“Cattolici in politica” Valori non negoziabili e dialogo possibile Padre Bartolomeo Sorge Villa Elena, Affi (VR) 1 La Fondazione Elena da Persico, ispirandosi particolarmente al pensiero di Elena da Persico (1869 –1948), giornalista e collaboratrice di Giuseppe Toniolo in ambito sociale, ha, tra i suoi scopi, “la promozione di iniziative sociali e culturali per una crescita della società secondo i valori della solidarietà cristiana” Con piacere inviamo la relazione di Padre Bartolomeo Sorge, docente di Dottrina Sociale e Direttore di Aggiornamenti Sociali, a quanti hanno partecipato all’iniziativa della Fondazione e ai simpatizzanti della stessa. 2 3 “CATTOLICI IN POLITICA” Valori non negoziabili e dialogo possibile Affi, 22 settembre 2007 4 5 Premessa La crisi italiana negli ultimi tempi si è ulteriormente aggrovigliata. Non solo non si vede ancora la fine della lunga transizione, iniziata ormai più di quindici anni fa, ma la situazione sembra avvitarsi su se stessa, ogni giorno più, con esiti imprevedibili. Non è possibile neppure fare pronostici, perché le incognite sono troppe: quanto durerà il Governo Prodi? Basterà la nascita del Partito Democratico (PD) a dare equilibrio e stabilità a una coalizione, dentro la quale opera una minoranza più incline a scendere in piazza che a governare? La riforma della legge elettorale, che va fatta assolutamente, sarà tale da garantire la governabilità del Paese e la normale alternanza tra maggioranza e opposizione, come si addice a una democrazia matura? A noi qui, però, interessa soprattutto un altro aspetto della crisi presente: poiché ai cattolici non è consentito certo di rimanere alla finestra come semplici spettatori, che cosa possono e devono fare in una simile situazione? Come si dovranno muovere? Per rispondere ci rifaremo alle conclusioni del Convegno ecclesiale nazionale di Verona, ufficializzate dalla Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) del 29 giugno 2007. Esse sono sostanzialmente tre e sottolineano la necessità di una rinnovata presenza dei cattolici italiani sul piano religioso, culturale e socio-politico1. 1 Riprendiamo qui, sviluppandola e approfondendola, la nostra precedente breve presentazione della Nota della CEI (cfr SORGE B., «Chiesa italiana: una “nuova tappa”», in Aggiornamenti Sociali 9-10 [2007] 569-574). I numeri tra parentesi nel testo si riferiscono alla Nota della CEI: «Rigenerati per una speranza viva» (1 Pt 1, 3): Testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo». 6 1. Il grande «sì» della fede Il punto di partenza di un rinnovata presenza dei cattolici in Italia deve essere sul piano religioso. Lo esigono i profondi mutamenti degli ultimi decenni, che hanno messo in crisi la vita cristiana nei suoi stessi fondamenti. In particolare – come insiste Benedetto XVI – bisogna reagire alla tentazione più grave del nostro tempo: al tentativo cioè di fare a meno di Dio, il quale, «di fronte a tutto ciò che nella nostra vita appare più urgente, sembra secondario se non superfluo e fastidioso. Mettere ordine da soli nel mondo, senza Dio, contare soltanto sulle proprie capacità, riconoscere come vere solo le realtà politiche e materiali e lasciare da parte Dio come illusione, è la tentazione che ci minaccia in molteplici forme»2. Il superamento di questa tentazione può venire solo dal grande «sì» della fede, sul quale il Papa fonda tutto il suo programma pastorale. La Nota della CEI espone così il pensiero di Benedetto XVI: «Il “sì” che continuamente e fedelmente Dio pronuncia sull’uomo trova compimento nel “sì” con cui il credente risponde ogni giorno con la fede nella parola di verità, con la speranza della definitiva sconfitta del male e della morte, con l’amore nei confronti della vita, di ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio» (n. 10). Proprio per questo – continua la Nota citando il Papa –, i cristiani, pur consapevoli della fragilità della natura umana e delle contraddizioni della nostra epoca, riconoscono e accolgono volentieri tutti i valori autentici della cultura del nostro tempo: la conoscenza scientifica, lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. In una parola, il «sì» della fede non immiserisce il discorso religioso, non lo riduce a mera catechesi moralistica, ma lo apre a orizzonti più ampi: «L’incontro con 2 .RATZINGER J. – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 50. 7 il Risorto e la fede in lui ci rendono persone nuove, risorti con lui e rigenerati secondo il progetto di Dio sul mondo e su ogni persona. […] Non sono le nostre opere a sostenerci, ma l’amore con cui Dio ci ha rigenerati in Cristo e con cui, attraverso lo Spirito, continua a darci vita» (n. 5). Dunque la prima preoccupazione dei cattolici italiani oggi deve essere quella di ristabilire il primato di Dio, cominciando da se stessi, attraverso una formazione spirituale rinnovata che porti all’incontro personale con il Risorto, alla partecipazione cosciente della sua vita divina. E il Risorto si incontra, in forma privilegiata, nella Parola di Dio, nell’Eucaristia, nella Chiesa, nei poveri. Questo grande «sì» della fede – insiste Benedetto XVI – è il punto decisivo e primordiale di ogni servizio della Chiesa al mondo e trasforma i cristiani in seminatori di germi di «vita risorta», in ideatori dinamici e creativi di progetti che anticipano nella storia il senso della nuova umanità destinata alla risurrezione (cfr n. 7). E’ questa l’impronta specifica del pontificato di Benedetto XVI: una spiritualità profonda, strutturata anche culturalmente. Di conseguenza, la tappa del cammino ecclesiale che si è aperta a Verona è da considerare «nuova», come il Papa l’ha definita, non soltanto in senso cronologico e storico, ma soprattutto in senso teologico, spirituale e culturale. Ecco, dunque, la prima preoccupazione pastorale della Chiesa italiana nel difficile contesto storico present:.una fede adulta, che non mortifica la ragione, anzi le è amica, la potenzia e la purifica. 2. La «carità culturale» Il grande «sì» della fede – «specchio dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore che si fa servizio generoso e gratuito» (n. 11) – ispirerà una rinnovata testimonianza della carità, intesa anche come «carità 8 culturale». E’ il secondo orientamento di Verona. E’ significativo che la Nota della CEI, dopo aver ripreso il discorso sui cinque ambiti dell’esistenza in cui testimoniare il «sì» della fede attraverso la carità (cfr n.12), fra le testimonianze di amore più importanti include anche il «Progetto culturale orientato in senso cristiano», scorgendo in esso lo strumento per eccellenza di un nuovo incontro tra la fede e la ragione, attraverso il quale «i credenti possano mostrare a tutti che “la vita cristiana è possibile oggi, è ragionevole, è realizzabile”» (n. 13). Non si può non concordare sul giudizio che il servizio culturale costituisce una forma di carità di alto profilo; ma i cattolici italiani oggi sono divisi non tanto sul riconoscere la necessità del servizio culturale, quanto su come prestarlo. Infatti, alcuni ritengono che si debba partire dalla riaffermazione dei valori e dei principi «non negoziabili» per dialogare «senza complessi di inferiorità con le dinamiche culturali del nostro tempo» (ivi), proponendosi così di ristabilire in Italia una forma di leadership culturale cattolica, dopo la fine di quella politica. Altri invece, senza nulla togliere alla importanza della testimonianza e dell’annunzio coraggioso dei valori del Regno di Dio, ritengono che sul piano operativo si debba partire piuttosto dalla condivisione disinteressata dei problemi materiali, morali e culturali della gente, per proseguire insieme gradualmente verso la verità tutta intera, confidando nell’aiuto dello Spirito Santo che apre gli occhi della mente e del cuore. E’ importante chiarire questo rapporto tra dialogo e testimonianza della carità. Non è solo questione di metodo, se è vero – come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – che la carità (quindi, anche la carità culturale) «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. […] Chi esercita la 9 carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa» 3. In Italia, infatti, la questione è questa: in una situazione culturalmente e politicamente frammentata i cattolici sono in grado, sì o no, di aiutare il Paese a ritrovare la sua unità nel rispetto della pluralità? Sono capaci, sì o no, di realizzare insieme con gli altri una mediazione culturale che recepisca quanto di valido vi è nelle differenti tradizioni, senza chiedere a nessuno di rinnegare le proprie radici e la propria storia, ma spingendo tutti ad andare oltre gli anacronistici steccati ideologici e culturali? Certamente sì. Non solo i cattolici sono capaci di recare questo contributo, ma oggi è questo il loro preciso dovere. A ciò li impegna il grande «sì» della fede, che non è una categoria astratta («La fede senza le opere è morta», [Gc 2, 26]), ma si traduce necessariamente in testimonianza disinteressata della carità, anche della «carità culturale» e della «carità sociale e politica»: offerta non in modo strumentale, per imporre agli altri una propria visione confessionale, ma con disinteresse in vista alla formazione di un ethos civile e laico condiviso, intorno al quale realizzare l’unità nella pluralità, necessaria a garantire il bene comune. Detto in altre parole: non basta enunciare i valori assoluti e i principi «non negoziabili» (i quali devono essere certamente annunziati e testimoniati), se nello stesso tempo non ci si impegna a ricercare insieme il bene comune possibile, il quale passa inevitabilmente attraverso le regole democratiche del consenso e quelle psicologiche della gradualità. Infatti – come ha spiegato bene il card. Martini nel discorso di sant’Ambrogio 1998 –, il bene comune non consiste in una definizione filosofica astratta, ma va perseguito concretamente commisurandolo alle reali situazioni storiche in cui si opera; ciò significa che il suo 3 BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, n. 31c. 10 raggiungimento dovrà passare per il convincimento e la pazienza, per la progressiva e graduale affermazione dei valori, talvolta «perfino per dure rinunce nel nome di una superiore concordia civile e sempre in vista di un bene più alto»4. I principi e i valori, cioè, sono sempre in sé «non negoziabili», ma la loro traduzione storica è soggetta alle condizioni di tempo e di luogo, al consenso e alla crescita del costume e della vita politica. «Sembra invece – continua Martini – che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società»5. Pertanto, si applica anche all’esercizio della «carità culturale» ciò che Benedetto XVI dice più in generale nell’enciclica Deus caritas est: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare»6. In conclusione, oggi non è più tempo di pensare all’egemonia di una cultura politica (neppure di quella «cattolica») imposta sulle altre, ma di realizzare una crescita comune, che vada al di là delle diverse tradizioni culturali che hanno fatto l’Italia, aprendole a una dimensione nuova, senza tagliarne le radici. Nessuna soluzione di mera 4 MARTINI C.M., «Il seme, il lievito, il piccolo gregge», discorso di sant’Ambrogio 1998, in AS 2 (1999) 164. 5 Ivi. 6 BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, cit., ivi. 11 ingegneria politica potrebbe mai sostituirsi a questa necessaria crescita culturale, che sola può garantire il retto funzionamento di una società unita e plurale, grazie alla «fecondazione reciproca» (l’espressione è di Giovanni Paolo II) tra culture diverse, destinate ad arricchirsi vicendevolmente in un superiore «neopersonalismo solidale e laico»7. Non è una novità. Si tratta solo di rinverdire e approfondire lo spirito e la lettera della nostra Costituzione repubblicana. Sessant’anni fa i Padri costituenti riuscirono a superare le profonde divisioni ideologiche di allora in nome del bene comune del Paese, facendo sintesi tra l’attenzione alla dimensione etica e religiosa (propria del personalismo della tradizione cattolico-democratica), l’insistenza sulla solidarietà (propria della tradizione socialista) e la esigenza di laicità (propria della tradizione liberal-democratica). Perché noi oggi non dovremmo riuscire ad approfondire insieme il significato di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona) che permeano la nostra Costituzione e di cui oggi conosciamo meglio il significato dopo 60 anni di vita democratica? Un «neopersonalismo solidale e laico», in fedeltà e coerenza con lo spirito della Costituzione, può dunque offrire una base culturale condivisa, in grado di restituire un’anima etica alla politica e di farla tornare a essere servizio e ricerca del bene comune. Parlare di «neopersonalismo solidale e laico» non è affatto un discorso astratto e fumoso. Significa invece un preciso programma di scelte da fare. A partire appunto dal primato della persona, dalla solidarietà e dalla laicità, si tratta di ripensare l’esercizio e la tutela dei diritti umani, della libertà, della legalità; la riforma delle istituzioni; le regole del mercato e della produzione; lo Stato sociale; la difesa del 7 Cfr SORGE B., «Il “neopersonalismo solidale”», in AS 3 (2007) 169-174. 12 lavoro attraverso l’innovazione e la lotta alla precarietà; il rifiuto del razzismo e la politica dell’accoglienza e della integrazione dei flussi migratori; la tutela dell’ambiente; la dimensione europea e mondiale dei problemi dello sviluppo; la collaborazione internazionale. Pertanto, i cattolici – quale che sia la scelta partitica che decideranno di compiere – oggi sono tenuti a recare un contributo originale ed essenziale in direzione di questa sintesi culturale nuova, sia a livello culturale, sia a livello operativo di testimonianza e di servizio. A questo li chiama il «sì» grande della fede. Infatti – per citare ancora il card. Martini –, i cristiani sono portatori di una nativa «sensibilità comunionale» che li rende capaci di preservare la convivenza civile «dalle cadute nell’irrigidimento contrapposto»; «Il cristiano oggi nella città deve interpretare quindi l’alto compito storico di creare un tessuto comune di valori su cui possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non più devastanti. E questo sia in zone proprie di riflessione e di traduzione antropologica dei propri valori di fede (e una operazione come questa potrebbe genuinamente interpretare almeno alcuni aspetti del progetto culturale della Chiesa italiana), sia facendoli sbocciare dentro i luoghi delle diverse appartenenze politiche, dimostrando che ci si può occupare a pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti, non solo con una attenzione confessionale»8. Persona e socialità si sviluppano insieme. Ecco perché la «carità culturale» è vera carità di alto profilo, in quanto si oppone a una visione riduttiva della persona e della società, che finisce col corrodere l’uomo stesso, la vita sociale e politica. Movendo dal riconoscimento della essenziale uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro comune trascendente dignità, è possibile elaborare quel 8 MARTINI C.M., «Paure e speranze di una città. Discorso al Comune di Milano, 28 giugno 2002», in AS 9-10 (2002) n. 8, 695. 13 «neo-personalismo solidale e laico», di cui oggi ha bisogno l’Italia (e non solo). 3. Un «cattolicesimo di popolo»? Il grande «sì» della fede dovrà tradursi, infine, in «carità sociale» e politica. Questo compito – come scrive il Papa nell’enciclica Deus caritas est – tocca soprattutto ai fedeli laici. E’ loro missione, in quanto cittadini dello Stato, impegnarsi di fatto nella vita pubblica per «configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità»9. E’ loro responsabilità compiere le scelte necessarie, insieme a tutti i cittadini nel rispetto della laicità e delle regole democratiche. Il 14 ottobre si svolgeranno le elezioni primarie per la nascita del Partito Democratico (PD). Dato che nel nuovo soggetto politico confluirà anche la Margherita, nella quale, a suo tempo, erano già confluiti i «popolari» (eredi principali e diretti del cattolicesimo democratico), era inevitabile che riprendesse vigore il dibattito sulla presenza politica dei cattolici in Italia, di fronte al nuovo scenario. Vi sono, come è noto, posizioni opposte: da un lato, stanno coloro che ritengono che nel PD non vi sia spazio per i cattolici, perché il «partito nuovo» non garantirebbe valori e principi, che per un cristiano sono «non negoziabili»; dall’altro, stanno quanti invece scorgono nel PD lo sbocco naturale e il compimento storico della intuizione originaria di don Sturzo, un salto di qualità per i cattolici democratici, di cui ha bisogno il Paese. Le ragioni principali di quanti considerano un errore l’ingresso di cattolici nel nuovo soggetto politico sono 9 BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, cit, n. 29. 14 soprattutto due10. La prima, di natura culturale, è la mancanza di una visione antropologica comune tra DS e Margherita. E’ vero – dicono – che la cooperazione tra partiti di diversa ispirazione c’è stata sempre; tuttavia ciò è possibile finché ciascuno mantiene la propria identità, pur condividendo il medesimo programma. Invece, dovendosi fondere in un unico soggetto politico, è facile prevedere che, data la sproporzione quantitativa tra le due forze (i DS intorno al 18% e i DL intorno al 10%), sulle questioni fondamentali riguardanti valori «non negoziabili», risulterà vincente la ispirazione culturale della maggioranza, in molti casi lontana dal sentire dei cattolici democratici. La seconda ragione è di natura politica: in democrazia – dicono –, per fare valere le proprie tesi occorre agire in gruppo, non basta la mera testimonianza personale. Come potranno i cattolici democratici farsi sentire, dopo che il loro gruppo si è sciolto? Potrebbero dare vita a una corrente di cattolici all’interno del nuovo soggetto politico; ma che senso avrebbe ricostituire le correnti in un partito come il PD, che nasce proprio per superarle e unificarle? Coloro che invece giudicano favorevolmente la confluenza dei cattolici democratici nel PD, senza negare le difficoltà esistenti, ritengono che esse facciano parte della sfida ed erano state già previste da don Sturzo, quando, nel fondare il Partito Popolare, si rivolse non ai cattolici, ma a tutti i «liberi e forti», credenti e non credenti. Con la nascita del PD ora quella intuizione originaria giunge finalmente a compimento, dopo le lunghe parentesi prima del fascismo e poi della unità politica dei cattolici nella DC. Si può dire, infatti, che l’ultima fase del cammino verso il PD ha avuto inizio oltre dieci anni fa, nel 1995, con la nascita dell’Ulivo. Una svolta decisiva si ebbe nel 2002, con la nascita di «Democrazia è libertà - la Margherita» 10 Cfr MONTICONE A., «Partito Democratico: un partito di sinistra che guarda al centro», in AS 6-7 (2007) 495-499. 15 (DL), nella quale confluirono Popolari, Democratici e Rinnovamento Italiano. Un altro momento significativo fu la presentazione della lista unitaria dell’Ulivo (DS-Margherita) nelle elezioni per la Camera del 2006; quando la lista unitaria ottenne più voti (31,1%) di quanti ne raccolsero al Senato, sommate insieme, le due liste separate dei DS (17,5%) e della Margherita (10,7%) e quando, sull’onda di questo successo, si formarono i gruppi unitari dell’Ulivo alla Camera e al Senato. Il resto è cronaca dei nostri giorni. Nell’aprile 2007, DS e Margherita tennero i rispettivi Congressi di scioglimento, e ora con le primarie del 14 ottobre, nascerà finalmente il PD e saranno eletti sia il segretario nazionale, sia quelli regionali, insieme a 2460 costituenti, ai quali spetterà di gestire la fase costituente e approvare il Manifesto e lo Statuto del nuovo soggetto politico. Dunque, in linea di principio, la confluenza dei cattolici democratici nel PD non è affatto la loro morte, ma al contrario è il compimento di un lungo percorso, il cui inizio si può far risalire a don Sturzo nel 1919 con il Partito popolare. Le obiezioni che si muovono, certo, sono vere, ma erano già nel conto, se è vero – come afferma il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa –che «Il cristiano non può trovare un partito pienamente rispondente alle esigenze etiche che nascono dalla fede e dall’appartenenza alla Chiesa» e che pertanto «la sua adesione a uno schieramento politico non sarà mai ideologica, ma sempre critica»11. Di conseguenza, la vera sfida dei cattolici democratici, confluiti nel PD sta nel vedere se riusciranno ad approfittare del periodo costituente per elaborare insieme con i partner quella cultura politica omogenea, quell’ethos comune o «neo-personalismo solidale e laico», di cui abbiamo parlato. Non dovrebbe essere impossibile, dato che è questa anche la prospettiva del Manifesto del PD, già 11 Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 573. 16 approvato dai Democratici di Sinistra (DS) e dalla Margherita (DL) e che ora la Costituente dovrà ratificare o migliorare. In quel documento, infatti, si chiede ai partner (DS e Margherita) di «andare oltre» le rispettive tradizioni, non rinnegandole, ma sublimandole nella nuova identità unitaria del PD. I valori del nuovo soggetto politico – si legge nel Manifesto – «discendono dai molti affluenti della cultura democratica europea. Hanno le loro radici più profonde nel cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico democratico. Sono maturati nella dialettica tra queste diverse tradizioni e dal confronto con le sfide proposte dalle culture ambientalista, dei diritti civili e della libertà femminile, oltre che nella condanna delle ideologie e dei regimi totalitari del novecento. Sono anche frutto di una lunga sequenza di conflitti, basati su appartenenze religiose o di classe, e di tragici errori. Oggi possiamo considerare alle nostre spalle quei conflitti e quegli errori. Oggi soni valori che ci uniscono e gli obiettivi comuni che intendiamo realizzare a definire la nostra identità politica». Ecco perché – afferma il Manifesto concludendo – «Per noi, i democratici, la politica è prima di tutto servizio, è una nobile forma di amore per il prossimo e per il nostro Paese». Che altro è tutto ciò se non l’abbozzo di un «neopersonalismo solidale e laico»? Ma riuscirà la sfida? Infatti, il problema rimane aperto sul piano pratico e organizzativo, a causa delle procedure seguite fin qui. Si può veramente dire che il PD sia un «partito nuovo» oppure è soltanto un nuovo partito, che si aggiunge a quelli che già vi sono? Indubbiamente la creazione del PD costituisce il tentativo più importante, fatto fin qui, di rinnovare la vecchia forma-partito ideologica; ma la rapidità del processo ha prodotto la netta sensazione che si sia trattato di una fusione a freddo tra DS e Margherita, decretata dai vertici, secondo 17 vecchie logiche partitocratriche e senza un reale coinvolgimento della società civile, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario. In particolare, continuano a pesare il mancato chiarimento sul collocamento del PD in Europa, il modo in cui si sono scelte le candidature alla leadership, la logica spartitoria con cui si è garantita a ciascun partner la propria quota di rappresentanza. Perciò, il PD rischia di avere vita molto breve e travagliata, se durante la fase costituente che si aprirà il 14 ottobre non ricupererà slancio ideale, flessibilità organizzativa, se non rinnoverà la classe dirigente, se non si aprirà realmente alla società civile. In altre parole, per i cattolici democratici il vero pericolo viene non dal loro confluire nel PD, ma dalla capacità reale che essi avranno di confrontarsi con le altre culture politiche per giungere a una sintesi comune, che ne valorizzi le radici. A questo punto non possiamo non porre un interrogativo: che cosa accadrà qualora il tentativo del PD fallisse e se dovesse pure cadere il Governo Prodi? Certo, molto dipenderà dalla riforma della legge elettorale, tuttavia non si può escludere il rischio di una implosione del sistema bipolare attuale. Con quali prospettive? L’esplosione recente di una forma negativa di antipolitica e di populismo (qual è il caso clamoroso del comico Beppe Grillo) rischia di compromettere la lettura di un fenomeno nuovo, positivo, emerso come reazione sana e responsabile di fronte all’imbarbarimento della crisi. Alludiamo al moltiplicarsi di incontri di massa di cattolici, non di natura politica, ma di natura culturale, etica e religiosa. Solo quest’anno, nel 2007, abbiamo visto tutti il milione in piazza S. Giovanni per il Family day, i 500.000 giovani dell’Agorà di Loreto, le oltre 700.000 presenze al Meeting di Rimini, che finalmente sembra liberarsi dal tradizionale collateralismo politico, che ne annebbiava la dimensione «cattolica». 18 Di fronte a questi e altri simili eventi, che non si possono più attribuire alla personalità carismatica e mediatica di Giovanni Paolo II, appare evidente l’esistenza in Italia di quello che alcuni definiscono «cattolicesimo di popolo» molto vivace sul piano etico, culturale e religioso. Si tratta di una dizione non priva di ambiguità, dato che essa viene usata proprio nel momento in cui il «cattolicesimo democratico», confluendo nel PD, sembra a molti destinato a scomparire. Non è un caso, infatti, che si tenti di strumentalizzare politicamente il fenomeno, mettendolo in relazione al discorso sulla eventuale nascita di un soggetto politico di centro, nel quale potrebbero confluire sia gli orfani della DC, sia quanti altri provano disagio nel centro-sinistra e nel centro-destra. Che pensare? Non è in questione la legittimità che i cattolici, in base a un prudenziale giudizio storico, si uniscano in difesa di precisi valori fondamentali. La questione è «come» unirsi. Nella mutata situazione dei nostri giorni, non ha più senso guardare al passato e pensare di ricostituire la vecchia DC. Non solo per evidenti ragioni storiche, ma anche perché il Concilio Vaticano II ha chiarito che non è possibile dedurre una scelta politica direttamente dalla fede, che a nessuno è lecito strumentalizzare a fini politici il nome cristiano, né tanto meno «rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa»12; anzi – aggiunge il Compendio della dottrina sociale della Chiesa –, «pretendere che un partito o uno schieramento politico corrispondano completamente alle esigenze della fede e della vita cristiana ingenera equivoci pericolosi»13. Di per sé Savino Pezzotta, l’animatore del Family day, scartata l’idea di un nuovo partito cattolico, parla di un possibile movimento «parapolitico» di cattolici. Tuttavia, non 12 CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 43. 13 Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, cit., n. 573. 19 è ancora chiaro a che cosa pensi. Siamo in attesa di saperne di più. Ma forse il Signore, più che una nuova aggregazione sociale dei cristiani, oggi chiede un’altra cosa: che la Chiesa in Italia, ritornata a essere «piccolo gregge» (Lc 12, 32) dopo gli anni della cristianità, immetta nella costruzione della città dell’uomo il cemento della carità operosa, unitamente alla chiara testimonianza della fede. Che non sia già iniziata una stagione nuova, nella quale in Italia, più che parlare di «cattolicesimo di popolo», sia il «Popolo di Dio» pellegrinante nella storia del mondo (la Chiesa) chiamato a ricuperare sul piano religioso, culturale ed etico il suo essere «sale della terra», «luce del mondo» e «casa posta sul monte» (Mt 5, 13-16)? E’ appunto la direzione indicata da Benedetto XVI, che tanto insiste sul binomio fede-amore. Il tema della prossima Settimana Sociale di PistoiaPisa (18-21 ottobre): «Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano» potrebbe offrire l’occasione adatta per andare oltre una concezione ambigua di «cattolicesimo di popolo» (di cui vi è qualche traccia nel Documento preparatorio), aprendo il discorso – sia ad intra (per quanto riguarda i rapporti interni nella vita della comunità cristiana), sia ad extra (per quanto riguarda il futuro del nostro Paese) – a una visione del bene comune inteso come responsabilità di tutti, al di là delle rivendicazioni personali e corporative, per il raggiungimento di una nuova maturità di tutti sul piano religioso, culturale e sociale. 20 21 Dibattito Il potere è importante? Di fronte a problemi così grandi, se non ci uniamo cosa succede? Se siamo senza potere non si va avanti. Non sono d’accordo nel demonizzare il potere perché senza potere non si fa niente. Il potere, anche quello economico, non è un male. Però il potere è uno strumento. Quindi, anche per fare politica, si ha bisogno del potere; se non si ha potere non si fa politica. Il guaio è quando si fa politica per avere il potere, perché allora il potere da strumento diventa fine. Tutti vogliono il potere, ma è per servire o per comandare? Non si può guardare al potere come un fine, però ricordiamoci che se non abbiamo potere non facciamo nulla. È bene che i cattolici si uniscano? Siamo troppo frammentati, ma se noi cattolici ci uniamo solo tra noi frammentiamo ancora di più la società, diventiamo un’isola chiusa accanto ad altri che a loro volta si chiuderanno. Se alziamo steccati noi cattolici, gli altri chi sono, non sono tutti cittadini? Il bene comune non è il bene di tutti? Non facciamo un discorso astratto: quando le ideologie erano diverse e divise tra loro bisognava essere uniti perché dietro le ideologie c’erano modelli di società che si combattevano. Quando c’era la D.C. ci univamo attorno alla D.C. perché i partiti si erano appropriati di una forma ideologica e la volevano imporre: ed è nata l’ideologia cattolica. Oggi, nella società pluralistica, laica, secolarizzata, il futuro dell’Italia, del mondo globalizzato non è il trionfo delle ideologie, ma è il realizzare una sintesi culturale che ci unisca 22 nella diversità. Questo è il segreto del cristiano. Noi cattolici abbiamo tradizionalmente, per fede, una sensibilità comunionale, come diceva il cardinal Martini, e perciò non possiamo creare il nostro ghetto e dire: “Saremo forti, così capirete, avremo il 51%, toglieremo il divorzio, toglieremo l’aborto, finalmente vinceremo…”. Questo non è cristianesimo. Il cristianesimo è cambiare le coscienze. Se le coscienze non cambiano e io conto i voti in Parlamento e riesco ad abolire la legge sull’aborto, la gente va ad abortire all’estero… Il nostro potere non è un potere contro gli altri poteri, è condizione dei cuori per portare ad un umanesimo integrale attraverso la convinzione, nel rispetto delle coscienze. È più difficile, certo, ma come cristiani sappiamo che … non siamo noi a costruire con il nostro potere l’Italia, è Dio che costruisce. Allora per essere fedeli al “sì” della fede, dobbiamo essere coerenti, e qui chiamiamo in causa i preti, i Vescovi, il catechismo, la formazione delle coscienze. Quando Pio XI non poteva parlare perché c’era la dittatura fascista che cosa ha fatto? Ha fatto l’Azione Cattolica e l’Università Cattolica di Milano. Dall’Azione Cattolica, dall’Università Cattolica, dal movimento religioso sono nati coloro che hanno guidato l’Italia per decenni ed erano veri cristiani, perché erano state formate le loro coscienze. Questo è ciò che trasforma l’Italia, non: “pigliamo il potere perché siamo più forti e vinceremo”. Questa è una vecchia mentalità che divide e non unisce. Apparentemente unisce i cattolici, ma divide la società. In una società senza frontiere bisogna trovare un modo nuovo di essere cristiani autentici e di essere sale della terra, che è più difficile e coinvolge non solo i laici che militano in politica, ma anche i nostri Pastori. 23 Il Manifesto del Partito Democratico è un trucco? Non è che i valori del Manifesto del Partito Democratico siano un modo di incastrare i cattolici. Il testo è stato fatto da un gruppo di docenti, appartenenti a tutte le culture italiane, non molto conosciuti, non è stato fatto dai partiti. I partiti l’hanno approvato dopo averlo discusso. Adesso però il Manifesto dovrà essere rivisto, perché il nuovo Partito dovrà per prima cosa fare lo Statuto partendo dal Manifesto iniziale; ma può anche darsi che venga bocciato. Vedremo cosa verrà fuori. Quindi non è un trucco, perché viene fatto insieme. Il pericolo c’è, siamo così abituati agli sgambetti, ma qui si tratta di fare il bene comune di tutti. Bisogna cambiare mentalità. Il bene comune non è il mio bene personale, è il bene di tutti. Siccome siamo diversi, cerchiamo i valori che sono comuni, come nella Costituzione. Si tratta di avere delle persone capaci e competenti nel realizzare questo compito. Cosa vuol dire fede adulta? La fede adulta è fare veramente l’esperienza di Dio. Il cristianesimo non è un’adesione anagrafica, il cristianesimo è aver incontrato Gesù. Alle volte io dico: “Ma ci crediamo o non ci crediamo?” Non è una bella filosofia, una bella favola: c’era un Dio tanto buono, che un giorno mandò suo Figlio nella capanna di Betlemme, le pecorelle, il latte, i pastori. Che commozione! Non è questo il cristianesimo, il cristianesimo è che Gesù è stato ucciso ed è risorto ed è vivo; e chi incontra il Risorto cambia vita. Faccio sempre l’esempio di Mondadori. Tutti sanno chi è, un miliardario, 49 riviste, case editrici, 5000 operai, divorziato, risposato, figli dall’una, figli dall’altra. A un certo momento va 24 a incontrare Gesù risorto. È morto due anni fa di tumore, ha voluto fare un’intervista a Messori e il titolo l’ha voluto mettere lui: la parola “conversione”, perché Messori non la voleva. È andato a girare l’Italia, Mondadori, gli ultimi due tre anni di vita per dire a tutti come aveva incontrato Gesù. Allora fede adulta vuol dire una fede non appiccicata perché mia nonna diceva il rosario e padre Pio le ha tolto il mal di testa, ma è l’incontro di Gesù nella fede, il Figlio di Dio, che mi divinizza. Fede adulta vuol dire che io divento Cristo, vivo in grazia di Dio, mi alimento all’Eucaristia, alla parola di Dio. Dobbiamo diventare sempre di più così. Al tempo stesso è l’essere professionalmente validi. Non basta essere santi per essere bravi cittadini, o per essere bravi politici, o per essere bravi professori; accanto alla santità bisogna avere la professionalità. Si racconta di un bravo studente che diceva: “Io sono un uomo di grande fede. Quello che importa per passare gli esami non è studiare, è avere fede, pregare”. Il cristianesimo adulto! Ci sono dei santi che si sono fatti la fama di proteggere quelli che fanno gli esami, e davanti ai loro altari c’è sempre la coda… Questo studente diceva ai suoi compagni: “Io prego” ed è andato a fare l’esame. Come è andato l’esame? Ve l’avevo detto: “La cosa importante è la fede, la preghiera, perché non potevo trovare un professore più religioso di quello che ho trovato. Lui faceva la domanda, io rispondevo, lui alzava gli occhi al cielo e le braccia al cielo e diceva: “Gesù, Gesù”! Cristiani adulti: santi nella misura del possibile, anche se siamo peccatori, e poi preparati, cioè studiare, essere laicamente preparati in politica, in economia, in tutto… Paolo VI, per il numero 3000 di Civiltà Cattolica (allora ero direttore io), ci ricevette con tutti gli scrittori, ci fece un discorso scritto da lui, molto bello, che io ho pubblicato nel numero 3000; ci ha ringraziato così: “Vi ringrazio per la vostra obbedienza adulta al magistero della Chiesa, perché la vera 25 obbedienza non è nel ripetere materialmente quello che il Magistero ha detto; voi siete fedeli al Magistero, ma, mentre siete fedeli, cercate di farlo avanzare e lo fate accettare anche dai non credenti e dai lontani”. Questo è Montini: obbedienza adulta, non bambina. Come si fa a dialogare tra noi cristiani che facciamo scelte partitiche diverse? È un grosso problema. Su questo tema non sono così pessimista, oggi. Ho partecipato al primo Convegno della Chiesa italiana a Roma nel 1976 su “Evangelizzazione e promozione umana”. Il segretario della CEI, Mons. Bartoletti (un vescovo santo, di cui si è introdotta la causa di beatificazione) volle che insieme a Lazzati ci fossi anch’io come vicepresidente, perché, mi disse: “Voglio che la commissione responsabile del Convegno rappresenti la Chiesa in tutte le sue forme”. Accanto ad un laico volle un presbitero. Una delle commissioni affrontava proprio il tema dell’impegno politico dei cattolici: la crisi della D.C., la crisi del comunismo… Chiedeva uno spazio nella comunità cristiana in cui tutti i cattolici laici impegnati in politica potessero parlare tra di loro, al di là delle diverse posizioni, e anche insieme ai Pastori, i Vescovi, perchè potessero sentire direttamente i laici e ci fosse un luogo comune di formazione. È possibile che un cattolico di sinistra parli più facilmente con un comunista o con un radicale che con un cattolico di destra eppure fanno la comunione insieme? È uno scandalo. È essere cristiani? È la comunione che Gesù vuole tra di noi? La proposta fatta al Convegno non venne però raccolta con il motivo che era già stato addotto in Olanda. Era andata male, non era il momento opportuno… La proposta è stata rifatta nei Convegni successivi (Loreto, Palermo…) ma la risposta è sempre stata negativa. 26 Nella relazione del Card. Ruini al Convegno di Verona si è aperto uno spiraglio. Il documento finale dice: “Si facciano spazi nelle Chiese locali dove si possa realizzare questo dialogo”. Quindi l’idea è stata accolta. Io ho fatto un balzo di gioia. È un consiglio, però è più che un no, va verso il ni, verso il sì. Quello di cui c’è bisogno è che sia la comunità cristiana il luogo del confronto e della crescita insieme, in modo che tutti, al di là delle loro appartenenze, destra, sinistra, centro, si trovino insieme al Vescovo a livello locale, a livello regionale, a livello nazionale per potersi confrontare sui problemi. Non possono essere i Vescovi a dire quello che devono fare i laici. Come fa un Vescovo a dire: “Dovete votare così”. Non può e quando lo fa invade il campo. Ma dove sono i laici? Perché sulla procreazione assistita doveva parlare solo Ruini? Dove sono i laici? Manca il dialogo. Perché i nostri Vescovi si devono interessare della politica? Loro formano le coscienze, possono dire chiaramente in nome di Cristo: questa legge è contro Dio e contro l’uomo… Come facciamo a dire ai laici: comportatevi bene di fronte ai problemi di etica pubblica che sono difficili? La comunità cristiana deve aprire le porte, chiamare l’esperto e discuterne insieme e poi ciascuno si prende le responsabilità di come votare in Parlamento. Risponderà a Dio, agli elettori ecc. Non tocca ai Vescovi dire come devono fare. È questo il laicato maturo. Che cosa comporta la libertà di coscienza? I Vescovi non si possono sostituire alla libertà di coscienza, ma la devono formare. La coscienza è la voce di Dio, ma l’ascolto della voce esige la formazione che deve avvenire nella comunità cristiana. 27 Io spero che si vada verso questa forma. Trasformiamo il progetto culturale in spazi di incontro aperti a tutti; i laici si uniscano insieme ai loro Pastori dove si affrontano temi di etica pubblica, di dottrina sociale della Chiesa e poi ciascuno sceglie. Però questa educazione deve essere capillare, non basta una settimana sociale fatta ogni cinque anni. Occorre formare la coscienza, e tocca a noi essere coscienza responsabile. Tra i valori non negoziabili c’è l’aborto. Che cosa può dirci in merito? Come ci dobbiamo comportare sui valori “non negoziabili”? La Chiesa non ha mai accettato e noi non potremo mai accettare una legge abortista: la fede ci illumina, è un problema civile, è un problema umano. Io mi indigno quando sento dire che è un problema confessionale. Il Vescovo con la sua autorità morale non deve dire queste cose. È un problema laico, di civiltà. I Vescovi illuminano le coscienze; la mediazione alla luce del Vangelo sulla laicità della legge, la situazione giuridica, l’osservanza della Costituzione non tocca ai Vescovi ma ai laici illuminati (coscienza illuminata), competenti (professionalmente validi), che riescono a convincere anche i non credenti. Se dovessi andare in Parlamento ed è in gioco la legge sull’indissolubilità del matrimonio, io mi alzerei nell’emiciclo e direi: “Onorevoli colleghi, questa legge non si ha da fare, non perché lo dice san Matteo nel Vangelo al capitolo 6, ma per ragioni sociologiche, ragioni giuridiche, ragioni biologiche…”. Davanti a dieci ragioni di questo tipo possono dire: “Lo sai che mi hai convinto che deve essere proprio indissolubile? Dove hai trovato la luce per…?”. 28 La mia fede mi ha illuminato, ma la mia intelligenza ha studiato e ha trovato le ragioni laiche accettabili da credenti e non credenti. Non è necessario credere in Gesù Cristo per difendere la vita… Perché non riusciamo a capire l’importanza di certi valori umani, civili, delle coscienze rette, delle intelligenze oneste? Non è dicendo: se credi in Cristo voterai così. Non è questa la soluzione. La soluzione è rendere la mediazione culturale e politica dei valori. Nel documento della CEI a proposito dei “Dico” c’è scritto questo: se per la prima volta si presenta in Parlamento una legge contraria ai valori assoluti, i cattolici sono tenuti a votare contro. In Parlamento, qualora una legge fosse già approvata, i cattolici faranno di tutto per migliorarla e questo lo dice Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor. L’impegno nostro nella politica non è fare il male minore, ma fare il maggior bene possibile. E anche una legge che non è accettabile, poiché è contro l’uomo e contro Dio, una volta che c’è, non posso annullarla, cercherò di migliorarla secondo le regole democratiche. Testimonierò con la mia vita, dirò pubblicamente: “Non l’accetto, non la condivido, perché è contro Dio e contro l’uomo”. In Parlamento farò il maggior bene possibile, adopererò tutti gli emendamenti, tutti i paletti finché la coscienza rinnovata non mi permetta di fare anche una legislazione più equa. 29 Come impegnarci per il bene comune? Una cosa è l’affermazione e la lotta per i giusti valori, (il cattolico non rinunzierà mai a lottare), altra cosa è il rispetto e la ricerca di questo maggior bene. Si tratta di fare uno sforzo di preparazione. Se ci dessero questi spazi in cui crescere insieme, faremmo un servizio anche alla maturazione della nostra coscienza cristiana, perché come è apparso anche dagli interventi, dappertutto è così: molti hanno un vero problema di coscienza di fronte a scelte di certi partiti. Come faccio a collaborare con uno che non ammette il primato della vita? Mi rifiuto. In certe circostanze storiche è necessario che i cattolici si uniscano. Non è però questo il momento. In un momento di pluralismo ideologico culturale una cosa di questo tipo verrebbe a frantumare di più, cioè a incancrenire le divisioni, mentre c’è bisogno di avere il coraggio, sperando anche nell’aiuto di Dio, di combattere la battaglia come ha fatto Gesù, che poi è morto sulla croce. All’interno della Chiesa che cosa succede? La Chiesa è la fotocopia del collegio apostolico. Gesù con quei dodici apostoli… quante gliene hanno combinate!! Pietro ne combinava una dopo l’altra con il suo carattere esplosivo, Giuda l’ha venduto per 30 denari, attaccato ai soldi, Giovanni e Giacomo chiedono di fare il ministro degli interni e degli esteri, uno alla destra e l’altro a sinistra nel Regno dei cieli! E’ l’immagine della Chiesa di oggi. Essendo più di dodici nel collegio apostolico si moltiplicano i casi di persone fragili! La grandezza di Dio è tutta qui. Vi dico questo: ho fatto 25 anni alla Civiltà Cattolica, ho conosciuto da vicino tre Papi e una quantità grande di cardinali e monsignori; siccome venivo dall’Azione Cattolica ero convinto che quando uno aveva lo zucchetto rosso fosse santo o fosse su quella strada e quale fu la mia delusione quando mi 30 sono accorto che ci sono delle persone che fanno carriera, ci sono persone che sono santissime, però prima parroco, poi monsignore, ecc., e arrivano agli alti gradi... Questo non mi ha distrutto la fede, ma me l’ha fatta aumentare, perché sono capace anch’io di guidare la Chiesa se ho tutti santi, tutti intelligenti, tutti bravi; è facile! Quello che è più difficile è mandare avanti la Chiesa con quello che ho! Il concetto di strumento Quello che scandalizza è quando un uomo di Dio si attacca a tutto, subordina anche l’onestà della vita ai beni. Nessuno si scandalizza se un santo fa una grande casa, se ha bisogno di soldi per metterla in piedi, perché è a servizio dei poveri. Questo fa parte della tradizione. Ricordo quello che mi colpì, ancora giovane, in un istituto religioso. Era un pensionato universitario. In una parte riservata agli universitari c’erano tutte le opere più moderne, macchine moderne, trattamento non di lusso, ma di decoro. C’era una vetrata e c’era scritto clausura, quando ancora si usava. Al di là vi era l’appartamento dei Padri Gesuiti. Non c’era nulla. Le stanze dei padri avevano un tavolino di legno, una sedia vecchia…, mi ha fatto un’impressione così bella, per cui per servire gli altri non deve mancare nulla, per quanto riguarda la mia vita di testimone, c’è la libertà, il distacco. Il problema è che il denaro è appiccicoso. Sant’Ignazio ha scritto nelle Costituzioni che i gesuiti fanno un voto: tutte le volte che si deve discutere della povertà, se ne può parlare solo per stringere di più, mai per allargare. In una congregazione a cui ho partecipato io, siccome è cambiata la società, la questione degli stipendi, delle messe delle diocesi, abbiamo dovuto chiedere la dispensa al Papa dal voto per poter parlare liberamente, senza scrupoli, della povertà. Sant’Ignazio diceva: 31 ricordatevi che la povertà dal denaro è il muro su cui poggia la vita religiosa, se non regge questo muro crolla tutta. Gli strumenti li dobbiamo usare anche per evangelizzare. La testimonianza del distacco è quella che più edifica e insegna anche a chi usa il denaro che non è una maledizione, ma bisogna stare molto attenti perché è un po’ esplosivo. Come può avvenire la maturazione dei laici? Io ritengo che la soluzione vada ricercata nella maturazione della coscienza dei laici all’interno della comunità cristiana. Sicuramente l’appartenenza alla Chiesa in modo da avere un’adesione ai valori e avere un’opinione comune, un comportamento comune è una questione di maturità. Anche i Vescovi o i parroci sono restii a fare questo discorso sulla cultura; il problema è che siamo tutti impreparati, perché il cambiamento è stato così rapido, sono crollate le barriere culturali in così poco tempo che nessuno ha visto venire il cambiamento, e i parroci, i vescovi e i preti stanno peggio degli altri. Se voi mi chiedeste la parola fondamentale che riassume tutte le chiacchiere che ho fatto, direi la formazione. Questi incontri sono importanti perché ci si arricchisce, sono formativi, per cui, quando posso, accetto volentieri, perché la formazione in questo momento è fondamentale, anche per i Vescovi. Il Partito Democratico: quale interpretazione? Il P.D. è la novità che tocca da vicino la presenza dei cattolici in politica. È il problema più grave. Sono anch’io molto critico e ho molti dubbi che riesca, però mi sembrava 32 giusto far capire, secondo i principi esposti, che è una sfida che si può correre, che rientra nella linea sturziana e nella linea anche del Concilio, la linea di una testimonianza all’interno di culture diverse senza paura. Se la paura ci blocca non si fa niente, ci salveremo l’anima ma il mondo va in rovina. Che ci sia qualcuno che tenti questa strada, che qualche altro secondo la propria sensibilità culturale e spirituale non ci si ritrovi, come Monticone (persona che stimo moltissimo e rispetto), sono forme legittime diverse nel pluralismo. Rispettiamoci tutti, incontriamoci tutti, mettiamo in comune, facciamo emergere quello che ci unisce anche all’interno del mondo cattolico, della Chiesa. Questo è fondamentale, ci vuole uno strumento che crei nella comunità cristiana questo spazio di dialogo diretto, in modo che poi ciascuno si comporti secondo la sua coscienza illuminata. Ancora a proposito del bene comune A me ha fatto piacere trovarlo nella prolusione di mons. Bagnasco all’ultima Assemblea CEI; nella prolusione che ha fatto due giorni fa parla di questo ethos comune che deve essere il motivo del nostro impegno. Il che non vuol dire essere tutti obbligati, perché non è coerente…, non è cristiano… Non sono questi i discorsi, ma chi se la sente vada avanti, chi non se la sente liberamente scelga, però si comporti secondo coscienza coerentemente informata. 33 Il popolo di Dio: quale idea? Anche l’idea di popolo di Dio deve trovare il significato. Penso a queste grandi masse…, vedremo cosa dirà Pezzotta perché è l’anima di questo movimento, ma potrebbe sbandare, potrebbe essere strumentalizzato, è un po’ ambiguo, cerchiamo di capirlo. La parola di Dio ci aiuta a dire quel sì Ringrazio l’ultimo intervenuto perché ci aiuta a finire con la parola di Dio che è una parola viva. Noi purtroppo molte volte l’abbiamo uccisa mentre la parola di Dio è viva, è un’arma a doppio taglio che penetra nel cuore, nella coscienza, cambia la vita. Nutrirci della parola di Dio è perciò il modo migliore per avere quel “sì” adulto alla fede che è all’inizio di tutte le nostre riflessioni. E’ questo il proposito: nutrirci della parola di Dio che suppone conoscenza, studio, perché nasca una nuova generazione cristiana come lo Spirito santo sta cercando di fare, con un po’ di fatica, tra i cristiani del nostro tempo, che siamo poi noi. 34 Stampato in proprio ad uso interno Eventuali imprecisioni nel testo del dibattito, non rivisto dall’Autore, dipendono dal fatto che esso è stato trascritto direttamente dalla registrazione 35