POLITECNICO DI MILANO
Facoltà di Ingegneria
Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Meccanica
Elaborato del corso “Storia della Meccanica”
Prof. Edoardo Rovida
L’EVOLUZIONE
EVOLUZIONE DELLA
DELL MICROCAR:
da semplice motocicletta
motociclett con il tetto
tett
a solutrice
solutric dei problemi
del traffico urbano e dell’ecologia
dell ecologia
Autori:
Agosti Diego
Inglardi Stefano
Vercesi Emanuele
Anno Accademico 2008-2009
2008
Matr. 725703
Matr. 720639
Matr. 725690
Indice
Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag.
1
1945
VOLUGRAFO Bimbo 46. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
5
1947
ALCA Volpe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
10
1947
MI-VAL Mivalino 175 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
14
1953
ISO Isetta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
20
1958
ACMA Vespa 400. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
30
1968
LAWIL Varzina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
35
1969
CASALINI Sulky. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
41
Qualche curiosità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag. 45
Uno sguardo all’Europa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
50
Microcars: tra passato e futuro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
54
Car-Sharing: una proposta di mobilità sostenibile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
69
»
Bibliografia e siti internet visitati
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I
pag.
73
Poca ingegneria
tanta fantasia
Parola d’ordine: semplicità. Per costare poco, pesare poco, consumare poco.
I progettisti, spesso provenienti dall’industria aeronautica, possono sbizzarrirsi,
eliminando tutto il possibile: ruote, differenziali, ammortizzatori, retromarcia, porte.
A volte persino il tetto. La scuola tedesca è la più prolifica per varietà di modelli,
l’italiana la più originale mentre l’inglese è la più sconcertante.
Le micro vetture esistono da
sempre,
dagli
albori
della
motorizzazione; esemplari unici
assemblati da costruttori dilettanti,
modelli a volte geniali prodotti in
piccole serie da modesti artigiani,
ma anche raffinati progetti di
importanti aziende costrette, nel
dopoguerra, a riconvertire la
produzione
per
cogliere
le
opportunità offerte dal mercato.
desiderio di automobile. Niente a
che vedere con le moderne city-car,
“seconde macchine” concepite per
districarsi nel traffico caotico delle
città e spesso molto costose. Le
microvetture
hanno
avuto
sostanzialmente due periodi di forte
espansione: negli anni 30, in seguito
alla
Grande
Depressione
e,
soprattutto, nel dopoguerra, quando
costituivano una sorta di “seconda
generazione” nello sviluppo della
motorizzazione
individuale,
toccando la loro massima popolarità,
dopo il 1955, nei Paesi del Nord e
Centro Europa. Mentre in Italia, e
In
passato
le
microvetture
costituivano spesso l’unica soluzione
per soddisfare a poco prezzo il
1
in generale nei paesi con il clima più
clemente, la “prima generazione” è
costituita dagli scooter e continua a
prosperare fino alla diffusione su
larga scala delle automobili “vere”,
nei Paese freddi la necessità di avere
un abitacolo ben protetto è
prioritaria
fin
dall’inizio.
Emblematico
l’esempio
della
Germania, la cui produzione di
microvetture negli anni 50 si
articola su una gamma vastissima di
marche e modelli, forse la più
completa d’Europa.
per aguzzare l’ingegno. Già a partire
dal 1950 infatti, diverse aziende
sviluppano prototipi, acquisiscono
brevetti e licenze e realizzano
piccole serie di veicoli, che oggi
possono destare tenerezza, ma che
spesso sono un
lavoro di
compromesso tra genio creativo e
modestia di mezzi.
La tecnologia è raramente di tipo
automobilistico: più spesso si rifà
alle soluzioni motociclistiche o
aeronautiche, oppure è il risultato di
un bricolage evoluto e molto
creativo. La parola d’ordine, per
tutti, è “leggerezza”, poiché i motori,
quasi
sempre
di
origine
motociclistica con raffreddamento
ad aria, hanno cilindrata e potenza
assai modeste, perché devono
costare
poco
e
consumare
pochissimo. Si tratta per lo più di
motori
tedeschi,
in
genere
monocilindrici a 2 tempi, semplici e
leggeri, con cilindrate da 125 a 300
cm3, ma non mancano raffinati
bicilindrici, sempre a due tempi, con
cilindrate da 250 fino a oltre 450
cm3. Alcuni costruttori poi, per
tradizione aziendale (vedi BMW con
l’Isetta), preferiscono fin da subito i
4 tempi.
Dopo il ’45, delle grandi fabbriche
belliche rimane poco o nulla, ma le
menti creative sono in gran parte
sopravvissute e la manodopera non
manca. Mancano invece il denaro e
le materie prime: un motivo in più
La semplicità concettuale e la ricerca
della leggerezza impongono la
2
rinuncia a qualsiasi complicazione
tecnica: gli schemi prescelti sono
quindi o “tutto dietro” o “tutto
avanti”, con trasmissione tipo
scooter a catena o ad ingranaggi, e
solo in rari casi si ricorre a corti
alberi di rinvio. La soluzione “tutto
dietro” è decisamente la più diffusa:
viene adottata su tutte le 3 ruote e
sulle 4 ruote con carreggiata
posteriore molto stretta, che
consente di fare a meno del
differenziale offrendo al tempo
stesso un comportamento più stabile
in curva. Il “tutto dietro” lo
ritroviamo anche su molte “4 ruote”
di concezione più automobilistica, le
quali si uniformano così alla
configurazione più diffusa delle
utilitarie anni 50. Anche i cambi
sono si origine motociclistica: si va
dalle soluzioni più semplici che non
prevedono la retromarcia a quelle
più complesse che fanno ricorso a
campi ad innesti elettromagnetici. I
telai sono costituiti da tubi d’acciaio,
saldati spesso senza neanche essere
piegati. Lo schema più in voga
prevede un tubo centrale e due
trasversali, anche se non mancano
esempi di telai a piattaforma: pur
ridotti “all’osso”, essi garantiscono
quel minimo di stabilità e resistenza
necessarie a mezzi con prestazioni e
capacità di carico più elevate. Le
sospensioni, montate su piccole
incastellature ausiliarie, sono un
esempio di razionalità e leggerezza,
quanto di meglio si può concepire
negli anni 50. Le sospensioni
posteriore delle “3 ruote” o delle “4
ruote” a carreggiata molto stretta
sono quasi sempre costituite da
mezze balestre longitudinali a
sbalzo (cantilever) accoppiate, nei
casi più evoluti, ad ammortizzatori
telescopici; mentre sulle “4 ruote”
più convenzionali si trovano in
genere semiassi oscillanti con molle
elicoidali
e
ammortizzatori
telescopici coassiali. All’anteriore
troviamo
invece
braccetti
longitudinali con barre di torsione
oppure quadrilateri articolati con
molle elicoidali o barre di torsione.
Ma il massimo della creatività viene
espresso nelle carrozzerie. All’inizio
si tratta di trovare un’alternativa
3
alla lamiera d’acciaio stampata, che
non sarebbe giustificata dai modesti
volumi produttivi. Si opta allora per
intelaiature in legno, sulle quali
vengono
fissati
pannelli
di
lamierino,
soluzione
che
fa
assomigliare la vettura alla fusoliera
di un vecchio aeroplano. Per
migliorare l’estetica e ridurre le
spaventose vibrazioni di una simile
struttura, si pensa allora ad un
rivestimento in finta pelle che
permette di ottenere forme più
arrotondate
ed
aggraziate.
Evidentemente non ci si poneva
affatto il problema della resistenza
agli urti o anche soltanto alle
sollecitazioni durante la guida,
eppure vengono costruite e vendute
migliaia di vetture realizzate con
questa tecnica. Con il passare degli
anni la reperibilità di materie prime
migliora e si cominciano a realizzare
stampi per carrozzerie in alluminio
che, al di là di scelte estetiche a volte
discutibili, sono leggere e resistenti.
Dalla metà degli anni 50 si
diffondono infine le carrozzerie in
acciaio, autoportanti o saldate su
telai a piattaforma, mentre per le
piccole serie compaiono le prime
carrozzerie in plastica. Ma intento è
cominciata l’era delle moderne
utilitarie, che costano come le
microcar e offrono i vantaggi delle
vere automobili.
4
VOLUGRAFO Bimbo 46 - 1945
Sembra uscita dalle giostre, invece è una macchina vera, uno dei tanti tentativi di
offrire, nel dopoguerra, quattro ruote al prezzo di due. La “Bimbo” nasce nel 1945 per
opera dalle Officine Meccaniche Volugrafo, azienda
di Torino specializzata nella produzione di
rimorchi, cisterne e pompe per i distributori di
carburante.
Progettata dall’ingegner Belmondo, la microcar
sembrava più una automobilina giocattolo che
una vera e propria vettura. E’ infatti difficile
definirla automobile: sebbene sia immatricolata
come tale, ricorda le vetture delle giostre o le
macchine a motore elettrico per i ragazzini. Era
molto bassa, di dimensioni estremamente
contenute (passo di appena 1,5 m), senza porte (per entrare infatti, si scavalcava
la fiancata), con carrozzeria d’alluminio di linea tondeggiante e carenata. Poteva
trasportare due sole persone a condizione che fossero di piccola taglia.
I due tappi sopra il muso sono per il serbatoio della benzina (dieci litri) e per quello dell'olio (tre litri). La
lubrificazione è a carter secco.
5
Il parabrezza è simbolico in
quanto adatto appena a
riparare il tronco del guidatore
ma non la testa, che sporge
quasi completamente.
Le ruote, di taglia minima,
montano pneumatici di misura
3.50x8, ossia quelle utilizzate
normalmente per le carriole dei
muratori.
Il disegno evidenza l’estrema semplicità della “Bimbo” priva di porte, cofani e paraurti come le automobiline
delle giostre. Sia i freni che lo sterzo sono comandati da cavi metallici.
6
Il telaio era in tubi d’acciaio con
sospensione anteriore ad assale
rigido
e
mezze
balestre
longitudinali;
per
quanto
riguarda
il
retrotreno,
la
sospensione posteriore è a ruote
indipendenti.
A differenza delle altre micro
vetture
dell’epoca,
che
generalmente adottavano un
motore bicilindrico a due tempi,
la bimbo era spinta da un motore
monocilindrico a quattro tempi di
125 cm3 con valvole in testa,
raffreddato ad aria, sistemato
dietro, che agiva mediante una
catena sulla sola ruota sinistra.
La strumentazione non si può guastare perché manca del
tutto. Il commutatore nero sulla sinistra serve per contatto
e luci, quello bianco, aggiunto dopo, per le frecce. Il lungo
pedale che sporge dietro la leva del cambio è quello
dell'avviamento.
e montava una carburatore Weber
da 18mm. Il cambio era a tre
marce, senza retro, con comando a
leva laterale e i pneumatici erano
da 3.50x8. Il serbatoio di
carburante era capace di 10 litri
mentre quello di lubrificante ne
conteneva 3.
7
Il motore era di origine
motociclistica con carter cilindro
e testa in alluminio. Con una
corsa di 58 mm e un alesaggio di
52 mm, sviluppava una potenza di
4,5 cavalli a 4500 giri/min. Il
rapporto di compressione è di 6:1
L’omologazione è per due persone,
ma come si può notare, bisogna
essere snelli per poterci entrare. Da
osservare inoltre l’assenza degli
specchietti di serie, che possono però
essere aggiunti, così come le frecce
direzionali.
La “Bimbo ” aveva delle
dimensioni
piuttosto
caratterizzanti, un passo
di 1610 mm, una
carreggiata anteriore di 820mm, una carreggiata posteriore di 830 mm, una
lunghezza di 2000mm e un peso a vuoto di soli 125 Kg.
La vetturetta si avviava tirando
una leva a mano (come sui
motofurgoni), aveva un cambio a
tre marce in blocco con il
motore e freni sulle tutte e
quattro le ruote. I cinque cavalli
di potenza le permettevano di
raggiungere i 60 all’ora e di
consumare circa 2,5 litri per
percorrere 100 km.
Per migliorare ed incrementare le prestazioni, la Volugrafo studiò anche la
possibilità di montare un secondo motore che spingesse anche sulla ruota di
destra: sarebbe stato compito del guidatore scegliere se utilizzare
contemporaneamente oppure no i due propulsori.
Della originale vetturetta, venduta a circa trecentomila lire, furono costruiti
solo pochissimi modelli sino al 1948, che però scomparvero quasi subito dalla
circolazione.
8
Motore
Monocilindrico di origine motociclistica - Carter,
cilindro e testata in alluminio - Cilindrata 125 cm³
- Alessaggio 52 mm - Corsa 58 mm - Potenza 4,5
CV a 4500 giri/min - Rapporto di compressione 6:1
- Distribuzione a valvole in testa e albero nel
basamento - Lubrificazione a carter secco con
pompa - Un carburatore Weber 18 MF.
Trasmissione
Motore centrale sul lato sinistro - Trazione a
catena sulla sola ruota posteriore sinistra - Cambio
a tre marce senza RM - Comando a leva laterale Pneumatici 3.50x8.
Corpo vettura
Spider due posti, senza porte - Telaio in tubi
d'acciaio - Sospensione anteriore ad assale rigido ,
mezze balestre longitudinali - Sospensione
posteriore a ruote indipendenti, mezze balestre
longitudinali - Freni a tamburo sulle quattro ruote Sterzo a rocchetto e cavo metallico - Capacità
serbatoio carburante 10 litri, serbatoio lubrificante
3 litri - Impianto elettrico a 6 V.
Dimensioni e peso
Passo 1610 mm - Carreggiata anteriore 820 mm Carreggiata posteriore 830 mm - Lunghezza 2000
mm - Peso a vuoto 125 kg.
Prestazioni
Velocità; 60 km/h - Consumo medio 2,5 litri/100
km.
Libretto di Circolazione di una Volugrafo “Bimbo” del 1946
9
ALCA Volpe - 1947
L'immediato dopoguerra italiano era pervaso, almeno dal punto di vista dei trasporti,
da un genuino, ingenuo ottimismo nei confronti di tutto ciò che poteva rappresentare o
almeno sembrare un’innovazione e una comodità in più per spostarsi. Con l'entusiasmo
di una nazione che usciva da una guerra disastrosa, l'Italia dell'automobile tentava di
rialzare la testa, sostenuta inizialmente dalle più economiche due ruote: il Garelli
Mosquito motorizzava le biciclette, mentre Piaggio presentava nel 1946 la mitica
Vespa. Alla motorizzazione di massa, ancora da creare, la nostra industria proponeva
quindi mezzi semplici, economici, robusti e utili, copiando un po' ciò che già era stato
ideato prima della guerra (in Italia ma anche in America, Inghilterra e Germania) e
un po' proponendo progetti originali.
In questo clima nasce la curiosa ALCA Volpe, una microvettura pensata
appunto per i desideri di milioni di italiani, per la prima volta alle prese con
l'acquisto
di
un'auto.
Presentata nel 1947 dalla
neonata
società
Anonima
Lombarda Cabotaggio Aereo
(ALCA), la Volpe ha in realtà
ben poco di una automobile
come la concepiamo oggi.
Durante
una
spettacolare
presentazione fatta in un teatro
romano il 30 marzo 1947, con
la partecipazione dell'allora famosa compagnia del comico Erminio Macario, la
Volpe viene pubblicizzata come la scelta ideale per la mobilità del dopoguerra
italiano. Si tratta di una vetturetta aperta, a due posti, lunga 2,5 e larga 1,02
metri, equipaggiata da un motore bicilindrico, sistemato posteriormente, di 124
centimetri cubici di cilindrata che sviluppava una potenza di 6 cavalli a 5ooo
giri/min ed in grado di spingere teoricamente la Volpe a 75 km/h di velocità
massima.
10
Il cambio è a quattro rapporti più retromarcia, con leva al volante e
preselettore. Le marce si innestano premendo direttamente il pedale della
frizione.
Il motore si avvia a strappo
(come
nei
motori
fuoribordo) o premendo un
pedale. L’alimentazione e la
lubrificazione
sono
a
miscela, l’accensione a
volano
ed
il
raffreddamento ad aria
forzata. Data la leggerezza
(in ordine di marcia la
“Volpe” pesava appena 135
Kg) e la ridotta carreggiata
posteriore, fu possibile eliminare il differenziale. Come già sottolineato, il
motore è sistemato posteriormente e ha il basamento incernierato alla
carrozzeria: con questa soluzione il gruppo motore-cambio oscillava assieme
all’assale rigido posteriore.
Gli elementi elastici delle
sospensioni sono costituiti
da balestre, sistemate,
davanti
in
posizione
trasversale,
dietro,
longitudinale.
Per
la
“Volpe” i tecnici dell’Alca
optarono per una scocca
autoportante e per tre
freni: due sulle ruote
anteriori e uno sull’assale posteriore: su quest’ultimo agisce anche il freno a
mano. Particolarità molto semplice era il comando meccanico dei tamburifreno. Altri aspetti curiosi e per certi versi risibili del progetto Volpe sono
anche le minuscole ruote 4.00 J x 8 pollici e la fragile capote apribile con
11
archetti snodati. Altri dati dichiarati parlano di una pendenza massima
superabile del 25 % e di uno spazio d'arresto da 60 Km/h in meno di 7 metri.
L’Alca, l’azienda produttrice della “Volpe”, sognava la grandezza e si auspicava,
molto ottimisticamente, di avviare con questo modello una motorizzazione di
massa.
Al di là della roboante presentazione,
avvenuta nella primavera del 1947 sul
palco del Teatro Lirico di Milano, tra
le belle ragazze della compagnia di
rivista ed il comico Erminio Macario,
l’accoglienza che il pubblico riservò
alla “Volpe” fu favorevole, tanto è vero
che si manifestò in un buon numero di
prenotazioni.
A ciò bisogna aggiungere una
pressante campagna pubblicitaria che
prevedeva l’inizio delle consegne nel
luglio dello stesso anno. Invece i
contratti non furono rispettati, le
consegne sempre più rimandate, con
assicurazioni da parte dei responsabili
della casa sempre meno convincenti.
Così, per carenze organizzative il progetto “Volpe” si arenò il 26 aprile 1948 e
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dopo soli 6 esemplari prodotti la Volpe sparì, come la stessa ditta produttrice
che nel 1948 fu indagata per bancarotta fraudolenta dopo aver intascato gli
acconti dei clienti che avevano ordinato la microvettura (circa 300 milioni di
lire in totale).
Nella stessa strategia commerciale di lancio si pose anche l'iscrizione di cinque
Alca Volpe alla prima Mille Miglia
del dopoguerra, quella del '47, tre
delle quali allestite in una
fantomatica
versione
turbocompressa, priva di capote e
dotate di coda aerodinamica
arrotondata
con
poggiatesta
integrato. Le cinque vetture non si
presentarono mai alla partenza.
Nella grossa truffa della "Volpe mai nata" è rimasta coinvolta anche la spagnola
Gemicar Internacional Auto S.L. di Madrid, che nel '47 decide di costruire su
licenza la Hispano Volpe, versione della microcar italiana per il mercato iberico,
Portogallo, Marocco, America latina e colonie spagnole. Come è facile intuire,
nessuno stabilimento madrileno ha mai sfornato alcuna Hispano Volpe.
I pochi esemplari sopravvissuti di
Alca Volpe si trovano oggi in musei o
collezioni
private,
muta
testimonianza di un sogno che ha
illuso e deluso molti italiani, uno dei
primi
pasticci
nell'Italia
del
dopoguerra. La cosa che lascia
l'amaro in bocca è che la Volpe abbia
per certi versi anticipato e
prefigurato alcune delle soluzioni
super-economiche che sarebbero poi state adottate su microcar di un certo
successo commercializzate quasi dieci anni dopo: in primis la Kleinschnittger
F125, poi la Iso Isetta, la Messerchmitt Kabinenroller (Mi-Val in Italia), la
Brütsch Mopetta e la Glas Goggomobil.
13
MI-VAL Mivalino 175 - 1953
Sono gli anni della rinascita, al termine del
secondo conflitto mondiale. Tutti vogliono
dimenticare gli orrori della guerra e creare dalle
rovine un nuovo paese. Tanta voglia di fare ma le
risorse sono scarse, c’è bisogno di fabbriche dove
lavorare e di mezzi
ezzi economici per muoversi. Si
sviluppa così la produzione motociclistica, con
nuove aziende e prodotti utilitari. E’ successo
negli anni Venti e il fenomeno si ripete immutato anche negli anni Cinquanta quando,
tra queste nuove aziende compare la MI-VAL, frutto della convergenza di alcuni
industriali bolognesi (tra cui Ettore Minganti) e della
lla necessità di riconversione della
fabbrica d’armi di Pietro Beretta di Gardone Valtrompia (BS).
Sull’eco
della
presentazione
dell’Isetta
(dicembre 1952), nel 1953 la MI-VAL
MI
annuncia
l’entrata in produzione, su licenza della famosa
industria aeronautica tedesca Messerschmitt, di
una microvettura a due posti. E’ il Mivalino,
uno scooter cabinato a tre ruote con il muso da
ranocchio e l’abitacolo a carlinga, la cui
pubblicità recitava:
“Non è un’automobile, né lo
vuole essere: si tratta di una
motocicletta con tutte le
comodità, protetta contro
tutte le intemperie e il
vento”.
14
E’ evidente come la linea del
Mivalino si rifaccia a quella dei
famosi caccia Messerschmitt G 109
della Seconda Guerra Mondiale. Per
accedere all’abitacolo occorre infatti
sollevare di 90°, verso il lato destro,
la calotta in plexiglas incernierata
alla carrozzeria. Il motore invece (sia
quello impiegato per la versione
tedesca (Sachs) sia il MI-VAL
MI
175
della Casa bresciana) è di natura
prettamente motociclistica così come
il telaio in tubi d’acciaio saldati e la
carrozzeria in acciaio stampato.
Davanti ha due ruote sterzanti,
sterzanti con
carreggiata di soli 92 cm,
cm e
sospensioni indipendenti a tre elementi di gomma in compressione,
compressione mentre al
posteriore c’è una singola ruota
motrice con la catena della
trasmissione
finale
e
la
sospensione a forcellone oscillante
oscill
con molla di gomma.
Anche la guida è di tipo
motociclistico, con uno sterzo a
manubrio e il comando
dell’acceleratore a manopola
(stranamente
posto
sulla
sinistra).
15
Si poteva guidare senza patente perché ai fini
burocratici-fiscali era equiparato ad una moto e la
pubblicità della Casa sottolineava il fatto che con il
nuovo veicolo veniva “risolto economicamente il
problema della motorizzazione del ceto medio” perché
“non soddisfa soltanto il sogno della gioventù sportiva di
avere un veicolo chiuso”, ma “offre anche per i viaggi
d’affari e le gite di piacere, al costo e con le spese di
manutenzione di una motocicletta, la comodità, la
resistenza e la sicurezza di un’autovettura”.
16
Erano stati previsti due tipi di equipaggiamenti: il primo, di serie, comprendeva
tachimetro, tergicristalli, specchietto retrovisore e ferri di bordo; il secondo
aveva, in aggiunta, ruota di scorta, copriruota cromati, orologio, borse laterali
di stoffa, porta bagagli esterno e addirittura l’alloggiamento per l’autoradio.
Nelle intenzioni del costruttore lo scooter a tre ruote, oltre ad essere più stabile
e quindi più sicuro di quello a due, permetteva di arrivare, a fine viaggio, meno
stanchi e con gli abiti asciutti oltre che puliti. Tutto questo senza le spese di
acquisto e di manutenzione di un’automobile (il Mivalino costava 319.000 Lire)
né con il conseguente obbligo di patente per guidarla. In sintonia con i
comunicati pubblicitari, la stampa scriveva del Mivalino in termini ugualmente
entusiastici: per esempio, in occasione della presentazione a Gardone
Valtrompia, la Gazzetta dello Sport si spinse addirittura a parlare di “linea
elegantissima”.
Purtroppo però, alla prova dei fatti, il “tre ruote” bresciano si rivelò scomodo da
utilizzare, scarso nelle prestazioni e anche pericoloso nella guida. Ciò,
nonostante la Casa assicurasse che il baricentro molto basso e le ruote anteriori
indipendenti erano garanzia di buona tenuta di strada e stabilità in curva anche
su terreni accidentati.
17
“La stabilità del Mivalino è stata ottenuta applicando i migliori accorgimenti tecnici
al riguardo,
do, operando nel seguente modo:
1. è stato abbassato
to il più possibile
il baricentro della massa
componente il Mivalino;
2. i carichi sono stati distribuiti su
tre appoggi, dimensionandoli
tra loro in modo tale che la
risultante R (dal baricentro G)
della forza viva Fe e della forza
centrifuga Fc cada entro il
semiasse anteriore;
3. la disposizione in tandem dei passeggeri è tecnicamente razionale
razion poiché anche
nel caso in cui i due componenti dell’equipaggio abbiano peso differente, questo
agisce solamente sull’asse longitudinale, per cui rimane ugualmente
ugualmente equilibrato
durante la marcia. Nei posti affiancati invece ne rimarrebbe compromessa la
stabilità, soprattutto nel caso in cui il pilota viaggi da solo”.
Quindi, nonostante le premesse, il Mivalino non ebbe né vita lunga (la
produzione, iniziata nel 1954 cessò dopo soli due anni) né successo
commerciale: oltre ai motivi già esposti, contribuirono certamente al flop delle
vendite la sua forma un po’ troppo “pittoresca”
“
nonché la nota avversione del
mercato italiano ai veicoli troppo dichiaratamente utilitari.
Maggiore (anche se non troppa) fortuna ebbe invece il gemello tedesco,
tedesco
motivata in origine sia dal loro clima più sfavorevole sia dalle maggiori
possibilità economiche del mercato. Con quel muso a ranocchio e l’abitacolo a
carlinga, il Messerschmitt era frutto di un progetto dell’ingegner Fritz Fend
(specialista in vetture per
per disabili), con la supervisione dello stesso professor
Willi Messerschmitt. In Germania, il “tre ruote” KR 175 (la sigla deriva da
Kabinenroller, cioè “scooter con cabina”) fece la sua comparsa nel 1952 ed ebbe
un discreto successo
cesso anche in Belgio, Francia,
Francia, Olanda, Inghilterra e persino in
18
Giappone. Nel 1954 fu poi seguito dal modello KR 200, sempre con motore
Sachs a 2 tempi ma con cilindrata aumentata da 175 a 200 cc. Assieme ad un
aumento delle prestazioni, la nuova versione dell’autoscooter (questa è la
definizione che utilizzò la stampa francese per descriverlo) presentava altri
miglioramenti; tra i più curiosi: il sedile posteriore sdoppiato, per ospitare una
mamma con un bambino (il mezzo diventava così a tutti gli effetti un 3 posti) ed
il manubrio a forma di semicerchio schiacciato simile a quella dei moderni
volanti automobilistici da competizione.
Anche nello sport, lo scooter cabinato lascia il segno; alla nona Milano-Taranto
(20 giugno 1954), tre dei cinque Mivalino iscritti alla competizione tagliano
infatti il traguardo dopo una logorante tirata di 1.400 chilometri. Il vincitore
(C. Manfredini) ottiene la media di 64,787 km/h, risultato assolutamente non
disprezzabile dato il primo della categoria sidecar (Borri su Moto Guzzi 500)
raggiunge la città dei due mari a 83,736 km/h. Ad Hockenheim, siamo ai primi
di Settembre del 1955, un Messerschmitt KR 200 batte una serie di primati
mondiali sulle lunghe e medie distanze nella classe “tre ruote” 250. Dotato del
motore Sachs a 2 tempi opportunamente preparato, anche se con regolare
marmitta silenziatrice, raggiunge una velocità massima di 114 km/h che riesce
a mantenere pressoché costante anche
nelle prove a lunga distanza (1000
miglia a 106 km/h di media e 24 ore a
oltre 103 km/h), a testimonianza
dell’ottima
regolarità
di
funzionamento della macchina.
19
ISO Isetta - 1953
Due posti coma la “Smart”. Motore posteriore come la
“Smart”. Linea monovolume come la “Smart”. Il
parallelo finisce qui, perché l’“Isetta”, la microvettura
della Iso non ha il motore turbo, l’aria condizionata, il
catalizzatore, le cinture di sicurezza, l’abitacolo con la
cellula di protezione. Però, per la sua epoca, quando
ancora non era esploso il problema del traffico,
l’”Isetta” era davvero all’avanguardia. Il commendator
Renzo Rivolta, titolare della Iso, e l’ingegner
Ermenegildo Preti, progettista aeronautico, avevano
visto giusto quando si misero al lavoro per avviare la
produzione di un veicolo soprattutto economico, destinato a chi voleva fare il salto di
qualità dalla motocicletta all’automobile, ma non poteva ancora permettersi di
acquistare la “Topolino”.
Per capire le origini della più popolare tra le microvetture del dopoguerra,
occorre fare un salto indietro nel tempo, esattamente fino al 1939, anno in cui
Renzo Rivolta fondò la Iso, una
ditta con sede a Bolzaneto (GE),
specializzata
in
impianti
di
refrigerazione ad uso industriale o
privato. Nel 1943, la Iso si trasferì a
Bresso, in provincia di Milano, dove
alla precedente attività si aggiunse
anche quella di produzione di
elettrodomestici. Terminata la
Seconda guerra mondiale, però,
Renzo Rivolta si accorse che una
delle maggiori esigenze e priorità
della popolazione italiana era quella
di potersi spostare tramite un mezzo di locomozione che fosse economico,
molto più di un'automobile a buon mercato come lo era la Topolino di quegli
20
anni. Decise quindi di convertire la produzione di elettrodomestici a quella di
motociclette. Fu così che nacquero modelli di un certo successo.
Ma dopo questi piccoli successi, Renzo Rivolta decise che era arrivato il
momento di passare alla produzione automobilistica. La ragione sociale della
ditta fu perciò mutata in Iso
Autoveicoli SpA. Ciò che aveva in
mente era un automezzo che stesse a
metà tra una motocicletta ed una
"Topolino". Doveva, cioè, essere
semplice come una moto, ma con
carrozzeria chiusa come un'auto.
La filosofia costruttiva di Renzo
Rivolta nel settore delle automobili era
quella di privilegiare prima di tutto la
comodità ed il comfort dei passeggeri,
nonché un'oculata sistemazione della
meccanica all'interno del corpo vettura:
la carrozzeria sarebbe stata modellata solo a quel punto, sulla base delle
specifiche precedenti. Per realizzare la nuova vetturetta, Renzo Rivolta si affidò
a
due
vulcanici
personaggi,
giovani
ma
con
un
significativo passato
alle spalle in campo
aeronautico:
Ermenegildo Preti e
Pierluigi Raggi. Il
primo prototipo fu
realizzato nell'estate
del 1952 e già
prefigurava
molte
delle soluzioni tecnico-stilistiche presenti sulla vettura definitiva, come il corpo
vettura "ad uovo", la meccanica di derivazione motociclistica e la presenza di un
21
unico portellone frontale, che andava a costituire praticamente l'intero muso
della vetturetta.
Pressoché definitiva era
anche l'architettura della
vettura, con scocca in
lamiera d'acciaio dotata di
un'ampia vetratura fissata a
un telaio di tubi d'acciaio.
Tale prototipo era inoltre
provvisto di tre sole ruote:
due davanti ed una dietro,
soluzione
presto
abbandonata quando ci si
accorse
della
sua
inaffidabilità in caso di
foratura durante alcune
prove su strada. Si scelse
perciò
una
soluzione
intermedia, ossia quattro
ruote, delle quali le due
posteriori
erano
molto
ravvicinate tra loro per
risparmiare sul differenziale. Quanto al motore, esso era inizialmente un
monocilindrico a due tempi ripreso pari pari dal motociclo Iso 200, della
cilindrata di 198cc ed in grado di erogare circa 8 CV.
In seguito fu realizzato un nuovo prototipo che montava le due ruote posteriori
ravvicinate, ma che ancora era provvisto di accensione a strappo come il
prototipo precedente. Ma oramai erano pochi gli aggiornamenti che separavano
tale prototipo dal modello finale.
Il 9 aprile 1953 infatti, oltre duemila invitati la videro e la provarono lungo i
viali di villa Patellani. Ma non si levò nemmeno un "Ohhh" di stupore, semmai
si udirono velati risolini di scherno e qualche commento imbarazzato. Renzo
Rivolta aveva visto giusto, ma con troppo anticipo. Le sue idee cozzavano con
22
le aspettative dei suoi tempi. L'Isetta, subito ribattezzata "ovetto" o 'bubble
car", auto a forma di bolla, era una macchinetta minuscola, lunga due metri, per
sole due persone e praticamente senza bagagliaio. Per giunta anche bizzarra.
Originale era anche la soluzione della carreggiata posteriore molto più stretta
di quella anteriore. La scelta dello stesso propulsore della moto Iso 200, un
monocilindrico sdoppiato a due tempi, si rivelò invece, poco felice a causa dei
problemi di surriscaldamento. Ma soprattutto lasciava interdetti quell'unico
sportello frontale incernierato al volante. Presentata come seconda vettura per
famiglie abbienti, o come valida alternativa per gli scooteristi, fallì l'uno e l'altro
obiettivo.
Le classi agiate ambivano
infatti alle grandi fuoriserie,
per gli altri il prezzo era
troppo elevato: 450.000 lire.
Costava quasi quanto una
Giardinetta Fiat che invece,
stretta come una scatola di
sardine,
trasportava
un'intera famiglia, bagagli
inclusi.
Ma Rivolta non era uno che si
perdeva d'animo. Occorreva un
buon sostegno pubblicitario e lo
costruì intorno al mito della Mille
Miglia,
l'avvenimento
automobilistico
più
seguito
d'Italia. Cinque delle sette Isetta
partite nel 1954 da viale
Rebuffone a Brescia, tornarono
indietro conquistando i primi
quattro premi della speciale classifica all'indice di prestazioni. L'anno dopo,
un'altra, guidata da Mario Cipolla, giunse addirittura terza, dietro la Mercedes
300 SLR di Styrling Moss, alla media di 79,311 chilometri orari.
23
Con la solita tenacia, furono anche stipulati accordi e speciali condizioni, con
numerose ditte commerciali. Il risultato in questo caso però, fu un boomerang:
in giro si vedevano soprattutto Isetta con réclame del burro, lame di rasoio e
aperitivi, il che non giovò all'immagine un po' elitaria che si voleva dare alla
macchina.
La produzione raggiunse un massimo
di 20 esemplari al giorno, nonostante
cospicui ritocchi al prezzo di listino e
si finì per costruirle solo su
ordinazione. Alla fine del 1956,
raggiunta quota 40.000 mila, il
commendator
Rivolta
disse
definitivamente basta, con la ferma
intenzione però di tornare un giorno
a costruire automobili. Grandi
automobili,
questa
volta.
Cosa che puntualmente avvenne sei
anni dopo, con la Iso Rivolta di 5.300
centimetri cubici. Prima di chiudere
l'avventura Isetta, il brevetto venne
venduto all'estero, dove la piccola
macchinetta di Bresso visse una
seconda e più luminosa vita.
Comprarono la licenza la Velam Francese, la Isetta of Great Britain Ltd, la IsoRomi in Brasile, la Borgward-Iso spagnola e la Bayerische Motoren Werke,
ovvero, la Bmw. Alcuni di questi Paesi avevano già un radicato mercato delle
micro vetture. In Francia erano celebri la biposto De Rovin e la monoposto
Rollera. In Inghilterra una norma fiscale favoriva le piccole auto a tre ruote,
che infatti avevano un grande successo, la stessa Isetta fu allestita con questa
ciclistica. Perfino in America poteva capitare di incrociare una monumentale
Eldorado accanto a una minuscola Isetta. In Germania tutti i maggiori
costruttori aeronautici, Messerschmitt, Heinkel e Dornier, avevano già da
tempo convertito la produzione bellica in quella delle vetturette, le kleinwagen.
24
In questo contesto favorevole, la Bmw per sette anni, dal '55 al '62, sfornò oltre
161.728 Isetta.
All'epoca del suo debutto, la Isetta fece scalpore per la conformazione davvero
inusuale del suo corpo vettura. In effetti, all'epoca, l'Isetta era da considerarsi
veramente all'avanguardia, sia per quanto riguarda il tipo di corpo vettura, ma
soprattutto per la razionale ed intelligente scelta nella disposizione di tutto ciò
che serviva a rendere questo piccolo mezzo di trasporto una vera e propria
automobile a tutti gli effetti, vivibile e maneggevole. In molti oggigiorno
l'hanno definita semplicemente geniale.
“Per salire a bordo si apre la grande e unica porta anteriore che dà accesso alla
panchetta a due posti. Il volante, grazie a uno speciale snodo, rimane collegato alla
porta, così come il piccolo cruscotto. Una volta preso posto nella vettura, alle spalle c’è
un vano bagagli sufficiente per le esigenze
di una coppia di persone, la visibilità è
eccellente e si comprende immediatamente
perché l’abitacolo dell’”Isetta” era spesso
paragonato alla cabina di un elicottero.
La posizione di guida è turistica, con il
volante orizzontale e la leva del cambio a
sinistra, sopra al freno a mano; accanto al
volante le frecce e il comando delle luci. Il
piccolo monocilindrico a quattro tempi si
avvia istantaneamente con mezzo giro di
chiave. Per innestare la prima si porta la
leva verso il basso. Le marce sono
abbastanza corte e si passa subito ai
rapporti superiori. “In quarta si arriva
anche a 85 – 90 all’ora”.
La particolare disposizione delle ruote, quelle anteriori con carreggiata molto larga e
quelle posteriori ravvicinate, quasi gemellate, rende la guida singolare.
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In curva si avverte un netto sottosterzo iniziale e l’Isetta tende ad allargare con il
muso. Occorre allora lasciare il gas, frenare leggermente e lasciare un po’ andare il
retrotreno. In questo modo, la vettura chiude la curva con la coda e si è pronti ad
accelerare per riallinearsi. Lo sterzo è leggerissimo e sembra quasi dotato di
servocomando. La piccola automobile manca un po’ di potenza in salita e occorre tenere
il motore su di giri usando le marce basse, soprattutto a pieno carico. Inoltre le ruote di
piccolo diametro e il passo corto trasmettono ogni sobbalzo della strada nell’abitacolo.
In compenso, quando si passa per le vie strette dei centri storici, come quelle che mi
capita di percorrere durante la Mille Miglia, la maneggevolezza è decisamente
stupefacente”.
La semplicità progettuale dell'Isetta la si ritrova anche nella meccanica: la
versione italiana, la prima ad essere commercializzata, proponeva soluzioni
semplici ma anche inconsuete, come per esempio il piccolo motore a due tempi
mutuato dalla Iso 200, una delle motociclette di maggior successo per la Iso,
subito prima dell'arrivo
dell'Isetta. Tale motore,
inizialmente aveva una
cilindrata di 198 cc ed
erogava circa 9 CV.
Questa
piccola
unità
motrice fu utilizzata solo
fino alla presentazione al
pubblico,
dopodiché,
prima
di
lanciarla
ufficialmente sul mercato
il piccolo monocilindrico
fu rialesato e portato a
236 cc, con potenza massima di 9,5 CV a 4.750 giri/min. Questo motore aveva
una particolare struttura sdoppiata, come se avesse due pistoni all'interno di un
unico cilindro, mossi da due bielle, una principale ed una secondaria, ma con
accensione affidata ad una sola candela. La lubrificazione era separata ed era
affidata ad una pompa meccanica, mentre il raffreddamento era ad aria.
L'alimentazione era invece affidata ad un carburatore Dell’orto. La trasmissione
prevedeva una frizione a dischi multipli in bagno d'olio ed un cambio a 4 marce.
26
La trazione era posteriore, ma
non vi era bisogno del
differenziale, reso superfluo dalla
ridottissima
carreggiata
posteriore. Il telaio dell'Isetta era
di tipo tubolare e comprendeva
sospensioni anteriori a ruote
indipendenti con tamponi di
gomma al posto delle normali
molle ed ammortizzatori a
frizione.
Il
retrotreno
comprendeva invece molle a balestra ed ammortizzatori idraulici. L'impianto
frenante era di tipo idraulico ed agiva sulle ruote anteriori e sulla ruota
posteriore destra. Su entrambe le ruote posteriori agiva invece il freno a mano.
Tra le varie curiosità che possono
riguardare la piccola “Isetta” ne è
presente una incredibile, ma vera. Negli
anni della guerra fredda, con una BMW
“Isetta”, un coraggioso tedesco dell’Est riuscì a trasportare a Belino Ovest,
passando attraverso il temutissimo Check Point Charlie, più di una persona,
nascondendola ogni volta nel…vano motore. Le guardie di confine, infatti,
conoscevano bene tutti i trucchi che venivano adottati per occultare uomini,
donne e bambini in comparti segreti ricavati nelle automobili. Soltanto l’Isetta
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era esente dai controlli, perché i poliziotti ritenevano impossibile che qualcuno
potesse sfuggire. Invece, il geniale proprietario di quella “Isetta”, che oggi è
esposta a Berlino nel museo dedicato alla storia del Muro, riuscì per ben sei
volte a ingannare i Vopos. Come? Semplice: aveva ricavato un vano accanto al
motore sostituendo il serbatoio di serie con uno molto più piccolo ed
eliminando il condotto di aspirazione e il riscaldamento, quanto bastava per
farci raggomitolare un uomo. La settima volta, un movimento improvviso del
clandestino svelò il trucco.
Isetta-Carro
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LA SCHEDA TECNICA DELLA ISO ISETTA DEL 1953
Motore: monocilindrico a cilindro sdoppiato, 2 tempi, 236 cc.
Rapporto di compressione: 6,5 : 1
Potenza max: 9,5 cv a 4500 giri/min.
Alimentazione: un carburatore Dell'Orto UC 24B.
Trasmissione: motore e trazione posteriori.
Carrozzeria: in tubi e pannelli in acciaio, 1 sportello, 2 posti.
Sospensioni: avantreno a ruote indipendenti con molle e ammortizzatori;
supplementari a frizione meccanica; retrotreno a ponte rigido con mezze
balestre a sbalzo e ammortizzatori idraulici telescopici a doppio effetto.
Passo: 1500 mm.
Lunghezza: 2250 mm.
Larghezza: 1340 mm.
Altezza: 1320 mm.
Peso: 330 kg.
Freni: idraulici a tamburo (due anteriori e uno posteriore centrale).
Pneumatici: 4,50 x 10 Diametro di sterzata: 8 metri. Capacità serbatoio: 13
litri. Consumi: 3,75 lt/100 km. Velocità max: 85 km/h. Prezzo nel 1954:
450.000 lire. Bollo nel 1954: 7.241 lire Esemplari costruiti: circa 40.000 (in
totale all'estero: circa 300.000).
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ACMA Vespa 400
La ACMA "Vespa 400" è una
microvettura progettata dalla
Piaggio e costruita in Francia,
da un'azienda consociata, la
ACMA, dal 1958 al 1964. Nei
primi anni '50 la Piaggio inizia
a studiare una microvettura alla
quale applicare le proprie
motorizzazioni motociclistiche,
come già Iso, Siata, BMW e
Zündapp avevano sperimentato con discreto successo, dovuto alle condizioni di
precarietà economica del dopoguerra. Nel 1956 il prototipo è pressoché definitivo. Le
linee di costruzione vengono approntate a Fourchambault nello stabilimento della
ACMA (Ateliers de Construction de Motocycles et Automobiles), una consociata
francese della Piaggio che si occupava del montaggio delle Vespa a due ruote con pezzi
forniti dall'Italia.
Come già la SIMCA per la
FIAT,
la
ACMA
rappresentava l'escamotage
della Piaggio per abbattere
gli elevati costi doganali
d'allora. Enrico Piaggio
decise di costruire la
microvettura in Francia e di
non importarla in Italia, al
fine di evitare rapporti conflittuali con la FIAT. La vetturetta, cui si assegna il
nome di Vespa 400, viene presentata al Salone di Parigi del 1958 dove ottiene
un discreto successo e, in pochi mesi, la raccolta di circa 20.000 prenotazioni.
Era, per la classe d'appartenenza, una vettura confortevole ed elegante, mossa
da un bicilindrico 2T che la rendeva particolarmente scattante. Le minime
30
misure d'ingombro, la facilità di guida, il riscaldamento montato di serie e il
tetto apribile in tela, la rendevano particolarmente appetibile alle signore della
buona borghesia in vena di autonomia locomotoria. Le linee di montaggio
sfornavano circa 30 vetture al giorno con il proposito di arrivare ai 100 pezzi
quotidiani.
L'auto aveva anche delle particolarità
nella sistemazione degli accessori: la
ruota
di
scorta
era
alloggiata
nell'abitacolo sotto il sedile del
passeggero e la batteria era raggiungibile
aprendo lo scudo anteriore della
macchina, nella posizione dove di solito ci
si attende di trovare un radiatore.
L'avvento della Fiat 500 mise tuttavia freno alle potenzialità di sviluppo della
ACMA, che continuò la produzione a ritmo ridotto fino al 1964. Nelle due
versioni "Turismo" e "Lusso", sono state prodotte circa 34.000 "Vespa 400". In
Francia, ad ogni buon conto, la piccola “Vespa 400” incontrò un discreto
successo commerciale e ne vennero vendute oltre 30.000 tra la fine del 1957 e il
1961. In Italia ne arrivarono appena un centinaio, al prezzo di mezzo milione di
lire, più o meno la stessa cifra necessaria per acquistare un Fiat “500”. Oggi
l’ACMA “400” è ormai una rarità.
Per partire si gira la chiave di contatto
e si tira una delle due levette poste sul
pavimento tra i sedili. Il motore, un
bicilindrico raffreddato ad aria a due
tempi, è di cilindrata davvero minima,
appena 393 cm3, emette un suono
piacevole e ovattato, che ricorda
quello dei motofurgoni “Ape”.
31
Al volante si sta piuttosto comodi e lo spazio a disposizione è più che
sufficiente, anche per la mancanza del tunnel di trasmissione (il motore è
collocato
posteriormente).
Davanti al pilota il quadro
della strumentazione, che
ricorda
quello
della
“Bianchina”e che comprende il
tachimetro-contachilometri e
le spie di carica della dinamo e
della riserva di benzina. Non
appena partiti stupisce la
leggerezza dello sterzo, che
sembra essere dotato di servocomando. Il volante si gira con due dita ed è un
piacere affrontare le curve, compiere un’inversione a “U” o, più semplicemente,
infilarsi in uno stretto parcheggio. Dietro ai sedili c’è un po’ di spazio
supplementare per i bagagli, che supplisce a un vano anteriore davvero minimo,
nonostante la ruota di scorta sia stata spostata sotto al sedile di destra,
appoggiata al pianale.
Il cambio si comanda mediante una piccola leva verticale a cloche. I rapporti
sono soltanto tre e, perdipiù, la prima non è sincronizzata. Questa scelta di non
dotare la trasmissione di una quarta velocità è però penalizzante. La seconda è
infatti un po’ troppo corta e quando si passa in terza il motore scende
sensibilmente di giri. Se c’è una piccola pendenza, inoltre, il piccolo bicilindrico
accusa subito la difficoltà,
costringendo il pilota a scalare
in seconda.
L’accelerazione da fermo, in
compenso,
è
più
che
soddisfacente e la “Vespa 400”
riesce a districarsi con una
certa agilità nel traffico. Non
appena si esce dalla città, si
apprezza pienamente il piacere della guida all’aria aperta in pieno relax: la
capottina in tela è infatti molto ampia e si può arrotolare fino alla base del
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padiglione. Il percorso, pianeggiante e ricco di curva, fa perdonare la limitata
potenza del motore (appena 12 CV) e consente anche qualche accenno di
sbandata. Basta infatti sterzare un po’ più del necessario e il retrotreno della
“Vespa 400” slitta leggermente
verso
l’esterno,
riallineandosi
docilmente con un piccolo colpo di
volante. Il comfort di macia è
sufficiente, grazie alle sospensioni
indipendenti e ai sedili abbastanza
comodi. Le ruote di piccolo
diametro (appena dieci pollici)
trasmettono però al volante anche
le più piccole buche lungo la strada.
La velocità massima è prossima ai novanta all’ora, un risultato soddisfacente in
considerazione della piccola cilindrata e che conferma le potenzialità di questo
motore, che, lo ricordiamo, è stato realizzato appositamente per questa
utilitaria e non ha avuto altri impieghi successivi.
Tra l’altro, la “Vespa 400” è stata anche utilizzata in varie competizioni
sportive e di durata, conseguendo un onorevole palmàres. Un’esemplare ha
percorso la distanza tra
Mosca e Parigi (oltre
7200 chilometri) in 116
ore e 56 minuti,
consumando meno di 6
litri di miscela ogni
100 km, mentre altre
“Vespa”
hanno
ottenuto primi posti di
classe in numerosi rally
svoltisi in Francia alla
fine
degli
anni
Cinquanta.
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LAWIL Varzina
arzina - 1968
Circa ventimila esemplari prodotti in poco più di vent’anni: questi i numeri della
Varzina, la microvettura costruita a Varzi dagli ultimi anni ‘60 ai primi ’90 per
iniziativa dell’ing. Carlo Lavezzari, patròn di un gruppo industriale spaziante dalla
lavorazione delle lamiere all’impiantistica. Numeri che pochi italiani conoscono (la
Varzina si vede pochissimo sulle nostre strade, in quanto precipuamente destinata ai
mercati esteri) e che neppure immagina lo stesso Lavezzari quando la inventa,
ispirandosi per le forme alla mitica jeep americana e per le dimensioni ai risciò
dell’estremo oriente.
Credere nel successo di una vetturetta
in pieno 1968 (l’anno in cui s’inizia ad
allestire in Via Maretti lo stabilimento
della Lawil
il Spa, società deputata
all’impresa automobilistica), dopo che il boom economico ha cancellato del tutto
il ricordo delle varie Isetta e Mivalino, parrebbe appartenere più al sogno di un
nostalgico che al freddo raziocinio dell’imprenditore. Ma i fatti daranno
da
ragione
all’ing. Lavezzari, così come gli avevano dato ragione quando, tra mille
difficoltà ed altrettanti rischi, nel ’61 scommise sul proprio brevetto di
elettrozincatura delle lamiere e vi investì sino all’ultimo quattrino, gettando le
basi per la creazione di un piccolo ma solido impero industriale.
Nato nel 1924 da una povera famiglia di contadini a San Pietro Casasco,
frazione di Menconico, Lavezzari arriva ad occupare negli impianti della Lawil
dai 30 ai 50 dipendenti, coadiuvato dal fido direttore
direttore Michele Calvi e sospinto
dal consenso dell’intera Val Staffora, che nel ’79 lo eleggerà senatore della
Repubblica in segno di doverosa riconoscenza (lo stabilimento varzese della
Zincor Italia, ove si producono le lamiere elettrozincate, dà lavoro ad altre 200
persone) e quasi a volerlo ripagare per le immani tragedie patite nella vita: il
massacro della mamma, della nonna e dei tre fratelli ad opera di una scheggia
partigiana impazzita, dal quale si salvò con 43 ferite in corpo soltanto perché
ritenuto
to morto dagli assassini, e i 18 giorni trascorsi in prigionia nel 1978,
rapito dall’efferato clan di Francis Turatello.
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Le ragioni che hanno spinto l’imprenditore alla difficile avventura
automobilistica stanno nelle agevolazioni fiscali e normative riconosciute da
taluni Paesi ai cosidetti “quadricicli leggeri” e nella convinzione che un veicolo
di minime dimensioni risulti impareggiabile nel forsennato traffico delle
metropoli, specie in quelle attività di trasporto e consegna che impongono
tragitti brevi e soste continue. Non a caso la Varzina tocca l’apice della
diffusione nelle grandi città di Francia, ove viene impiegata per i servizi postali,
e nella capitale dell’Indonesia, ove tenta di sostituire i diffusi e caratteristici
risciò a pedale. A quest’ultimo
uest’ultimo scopo Lavezzari costituisce a Giacarta la società
Italindo, nel cui stabilimento (anch’esso organizzato da Michele Calvi) vengono
assemblati su base Varzina circa diecimila “risciò a motore” dall’esotico nome di
Heliciak e Superheliciak.
Ma torniamo a Varzi sul
finire del 1968. Il primo
veicolo che lascia la catena
di montaggio di Via Oreste
Maretti porta la sigla S3 e
la denominazione ufficiale di
Varzina, che poi il pubblico
estenderà per antonomasia
a tutte le versioni derivate:
la berlina, il furgone, il
camioncino. L' S3 Varzina
e' una spider che scimiotta
La spider Lawil S.3 Varzina
le linee squadrate e
spigolose delle prime jeep, rese ancor più simpatiche dalle dimensioni davvero
miniaturizzate della scocca, lunga soltanto 207 cm
cm e sostenuta da minuscoli
pneumatici 4,00 x 10. Il mezzo pesa 320 kg in ordine di marcia, trasporta 2
persone più 200 chili di bagaglio ed ha in dotazione la capottina impermeabile e
le porte con trasparenti sintetici, ma saranno in molti a circolare, almeno
al
d’estate, con un semplice tendalino parasole che sa tanto di spiaggia e di
vacanze. La spider adotta un bicilindrico a due tempi di 246 c.c. raffreddato ad
aria forzata, la cui potenza di 12 cv a 4.400 giri/min consente una velocità
massima di 70 km/h,
h, ma a richiesta la si può ottenere con motore
monocilindrico di 125 c.c., sempre a due tempi.
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Per chi ama la maggior
protettività della berlina, il
listino Lawil offre il modello
A4 con carrozzeria chiusa a
due porte, in tutto simile all' S3
Varzina,, ma lungo due
centimetri in meno, pesante 30
kg in più e con minori capacità
di carico ( 2 persone più 20 kg
di bagaglio). Anche in questo
caso esiste l'alternativa del
bicilindrico di 246 c.c. e del
monocilindrico di 125 c.c..
La berlina Lawil A.4
Espressamente studiato per il trasporto
commerciale leggero è invece il furgone C2:
qui le dimensioni decisamente maggiori
(lunghezza 320 cm) consentono un carico
utile di 640 kg, mentre la propulsione è
affidata in via esclusiva ad un monocilindrico
verticale a due tempi di 123,5 c.c., capace di
6,29 cv a 5.570 giri. Il C2 si rivela veicolo
importante per il conto economico
dell’azienda di Lavezzari, poichè acquistato
in lotti consistenti dalle Poste francesi per il
servizio
izio di ritiro e consegna dei plichi. Nelle
versioni più recenti il furgone assumerà la denominazione ufficiale di Break KL
125.
Il furgoncino Lawil C.2
Al trasporto merci è destinato anche il camioncino C5 a cassone scoperto, che
vanta la ragguardevole portata utile di 800 kg e può considerarsi un
antesignano in miniatura (è lungo in tutto 376 cm) dei pick-up
pick up oggi tanto di
moda. Il mezzo adotta inizialmente il bicilindrico di 246 c.c. della Varzina, ma
in un secondo tempo viene equipaggiato con un più potente, elastico e robusto
robus
37
diesel bicilindrico di 754 c.c. (17 cv a 3.600 giri/min), che ne esalta le doti di
arrampicatore e gli guadagna la denominazione ufficiale di Alpino.
Il camioncino Lawil C.5
Caratteristiche comuni a tutti i modelli Lawil sono il motore piazzato
anteriormente, la trazione posteriore, il raffreddamento ad aria forzata, il telaio
a struttura tubolare, la carrozzeria in lamiera di acciaio, la sospensione
anteriore a ruote indipendenti e quella posteriore a ponte rigido con molle a
balestra, lo sterzo a cremagliera, il cambio a 4 velocità più retromarcia, i freni
idraulici a tamburo sulle 4 ruote.
38
Con l’approssimarsi degli anni ’90 il successo delle microvetture varzesi (circa
ventimila gli esemplari prodotti, come riferisce lo stesso Carlo Lavezzari nel
volume autobiografico Il pane le ferite il lavoro)
lavoro) tende inesorabilmente a scemare:
i piccoli propulsori
opulsori in dotazione, a due tempi e con raffreddamento forzato, si
trovano sempre più alle corde per via della rumorosità, delle emissioni
inquinanti e di una certa ruvidezza di funzionamento, proprio mentre crescono
in Europa le attenzioni (anche di carattere
carattere normativo) verso l’ambiente e
mentre stanno scendendo in campo grandi aziende motoristiche con progetti di
impronta spiccatamente automobilistica. Così l’ingegnere, uomo che sa
guardare avanti e non è aduso all’indugio e all’incertezza, nel 1986 pone la
Lawil Spa sotto le ali protettive (dal punto di vista finanziario)
dell’incorporante Lavezzari Impianti, altra solida azienda del “gruppo”, e nel
1991 cessa in via definitiva la produzione delle Varzina.
Non si tratta però di un addio. Dopo un necessario
necessario periodo di studi e
sperimentazioni egli conta di tornare sul mercato con il Diavolino, una
vetturetta che mantiene le linee estetiche, le dimensioni e la concezione di base
della progenitrice, ma rappresenta un passo avanti in termini sia di meccanica
meccan
che di appetibilità del prodotto. Il Diavolino può infatti contare su una più
39
leggera carrozzeria in vetroresina ed offre la scelta fra due propulsori di 125 e
200 c.c. che finalmente, pur fedeli alla tradizione del monocilindrico a due
tempi, adottano il raffreddamento ad acqua, con ovvi vantaggi in termini di
fluidità di erogazione, minor rumore e minori emissioni. Il cliente ha inoltre la
possibilità di optare per la trazione posteriore o quella anteriore, disponendo
nel primo caso di un classico cambio a 4 rapporti più retromarcia e nel secondo
di una comoda trasmissione con variatore. Qualche prototipo circola pure con
motorizzazione a gasolio e persino elettrica, qualche altro con linee di
carrozzeria più morbide e meno squadrate, ma per l’eventuale
industrializzazione di tali progetti si impongono tempi decisamente più lunghi.
Il Diavolino a miscela, presentato ufficialmente con foto e depliants, non fa però
in tempo a rimettere in moto la catena di montaggio di Via Maretti, ferma
ormai da tre anni. L’ing. Lavezzari scompare infatti la vigilia di Natale del 1994
e nessuno vorrà portare avanti la sua audace scommessa automobilistica.
Lawil Diavolino
40
CASALINI Sulky - 1969
La Casalini di Piacenza è l’azienda che
ha generato in Italia il fenomeno delle
microvetture “guidabili a 14 anni senza
patente, senza targa e senza casco”.
L’avvio si ha nel 1969 con la
presentazione del Sulky 50 c.c., un
simpatico veicolo a 3 ruote che richiama
– non solo per il nome, ma anche per la
posizione di guida quasi a ridosso
dell’unico ruotino anteriore - la
struttura del calesse che ospita il fantino nelle gare di trotto.
La vetturetta ottiene subito un discreto
discreto successo commerciale, dapprima tra
coloro che non possono conseguire la patente di guida per via dell’età o di
qualche limitazione fisica, poi tra chi s’accontenta di un semplice “ciclomotore”
che però ripari dal freddo e dalle intemperie.
41
Le Officine Meccaniche Giovanni
Casalini, fondate a Piacenza nel
1939 e subito affermatesi quali
produttrici di forcelle, elementi
ammortizzanti e telai in lamiera
stampata per ciclomotori, a partire
dalla metà degli anni ’50 danno vita
ad una serie di motocarri e
motofurgoni di 50 c.c. per il
trasporto
urbano
leggero,
denominati
David
e
commercializzati in una vera e
propria miriade di allestimenti.
Quindici anni più tardi l’esperienza
così acquisita viene tutta riversata
nel Sulky, la cui struttura non pare molto dissimile da quella di un
motofurgoncino… carrozzato come fosse un’automobile.
Il
Sulky,
originariamente
provvisto di un propulsore
Minarelli a 2 tempi di 50 c.c.,
compie
un
sensibile
passo
qualitativo con il lancio della
seconda serie, che impiega la
meccanica
dell’Ape
Piaggio,
sempre di 50 c.c., all’avanguardia
per l’applicazione ai mezzi da
trasporto leggero.
Dall’Ape il Sulky acquisisce anche altre componenti (motorino di avviamento,
differenziale, bracci oscillanti, semiasse, sistema frenante e sistemi di
aspirazione e scarico) le innesta su una carrozzeria soltanto un po’ impreziosita
ed affinata rispetto a quella del debutto, ottenendo un veicolo di sicura e totale
affidabilità.
42
La struttura del Sulky è a scocca portante integrata da tubolari in acciaio,
mentre la sospensione anteriore si avvale di una forcella a sbalzo a ruota spinta
e quella posteriore di ruote indipendenti con ammortizzatori idraulici. Il cambio
è a 4 marce più RM.
Il Sulky era disponibile sia
con guida a manubrio (ed
eventuali comandi speciali)
sia con una plancia
decisamente più
automobilistica, dotata di
volante, spie e freno di
stazionamento
Nonostante una lunghezza di soli
2.405 mm, il veicolo piacentino offre
ottima abitabilità al conducente ed un
bagagliaio capace di ben 1.330 lt, cui si
accede tramite un pratico portello
posteriore. Inoltre è disponibile con
guida sia a manubrio che a volante,
nonché con una lunga serie di comandi
speciali a richiesta.
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Del Sulky vengono prodotte nel tempo numerose versioni anche di maggior
cilindrata ed un innovativo Sulky Solare a pannelli fotovoltaici. Poi, dopo una
carriera durata tre decenni, esso cede il passo all’Ydea, una citycar decisamente
più moderna e pretenziosa, con motorizzazioni diesel Mitsubishi di circa 500
c.c..
44
Qualche curiosità…
Lucciola - 1940
Nel 1940 il milanese G.B. Pennacchio, titolare dell’omonima officina, progetta
una motovettura tipo coupé a tre ruote (due anteriori e una posteriore) che
chiama Lucciola. Equipaggiata con motore posteriore 250cc a quattro tempi
Condor-Guidetti, già collaudato da anni sulle più svariate applicazioni agricole,
disponeva di telaio tubolare e cambio a 3 marce. La carrozzeria era di disegno
gradevole e offriva ospitalità inizialmente a due persone, poi a tre. La sua
produzione, dopo la presentazione alla XXV Fiera Campionaria di Milano
dell’ultima versione, non trovò più clientela tanto da costringere l’officina
Pennacchio ad interromperla verso la fine del 1948.
Trottolina – 1940
Emilio Castagna, fratello minore del carrozziere Ercole Castagna, apre una
propria ditta nel 1940 in via G.B. Fauché a Milano. Qui, contemporaneamente
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al lavoro di carrozzeria, realizza anche la sua prima vettura denominata
Trottolina, probabilmente a pedali (una proposta determinata dalla carenza di
carburante), quindi una seconda vettura mossa da un piccolo motore Guidetti,
in collaborazione con l’imprenditore G.B. Pennacchio (vedi Lucciola).
Bertoni - 1948
Si tratta di un costruttore lodigiano, autore di
un unico modello automobilistico, una spider
con le dimensioni di un giocattolo, ma in linea
con le vetture utilitarie che nell’immediato
dopoguerra destarono comunque una certa
curiosità. La vetturetta era mossa da un
motore Vespa Piaggio. Fece la sua
apparizione nel 1948 durante una manifestazione motociclistica che si teneva
nel circuito di Lodi. Non ebbe alcun seguito produttivo.
MV Agusta Vetturetta 350 - 1953
Nei primi anni ’50, caratterizzati dalla difficoltà di preventivare i ritmi e le
direttrici di sviluppo dell’economia del Paese in generale e del settore trasporti
in particolare, anche qualche grande Casa motociclistica affronta il tema della
microvettura, per lo meno a livello sperimentale. La MV Agusta, mentre si
affaccia prepotentemente sulle scene del motociclismo agonistico di massimo
livello, affida all’ing. Pietro Remor il progetto di una quattro ruote di modesta
cilindrata e ciò che ne risulta è un mezzo assolutamente affascinante dal punto
di vista tecnico.
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La Vetturetta 350 dell’MV Agusta, ultimata nel 1953, adotta infatti un
originale motore a 4 tempi bicilindrico orizzontale contrapposto di 350 c.c.,
molto potente ( i cv sono ben 34 ad 8.000 giri/min, mentre il rapporto di
compressione è di 8,5:1) ed abbinato a un cambio a 4 rapporti. La distribuzione
è ad aste e bilancieri, la lubrificazione con pompa ad ingranaggi, l’accensione a
spinterogeno. Anche il corpo vettura, che si presenta come spyder a forma di
uovo con ruote esterne e parafanghi di stile motociclistico, adotta soluzioni
piuttosto raffinate quali la scocca portante, la sospensione anteriore a
cannocchiale e quella posteriore a bracci oscillanti. Il tutto per un peso
complessivo di 236 chilogrammi.
Zagato Zele – Anni ‘70
In seguito alla crisi degli anni sessanta-settanta, che annulla quasi interamente
le potenzialità della carrozzeria italiana, Zagato cerca un’alternativa nella
costruzione di vetture elettriche. Parte così a Terrazzano di Rho l’operazione
Zele (Zagato Elettrica) abbinata alla Elcar (vedi), che è invece il marchio con
cui questa micro vettura da città tenta la sorte sul mercato estero. La prima
realizzazione originale è la Milanina, seguita da una serie di modelli che
esplorano la possibilità di creare un prodotto affidabile, di economica gestione e
di gradevole aspetto. La tecnologia disponibile in quegli anni non è tuttavia
molto avanzata e la preoccupazione per il crescente inquinamento atmosferico
non è ancora così tanto percepita. Pertanto, dopo aver prodotto numerosi
modelli, la Zagato deve abbandonare l’ambizioso progetto.
BMA Amica – 1973
Nei primi anni ’70 le microvetture di maggior successo commerciale sul
mercato italiano sono il Sulky della piacentina Casalini e l’Amica della B.M.A.
di Alfonsine (Ravenna), entrambi a 3 ruote.
L’Amica, diffusa più che altro nelle zone centro-meridionali del Paese, si
caratterizza per la carrozzeria in ABS montata su telaio a struttura tubolare in
acciaio e con le portiere che si aprono ad ali di gabbiano. Il propulsore è un JLO
a 2 tempi di 225 c.c. raffreddato ad aria ed abbinato ad un variatore automatico
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di velocità. La lunghezza complessiva di 2.100 mm e la larghezza di 1.350,
consentono all’Amica di ospitare 2 persone ed una discreta quantità di bagaglio.
Baldi Frog – 1973
La Baldi, azienda italiana, presentò nel 1973 un
progetto di microcar. La maggior parte degli elementi
meccanici costituenti proveniva dal progetto della
FIAT 500.
La Baldi Frog misura 215 cm, dieci centimetri in meno
rispetto alla odierna Smart, è dotata di un motore
FIAT o da 302 o da 595 centimetri cubici (a seconda
seco
che si parli della versione Base o Rally). Costruita attraverso un telaio tubolare
a sezione costante con carrozzeria in plastica.
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Nonostante fosse una soluzione degli anni 70, ad oggi la Baldi Frog potrebbe
essere un felicissimo rimedio ai problemi di traffico e parcheggio cittadino.
Ne sono state fabbricate complessivamente 300, caratteristica che fa di questa
microcar un vero e proprio oggetto di collezione e di culto. La Baldi Frog è
stata prodotta in tre modelli: Base, Austere e Rally. Dopo i due anni di
produzione italiana il progetto è stato ceduto alla francese Willam.
Elcar - 1975
Marca automobilistica
ca creata dalla Zagato per
commercializzare all’estero la produzione di
propri veicoli elettrici la cui costruzione era
stata avviata dal carrozziere milanese nel suo
stabilimento di Terrazzano
razzano di Rho dopo la
crisi che travolse la carrozzeria italiana negli
anni Settanta. L’auto elettrica (motore Marelli)
è la carta che i fratelli Elio e Gianni Zagato
giocarono, forse con eccesivo anticipo, alla
ricerca di nuove opportunità per la loro azienda.
azienda. Ciò nonostante, con il marchio
Elcar, l’azienda riesce ad interessare molte società estere in Germania, Stati
Uniti e Australia, che si occupano per molti anni della commercializzazione del
prodotto, che da noi invece viene direttamente commercializzato
zato dalla Zagato.
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Uno sguardo all’Europa…
Nell’immediato dopoguerra l’automobile era ancora un bene di lusso riservato a un
ristretto numero di fortunati. La motocicletta e lo scooter divennero così per molte
famiglie l’unico mezzo di trasporto, pur con tutti i limiti che un veicolo due ruote
comportava. In Europa, molti piccoli costruttori si resero ben presto conto che per
soddisfare le sempre crescenti esigenze di mobilità occorreva mettere in produzione delle
vere automobili, anche minime, ma pur sempre con tre o quattro ruote e con un tetto
sulla testa del pilota e dei passeggeri per poterli proteggere dal freddo e dalle
intemperie.
Il fenomeno delle microvetture fu maggiormente evidente in Germania, dove
alcune delle industrie che fino a pochi anni prima producevano aeroplani
decisero, per poter sopravvivere, di dedicarsi alla costruzione di automobili,
utilizzando la loro
esperienza
nel
settore aeronautico.
Fu così che nella
Repubblica Federale
tedesca la produzione
di microvetture ebbe
un’escalation
da
record passando da
circa 2.000 unità nel
1953 a 9.000 unità
nel 1954 e a 35.000
unità nel 1955. Nel
1956 venne toccata
quota 60.000, grazie soprattutto al successo commerciale incontrato dalla
BMW “Isetta”, la versione locale del modello prodotto dalla nostra ISO, della
quale la casa di Monaco acquistò la licenza di costruzione nel 1955 e che
divenne disponibile anche in versione a quattro posti a partire dal 1957 con la
denominazione di “600” (70.000 esemplari costruiti complessivamente in sette
anni).
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Un’altra marca tedesca leader
in questo settore fu la Glas, che
nel
1955
presentò
la
“Goggomobil” (280.000 unità
prodotte)
con
motori
bicilindrici
a
2
tempi
disponibili in varie cilindrate.
Da segnalare anche la Lloyd,
del gruppo Borgward, i cui
modelli di maggiore successo
furono la “600” del 1955 e la
“Alexander” del 1957, che complessivamente furono costruiti in oltre 170.000
unità. Anche la NSU “Prinz” del 1958 può essere catalogata come microvettura
per le sue ridotte dimensioni, prima di diventare una vera utilitaria con la serie
“4” del 1962.
Un buon successo fu
ottenuto
anche
dal
Messerschmitt
“Kabinenroller” del 1953,
una
caratteristica
vetturetta a tre ruote con
due posti in tandem di
ispirazione aeronautica (il
tettuccio sembrava il
capolino della carlinga di
un aereo da caccia)
realizzata dalla famosa
fabbrica di aerei da
combattimento e che fu prodotta anche su licenza in Italia a partire dal 1958
dalla Mi-Val di Gardone Val Trompia (BS).
Oltre a questi modelli, gli unici che conobbero larga diffusione, ne vanno
annoverati altri, meno noti, ma ugualmente interessanti per le soluzioni
tecniche ed estetiche che presentavano.
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Ricordiamo la Fuldamobil “S4” (foto a sinistra) del 1957 con carrozzeria in
vetroresina, la Heinkel “Kabine” del 1956 a forma ovoidale con le due ruote
posteriori molto ravvicinate, la Zündapp “Janus” (foto a destra) del 1956 con
due porte, una anteriore e una posteriore: i passeggeri si sedevano volgendo le
spalle al guidatore e il motore era collocato al centro tra i sedili.
L’Inghilterra fu invece più profilica di veicoli “minimi” con però tre sole ruote.
Le marche più note furono la Bond (foto), la Berkeley e la Reliant. Quest’ultima
Casa, che ebbe come modello di
punta la “Regal” del 1951, oggi
è ancora attiva ed è apprezzata
per i suoi modelli sportivi di
elevate prestazioni. Anche la
Bond fu molto popolare tra il
1948 e il 1962, mentre la
Berkeley aveva pretese più
sportiveggianti, pur avendo
anch’essa tre ruote, e fu attiva
tra il 1959 e il 1961.
In Francia, invece, a parte la già citata Vespa “400” oggetto dell’articolo
presente su questo stesso fascicolo, questo tipo di utilitaria non conobbe larga
diffusione e le uniche marche meritevoli di segnalazione furono la Rovin, la
Mochet e la Vallèe.
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Un fenomeno effimero, dunque, quello delle microvetture, che ebbe
una durata limitata nel tempo e che poté esistere soltanto in un
preciso momento della storia dell’automobile, quello che segnò il
passaggio dalle due alle quattro ruote. Ma un fenomeno che stimolò
l’ingegno e la fantasia dei costruttori che dovettero inventare nuove
e sempre più originali soluzioni per contenere al massimo i costi e
per offrire al pubblico un’abitabilità degna di questo nome. Per
molti l’attività in campo automobilistico si chiuse nel giro di
qualche anno, mentre per altri, come la BMW, fu l’inizio di una
brillantissima carriera.
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Microcars:
tra passato e futuro
fut
Il camminoo dell’automobile, fin dai primi anni del 900, è costellato da numerosi
tentativi di produrre mezzi di piccole dimensioni, capaci della massima semplisempl
cità sia in fase costruttiva che durante l’utilizzo.
o. Gli esempi sono innumerevoli
in
e tra le “piccole” automobili alcune rappresentarono veri e propri trionfi comco
merciali: la Ford T e la Fiat Topolino tanto per citare qualche esempio. Si trattra
tava però, in ogni caso, di vere e proprie automobili, soltanto più piccole della
media: motori, trasmissioni, telai e carrozzerie non erano infatti
infa ti altro che copie
in scala ridotta delle tecnologie
tecnologi adottate dalle “sorelle maggiori”.
giori”.
Ben diverso il fenomeno delle microcar
m crocar che irrompe nel mondo dell’automobile
al termine
ine del secondo conflitto mondiale, quando la voglia di ricominciare
r
è
tanta ma i mezzi per farlo sono
assolutamente
tamente
limitati.
L’industria motociclistica
ca mette
in campo i motori ausiliari da bib
cicletta ed i “bici-motore”,
motore”, ofo
frendo al pubblico la massima
economicità
onomicità possibile in termini
di acquisto e di utilizzo;
utilizzo ma il
veicolo
icolo a due ruote, per quanti
sforzi di facciano,
no, ha in sé limiti
di fruibilità
tà insuperabili. Ecco
E
allora concretizzarsi,
zarsi, specie da
parte di artigiani
tigiani e di piccolepicc
medie imprese, il concetto di microcar, intesa sostanzialmente
come l’applicazione
applicazione di tecnologia motociclistica ad un veicolo a tre o quattro
ruote, chiuso e sicuramente più confortevole
confortev della moto.
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Il fenomeno rimane però effimero per due principali ordini di motivi: da una
parte le scarse prestazioni offerte dall’impianto di tecnologia motociclistica
(motori, trasmissioni a catena) su un veicolo a più ruote, dall’altra il progressivo miglioramento delle condizioni economiche del paese (con la presentazione
di utilitarie ben più concrete e performanti, quali le Fiat 500 e 600), fanno si che
le microcar scompaiano del tutto dal mercato.
Per assistere alla loro ricomparsa,
anzi ad una loro ben più notevole diffusione, occorre attendere gli anni
’90, quando irrompono sul mercato
le moderne microcar, che non conservano più nulla di motociclistico e
di artigianale ma sono frutto della
trasposizione di concetti assolutamente automobilisti a carrozzerie di
minuscole dimensioni. Questi mezzi,
grazie alle agevolazioni legislative e fiscali che li parificano ai ciclomotori, diventano una valida alternativa soprattutto nel traffico urbano e metropolitano,
specie per coloro che non sono in possesso della patente di guida automobilistica, anche se rimangono penalizzate dal punto di vista delle prestazioni a causa
della limitazione a 45 km/h imposta della legge.
Ma nel frattempo, e siamo agli
albori del 21° secolo, le condizioni del traffico e dell’inquinamento
sono notevolmente mutate, tanto
da richiedere mezzi che, a fronte
di prestazioni e sicurezza automobilistica, consentano ingombri, emissioni e consumi assolutamente contenuti. A fare da
spartiacque tra le “vecchie” e
“nuove” microcar, è sicuramente la Smart che apre un capitolo tutto nuovo e nel
qualche la vetturetta, da fenomeno simpatico, diventa un vero e proprio fenomeno di massa.
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Smart ED
Una smart elettrica per davvero, utilizzabile tutti i giorni in città non emettendo neanche un grammo di CO2 o di altri inquinanti. E’ questa la sfida lanciata
dal Gruppo Daimler che con la sua citycar per eccellenza, sta sperimentando
una propulsione elettrica commercializzabile entro il 2010. Si chiama smart fortwo electric drive ed è stata presentata al pubblico al Salone di Parigi con la
promessa che già entro l’anno prossimo l’auto sarà prodotta in una piccola serie
destinata ad essere guidata da un gruppo selezionato di clienti.
La smart fortwo electric drive, annunciata in occasione della produzione della
milionesima smart, rappresenta l'evoluzione di una precedente versione testata
a Londra durante un progetto pilota in cui 100 esemplari sono stati distribuiti
ad altrettanti automobilisti per raccogliere le prime esperienze sull'impiego di
un'auto elettrica in condizioni reali. Il feedback è stato incoraggiante e le autorità della capitale inglese hanno premiato questo impegno nei confronti della
mobilità sostenibile esonerando i guidatori di smart elettrica dal costoso pedaggio d'ingresso urbano (Congestion Charge).
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Il “segreto” tecnico di questa
smart sta nelle batterie agli ioni
di litio, una tecnologia che le
rende più compatte, efficienti e
soprattutto durevoli e dunque in
grado di garantire un’autonomia
adeguata all’impiego cittadino.
Lo svilippo della smart fortwo
electric drive rientra nell'emobility Berlin, un programma sostenuto dal governo federale e dal Land di
Berlino e promosso da Daimler AG ed il gigante energetico tedesco RWE che
attiverà 500 stazioni di ricarica in grado di rifornire con sistema plug-in la prima flotta sperimentale di 100 smart elettriche. "Capitale e grande metropoli
della Germania, Berlino è il luogo ideale per questo progetto", ha detto Dieter
Zetsche, presidente di Daimler AG. "E poiché il traffico si concentrerà in futuro
sempre più nei grandi agglomerati urbani, le vetture elettriche a zero emissioni
caratterizzeranno il volto delle grandi città attente ai problemi dell'ambiente.
“La guida a zero emissioni non è più science fiction".
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Anche Enel e smart si uniscono
per e-mobility Italy, il primo
progetto improntato alla reale
diffusione dell'auto elettrica.
Dal 2010 nelle città di Pisa,
Roma e Milano, ci saranno oltre
100 smart fortwo elettiche in
circolazione che si potranno rifornire dalla rete di casa o presso gli oltre 400 punti di ricarica
diffusi da Enel nei centri urbani deputati alla sperimentazione. A firmare la lettera d'intenti sono stati l'amministratore delegato e direttore generale di Enel,
Fulvio Conti, e il presidente CEO di Mercedes Benz Italia, Bram Schot.
Quest'iniziativa, la cui sperimentazione è prevista per il 2010, ha lo scopo di
rendere possibile la diffusione e l'utilizzo efficiente dei veicoli elettrici. Per far
entrare le auto elettriche nella vita quotidiana degli automobilisti, mentre
Daimler fornirà le fortwo da 41 CV e ben 140 Nm di coppia, spinte da batterie a
ioni di litio che assicurano un'autonomia di almeno 150 km, Enel si farà carico
di sviluppare, realizzare e gestire la
tecnologia e la rete di approvvigionamento elettrico. Quello offerto dalle 3 città italiane sarà un ottimo banco di prova per delle vetture che, oltre a contribuire al benessere ambientale del pianeta, consentono un notevole risparmio di carburante: con una
spesa di 10 euro un'auto elettrica è in
grado di percorrere 280 km, ben 160
in più rispetto ad una vettura alimentata a benzina. Dopo Londra e Berlino, 3 importanti città italiane saranno
dunque protagoniste della sperimentazione di una nuova mobilità ecosostenibile. La speranza è che in futuro dalla fase sperimentale si passi, almeno per i
grandi centri cittadini, a quella definitiva.
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Smart Diesel e MDH
“CO2 Champion”. E' questo il
motto scelto per il lancio della
nuova versione diesel della
smart che senza troppi giri di
parole, vuole ricordare un
primato decisamente invidiabile di questi tempi: l'essere l'auto meno inquinante in commercio.
Questi i dati: 3,3 litri ogni 100
chilometri emettendo appena 88 grammi di anidride carbonica ogni km.
Non sazia di questi risultati, smart ha deciso di migliorare l'impatto ecologico
anche del motore a benzina commercializzando già dal prossimo autunno la
smart "micro hybrid drive" (mhd). Questa nuova versione viene per l'appunto
definita un'auto "micro-ibrida",
ma tale denominazione non deve trarre in inganno: la smart
mhd non sarà spinta da due motori (uno a benzina e uno elettrico) bensì da un sistema di alternatore-starter che consente
lo spegnimento automatico del
propulsore negli 'stop&go' da
traffico e il successivo riavvio al
momento di ripartire (ad esempio quando un semaforo diventa verde).
La smart è una delle auto che capitalizza meglio l'utilizzo di un sistema del genere vantando sulla carta una riduzione del consumo di circa 0,4 litri per 100
chilometri (da 4,7 litri a 4,3 litri, ovvero -13%), mentre le emissioni di CO2 passano da 112 grammi a 103 grammi per chilometro.
Tecnicamente la nuova smart mhd si avvale di uno speciale alternatore-starter
azionato a cinghia che svolge contemporaneamente le funzioni di motore di av-
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viamento e dinamo. Questo consente di rinunciare ad un motore di avviamento
di tipo tradizionale che agisce sul volano dell'albero motore. Il sistema è stato
sviluppato da smart in collaborazione con Valeo GmbH e Gates Corporation. Il
gruppo meccanico comprende l'alternatore-starter STARS 137 prodotto da Valeo. L'alternatore eroga una coppia di 42 Nm ed una corrente massima di 120
Ampere a 14 Volts, sufficiente per garantire un affidabile avviamento del motore, anche in presenza di temperature estremamente rigide (fino a -25°C). Per
assicurare un collegamento a basso attrito e durevole del gruppo dell'albero
motore all'alternatore-starter, entrambi i componenti sono stati dotati di pulegge maggiorate, mentre la pompa dell'acqua è azionata a cinghia. La potenza
è trasmessa da una cinghia poly-V a 6 scanalature prodotta da Gates. La tensione della cinghia è particolarmente importante, a causa delle variazioni di carico che si verificano durante la funzione start/stop. A tale scopo è stato adottato un ammortizzatore coassiale, fissato all'alternatore-starter e sostenuto dal
blocco motore. L'alternatore-starter è in grado di applicare la corretta tensione
alla cinghia, assicurando che entrambe le sezioni vengano azionate dal motore a
combustione interna quando è in funzione, e che la sezione complementare della cinghia tirata dallo starter nella fase di avviamento sia in grado di trasmettere la coppia richiesta in modo affidabile.
60
Nissan NUVU
Tre metri di lunghezza, tre posti, motore elettrico posteriore, trazione posteriore, 120 km/h, 125 km di autonomia. Questi i dati salienti della Nissan Nuvu
Concept, anticipazione stilistica di una futura city car ecologica e moderna, dotata di un sistema propulsivo elettrico a "emissioni zero" che dovrebbe entrare
in produzione nel 2012.
Questa nuova visione ("new view", o Nuvu appunto) dell'auto da città del futuro passa proprio attraverso una concept come la Nuvu, oltremodo arrotondata,
vetrata e compatta, con un tetto "biomorfo" pensato proprio per rappresentare
"un'oasi urbana con albero interno e foglie che creano energia". La city car del
prossimo decennio sarà, secondo Nissan, più vicina alle esigenze di mobilità e di
eco-compatibilità degli automobilisti, con un ingombro esterno minimo e un abitacolo 2+1 per venire incontro alla realtà del trasporto urbano.
La facilità di parcheggio si sposerà con il libero accesso a tutte le aree urbane
garantito dal motore elettrico; il futuro più prossimo è proprio qui, nel propulsore della Nuvu che, a differenza dell'auto, debutterà nel 2010 e andrà in produzione a partire dal 2012. La Nuvu è per il momento solo un'ipotesi, un elemento
iniziale di questa prospettiva a lungo termine che vedrà Nissan sempre più impegnata nella realizzazione di veicoli a emissioni zero.
61
Tornando alla Nuvu Concept, il Costruttore giapponese informa che si tratta
di una piattaforma inedita e
specifica, lunga 3 metri,
larga 1,70, alta 1,55 e con
un passo di 1,98 metri per
la massima abitabilità. L'interno è studiato proprio per
la mobilità cittadina, il
classico percorso verso il luogo di lavoro o il supermercato, con al massimo 3
persone a bordo. Priorità di trattamento al guidatore, con ampio spazio di manovra e abitabilità, affiancato da un sedile per il passeggero spostato decisamente indietro, quasi in una seconda fila; l'eventuale terzo passeggero può essere
ospitato in un leggero sedile ripiegabile posto sotto la plancia, che si estende e
offre una seduta al terso ospite senza rubarne al secondo. Piccoli bagagli e borse morbide trovano posto dietro il sedile del pilota.
Come è ormai d'obbligo in questi prototipi "politicamente ed ecologicamente
corretti", molti dei materiali usati all'interno sono naturali e riciclabili, come il
pavimento in fibre di legno pressate. La Nuvu però va anche oltre, e si inventa
un finto albero il cui
tronco nasce dietro il sedile del guidatore, allarga i suoi cinque rami sul
tetto vetrato, lo sostiene
e si estende sull'area trasparente con dozzine di
pannelli solari a forma di
foglia. Il sistema contribuisce alla ricarica delle
batterie e offre una spinta energetica extra in caso di bisogno.
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I principali comandi di guida sono "By-Wire", ovvero senza collegamento fisico
ma solo con controlli elettronici, compresi sterzo, acceleratore, cambio e freni.
Il motore elettrico, dalla potenza non dichiarata, è piazzato dietro e comanda le
ruote posteriori spingendo la Nuvu a 120 km/h e garantendo un'autonomia di
125 km con una carica. Le batterie agli ioni di litio laminati hanno una densità
energetica di 140 Wh/kg, ma ancora non è stato rivelato il valore di capacità e
il numero dei moduli. Questo tipo avanzato di accumulatori al litio hanno ingombri ridotti, possono essere installate facilmente sotto il pianale, non si surriscaldano e possono essere ricaricati velocemente da una presa elettrica domestica in 10/20 minuti (3/4 ore una ricarica completa).
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Toyita iQ
Piccola, stilosa, tecnologica. Per descrivere la iQ, la nuova “baby Toyota”, di
aggettivi ce ne vogliono tanti ed è comunque difficile impiegare poche parole
senza essere banali. Innanzi tutto è un concentrato di nuove soluzioni ingegneristiche, in secondo luogo è un auto, pensata espressamente per l’impiego nel
traffico cittadino, che vanta un primato mondiale: in meno di 3 metri di lunghezza può trasportare 4 persone. E poi c’è il contesto socio economico
all’interno del quale la nuova iQ dovrà ritagliarsi un posizionamento di mercato: la crisi internazionale e la presa di coscienza del problema dell’inquinamento
che sta convincendo molti automobilisti europei all’acquisto di auto sempre più
piccole e dai costi di gestione contenuti.
Può piacere o meno, ma la iQ è tutto fuorché banale. A cominciare dalle proporzioni ultra compatte dettate dalla lunghezza del corpo vettura inferiore ai 3
metri (2.985 mm per la precisione). Le linee della carrozzeria sono a tratti semplici, a tratti movimentate e conferiscono all’insieme un senso di robustezza enfatizzato dalla carreggiate larghe e dagli sbalzi praticamente inesistenti. Uno
“squilibrio perfetto” dicono alla Toyota, fatto di asimmetrie ricercate e particolari stilistici elaborati.
L’abitacolo, altrettanto moderno, colpisce per l’essenzialità: su tutto domina
una plancia a “V” che raccoglie al centro gli strumenti per il climatizzatore
(manuale o elettronico), lo schermo del navigatore satellitare o il display
dell’autoradio. Tutto il resto dei controlli della strumentazione sono riassunti
in un joy-stick sul volante.
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L’iQ gioca infatti sulla modularità degli interni: due persone adulte in termini
di spazio non hanno nulla da invidiare ai passeggeri di una berlina di classe superiore; se bisogna trasportare
una terza persona (anche adulta) è sufficiente tirare avanti il
sedile del passeggero spartendo
equamente lo spazio a disposizione per le gambe. Più difficile
è invece il trasporto di un quarto passeggero in quanto implica
dei sacrifici al guidatore. Si può
fare, se il quarto è un bambino e
comunque per tragitti brevi.
Ovviamente se i sedili sono sfruttati, il bagagliaio non esiste: Toyota dichiara
38 litri. Il discorso cambia se non bisogna trasportare nessuno: ripiegando i sedili la capacità di carico sale a 238 litri, un livello degno di segmento superiore.
L’iQ è stata pensata proprio in questi termini: il proprietario può scegliere in
qualsiasi momento se e quanto spazio allocare ai passeggeri o ai bagagli. I sedili
posteriori sono peraltro sdoppiati al 50 % il che consente di viaggiare in 3 con
qualche bagaglio.
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Parlare oggi dell’abitabilità dell’iQ è facile. Vale però la pena spiegare come si è
arrivati a tali risultati, non fosse altro perché bisogna riconoscere i meriti degli
ingegneri Toyota che dal 2003 si sono dedicati al progetto. Per raggiungere il
tanto decantato primato
delle “4 persone in meno
di 3 metri”, la progettazione è partita da una
piattaforma sviluppata
ad hoc a cui sono state
applicate una serie di soluzioni ingegneristiche
estremamente innovative che rispondono in coro ad un'unica esigenza:
miniaturizzare i componenti (il maggior numero possibile) per guadagnare spazio da destinare
all’abitacolo. Così, ad esempio, è stato avanzato il differenziale davanti al motore, il che ha permesso di ridurre di 120 mm la distanza tra l’estremità del paraurti ed il pedale dell’acceleratore. Ancora, è stata adottata una particolare scatola di guida che riduce lo spazio occupato dal vano motore e che ha consentito di
ridurre al minimo gli sbalzi anteriori, mentre il serbatoio di carburante di dimensioni ultrasottili (120
mm di altezza) è stato posizionato sottoscocca anziché sotto ai sedili. Questa
soluzione permette di spostare in avanti le ruote posteriori e di inclinare
all’indietro gli ammortizzatori per non “invadere”
spazio dei sedili posteriori.
Altre “chicche” sono i sedili
con schienali ultrasottili, il
sistema di climatizzazione compatto (l’impianto occupa il 20% di spazio in meno) e il cruscotto di bordo asimmetrico che consente di guadagnare 130 mm di
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spazio extra per le gambe del passeggero da spartire con l’eventuale terzo occupante che siede dietro.
La nuova Toyota iQ è disponibile con un moderno 3 cilindri a benzina di 1 litro
capace di 68 CV e abbinato di serie ad un cambio a variazione continua Multidrive. Per coloro che non riescono a rinunciare al pedale della frizione - in Italia
sono ancora tanti - è comunque disponibile, senza sovrapprezzo, un cambio
manuale a 5 rapporti. Il favorevole rapporto peso/potenza, rende questo propulsore brioso ed estremamente parco nei consumi: la Casa dichiara 4,7/3,9/4,3
litri ogni 100 km rispettivamente ne ciclo urbano, extraurbano e combinato
(5,7/4,1/4,7 per la versione Multidrive). Contenute sono anche le emissioni di
CO2 pari a 99 grammi al chilometro.
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Alla luce degli esempi citati (ma se ne potrebbero discutere molti altri), non si
può fare a meno di constatare che qualcosa, nel mondo dell’automobile, sta
cambiando. Sembra infatti che i grandi costruttori, quelli che realmente hanno
la possibilità ed i mezzi per “imporre una vera rivoluzione” della mobilità di
massa, abbiano preso coscienza delle grandi problematiche ambientali ed economiche con cui il mondo deve, e dovrà sempre più in futuro, confrontarsi.
La ricetta vincente, almeno nel breve-medio termine, sembra rappresentata
proprio da queste micro vetture in grado di coniugare assieme prestazioni automobilistiche ed estrema flessibilità, a consumi, emissioni ed ingombri veramente ridotti. La strada verso il famigerato traguardo delle “emissioni zero”,
ottenibili con l’alimentazione elettrica o con l’utilizzo dell’idrogeno, dovrà tuttavia passare attraverso tappe intermedie; sarebbe infatti irreale pensare ad una
trasformazione così radicale a breve termine, non tanto per la tecnologia da adottare a bordo vettura quanto più per la realizzazione di una efficiente rete di
distribuzione (creare un servizio capillare di erogazione di energia elettrica o
addirittura di idrogeno richiede molto tempo oltre che importanti investimenti
economici). Per tali ragioni il percorso obbligato dovrà passare necessariamente
da alimentazioni alternative come il metano o il Gpl (oggi sempre più diffusi
grazie anche al notevole risparmio economico che deriva dal loro utilizzo) e
dall’alimentazione ibrida che, grazie all’unione del motore elettrico con quello
tradizionale, permette, soprattutto nei grandi centri abitati, un consistente risparmio sia in termini economici che di inquinamento ambientale.
Se accanto ai progressi tecnologici si riuscissero poi a sviluppare in maniera
concreta alcune politiche innovative di gestione e di utilizzo dell’automobile,
come il car- sharing o il car-pooling, il traguardo dell’abbattimento delle emissioni inquinanti (almeno quelle prodotte del parco veicolare circolante) e del
decongestionamento del traffico cittadino, sarebbe molto più vicino di quanto si
possa immaginare.
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Il car sharing…
una proposta di mobilità sostenibile
I trasporti sono un servizio fondamentale per la società in
quanto consentono la circolazione di persone e merci,
contribuendo in modo vitale allo sviluppo economico. Come
per ogni altra attività, ai benefici si contrappongono però
dei costi, che possono diventare ingenti e configurarsi
quindi come uno spreco in funzione del livello e del modo
in cui la domanda di mobilità è soddisfatta. Quanto questo
possa essere vero lo dimostra il caso dell’automobile, il cui
impiego massiccio comporta conseguenze negative evidenti
a tutti, soprattutto per chi vive in città: le auto inquinano,
provocano rumore, sono causa di molti incidenti, creano congestione, invadono le strade
per la mancanza di parcheggi adeguati e altro ancora. Meno evidente è che tutte queste
conseguenze, oltre ad essere un fastidio più o meno tollerato, rappresentano un costo, sia
per gli automobilisti, sia per la società. E’ proprio in questa ottica che nasce il Car Sharing, un servizio innovativo di mobilità privata, complementare al trasporto
pubblico locale: “si usa l’auto solo quando serve, si paga solo quando si usa. E’ il car
sharing, ovvero l’auto in condivisione”.
Il mercato automobilistico, infatti, offre ampie possibilità di scelta a chi desidera
acquistare un veicolo, ma concede poche alternative, economiche e funzionali, a
chi ne fa un uso occasionale. Il Car Sharing si rivolge proprio a quest'ultima
categoria di automobilisti: le opportunità di scelta garantite dalla varietà del
parco auto e la possibilità di muoversi senza sostenere i disagi e i costi fissi
legati al possesso dell'automobile stessa, rappresentano infatti una valida
alternativa all'acquisto.
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L´utilizzo del car-sharing cambia anche l´economia della guida attraverso la
conversione del costo fisso in una tariffa a utilizzo e ciò diminuisce gli "sprechi"
dovuti a viaggi individuali e male organizzati. La condivisione dell´auto, in
pratica, rappresenta un incentivo a viaggiare meno e meglio, tagliando gli
utilizzi non necessari. Da non sottovalutare, inoltre, l´aspetto legato ai tragitti
compiuti per recarsi al posto di lavoro, nei quali l´unione del car-sharing al carpooling (l´utilizzo condiviso e a pieno carico dell´autovettura) può amplificare i
benefici di entrambi i sistemi. Sul fronte ambientale pertanto è auspicabile una
diminuzione delle emissioni dovuta al minor numero di macchine circolanti (si è
calcolato che ogni auto collettiva toglie dalla strada 5-10 automobili private),
ma anche per l´utilizzo di veicoli più recenti e migliori sul fronte dell´efficienza,
come quelli ibridi. Da non sottovalutare, inoltre, il minor consumo energetico
dei veicoli circolanti, dovuto alla fluidificazione del traffico urbano che diventa
così meno congestionato.
Un car sharing davvero innovativo: “Car2Go”
Noleggiare un’auto in città per
singolo minuto di utilizzo
all’equivalente del costo di una
telefonata. E noleggiarla con
la libertà assoluta di sedersi al
volante della prima vettura
disponibile e di riconsegnarla
lasciandola parcheggiata in
una qualsiasi area di sosta
pubblica. Sono queste le
caratteristiche salienti del “car2go”, l’innovativo progetto di mobilità urbana
messo a punto da Daimler che prende spunto da una presa di coscienza ormai
condivisa da tutti i paesi industrializzati: nelle grandi città ci sono troppe auto,
non c’è più spazio neanche per parcheggiarle e bisogna trovare urgentemente
soluzioni che salvaguardino la qualità della vita dei cittadini e al contempo le
esigenze di mobilità dei singoli.
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Il Gruppo tedesco ha immaginato così
di rifornire la città di Smart in numero
proporzionale alla popolazione e
all’estensione del centro abitato. Tutte
le vetture sono collegate ad un centro
operativo e geolocalizzabili in tempo
reale. Ed è proprio questo l’aspetto più
innovativo del car2go: rispetto alle
tradizionali formula di carsharing le
auto possono essere parcheggiate ovunque. Chiunque ne vuole utilizzare una e
non la trova fisicamente, non dovrà far altro che contattare un call center che
segnalerà la Smart più vicina. La ricerca può essere condotta anche via
cellulare, collegandosi al portale
internet dedicato che indicherà
attraverso una mappa il percorso più
breve per raggiungere la prima Smart
disponibile.
Al momento dell'iscrizione (gratuita) al
servizio car2go, sulla patente di guida
del cliente, viene applicato un sigillo
elettronico che consente di aprire le
vetture a noleggio. Raggiunta una Smart parcheggiata è sufficiente posizionare
la patente di guida di fronte al lettore installato sul parabrezza, salire a bordo,
digitare il proprio codice personale segreto su un apposito schermo touch
screen ed avviare la vettura con le
chiavi riposte nel cassetto portaoggetti.
Per il noleggio non sono previsti limiti
di tempo. Nelle soste intermedie, ad
esempio per fare acquisti, la vettura
rimane a disposizione dell'utente.
Quando il Cliente decide di restituire la
sua car2go, non deve fare altro che
lasciarla in un qualsiasi parcheggio
dell'area urbana oppure nei parcheggi riservati al servizio car2go, ad esempio
all'esterno delle stazioni ferroviarie e degli aeroporti.
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Nella tariffazione al minuto del noleggio è compreso tutto, anche la benzina. In
caso di necessita si potrà comunque fare il pieno con una carta carburante
sempre presente all’interno
dell’auto e senza alcun costo
aggiuntivo. Ma il principio del
car2go è quello di minimizzare
le perdite di tempo del cliente: se
l’auto parcheggiata ha una
quantità di carburante minima,
la centrale operativa invierà un
addetto che si occuperà del
pieno, del lavaggio e del
ripristino di eventuali danni. In tal senso è importantissima l’interazione
dell’utente che sarà chiamato ogni volta che sale a bordo della Smart ad
esprimere un giudizio sulle condizioni dell’auto.
Per Daimler il car2go potrebbe diventare un vero e proprio business la cui
fattibilità economica, oltre che tecnologica, sarà sperimentata nei prossimi mesi
a Ulm in Germania, una cittadina di 130.000 abitanti dove ha sede il centro di
ricerca universitario del Gruppo di Stoccarda. Una flotta di 50 Smart fortwo
sarà impegnata a partire dal 24 ottobre 2008 e disponibile per i soli dipendenti
del centro. Successivamente il servizio sarà aperto a tutti gli abitanti dell’area
urbana che potranno noleggiare una Smart a 0,19 euro al minuto. Per impieghi
dell’auto prolungati è comunque prevista anche una tariffa giornaliera di circa
50 euro.
Se il progetto si dimostrerà valido nella vita concreta, oltre che sulla carta,
l’intenzione di Daimler è quello di esportarlo progressivamente nelle principali
capitali europee dove i numeri in gioco sono decisamente più importanti. Basti
dire che per una città come Parigi occorrerebbero 5.000 Smart. In caso di
successo sarebbe davvero un bel business, ma anche (e finalmente) una ricetta
vincente per decongestionare le nostre città.
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Bibliografia
Motociclismo d’epoca – Edisport Editoriale S.p.a.
Giugno 2004
Ruote Classiche – Editoriale Domus S.p.a.
Giugno 1988
Novembre 1993
Ottobre 1995
Settembre 1996
Aprile 1999
Ottobre 2001
La Manovella – Editrice Legenda
Volume monografico: dizionario delle marche automobilistiche della Lombardia –
Settembre 2001
Quattroruote – Editoriale Domus S.p.a.
Volumi vari
Archivio storico
Dott. Piero Inglardi
Siti internet visitati
www.microcarmuseum.com
www.infomotori.it
www.omniauto.it
www.motorbox.com
www.wikipedia.it
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L`evoluzione della microcar: da semplice motocicletta con il tetto a