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C’è un solo modo per dare una bella sferzata al metabolismo:
l’esercizio fisico. Lo capisco mentre sto rivedendo un articolo
che spiega come il pepe di Cayenna, l’estratto di cannella e dosi
massicce di caffè potrebbero ingannare il tuo corpo, forzandolo
a bruciare più calorie (ma forse no). Sto riflettendo su come
dire in maniera carina al mio capo che il pezzo è un ammasso
di scemenze impubblicabili, quando squilla il telefono.
Odio il telefono. Del resto, odio anche questo articolo,
quindi rispondo.
«Parlo con Marissa Rogers, l’esperta mondiale di dimagrimento?»
«Ciao, Jules», rispondo sollevata. È la mia migliore amica
e non un addetto stampa che cerca di rifilarmi l’ultimo strepitoso ritrovato sciogli-grasso. «Non hai idea della robaccia
su cui sto lavorando.»
«Fammi indovinare… una ricetta vegana di biscotti al
cartone?»
«No, quella ha almeno l’aria di essere commestibile», rido,
riferendomi all’incessante battaglia di Julia per mantenere
una linea da grissino. «Fuochino, comunque. Fai un altro
tentativo.»
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«Uhm… centoquarantadue modi per perdere gli ultimi
due chili e mezzo?»
«Fuocherello, ma niente da fare», le dico. «Trucchi metabolici.»
Julia grugnisce. «Non posso crederci… ancora questa
storia?»
«Lo so. Quest’anno è già la quinta, sesta volta», ribatto, e
non sono lontana dalla realtà. La rivista Curve, come molte
altre che si occupano di benessere, ripete gli stessi dieci articoli
allo sfinimento: ogni volta differiscono in misura millimetrica dalla versione precedente, così da non sembrare proprio
identici. I servizi sul metabolismo, ho stabilito, vanno su e giù,
nella classifica dei nostri argomenti più ripetuti: posizionandosi prima dei clisteri (esplosivi, ma efficaci) e dopo i segreti
dei divi per dimagrire (dieta ed esercizio, che nel linguaggio
di Hollywood sta per anfetamine e anoressia).
L’avviso di un’e-mail fa capolino nell’angolo destro del mio
computer. Appena la chiudo, eccone un’altra, e poi un’altra
ancora. «Senti, devo darmi una mossa, se voglio uscire di
qua prima di notte», spiego a Julia. «Tutto ok per il nostro
appuntamento?»
«Certo», risponde. «È proprio per questo che ti chiamo. Ti
va bene anche alle sei e mezzo? Sono in lievissimo ritardo.»
E poi aggiunge nel suo tono più dolce: «Devo solo passare a
prendere una cosina».
«Niente regali!» la rimprovero. «Stasera offro io. Sei tu
quella che è stata promossa, giusto?» le dico riferendomi alla
sua recente promozione ad agente pubblicitario senior per il
City Ballet di New York.
«Non è un regalo, testa di rapa.»
«Julia.»
«Marissa», mi scimmiotta. Riesco praticamente a im2
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maginarmela mentre sorride all’altro capo del telefono. «Ci
vediamo. Non fare tardi!»
Due ore – e mezzo bicchiere di Cabernet – più tardi sono
seduta a un tavolo accanto alla vetrata di un ristorante, cercando di non essere irritata, anche se sono quasi le sette e Julia
non accenna a farsi viva. Se stessi aspettando chiunque altro,
me ne sarei andata già da un quarto d’ora: cresciuta da una
madre ritardataria cronica, sull’argomento sono assolutamente
intollerante. Ma in questo caso posso solo prendermela con
me stessa, perché so benissimo che le chance che Julia si presenti all’ora stabilita sono pari a quelle di vedere orsi polari
che sguazzano nell’Hudson.
Sorseggio un altro po’ di vino e giocherello con il pezzettino
di formaggio che mi ha portato un cameriere come aperitivo
(senza pensare al fatto che, con nove grammi di grasso per
ogni minuscola porzione, non posso nemmeno avvicinarlo alla
bocca). Al di là della vetrata, Gramercy palpita di vita. Adoro
questo quartiere, con i rami delle magnolie che arrivano quasi
a terra e le vecchie facciate di arenaria. C’è ancora un po’ di
luce, e, come spesso accade a settembre a New York, fa abbastanza caldo da poter andare in giro in sandali e abiti corti.
Scorgo in lontananza una brunetta dall’aria familiare che
attraversa a grandi passi Irving Place e sono punta da un
fugace moto di invidia; a differenza di Julia, non sarò mai il
tipo di donna che gli altri pedoni si voltano a guardare. Non
che abbia un aspetto da indossatrice – in una città piena di
modelle sarebbe poco degno di nota. È il suo volto a forma di
cuore e i suoi occhioni grigi che sono strabilianti, e il fatto che
si muove con tale scioltezza da attirare gli sguardi. Quando
usciamo, la gente la ferma per chiederle da dove viene. Ogni
volta si inventa una nuova provenienza – Honduras, Ucraina,
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Siria – con il suo migliore accento del Midwest, e poi si piega
in due dalle risate.
Nel momento in cui riesco a metterla a fuoco, mi accorgo
dell’enorme mazzo di peonie bianche che ha sottobraccio,
sicuramente per me. Fuori stagione, quei fiori devono esserle
costati una fortuna, ma è abbastanza improbabile che si sia
posta il problema di chiedere il prezzo al fiorista prima di
porgergli la carta di credito. Una volta le ho detto che mi
sentivo in colpa: mi sembrava che lei fosse sempre obbligata
a portarmi qualcosa. «Il mio linguaggio affettivo è fatto di
doni, il tuo di momenti preziosi che mi regali», mi aveva
spiegato in modo molto diretto, e così ho finito per smettere
di protestare quando si presentava con un pacchetto di caffè
preso a San Juan, o con un soprammobile di vetro soffiato
trovato su una bancarella, o, come oggi, con dei fiori.
Julia percorre la strada a tempo di record, ha ben presente
che la sto aspettando. Arriva all’angolo, mi vede dietro la
vetrata e mi lancia un enorme sorriso. Sollevo il mio calice
in segno di saluto e lei mi fa un cenno di risposta, poi fa un
piccolo passo verso di me e attraversa la strada.
Ancora prima che io riesca a riappoggiare il bicchiere sul
tavolo, un taxi la investe.
Tutto succede così velocemente che faccio a malapena in
tempo a registrare la saetta di metallo giallo che colpisce Julia
facendola rimbalzare sul cofano e poi sull’asfalto.
Non grido. A dire il vero, non faccio nulla finché non mi
accorgo di essermi bagnata i pantaloni: ho rovesciato il vino
dappertutto. Mi alzo di colpo e corro fuori, facendomi largo
tra la piccola folla che si è radunata. Le voci si accavallano, e colgo spaventosi mozziconi di frasi uno dopo l’altro.
«Davvero impressionante», «Frattura del cranio», «Natasha
Richardson», «Morta».
Cercando di riprendermi dallo shock, mi preparo a una
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scena tremenda. Quando finalmente raggiungo Julia, però,
non solo è cosciente, ma sta anche cercando di mettersi a
sedere. Ha i capelli scompigliati davanti al viso, e il suo ginocchio destro, che fa capolino dalle calze rotte, sanguina.
A parte questo, non sembra più turbata di una persona che
è semplicemente inciampata.
Alza lo sguardo verso di me, poi fissa con ansia i petali
bianchi sparsi tutto attorno a lei. «I tuoi fiori.»
«Julia! Tutto bene?» ho la bocca secca, e sento un sapore
metallico sulla lingua. «Non preoccuparti dei fiori. Leviamoci
dalla strada.»
Una signora anziana punta il dito verso Julia. «Ha battuto
la testa, e anche forte. Farebbe meglio ad andare in ospedale.»
«Ho chiamato un’ambulanza», sta dicendo il tassista, senza
rivolgersi a nessuno in particolare. Ha gli occhi arrossati, e
capisco che ha pianto.
«Niente ospedale», risponde Julia alzandosi lentamente
in piedi. «Sto bene.» Indica debolmente il tassista. «Potevi
ammazzarmi.»
Devo avere un’aria preoccupata, ma Julia mi rassicura.
«Sto bene. Mi sento solo un po’ molle.»
«Certo. Perché non ti rimetti a sedere?» Raccolgo la sua
borsetta da terra. «Vado a prendere i dati del tassista.»
«Grazie», mi risponde, e lascia che un tizio con l’aria da
bancario, palesemente colpito dalla sua avvenenza, la accompagni sottobraccio fino a una panchina di fronte al ristorante.
«Quella signora ha ragione, tesoro. Dovresti farti dare
un’occhiata», mi rivolgo a lei mentre frugo nella borsa in
cerca di carta e penna – e non è affatto facile, visto che non
riesco a smettere di tremare. Mi sto rendendo conto che per
un pelo la mia migliore amica non è stata stirata dalle auto
che arrivavano dietro al taxi, e non è affatto bello. «Non
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vorrai mica scoprire di esserti rotta qualcosa domani, alla
lezione di danza.»
La folla si dirada rapidamente, e aspetto sul marciapiede
che il tassista recuperi il suo libretto di circolazione e l’assicurazione. Dopo aver controllato e ricontrollato i dati che ho
scarabocchiato, mi giro di nuovo verso il ristorante.
Mi accorgo subito che c’è qualcosa che non va. Julia è
accasciata sulla panchina, con le mani sulle orecchie. «Mi
fa male la testa», dice. Ondeggia leggermente mentre cerca
di guardare verso di me, e mi accorgo di un sottile rivolo di
sangue sotto la narice destra. Poi si lamenta. «Ho la nausea.»
Non riesco a fare a meno di ritrarmi – proprio non sopporto la vista o l’odore del vomito. Ma anziché rigettare,
Julia crolla lunga distesa sulla panchina prima che il bancario
possa afferrarla.
«Ambulanza… arriva?» riesce a biascicare.
E poi sviene.
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A quattordici anni, dopo una serie incessante di pressioni,
riuscii a convincere mia madre a iscrivermi al liceo superesclusivo di Ann Arbor. Le medie erano state un inferno, e volevo
dare un taglio netto alle mie scarse e sfigatissime amicizie, ma
soprattutto ai bulli che mi tormentavano senza tregua. Sapevo
anche che il liceo a cui sarei dovuta andare a Ypsilanti, dove
vivevamo, era uno dei peggiori dello Stato. Avevo trasmesso
con noncuranza l’informazione a mia madre, che immediatamente mi aveva sfilato di mano la penna e aveva firmato il
modulo di richiesta di trasferimento che mi ero già presa la
libertà di compilare.
Mi pentii della mia decisione nell’esatto istante in cui varcai
le porte del liceo Kennedy. I ragazzi nell’atrio sembravano
essere usciti direttamente da una versione deluxe di Beverly
Hills 90210. Le ragazze erano tanto truccate da avere un’aria
trash, ma non sgradevole, e indossavano camicette con volant e leggings che non solo non mi sarei potuta permettere,
ma che addosso a me, bassotta e rotonda, sarebbero stati
ridicoli. E a differenza dei ragazzi del mio quartiere, la cui
idea di «stile» consisteva in magliette dai colori sgargianti e
jeans con il cavallo al ginocchio, il liceo Kennedy sembrava
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brulicare di ragazzoni dall’aria atletica con felpe dai toni pastello e pantaloni che – aiuto! – calzavano davvero a pennello.
Chiaramente, non era un posto per me.
Il sospetto divenne certezza già alla prima ora: nemmeno
un’anima viva mi rivolse la parola. Cercai di sorridere e di
lanciare allegri «ciao!» più di una volta, ma persino l’adolescente alla mia sinistra, fasciato da pantaloni attillati e con una
mega-capigliatura afro, si limitò a fissarmi senza dire nulla.
All’ora di pranzo ero ormai convinta di aver fatto l’errore
più colossale della mia breve vita. Cercai di assumere la mia
espressione migliore mentre prendevo il vassoio di plastica blu
e ciondolavo in fila, ma non appena entrai nell’affollata sala
mensa – e capii di non avere nessuno accanto a cui sedermi
– faticai a ricacciare indietro le lacrime.
Di colpo, sentii: «Ehi, vieni qui!»
Ed ecco Julia, che mi faceva cenno di raggiungerla al suo
tavolo. Ero così stupita che – non scherzo – mi voltai per controllare che non stesse parlando a qualcun altro. «No, proprio
tu, sciocca», si mise a ridere, indicando la sedia accanto alla
sua. «Marissa, giusto? Ti ho vista alla lezione di biologia.»
Fissavo il vuoto con aria assente. Avevo notato Julia, che
troneggiava in mezzo a una corte di bambole perfettamente
pettinate, ma non pensavo assolutamente che mi avesse degnato di uno sguardo. Continuò: «Stavo giusto dicendo a Jen,
qui», la bionda accanto a lei, certo, «che secondo me hai i
capelli più belli della scuola! Cosa ci metti?»
Sorrisi, imbarazzata e lusingata allo stesso tempo. Avevo
capito, già un bel pezzo prima del liceo, che il mio aspetto era
assolutamente ordinario. L’unica cosa degna di nota, in me,
sono i miei capelli: folti, ondulati, di color castano ramato,
sono la mia parte migliore, e ne sono sempre stata vanitosamente orgogliosa.
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«Oh, cavolo. Grazie», risposi. «Niente di speciale, davvero.
Shampoo, un po’ di balsamo e via.»
«Fa-vo-lo-so! Sono invidiosa», aggiunse. Che una come
Julia, a quattordici anni già uno schianto, potesse essere invidiosa di me era assolutamente ridicolo. Anche se non l’avrei
fatto notare. Mi appoggiò un braccio su una spalla. «Vieni,
siediti, ti presento in giro. Le ragazze ti adoreranno.»
Come previsto, ovviamente, le bamboline non mi adoravano
affatto. Ma, con mio grande stupore, Julia sì. «Sei davvero
fortissima», disse ridacchiando a un paio di mie battute, e
fulminando con lo sguardo Jen S., fino ad allora nota come
«la divertente del gruppo», per aver osato alzare gli occhi al
cielo quando aveva sentito il complimento.
Mi fu presto chiaro che, per quanto l’incantevole e carismatica Julia amasse essere circondata da ammiratori, le
mancava l’unica cosa che volesse davvero: una confidente.
Si era stufata, mi aveva confessato, della totale assenza di
curiosità dei suoi amici per qualsiasi argomento al di fuori
del football o della moda. «Ma tu e io, Marissa», mi aveva
detto con tono da cospiratrice, «ora potremo parlare di tutto.»
E così facemmo. Stavamo sveglie fino all’alba a discutere se
Emily Dickinson fosse contenta di stare da sola, se le merendine del supermercato valessero davvero la pena, con tutte
quelle calorie, quanto la vita sarebbe stata migliore quando
finalmente saremmo diventate adulte e saremmo scappate
dal Michigan per pascoli più verdi – più di preciso, a New
York, dove lei avrebbe sfondato nel mondo del balletto e io
sarei diventata la più giovane capo redattrice nella storia dei
settimanali.
Non ci volle molto tempo per diventare inseparabili. Essere
la migliore amica di Julia era come avere sempre in tasca un
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biglietto per un mondo divertente, pazzesco e ultraprivilegiato,
e i primi sei mesi non furono altro che un corso intensivo di
recupero. «Non hai mai sentito parlare dei Pearl Jam?» esclamò
Julia accorgendosi della mia ennesima inadeguatezza. Poco
male: trascorse i due giorni successivi a iniziarmi al mondo
del grunge. Quando le confessai la mia totale ignoranza in
tema di anatomia maschile, colmò le lacune che le lezioni di
educazione sessuale avevano lasciato. E, senza che lei proferisse un solo commento sul mio guardaroba pietoso, ben
presto cominciammo a dedicarci a sabati di shopping in cui mi
insegnava a scegliere i capi migliori nei negozi di vestiti usati
e a indossarli in modo da valorizzare i miei fianchi generosi.
Julia era un cavo ad alta tensione, e tutto quello che toccava si elettrizzava – me compresa. Mi sentivo come se mi
avesse risvegliata dopo anni di sonno profondo. Come avevo
fatto a non capire che la mia vita, fino ad allora, era stata
così noiosa? E tuttavia, appartenevamo a galassie talmente
diverse che non riuscivo a scuotermi di dosso la sensazione
che provasse pietà per me.
Con il passare dei mesi, incominciai a rendermi conto che
sotto la vernice dorata, Julia nascondeva un interno irregolare
e imperfetto. Figlia unica di genitori ricchi, era abituata ad
averla sempre vinta e, a differenza di me, non si faceva scrupoli a fare una scenata se non ci riusciva. Nonostante fosse la
persona più sicura di sé che avessi mai conosciuto, era anche
estremamente possessiva. «Tu ed Heather avete già passato
fin troppo tempo assieme», mi disse una volta mettendo il
broncio e riferendosi alla mia compagna del corso di biologia.
E io, non volendo rischiare di mandare tutto all’aria, non feci
altro che chiedere all’insegnante di mettermi in coppia con
qualcuno che «chiacchierasse di meno», lasciando la povera
Heather con un palmo di naso. Generalmente, però, sapevo
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calmarla e confortarla, aiutandola a tenere nascosti al resto
del mondo i suoi spigoli più affilati.
Una volta, durante il primo anno, mi chiamò in lacrime a
tarda notte. «Mari, vieni subito, non ce la faccio.» Preoccupatissima, sgattaiolai fuori di casa, saltai su un autobus, e mi feci
a piedi quasi un chilometro dalla fermata a casa Ferrar, dove
mi intrufolai in silenzio. La stanza di Julia era vuota, e così
andai a perlustrare la biblioteca che i suoi genitori avevano
trasformato in una sala di danza. La trovai lì, in maglietta,
calzamaglia e scarpette a punta, con il viso solcato di lacrime.
«Oddio, cos’è successo?» le chiesi. Il cuore mi batteva a
mille all’ora. Non l’avevo mai vista in quello stato.
«Sono i miei genitori», disse asciugandosi la guancia con
il dorso delle mani. «Non mi capiscono. A volte sembra che
mi odino.»
Le passai il braccio dietro la schiena in una stretta improvvisata. «I tuoi ti adorano. Non hai idea di quanto tu sia
fortunata.»
«No!» esclamò in un gemito. «Sono ciechi. Papà dice che
devo andare ad Harvard, e non alla Juilliard. Io non voglio!
Si è mai vista una ballerina, ad Harvard? Il suo cervello di
avvocato è così ossessionato dalla logica che non è capace di
vedere qual è il mio destino.» Riprese a piangere.
Non lo avrei detto ad alta voce nemmeno per sogno, ma
non capivo perché Julia ce l’avesse tanto con i suoi. Mia madre,
che si era sobbarcata il ruolo di genitore unico fin da quando
io e mia sorella Sarah eravamo alle elementari, lavorava con
orari massacranti, e quando era in casa la sua idea di maternità
consisteva nel dirci dove sbagliavamo. «Marissa, non credo
che quella gonna ti faccia esattamente un favore», mi diceva
per salutarmi quando, la mattina, ci incrociavamo in bagno. A
volte cercavo di attirare la sua attenzione dicendole qualcosa
di esagerato, per esempio che sarei stata stata fuori la sera
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fino alle due, e che probabilmente alla festa a cui andavo ci
sarebbe stata della birra: la sua reazione era guardarmi da
dietro le pagine del romanzo rosa che stava leggendo e mormorare: «Sei una ragazza intelligente. Usa la testa, ed evita i
ragazzi che ti ricordano tuo padre». E per quanto riguarda
l’università, mi aveva chiaramente detto che se mai avessi
voluto frequentarla sarebbe stata una scelta unicamente mia,
il che rendeva gli istituti più prestigiosi un miraggio.
I genitori di Julia, invece, sembravano credere non ci fossero limiti per nessuna di noi due. «Scommetto che sarai la
prossima Katherine Graham», mi incoraggiava Grace quando,
nel loro soggiorno, le raccontavo dei voti che prendevo in
lettere. A differenza di mia madre – lei sembrava conoscere
così poco di me: ogni volta che le dicevo che non mi piaceva
la maionese cadeva genuinamente dalle nuvole – Grace sapeva
che amavo le scienze, sebbene fossi un disastro, e che avevo
un debole per le barrette di cioccolato al burro di arachidi.
Era al corrente addirittura della mia cotta per Adam Johnson,
un ragazzo di un anno più grande, che io sospettavo essere
innamorato di Julia. La questione era semplice: Grace e Jim
davano l’impressione di adorare la loro figlia, e anche me. Se
gliel’avessimo permesso, Grace avrebbe chiacchierato con noi
per ore. Jim fingeva di essere severo: «Niente danza finché
non hai finito i compiti», si raccomandava. Ma mentre la
rimproverava sorrideva sempre, sembrava credere davvero
poco a quello che stava dicendo. I Ferrar mi piacevano così
tanto che quando mi svegliavo a casa loro, dopo essermi
fermata a dormire da Julia, entravo a passi felpati nella loro
enorme cucina e mi versavo il caffè, fingendo di essere a casa.
«Jules, hai ancora tre anni per fargli cambiare idea», la
consolai. «E inoltre, non importa che università frequenterai.
Sarai una star, sicuramente.»
«Lo pensi davvero?» mi chiese dopo un minuto.
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«Certo», le risposi spostandole con dolcezza i capelli dagli
occhi. «E così tutti gli altri.»
«Oh, Marissa. Cosa farei senza di te? Proprio nel momento
in cui sto per buttarmi di sotto, ecco che arrivi tu a portarmi
via dal cornicione.»
«È a questo che servono gli amici, no?» la tranquillizzavo.
«Inoltre, tu faresti lo stesso per me. E ora smettiamola di
preoccuparci dei tuoi genitori e concentriamoci sul fatto che
diventerai la più grande ballerina del mondo. Perché non mi
fai vedere quella scena da Giselle che stavi provando?»
«Va bene», disse con un sorriso abbozzato, allacciandosi
i nastri delle scarpette. «Comincio da capo.»
Quella notte capii che la sua non era pietà. La verità era
che Julia aveva bisogno di me tanto quanto io ne avevo di lei.
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