no, va verso il ni, verso
il sì.
Quello di cui c’è bisogno è che sia la comunità cristiana il
luogo del confronto e della crescita insieme, in modo che tutti,
al di là delle loro appartenenze, destra, sinistra, centro, si
trovino insieme al Vescovo a livello locale, a livello regionale,
a livello nazionale per potersi confrontare sui problemi.
Non possono essere i Vescovi a dire quello che devono fare
i laici. Come fa un Vescovo a dire: “Dovete votare così”. Non
può e quando lo fa invade il campo. Ma dove sono i laici?
Perché sulla procreazione assistita doveva parlare solo
Ruini? Dove sono i laici? Manca il dialogo. Perché i nostri
Vescovi si devono interessare della politica? Loro formano le
coscienze, possono dire chiaramente in nome di Cristo: questa
legge è contro Dio e contro l’uomo…
Come facciamo a dire ai laici: comportatevi bene di fronte ai
problemi di etica pubblica che sono difficili? La comunità
cristiana deve aprire le porte, chiamare l’esperto e discuterne
insieme e poi ciascuno si prende le responsabilità di come
votare in Parlamento. Risponderà a Dio, agli elettori ecc. Non
tocca ai Vescovi dire come devono fare. È questo il laicato
maturo.
Che cosa comporta la libertà di coscienza?
I Vescovi non si possono sostituire alla libertà di coscienza,
ma la devono formare.
La coscienza è la voce di Dio, ma l’ascolto della voce esige
la formazione che deve avvenire nella comunità cristiana.
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Io spero che si vada verso questa forma. Trasformiamo il
progetto culturale in spazi di incontro aperti a tutti; i laici si
uniscano insieme ai loro Pastori dove si affrontano temi di etica
pubblica, di dottrina sociale della Chiesa e poi ciascuno
sceglie. Però questa educazione deve essere capillare, non basta
una settimana sociale fatta ogni cinque anni. Occorre formare
la coscienza, e tocca a noi essere coscienza responsabile.
Tra i valori non negoziabili c’è l’aborto. Che cosa può dirci
in merito?
Come ci dobbiamo comportare sui valori “non negoziabili”?
La Chiesa non ha mai accettato e noi non potremo mai
accettare una legge abortista: la fede ci illumina, è un problema
civile, è un problema umano.
Io mi indigno quando sento dire che è un problema
confessionale. Il Vescovo con la sua autorità morale non deve
dire queste cose. È un problema laico, di civiltà.
I Vescovi illuminano le coscienze; la mediazione alla luce
del Vangelo sulla laicità della legge, la situazione giuridica,
l’osservanza della Costituzione non tocca ai Vescovi ma ai
laici
illuminati
(coscienza
illuminata),
competenti
(professionalmente validi), che riescono a convincere anche i
non credenti.
Se dovessi andare in Parlamento ed è in gioco la legge
sull’indissolubilità del matrimonio, io mi alzerei nell’emiciclo
e direi: “Onorevoli colleghi, questa legge non si ha da fare, non
perché lo dice san Matteo nel Vangelo al capitolo 6, ma per
ragioni sociologiche, ragioni giuridiche, ragioni biologiche…”.
Davanti a dieci ragioni di questo tipo possono dire: “Lo sai che
mi hai convinto che deve essere proprio indissolubile? Dove
hai trovato la luce per…?”.
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La mia fede mi ha illuminato, ma la mia intelligenza ha
studiato e ha trovato le ragioni laiche accettabili da credenti e
non credenti.
Non è necessario credere in Gesù Cristo per difendere la
vita…
Perché non riusciamo a capire l’importanza di certi valori
umani, civili, delle coscienze rette, delle intelligenze oneste?
Non è dicendo: se credi in Cristo voterai così. Non è questa la
soluzione.
La soluzione è rendere la mediazione culturale e politica dei
valori.
Nel documento della CEI a proposito dei “Dico” c’è scritto
questo: se per la prima volta si presenta in Parlamento una
legge contraria ai valori assoluti, i cattolici sono tenuti a votare
contro.
In Parlamento, qualora una legge fosse già approvata, i
cattolici faranno di tutto per migliorarla e questo lo dice
Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor.
L’impegno nostro nella politica non è fare il male minore,
ma fare il maggior bene possibile. E anche una legge che non è
accettabile, poiché è contro l’uomo e contro Dio, una volta che
c’è, non posso annullarla, cercherò di migliorarla secondo le
regole democratiche. Testimonierò con la mia vita, dirò
pubblicamente: “Non l’accetto, non la condivido, perché è
contro Dio e contro l’uomo”.
In Parlamento farò il maggior bene possibile, adopererò tutti
gli emendamenti, tutti i paletti finché la coscienza rinnovata
non mi permetta di fare anche una legislazione più equa.
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Come impegnarci per il bene comune?
Una cosa è l’affermazione e la lotta per i giusti valori, (il
cattolico non rinunzierà mai a lottare), altra cosa è il rispetto e
la ricerca di questo maggior bene.
Si tratta di fare uno sforzo di preparazione. Se ci dessero
questi spazi in cui crescere insieme, faremmo un servizio anche
alla maturazione della nostra coscienza cristiana, perché come
è apparso anche dagli interventi, dappertutto è così: molti
hanno un vero problema di coscienza di fronte a scelte di certi
partiti. Come faccio a collaborare con uno che non ammette il
primato della vita? Mi rifiuto.
In certe circostanze storiche è necessario che i cattolici si
uniscano. Non è però questo il momento. In un momento di
pluralismo ideologico culturale una cosa di questo tipo
verrebbe a frantumare di più, cioè a incancrenire le divisioni,
mentre c’è bisogno di avere il coraggio, sperando anche
nell’aiuto di Dio, di combattere la battaglia come ha fatto Gesù,
che poi è morto sulla croce.
All’interno della Chiesa che cosa succede? La Chiesa è la
fotocopia del collegio apostolico.
Gesù con quei dodici apostoli… quante gliene hanno
combinate!! Pietro ne combinava una dopo l’altra con il suo
carattere esplosivo, Giuda l’ha venduto per 30 denari, attaccato
ai soldi, Giovanni e Giacomo chiedono di fare il ministro degli
interni e degli esteri, uno alla destra e l’altro a sinistra nel
Regno dei cieli! E’ l’immagine della Chiesa di oggi. Essendo
più di dodici nel collegio apostolico si moltiplicano i casi di
persone fragili!
La grandezza di Dio è tutta qui.
Vi dico questo: ho fatto 25 anni alla Civiltà Cattolica, ho
conosciuto da vicino tre Papi e una quantità grande di cardinali
e monsignori; siccome venivo dall’Azione Cattolica ero
convinto che quando uno aveva lo zucchetto rosso fosse santo
o fosse su quella strada e quale fu la mia delusione quando mi
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sono accorto che ci sono delle persone che fanno carriera, ci
sono persone che sono santissime, però prima parroco, poi
monsignore, ecc., e arrivano agli alti gradi...
Questo non mi ha distrutto la fede, ma me l’ha fatta
aumentare, perché sono capace anch’io di guidare la Chiesa se
ho tutti santi, tutti intelligenti, tutti bravi; è facile! Quello che è
più difficile è mandare avanti la Chiesa con quello che ho!
Il concetto di strumento
Quello che scandalizza è quando un uomo di Dio si attacca a
tutto, subordina anche l’onestà della vita ai beni. Nessuno si
scandalizza se un santo fa una grande casa, se ha bisogno di
soldi per metterla in piedi, perché è a servizio dei poveri.
Questo fa parte della tradizione.
Ricordo quello che mi colpì, ancora giovane, in un istituto
religioso. Era un pensionato universitario. In una parte riservata
agli universitari c’erano tutte le opere più moderne, macchine
moderne, trattamento non di lusso, ma di decoro. C’era una
vetrata e c’era scritto clausura, quando ancora si usava. Al di là
vi era l’appartamento dei Padri Gesuiti. Non c’era nulla. Le
stanze dei padri avevano un tavolino di legno, una sedia
vecchia…, mi ha fatto un’impressione così bella, per cui per
servire gli altri non deve mancare nulla, per quanto riguarda la
mia vita di testimone, c’è la libertà, il distacco.
Il problema è che il denaro è appiccicoso. Sant’Ignazio ha
scritto nelle Costituzioni che i gesuiti fanno un voto: tutte le
volte che si deve discutere della povertà, se ne può parlare solo
per stringere di più, mai per allargare. In una congregazione a
cui ho partecipato io, siccome è cambiata la società, la
questione degli stipendi, delle messe delle diocesi, abbiamo
dovuto chiedere la dispensa al Papa dal voto per poter parlare
liberamente, senza scrupoli, della povertà. Sant’Ignazio diceva:
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ricordatevi che la povertà dal denaro è il muro su cui poggia la
vita religiosa, se non regge questo muro crolla tutta.
Gli strumenti li dobbiamo usare anche per evangelizzare. La
testimonianza del distacco è quella che più edifica e insegna
anche a chi usa il denaro che non è una maledizione, ma
bisogna stare molto attenti perché è un po’ esplosivo.
Come può avvenire la maturazione dei laici?
Io ritengo che la soluzione vada ricercata nella maturazione
della coscienza dei laici all’interno della comunità cristiana.
Sicuramente l’appartenenza alla Chiesa in modo da avere
un’adesione ai valori e avere un’opinione comune, un
comportamento comune è una questione di maturità.
Anche i Vescovi o i parroci sono restii a fare questo
discorso sulla cultura; il problema è che siamo tutti
impreparati, perché il cambiamento è stato così rapido, sono
crollate le barriere culturali in così poco tempo che nessuno ha
visto venire il cambiamento, e i parroci, i vescovi e i preti
stanno peggio degli altri.
Se voi mi chiedeste la parola fondamentale che riassume
tutte le chiacchiere che ho fatto, direi la formazione.
Questi incontri sono importanti perché ci si arricchisce, sono
formativi, per cui, quando posso, accetto volentieri, perché la
formazione in questo momento è fondamentale, anche per i
Vescovi.
Il Partito Democratico: quale interpretazione?
Il P.D. è la novità che tocca da vicino la presenza dei
cattolici in politica. È il problema più grave. Sono anch’io
molto critico e ho molti dubbi che riesca, però mi sembrava
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giusto far capire, secondo i principi esposti, che è una sfida che
si può correre, che rientra nella linea sturziana e nella linea
anche del Concilio, la linea di una testimonianza all’interno di
culture diverse senza paura. Se la paura ci blocca non si fa
niente, ci salveremo l’anima ma il mondo va in rovina.
Che ci sia qualcuno che tenti questa strada, che qualche altro
secondo la propria sensibilità culturale e spirituale non ci si
ritrovi, come Monticone (persona che stimo moltissimo e
rispetto), sono forme legittime diverse nel pluralismo.
Rispettiamoci tutti, incontriamoci tutti, mettiamo in comune,
facciamo emergere quello che ci unisce anche all’interno del
mondo cattolico, della Chiesa.
Questo è fondamentale, ci vuole uno strumento che crei
nella comunità cristiana questo spazio di dialogo diretto, in
modo che poi ciascuno si comporti secondo la sua coscienza
illuminata.
Ancora a proposito del bene comune
A me ha fatto piacere trovarlo nella prolusione di mons.
Bagnasco all’ultima Assemblea CEI; nella prolusione che ha
fatto due giorni fa parla di questo ethos comune che deve
essere il motivo del nostro impegno. Il che non vuol dire essere
tutti obbligati, perché non è coerente…, non è cristiano… Non
sono questi i discorsi, ma chi se la sente vada avanti, chi non se
la sente liberamente scelga, però si comporti secondo coscienza
coerentemente informata.
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Il popolo di Dio: quale idea?
Anche l’idea di popolo di Dio deve trovare il significato.
Penso a queste grandi masse…, vedremo cosa dirà Pezzotta
perché è l’anima di questo movimento, ma potrebbe sbandare,
potrebbe essere strumentalizzato, è un po’ ambiguo, cerchiamo
di capirlo.
La parola di Dio ci aiuta a dire quel sì
Ringrazio l’ultimo intervenuto perché ci aiuta a finire con la
parola di Dio che è una parola viva. Noi purtroppo molte volte
l’abbiamo uccisa mentre la parola di Dio è viva, è un’arma a
doppio taglio che penetra nel cuore, nella coscienza, cambia la
vita. Nutrirci della parola di Dio è perciò il modo migliore per
avere quel “sì” adulto alla fede che è all’inizio di tutte le nostre
riflessioni.
E’ questo il proposito: nutrirci della parola di Dio che
suppone conoscenza, studio, perché nasca una nuova
generazione cristiana come lo Spirito santo sta cercando di
fare, con un po’ di fatica, tra i cristiani del nostro tempo, che
siamo poi noi.
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Stampato in proprio ad uso interno
Eventuali imprecisioni nel testo del dibattito, non rivisto dall’Autore,
dipendono dal fatto che esso è stato trascritto
direttamente dalla registrazione
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Cattolici in politica