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INTERSEZIONI
Andrea Leccese
INCIUCIO FOREVER
La costante del trasformismo
nella politica italiana
ARMANDO
EDITORE
LECCESE, Andrea
Inciucio forever. La costante del trasformismo nella politica italiana ;
Roma : Armando, © 2014
128 p. ; 20 cm. (Intersezioni)
ISBN: 978-88-6677-726-7
1. Storia dei governi italiani
2. Politica
3. Larghe intese e trasformismo
CDD 302
© 2014 Armando Armando s.r.l.
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SOMMARIO
Introduzione
9
L’agenda Cavour
11
La stagione del trasformismo viene e va
19
La coppia di fatto Giolitti-Turati
29
L’ammucchiata Mussolini
47
DC ti voglio bene
87
E quindi?
121
Postfazione: Conversazione con Achille Occhetto
123
Bibliografia essenziale
127
A Raffaela, mia madre.
E a Carlo, mio padre, e mio politico preferito,
che ci ha lasciato l’11 giugno, come Enrico.
Adesso sono lassù, tra le nubi, a discutere
della giustizia sociale, degli “amici cattolici”
e del “compromesso storico”.
Ma anche lì, gli ufficiali dell’ammiragliato spagnolo
non volevano che si muovesse nulla, per carità! Su quel
punto, i capi della nostra nave e quelli della nave nemica, pur odiandosi a morte, andavano proprio d’accordo.
Cosicché, la bonaccia non accennando a finire, si prese
a lanciare dei messaggi, con le bandierine, da una nave
all’altra, come si volesse aprire un dialogo.
Italo Calvino, La gran bonaccia delle Antille, 1957.
INTRODUZIONE
La storia dei governi italiani finora esistiti è storia di trasformismo, connubi, compromessi, inciuci, larghe intese e via dicendo. Una
costante della nostra storia è la formazione di ampie maggioranze,
con la convergenza verso il centro di forze politiche eterogenee e di
singoli parlamentari ballerini, accomunati dalla volontà di difendere
il “sistema” dalle minacce dei “sovversivi”. Dunque tutte alleanze di
necessità raggiunte per “il bene supremo del paese” e per ragioni di
“emergenza”.
Da Cavour fino a Letta, passando per Depretis, Giolitti, Mussolini,
De Gasperi, Moro e Berlusconi, non c’è mai stato spazio per una reale alternanza tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra. C’è
stato invece sempre tanto spazio per la confusione e per le “sanguinose” e sterili battaglie parlamentari accompagnate da una convergenza nei fatti.
Si pensi alla storia del PCI, dei bolscevichi d’Italia che non solo
non furono mai seriamente rivoluzionari, ma non credettero mai neppure in una “alternativa di sinistra” ai governi democristiani, sognando bensì la soluzione “cattocomunista”.
Nell’autunno 1973, esattamente 40 anni fa, il segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, fedele alla linea di Palmiro Togliatti,
lanciò la strategia del “compromesso storico”, cioè dell’alleanza con
gli amati nemici scudocrociati, coi quali da sempre avevano stabilito
una feconda collaborazione legislativa.
Si pensi anche al ventennio berlusconiano, di cui ovviamente questo libretto non parlerà, trattandosi di una vicenda non ancora conclusa. Molto curiosa è la retorica “anticomunista” dei berluscones, del
9
tutto anacronistica se si considera che il glorioso PCI non esiste più
dal lontano 1991, e assolutamente incomprensibile se si considera
poi che essi da vent’anni vanno felicemente a braccetto coi pericolosi
nipotini di Togliatti.
A partire dal 1994, dopo l’assimilazione di massa dei fratelli sovversivi del PSI di Craxi, il partito del Cavaliere ha posto in essere una
grandiosa operazione trasformistica di tipo giolittiano tesa in un primo momento ad accogliere il maggior numero possibile di comunisti
pentiti, successivamente ad inciuciare con il partito dei sinistri (collaborazione legislativa con DS e PD), ed infine a governare beatamente
insieme a loro in un clima di “pacificazione nazionale”. Infatti, la
nipote del Duce gongola, perché il signor B. è riuscito finalmente a
realizzare il sogno del Nonno: quello di “pacificarsi” col movimento
operaio in un abbraccio mortale.
Sebbene non si possa sostenere che i governi di larghe intese abbiano prodotto soltanto scempi, tuttavia è legittimo chiedersi se un
sistema bloccato come il nostro, in cui cioè non si creano le condizioni per una vera alternanza, costituisca o meno un’aporia della
democratizzazione.
Il saggio non ha la pretesa di rispondere a questa difficile domanda, ma vuol dare qualche suggestione, qualche spunto di riflessione
ai lettori che avranno la sventura di leggerlo.
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L’AGENDA CAVOUR
Il connubio Cavour-Rattazzi lo voleva l’Europa. Napoleone III lo
approvò a Parigi il 5 settembre 1852, in un dopocena nella sua reggia. C’erano entrambi, il conte di Cavour e l’avvocato di Alessandria
Rattazzi. A stomaco pieno e sotto l’effetto dello champagne, l’incontro fu un vero successo e si concluse con baci, abbracci e giudizi
politici favorevoli e reciproci.
Ma cosa pensavano oltre Manica? Gli inglesi consideravano
Cavour il miglior ministro della Finanze d’Europa e forse lo vedevano già come il vero capo del governo.
L’Agenda Cavour peraltro trovava il convinto favore di illustri
economisti come Adolphe Blanqui, che gli aveva espresso tutta la
sua ammirazione. E lo stesso Cobden si diceva convinto che “non c’è
nessuno in Europa che sappia trattare questioni finanziarie ed economiche più abilmente del vostro ministro delle finanze”.
Del resto, la vera star della politica piemontese era Cavour: la
gente lo fermava per strada e non sempre per fargli i complimenti
(per fortuna aveva la scorta). Poi l’ambizione certo non gli mancava.
Insomma egli era un rottamatore ante litteram.
Nell’ottobre del 1850, era stato chiamato a partecipare al governo
come ministro dell’Agricoltura, del Commercio e della Marina, in
pieno conflitto d’interessi.
Il quarantenne di Chieri, figlio del capo della polizia di Torino,
era infatti un proprietario terriero e azionista di maggioranza della Società Anonima dei Mulini Anglo-americani di Collegno, il più
grande ente privato granario della penisola.
Al Ministero dell’Agricoltura aveva preso il posto del suo amico
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e compagno di viaggi Pietro di Santa Rosa, del quale il conte era il
successore naturale, non solo per le sue competenze, ma anche perché conosceva bene i problemi di cui si occupava l’amico. Per questo Massimo d’Azeglio lo scelse, ma pare che il re non fosse molto
d’accordo. Si vocifera, a tal proposito, che Vittorio Emanuele II, alla
richiesta di assenso per la nomina di Cavour a ministro, rispose con
una battuta velenosa: “Se lo volete, prendetelo pure; ma vedrete che
in capo a un anno vi avrà portato via il portafoglio”. E la profezia si
sarebbe avverata.
A Cavour quella carica non bastava. Il suo nuovo obiettivo era il
Ministero delle Finanze che conquistò nel 1851, con manovre non
sempre limpide. Per impadronirsene, dovette scalzare un suo amico,
Giovanni Nigra. Insomma, vatti a fidare degli amici!
Al Ministero della Finanze c’è da dire che diede ottima prova di
sé: è vero che egli intraprese quell’opera di ammodernamento di cui
aveva bisogno il Piemonte, con una politica che oggi potremmo definire keynesiana. Da un lato adottò provvedimenti per assestare il
bilancio, che era ovviamente in passivo, e dall’altro stimolò investimenti e misure per accelerare la crescita.
Ma anche l’abito di ministro delle Finanze gli stava stretto. E il
rottamatore di Chieri era pronto al nuovo traguardo: prendere il posto
del presidente del Consiglio.
Il conte e il presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio erano
letteralmente come il cane e il gatto. Dire che non andassero d’accordo è poco. Si trattava di due persone con caratteri decisamente inconciliabili. Il primo era ansioso e travolgente, il secondo era tranquillo,
serafico, distaccato.
Come ha scritto Piero Ottone, Massimo d’Azeglio era “uno di quegli uomini politici, ormai rari in Italia e nel mondo, che svolgono la
loro attività con elegante distacco, per senso del dovere piuttosto che
per gratificazione personale”. Il contrasto era perciò inevitabile, perché dall’altra parte c’era la frenesia di Cavour, il quale metteva anima
e corpo in quello che faceva. Il conte era super impegnato, lavorava
dalle 5 del mattino fino a tarda sera e non tollerava la flemma signorile
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del capo del governo. In cuor suo, era una vera ingiustizia che primo
ministro fosse d’Azeglio.
Infine la grande ammucchiata centrista la volle anche il Papa e di
conseguenza il re. Sebbene Vittorio Emanuele II non amasse molto
Cavour, d’Azeglio questa volta l’aveva fatta grossa: pretendeva di
approvare la legge sul matrimonio civile, cioè un insulto per la Santa
Sede, che era pronta a una vera crociata contro l’istituto peccaminoso. Massimo d’Azeglio e il suo governo erano favorevoli alla sua
introduzione nel regno di Sardegna; il re era invece assolutamente
contrario, per timore della reazione del Vaticano. Ma come dargli torto? Quando si diffuse la notizia di quel progetto di legge, apriti cielo!
Vennero raccolte petizioni nelle parrocchie, spedite lettere pastorali,
avviate violentissime campagne da parte della stampa cattolica.
La Santa Sede ovviamente condannò la legge, con sentenza inappellabile. In una lettera del 2 luglio 1852, Pio IX mise duramente il
re davanti alla realtà dichiarandogli a chiare lettere che “il progetto
di legge testé pubblicato a Torino pel matrimonio, non è cattolico”. A
quel punto, Vittorio Emanuele, d’intesa con d’Azeglio, replicò inviando al Papa una dettagliata esposizione dei motivi della legge redatta
dal governo, facendo però rilevare che essa non era ancora passata al
Senato e che dunque avrebbe potuto ancora essere modificata.
La risposta pontificia del 19 settembre giunse puntuale, con una
solenne esposizione di dottrina e di principi, che culminava nella ribadita conclusione della non cattolicità del progetto, amen. Il capo
del governo ne uscì ovviamente con le ossa rotte.
Insomma i tempi erano maturi per mandare finalmente in pensione il vecchio Massimo d’Azeglio. L’inciucio era pronto: centrosinistra e centrodestra si preparavano a governare tutti insieme appassionatamente, emarginando le forze estreme come la Lega, l’IDV e…
pardon: l’estrema destra di Cesare Balbo e i terribili mazziniani. E
così fu: quando il 21 ottobre 1852 il re dichiarò nel Consiglio dei
ministri che la sua coscienza non gli consentiva di approvare una legge matrimoniale condannata dal Papa, d’Azeglio, ormai malfermo in
salute, scelse la via delle dimissioni, che presentò, a nome dell’intero
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gabinetto, la sera del giorno successivo, il 22 ottobre. C’è da dire che
era proprio ineccepibile la coerenza del sovrano, il quale da tempo se
la spassava con la bella Rosina, moglie di fatto al di fuori dei sacramenti: si narra del resto che il suo fantasma abbia lasciato il Pantheon
per partecipare al Family Day con Casini e compagni.
La strada era dunque spianata per il conte di Chieri, che sbalordì
tutti con una larga maggioranza variegata, ma di uomini saggi e responsabili che agivano per il supremo interesse del paese. Ovviamente,
il governo Cavour non pensò mai al matrimonio civile: lo voleva Pio
IX. È indubbio che il conte avesse una certa simpatia per gli ambienti
cattolici. Egli non pose mai sullo stesso piano la destra cattolica e la
sinistra democratica repubblicana. Invero riteneva possibile e auspicabile che in futuro la prima si evolvesse così da dare vita a un partito
conservatore costituzionale. Lo stesso non era possibile per i repubblicani di Mazzini, perché la forma monarchica era un tabù.
Per fare le scarpe a d’Azeglio, il conte aveva preparato un ampio
consenso parlamentare, che trovò alleandosi di nascosto con quello
che avrebbe dovuto essere il suo più acceso avversario politico, cioè
il leader della sinistra Urbano Rattazzi. I due si erano incontrati nel
massimo segreto, la sera del 30 gennaio 1852, a casa dell’avvocato
Castelli, uomo di fiducia del ministro.
I vantaggi dell’intesa sarebbero stati consistenti per entrambi:
Cavour avrebbe avuto la poltrona di capo del governo e Rattazzi
quella di vicepresidente della Camera.
Come ha scritto Rosario Romeo, “l’accordo fu presto raggiunto su
basi assai semplici: separazione dalle estreme e confluenza del centro
destro e del centro sinistro su un programma di risoluta difesa delle
istituzioni costituzionali e di progresso civile e politico”.
La nuova maggioranza risolse certamente vecchi problemi di governabilità. Nel Parlamento piemontese, i deputati del centrodestra,
a cui Cavour apparteneva, non avevano la maggioranza assoluta e
spesso erano costretti a ricorrere ai voti della destra estrema, guidata
da uomini all’antica come Cesare Balbo e Thaon de revel. Al centrosinistra, capeggiato da Urbano Rattazzi, occorreva d’altra parte il so14
stegno dell’estrema sinistra. È certo che i due raggruppamenti, quello
di Cavour e quello di Rattazzi, non erano a loro agio con i rispettivi
alleati. Così i loro leader si resero conto che potevano intendersi meglio fra loro, formando un governo di larghe intese.
Peraltro, Urbano Rattazzi non era certamente un “comunista” (il
conte detestava i comunisti per le loro pericolose idee egualitarie).
Era un quarantaquattrenne ex mazziniano, avvocato di Alessandria,
borghese integrale, senza commistioni aristocratiche o proletarie.
Uomo di sinistra, ma senza grilli per la testa, nell’attività politica
usava molto buon senso ed evitava le decisioni azzardate: era perciò
una spalla ideale per il conte. E come Cavour, aveva in uggia d’Azeglio ed era felice di toglierlo di mezzo.
Il “connubio” Cavour-Rattazzi, come lo definì ironicamente il
deputato di destra Thaon di revel, non nacque dalla notte all’alba.
Ebbe in realtà un periodo di incubazione e rispose ad una precisa
strategia politica. A sentire il conte, l’alleanza tra il “centro-destro” e
il “centro-sinistro” fu infatti “il più bell’atto della sua vita politica” e
costituì la più forte applicazione pratica della teoria del giusto mezzo.
La pratica della moderazione politica serviva a contrastare le insidie
provenienti dagli opposti estremi.
Già in un articolo del 1849 il conte Cavour si augurava la costituzione di “un terzo partito, il quale col gettarsi dall’uno e dall’altro
lato, possa frenare le intemperanze della sinistra, ed eliminare il ritegno della destra”.
Successivamente, nel novembre 1850, per evitare le minacce che
venivano al governo dal partito reazionario e da quello rivoluzionario,
il conte aveva invocato il formarsi di una “falange invincibile” contro
i nemici comuni, in quanto “dovere di tutti gli uomini sinceramente
liberali” desiderosi insieme dell’ordine e del progresso. Agli inizi del
1851, scriveva di augurarsi che la risposta agli opposti timori di chi
alla Camera temeva a destra che il governo si spingesse a sinistra e
a sinistra che esso cedesse all’estrema destra fosse il formarsi di un
“equilibrio favorevole alle mire degli uomini saviamente liberali”.
Secondo Rosario Romeo, il centrismo cavouriano rispondeva
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all’esigenza di escludere le forze estreme, quelle che volevano ritornare ai tempi del dispotismo e quelle che volevano la repubblica,
estremisti che si collocavano perciò fuori dallo Statuto.
Per Massimo Luigi Salvadori, alla radice della politica del connubio vi fu “la sindrome dell’accerchiamento da parte delle opposte
estreme”: un leitmotiv costante e illuminante.
Nel 1853, lo stesso Cavour lanciava l’allarme: “Siamo attaccati
con un’eguale violenza e dai rivoluzionari, che sono numerosi nelle
altre parti d’Italia, e dai reazionari, che ci detestano più ancora che
non i repubblicani”.
Ma fu lo stesso Cavour a spiegare chiaramente la filosofia alla
radice dell’intesa con Rattazzi, in un discorso alla Camera del febbraio 1855. Il suo intento, nel dare vita al connubio, era stato quello
di “costituire un grande partito liberale, chiamando a farne parte tutte
le persone che, quantunque avessero potuto differire sopra questioni secondarie, consentissero però nei grandi principi di progresso e
libertà, così da dar vita a una barriera contro la reazione e la rivoluzione”.
Ma l’operazione del connubio sembrò praticabile anche alla luce
delle vicende parigine, dove Napoleone III aveva iniziato la sua rivoluzione conservatrice. Col colpo di Stato del 2 dicembre 1851,
vennero poste, a Parigi, le condizioni che avrebbero reso possibile
la politica nazionale di Cavour, nella misura in cui nell’importante
teatro parigino il potere era passato nelle mani di una forza che non
solo era in grado di controllare la spinta rivoluzionaria, ma anche
di padroneggiarla e di volgerla ai propri fini, così come aveva fatto il primo Napoleone. Garantita alle spalle da questa “rivoluzione
conservatrice”, a Cavour apparirà possibile una analoga operazione
politica nel regno piemontese.
Cerchiamo dunque di tirare le somme. Come ha osservato Luciano
Cafagna, la spregiudicata operazione politica con cui Cavour costruì
la sua maggioranza parlamentare costituisce il primo esempio di trasformismo nella storia italiana. L’alleanza tra una parte della destra
(il “centro-destro”) e una parte della sinistra (il “centro-sinistro”),
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